Grice e
Grassi – D’Ovidio a VIco: la metafora inaudita e il concetto di stato in
Machiavelli – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did, on the
metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora
inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored
Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach
rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica
platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of
metaphysical Platonism --. “Apparire ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello
e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger e umano – Mann in Heidegger” (Guida,
Napoli). “La preminenza della metafora” (Mucchi, Modena). “La filosofia
dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi, Napoli). “La follia -- Umanesimo e
retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine -- ivalutazione della
retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf. la lingua inaudita --
Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia” Guida, Napoli Filosofare
noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano
Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e
mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia,
logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di Grassi”; “Platone
nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario Biografico degli Italiani. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della
parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione
metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone
qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica
dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza
qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la
cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento
di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di
quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come
testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza
di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella
volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne
alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale,
dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali
che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno
preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come
filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave
di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e
l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non
avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del
pensiero e della vita. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine
della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?
“L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere
che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la
struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale Accostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non
senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito
la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole
l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate.
Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e
saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi
contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere
rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano
senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla
superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità
dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una
sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi
abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci
appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta
umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta
interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle
diverse tappe del pensiero e della vita dell’autore su cui autorevoli
interpreti si sono diffusamente espressi1. Il coacervo di autori, prospettive e
tematiche, pone in luce i numerosi ambiti toccati dal filosofo:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1 Cfr., R. Messori, Le
forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto
Grassi, Palermo, Centro Internazionale di studi di estetica, 2001; G. Civati,
Un dialogo sull’umanesimo. Hans-Georg Gadamer e Ernesto Grassi, l’Eubage, Aosta
2003; R. J. Kozljanic, Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink, 2003;
W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di
Ernesto Grassi, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXXXIX, 2010,
fasc. I, pp. 148-176; Id., Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und
Nationalsozialismus, München, Alber 2009; J. Sànchez Espillaque, Ernesto Grassi
y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora,
2010; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi,
Vaprio d’Adda, GDS, 2008; Id., La svolta metaforica dell’ontologia
fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, 2009; M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I
primi scritti 1922-1946, La città del Sole, Napoli 2011. ! 4!
mitico/metaforologico, antropologico, filosofico, storia delle idee e storia
della cultura. In questo contesto teorico emerge la centralità del concetto di
Lichtung, il quale consente di comprendere la direzione metaforologica del
pensiero grassiano che nei saggi giovanili si era concentrato maggiormente su
una tematizzazione dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di
evidente sapore heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura
e sulla società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La
nostra attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter grassiano
dall’ontologia alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o
spunti resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni
storico-politiche (magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si
privilegeranno quegli autori e quei temi che più ci appaiono attinenti con
l’argomento grassiano che vogliamo mettere in risalto. Dal nostro punto di
vista la prospettiva grassiana va interpretata come il tentativo di approntare
una nuova filosofia, nell’epoca in cui se ne è decretata la morte, che sia
innanzitutto esperienza del mondo e non solamente conoscenza. O meglio: di
conoscenza pur sempre si tratta, il punto di riferimento è pur sempre la
ragione, ma una ragione non classica: una “ragione fantastica”. La svolta
grassiana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria del concetto a una
teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota espressione blumenberghiana.
Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua problematicità l’eredità di
quel discorso posto a partire dal Settecento in modo sistematico
all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e sentimento che agita
le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica kantiana fino alla
tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta quella di
riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a
un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della
razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura
si intersecano. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 2 Sulla
svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di Grassi cfr., S. Limongelli, La
svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit. ! 5! In questo
orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di demitizzazione: una
delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della ratio e dell’atto
dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma tale operazione
decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben nota metafora
nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi
della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e civilizzazione si
sono definitivamente separate, con la conseguenza di una dilagante
inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in Grassi una rassegnazione
al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico della dissoluzione
delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro inizio del
pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle immagini.
Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3, esemplarmente
condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve, raccontato
agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e ricordato da
Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della
questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio
dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica dalla
riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a
ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta
definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa
definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa,
del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora
riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che
l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto
l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che
essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5.
L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al
senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni
qualitative proprie. Husserl ha parlato non
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 3 Grassi usa il termine
immagine nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E.
Grassi, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989,
p. 17. 4 Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17. ! 6! a caso di sintesi
passiva come genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo
tentativo di ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e
stratificati, senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La
concettualizzazione messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia,
dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del
mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali
e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza
spesso è offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali
del passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta
di uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in
un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola
che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la
trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica,
configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse
trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un
sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una
piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla
realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella
partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza
dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e
teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua
prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro
l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei
suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci
governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà
ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si
limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si
rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà
del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il
senso segreto che in esso ci parla”6.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 6 S. Limongelli, La
svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7! A
una pars destruens, a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si
accompagna anche una pars construens, che si concretizza nell’ipotesi
metodologica ed epistemologica del sapere arcaico – che coinvolge tutta la
riflessione riguardo il mito, il pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium
e la phantasia. L’apogeo della critica alla deriva razionalistica del pensiero
si colloca nell’individuazione della intima correlazione delle nozioni
aristoteliche di pistis e di episteme. Il filosofo afferma in Significare
Arcaico che “la pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile, perché
fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario e, come tale,
solo il mondo della fede è fecondo”7. Per pistis Grassi intende non un’opinione
o una forma di persuasione ma “il modo di realizzarsi in noi dell’originario
che comanda”8. La pistis diviene il fondamento della retorica originaria che ha
carattere ingegnoso e arcaico. Il collegamento istituito tra nous/ingenium e
archè mette in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza,
l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi
colti attraverso la passione. Secondo Grassi “ogni discorso dimostrativo
razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale
scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della
facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo
umano”9. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della
filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione
deduttiva e storica. Il fondamento del reale, del mondo storico e del mondo
umano, è quell’abissale fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia
heideggeriana, il pensatore individua sia in Il dramma della metafora, quando
la riflessione si concentra sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als
Leidenschaft. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del
pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia
lo spessore speculativo della proposta di Grassi che resta
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 7 E. Grassi, Significare
arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma, 1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi,
p. 491. ! 8! filosofica proprio nell’insistenza della ricerca sul
perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile
attraverso segni, indicazioni. La sua prospettiva, che abbiamo scelto di
definire onto-antropo-logica, può essere annoverata all’interno del più ampio
dibattito che anima la filosofia del ‘900: quello che vede incrociarsi i temi
dell’antropologia filosofica con quelli della riflessione sulla retorica. Sullo
sfondo agisce il paradigma dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il
filosofo, sensibile alla riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi
a lui coevi, è convinto che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è
caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua
dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a
cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso
degli animali, ad un ambiente preciso; da qui il suo disorientamento e
condizione di estraneità. Per il pensatore “la differenza essenziale tra vita
animale e umana sta nella razionalità di quest’ultima che (contrariamente a
quanto siamo soliti credere) in un primo tempo non segnala una superiorità,
bensì una certa inferiorità dell’uomo di fronte all’animale”10. Tale
inferiorità – il paradigma della carenza – appare in tutta la sua evidenza se
si tiene in considerazione che nell’animale la “regia dei sensi”11 restituisce
il significato immediato dei fenomeni. Il disancoraggio umano da un ambiente
dai contorni definiti e fissi rende l’umo compito a se medesimo, lo sottopone
ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria
in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. Nascono la
techne, che “ordina i fenomeni in funzione a fini da realizzare”12, e
l’episteme, che “delimita i fenomeni in funzione a principi, a ragioni”13. La
prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon, come compensazione alla struttura
morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo
culturale, come umanizzazione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 10 Ivi, p. 489. 11
Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem. ! 9! dell’ambiente che solo così
diviene mondo. In tale processo antropogenetico per Grassi la retorica occupa
un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di
quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa avrà un
doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano
e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria
che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel
meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana.
All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei
segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana
dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo
“dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto
dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente
umano (ergon anthropinon)”14. La questione linguistica si intreccia con quella
antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia
primordiale della Lichtung, la semiosfera da cui si dipartono mondi possibili
dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella sua ricchezza
tematica si staglia la questione della rivalutazione dell’umanesimo, connessa
alla tematizzazione della co-originarietà di logos e pathos (dove il
trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a fondare la stessa
vita cogitativa), e alla critica del moderno. L’interpretazione grassiana
dell’Umanesimo è lontana dai presupposti teorici e metodologici a lui coevi che
privilegiavano il contributo ficiniano nel superamento del pensiero
immaginifico e retorico: lo scopo di Grassi è quello di mostrare come
l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con l’attività
razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia e della
parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e Gentile ad essere messa in
discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di spostare
i termini della questione sul versante ontologico-
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 14 Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli 1997, p. 194. 15
Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli
1988, pp. 17-36. ! 10! ermeneutico che si concreta nella
retrodatazione dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro
la tesi che individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la
questione della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione
linguistica. A partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano
nei confronti dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata
o piuttosto come Weltanschauung inautentica, Grassi porta avanti la direzione
della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla
pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca,
Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini
della paideia che ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una
vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello
svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata
verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello sistematico, verso la
ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori
prediletti da Grassi mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed aprioristici
e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione dei miti e la
politica. La dimensione retorica va considerata secondo il filosofo non come
elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento edonistico del
discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge
al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che
tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo
con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che
altro non è che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 16 Cfr.,
A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, pp. 385-404, in
AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, La Città del Sole, Napoli 1996, p.
387. 17 Ivi, p. 390. ! 11! “nascimento in certi tempi e in certe
guise” (Scienza Nuova, Degnità XIV), Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di
chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo
il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e
Vico che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia
autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discoro che vuole
scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa
impostazione l’agire delle categorie interpretative del maestro degli “anni
mitici”, Heidegger, il quale sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata
mannaia della distruzione ontologica, valutando l’operazione metodica di
separazione tra io e mondo18, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se
si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione
della frattura come è possibile leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21.
Secondo Heidegger, a partire da Cartesio19avviene nella metafisica un importante
passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della
domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la
comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio ,
nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica
come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della
metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum20,
infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova
posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa subiectum22, il fondamento e la
misura di ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 18
Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M.
Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione
heideggeriana del pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations
cartèsiennes de Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p.
103-115. 20 È fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel
Discorso sul metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p.
72). Tale espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante
l’ergo non ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di
una certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza
incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più
importante della filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia,
parte I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G.
Mori, Cartesio, Carocci, Roma 2010, pp. 116-122. 21M. Heidegger, Il nichilismo
europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 22 Ivi, p. 168. ! 12! certezza e
verità. “La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si
trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della
via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23.
Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione
heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio
cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il
pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna
Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie
dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24.
Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul
piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e
temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic
et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica
e topica, è posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente
articolato nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum
del 1709 del quale Grassi ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le
tappe della critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di
partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità
seconde; esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la
catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità
seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a
ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il
metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera
retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana,
ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il
cartesianesimo si presenti come un problema storiografico e filosofico
complesso26 si può senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana alla
critica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 23 Ivi, p. 169.
24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano 1996, p. 25. 25 Ivi. 26 Cfr.
N. Badaloni, Introduzione a G. B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961. !
13! cartesiana nel contesto della rivendicazione della priorità della
topica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la
valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta
a quella critica”27. Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario
ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un
ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte “topica che si chiarisce così
come una dottrina dell’invenzione”29 di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno
parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è
riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono
i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali
discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è ancora una volta quella
di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto delle
innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua
ricchezza. La ricerca del vero particolare, circostanziale, storicamente
determinato ci spinge a concordare con Bons riguardo alla centralità dell’idea
di agire situativo31, sullo sfondo del quale si comprende la proposta retorica
grassiana. Si tratta di un agire situativo che alla formula cogito ergo sum
sostituisce la formula coactus sum ergo ago32: non “penso, dunque sono”, ma
“sono costretto, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 27 G.
B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi,
Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa 2010, cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di
Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo, Ratio e inventio nell’interpretazione
dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi,
cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi: Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405- 423;
ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e
l’umanesimo inquieto di E. Grassi, cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione
dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di Grassi, pp. 437-446; ivi, L.
Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La
ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr.,
sull’incidenza dell’interpretazione grassiana di Vico nel panorama degli studi
vichiani contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia.
Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n.
2, 2011, pp.1-15, http://riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla,
Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y
Ortega, soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger,
Grassi y el problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. Grassi, Vico e
l’umanesimo, cit., p. 34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il
pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV., Studi in
memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di Ernesto
Grassi. Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto
Grassi, cit., p. 188. ! 14! quindi agisco”. Proprio la
ricchezza del reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace
di apprendere maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno
della catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper
ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle
quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si
comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono
la base del discorso retorico e filosofico33. La metafora è il luogo, lo
spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello.
Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la
parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34.
Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di
singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò
a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione
antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce
come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”35
in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un
fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola,
ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica
riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo,
sia esso ispirato dalla “metafisica immanente” di Heidegger, sia, infine,
caratterizzato dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non
metafisico – è tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e
compiersi e non verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente
ad una filosofia attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una
dimensione esclusivamente ontologica, Grassi si misura con una continua
operazione di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 33 E.
Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora inaudita,
Aesthetica, Palermo 1990, p. 62. Sul tema della metafora in Grassi cfr., D. Di
Cesare, Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger, pp. 25-48,
in AA. VV., Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, Aesthetica, Palermo 1996. 35
W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la
sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi,
cit., p. 113. ! 15! storicizzazione delle strutture del mondo
storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il
filosofo riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di
Grassi mette al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza
temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un
soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il
pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che
scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad
intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale
umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il
reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione
ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo
dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37
– fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli
sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima
co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che:
“l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in
seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e
tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto
dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di
schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale.
Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se
stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38.
L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la
trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di
formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della
formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla
luce dell’origine del nostro divenire;
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 36 E. Grassi, I primi
scritti, cit., pp. 995-1029, soprattutto pp. 1022-1024, e Id., Prefazione a Der
tod des Sokrates di Guardini, ivi, pp. 985-989, soprattutto p. 986 37 Id.,
Retorica come filosofia, cit., p. 192. 38 Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. ! 16! diventa una
ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi fondamentali
(archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi grassiana mira a proporre
un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è obiettivo
dichiarato della sua proposta neo-umanistica. Grassi sostiene che “il fine
degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo,
dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si
concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità
delle fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo
occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità
differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte
quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo
sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il
sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo
liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può
realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche
l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42.
L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui
riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni
giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo circostante
caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo fondamento
nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove
connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche,
artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi grassiani muovono dal rifiuto
di assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere
ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di
mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che
potremmo definire !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 39
ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp.
975-983, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.! 42 Ibidem. !
17! fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda gli
scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza dell’immagine,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia
dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della
metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale della fantasia
che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza
storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo
questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi
(Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante,
Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner,
Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner,
Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (Cicerone,
Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene quello
slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della sua
filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come una
fenomenologia metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che
ha prodotto la storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso
azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e
al processo del metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione
concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una
staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria grassiana pone in
luce l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera
il mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due
livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione
della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite
pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si
sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale
si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono
nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria
mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel
corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la
sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana
e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della
Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens
sylva, che dice del fondamento il suo ! 18! essere al contempo puro
apparire e progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi
dell’abissale potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos
lontano dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte
poetico, che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso
all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di
ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre
l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un
pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della
ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si
costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e
distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul
luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della
realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere,
come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza
dell’originario. Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della
praxis”43, e non un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella
“serietà del pensare filosofico”44. “La metafora con il suo carattere
immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che
corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con
il caso particolare”45. Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel
silenzio tragico dell’aperto, quello spazio abitabile dall’uomo.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 43 E. Grassi, La
metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di
italianistica”, Vol. IX, N. 1, 1988, p. 19. 44 Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 178. 45 Ibidem. ! 19!
CAPITOLO I ERNESTO GRASSI: UN BRILLANTE INTERVISTATORE A CACCIA DI FILOSOFI? I.
I. Grassi nel giudizio dei filosofi È il 14 gennaio del 1928 e Karl Jaspers in
una lettera indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, il
dottor Grassi di Milano, desidera parlarle di persona. Studia filosofia
tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una conoscenza sorprendente –
naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle interferenze della
tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente approssimazione. Credo
che il suo vivace interesse le farà piacere”46. Il 10 febbraio Heidegger
risponde: “Il dottor Grassi mi ha fatto in un primo momento una grande
impressione per via della sua intensità e di una particolare sensibilità. Ma mi
è poi venuto il dubbio che si tratti di una natura giornalistica”47. Anche
Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto poco benevolo definendo
Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un filosofo. Oltre questi
giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli di Guido Calogero, il
quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il problema della metafisica
platonica del 1932, pubblicato dall’editore Laterza grazie all’interessamento
di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe fatto meglio a
scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece che scrivere
un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger48. Croce scrisse: “insegnante
in Germania, il Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre a
concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema non
ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma
solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a
italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo”49.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 46 M. Heidegger-K.
Jaspers, Lettere 1920-1963, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina 2009, p.
73. 47 Ivi, pp. 73-74. 48 G. Calogero, Recensione a E. Grassi, Il problema
della metafisica platonica, Bari, 1992, in “Giornale critico della filosofia
italiana”, 1932, 4, XIII, pp. 304-308, p. 308. 49 B. Croce, Pagine sparse, Vol.
III, Laterza, Bari 1960, p. 406. ! 20! E così De Ruggiero,
Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il filosofo milanese
ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia degli intellettuali
più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee non furono troppo
favorevoli: Grassi appare un brillante intervistatore a caccia di filosofi, la
cui opera è da considerare al massimo come “prova cattiva di un ingegno
ottimo”. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in queste
affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve ripercorrimento
dell’itinerario speculativo di Grassi almeno fino alla metà degli anni ’40
consentirà di comprendere la plausibilità o meno dei giudizi critici ora
ricordati. I.! II. Le tappe della formazione di Grassi Scrive Grassi in La
filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale: “nell’anno 1928 – dopo aver
brevemente assistito ai corsi di M. Scheler e di K. Jaspers – andai a Marburgo
da Heidegger che si dichiarò disposto a seguire il mio lavoro di libera docenza
[...] i luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che teneva il suo
ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che aveva assunto la cattedra
di filosofia)”51. È il 1986 e Grassi, ripercorrendo le tappe salienti della
propria autobiografia intellettuale, pensa a quegli anni friburghesi definiti
mitici. Si tratta, infatti, degli anni mitici e indimenticabili delle lezioni
di colui al quale Grassi guarda sempre – nonostante le prese di distanza di
natura politica – come ad un autentico maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo
del giovane Grassi era stato preceduto da un lungo periplo intellettuale,
oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti, come Cacciatore a
definire quella di Grassi “filosofia del viaggio”52.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 50 Cfr., G. De Ruggiero,
G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari 1932,
in “La Critica”, 1932, 5, XXX, pp. 375-376. Ottaviano C., Recensione a E. Grassi,
Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Sophia», Napoli 1938, III, pp.
397-399. Vanni-Rovighi S., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos,
München 1939, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano 1940, 4, XXXII,
pp. 309-314. 51 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale,
cit., p. 20. 52 Sul tema del viaggio e del resoconto di viaggio in Grassi come
fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo cfr., G. Cacciatore,
América latina y pensamiento europeo en la “filosofìa del viaje”de Ernesto
Grassi, pp. 79- 91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofia
hispanoamericana, ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa
entonces un error garrafal esperarse del libro de Grassi [...] elementos meramente
descriptivos o ! 21! Grassi, nativo di Milano (1902-1991), dopo
aver conseguito la laurea in filosofia con Piero Martinetti il 30 giugno del
1925, discutendo una tesi dal titolo L’unità formale della vita e
l’impostazione del problema teologico, trae orientamento decisivo nel suo iter
filosofico dall’incontro con il padre francescano Emilio Chiocchetti, uno dei
primi maestri della neoscolastica milanese aperto al confronto con i temi della
modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di Benedetto Croce del
1915, frutto di studi compiuti tra il 1912 e il 1914, Chiocchetti porta avanti
ricerche sui temi del modernismo, del pragmatismo e della gnoseologia e su
autori come Gentile e Vico che affascinano molto il giovane Grassi, i cui primi
lavori apparsi tra il 1922 e il 1925 sulla rivista Rassegna Nazionale, di
stampo nazionalista, conservatore e cattolico53, mostrano idee ispirate al
pensiero del “carissimo ed onorato padre Chiocchetti”54 e a valori liberali e
cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un
cinquantenario, del 1922, dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un
resoconto di un viaggio “alla ricerca di idee che affratellino la gioventù
tedesca e italiana”55; I giovani e il partito popolare italiano.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! momentos narrativos de
situaciones, paisajes, modelos de vida, costumbres, mentalidades [...] hay que
leer las pàginas grassianas ante todo como una experiencia personal que
enterpreta el viaje (y la secuencia de sus movimientos: la preparaciòn, la
espera, el acercamiento, el estar y el retornar) como un sìmbolo, como una
metàfora del pensamiento occidental en busca de sus orìgines. Y se trata de una
bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente, con la adeguadeza de la
reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn, precisamente en la situaciòn
lìmite de una experienza espacio-temporal distinta, de una apropriaciòn
continua de imàgenes inèditas de naturalezas diversas, de olores que nunca se han
sentido, de sensaciones visuales y tàctiles que nunca han sido experimentadas”,
p. 81. Mi permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne
Anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika de Ernesto Grassi, pp. 323-336,
in A. Scocozza-G. D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli: filosofìa,
historia, polìtica y cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead.,
Meditazioni sudamericane: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di
Ernesto Grassi in cds in “Studi Interculturali”, Trieste, 1, 2017. 53 Proposito
della rivista era quello di collocarsi a metà strada tra i contributi dedicati
unicamente ai settori storici e scientifici e quelli di carattere
politico-religioso: “Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le
convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a
conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche
dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente
devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la
religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i
diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di
rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si
offendono o prima o poi anche i diritti della civile società”, La rassegna
nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E. Grassi, L’impatto con Heidegger, p. 75
in M. M. Olivetti (a cura di), La recezione italiana di Heidegger, pp. 73-82,
Cedam Padova 1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, XLIV, novembre
1922, seconda serie, vol. XXXIX, pp. 100-109 ora contenuta in E. Grassi, I
Primi scritti, cit., p. 18. ! 22! I successivi lavori grassiani, a
partire da Il tragico del 1923 – che espone in nuce nodi concettuali che il
filosofo avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora
inaudita e Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia
dello stesso anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato
del 1924, mostrano uno slittamento da una concezione negativa del principio di
immanenza ad una considerazione molto positiva del contesto politico, quale
nuovo luogo di emancipazione umana dopo la crisi del primato della
trascendenza. Soprattutto dopo la stesura del saggio su Machiavelli possiamo
riscontrare una “prima svolta” grassiana dovuta con molta probabilità ad
un’analisi dettagliata del pensiero di Croce, Gentile e degli umanisti, primo
fra tutti Dante. Ci sembra convincente l’ipotesi di Messori56 secondo la quale
a partire da questo momento, ossia dal saggio del 1924, l’Umanesimo diviene il
terreno privilegiato della riflessione grassiana, la quale, grazie al pensiero
politico di Machiavelli, riscopre un altro inizio del pensiero moderno, un altro
ingresso alla filosofia, non gnoseologico e teologico, ma unicamente
antropologico. Si tratta di un risultato di grande importanza poiché tra gli
anni Trenta e Quaranta il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi
concettuale – il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori
dell’esperienza umana nella sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo
– che ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella successiva
produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica del 1970, a
Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale del 1979, a
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica del 1980, fino ai testi degli
anni Ottanta, Heidegger e il problema dell’umanesimo (1983), Umanesimo e retorica.
Il problema della follia (1986), La filosofia dell’Umanesimo: un problema
epocale (1986), Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi pubblicati
singolarmente dal 1969 al 1990. Almeno in questa fase, tuttavia, occorre
sottolineare che la considerazione dell’antropologica umanistica si pone ancora
fortemente come una visione antropocentrica, mentre solo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 56 R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23! successivamente all’incontro
con Heidegger e alla scelta del concetto di Lichtung quale filo conduttore del
nuovo approccio all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico,
tale visione sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere.
In questo periodo Grassi collabora anche con l’informatore bibliografico del
Circolo Filologico milanese, la Rassegna di coltura, fondato nel 1872 e sul
quale pubblica tra il 1925 e il 1927 una serie di contributi dai quali traspare
uno studio di Croce e dell’attualismo gentiliano. Conseguita la laurea nel
1925, incomincia per il pensatore l’ambiziosa avventura europea57, in Francia e
in Germania, alla ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In seguito al
soggiorno a Aix en Provence, durante il quale conosce Blondel58, scrive La più
recente attività della filosofia dell’azione in Francia del 1928, in cui la
filosofia dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non
nega i valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità
della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo
cristiano di M. Blondel del 1932, il cui merito sarebbe stato quello di
liberare la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo
saggio che si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si
sarebbe coniugato con la questione filosofica heideggeriana59 e che spinge
Grassi ad approfondire la cultura filosofica tedesca.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 57 Ad un peccato di
ambizione si deve, con buona dose di probabilità, l’adesione di Grassi al
partito fascista il 3 maggio del 1933. Secondo la documentata ricostruzione di
Büttemeyer, l’iscrizione al fascio fu fatta per ottenere la tessera senza la
quale non era possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr., Büttemeyer,
Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, cit. 58
Sui rapporti Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di
Ernesto Grassi tra Platone e Blondel, pp. 275-295, in P. Pagani- S- D’Agostino-
P. Bettineschi (a cura di), La metafisica in Italia tra le due guerre, Istituto
della Enciclopedia italiana, Roma 2012. 59 Cfr., W. Büttmeyer, Rettifiche.
Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di Ernesto Grassi, cit., p. 159:
“La prima formazione filosofica di Ernesto Grassi è dovuta a Emilio
Chiocchetti, la cui concezione di una neoscolastica moderata si mostra negli
scritti dell’allievo dal 1922 fin verso il 1925. Mediata da Chiocchetti, vi si
aggiunge la conoscenza dell’estetica di Benedetto Croce (1923) e della sua
gnoseologia (1925) nonché del modello dialettico della storia della filosofia
che si concretizza nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento
(1923-1924). Grassi mostra momentaneamente simpatie per Miguel de Unamuno
(1924-1925), per il concetto martinettiano dell’Unità assoluta (1924-1925) e
per la filosofia di Bernardino Varisco (1925-1926), che gli era stato anche
maestro con i suoi lavori; ma essi non esercitano se non un’influenza
marginale. Rimane invece escluso l’attualismo e immanentismo di Giovanni
Gentile: pur avendolo conosciuto nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere,
lo recepisce positivamente soltanto a partire dal 1926, dopo aver già
presentato una ventina di pubblicazioni”. ! 24! Dopo aver
affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via
al filosofare Grassi approda finalmente nella terra materna e lì, nella
riflessione heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung
più ampia rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente
neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di
filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea del
1929; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia
tedesca contemporanea dello stesso anno, in cui Grassi rimprovera a Husserl la
mancanza di una solida base storico-filosofica, in particolare una superficiale
interpretazione dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della
filosofia italiana, da Spaventa a Gentile, pur riconoscendo alla fenomenologia
il merito di aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista
e naturalista e storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana si
era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente
concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica,
naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali.
D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di
Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale
crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo
di Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico –
psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale
che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica:
l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del
pensiero pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per Grassi gli
aspetti negativi sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per
lo spazio di vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e
dell’esistenza che solo Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo
“realizzando per primo in Germania la critica della fenomenologia di
Husserl”61. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 60 E.
Grassi, Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia
tedesca contemporanea, in “Rivista di filosofia”, Milano XX, aprile-giugno
1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi,
p. 187. ! 25! In questo periodo Grassi opera quella collocazione
della proposta filosofica heideggeriana all’interno della propria formazione
intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro tra la teoria
gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo storico del
disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di
destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal cogito
cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger
diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di
Grassi che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia
di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato
quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto
immanente, metafisico e autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la
concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e
astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto
appaiono tra il 1932 e il 1935 i saggi Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in
Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della
proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano
del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e
umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso
l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della latinità,
per Grassi. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana circa il tema
del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra l’ontologia
fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile. In
Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca
contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono
espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto il
suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 62 Id., Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger, in “Giornale critico della
filosofia italiana”, Milano- Roma, XI, luglio-agosto 1930, fasc. IV, pp.
288-314, ora in Id., Primi scritti, cit., p. 209. ! 26!
contraddizione, fondamento di ogni dimostrazione ma a sua volta non
dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio; concetto di apparenza,
manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come abbiamo ricordato
all’inizio, la prima formazione di Grassi fu di carattere neoscolastico, con
un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la trascendenza, come
emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il filosofo milanese afferma
che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta dalla propria immanenza verso
la necessità della trascendenza che appunto perciò non può conoscere,
realizzare, creare, ma solo ricevere come una “grazia” proprio nel senso
teologico della parola”63. Un’impostazione di questo tipo spiega anche una
originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della sua scoperta
fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a porsi come
un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa della
trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da Grassi come
insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che diviene
quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello stesso
attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra essere e ente,
nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare nel suo stesso
compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non come oggetto del
pensiero. Secondo l’interpretazione di Grassi il superamento gentiliano della
dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione dell’esperienza
approda allo stesso risultato husserliano e
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 63 Id., La dialettica
dell’amore. Il dolore di Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre
1924, seconda serie, vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148,
parte II, La sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925,
seconda serie, vol. XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109,
parte IV, La gioia può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi
scritti, cit., p. 122. 64 Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura,
inobiettivabile, è proprio caratteristico della realtà infinita eterna, in
qualsiasi concezione immanente o trascendente del reale, ed è quindi naturale
che il processo di immanenza del pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre
la realtà del divenire umano. Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura
forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori
dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero
attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo
esso stesso l’unico illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più
grande scoperta di tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di
Giovanni Gentile. In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a
tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi,
che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da
controbattere”. Per una ricostruzione della presenza di Gentile in Grassi cfr.
R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. ! 27! heideggeriano:
quello dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione
che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65:
l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo
spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di
indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla
nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di Grassi aver sottolineato.
Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di
pensiero di Grassi in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la
fase giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica
emergenti nei saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui
abbiamo la correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo
blondeliano della filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e
dell’autonomia delle forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale
heideggeriana67; la fase matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 65 Sottolinea molto bene
questo aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati
Boringhiei, Torino, 1989, pp. 27-28: “Gentile attraverso la radicalizzazione
dell’immanenza supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e
oggetto e attinge a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie
viene guadagnato dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre
l’orizzonte della fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto
fenomenologico, se da un lato supera l’astratta separazione tra soggetto e
oggetto, dall’altro lato ne tiene tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo
della fenomenologia è quello è quello di svuotare l’io dal mondo perché il
mondo appaia nella sua purezza, di svincolare la coscienza dal flusso della
vita per far sì che i contenuti d’esperienza appaiano nella loro pura e
semplice datità. Questo vuol dire andare alle cose. Non così in Gentile. Alle
cose non si va, con esse si è da sempre compromessi. L’attualismo che pure
rigorosamente guadagna il piano dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che
essa non è suscettibile di nessuna epochè”. 66 Cfr., E. Grassi, A proposito di
un cinquantenario, pp. 3-8, in Id., I primi scritti, cit.; Id., Germania, ivi,
pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp. 27-48; Scolastica e storia, ivi, pp. 49-54; La
dialettica dell’amore, ivi, pp. 89-128; Tilgher e La visione greca della vita,
ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il pensiero di Machiavelli e l’origine del
concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La più recente attività della filosofia
dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162; Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163- 179; Sviluppo e significato
della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp.
181-202; Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp.
203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp. 235-254; Dell’apparire
e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia tedesca contemporanea,
ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp. 371-406; Il problema del nulla
nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp. 419-435; La filosofia tedesca e la
tradizione speculativa italiana, ivi, pp. 553-575; I rapporti tra filosofia
tedesca e filosofia italiana, cit., pp. 753-776; Pensieri sul poetico e sul
politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana,
ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero moderno. Della passione e
dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850; Teoria della politica nella
tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il reale come passione e
l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom Vorrang des Logos. Das
Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und
deutscher Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Id., Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, ivi, pp. 255-271; Paideia e
neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369; Filosofia tedesca, filosofia italiana e
l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, ivi, pp. 851-864; Sul
problema ! 28! ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina
la metafisica immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del
logos, del pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici
dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della
retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso
speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la
“passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della filosofia diviene
una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa, dell’esistenza in
situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale, impegno nella
circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per acquisito, dunque,
che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione di Grassi
un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che incide
profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario e della
manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico
paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una collezione di
posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda
filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio
sembravano voler asserire.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! della parola e della
vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, ivi, pp.
901-915; Il problema del sublime, ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come
essenza della tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del
verosimile in Vico, ivi, pp. 951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo
capitolo, per l’impostazione del problema neo-umanistico risultano fondamentali
le osservazioni espresse da Grassi nel saggio su Machiavelli del 1924. 70 R.
Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo e fenomenologia: “le
due filosofie si intersecano su almeno tre punti essenziali [...] rifiutano di
attribuire l’originarietà all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in
secondo luogo entrambi avvertono la necessità di identificare l’originario con
un processo che, divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che
lo si intenda in senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il
superamento della logica tradizionale e quindi del principio di identità e di
quello correlato di non contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire.
Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit., p. 34.
71 Si sofferma su questo “merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a
I Primi scritti: “così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra
inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività
kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la
trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto
alla nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che
piega il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo
svelamento dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico
di Grassi dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e
la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri
termini si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice
sommatoria di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico
paradigmatico”, M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I Primi scritti, cit., p.
44. ! 29! Si impone all’attenzione teorica di Grassi la tematica
della multiformità del reale (metamorphein) e della sua costitutiva
polidimensionalità che affannosamente il filosofo cerca per tutta la vita di
interrogare al di fuori dei parametri tradizionali. La questione “urgente”
diventa quella di cogliere l’essere nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo
arcaico, iniziale e, pertanto, mitico, del puro apparire attraverso un logos
adatto (la metafora). Da un lato il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro
la manifestatività dell’essere heideggeriana, consentono a Grassi di guardare
all’idea di fondamento come a quell’originario indeducibile razionalmente che
può essere patito e vissuto nell’esperienza della parola più autenticamente che
in quella del pensiero tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario
non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di
un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un
manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e proprio per questa identità di
manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile radicare la
trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un oltre, ciò che
non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo “il processo deve
quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante notare che la
nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione
tra manifestazione ed essere”74. Il punto di partenza è quell’indeducibile
originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e polimorfismo della
realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un divenire storico che
continuamente si distingue,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 72 Occorre sottolineare
che il pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una impostazione
soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come puro
evenire, spazio di esperienza, cfr., sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90:
“l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il
Dasein, tra la determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come
esperienza del puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce
per non occupare né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno
spazio di indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei
termini della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi,
dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di
una semplice presenza”. 73 E. Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di
filosofia”, Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora
in Id., I Primi scritti, cit., p. 376. 74 Ibidem. ! 30! si
differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità nell’esperire
patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo di tale
posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre ripensare il
logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà monolitica e
cosale? Come superare una concezione oggettivistica e soggettivistica? Si
tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente dense di Il problema
del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in cui Grassi si chiede:
“Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione può
solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di sé – giacchè ogni
apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve essere
inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini
con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia
effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione,
oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il
quale urtiamo definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia
heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una
mossa teorica insostenibile76, è per Grassi la condizione di possibilità per
sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio
a Gentile e a Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una
visione del logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità
antitetica al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la
stessa dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da
alcuni interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero
grassiano, ma che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio
della visione complessa e ampia che Grassi ha del reale – offre a Grassi
l’opportunità di delineare un percorso teoretico che guarda al reale,
all’essere e alla manifestatività senza la mediazione gnoseologistica ed
oggettivistica, bensì tramite una pre- !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
75 Ivi, pp. 376-377. 76 Nella Recensione all’articolo di Grassi Il problema del
logo afferma Ottaviano: “dirò subito che la tesi, che cerca di fondare una
interpretazione idealistica del pensiero sostanzialmente realistico di heidegger,
è, in linea assoluta, per mio conto insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a
E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M.
Marassi in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV, Un filosofo
europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7-24. ! 31! intelligenza
pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione dell’affettività, del
patico e della Stimmung. Emerge così un programma filosofico ambizioso che
giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e della cultura
umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e latina in senso
lato. Grassi si chiede: “in che senso possiamo affermare che il logo come atto,
come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai quali ci
troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e in che
relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto un nuovo
punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza dell’essere.
Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione oggettivistica nel
suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e approfondita
determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78. Tale precisa
e più approfondita determinazione dei molteplici significati del logos avviene
nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia d’Europa e per le
vicende personali dello stesso Grassi che, come abbiamo detto sopra, si iscrive
il 3 maggio 1933 al partito fascista79 più per motivi di “opportunismo”
accademico che per convinzione, e in un clima di generale espansione europea
delle ideologie fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici professori in quegli
anni rifiutarono di prestare giuramento e che l’esplicito e dichiarato
antifascismo di Croce restava isolato e chiuso nelle mura di palazzo
Filomarino, mentre Gentile raccoglieva intorno a sé il meglio della cultura
storica e filosofica delle nuove generazioni80. In tale contesto bisogna
inquadrare il compito teoretico e culturale che Grassi dava alla sua ricerca di
una rivalutazione della filosofia italiana. Così ritroviamo Grassi a Berlino,
dove dal 1 aprile del 1938 assume il ruolo di professore incaricato di
“filosofia italiana nei suoi rapporti con la filosofia tedesca”. Nei saggi
scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e italiana del
1939 fino a Del Vero e del verosimile in Vico
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 78 E. Grassi, Il
Problema del logo, cit., p. 387. 79 Cfr. la dettagliata ricostruzione di
Büttmeyer in op., cit. 80 Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura
cfr., G. Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso
della storia italiana, pp. 477-492, in A. d’Orsi-F. Chiarotto (a cura di),
Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria, Aragno, Torino
2010. ! 32! del 1943, passando per i contributi sul poetico e sul
politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento, sale in
superficie la questione della parola, indagata, secondo Grassi, dagli umanisti
non con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico,
bensì con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo
storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto
una vita activa, in cui i valori del passato greco, che gli umanisti
sostenevano di aver scoperto contro le interpretazioni medievali, potevano
contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha
sottolineato Cesare Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera grassiana Heidegger
e il problema dell’umanesimo: “Grassi considera vero problema centrale
dell’umanesimo italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori
immanenti, quanto piuttosto l’illuminazione del contesto originario,
dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] dalle
analisi del Grassi, svolte in un ampio arco, da Dante al Boccaccio e al
Salutati, dal Bruni al Vico, emerge un tema costante: la poesia come fondazione
della comunità umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e –
soprattutto in Vico – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua
inquietante presenza storica”81. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce
dell’esperienza linguistica che caratterizza il mondo umano e della
individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che Grassi
rielabora sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di
Lichtung: si tratta di un neoumanesimo onto- antropo-logico, che, come sarà
esplicitato in seguito, non è un approccio antropologico antropocentrato,
poiché la relazione primaria èquella di uomo e mondo, Dasein e Sein. Lo
slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un piano
gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico- ontologico spinge Grassi ad un
più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna
dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che “ogni umanismo rimane
metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si
pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce
persino che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza
metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende”82.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 81 C. Vasoli,
Introduzione a E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida
1985, pp. 10-11. 82 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Id., Segnavia, a
cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 275. ! 33! Tale critica
in Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai
avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero
che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e
alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in
considerazione il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana Grassi ha dato una
caratterizzazione per così dire non umanistica (in senso heideggeriano)
dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con il pensiero di
Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno
decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese
l’umanesimo resta schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima
propria ma interpretato solo in riferimento ad altre epoche. Grassi si chiede
se sia plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già
accaduto per Cassirer, Kristeller, Spaventa, Hegel e altri, di un errore di
prospettiva83. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore
negli anni Quaranta, Grassi impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante
testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della
collaborazione con W. F. Otto e K. Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno.
Della passione e dell’esperienza dell’originario del 1940, Grassi porta avanti
una vigorosa critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella
passione a partire dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della
filosofia. Un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una
visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera
opera anche pateticamente e quindi retoricamente”84. A fondamento del pensiero
c’è una necessità esistenziale che non può che rivelarsi e apparire attraverso
l’esperienza della parola poetica e metaforica: unicamente quest’ultima può
rendere conto del polimorfismo ontologico, che non è un fatto85, ma un continuo
divenire, all’appello del quale
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 83 E. Grassi, La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo
capitolo, Il problema della parola poetica, pp. 31-36. 84 Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 85 “L’essenza
della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza
empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come
fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi [...] il dato originario,
come immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo, cioè ciò che
non è ancora diventato, fatto, e in quanto già ! 34! l’uomo è
chiamato a rispondere in modo plurale e non univoco. Grassi afferma che “poiché
il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento
razionale si attuano attraverso [...] una metafora. Allora la metafora, che
ricorre per lo più alle immagini” non va considerata un mezzo solo letterario
ma “è indispensabile per esprimere l’Originario?”86. Oltre alla collaborazione
all’annuario, occorre segnalare anche la progettazione dell’Istituto Studia
Humanitatis in cui la partecipazione degli esponenti della cultura italiana e
tedesca è inquadrata anche alla luce di un intento politico-culturale: quello
di affermare la specificità della Romanitas nei confronti degli ideali del
mondo tedesco privilegiando soprattutto tre ambiti problematici: “in primo
luogo l’antichità nel suo particolare significato per la tradizione italiana.
Inoltre il rinascimento e l’umanesimo [...] infine, una terza questione
riguarda il modo in cui il XIX secolo ha compreso e giudicato l’umanesimo e il
rinascimento”87. Per Grassi fin dall’inizio gli studia humanitatis hanno un
legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto nella
comunità politico-sociale88. A partire dal 1945 Grassi si reca in Svizzera in
cui progetta con Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore
Francke di Berna e l’anno successivo incomincia la sua lunga attività di
insegnamento a Monaco e di direzione del Centro Italiano di Studi Umanistici e
Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee
dell’“emigrante con la vocazione per la filosofia”, basti dire che negli anni
densi e intensi dell’apprendistato filosofico tra il 1922 e il 1946 si gettano
le basi di quei grandi temi che percorrono i decenni successivi: la
rivalutazione dell’umanesimo e della latinità come luoghi di riflessione sulla
questione onto-antropo-logica, sul nesso uomo-essere; la centralità del
linguaggio e della parola poetica, del dire metaforico e della
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! svanito, non più
presente. Il dato come oggetto, e quindi come qualcosa di già fatto, non è il
dato, bensì una falsa interpretazione del dato”, E. Grassi, Il Problema del
logo, cit., p. 375. 86 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, cit., p. 18. 87 Id., Studia humanitatis come essenza della tradizione
spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des
Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin,
verlag Helmut Küpper, 1942, pp. 19-32, ora in Id., I Primi scritti, cit., p.
949. 88 Del periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata
con l’appoggio di Helmut Küpper.! ! 35! retorica. La questione è,
ancora una volta, quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato
nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale
adeguarci, ma di attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti
della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della
riflessione che lo struttura si intersecano. Il “neoumanesimo della
complessità” offerto da Grassi può essere concepito come un atto di
demitizzazione: una delle mitologie da sfatare è quella della preminenza della
ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si risolve in una mitizzazione, di
segno opposto, della crisi della ragione; del tramonto della civiltà, in cui
cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate; del tramonto
dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale carente, diventando,
infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come testimoniato dagli
attuali studi post-umanisti, segmento di un processo ibridativo con la techne.
Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le tappe grassiane del
discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un itinerario
onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia indissolubilmente
con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli scritti del periodo
giovanile nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è
possibile comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo
gravitante attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da Grassi
costituiscono un contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo
pensare alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come
dai giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava
emergere, ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle
proprie strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo. ! 36!
CAPITOLO II L PROBLEMA DELL’UOMO TRA UMANESIMO E ANTIUMANESIMO: L’UMANESIMO
CRITICO DI ERNESTO GRASSI. II.! I. Il momento machiavelliano della genesi del
problema dell’umanesimo Uno dei risultati più importanti della indagine
filosofica grassiana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la
scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica
dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito
cogitativo89. Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica
al pensiero moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli
effetti negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la
ricerca di un certo “luogo” della tradizione culturale umanistico-rinascimentale
che il dibattito storiografico ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico,
o almeno non carico di una serie di motivazioni teoriche che Grassi rintraccia.
Secondo il pensatore milanese il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di
fatto, un momento epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e
storico del linguaggio poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di
uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso
di ragione e passione è possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed
autentica. Ma come nasce per Grassi l’esigenza di rinnovare la questione
dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso
fosse il problema: lo dimostra la tenacia speculativa che, in qualità di
direttore della Humanistische Bibliothek dell’editore Fink, mostra patrocinando
la pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a temi umanistici, nella
speranza che la conoscenza diretta di Petrarca, Salutati, Valla, Pontano,
Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad un’immagine dell’umanesimo
lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre, nel 1938
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 89 Affronteremo la
questione del nesso pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. !
37! il nostro autore, sotto il patronato dell’Accademia d’Italia,
ha l’incarico di fondare e dirigere l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino,
anche grazie all’interessamento di Enrico Castelli. Accanto a questa opera di
edizione e direzione c’è il percorso di ricerca teorica portato avanti per
tutta una vita e che pone Grassi in un confronto serrato con i più noti
interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due autori in particolare
secondo la convinzione di gran parte degli interpreti: Vico e Heidegger, ma noi
vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e Leopardi. Da un lato Cartesio
ha avuto un ruolo centrale nell’analisi grassiana del logos attraverso la
fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito che rivestono
un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro
Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che secondo
Grassi gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il
filosofare noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del
filosofo tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che
costituiscono la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico
che appare come l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la
Scienza Nuova ci guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita
dalla fantasia e dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano Vico avrebbe
contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in
difesa delle humanae litterae. Lopardi con il concetto di illusione avrebbe
teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe raggiunto le
vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida la riflessione verso
il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il
più fiero oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua
di espressioni di una mera antropologia ontica che ha come centro della
riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul
linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento del
disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione da Grassi che con
Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di oltrepassamento,
nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento) e Überwindung
(superamento). Secondo l’interpretazione grassiana, quella di Heidegger sarebbe
una prospettiva che, nonostante la messa in mora della modernità e l’opera
decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione ! 38!
soggettocentrica, cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta la
concezione idealistica dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema
dell’umanesimo che “Heidegger sottolinea che il termine umanesimo si affermò
per la prima volta al tempo della repubblica romana come equivalente del
termine greco paideia. Per Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo
principia col definire l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia
antropologica”90. L’umanesimo come mera antropologia è l’equazione posta da
Heidegger che Grassi mette in discussione attraverso un’analisi
storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni sul linguaggio un altro
inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato una concezione del
linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento dell’essere, la
tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non era ritenuta
funzionale al discorso relativo alle “circostanze della manifestatività” ma
frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da
Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. Grassi tenta
di ricostruire con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso
tecnico, la tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e
Landino che mostrano una ricchezza del possibile in alternativa
all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà
di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in evidenza
quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere dalla
situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione aprioristica
e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo ineludibile di
una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 90 E. Grassi, Heidegger
e il problema dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature
storiografiche che talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono
state sottolineate da Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di
E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto –
e lo ripete nel modo più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal
Ficino e la forte ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima
metà del Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia
umanistica o, almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone,
naturalmente, molti problemi di natura storiografica [...] anche se non può
tacersi che anche il giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve
non poco a tipici loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si
pensi soltanto ad alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo
dominante nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di
theologia originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger
and the question of Renaissance Humanism, Center for Medieval and Early
Renaissance Studies, Binghamton, New York 1983. ! 39! pensiero: non
solo la logica e la teologia, ma la giurisprudenza, la mitologia, la politica,
la retorica, la poesia divengono oggetti teorici degni di una riflessione sulle
molteplici forme dell’apparire dell’essere. In tale percorso di rivisitazione
delle tematiche umanistiche Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi,
quali il poema cavalleresco, la lettera familiare, l’elogio, che pongono in
luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un
significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum
univoco. Anzi, secondo Grassi è nelle parole, nei verba, nella ricchezza e
complessità di un universo linguistico non chiuso nei ristretti limiti della
logica formale che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono
infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale
compito della nuova filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione
del reale non a mezzo “del processo razionale del pensiero che col concetto
(horos) e la definizione (horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed
astraendo dal tempo e dal luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso
la parola storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un
apparire) del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali
che sorgono nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità
del reale che si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa
opera grassiana non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di
rintracciare nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato,
occorre piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della
meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 92 Id., La filosofia
dell’umanesimo un problema epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo
l’interpretazione di D. Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia
di Grassi costituisce un limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il
nostro punto di vista si tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del
metodo seguito da Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo
di dire tale realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a
mostrare la ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, Grassi, Vico, and the
defense of the Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5.
Opposto il giudizio di A. Battistini secondo il quale quello di Grassi è un
metodo che “rispecchia una ricerca sempre in progress, inappagata, dinamica”,
A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E.
Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di), Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit.,
pp. 385-404. ! 40! limite, raggiunto dal filosofo in ossequio
all’insegnamento degli umanisti che con la riflessione sulla storicità
dell’esperienza umana che parte da bisogni concreti elaborano quella che è una
rivoluzione epocale ben più importante di altre rivoluzioni culturali:
attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene nelle diverse e varie
situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et nunc, tramite
l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del sistema
antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale
che “l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione razionale del
reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero filosofico ben
più radicale della così detta moderna “rivoluzione copernicana” del pensiero
cartesiano e idealistico”95 e ciò è espresso, dal nostro punto di vista, in
conformità alla generale impostazione onto-antropo-logica del pensiero di Grassi,
che vede nella indagine linguistica e poetica la possibilità di scorgere
quell’appello dell’essere che spinge l’uomo a rispondergli creativamente in
base alle molteplici circostanze esistenziali. In tale contesto l’agire umano
per Grassi “implica la necessità di realizzare non cognizioni astratte di una
metafisica ragionata ma una metafisica metaforica, fantastica ma non arbitraria
perché risposta oggettiva alle urgenze vissute differentemente nelle varie
situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti: come giunge
Grassi alla domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo? Decisivo è stato
l’incontro con il maestro degli “anni mitici di Friburgo”? Oppure dobbiamo
attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è la svolta vichiana?
Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in Grassi è una
operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un iter in
absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione “onto-antropo-logia”
per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di quest’assenza
terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto nascoste – di tale
ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di pre-comprensione
imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal filosofo di Milano:
retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 95 E. Grassi, La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, Vico
e Ovidio. Il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del
Centro di Studi Vichiani”, 1992-1993, XXII-XXIII, p. 174. ! 41!
contesto onto-antropo-logico ci consentirà agevolmente di sfatare anche
un’ipoteca storiografica che pesa sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione
che lo ritiene mera espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione
teoretica97. Grassi affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani
già nel 1924 nel saggio Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di
Stato apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con
Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio Grassi
offre un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui
concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua
prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria.
L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare
credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità
umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema
concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica
della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di
Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di
immanenza che permea tutta la riflessione moderna. Grassi afferma che “il
medioevo e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come
espressione di due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero
antico, medioevale cercava la razionalità del reale – ossia il principio di
ogni realtà in un principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno –
di cui il rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità
del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur accogliendo tale
distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il
limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica e
filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non
tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli
intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare
essere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 97 Cfr.,
l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva
filosofica di Ernesto Grassi, pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo europeo.
Ernesto Grassi, cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in
particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. Grassi,
Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi
Scritti, cit., p. 55. ! 42! un Giano bifronte, proteso sia verso
l’impostazione classica e medioevale, che rintraccia nell’“essere per essenza –
o per seguire la loro denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in
funzione del quale tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e
causa”100; sia verso un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca
successiva un dispiegamento considerevole. Secondo Grassi nella concezione
politica di Dante abbiamo un primo embrione della modernità: “la nuova epoca
non si – può – far nascere dal secolo XV, ma molto prima, come ci rivela
l’espressione volgare della Divina Commedia, del Convivio, e il ghibellinismo
di Dante”101. La riflessione della modernità matura sarà contraddistinta da una
serie di elementi che metteranno in crisi l’impostazione medievale ma anche
classica. Contro l’idea che proprio gli umanisti proporranno
nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo Grassi lo stesso
classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che “semplice scorza con
cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda cenere sotto cui
troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che ricerca e trova se
stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di Machiavelli è assunta
come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima generale della
critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli umanisti
Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a
tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità
effettuale che, secondo Grassi, riveste un’importanza massima: “l’affermazione
della verità effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente
col suo metodo induttivo alla concezione della storia come creazione umana”103.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 100 Ivi, p. 56. 101 Ivi,
p. 58. 102 Ivi, p. 62. 103 Ivi, p. 66. ! 43! La centralità della
nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in correlazione con la
teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il verum storico è
conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio della
convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze
giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di Vico,
viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum ratione del
1708. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico:
“pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si
presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì
il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la
facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo”105. Vorremmo
sottolineare che il “vichismo” di Machiavelli individuato da Grassi in questo
saggio risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo
di Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere
del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al
Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica del 1908 in cui Croce,
trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce
Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato la
politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei
precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che la
questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente
identici”106 è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo
pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore
spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza
della ulteriore determinazione morale”107.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 104 Per una sintesi ben
documentata della storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr.,
M. Martirano, Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il
criterio del vero e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero
e del fatto dopo Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del
nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce,
Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p.
266. 107 ivi, p. 267. Secondo Croce solo a partire dall’analisi critica di
Francesco De Sanctis si è cominciato a comprendere il carattere complesso della
tesi di Machiavelli e quindi a valorizzare il pensiero del Principe
giustificandolo a dispetto delle condanne provenienti da correnti moraliste.
Nella recensione dell’edizione del Principe curata da Federico Chabod nel 1924,
Croce precisa come sia necessario non tanto affermare che la politica si
identifica con la forza bensì “insistere e mettere bene in chiaro che cosa sia
veramente la forza, e come quella forza, che è la virtus politica, rappresenti
un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un aspetto solo della totalità ed
integralità umana” – B. Croce, “La Critica”, giugno 1924, p. 314. In seguito
nel 1932 in Storia d’Europa nel secolo decimonono ad integrazione la necessità
della virtù nella politica ! 44! Su questo sfondo crociano
l’interpretazione di Grassi pone in luce il nesso di verità effettuale108 e
verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo: dire che
“coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente l’affermazione
che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum di Vico”109,
significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e realtà,
essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo innovativo
di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è degna di nota
se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie concettuali che
ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano quanto già a partire
dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse viva nella riflessione
del filosofo. Risulta evidente allora che la questione onto-antropo-logica, il
problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e Sein nell’orizzonte della
Lichtung non compare in Grassi solo ed unicamente a partire dall’incontro con
Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo Grassi” ma affiora
già nelle riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La “scienza nuova”
offerta da Machiavelli secondo il pensatore milanese è innanzitutto una scienza
induttiva e non deduttiva, è una intelligenza dei fatti che può realizzarsi
solo abdicando al principio di autorità e all’a-priorismo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! e la denuncia della mera
attività politica senza responsabilità è lampante: “se alla libertà si toglie
la sua anima morale...si toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna
alla quale essa si sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna
guida e del comando non rimane se non il fare per fare, il distruggere per il
distruggere...ne vien fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione
riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di un ideale
etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” – B. Croce,
Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari 1972, p. 300.
Croce risolve in maniera definitiva la questione posta da Machiavelli saldando
assieme l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia, sia nella
sua filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica (1931)
i precetti morali alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita
Vico come il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli,
ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una
precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi
commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato
sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra
politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della
storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito,
che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e
della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B.
Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione
verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio
scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N.
Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della
verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al
XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e
contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa
2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di
Stato, in Id., Primi scritti 1922-1946, p. 66. ! 45! logico. La grandezza
del segretario fiorentino risiede nella ricostruzione politica del
Rinascimento, che è allo stesso tempo una restituzione alla storia di una
razionalità intrinseca. Ma in che modo è possibile offrire al dominio di Dio o
del caso – la storia – una propria razionalità? La domanda che secondo Grassi
Machiavelli si pone trova nelle pagine del Principe una risposta, l’unica
possibile. Assodato che con il Rinascimento registriamo una rottura, un crollo
dell’impalcatura teorica e pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori
religiosi e l’affermazione della forza dell’individuo, come garantire
l’integrità della vita activa, come riparare la nuova idea di azione umana dal
pericolo di una dispersione irrazionale di energia? Secondo Grassi la stessa
affermazione del soggetto empirico va superata e si supera con Machiavelli:
“l’affermazione del soggetto empirico andava superata e condotta a un concetto
di unità di individualità superiore, ma il problema doveva essere posto negli
unici termini possibili: superare l’individualità empirica per mezzo
dell’affermazione dell’individualità stessa”110. Il problema dell’individualità
si pone come un dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni:
innanzitutto l’ascesa del soggetto è individuata come un tratto distintivo
della modernità, sebbene in questo contesto l’autoaffermazione assuma una
valutazione positiva che in seguito perderà, a fronte di una impostazione
teorica che vede nella compagine soggettocentrica della filosofia un aspetto
negativo; poi mostra l’aporia aperta dalla figura di Machiavelli e che
rifluisce nella tematizzazione grassiana successiva: l’aporia tra la componente
irrazionale, quella che successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di
un inquadramento razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e
attesta un tentativo di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione
del Principe di Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo,
dell’individualità empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa
emergere quanto Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il
Rinascimento: il contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che
rende la sua opera una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
110 Ivi, p. 73. 111 Ivi, p. 74. 112 Ivi, p. 76. ! 46! sorta di
“fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel Principe si
struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità del
principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il
conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata
positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non
sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e
proficue114. Alla figura di Machiavelli, all’importanza della sua teoria
politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e
all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al
“cambiamento di paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione
kuhniana, Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è
testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul
politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli consiste
quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il suo
imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma del
dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del politico è
ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte, bensì la
concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene espresso
quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale esercita
sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché quello di
Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a costituire
una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la quale ha di
mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei dispositivi
che sono fortemente radicati nella situazione particolare, nell’Appello
dell’essere e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 113
Ibidem. 114 Cfr., G. M. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento,
Carocci, Roma 2008, in particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E.
Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p.
793. Il saggio appare originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum
Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen
Tradition Italiens nel 1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes
Heft, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel
saggio rifluiscono due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische
Tradition des Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der
Italienischen Tradition. ! 47! del reale, la cui carica di
estraneità è oltrepassabile solo tramite l’azione concreta e storica che ha
struttura metaforica. L’attività metaforologica ha infatti una connotazione
onto-antropo-logica in Grassi: riguarda l’uomo, riguarda la realtà e
costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal
mondo circostante. Non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora
è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica: “alcuni limitano la funzione della
metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo
ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza
un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...]
la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari
campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo
andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro
mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa
immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo
fondamentale alla struttura del nostro mondo”116. In conclusione possiamo dare
per acquisito che la lettura di Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario
fiorentino e alla politica pongono in luce la fondamentale importanza che in
tale ricostruzione di un nuovo paradigma assume la conoscenza storica del
passato117, il tema della fortuna – la concreta situazione storica – e quello
della virtù – come abilità di commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118,
quello dell’autonomia dell’agire politico119. Questi elementi ci dicono che
“non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 116 Id., Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., Francesco
Guicciardini e il concetto della politica nel Rinascimento italiano. Prologo
alla prima edizione tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti,
cit., p. 891. Il saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini
und der Begriff der Politik in der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten
deutschen Ausgabe der “Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin,
XVIII, 1942, n. 3. 118 Id., Teoria della politica nella tradizione del
rinascimento, pp. 967-974, in Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio
appare nel 1945 con il titolo Theorie der Politik in der Ueberlieferung der
Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”, Jahrgang 166, nr. 1016, 30. Juni, 1945,
Morgenausgabe, Blatt 4. 119 Id., Pensieri sul poetico e sul politico. Due
conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi
scritti, cit., p. 786. ! 48! possiamo sottrarci di fronte
all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente di prendere
posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra situazione si trova
sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un aut-aut ci
costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come impegno e
compito come Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata allo
“stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita
individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un
metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione
con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo
impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto
alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso
anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella
consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos
che può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico122.
Umanesimo e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La
riflessione sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico
elaborata da Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come
abbiamo visto, nel saggio su Machiavelli proseguendo nelle produzioni
saggistiche successive al 1924. In queste ultime è presente anche un intento di
chiarificazione storiografica e di presa di distanza dalle coeve
interpretazioni della “tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca
storico-culturale, come quella al centro della riflessione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 120 Id., Sul problema
della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione
italiana. A Walter F. Otto, pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912.
Il saggio appare in tedesco nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes
und des individuellen Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung.
An Walter F. Otto, in Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in
Verbindung mit Walter F. Otto und Karl Reinhardt, herausgegeben von Ernesto
Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1942. 121 Ivi, p. 902. 122 E. Husserl, La
crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura
di Filippini, il Saggiatore, Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come
potremmo dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La
nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella
nostra vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il
vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un
telos, e che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia.
È possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire?”. ! 49! di
Grassi, significa innanzitutto prendere in considerazione un “mito
storiografico”123. Inoltre, il concetto grassiano di umanesimo è bivalente:
accanto all’idea di Umanesimo come categoria storiografica limitata ad un
periodo storico circoscritto e ad autori precisi troviamo un concetto di
umanesimo come macro-categoria che comprende una riflessione generale
sull’humanitas. A partire dal grande affresco burckhardtiano del 1860 Die Kultur
der Renaissance in Italien e dal saggio di Jules Michelet del 1855 Histoire de
France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti distintivi sono
stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori immanenti i cui
prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento e del
Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi umanisti che
per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i “barbari medievali”,
che erano barbari non “per avere ignorato i classici, ma per non averli
compresi nella verità della loro situazione storica”124. Posizione, questa, che
importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo profondamente
in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età della sperimentazione125
e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale raggiunto dalla cultura
filosofica e letteraria del Medioevo126, contro un atteggiamento che si è
consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché in quello filosofico e
storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un altrove – sia esso negativo
(la prospettiva umanistica) o positivo (la prospettiva romantica) – o una
premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove negativo ci sono povertà, fame,
pestilenze, disordine politico, soperchierie dei latifondisti sui contadini,
superstizioni del popolo e corruzione del clero. Nell’altrove
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 123 Cfr., per una
discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e
del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp.
3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino,
Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma-
Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi,
L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C.
Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna,
2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni dell’antirinascimento
della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il rinascimento tra mito e
realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. ! 50! positivo ci
sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate, cavalieri fedeli e principi
magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del medioevo come generica
premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo grassiano faremo
riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione dal
pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e
infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la
riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia
grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte dal quesito: “che cosa
significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi del termine nell’ambito
politico: “questo termine nasce per la prima volta in Italia nel XIV secolo e
lo troviamo negli scritti politici di Coluccio Salutati, il primo segretario
politico di Firenze”128. La domanda è il punto di partenza di un saggio scritto
in occasione di una conferenza tenuta nel 1938 durante la seduta della
Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung und die italienische
Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro saggio, Politisches und
begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition, in Gedanken zum
Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen
Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime per la
prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta del
passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo del
Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed
efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione
dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo
viator e penitente130 e all’uomo moderno131.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 127 Cfr., G. Sergi, op.,
cit., p. 5. 128 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze
per determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi
Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id.,
(a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le
Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza,
Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id.,
(a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-12.
! 51! Per quanto sia discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così
radicale tra due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in
tutti i suoi scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la
plausibilità del presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e
Rinascimento non sono entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili,
ma soprattutto Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da Grassi accomunate
in un disegno sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di
trascendenza. Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno
problematico di un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel
saggio su Machiavelli del 1924, e nelle pagine di Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico del 1932 in cui si afferma: “Il fondamentale schema
che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o
meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico
al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero
moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide
queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si
radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel
quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non
va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si
attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve
espresse con convinzione tuttavia non impediranno a Grassi di assumere una
prospettiva teorica di forte impianto idealistico che pone la questione in
termini di slittamento dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il
filosofo ciò che è in gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione
contraddistinta dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione
della finitezza umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e
non come una mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere
anzitutto come concezione e affermazione politica; perché tutta la storia,
l’arte, la filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla
realizzazione di un nuovo mondo storico”133.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 132 “Il fondamentale
schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un
modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del
pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero
oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del
soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della
storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è
veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità
sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la
realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle
medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico,
pp. 255-271, in Id., Primi scritti, cit., p. 259. 133 Ivi, p. 781. !
52! Infatti, per Grassi lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme
possibilità accade innanzitutto nel contesto, nell’apertura originaria, che è
un’apertura comunitaria, nella quale soltanto l’essere umano può istituire
nessi e relazioni con il contesto circostante, può stare al mondo in una
relazione che è innanzitutto comprendente: si tratta di comprendere e di
cogliere le molteplici forme dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto
nella parola poetica, prima che nella parola logica. La valutazione autentica
dell’Umanesimo sarà possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile
che il problema dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel
filosofare noetico non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e
l’antropologia senza chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo
metaforologico: si tratta della coniugazione “inaudita” che Grassi cerca di
realizzare lungo tutto il suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla
manifestatività in Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli
anni Trenta, a quelle sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario
in L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza
dell’originario e Il reale come passione e l’esperienza della filosofia degli
anni Quaranta, per finire con gli scritti sul valore della metafora e del
pensiero noetico non metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo
come epoca storica determinata e come proposta di una rinnovata visione del
mondo è dominata dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla
necessità entro la quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta
definizione. Ora lo studio di questa problematica compete a un sapere
particolare che dobbiamo chiamare ontologia, distinguendola dalla metafisica
tradizionale e intendendo con questo termine il rapporto che lega gli enti in
situazione all’origine comune che li attraversa e perciò insieme li unifica e
differenzia: ontologia non logica ma situazionale”134, ontologia noetica e non
metafisica, e pertanto metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola
umana che costruisce universi di senso. La critica di Grassi si appunta
innanzitutto contro l’assolutizzazione di un aspetto particolare della
filosofia quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della
modernità che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale
posizione se, da un lato, può sembrare a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
134 Id., Il problema della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non
metafisico. Vico, in E. Grassi-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non
metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina, p.
30. ! 53! prima vista contraddittoria rispetto all’ipotesi
interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la centralità di
Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna che le
riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione se la
critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del moderno viene inserita nel
contesto più generale di una messa in questione della supremazia che l’ambito
logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche analizzate. Si tratta di
una messa in discussione dello stesso concetto di ragione e di logos, che non
enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che cerca di istituire una
relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi sulla china
dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di costruire o
ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico e logico
trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e vissuta. In
Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi passa in rassegna diverse
tappe interpretative rifiutate per una sostanziale misinterpretazione
dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità con il saggio
L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare. Il macigno che
pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi da questo
fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà rivolto sviluppando
le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di Grassi: Macht der
Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosofy 1980; Heidegger
and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo aggiungiamo,
sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse annoverato135,
Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger offre all’attenzione
del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa domanda, analizzeremo
di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da Grassi in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della polemica diretta contro
precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero della filosofia
analitica di cui, almeno in questo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 135 La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non
poteva annoverare questa opera perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in
lingua inglese. Si tratta di una raccolta di saggi che coprono circa due decadi
di riflessione filosofica, dal 1969 al 1985 e che comprendono i testi americani
di Grassi. Cfr, D. P. Verene, Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit.,
pp. 19-24. Il testo è pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo
Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Peter Lang
publishing, New York, 1990. ! 54! luogo, Grassi non esplicita i
rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento
polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e
autore di quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade:
dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono
con la nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138.
Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione
esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di
formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia
travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è considerato scientifico quel
pensiero che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera
della dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti
in modo significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...]
al di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e
mistero”139. Dalla prospettiva grassiana nell’orizzonte wittgensteiniano della
filosofia l’unico linguaggio accettabile è quello del calcolo, della
formalizzazione, della logica che esclude dall’orizzonte di significatività la
dimensione retorica del logos ordinario – che esprime il sensus communis – e
del logos patetico della poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo
il livello connotativo del linguaggio, quella dimensione del mistico e
dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la
riflessione che si condensa nelle Ricerche filosofiche. Grassi non prende in
considerazione la riflessione wittgensteiniana contenuta in questo testo, che
possiamo definire come una sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di
Wittgenstein contro se stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del
Tractatus. Afferma Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e
il suo correlato, la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un
gioco linguistico a sé. Ciò
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 137 Cfr., L.
Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L.
Wittgen stein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr.
it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi,
Retorica come filosofia, cit., p. 35. ! 55! vuol dire propriamente:
veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” – e a ciò segue
la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare come un
particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter con
l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco
linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme
più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è
una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso
“dall’ambito della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia,
poesia e retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il
linguaggio filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi
diviene un altro bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni
contenute negli scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III)
pubblicate postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La
III regola cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare
si deve fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi
stessi congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con
chiarezza ed evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista
scienza”145. Secondo Grassi in questo passo si afferma che il ricorso
all’esempio degli Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che
produce storia, mai scienza. Questa si costituisce a un livello differente,
nella trasparenza dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come
emerge dalla riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione
dell’esperienza, lo svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti
da Cartesio sono riconducibili alla generale impostazione che muove dal
paradigma matematico. In questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di
congettura probabile, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
140 Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi,
Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia,
tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 391. 142 E. Grassi, La
filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31.
144 La stesura delle Regulae risale agli anni compresi tra il 1625 e il 1629.
Sulla questione della datazione delle Regulae cfr., G. Mori, Cartesio, Roma
2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, tr. it.
di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, a cura di E. Garin,
Laterza, Roma-Bari, p. 21. ! 56! che pretenda di mescolarsi e
assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze certe e evidenti. La stessa
valutazione dei saperi umanistici compare in I principi della filosofia. Qui il
filosofo afferma che “se desideriamo consacrarci seriamente allo studio della
filosofia e alla ricerca di tutte le verità che siamo capaci di conoscere, ci
libereremo in primo luogo di tutti i pregiudizi, e faremo conto di respingere
tutte le opinioni da noi un tempo accolte in nostra credenza, finché non le
abbiamo esaminate da capo. Faremo in seguito una rassegna delle nozioni che
sono in noi, e non raccoglieremo per vere se non quelle che si presenteranno
chiaramente e distintamente al nostro intelletto”146. La scienza, così, è in
ultima analisi tale nella misura in cui si concentra rigorosamente su ciò che
non può essere intaccato dal dubbio. Inoltre, nel primo libro del Discorso,
nell’ambito dell’esposizione del proprio iter autobiografico, Cartesio rende
manifesta l’insoddisfazione verso quei saperi, gli studia humanitatis ai quali
si era tanto dedicato durante gli anni della formazione a La Flèche,
insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed errori che quelle discipline
per il loro oggetto e metodo intrinseco non potevano non contenere. La critica
a quei saperi, che spinge Cartesio a dire che leggere i libri antichi è come
viaggiare e conversare con uomini di altri secoli147, dimenticando ciò che
caratterizza il tempo presente, trova il suo esito più compiuto nella difesa
della mathesis universalis, del nuovo metodo, della scienza nuova che unisce
matematica, logica, geometria seguendo lo schema tetravalente di evidenza,
divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di impostazione del discorso
filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre liberarsi per Grassi che
afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio, che “egli rinfaccia alla
retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti – di turbare, influenzando
l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza del pensiero razionale,
deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso comune, giacchè solo il
rigore logico è garanzia del filosofare”148.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 146 Cartesio, I principi
dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e
M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M.
Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295, “Conversare con
gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si passa troppo
tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio paese; e
quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli passati, si
resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno d’oggi”. 148 E.
Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 32. ! 57! Vorremmo
sottolineare tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto di una certa
riabilitazione da parte di Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e
pregiudizio nell’ambito della riflessione morale, come si evince dal Discorso,
dai Principi e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla corrispondenza.
Secondo la nostra interpretazione ciò accade per diversi ordini di ragioni:
innanzitutto incide l’impostazione idealistica che Grassi riceve negli anni di
apprendistato alla Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto
avrebbero in Cartesio un punto di partenza fuori discussione149; inoltre,
l’impostazione heideggeriana che, come è noto, si concentra molto sulla critica
a Cartesio, interpretato come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un
passaggio cruciale nella storia della metafisica, quello dalla domanda che
chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del
fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana
ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano
ed una nuova posizione dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il
fondamento e la misura di ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si
asserisce che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è
l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del
metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo
e sicuro”152: tale metodo è il cogito e le sue strutture. Infine la forzatura
grassiana della contrapposizione Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una
nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici storico-culturali egli
rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e mediterranea in senso lato.
Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno teoreticisti del suo pensiero,
tralasciati da Grassi, possiamo prendere come riferimento il significato della
nota metafora della casa153 del Discorso che
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 149 “Devo richiamare
alla mente la situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20,
periodo in cui compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana
predominava in Italia grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin
dalla fine del XIX secolo da Bertrando Spaventa”, E. Grassi, Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 31. 150 M. Heidegger, Il
nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p. 158. 151 Ivi,
p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di cominciare a ricostruire la casa da
abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e architetti, o
impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato inoltre un
accurato progetto; bisogna essersi procurati un altro alloggio dove si possa
dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per non
restare indeciso ! 58! vuole comunicarci la necessità di prendere
delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente era precluso in sede di
conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a ciò che sembra ragionevole
e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è consentito in ambito morale:
“tuttavia si deve notare che io non intendo che noi ci serviamo d’una maniera
di dubitare così generale, se non quando cominciamo ad applicarci alla
contemplazione della verità. Poiché è certo che, in quel che riguarda la
condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle
opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione vuole che ne scegliamo
una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se l’avessimo
giudicata certissima”154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine è
bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui
fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale
l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una
co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di
giudizio: “con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi
[...] non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso
che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi riconosce la portata più ampia del
cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo portata avanti nel
saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese afferma che “la
metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si
tenga presente che cosa egli concretamente intenda con “cogitare”. Pensiero,
cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma
è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un
momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma anche di
sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si profila il problema del
rapporto e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di
manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto
all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione
presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! nelle mie azioni mentre
la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò
di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria,
riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp.
305-306. 154 Id., I principi della filosofia, cit., p. 22. I corsivi sono
nostri. 155 Ivi, p. 25. 156 E. Grassi, Dell’apparire e dell’essere, cit., p.
289. 157 Ivi. ! 59! e dell’esperienza dell’originario in cui il cogito
– a cui precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere
elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di
principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima
connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza
dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio
non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il
vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino
al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende
possibile [...] di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il
compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra
come il vero fondamento del sapere”159. La posta in gioco che emerge è quella
del riconoscimento della priorità della manifestatività dell’essere quale
fulcro tematico della filosofia. Il reale come punto di partenza della
riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle vie di accesso, che per
Grassi – questa volta non in opposizione ma in linea con Cartesio – ci pone di
fronte ad una molteplicità di forme che sono in un rapporto di intima
co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare un’immagine di
Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione caratterizzante
gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico /Cartesio (pensiero
topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea grassiana della presenza
di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana. Hegel160
avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa e
l’opera che Grassi prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia
in cui l’Umanesimo appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa,
che non realizza in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia
e dell’arte, e le cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il
pensatore milanese “Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa
riferimento l’Umanesimo, di essere
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 158 Ivi, pp. 286-287.
159 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti, cit., pp.
817-818. 160 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., pp.
32-33. ! 60! volgarizzatrice (eine Populärphilosophie) o non
speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo sviluppo del diritto romano abbia un
valore filosofico”161. Nell’ambito della definizione del concetto di filosofia
e delle due sfere affini ad essa, la scienza e la religione, Hegel fa
riferimento alla filosofia popolare: “sembra che vi sia un terzo momento che
congiunge i due suddetti – momento soggettivo e formale della scienza e momento
oggettivo in forma figurata o storica della religione –: cioè la filosofia
popolare. Essa si occupa di argomenti universali, filosofeggia su Dio e sul
mondo [...] però anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si
devono ascrivere gli scritti di Cicerone”162. Lo stesso Cicerone, al quale
Montesquieu avrebbe voluto assomigliare163, recentemente definito come
l’esponente dell’umanesimo universalista164 è al centro anche delle riflessioni
dello storico Mommsen – come ricorda Grassi nel catalogo delle interpretazioni
inautentiche dell’umanesimo165 – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo
stile giornalistico”166. Altra “vittima” degli strali di Grassi è il romanista
Curtius, annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica
a mero esempio di “esercitazione stilistica”167. Nell’elenco compaiono anche
Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per
Grassi è inaccettabile o perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre
il pensiero filosofico sotto l’egida del problema della conoscenza non consente
di rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna innovazione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 161 Ivi, p. 32. 162 G.
W. F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, introduzione di L.
Pareyson, tr. it. di A. Plebe, Laterza, Roma- Bari 1987, p. 132. 163
Montesquieu, Discorso su Cicerone, in P. Ciaravolo (a cura di), La personalità
filosofica di Marco Tullio Cicerone, Aracne, Roma 2007, pp. 7-8: “il primo,
presso i romani, che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti e l’abbia
liberata dall’intralcio di una lingua straniera. Egli l’ha resa comune a tutti
gli uomini, come la ragione, e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati si
sono trovati d’accordo con la gente comune. Io non sono in grado di ammirare
abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un tempo in cui i saggi non
si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse
venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato a scoprire la verità”.
164 Uso l’espressione di L. Battaglia contenuta in Le virtù moderne di
Cicerone. Appunti sulle Tusculanae disputationes, pp. 157-169, in P. Ciaravolo,
op., cit., p. 157. 165 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 34. 166 T. Mommsen, Storia antica di Roma antica, Sansoni,
Firenze, 1963, p. 1275. 167 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p.
34. ! 61! significativa168. I testi citati polemicamente da Grassi
sono Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento e Storia della filosofia
moderna. Il filosofo tedesco, di formazione neokantiana, si occupò intensamente
dei problemi matematici e fisici della modernità, e la predilezione per alcuni
autori, quali Galilei, Keplero, Newton, Cartesio, Spinoza e Leibniz, ci fa
comprendere quanto potesse valere nel tragitto filosofico tracciato da Cassirer
il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo Grassi per Cassirer “laddove
nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non si giunge nella
filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo”169. Se prendiamo in
considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che fu pubblicato
postumo nel 1967 e che raccoglie i contributi cassireriani sulla storia del
pensiero occidentale dall’Umanesimo all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a
pagine di considerazione scarsa circa lo spessore filosofico dell’Umanesimo.
Nel saggio La posizione del Ficino nella storia del pensiero – recensione al
libro di Kristeller La filosofia di Marsilio Ficino – Cassirer afferma: “alle
sue origini e per il suo scopo principale l’umanesimo non può dirsi un
movimento filosofico. Tra gli umanisti più noti non troviamo grandi pensatori
veramente indipendenti. Il loro interesse era l’erudizione e la letteratura,
non la filosofia”170. L’unica importanza dell’Umanesimo e del Rinascimento sarebbe
la mutazione della dinamica delle idee171 e lo slittamento dal particolare
all’universale172. In questa fase la riflessione sui principi della conoscenza
non ha trovato ancora un motivo cosciente173 e la filosofia sembra avere una
efficacia limitata174. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
168 E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova
Italia, Firenze 1963. 169 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit., p. 34. 170 E. Cassirer, Il Ficino nella storia del pensiero, in
Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di P. O. Kristeller, tr. it. a cura
di f. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 36. 171 Id., L’originalità
del Rinascimento, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, cit., p. 11. 172 Ivi,
p. 8. 173 Id., Storia della filosofia moderna, Vol. I, Dall’umanesimo alla
scuola cartesiana, Tomo I, La rinascita del problema della conoscenza, tr. it.
di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1978, p. 100. 174 Ivi, pp. 97-98. !
62! Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica
grassiana rivolta al pensatore tedesco: Cassirer “preoccupato di rintracciare
nella tradizione umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della
filosofia – ovvero il problema della conoscenza – dovette ammettere di
rilevarne solo poche tracce”175 nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica
solo in parte condivisibile poiché Grassi e Cassirer non sembrano tanto lontani
nella comune attenzione rivolta verso il mondo del simbolico. Nonostante questo
punto di contatto Grassi pone una netta differenza tra la sua teoria di una
logica della fantasia e quella cassireriana delle forme simboliche176. Afferma
Grassi che “sarebbe un errore e un fraintendimento molto grave interpretare
Vico come se la logica della fantasia fosse limitata a una pura logica di forme
simboliche, per esempio nel senso di Ernesto Cassirer”177. Il filosofo tedesco,
in particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche
(1923-29), analizza la funzione del mito, inteso come originaria “forma di
vita”, essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le
produzioni mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se
il filosofo non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione,
bensì insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione
più importante del mero segno in quanto, secondo il filosofo, l’immagine
conterrebbe l’essenza stessa delle cose: “l’immagine, espressione di un
fenomeno, non ha un semplice carattere di rappresentazione, che indica qualcosa
di oggettivo al di là di essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in
essa qualcosa di demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in
piena presenza”178. Dal passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura
originaria che permetta la rielaborazione dei processi storici dell’uomo dei
tempi antichi, a partire dalle sue creazioni mitico-simboliche.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 175 E. Grassi, La
filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 176 Id., La priorità del senso comune e
della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 56 177 Ivi, pp. 56-57. 178 Cassirer, Filosofia delle
forme simboliche, Arnaud, La nuova Italia, Firenze 1967, p. 30. !
63! Queste strutture non hanno una funzione solamente comunicativa ma
agiscono da mezzo col quale si determina la compiutezza dei loro contenuti. A
partire da questa premessa dobbiamo considerare il mito, la religione, il
linguaggio non come forme di dominio sul mondo, bensì come forme essenziali per
la scoperta del mondo storico dell’uomo. La formazione simbolica costituisce
così il medium tra l’elemento trascendentale e il mondo storico-reale. La
funzione di sintesi, affidata alla formazione simbolica, diviene fondamentale
strumento di concezione della storia che vuole liberarsi da una visione
assolutistica e assoluta o da qualsiasi riduzionismo empirico- descrittivo.
Scrive Cassirer in Saggio sull’uomo: “per semplice che esso possa sembrare,
ogni fatto storico può venire determinato solamente in base ad una preliminare
analisi di simboli. La prima e più immediata materia della conoscenza storica
non è costituita da cose e da avvenimenti, bensì da documenti e monumenti.
Soltanto grazie alla mediazione e con l’introduzione di questi dati simbolici
si può avere una idea della realtà storica, degli avvenimenti e degli uomini
del passato”179. Riprendendo la teoria vichiana del mondo storico come
creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro campo, la mente dell’uomo è più
vicina a se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è
creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà [...] Il campo di studio elettivo
dell’uomo non è dunque il mondo matematico né quello fisico, ma il mondo
storico, la società civile. Quel che Vico chiede è una filosofia della civiltà:
una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi fondamentali che governano il
corso generale della storia e lo sviluppo della cultura umana”180. Se non
sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare che questo passo esce
direttamente dalla penna del Grassi autore di Vico e l’umanesimo. Per entrambi
i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia permettono agli studiosi
moderni di comprendere la coscienza storica dell’umanità. Il mito è una forma
comunicativa, espressiva e esplicativa di eventi e fenomeni e va ben oltre una
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 179 Id., Saggio
sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umna, a cura di Carlo
d’Altavilla, Armando, Roma 2009, pp. 296-297. 180 Id., Desartes, Leibniz e
Vico, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, tr. it. di G.
Ferrara, Laterza, Roma- Bari 1981, p. 111-112 ! 64! rappresentazione
illusoria che nasconde il vero stato delle cose. Il Cassirer lettore di Vico
mostra non pochi punti di contatto con Grassi che del filosofo napoletano
sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti mitici, poetici, simbolici,
fantastici su cui il filosofo delle forme simboliche a lungo si è soffermato.
Se Grassi esplicitamente menziona la presenza di una logica della fantasia in
Vico – in cui “il concetto fantastico e immaginativo [...] cristallizza un
essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una visione diretta di una totalità
pittorica”181 –, Cassirer si riferisce a Vico indicandolo come il creatore di
una logica dell’immaginazione: “l’umanità, secondo lui, non poteva cominciare
con il pensiero astratto e il linguaggio razionale. Dovette passare per lo
stato del linguaggio simbolico, del mito e della poesia. I primi popoli non
avrebbero pensato in concetti ma in immagini poetiche [...] in realtà il mondo
in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti sembra essere lo stesso.
L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere fondamentale, del potere di
personificare. Non possono contemplare nessun oggetto senza dargli una vita
interiore e una forma personalizzata”182. La breve sosta sulla filosofia
cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante confronto
Grassi-Cassirer che ha come scopo quello di mettere in luce un comune terreno
di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del poetico e del
fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese nell’elenco delle
interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e Jaeger, entrambi
colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica dell’Umanesimo183. Per il
pensatore italiano Apel “sostiene la tesi che gli umanisti nella loro disamina
della logica scolastica usano un armamentario filosofico poverissimo
sostituendo agli argomenti razionali asserzioni patetiche”184. Infatti Apel
afferma che “da questa programmatica polemica d’un nuovo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 181 Grassi, Vico e
l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, cit., pp. 266-267. 183 E.
Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il
problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti,
cit., 255- 271; Id., Paideia e neoumanesimo, in Id., Primi scritti, cit.,
357-369. 184 Id., La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. ! 65!
metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica dell’epoca
umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si potrà trarre
una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità per il
formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni
della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti)”185. Dal
suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera
prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le origini
dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del
Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger dichiara che
l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale culturale che ha
per meta la formazione dell’uomo”187. Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che
“sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del
loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del problema della
figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere
conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale
culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema
inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta
la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura
solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza:
tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si tratta di
“manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova ulteriori
derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello spirito greco.
I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza [...]. Siamo ora in
grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca l’originalità dei
Greci [...]. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma
l’acquisita coscienza della legge universale della natura umana. Il principio
spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo”188.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 185 K. O. Apel, L’idea
di lingua nella tradizione dell’Umanesimo da Dante a Vico, il Mulino, Bologna
1963, p. 292. 186 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, tr. it. di
L. Emery e A. Setti, Bompiani, Milano 2003. La concezione di Jaeger la paideia
ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività educativa come punto di incontro
tra antichità e presente. Secondo l’esponente del cosiddetto “terzo umanesimo”:
“per l’età moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione
consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua
volta, se non sul fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo
ha colà, appunto, la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è
sostanzialmente una creazione dei Greci”, ivi, p. 517. La paideia greca ha in
effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo che il Rinascimento,
in quanto il fine della stessa era la formazione di una umanità superiore. 187
Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 188 Ivi, p. 14. I corsivi
sono nostri. ! 66! Infine, nel catalogo grassiano degli
pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il pensatore
italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non platonico che al
contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di mettere in luce.
Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento che
“gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro scritti su diversi
argomenti mancano della precisione terminologica e della consistenza logica che
abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di professione [...] in altre
parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia coerente per un
determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune a tutti gli
umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in termini di
dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo Grassi Kristeller “al quale
dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo [...]
valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della tradizione
platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici di Friburgo
Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi alla
filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte. Il
testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente
dedicato alla memoria di Heidegger eletto da Grassi a suo maestro. Eppure
Heidegger, come ricorda Grassi stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore
alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale
romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di
paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza
dell’uomo”191. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 189 P. O.
Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento, tr. it. di A.
Gargano, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 90. Afferma Kristeller: “Diversamente
dalle arti liberali del primo Medioevo gli Studia humanitatis non includevano
la logica o il Quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica), e
diversamente dalle Belle Arti del Settecento gli Studia humanitatis non
comprendevano le arti figurative o la musica, la danza o l’arte dei giardini.
Non comprendevano neppure le materie principali che si insegnavano alle università
del tempo, cioè la teologia, la giurisprudenza o la medicina, o le materie
filosofiche all’infuori dell’etica, cioè la logica, la filosofia naturale o la
metafisica. In altre parole, diversamente da ciò che si è pensato molte volte,
l’umanesimo non costituisce il sapere e pensare intero o completo del
Rinascimento, ma soltanto un suo settore parziale, ben limitato, per quanto
importante. L’umanesimo aveva il suo centro e la sua base negli Studia
humanitatis. Le altre materie del sapere, compresa la filosofia (con
l’eccezione della filosofia morale) avevano un loro sviluppo separato, che era
in parte determinato dalla tradizione medievale, ma che fu poi lentamente
trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove, trasformazione in cui
anche l’umanesimo ebbe la sua parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e
indirettamente”, Id., L’umanesimo italiano del Rinascimento e il suo
significato, tr. it. di A. Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici,
Napoli 2005, p. 16. 190 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit. p. 35. 191
Ivi, pp. 35-36. ! 67! Dedicare un testo sull’umanesimo ad un
anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita poiché effettivamente
Heidegger appare molto duro nei confronti di una tradizione culturale che
avrebbe meritato, se non un giudizio differente, perlomeno una più attenta
riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale: “il presente lavoro è dedicato alla memoria di Heidegger che è stato
il mio maestro: anche il mio primo lavoro scientifico, iniziato negli anni
1929-1930 sotto la sua direzione e pubblicato nel 1932 (Il problema della
metafisica platonica) fu dedicato proprio a lui”192. Il magistero filosofico di
Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo
sollecitano nel giovane Grassi tematiche speculative che renderanno possibile
la problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes
(1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy (1980), ma anzitutto in Heidegger
and the Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo
Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo
pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in
cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica.
Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la
risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende
qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente
[...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment
nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come
in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y
a principalement l’Etre”194. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come
è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo195,
ed è inserita nel contesto della metafisica dell’umanismo che
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 192 Ivi, p. 17. 193 Ivi,
p. 29. 194 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F. Volpi,
Adelphi, Milano 2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo,
Mursia, Milano 1996, p. 40. ! 68! “non pone l’humanitas dell’uomo
ad un livello abbastanza elevato”196. Una metafisica di questo tipo, che eleva
l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo
Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il
soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando
all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né
inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è
l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad
accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per
un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia.
Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro
di Grassi con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella
tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La
connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia
l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo
tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come
renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono
rintracciabili nel contesto più generale della critica alla metafisica che
Heidegger conduce: “ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso
a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza
dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente,
l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere
[...] nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la
questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino
che si ponga una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è
un’antropologia ontica che muove da un ente senza tenere conto del riferimento
all’essere – il grande impensato della tradizione metafisica occidentale, rea
di un doppio occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι);
oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo
dell’ente). Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 196 M. Heidegger,
Lettera sull’umanismo, cit., p. 56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera
sull’umanismo, cit., p. 43. ! 69! al nesso essere-uomo significa
pensare innanzitutto a quell’uomo oggetto dell’orazione pichiana che accende un
dibattito filosofico nel 1487, promosso proprio da Pico della Mirandola199, e
che è dominata dalla centralità dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità
riconducibile all’essenza particolare del suo status ontologico. A differenza
degli altri enti l’uomo è quell’ente che non ha una essenza specifica, una
natura propria e definita, chiusa e circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo
è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni,
la libertà”200. Il problema posto da Heidegger circa lo statuto
dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare indifferente Grassi che ritiene
inaccettabili quelle affermazioni e che trova in Heidegger se non proprio un
momento di svolta201, uno spunto teorico importante per il tentativo di
risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il
problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che la definizione
che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica razionale deduttiva
che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli enti e il pensiero,
cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella tradizione umanistica c’è
sempre stata una preoccupazione cruciale circa il problema del disvelamento,
dell’apertura, dove il Da-sein storico può fare la sua apparizione. Per questa
ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare le categorie storiche che ancora
guidano il nostro pensare”202. Occorre precisare, secondo Grassi, che accanto
all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la prospettiva onto-antropo-logica
grassiana ha come scopo teorico proprio la chiarificazione del
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 199 Cfr., E. Garin,
L’umanesimo italiano, cit., p. 135. 200 Ivi, p. 136. 201 Parla di svolta
riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di Heidegger nel pensiero di
Grassi D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. Grassi versus
Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 25: “la
Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per Grassi, non solo nel
confronto con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua attesa è
rimasta delusa: non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento critico, o
meglio autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e italiana,
di quel che Grassi chiama Umanesimo [...] per Grassi si produce allora una
difficile e tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi,
questa rottura costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto
della sua originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma
riflessione filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal nostro punto di
vista, l’incontro a Todtnauberg tra Grassi eHeidegger, sebbene significativo,
non costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle
affermazioni sull’umanesimo espresse da Grassi nella produzione giovanile.
Infatti, la questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su
Machiavelli del 1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel
ventennio che intercorre tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già maturato le
coordinate fondamentali del suo itinerario speculativo, in cui certamente
Heidegger riveste un ruolo centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 E. Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70!
significato filosofico dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello
politico sono al centro della sua riflessione, ma unicamente lo statuto
speculativo di esso. In Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo
studioso afferma: “sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un
problema anzitutto filosofico e non storico [...] che significato può dunque
oggi avere un umanesimo?”203. Cercare di dare una risposta a questa domanda
spinge Grassi a misurarsi con le questioni della tecnica, del metodo e
dell’oggettività. Si tratta di accenni polemici che egli non discuterà a fondo
e dettagliatamente ma che ci consentono di comprendere quanto fosse viva in lui
la consapevolezza del declino di una visione globale dell’uomo e dell’emergere
del disancoramento dalla realtà che le scienze naturali cercano di ridurre ma
che al contrario contribuiscono ad espandere a dismisura: “qui nelle scienze
singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare
più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico
è per Grassi responsabile di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di
una de-realizzazione del reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione
dell’oggettivo svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che
invece mediano le scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il
risultato di un interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi
presupposti”205. Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è
la ricerca filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in
cui motivi etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente
in quel contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale
che l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del
discorso grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo
insieme una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in
cui il coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti:
esaminate !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 203 Id., Il
tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV, Umanesimo e scienza
politica. Atti del convegno internazionale di studi umanistici, a cura di E.
Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205 Ibidem. ! 71!
tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione storica dell’umanesimo
italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo attorno al quale la
ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il percorso onto-antropo-logico
di Grassi staziona a lungo presso il concetto di Lichtung, e non si tratta di
un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni friburghesi”. La
co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della prospettiva
onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di vista, il plesso
teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che successivamente avremo
modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia; quella sulla metafora e
la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero grassiano della Lichtung
ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di questo concetto, ciò ci
consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si staglia la particolare
declinazione che della Lichtung offre Grassi. II. V La Lichtung in Heidegger Come
ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung heideggeriana è un esempio di
etimologia per antifrasi come il latino lucus a non lucendo, dove il lucus, il
boschetto sacro, viene fatto derivare per antifrasi da lucere, perché esso ha
poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali: al luminoso (Licht e lux),
all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il termine Lichtung non ci
riferiamo ad una espressione metaforica per indicare ciò che si sottrae
all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di base di cui fanno
parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua capacità di creare
corrispondenze ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la concettualizzazione
filosofica della Lichtung206 si dipana nell’arco di più di 35 anni di speculazione
filosofica: dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 206 Resta ancora aperta
tra i critici la questione di una possibile traduzione efficace del termine che
conservi il senso filosofico originario senza andarne a ledere le relazioni
morfologiche e foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da Cicero
circa la traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né l’affinità
fonica e verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte
inapparente di ogni apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è
noto sono quelli di Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che
rende con radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella
di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita;
Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici
significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso,
Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg&Sellier, Torino 1993. Per una
ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali
di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, pp. 195-230, in M. Heidegger,
Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di V. Cicero, Bompiani,
Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in
M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e
politiche”, Giannini, Napoli 2015. ! 72! pubblicazione di Tempo ed
Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e
significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla
problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein,
Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del
filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale,
nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel
plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a
partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una
articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv)
verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in
volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di
Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen
naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o
dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità
propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di
un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente
semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre,
l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione
duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che
contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota
caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di
significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività.
L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che
può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si
tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il
riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale
dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 207 “Se invece si pensa
come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où
il ya principalment l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e
le plan sono lo stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62.
208 L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo
in un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto
la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non
chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale.
Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con
l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso
aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro
ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo,
tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165. ! 73! (ii) La
relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il
termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità
stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del
diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si
evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in
L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la
messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene
declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera
d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera
accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in
opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della
Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come
mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della
coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io
trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale
sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e
di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso,
come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di
manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del
soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha
più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la
condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci
all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica
esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento
dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 209 Il termine Offenheit
è impiegato soprattutto in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere
aperto e al contempo aprente contraddistingue la Welt come welten, come
farsi-mondo. Il mondo, infatti, come l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung:
istituzione, donazione e fondazione le quali aprono alla dimensione
dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente “insorga” in quanto essente,
assurgendo a dimensione della donazione di senso. 210 Id., L’origine dell’opera
d’arte, p. 51. 211 Id., Seminari, tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi,
Milano, Adelphi, 1992, p. 158. 212 Cfr., V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la
fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla
Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976. ! 74! omogeneo naturale213.
Inoltre, risulta impraticabile la deduzione dello spazio dal tempo, poiché
spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono
quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento,
all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi
aletico. Il concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e
soggiorno è strettamente connesso al concetto di Lichtung che dirada il luogo
di ogni manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e
oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. (iv) Il legame di
Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo paragrafo di Essere e
Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci, apertura e verità214. Qui
Heidegger afferma che un’asserzione è vera innanzitutto perché è apofantica,
ossia è manifestazione dell’ente215. Nell’ambito dell’analitica esistenziale la
verità è connessa ad un concetto di Lichtung da intendere, sia, come
Offenstandigkeit (come uno stare aperto da parte dell’uomo), sia, come
Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente). La grande sfida che si apre
alla riflessione del filosofo tedesco è quella di portare al linguaggio quello
sfondo sul quale si staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di
quel fondo nascosto e oscuro su cui si pone la luminosità del manifesto e a
partire dal quale possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità.
Preminente secondo Heidegger nella dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del
presentarsi della cosa, e non il Wassein, il contenuto essenziale. E proprio
tale separazione tra il contenuto dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha
generato per il filosofo tedesco quel “riferimento al vedere, all’apprensione,
al pensare e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 213 Ma
soprattutto dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul
fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di Essere e Tempo lo spazio sembra
emergere in netta subordinazione al tempo, alla temporalità
estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata dell’esserci nello
spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire l’impossibilità di
continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e Tempo: “il tentativo
di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di
Essere e Tempo non è più sostenibile”, M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p.
30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger afferma nel
contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è morto” del pensiero
diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello della della
geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali della vicinanza
e della lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea dello spazio
geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per
una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di
Essere e Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265. ! 75! all’asserire”216 della
verità che è caduta sotto il giogo dell’idea, con il conseguente mutamento
della verità in orthotes. (v) L’altro concetto fondamentale intrinsecamente
connesso a quello di Lichtung è quello di nulla, di cui Heidegger parla
soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è contraddistinto da una
peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung divengono sinonimi
perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e il ruolo di
annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua luminosità,
consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono quella
“notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno, radura
e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano in
quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di
questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per
acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica.
Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così
originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso un
indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali fondamenta e
a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come può
orientarsi? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 216 Id., La
dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann
e F. Volpi, Milano, Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si
dipana su un piano che è più strettamente analitico-esistenziale, nella
prolusione Che cos’è metafisica (1929) la questione si pone sul terreno
ontologico. Qui il discorso sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica
del rapporto tra essere e nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è
tanto l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello spaesamento – propria
dell’angoscia, quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di apertura dell’essere
– della stessa: «solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge
quell’originaria apertura dell’ente come tale [...] il niente è ciò che rende
possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano”, M. Heidegger,
Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia, cit., pp. 70-71. ! 76! II.
VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta grassiana Queste sono le sfide
che il pensiero heideggeriano pone e che Grassi rimedita in modo originale
coniugando Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva
un pericolo per l’esperienza autentica dell’originario Grassi individua una
possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non
metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e razionalistica.
Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi
del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo –
nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo
conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni
elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio
razionale e scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni
dell’uomo; il suo ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la
razionalità genera il terrore di cadere nel soggettivismo,
nell’arbitrarietà”218. Per il filosofo italiano occorre compiere un movimento
inverso a questa prospettiva e la riflessione sul tema heideggeriano della
Lichtung, connesso all’articolazione umanistica e vichiana del concetto,
rappresenta un tentativo di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per
Grassi quello compiuto da Heidegger è un regressus, un movimento di
retrocessione dal dato al darsi, che tuttavia si arresta all’Es gibt,
all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella Lichtung riecheggia quel φύειν
greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare, portare a manifestazione,
quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto del quale sente la
meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel quale ci si sente
situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione, forme, queste, di
mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in quella modalità
linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio come casa
dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro
intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli
antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva
metaforologica originale che coniuga l’analisi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
218 E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77! della
metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno
globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel
contesto della Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del
non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e
il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto
heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma
che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione
del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il
suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico
mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma
piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da
questo passo emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea:
si tratta di una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung
heideggeriana pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base
dell’evento, della manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere
al quale è chiamato l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota
linguistica perché l’appello dell’essere che avviene nella dimensione della
Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi
rimarca più volte la retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung:
interpretata come riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere
la Lichtung compare già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle
che riguardano il linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il collega
di corso di Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva risalire al
1914222, in realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger e Ortega di
secoli. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 219 Id.,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I
corsivi sono nostri. 221 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale,
cit., p. 21. 222 Ortega ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a
Heidegger, di alcune intuizioni filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o
due concetti importanti di Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con
un’anteriorità di tredici anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un
tedesco (1932), in Id., Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003,
pp. 15-48: p. 47, nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua
autointerpretazione, si sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger
sono quelli di essere, verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei
concetti ora ricordati rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp.
67-78, in “Studi interculturali”, 1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare
all’attenzione i passi orteghiani del 1914 in cui si dice sia prefigurato il
concetto heideggeriano di Lichtung, ! 78! Secondo il filosofo
milanese, infatti, il problema della radura risale alle riflessioni
dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi umanistici un secolo fa,
con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e Garin, gli studiosi hanno
costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e
dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione, largamente diffusa, è la
ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente impegnato in polemiche
contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un ingenuo antropomorfismo. E
tuttavia uno dei !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! reso
con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo l’idea di
verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914, affermava che:
“la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea che possiede,
però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo nome greco,
aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola più tarda
apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento,
toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri
saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p.
68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in
Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre
lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo
Ortega “il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo
nome conserva un alone di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il
bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco
si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto
rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come
l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole
capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da
una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte
nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe
di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes
metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della
metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente
filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo
estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si
materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura
viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un
naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di
affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare
le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un
movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua
funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset,
Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco
e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una
“pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà
possibile constatare che il tema della metafora svolge una funzione
fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché
tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo
nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione,
una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera
nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”.
J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia, Sossella,
Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è un’operazione
metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...] così, se quanto
diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere che
perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la metafora”, J. Ortega
y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46. Cfr., G. Cacciatore,
Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013 soprattutto il
saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset”, pp.
47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere.
Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y Gasset, Moretti e Vitali,
Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e linguaggio ingegnoso in
Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a cura di), Simbolo,
metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico- scientifica e
giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora
come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2, 2014; F.
Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A.
Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007,
pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida,
Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A
proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di
Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G.
Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e
interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”,
Trieste 2015. ! 79! problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo
bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui
appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove
come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche
coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre
all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una
tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il
linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione
ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi?
Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale,
del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente
antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con
quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più
dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da
Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione
dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung nel
pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo
anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese
sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si
tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos
è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni
del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a:
“l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti
precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di
una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita.
Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad
una molteplicità [...] !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
223 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem.
Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte
abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di
ipotesi dualista M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA.
VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 10. Completamente opposto è
il giudizio di Rita Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di
logos e pathos. Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica
e umanesimo nel pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84. !
80! è radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra
originaria tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda
dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un
momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b:
“il termine retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del
pathos – “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può
essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il
discorso che costituisce la base del pensiero razionale”227. Come conciliare
allora il periodo a -! “si conferma la nostra originaria tesi della precedenza
del logo [...] il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un
particolare modo del leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il
discorso che costituisce la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte
durante tutto il suo iter di pensiero la necessità di una ricomposizione di
queste due vie del filosofare tanto che giunge ad affermare che le analisi
svolte sull’umanesimo sono da concepire come “uno sforzo per gettare un ponte
tra logos e pathos”228. A questo punto si impongono una serie di osservazioni:
Grassi non parla in maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera
univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme
di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio
sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un
logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il
suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo
del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un
nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla
logica del pensare, dell’atto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 226 E. Grassi., Il
problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id., Retorica e
filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The Pennsylvania
State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi
sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., p. 170. ! 81! pensante, che porta a manifestazione. La
lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica
coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la
convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein
radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di
porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229.
La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è
quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto
fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade
la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che
appare? Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio?
Se da un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta
connesso strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso
logos-pathos (poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della
manifestatività dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una
connessione molto interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la
Lichtung heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben
più complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza
del momento patico e di quello logico determina la forma della manifestatività.
Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale
per Grassi e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo esplicito
negli anni della maturità), sia già presente nella produzione giovanile
riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività e
dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo
sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di riferimento
centrale all’interno della prospettiva grassiana, sia per quanto riguarda
il valore della parola poetica
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 229 Analizzeremo in modo
approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo. ! 82! come
linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e le
luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come
metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche
mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche
degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231
latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il
problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere
sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema
della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è,
l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il
primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio
razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della
Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con
il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e
significanza filosofica: Giambattista Vico”232. In Potenza della fantasia. Per
una storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della
fantasia, del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura
dell’“ultimo umanista”: Vico. Grassi pone il seguente problema: “quando, come e
dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla
natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung.
Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal
caos originario) è un processo che parte dalla originaria estraneazione
dell’uomo, intesa da Grassi come “angoscia originaria dello smarrirsi nella
foresta primordiale”234 e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo
antropologico, approda all’istituzione della comunità umana mediante la parola.
Questa più che configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso
saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad
essa connesso !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 230 Cfr.,
L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti
in memoria di Ernesto Grassi, cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J.
M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en
Vico y Ortega, cit., pp. 146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza
della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi,
p. 253. ! 83! – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo
umano, mostrando una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce
nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi
rintraccia l’autentica caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano.
Infatti per Grassi la Scienza Nuova vichiana delinea il problema del
disvelamento in cui appare l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente
affronta la questione della storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul
confronto tra la dottrina heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana
delle luci. Nella Scienza Nuova appare la problematica principale del filosofo
napoletano: quella del disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo
mondo attraverso l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico
che tramite l’atto linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana
fa perno sul passo vichiano della Scienza nuova in cui la teoria
pre-heideggeriana della Lichtung comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema
della Lichtung è correlato a quello vichiano della “schiarita della foresta
primordiale”236. Mettere insieme Vico e Heidegger segnatamente al tema della
Lichtung è per Grassi un’operazione che ha come esito un esame della metafisica
in generale e non solo di una metafora, per quanto importante, della filosofia
occidentale. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza. Il gioco
delle analogie tra Vico e Heidegger che possiamo ricostruire – come di fatto è
stato ricostruito magistralmente da Amoroso237 –, per quanto interessante,
rischia di rimanere molto generico se non calato in un orizzonte teorico più
ampio che fa interagire i due autori sul terreno della metafisica. Conscio
della grande distanza che corre tra il tentativo vichiano di una riforma della
metafisica e di quello heideggeriano di un suo superamento, ma nondimeno
consapevole della contrapposizione di entrambi alla “barbarie della riflessione”
e ai trionfi della ratio, Grassi pone l’accento sul tema della Lichtung quale
terreno di confronto tra due autori che alla ritematizzazione di un rapporto
autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato gran parte delle proprie opere.
La metafora che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 235 Ivi,
p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico,
Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E.
Grassi, parzialmente modificato in Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp.
99-122. ! 84! Grassi eredita dal maestro degli anni mitici di
Friburgo, come abbiamo visto, declina la dimensione della luce con quella
dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene rintracciata in Vico. Ovviamente
la metafisica della luce, che è a fondamento della scienza nuova, va intesa nel
senso di un neoplatonismo cristianizzato. Nella metafisica del suo De
Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la chiarezza del vero è come
quella della luce. Qui la luce vale come metafora della verità metafisica di
Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il
vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e
pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché è il principio
infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè formate e
finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico”238. L’alternanza
di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un neoplatonismo cristianizzato
e non come l’esempio di quell’impensato della tradizione occidentale
contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore heideggeriano. Perché
dunque Grassi mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe definito Vico un
appartenente alla costituzione onto-teo-logica della metafisica – su un tema
che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio
poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al
Geschick, quel destino che genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al
ruolo fondativo della poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico
quale casa dell’essere – è significativo il tema della intima co-appartenenza
di luce e oscurità nella analisi della genealogia del mondo umano. Secondo
Grassi “l’unico pensatore che [...] avrebbe potuto aprire la comprensione per
il pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger”239 poiché la Lichtung
heideggeriana è molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni
rientrano in un pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura
innanzitutto linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime
città, quali tutte si fondarono in campi
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 238 G. B. Vico, p. 84,
La metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica
Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della
Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura femminile della
metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei
caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere
la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e civile.
Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 Grassi,
Vico e l’umanesimo, p. 194. ! 85! colti, sursero con lo stare le
famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi
religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e,
conl’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre
bruciate dentro il chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale
sorprendente convergenza di temi Grassi sottolinea come la dimensione di
apertura del lucus vichiano analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette
in questione il tema dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e
del sacro. Il Vico di Grassi, antropologo delle origini, avrebbe attribuito una
centralità a quella dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo
comune241. La ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto
originario – la Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche
linguistiche che in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e
sull’etimologia e in Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana
secondo Grassi è una mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei
primi uomini allo stato di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo
alla genesi del linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della
storia. La questione della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma
diversi umanisti che si sono interessati alla questione della radura, del
contesto originario all’interno della disamina del valore della parola poetica.
Se la questione della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema
dell’individuazione e dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno
originario dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la
possibilità di retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica
non sembra tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla
metafisica tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire
non una nuova teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la
scienza “del disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse
interpretare !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 240 G. B.
Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012,
p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia in
Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp.
115-117. 243 Ibidem. ! 86! il pensiero del napoletano come
un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe poiché “il problema
di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La questione del contesto
originario si declina in Vico come ricerca arcaica del “disvelamento della
foresta primordiale” che altro non è che il problema del fondamento del mondo
umano, identificato nei principi “universali ed eterni” che soggiacciono al
divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato il filosofo milanese
individua numerosi punti di contatto con la teoria heideggeriana della
Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e l’angoscia originaria
dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della natura. In questo
“atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine dell’umano e la
fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa terra”245. Il
passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo all’animale, mette in
moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata dalle menti primitive –
i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano verso un percorso faticoso
che va dalla barbarie agli ordini civili. Il significato della luce vichiana è
infatti innanzitutto civile, politico e comunitario. Come sottolinea Carillo
“il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto
all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del termine vichiano luce
Grassi mette in rilievo soprattutto la valenza di interruzione nella frequenza
della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e Heidegger (1983) “nel
terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua alienazione dalla natura,
questi crea e fonda il primo luogo umano nella storicità, il regno della
fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale – in cui si fa esperienza
dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della storicità. Appare il
tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di partenza per una
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 244 Id., Vico, Marx e
Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 182. 245 G. B. Vico, La Scienza
Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico. Origine e genealogia dell’ordine,
Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E. Grassi, Vico, Marx e Heidegger,
pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 181. ! 87!
ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il significato di indagine
archeologica-filologica ma il senso di una ricerca fenomenologica sui
presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla metafisica. Il
nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il concetto
heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli esseri
appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui appare
sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta (schiarita nel
bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e l’uomo nella sua
umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema dell’apparire e
del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica dell’ipotesi interpretativa
grassiana: il tema della Lichtung non è altro che la metafora pretesto per dare
avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e dell’apparire della realtà. Al
problema del reale, dell’apparire e della manifestatività, su cui ci
soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il già citato Dell’apparire e
dell’essere del 1933 in cui la manifestatività si costituisce non nella
modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è colpito
dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non in una condizione di
pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di progettazione e
umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene per Grassi un
pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la metafisica non
deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti ma dalla
parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua filosofia
risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il filosofo
milanese afferma in G. B. Vico filosofo epocale che “la sua opera – quella di
Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a poco appaia
(phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose sfaccettature
del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del termine; nesso
lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – Grassi si
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 248 Ivi, p. 177. 249
Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in Id., Vico e l’umanesimo,
cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto interessante risulta la
ricostruzione etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De Constantia
philologiae “donde il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani custodirono
queste altre vestigia di una siffatta antichità. Dai ! 88! sofferma
sul senso ontologico-trascendentale del termine vichiano coniugando in maniera
originale i temi heideggeriani e vichiani in una prospettiva che vuole essere
l’occasione per un ripensamento della filosofia che riconosce la propria
matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si tratta di un pensiero che
passa “dalla metafisica degli enti a quella dell’agire, della prassi umana”252:
per Grassi occorre partire dalla tematizzazione delle necessitates come fonti
naturali dei mondi umani. Egli definisce l’ingegno – che non esclude mai il
processo razionale – come teoria che “scopre ora e qui similitudini,
connessioni, apre la premessa per un processo razionale, che deduce dalla
scoperta inventiva le conseguenze e quindi costruisce un mondo”253. L’ingenium
è allora l’originaria capacità di vedere il simile ed è la prima risposta a
quelle necessità naturali alle quali l’uomo deve far fronte nel faticoso
percorso di sopravvivenza e di civilizzazione. L’ingegno può essere comparato
per la sua struttura dinamica e multifunzionale a quel processo che gli attuali
studi sull’apprendimento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
celati accoppiamenti degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli
(latibula) che offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la
sua prima origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere
giuridiche, introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze
1974, p. 524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus
e l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo
che “abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu
inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo
al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e
così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui
non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte
dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit.,
p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del
termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia
dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al
termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in
Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di
suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco,
venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione
nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno
slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il
senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare, attraverso
uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia trarne gli
auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo
sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De Costantia
philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto semantico
opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In quest’accezione in
cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per antifrasi la sacertà del
bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di qui la possibilità di
ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi sacri ai primi
abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si combina alla
descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è che la
trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco
diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p.
203. ! 89! definiscono come problem solving254: si parte da una
condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano
strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero
creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto
la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo
stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua
identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che,
come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità
delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come
universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza
che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto
mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura
razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora.
La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte
“d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo
quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. Grassi sostiene
che “se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le
necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259.
Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per Grassi non è astorico,
razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende
come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non
hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti
indicativi, semantici, anche il tacere, acquistano
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 254 Per un’analisi del
problem solving cfr. il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di
matematica. Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255
Cfr., Significare arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p.
199. 257 Ibidem. 258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro. !
90! significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che
ci riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come
nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la
storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica;
mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si
compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della
ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere
dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività
all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario
– la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei
termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli
“invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione
specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della
comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica
– corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del
reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi
e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del
reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione
del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione
(Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e
di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non
viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta
il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera
esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx
si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si
chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 260 Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il
problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G.
Petrovic, Marx, lavoro e abbandono. Lettera a Ernesto Grassi, pp. 127-157, in
AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ! 91! aprioristica
scolastica – con la conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica
e alla retorica – possano essere in definitiva considerate valide e concrete o
ricadano dell’astrattismo medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti
oppongono alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la
loro pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La
sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione
originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La
giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto
manifestazioni della storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia
dell’evoluzione dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del
lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti
economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-)
il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è espressione di una
volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx
l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che
produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua
attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda
definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il
superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del
lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che
diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa
l’appropriazione della natura a favore dell’uomo”265.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 262 E. Grassi, Marxismo,
Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e
l’umanesimo, cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori
Riuniti, Roma 1976, Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 84. ! 92! 3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito
come essere libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia
libero. Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la
natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il
lavoro ha una funzione sociale. Secondo Grassi l’importanza del lavoro come
fattore di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è
rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della
giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il
cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della
fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico
considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due
fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il
pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della
fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la
triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria
libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la
fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a
costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il
filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime
connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare
un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di
concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della
filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge
una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci,
dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una
teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 266 ivi, p. 85 267 ivi,
p. 86 268 ivi, p. 89 269 Ibidem. ! 93! sia concettualmente monca e
praticamente inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro –
come il superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di
essa – l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse
dell’uomo differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora
solo per il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo
con i suoi modelli congeniti, allora il problema circa il significato
dell’adattamento della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col
dire semplicemente che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col
riferimento alla sua attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo
scopo specifico di questa mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di
questo problema, ci troviamo ridotti a dire che l’animale è un essere molto più
alto dell’uomo”270. In quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la
quale se è vero che il lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile
nella misura in cui non si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il
metabolismo della natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri
come atto di mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel
concetto di lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del
telos che la sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale.
Secondo il filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un
mezzo in vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la
fantasia rivela il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie
alla facoltà di visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare
la natura implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso.
L’intima coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di
quella fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione
grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo
storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium
e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale
nel suo significato !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 270
Ivi, p. 93. ! 94! umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal
modo il reale diventa storico, si umanizza quale opera dell’ingegno”271. Se, da
un lato, allora, il presentarsi della manifestatività rende affetto l’uomo, e,
colpendolo, ne rivela la componente di passività, il suo essere soggetto-a,
tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è
quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il
lavoro. Per Grassi infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura,
l’essere “appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è altrettanto
vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività.
La constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la natura dà
entro i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra progettazione, del
nostro lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è un’operazione
soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in
volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo –
significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività
ordinatrice della materia primordiale che per Grassi “ci impedisce di trovare
una qualsiasi unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del pensiero”273.
Il tema della determinazione concreta del reale risulta strettamente
intrecciata a quello del lavoro umano nel suo significato ontologico
trascendentale e a quello della fantasia come “attività originaria che scopre
le relazioni sulla base della visione delle somiglianze”274 e non come
“attività che ci presenta qualcosa di irreale”275, come “rappresentazione
dell’irreale, come pura facoltà della finzione,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 271 E. Grassi, Politica
e religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43, in “Archivio di
filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni grassiane sul lavoro mostrano
molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e
come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV
Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di
filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In relazione
all’attività ordinatrice della selva originaria Grassi in questo saggio parla
di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile – il
significato secondario – sia come attività del lasciar apparire – significato
ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e leghein. 274
Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276. ! 95!
come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo caso essa è una
ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa e combinatoria
delle immagini, senza avere come punto di riferimento il referente reale delle
immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La fantasia ontologicamente
intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro è capace di istituire il
mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della natura, che l’uomo realizza
con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque dall’attività
fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si ritrova nella teoria
vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del senso comune e
della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il senso comune,
secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo ciò che gli è
utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come l’ingegno e la
fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista fra di
loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo umano e
dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il lavoro,
catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole
ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono
una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione,
cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del
successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come
la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come
un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della
natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane”281.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 276 Ivi, p. 191. 277
Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi, Potenza
della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della
fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and
Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e
l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52. ! 96! Il
labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di
significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani
vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del
linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si
intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di
pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione
storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove
si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della
situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione
del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro
attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è
possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte
della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza
filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio
questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista
costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il
significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”,
che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a
“semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286.
Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può
asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di Grassi assume un ruolo
centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di
Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger
qualche !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 282 Ivi, p. 51.
283 Ivi, p. 52. 284 Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S.
Limongelli in Il problema dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pubblicato
originariamente in Giambattista Vico’s Science of Humanity, the John Hopkins
University Press, Baltimore (Maryland) 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 85. 286 Ivi, p. 93. ! 97! anno dopo287 – concordano nella
critica alla filosofia a priori e al pensiero teoretico contemplativo: il
problema vero della filosofia è quello “delle origini del divenire umano e,
conseguentemente, della sua realtà storica”288. La critica all’impostazione
metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia per il filosofo non riesce a
superare lo schema del pensiero tradizionale. Leggiamo in Vico, Marx e
Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che Marx riteneva di aver
compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo schema del pensiero tradizionale
[...], la sfera di un antropologismo”289. Pur ritenendo fondamentale la teoria
dell’alienazione – che “indica l’assenza di radici dell’uomo occidentale”290 –
per delineare una via di accesso autentica all’umano Grassi – sulla scia di
Heidegger –considera poco sostenibile l’identificazione di umanità e socialità
operata da Marx291. Tale identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione
del materialismo a pensiero della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie
la lezione heideggeriana per la quale la tecnica è estrema propaggine della
metafisica. Ma occorre andare oltre la “barbarie della riflessione” e qui
interviene Vico che di volta in volta supera, secondo Grassi, i limiti delle
prospettive toriche degli autori – in questo caso Marx e Heidegger – in una
sintesi filosofica che coniuga giurisprudenza, poesia e retorica con le
tematiche del lavoro e della Lichtung. Asserisce il filosofo milanese che “il
lavoro per Vico è un adattamento dell’impatto diretto e immediato con la
natura, un adattamento mediante il quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli
sceglie le figure di Ercole e Cadmo come simboli di essa”293.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 287 Cfr., Id., Vico,
Marx e Heidegger, apparso in origine in Vico and Marx. Affinities and
contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (New Jersey) 1983, ora in Vico
e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id., Marxismo, umanesimo e problema della
fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92. 289 Id., Vico, Marx e Heidegger,
cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p. 190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. !
98! L’uso vichiano dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e
propria tipologia poetico-simbolica utilizzata ai fini della comprensione delle
origini mitiche della storia dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è
finalizzato alla rappresentazione della faticosa impresa umana della
costruzione della società il cui mito, narrato nella Scienza nuova, non appare
a Grassi come una concessione al gusto antiquario della ricostruzione erudita
dell’antichità ma come il simbolo “dell’assoggettamento della natura [...] che
porta all’autoaffermazione dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la
sua teoria dei generi e degli universali fantastici non mediante l’astrazione,
ma creando, secondo i suoi termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari
[...] così il concetto fantastico cristallizza un essere attraverso un atto
dell’ingegno con una visione diretta di una totalità pittorica. Esso
rappresenta una figura contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale
logica della fantasia fondata sui generi universali e fantastici assume il
ruolo di primo coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante
rispetto alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo
degli universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il
ruolo di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica
dell’uomo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 294 Come
osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al genere
fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del
pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose
naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id.,
In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne
danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle
Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e
fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del
Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose,
ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o
universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali
tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G.
B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua
ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale
menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle
città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44
che “questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi,
dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si
poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’
lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII.
Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G.
Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178,
in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema
della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p.
54. ! 99! Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola
attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano.
L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella
quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di
fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura
afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole
[...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298.
Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima
teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la
fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con
l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il pensatore:
“quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà
rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera decisione di far luce
nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”299. Quale
importanza Grassi annetta al ruolo, al contempo storico e
filosofico-speculativo, che svolge, nel complesso del suo itinerario
onto-antropolo-logico, la questione dell’origine dei processi storici
dell’umanità è testimoniato dalla collocazione del tema della Lichtung – che
accomuna Vico e Hiedegger – accanto a quello del lavoro – che vede fianco a
fianco Vico e Marx. Sostiene il filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo
l’opinione di Vico, grazie alla radura aperta nella foresta originaria”,
attraverso il lavoro, “divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani,
ma anche la possibilità di computare il tempo”300. Si intrecciano
indissolubilmente le questioni del disvelamento/Lichtung – la vera “chiave
maestra” della lettura grassiana degli umanisti – quella del lavoro nel suo
significato esistenziale e quella delle strutture dell’esistenza umana. Nella
prospettiva del pensatore milanese è attraverso il lavoro, l’atto di
umanizzazione della natura – il disboscamento
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 298 G. Vico, Sn 44,
cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 251. 300
Ibidem. ! 100! della selva primordiale – che si apre quello
spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose” dicibili
solo attraverso un linguaggio poetico. ! 101! CAPITOLO III LA QUESTIONE
DELLA METAFISICA IMMANENTE IN ERNESTO GRASSI III. I. La struttura
onto-antropo-logica del pensiero di Grassi Come è emerso dalle precedenti
riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della
Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa
concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana.
Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora
ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della
metafisica immanente o ontologia situazionale301 grassiana e sul nesso
essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di
ricerca Grassi enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che
contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica
dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti
– e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di
critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in
Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret ico. Egli
afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia
sul terreno speculativo sia su quello storico in un articolo del 1932 su Jaeger
Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa
essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire
concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo [...] può avere il
suo fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo
deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche
storicamente”302. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 301 E.
Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte,
Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi scritti, cit., p.
258. ! 102! La ricerca grassiana si configura, da un lato, come
riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti
ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo
essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger.
L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce a “una
mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una
meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema
della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico
dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche
successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli
autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come
Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger,
il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema
della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale,
affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti
ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione
due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo
compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata
dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture
dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire
“ontologia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 303 Id., Il
confronto con la filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit.,
pp. 871-886, p. 883. 304 Per Grassi occorre distinguere una pseudo-filologia,
priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una
filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua
formazione: “come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio
con l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare
italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il
problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola
antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito
umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su
un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato
rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo
l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema
della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si
stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere
dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del
testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza
dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per
lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”,
ivi, p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle
moderne scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito
delle scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della
formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo
sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi
tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e
soltanto in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium,
in quanto siamo esseri storici”. ! 103! fenomenologica semantica” di
Grassi, in cui il tema dell’essere, identificato con quello della
manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello
semantico, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel
fondamentale saggio Significare Arcaico (1966) in cui è condensato tutto il
valore della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del
contenuto tematico di questi contributi è possibile una più profonda
comprensione delle indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici
su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente
Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e
dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione
e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza
della filosofia (1945), saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e
della manifestatività, i quali mostrano la volontà grassiana di recuperare
un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma
rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che
sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire.
In questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con
l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,305
rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della
Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale non come esempio di gnoseologia
inferior o teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della
manifestatività dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il
tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza
di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959). In quest’ultimo
gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che trovano un’articolazione
in una analitica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 305 Per
una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane
nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit.,
soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca:
l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi,
Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. !
104! esistenziale che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo
del Da-sein”306. Le osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul
fondamento teorico – l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla
rivalutazione di Grassi dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la
riflessione grassiana sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico
dei saggi giovanili dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e
delle idee connesse di disancoramento, angoscia, coscienza temporale
umanistica, oggettività, dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto,
Grassi mostra nella sua disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei
confronti delle letture storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso
gravate dal pregiudizio idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di
una collocazione del tema onto-antropo-logico sul terreno strettamente
speculativo, teoretico. Nella prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è
diventato più che mai polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista
storico, si parla di un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di
un umanesimo da un punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni
affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico: si
tratta dunque di delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda
chiara posizione di fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si
rispecchia la nostra attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo
può oggi avere un umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo
dell’umano, al di là della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi
significa affrontare il problema della reinterpretazione antitradizionale della
filosofia umanistica nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito
il fulcro e la svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione
copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà
degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in
precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola
come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel
processo di determinazione di una teoria dell’uomo che
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 306!E. Grassi, Potenza
della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento
della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con
Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che
derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della
preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di
un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.
! 105! mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture
fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia
filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 –
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 309 Max Scheler in La
posizione dell’uomo nel cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca
antropologica come scienza fondamentale dell’essenza e delle strutture
essenziali dell’uomo. Esplorare la dimensione umana e la sua posizione nel
cosmo comporta un confronto con le dimensioni della spiritualità del conoscere,
dell’amare, del volere. Per Scheler l’indagine sull’uomo della nuova
antropologia prende le mosse da ciò che è esterno all’uomo per poi indagare e
definire la sua essenza: “è compito di un’antropologia filosofica mostrare
esattamente in che modo scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo,
tutti i monopoli, le funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua,
la coscienza morale, lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo
Stato, l’azione di guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la
religione, la scienza, la storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione
dell’uomo nel cosmo, a cura di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler
analizza l’impulso affettivo “privo di coscienza, di sensazione e
rappresentazione” che è presente nelle piante e nei gradi più bassi del mondo
organico; l’istinto che è un comportamento teleologico; la memoria associativa
il cui fondamento è il processo del riflesso condizionato, basato sul principio
del successo e dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in
maniera spontanea ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica
caratterizzante la facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante
fondamentale tra l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di
spirito, il Geist che rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da
parte dell’uomo e lo svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la
caratteristica principale di un essere spirituale consiste nella sua
emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella
capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi
dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con
la vita [...] un essere spirituale non più legato alla tendenza e all’ambiente,
ne è libero, e perciò aperto al mondo”, ivi, p. 144. 310 Per Plessner occorre
partire dal concetto di vita che costituisce la “parola chiave di un’intera
epoca”, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini, Bollati
Boringhieri, Torino 2006, pp. 27-28. All’interno della impostazione
plessneriana l’uomo è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica:
l’eccentricità è la disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del
quale si trova de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico.
Introduzione all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi
antropologiche fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui
l’uomo non vive in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo
artificiale, costruendo a partire da una natura una cultura; la legge
dell’immediatezza mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato
in precedenza in modo immediato attraverso forme di mediazioni quali
invenzioni, scoperte, conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che
l’uomo prende le distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un
fondamento assoluto del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma
che “la sua forma eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni
che possono essere soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti
artificiali e insieme imprime loro il marchio della caducità”, ivi, p. 363. 311
Arnold Gehlen si pone sulla linea di ricerca scheleriana elaborando una idea di
uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, partendo dai
risultati multidisciplinari delle scienze positive. L’antropologia “elementare”
gehleniana, partendo dagli aspetti più semplici che accomunano l’essere umano
all’animale sottolinea allo stesso tempo la specificità dell’umano che consiste
paradossalmente nella sua indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi
sono contraddistinti da un indice di specializzazione alto come testimoniato
dallo sviluppo della percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza
che però stimola latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono
l’uomo autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di
tutto l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave
per poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al
fine di assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per
una serie di caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e
istintuale; la sua “incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già
Herder aveva tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava
all’uomo come ad un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un
essere privo persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la
“deficienza organica” e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò
considerate alla luce dell’idea cardine della “non-specializzazione”: [...]
primitivo è = non specializzato = originario, o in senso ontogenetico
(embrionale) o in quello filogenetico (arcaico). Per specializzazione è da
intendersi la perdita della pienezza delle possibilità esistenti in un organo
non specializzato, a vantaggio del grande sviluppo di alcune di queste
possibilità a spese di altre, cfr., A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo
posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, pp. 127-128. Accettando il paradigma
interpretativo della carenza si pone il problema di coniugare questa non
specializzazione umana con il suo esser collocata all’interno di una catena
biologica evolutiva. La dotazione organica non specializzata dell’uomo e i suoi
primitivismi rendono problematica la sua esistenza che solo grazie all’azione e
alla costitutiva apertura al mondo continua e progredisce. Categoria
fondamentale all’interno ! 106! elaborano le note teorie sull’uomo,
Grassi, forte della sua formazione culturale a metà strada tra filosofia
italiana, filosofia tedesca e francese, sente l’esigenza di indicare
l’insufficienza sia di un approccio scientifico all’uomo sia i limiti di una
impostazione speculativa classica mediata soprattutto dalle letture
heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso l’analisi delle teorie degli
esponenti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
dell’antropologia gehleniana è quella dell’esonero Entlastung che indica la
capacità umana di distaccarsi dagli oneri del mondo esterno. L’esonero
costituisce il primo atto per spezzare il cerchio dell’immediatezza e per
liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve allontanarsi dalla
pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una distanza sempre
maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt, l’ambiente, in un mondo
abitabile, la Welt. ! 107! della biologia teoretica quali
Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315, Grassi cerca di
porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla confusione del
“contributo delle scienze con quello della filosofia”316 . Accogliendo la
critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 312 Hans Driesch
(1867-1941) fu un biologo e filosofo tedesco. Egli lavorò a Napoli presso la
stazione zoologica dal 1891 al 1900 e successivamente insegnò a Heidelberg tra
il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a Colonia e Lipsia.
Fu convinto assertore del vitalismo contro la teoria meccanicistica di matrice
darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la valorizzazione del finalismo
della natura e verso il riconoscimento dell’importanza dell’entelechia,
concetto ripreso da Aristotele, interpretata come principio immanente superindividuale.
Tra le opere più importanti ricordiamo Storia del vitalismo (1905), Filosofia
dell’organismo (1909), Corpo e anima (1916), Il problema della libertà (1917),
Metafisica (1924). Di Driesch Grassi mette in luce il neo-vitalismo presente
nelle osservazioni sulla vita organica e l’importanza del concetto di
entelechia esposto dal Driesch in Philosophie des Organischen. Grassi, in
Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, sostiene che “in
molti ambienti la filosofia rimane concepita sul fondamento delle scienze, cioè
sintesi e classificazione di fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere
in questa forma un reale valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di
concezioni simili si scorge oggi in tutta quella corrente speculativa della
filosofia tedesca contemporanea che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza
naturale elaborata in filosofia, filosofia della natura, che in realtà non
diventa che un prospetto empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi
naturalistiche. Appartengono a questa corrente di idee il Driesch, o zoologi
come il Plessner – che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di
raggiungere una costruzione metafisica [...] nella sua Philosophie des
Organischen a mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e
mettendo in luce con osservazioni biologiche l’originalità della vita organica,
egli giunge ad una concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche,
la sua teoria dei sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed
egli concluse che accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un
organismo, è necessario ammettere un nuovo fattore, che egli chiama
entelechia”, in Id., I primi scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr., anche Linee di
filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., pp. 299-332, in
particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305. 313 Di Plessner
Grassi evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico all’umano
inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una filosofia
fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come Plessner,
scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit der Sinne.
Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un altro
volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die
philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le
osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una
concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e
affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della
realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e
risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito,
ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione grassiana – di evidente
ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie
filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono
collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea
di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul concetto
uexkülliano di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie
sia nel saggio Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p.
205) sia più diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in
Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo,
Buenos Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi sottolinea la connessione
istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. !
108! si è messo a servizio della scienza espressa in Logica317
Grassi asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa
“si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318.
L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano
che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi del
procedere naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle
generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il
riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano,
alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica
esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto
appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e
Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione
dell’atteggiamento speculativo grassiano. In Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia,
metafisica esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch
“presenta una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due
pensatori, l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio
del XX iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che
senso si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella
metafisica immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza
l’attualismo323? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 317 B.
Croce, Logica, Laterza, Bari 1920, p. 264: “perché quando non si tratta d’altro
che di classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a
ragione di non aver bisogno del soccorso dei filosofi”. 318!E. Grassi, Il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem.
320 Ibidem. 321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo e fenomenologia
gli articoli di indole informativa generale che seguono: Id., Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e
significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea,
in Id., I primi scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine grassiane su
Heidegger del saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano,
Philosophie des menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den
Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323
Già nel saggio del 1929 Sviluppo e significato della scuola fenomenologica
nella filosofia tedesca contemporanea (in Id., Primi scritti, cit., pp.
181-202) Grassi, sviluppando in forma più articolata le poche battute su
Heidegger contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca
contemporanea (p. 174), afferma quell’identità di problemi tra attualismo !
109! La “meditazione diltheyana” di Grassi si focalizza soprattutto
sui concetti di Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di psicologia324.
Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il primo a intravedere il problema della
realtà e della storia come problema della realtà vivente, rivendicando
l’importanza dei sui scritti speculativi e tralasciando quella dei testi a
carattere maggiormente storico325. In Empirismo e naturalismo nella filosofia
tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il problema dal quale muove Dilthey,
quello della distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di
scarsa importanza in sé rileva Grassi, va ricondotto alla più generale
operazione teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale delle scienze
dello spirito individuato in “una scienza di carattere psicologico. Gli
elementi del mondo storico sono gli individui, quindi lo studio di essi e la
descrizione dei vari tipi di vita spirituale diventa la base della comprensione
storica [...] l’esame della struttura della vita dello spirito cerca di
conquistare nella molteplicità di situazioni coesistenti la sua caratteristica
unità”326. La psicologia diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni
concreta realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in
cui si realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! e ontologia
immanentistica heideggeriana che in Il problema della metafisica immanente di
M. Heidegger del 1930 troverà una articolazione teoretica più approfondita.
Infatti, in Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia
tedesca contemporanea leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti
speculazioni metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del
tentativo di Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero
fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p.
198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle
osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll.,
Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica,
pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova
2003; Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione
fondante di conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e
metodo critico, Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e
oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia
delle visioni del mondo tra critica storica della ragione ed essenza della
filosofia, pp. 153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e
Husserl, pp. 249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e
storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola.
Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e
relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa
2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi
inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per
alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori
storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più
notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle
indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai
suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande “Geistesgeschichtsschreiber”
dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che Dilthey desta in seno alla
filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in modo particolare sulla sua
figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai suoi scritti di carattere
speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e naturalismo nella filosofia
tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi, pp. 172-173. !
110! passaggio auspicato dal pensatore milanese da una “teoria dell’atto
di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane incompiuto nel filosofo
tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una volta riconosciuto il
tratto fondamentale del reale nell’atto completo di comprensione, se ne coglie
al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce ogni relativismo”327. Così
per il filosofo italiano Dilthey ricade nell’astrattismo di una “tipologia che
prese il posto della filosofia”328, la quale riduce la fondamentale categoria
della Lebenzusammenhang a forme astratte, a classi e tipi e al relativismo329.
Se le riflessioni su Dilthey pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza
concreta e le strutture psicologiche che soggiacciono alla costruzione del
mondo storico umano, quelle su Husserl mettono in risalto il tentativo di
riconquistare il rigore alla filosofia – il progetto di una filosofia come
scienza rigorosa – un rigore metodologico, che invera “la psicologia fenomenale
di F. Brentano”330. In Linee della filosofia tedesca contemporanea Grassi
sostiene che “la meta di Husserl fu la conquista di un fondamento assoluto e
universale su cui costruire con sicurezza la ricerca filosofica [...] egli
scorse con chiarezza l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze”331.
Una critica radicale in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che
tentano di “raggiungere il concetto della logica, della filosofia come scienza
a priori, libera da ogni empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl
individua il fondamento del reale attraverso la riduzione fenomenologica, la
quale, sospendendo ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
327 Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla critica grassiana al concetto di
tipologia anche, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea (1933),
pp. 299-332 in Id., I primi scritti, cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il
problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., soprattutto pp.
420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica
nella filosofia tedesca contemporanea, pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit.,
p. 182. 331 Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp.
313-314. 332 Ibidem. ! 111! giudizio di esistenza333 – epochè –,
guadagna una certezza indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi
vari momenti e significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato
e poi la sua rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come
oggetto ideale della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il
Vorurteil, il quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende
possibile quella scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle
proposizioni formali della logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della
fenomenologia è colto da Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la
Wesenschauung. Infatti, sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea,
il filosofo sottolinea come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un
metodo a mezzo del quale si isolano degli elementi assoluti, trascendentali,
coi quali ciascuno può e deve costruirsi con rigore scientifico un concetto
della realtà [...] le essenze logiche non possono venirci dimostrate, ma
possono solo mostrarsi per se stesse a mezzo della loro evidenza, chiarezza e
distinzione, immediatezza ultima. La fenomenologia non vuole essere una costruzione,
ma semplicemente un esame intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie
così l’essenza delle cose e pretende di andare direttamente zu den Sachen
selbst”335. I concetti husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono
quelli di epochè, riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi
di questi temi, da un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa
della fenomenologia husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi
all’empirismo e al naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma,
dall’altro, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 333 Grassi
riesce a cogliere in poche battute tutto il senso della riflessione
husserliana: “se noi ci manteniamo in un fondamentale e metodico atteggiamento
critico rispetto al reale e cerchiamo di raggiungere un ultimo fondamento sul
quale non sia più possibile esercitare il nostro dubbio, (e che come tale
costituisce la base sicura su cui poggiare ogni altra affermazione o
costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere trascendentale,
assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni giudizio di
esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di molteplici
significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così o così
nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso come
inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare il
nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315.
335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia,
Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è
caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli
universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali,
storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112! getta
luce sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo
razionalistico”. La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce
il “dato empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di
fatto dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di
positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti
della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste
ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo
storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha
con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno
dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del
pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi
di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di
rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le
varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...]
la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è
sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che
non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione
eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma
si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia
diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica
dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica –
dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei
vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di
Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema
metafisico mostrando una certa affinità con i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
pensiero segnò un momento fondamentale in seno alla filosofia tedesca
contemporanea contrapponendosi con maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo
ed al naturalismo nelle sue più varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia
tedesca contemporanea, cit., p. 323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl
in E. Grassi, Was ist Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91.
338!Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339
Ibidem. 340Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit.,
p. 209. 341 Ivi, p. 223. ! 113! temi dell’attualismo. Il filosofo
italiano sostiene in Il problema della metafisica immanente che “pur essendo
nato da problemi e posizioni speculative completamente lontane dalle premesse
del pensiero immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che
rivelano un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella
originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a
qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta
nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha
in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare
per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla
questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa
posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo
idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo
comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i
temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli
dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane
che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di
Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste
problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano:
ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della
trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica
perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso:
l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da
Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il
piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare
nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità
dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana
Grassi coniuga il problema
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 342 Ivi, pp. 226-227.
343!Ibidem.! 344 Ibidem. ! 114! della trascendenza, così vivo nella
sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase
gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui
immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni
sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro
non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di
immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il
problema dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di
intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo
afferma che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza
dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e
tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la
questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono
l’uomo e il suo mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va
concepito come una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la
problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto
originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come
ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto
all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger,
ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen –
che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a
favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della
filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera
autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in
Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento
autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi
umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta
all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso
dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade
la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che
l’analisi del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 345 Id.,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. !
115! contesto originario si declina innanzitutto come ricerca
linguistica: “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta
attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung –
non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico
speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi
e di interpretazione del linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la
questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res.
Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola
(verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo
il filosofo, non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto
logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a
mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un
linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Grassi, infatti,
distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la
metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per il
pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti –
per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è
quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico
dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al contrario, è capace di
restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma,
proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate
sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono
“cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...]
l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione
umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela
nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore milanese, la
forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo
manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso classico
dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in ricerca
dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La delucidazione
del nesso logos-on o, per usare i termini
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 346 Ibidem. I corsivi
sono nostri. 347 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica,
cit., p. 80. 348 Ibidem. ! 116! grassiani, della correlazione di verbum
e res, induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della
metafora, della fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come
l’ontologia grassiana sia un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il
processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi,
scorci, campi, forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché
il metapherein – la trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà
di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro
atteggiamento verso il reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del
reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne
metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del
filosofo, ossia in Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un
tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e
l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una
rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui
possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la
traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei
segni indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che
per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo
l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una
momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia
non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza
dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo
di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura
temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi
significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti,
per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di
un’indicazione, da qui !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
349 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio,
L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352
Ibidem. I corsivi sono nostri. 353 Ivi, p. 15. ! 117! la preminenza
della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli
asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione
(hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle
dimostrazioni”354; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel
fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra
ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe
quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della
ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una
“chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos
ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della
dimostrazione. Ritornando al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a
quest’ultimo “spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno
in riferimento al suo fondamento universale. Il significato di hòros può essere
colto nella sua portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino)
che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di
horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione
(horismòs) esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che
esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se
stesso, il singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in
quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della
metafora, non “più gioco letterario ma originaria, prima forma
dell’ingegno”357, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine
della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella
filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno identificati con il nous
aristotelico interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel
loro !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 354Id., La potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id.,
Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222.
357Id., Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495,
p. 494. 358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero
occidentale, cit., p. 202. ! 118! carattere palesante e
immediatamente indicativo”359, profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana
della Einbildungkraft kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto,
sebbene Grassi non citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia
nel testo La potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft,
egli conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di
immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della
metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto
ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua
terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria
kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo
sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più
riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra
i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante,
intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che
“ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che
questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo
umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità
cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in
cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il
raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della coscienza
temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della physis in
quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come
espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione (Bildung),
che in questo modo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
359Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il
problema della metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 Cfr., E. Grassi,
Heidegger e il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p.
209. 362 Cfr., le riflessioni sul “ritorno a Kant” contenute in Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., soprattutto pp.
164-165; Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 301-302.
363 Ivi, p. 165. ! 119! acquista un carattere esistenziale. Infatti
“esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se
stesso e con il mondo, senza evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno
ontologico dinamico in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un
discorso sulle forme dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo
senso nell’orizzonte umano di esistenza – semantica – si comprende la critica
grassiana alla struttura soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il
filosofo “si manifesta sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in
quanto continuamente affiora nell’ambito della contraddizione logica
dell’esperienza che l’essere non si rivela mai completamente nel divenire degli
istanti. È in questo divenire del metaforico traslarsi del reale che viene
passionalmente vissuta la contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo
arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei
limiti di storiche, differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che
incombono”365. Solo attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo
il pensatore – esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un
determinato atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura
per difenderci dal “vento del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La
filosofia di Grassi tuttavia non va interpretata come una forma illogica di
irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore
logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos
che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza
costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza.
Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira
a sondare “la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter
dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La
messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema
dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e
oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a
quelli di logos, pathos !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
364Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73.
365Id., Il dramma della metafora, cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366
Ibidem. 367 Id., Heidegger e il problema della metafisica, cit., p. 203.
! 120! e manifestatività. Nelle analisi che seguono, cercheremo di
ridurre ai suoi nodi teoretici essenziali il tragitto onto-antropo-logico del
pensiero grassiano. III. II. Essere, apparire e manifestatività tra logos e
pathos. La fallacia dell’accusa di dualismo Secondo Grassi è possibile fare
esperienza dell’essere non solo attraverso il linguaggio razionale ma
soprattutto tramite la contraddizione. In La preminenza della parola metaforica
egli riprende il tema già affrontato in Heidegger e il problema dell’umanesimo
e analizza il problema dell’essere come fenomeno linguistico e espressione
della contraddizione originaria che caratterizza il mondo. Egli sostiene che
“l’ambito dell’Essere – in funzione del quale parliamo – non è quello della
razionalità nel quale vige il principio di identità ed esclusione della
contraddittorietà: il suo ambito è quello della contraddizione [...] siamo
dunque obbligati a riconoscere che l’Essere preme, si impone, urge
originariamente in un linguaggio non logico”368. Il campo in cui esperiamo
l’essere come evento della contraddizione, ossia come evento della differenza
ontologica, non è quello di una logica che espelle la contraddizione, ma quello
di un logos che include anche il pathos. Occorre soffermarci su quest’ultimo
tema e farlo interagire con quello del logos per mostrare la complessità di
questi due concetti che non attestano un presunto dualismo369 nel filosofo o
una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla questione del logos in pieno
clima !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 368Id., La
preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis,
Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di Massimo Marassi del
quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero di Grassi e dal
quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto dualismo. Egli
afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora nei primi scritti
la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica, costituiva una forma
particolare di ordinamento della realtà che manteneva una dignità peculiare. È
invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza quasi ossessiva sulla
preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo, Grassi non tiene fede al
tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In effetti egli avrebbe dovuto
ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo capace di elidere le difficoltà
del dualismo. Invece è semplicemente passato dalla preminenza della
concettualità a quella del pathos, invertendo il segno del dualismo, ma
restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine,
cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo la quale il pensiero
di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o ontologia dell’agire
storico situativo. Pur accettando parte della ricostruzione del cammino di
pensiero di Grassi – soprattutto le sezioni che mettono in rilievo la presenza
di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la tesi secondo cui in Grassi è
riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in riferimento a Vom Vorrang des
Logos che “tale scritto del Grassi ! 121! attualistico, e un “secondo
Grassi”, sensibile alla tematica linguistico-retorica. Secondo la nostra
analisi, che coniuga la disamina storica delle opere grassiane con l’indagine
teoretica sul tema onto- antropo-logico, nel pensatore milanese il filo
conduttore della ricerca si identifica con l’analisi del mondo umano in tutte
le sue manifestazioni. In questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta
a scienza concettuale, ma vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e
impegno mondano, si caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il
reale e l’essere ci appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa
ricerca più che il dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di
riproporre quei dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità
alla riflessione novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi,
natura e spirito, ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva
grassiana “se si parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile
trovare successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere
una radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale –
una radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La
questione grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza
dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di
un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle
morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di
coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza
del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del
dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella
dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le
forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale
unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla
caratterizzazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
rappresenta non solo il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si
presenta come il manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S.
Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p.
95. 371 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero
occidentale, cit., p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e
non dualistico Rita Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e
umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi
lega “pensiero e passione ! 122! complessa di logos e pathos in
Grassi. Ma prima di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul
tema dell’essere e della manifestatività seguendo le tappe del discorso
grassiano al fine di mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a
quella del logos e del pathos, siano da rintracciare i motivi di una
inconsistenza del presunto dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire
Secondo l’interpretazione di Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la
manifestatività, e non va identificato, come accade nella prospettiva
oggettivistica, con un dato. L’essere si dà solo e unicamente come processo
della manifestazione e per gradi di evidenza e forme distinte. La necessità di
riformulare la questione dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli
anni di confronto con Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La
dialettica dell’amore (1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista
che poco dopo sarà soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile
coniugata all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme
al saggio Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la
centralità dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni
dell’esistenza umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come
La metafora inaudita e Il dramma della
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! con un duplice nodo: ciò
che fa essere il pensiero è una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere
l’estetico è il suo fondarsi nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un
rapporto di reciproca appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si
autodefinisce ancora come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La
dialettica dell’amore, pp. 89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale
opposizione viene collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno
esistenziale. La questione del dolore in questo periodo ancora
anti-immanentista gioca allora un ruolo importante. Essa attesta da un lato
l’attenzione verso la dimensione concreta dell’esistenza che in Grassi emerge
già in questi anni attraverso le letture di autori quali Unamuno, Ibsen,
Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo confronto con l’immanentismo
avvertito ancora come distante dal proprio orizzonte speculativo. Afferma
Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore assurge a un’importanza senza
pari, è esso l’anima di tutto il divenire della Realtà in quanto ci permette
questo essere una personalità, ossia coscienti e coscienza, che è l’essenza
della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la possibilità della libertà
[...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma la realtà, considerata
come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed irrazionalità, noi
dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del dolore”, ivi, pp.
118-119. Il dolore si pone come nota distintiva dell’orizzonte umano e come
limite per ogni filosofia immanentista attestando una trascendenza che ci
sovrasta e che non può essere risolta nell’autocoscienza come forma pura e
sintesi delle opposizioni. ! 123! metafora – tanto che Grassi
giunge ad affermare che “il dolore è in realtà l’anima di tutta la dialettica
del Reale”374. Dall’altro, sottolineano il legame ancora profondo di Grassi con
il concetto di trascendenza, che andrà dapprima sfumandosi con il saggio del
1924 su Machiavelli per poi essere completamente sostituito nei contributi
successivi dall’emergere della questione dell’immanenza. Il mutamento di
prospettiva consumatosi in questo periodo – caratterizzato dalla presenza delle
idee di Chiocchetti, da un avvicinamento a Croce, da un primo confronto con
l’attualismo, che in questa fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere
quelle questioni esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di
operatività del trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi grassiani
scritti a distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica
dell’amore che “se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa
non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del
tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone
esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico
illimitato”375. In polemica con l’idea di un’autocoscienza come pura forma
(interpretata dal filosofo come la più grande scoperta di tutta la filosofia
d’immanenza di Giovanni Gentile) Grassi asserisce poco dopo che “in ogni modo
ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema
immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di
capitale importanza da discutere e da controbattere, che esso proprio
costituisce lo sbocco e l’affermazione alla quale tutto il pensiero moderno
[...] doveva per interna necessità logica giungere, posta la sua premessa”376.
Qui il pensatore si pone in opposizione all’attualismo gentiliano,
all’immanentismo e alla riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza,
sottolineando i limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale,
come quello del dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che
dissolve ogni contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo
le affermazioni appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata
all’amico Enrico Castelli Gattinara
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 374Ivi, p. 118. 375!Ivi,
pp. 120.121.! 376 Ibidem. ! 124! di Zubiena che la sua posizione
speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo dell’attualismo italiano
gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur riconoscendo il punto di
partenza cattolico della propria formazione filosofica. Scrive Grassi
all’amico: “Durante le mie peregrinazioni germaniche nell’anno scorso ho
trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori contemporanei [...]
il mio filosofare è partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero
cattolico, ma siccome in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la
conquista realizzata, non posso dare quello che oggi non ho ancora [...] la mia
posizione attuale è il riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più
coerente e matura del pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero
di giungere a nuovi orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla
filosofia tedesca è animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e
concretamente dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la
mia posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far
emergere un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della
questione onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione
giovanile la questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della
componente della trascendenza, della realtà del dolore e del tragico,
dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione
dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme
distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza,
tutta votata all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di
categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta
degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi
frutti: il problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si
incontra con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel
tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo.
Sebbene Grassi non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra
interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le
esplicitate fonti heideggeriane
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 377 Cfr., l’epistolario
raccolto da M. Simonetta in Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto Grassi, pp.
287-299, in “Idee”, 28/29, Lecce 1995, pp. 292-293. ! 125! e
gentiliane, ma anche la questione fenomenologica husserliana letta attraverso
la versione eretica heideggeriana378.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 378 Di “eresia
heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla Vincenzo Costa in La
fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del movimento
fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a creare tra
Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi, p. 264. Nel
corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925)
Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i concetti
fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl non
avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità, nella
dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti, l’esigenza
di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli vede come
“lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e non “una
teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger, Prolegomeni alla
storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di intenzionalità
indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il contenuto
intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra un
soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto che
si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato. Tra
loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma non
eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di questa
fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in cui
Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che
l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la
coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo
maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo
dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia
dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come
possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il
nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere?
[...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella
sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa
quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per
principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza –
della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo passo emerge
con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta la sua
intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi,
un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività
costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del
mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza,
l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni
altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è
l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in
relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni
alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di
riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta
all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione
originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto.
Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce
proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è
l’intuizione categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi
dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la
categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6
dei Prolegomeni che “la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in
primo luogo, che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità
nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo
luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione
quotidiana in ogni esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è
presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è
sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto
“l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento”, p.
62. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale
si dà solo parzialmente. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di
gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci
permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono
all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come
oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione
categoriale. É possibile istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione
categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura
affrontata in Kant e il problema della metafisica se si pensa al fatto che
l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto
che secondo Heidegger è reso possibile dalla sintesi a-priori
dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei termini di fantasia e
ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta fondamentale
della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto all’impostazione
classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la fenomenologia –
avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla
soggettività”, ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo
qualcosa di “immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”,
ibidem, e nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla
realtà”, ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in
una semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori,
ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in
luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè
l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in
quella Lichtung che è il mondo. ! 126! Sarebbe un’operazione
forzata includere in seno alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua
variante eterodossa, anche Grassi. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al
di là degli esiti e dei metodi di ricerca certamente differenti, una comunanza
di tematiche e di interessi di innegabile evidenza: i temi della
manifestatività, delle forme e dei gradi dell’apparire, dell’immanenza e
dell’evidenza, della critica all’obiettivismo. Infatti, è in questo periodo
fecondo che si impone il ripensamento del tema della manifestatività nella sua
identità con la questione ontologica. In Il problema del logo si afferma che la
ricerca della manifestatività si identifica con la questione dell’essere:
“L’originario vero non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma
solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che
come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se il processo di distinzione
non fosse il primo, non sarebbe possibile passare dal non manifesto a ciò che è
manifesto [...] il processo deve quindi essere inteso come un
auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della
svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”379.
In questo passo si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione
lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere
l’essere è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di
manifestazione. L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è
indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto
della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che Grassi fa partire
da una messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto
dato inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della
prospettiva empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora
questa concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente mette in
evidenza: “l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la
propria verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci porga
veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza
non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama,
sarebbe proprio per esso irraggiungibile”380.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 379 E. Grassi, Il
problema del logo, in Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p.
374. ! 127! La contraddittorietà del dato in qualità di immediata
presenza mostra come l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in
questo caso sarebbe qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando
ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il
divenire, il manifestarsi, ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui
l’empirismo si richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il
manifestarsi poiché “il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di
un fatto, di qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto
presente, nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé,
perché vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente
presente [...] l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere
l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che
si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il
manifestarsi”381. Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una
teoria metafisica immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità
concreta, che coglie l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che
patica. Abbiamo visto che l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un
concetto trascendente, ma è fondato nell’esistente come attualità,
autorealizzazione originaria e trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e
l’ora dell’autorealizzazione del Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità.
L’essere indica per Grassi “ciò che sta essendo”, quindi un divenire, un
processo che dice della dynamis insita nell’essere. Si tratta, quindi, di
un’ontologia dinamica e non statica, che comporta anche una riforma del sapere,
del linguaggio e del metodo. Pertanto afferma Grassi che “il metodo per il
conseguimento del sapere non può più essere razionale, fondante, in quanto esso
può essere determinato soltanto sul fondamento della risposta alla domanda su
come e attraverso cosa viene originariamente esperito. Un tale pensiero non può
più essere formale, perché si tratta di questo, di rispondere all’appello
dell’essere che ci riguarda, cioè si tratta della domanda in quale
non-nascondimento (Unverborgenheit), in quale schiarita (Klärung) – (le luci,
le radure (Lichtungen) nel bosco di cui parla G. B. Vico) – l’ente – al quale
l’uomo appartiene – appare certamente”382.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 381 Ivi, p. 375. 382
Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città del Sole, Napoli
2002, p. 81. ! 128! III. IV. Metodo statico e metodo aporetico Al metodo
statico della tradizione filosofica tradizionale, quello che per Grassi mira
alla definizione del concetto che dice della cosa unicamente il suo essere ente
e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo contrappone una via di ricerca,
un metodo aporetico, che pone in luce come la verità non sia la verità di un
oggetto, sia esso empiristico o razionalistico, ma quella di un processo. Su
questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in Il problema della metafisica
platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche” grassiane sono dominate dai
temi della verità, dell’essere, della manifestatività e della pluralità delle
forme, che qui trovano una prima esplicazione sistematica correlata anche alla
questione dell’umanesimo. Il tema di Il problema della metafisica platonica è
individuato da Grassi nell’ambito della problematizzazione del concetto di
forma. Il tema dell’eidos è coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si
viene configurando secondo il filosofo milanese come risposta da parte di
Platone all’oggettivismo sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la
ricerca dei modi della manifestazione del reale come modi di
determinabilità383. Scritto nel 1931, il testo è pubblicato grazie a Benedetto
Croce nel 1932 presso l’editore Laterza ed è dedicato a Heidegger, il filosofo
al quale Grassi si sentirà legato per tutta la sua esistenza e che insieme a
Gentile ha maggiormente influenzato il suo pensiero. In questo testo Grassi
analizza il dialogo platonico Menone in polemica con le interpretazioni
tradizionali che guardano a Platone come il rappresentante di un astratto
razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una interpretazione
oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se, invece, non si
debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo dalla teoria della
reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del dialogo. Il filosofo
sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica platonica “è di porre
solo in discussione il problema della legittimità della tradizionale interpretazione
della metafisica platonica. Ricorre veramente Platone a un oggettivismo
razionalistico – che egli contrappone a quello empiristico della sofistica –
per fondare quella conoscenza oggettiva e certa, quella metafisica, la cui
possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito avere alcun dubbio riguardo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 383 Id., l problema
della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129!
all’affermazione che egli come filosofo, ha cercato di superare
l’obiezione sofistica [...] fondando una teoria del sapere come
reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione di Socrate verso
l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva dell’ipotesi
eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò che non si
conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si saprebbe cosa
cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la tesi platonica
attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi che “se il
processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del
processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò
che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi
quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma
si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del
vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come
entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al
contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare
in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del
vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non
in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel
logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in
questo caso nel dialogo la
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 384 Ivi, p. 8. 385
“SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto
tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non
abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle
altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta
quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla
impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano
appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di
qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e
apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F.
Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo
cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che
non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti
imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non
conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai
richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile
ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe
ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – ,
e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà
cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della
metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130! contesa, !"*-, diventa
ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno della
nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un
“secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos
– che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale
come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della
verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di
retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico
esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella
ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos,
fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo
interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo
oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza
del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un
ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà
storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che
portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo
interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua
capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo
rilevare come in Grassi “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una
domanda, non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento
dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca
comune !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 388 Ivi, p. 87.
389 Ibidem. 390 “Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri
animali sulle cose che vedono non indagano nulla, non congetturano e non
anathrèi (osservano attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e
cioè òpope (ha visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò
all’uomo, unico fra gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in
quanto anathròn hà òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone,
Cratilo, 399 c, tr. it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43.
391 E. Grassi, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista
di filosofia”, Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id.,
I primi scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro. ! 131! positiva”392.
La determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella
nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il
ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la
co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il
pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio
in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà
attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il
fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il
fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni
possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore
metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno
interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi
ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo
anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il
ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la
struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente
aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza
autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di domandare
sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una )!%*&, una
fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica del ricercare
non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento caratteristico e
veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo”398.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 392 Id., Il problema
della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86. 394!Ivi, p. 71.! 395
Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la sua manifestazione e
in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere che appare è sempre
finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si può fare, è
l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza dell’essere
non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica, né
un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso di
dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del
finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74. ! 132! La
fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di
pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della
filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i
contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta,
sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei
cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In
un testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a
carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a
diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la
pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare
riveste per Grassi399. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare
all’atto linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il
filosofo è mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal
colloquio, al fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a
monologo scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un
monologo, emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio.
Quali sono l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il
dialogo dal colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene
condotto come un monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione
storica come punto di partenza e come misura”400. Il concetto di situazione
acquista per il filosofo un significato prioritario poiché rappresenta la forma
originaria in cui l’uomo agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il
dialogo-colloquio e la situazione mette in luce il valore metafisico del
dia-leghestai come de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso.
Si tratta di un evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung
linguistica, esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di
accedere alla verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della
parola e del domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del
filosofare, del tendere continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 399 Cfr., R. Messori, L’affettività
del colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., e V. Mathieu,
I temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di
Ernesto Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di
Zurigo, ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., p.
61. Corsivo nostro. ! 133! L’unico metodo per il filosofare nasce
dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte
del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo
intrinseco della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione
del senso. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge
proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire
dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza:
questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di
portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non
sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a
partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma
originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401
L’importanza della tesi di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi
aspetti teoretici fondamentali facendo venire in superficie temi centrali in
tutto il cammino di pensiero di Grassi. In questo testo l’essenza della verità
è ricondotta alla struttura del dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra
apofansis e poiesis, tra manifestazione e creazione, tra enunciazione della
verità e la condizione che la rende possibile, tra verità e significatività
attraverso l’analisi della questione metodica da cui risulta un’idea di verità
extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché il vero è il
processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia, che non è
una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente a Grassi
anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci solo
se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di sottolineare
l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa
emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo,
parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su
metafora e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da
questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale
del linguaggio. In Il problema della metafisica platonica il tema della
determinazione del ti esti,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 401 Ivi, p. 71. !
134! incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della
manifestazione della realtà, pone anche il tema della verità e del sapere. Se
il vero non è mai un dato, ma è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad
esso adeguato non sarà un sapere concettuale che fossilizza e rende statico
ogni elemento della ricerca, ma un sapere noetico che, per Grassi, è arcaico e
indicativo. Qui risiede il valore semantico dell’ontologia fenomenologica di
Grassi che gravita intorno al concetto di nous, sinonimo di ingegno e di
fantasia. Il nous ha l’aspetto di una “intelligenza senziente” o di una
sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale, insieme a Grassi e
Ortega, è uno degli allievi “latini” di Heidegger, come ricorda Grassi in La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta
originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in
un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto
di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del
Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa
è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima
di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è
da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere
ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo
discorso si inserisce anche il tema del nulla. III. V. La funzione metafisica
di nulla e angoscia Grassi, in Il problema del logo, sostiene che “se la
svelatezza dell’essere si chiude in un processo, allora esso [...] deve
contenere in sé il nulla e l’essere, giacché ogni processo, ed anzitutto quello
metafisico, realizza sempre un passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a
loro volta i concetti del nulla e dell’essere determinano il nostro concetto di
processo”403. L’importanza della questione del nulla come co-fattore, insieme
all’essere, nella !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 402
Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il
problema del logo, cit., p. 377. ! 135! determinazione del divenire
è centrale nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di
manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la
manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, “come deve
essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i
vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo”404. La centralità del logos,
quale modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere
confusa con un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia Grassi
distingue un significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di
svelamento dell’essere. “Il logo come oggetto della logica tradizionale è il
logo in quanto pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un
atto concreto, come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di
giudizio [...] in quanto il manifestare logico, come verità di giudizio, si
fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la legittimità di
distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità del giudizio
(come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza originaria degli
enti”405. É precisamente in questa direzione che il filosofo conduce la propria
ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e il pensiero
heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al di fuori
dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza
riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è
passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire
è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza
cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$-
/*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema
è quello di guadagnare un “nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica
formale”406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e
di esperienza. Si chiede Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere?
L’Essere sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza
contraddizione che il Nulla sia?”407.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 404 Ibidem. 405 Ivi, p. 378.
406 Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380. ! 136! L’importanza del nihil
all’interno dell’indagine ontologica è direttamente conseguente
all’assimilazione del processo di manifestazione all’auto-distinzione, dove lo
svelamento contiene in sé già l’essere e il nulla, la possibilità di mostrarsi
ed occultarsi, come quella dell’errore e della verità. Ora se la logica
tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione scientifica del nulla per i
motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo in cui il nulla si manifesta.
Una simile ricerca consente anche di porre la questione dell’essere al di fuori
del circuito oggettivistico – sia esso empiristico o razionalistico – e secondo
Grassi in questo tentativo di ripensamento di una via di accesso al nulla
giunge in aiuto la proposta heideggeriana della priorità della Stimmung
dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con quella attualistica del
logo come atto. Si chiede Grassi: “esiste dunque il nulla, e qual è il suo
rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto
dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica dell’angoscia
che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos e
manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di
logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto
trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno
anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per
Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla
sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente
medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato
dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come
un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi
la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità
di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel
sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta
alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 408 I termini angoscia e
ansia sono usati indistintamente da Grassi, tuttavia egli usa il termine ansia
in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del 1929 Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in Id., I primi
scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia viene sostituito
da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla nella filosofia di
M. Heidegger, cit., pp. 328-329. ! 137! stesso del fondamento, è la
modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere nella sua differenza
accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come il vanificarsi della
totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di pensare [...] è allora
proprio che l’esistente si manifesta e può diventare oggetto di domanda nella
sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia nella sua convertibilità
con l’essere, e che connota l’intero atto di manifestazione e auto-distinzione
dell’originario, è la condizione trascendentale del logos. Il logos è il modo
umano del darsi della co-estensione e coappartenenza di essere e nulla.
Quest’ultimo non va quindi inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo
valore di annientamento dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso
il nulla l’essere appare come realizzazione delle pure possibilità umane e
quindi come compito, sforzo e atto, concetti, questi, davvero fondamentali
nella filosofia di Grassi che mostrano, da un lato, la presenza di una
componente etica del sui pensiero nel senso generale di ethos come
“orientamento della vita al telos”, dall’altro il radicamento di tale
orientamento nella struttura temporale della coscienza umanistica, che, come
vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica che fa convergere tutta
l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e quindi verso la scelta,
la decisione. In Grassi più che agire una temporalità contrassegnata
dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione verso il kairòs,
il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione con il mondo
circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il reale, l’essere,
il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in molteplici modi,
tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme dell’apparire non può
essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del filosofo alla logica del
pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e un’intelligenza
ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se si getta luce su
un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la logica è solo una
forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano il logos e il
pathos in questo orizzonte di ricerca?
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 411 Ivi, p. 329. !
138! III. VI. Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio
significato per entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una
parte abbiamo il logos inautentico, quello della logica astratta, del
razionalismo deduttivistico, dell’a priorismo gnoseologico e il pathos
inautentico, quello ridotto a fenomeno psicologico e privato, a esperienza
chiusa nella singolarità. Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del
pensiero pensante e concreto, che sperimenta la manifestatività dell’essere
nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va inteso in senso metafisico.
L’angoscia costituisce appunto questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è
sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o
all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della
nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza
ontologica: secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico
della storia”412. Esso è “passione abissale”413 in cui accade il fenomeno
dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico indica
il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro
cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza
patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria
angoscia in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia
esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un
completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la
realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di
determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi
della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come
pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere
l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”414. Nel
pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo
stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per
arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di
orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza
di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 412 Id., La metafora
inaudita, cit., p. 92. 413 Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329. !
139! in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento.
Il filosofo asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a
quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui
gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più
aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un
mondo, e comincia la sensazione del precipizio”415. A caratterizzare
maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non
psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha
anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a
riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone
perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa
apparire il significato di ogni ente”416. Essa consente di prendere coscienza
dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come
schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica: in questo
contesto ontologico si installa la visione antropologica di Grassi.
L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere
rende possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella
dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da
parte dal filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione
dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere
all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo
diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione
della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al compito di un
ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali
dobbiamo riconoscere di non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia
primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza della negatività, della
mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto della necessità della
trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un materiale per la
formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è emersa una
prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella del
nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos. Se
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 415 Id., Assenza di
mondo, cit., p. 226. 416 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id.,
Mito e arte, cit., p. 147. I corsivi sono nostri. ! 140! il reale è
processo di manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora
il logos capace di dire questo processo, questo apparire, questa
manifestatività autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso
tradizionale. Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un
riduzionismo logico, tenendo conto della co-originarietà delle forme del
manifestarsi del reale. La funzione del logos in Grassi ha destato non pochi
problemi per gli interpreti, come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il
problema del logo del 1936 il logos è considerato nella sua preminenza rispetto
alla Stimmung, nei saggi successivi come Il reale come passione e L’inizio del
pensiero moderno abbiamo un capovolgimento di questa posizione soprattutto
sulla scorta dell’analisi del dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che
possono aver suscitato l’idea di dualismo. In Il problema del logo il filosofo
afferma che “la Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza,
nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o
prelogico, bensì un particolare modo del legein”418. Da questo passo pare
emergere la riconduzione della questione del patico all’interno dell’orizzonte
logico: il pathos viene visto quale modalità del logos. Qualche anno dopo
Grassi sembra cadere in contraddizione affermando l’esatto opposto di quanto asserito
in Il problema del logo. In L’inizio del pensiero moderno si sostiene che “nel
dubbio qualcosa è per noi originariamente non indifferente [...] in questo
orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza
come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra appunto
il carattere patetico e passionale del pensiero”419. La difficoltà per
l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione delle tesi appena citate
e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una modalità del logos,
un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È possibile uscire
dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza dell’originario?
La complessità di una loro possibile connessione viene esplicitata e avvertita
dallo stesso Grassi che già in Il problema del logo si chiede: “possiamo dire
che il logo sia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 418 Id.,
Il problema del logo, in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I corsivi sono
nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit.,
p. 824. I corsivi sono nostri. ! 141! effettivamente il Primo, la
Ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un
momento pre-logico? Questo è il problema contro il quale urtiamo
definitivamente”420. Infatti egli interpreta il logos come legein, cioè come
atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di
questa manifestatività originaria, di questa svelatezza originaria degli enti (aletheia
) si può porre il tema della verità logica tradizionalmente intesa come
connessione di soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella svelatezza
originaria l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal
convincimento che ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime
sull’on, sia già sempre radicato in un vero più originario: quello appunto
della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la logica tradizionale vorrebbe
essere proprio una logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto
l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e
così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto
razionale od empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può
venir dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un
manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va
contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa
logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge
un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria
importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente
altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che Grassi rivolge a
gran parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di
intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la
superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo modo
di apprendere il reale è votato all’inautenticità. Grassi ha in mente piuttosto
un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che però non
troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo pensiero,
restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo interpretato
all’insegna del concetto di Lichtung.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 420 Id., Il problema del
logo, in Id., I primi scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378. !
142! Si chiede Grassi in Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità
affettiva (Stimmung) deve essere dunque intesa come momento determinante del
processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza
(Unverborgenheit)?”422 La questione è comprendere se la passione possa essere
considerata come esperienza dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il
tema della Stimmung in Grassi più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al
sentirsi situati – si coniuga con la metafisica del leghein come risulta
evidente dal testo del ’39 nel contesto dell’analisi della disposizione d’animo
e della differenza ontologica heideggeriane423. Qui Grassi individua la
possibilità di una corretta interpretazione del pensiero di Heidegger solo
nell’operazione di collegamento del concetto di Stimmung all’atto processuale
del leghein. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza poiché mette
in luce come in Grassi la questione della Stimmung non abbia una connotazione
psicologico-individuale ma un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom
Vorrang des Logos che “con tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa
che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che
presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì
appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se
la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per
mezzo di un divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa
appartiene insieme alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il
perché”424. La co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese
come il discorso sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi
direttamente sul terreno dell’ontologia e della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
422 “Muss nun diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des
Prozesses, den wir als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst
werden?”, Id., Vom Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione
è nostra. 423 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424
“Damit bedeutet die Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der
Unverborenheit vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und
von ihm unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der
Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit
prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines
Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit
Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der
Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang
des Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra. ! 143! manifestatività.
L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle riflessioni heideggeriane
di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und Zeit, mostrando una netta
differenza di interpretazione rispetto a quella seguita dagli studiosi della
analitica del Dasein degli anni ‘40425. L’articolazione del nesso logos-pathos
trova una prima via d’uscita nella riflessione sulla fantasia, reciprocabile
con l’intuizione e con l’intelletto, in quanto “facoltà di darsi le vedute” e
forma di organizzazione a priori dell’esperibile: essa mette insieme il logos e
il pathos. La questione della correlazione di pathos e logos comporta per
Grassi anche un ripensamento dell’identità (un’identità
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 425 Ha sottolineato acutamente
questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit. (p. 86 nota 20) ponendo
un parallelo tra le interpretazioni di Grassi e di Henry Maldiney circa la
questione della Stimmung come momento patico a-priori del pensiero, e
sottolineando anche la distanza tra le teorie di Grassi e quella di Bollnow e
Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo critico rispetto al
tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della distanza di vedute tra
Bollnow e Grassi occorre mettere in evidenza come Bollnow in Das Wesen der
Stimmungen del 1941 pone la ricerca antropologica sotto il segno della critica
al concetto di fondamento heideggeriano, insistendo sull’infondatezza del
dualismo autentico-inautentico insito, secondo Heidegger, nella dimensione della
quotidianità. Nonostante la messa a distanza del tema ontologico nella
“antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è riscontrabile un punto di
contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di
Bollnow e Grassi, alla storicità come fondamento di ogni antropologia
filosofica che guarda all’umano come continua produzione di forme. Nel filosofo
tedesco ritroviamo “l’idea che la storicità della vita significa creatività,
produzione di forme che portano a espressione la vita in manifestazioni
specifiche” – (S. Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica della vita
nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che converge
con l’impostazione generale del pensiero di Grassi che punta ad un rinnovamento
del problema antropologico seguendo il filo conduttore delle espressioni
storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia teorica di
entrambi è il tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia, influenzata
dallo storicismo diltheyano e dal contesto generale della Lebensphilosophie,
“non muove da principi astratti [...] ma considera ipoteticamente i fenomeni
della sfera educativa come parti dotate di senso in una connessione più
generale e rintraccia tale senso nella originaria relazione attraverso cui
l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p. 137). Bollnow,
in Die Macht des Worts, afferma che la questione antropologica è connessa al
potere formativo della parola e “la questione circa l’essenza del linguaggio
diventa in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza dell’uomo in
generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts. Sprachphilosophische
Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue Deutsche Schule
Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato in S. Giammusso,
op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è correlato alla
questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione
dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che
permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella prefazione alla
traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P.
Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da
cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra
maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo
dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che
tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio
abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine.
Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce
a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso
il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile
sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo
dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. Grassi,
Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I
primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche battute un’idea di
pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi
(Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche – pur nella
diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur evidenti
differenze sottolineate da Messori. ! 144! che contenga in sé
l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla
costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività.
Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del
pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un
oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre
aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate
oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte
all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al
nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che
cos’è metafisica anche Grassi crede che “il nulla non si rivela dunque come un
oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale
stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto
d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il
filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con
la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede
se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la
priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con
l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?
In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che
l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un
oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema
dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che
si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li
trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame
tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in
un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il
dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si
distingue da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per
Grassi accade quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività,
che consente di pensare la coappartenenza di logos e pathos.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 426 E. Grassi, Il
problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi, pp. 383-384. !
145! Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto dualismo logos-pathos
o Kehre tra un primo e un secondo Grassi ci giunge dalle analisi grassiane di
Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno Grassi porta avanti le sue
analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in Dell’apparire e
dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio vada
rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso l’analisi del
dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una realtà complessa
che va identificata come atto, attività del cogitare. In quanto atto il cogito
è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e l’essere, che in Grassi sono
sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito è l’unico primo ed originario
essere che incontriamo e fondandosi sul quale solo si può ricostruire e
ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La metafisica di Cartesio appare in
tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli
concretamente intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non
è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del
soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento [...] l’atto del cogito
– come originaria unità, monade – contiene in sé già tutto”429. Appare qui
evidente la funzione ontologica del dubbio come “apertura esistenziale” della
questione della manifestatività. La suprema attività del cogitare, il cogito in
quanto atto, non è altro che il dubbio, il dubitare che nel momento in cui
dubita, in cui attua l’attività del dubitare, porta in superficie “l’urgenza
che in esso si annuncia e che lo rende possibile”430. Nell’atto del dubitare si
compie un’urgenza: quella del reale che non ci è indifferente ma che ci
affetta, ci riguarda e nel quale siamo da sempre immersi e compromessi in
quanto esseri gettati nel mondo e “di conseguenza anche il cogito, quando si
intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza
originaria, che si mostra così come il vero fondamento del sapere”431. Pertanto
il pensare (logos) si rivela nella sua identità costitutiva con il patire
(pathos) in quanto forme di espressione dell’originario nella sua urgenza e
nella costrittività dei suoi appelli. Per il filosofo italiano “il pensiero è
una forma di esperienza dell’originario, e non si può pensare ogni volta
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 429 Id., Dell’apparire e
dell’essere, cit., pp. 289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id.,
I primi scritti, cit., p. 818. 431 Ibidem. ! 146! che lo si
desidera o lo si vuole. Perché l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra
a noi solo al modo di una urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e
urgenza rende il logos convertibile con il pathos quali modalità di apprensione
dell’originario. Se “solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza
dell’originario”433 allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività
rispetto al reale? In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a
con il concetto di atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del
rapporto dinamico tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono
continuamente l’uno nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche
la tonalità affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione
dell’essere nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente
l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con
cui Grassi si riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è
importante sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare.
Usando tale traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della
gettatezza e passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che
è tale nella misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere,
all’assenza di codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto
intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai
date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci
trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci
allo Zwang e alla Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni
dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non possiamo
liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di possibilità per il
nuovo inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il filosofo “in questo
orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza
come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra il
carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos metafisico e
originario è un’urgenza che non può essere
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 432 Id., Il problema del
sublime, pp. 917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434
Id., L’inizio del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.
! 147! dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia
platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e
il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero
moderno. Per Grassi Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi
scritti, ha il merito di aver portato ad espressione un significato
patico-esistenziale del dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato
unicamente ridotto ad epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il
dubbio cartesiano, invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché
si dia il sapere in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha
portato fino in fondo il suo discorso, inclinando piuttosto verso una
impostazione gnoseologistica del sapere, non traendo quelle conclusioni a cui
erano pervenuti gli Umanisti. Le riflessioni grassiane hanno messo in luce il
pathos come esperienza di ciò che è primo e indeducibile razionalmente perché
fondamento di ogni deduzione: “l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa
di originario e di primo, o anche del pensiero, risulta essere la passione, e
precisamente non la passione in senso psicologico ma in senso metafisico”435.
La Leidenschaft consente di ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non
ha un carattere soggettivo o individualistico, esso “è essenzialmente ciò che
soggiace al primo, all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il
soggetto patisce il reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità
(Augenblick):attraverso il pathos facciamo esperienza della realtà
nell’istante, in quella visione istantanea a cui dobbiamo corrispondere
implementando progettazioni di mondi umani dalle forme molteplici (l’arte, la
poesia, il sapere, la prassi, la politica sono le forme in cui l’uomo risponde
agli appelli dell’essere). In ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare
avanti il suo impegno, il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine
mutuato da Leonardo Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente
compromesso con il mondo circostante.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 435 Ivi, p. 846. 436
Ivi, p. 847. ! 148! Secondo Grassi “in ogni atteggiamento
originario non possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra
scelta sta già sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci
delle cose, ma sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a
tenerci occupati”437. Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi
del reale il vero, il buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i
modi in cui si mostra, in cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento
sull’altro ma nesso dei distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del
rivelarsi del reale, pur tenendo in considerazione la fondamentale unità che le
contraddistingue: esse sono modi autonomi, distinti, di manifestazione
dell’essere, sono Lichtungen del reale, aperture di contesti significativi,
tutti accomunati dall’azione di ordinamento conferito al mondo. Il pathos è
l’avvertimento della non- indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza
della costrizione e del vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il
fatto che veniamo strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso
la totalità dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere,
e tuttavia il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono
partoriti come gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano
dell’aletheia, del non latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò
che si mostra viene sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che
lascia rilucere gli opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui
non possiamo sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce
dalla messa in questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si
tratta di una ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale
carattere costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova
teorizzato nel concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò
che esprime Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui
li chiama, che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere
apodittico, bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si
mostrano da se stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e
impiegarli. Così questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura
in cui non ci lasciano liberi”439.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 437 Ibidem. 438 Id., Il
reale come passione e l’esperienza della filosofia, pp. 995-1029, in Id., I
primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p. 1005. ! 149! Possiamo
dare per acquisito che in Grassi non c’è un rapporto dualistico logos-pathos,
per cui da una priorità giovanile del logos si passerebbe alla matura posizione
della preminenza del pathos. I due momenti sono sempre interrelati tanto da
confondersi in una paradossale unità che è al tempo stesso dualità. É lo stesso
pensatore a domandarselo e a individuare il problema di una connessione
dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità che sia al contempo dualità?
Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto unitario, fa apparire ciò che
è differenziato nella misura in cui quest’ultimo si determina [...] quest’atto
del separare rivela dunque essenzialmente una realtà fantastica, dove
l’espressione fantastico non viene tratta dalla fantasia come attività distinta
dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo l’espressione greca phainesthai,
mostrarsi”440. Secondo Grassi l’accadere, l’apparire, la manifestatività vanno
interpretati al di fuori dell’opposizione logos-pathos, tale dualità è solo
secondaria e derivata, poiché primario e originario è l’atto in cui si mostra
l’essere nella sua processualità dinamica: in tale processualità dinamica le
coppie oppositive “in sé-per noi”, “uno-molti”, “logos-pathos” perdono i
contorni netti e definiti di polarità antitetiche, tra cui non è possibile
gettare un ponte, per divenire realtà mobili e fluide. La struttura dinamica e
processuale della realtà è resa dal filosofo attraverso l’immagine della
scena/accadere scenico/allestimento (Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere
si radica il singolo soggetto concreto, il quale possiede un oggetto
correlativo, perché la scena, l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati
[...] l’allestimento è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del
molteplice risultano visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive
loro”441. Tale scena originaria regge il fondamento della vita: è la sua
condizione trascendentale. Essa è definita anche scena fantastica proprio
perché scena e fantasia si configurano come un tutto unitario, a priori e
sintetico. La scena forma in via primaria relazioni, atti di collegamento, è
l’orizzonte di ogni veduta possibile, così come la fantasia è la facoltà di
apprensione di questa scena. La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di
formazione della veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema
trascendentale: “l’elemento originario dell’esperienza sensibile – come in
generale di ogni forma dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di
oggetto e soggetto né una
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 440 Ivi, p. 1012. 441
Ivi, p. 1013. ! 150! molteplicità di esperienze sensibili, bensì
una unità che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare
[...] la scena fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la
determinazione filosofica dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per
l’ente nella sua totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare
come facoltà del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il
Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario
dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile
perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua
automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo
della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica
esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale
umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale
elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del
filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale
nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo:
dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura.
Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività
(1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955),
Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della
manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema
della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere
(1933), Il problema del logo (1936), Il problema
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 442 Ivi, p. 1014. 443
Cfr., Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206;
L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia,
cit., pp. 7-20, L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2,
XXVI, pp. 97-119; Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2,
XXVII, pp. 140-164; Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959,
pp. 217-147. ! 151! del nulla nella filosofia di M. Heidegger
(1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario
(1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come
abbiamo visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni
dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà
grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la
preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a
priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità
fenomenologica delle forme dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo
Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la
teoria heideggeriana della differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla
luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito
estetico in generale, non come esempio di gnoseologia inferior o teoria
dell’arte, ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività
dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per
la curiosa correlazione che si viene ad istituire tra gli innumerevoli
riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e l’analitica
dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare, oltre che,
naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza dell’assenza
di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi che Grassi
ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII. L’importanza del viaggio in
Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia pragmatica che
“ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia appartiene il viaggiare”446 e
Grassi non sembra sia stato insensibile
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 444 I saggi sono
raccolti in E. Grassi, I primi scritti 1922-1946, cit. 445 Per una
ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane
nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit.,
soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca:
l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi,
Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant,
Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. !
152! a questa affermazione kantiana: lo attestano i numerosi viaggi
che per tutta la vita ha condotto in giro per il mondo alla ricerca di
occasioni di riflessione sul “tema uomo”. Viaggio e riflessione antropologica:
l’accostamento non risulterà peregrino se si accantona – come fa il filosofo
italiano– un’idea di natura umana fissa e immutabile, chiusa nei confini di una
razionalità auto-riferita, per accogliere l’idea di una condizione umana, tema
di un neo-umanesimo attento alla multilateralità della vita, alla
polidimensionalità del reale, e, dunque, alle molteplici forme di apprensione dell’essere
e di dizione dell’essere. Il legame tra il viaggio e l’elaborazione di
categorie esistenziali volte ad un rinnovamento neo-umanistico della filosofia
è del resto esplicitato dallo stesso filosofo che nella Prefazione a Viaggiare
ed errare afferma che le “annotazioni sull’incontro con il continente
sudamericano sono sorte dalla verifica costante di categorie e concetti
fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di rinuncia al nostro
mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà sudamericana. Spazio,
tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente un significato
originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447. Corredato da una fitta
trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni emotive, di relazioni,
presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva suscitato nel filosofo il
testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla narrazione di esperienze
comuni, una interpretazione prospettica di una realtà nuova, fatta di rovine
antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non costituiscono solo
allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma sono l’occasione
di esperire il “totalmente altro”. Per Grassi il viaggio può avere questo
significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è avvenuto: il
Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in Sudamerica non è
il primo viaggio né l’ultimo di Grassi, eppure in questo territorio si realizza
una presa di coscienza molto forte dei limiti e delle possibilità della
filosofia occidentale. Su questi limiti e possibilità il pensatore ha ragionato
una vita intera, ma !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 447
Le citazioni riportate di seguito fanno riferimento all’edizione italiana del
testo di Grassi: E. Grassi, Viaggiare ed errare. Un confronto con il
Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole,
Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen.
Südamerikanische Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen.
Eine Konfrontation mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974;
Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger,
1982. ! 153! lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione
della foresta, sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta
non è un ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria:
storicità e astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si
consuma la dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di
riflettere sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: “una volta
si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della
tradizione, ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si
ritornava a casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo,
allora, non è un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un
resoconto autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a
Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più
interessanti circa il viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne
anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In
questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui viviamo, come
condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate “non vogliono
essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle
seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con
mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore
che ha dedicato al tema grassiano del viaggio un saggio: América latina y
pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”451
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 448 Ivi, p. 33. 449 Il
testo, edito per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und
Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e
ampliata dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che Grassi
pubblica nel 1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo
Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p.
34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia
del viaje”, cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America
latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in
“Cultura latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto,
nella vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento
alla figura di Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello
studioso in cui l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della
sapienza poetica, del ruolo antropogenetico della fantasia, di quello
arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con
le analisi svolte da Grassi. Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G.
Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a
cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id.,
Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel
mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione
storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E.
Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici,
Guida, Napoli 2004, p. 120, nota 10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata
dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V.
Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in
«Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817, p.
104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154! de Ernesto Grassi,
concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso
mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare
un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico.
Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in Grassi individuati dallo
studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano
non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore
della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a
fuoco dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a
quelli di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono le
categorie dell’analitica esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il
senso ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco:
Reisen ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas
prefiguradas”. El viajero [...] llega a un nuevo mundo cargado de bagajes
conceptuales, orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn
històrica”453. E tuttavia al cospetto di un mondo totalmente estraneo Grassi
sente di non poter più fare affidamento sul proprio corredo categoriale.
Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto viaggiatore in terra
straniera Grassi si sente anche viaggiatore nell’interiorità, e il malessere
vissuto dal filosofo per l’opposizione tra un’idea di Europa da cui ritiene di
doversi congedare e la volontà di ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un
rinnovamento dei concetti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del
pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il mare metafora
del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di), Il mare e il
mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con Vico,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie ora
menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in
generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della
biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner,
Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca
contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il
problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La
filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso
Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo
III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id.,
Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G.
Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155!
fondamentali del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine
dedicate al concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e
assenza di mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della dismondanizzazione
ci sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla completa apatia. Ogni
processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore avvertito per la
scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine esistenziale che
sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria patria. Si tratta del
terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico secondo il quale “grazie
alla radura aperta nella foresta originaria divengono possibili non solo lo
spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”455. Il
filosofo ritiene che “anche in Europa si prende congedo dal proprio mondo. La
speranza di liberarci in qualche modo, in chissà quali paesi lontani, dai
nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci sentiamo più a casa negli
spazi della nostra storia”456. Nel pathos dell’angoscia e della noia per Grassi
noi esperiamo la dismondanizzazione e la possibilità allo stesso tempo di
generare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di
orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione e assenza di
mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono essere compresi
meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a Grassi, quella della luce:
“assenza di mondo” come aurora e “dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo.
La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle
origini, immerso nella realtà circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e
di cui Grassi crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva sudamericana,
che in realtà !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 454 Id.,
Viaggiare ed errare, cit., p. 126. Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della
fantasia, cit., p. 251. 456 Id., Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49. !
156! si rivela essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la
condizione di assenza di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si
trova a una svolta decisiva”457. L’esperienza della realtà nella condizione di
assenza di mondo si caratterizza per l’incapacità umana di orientamento:
infatti “non appena quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce
improvvisamente che le direttive consuete non sono più valide”458. In questo
momento di svolta inizia la storia dell’uomo come “storia del suo accadimento”.
Secondo Grassi “la storia dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo
costringe continuamente [...] a stare su una soglia, a partire dalla quale egli
traccia linee di confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato,
tra ordinato e non ordinato. A partire da questa soglia si aprono i confini del
mondo in cui viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta in volta
aderiamo sempre a ciò che ci riguarda e ci mette in tensione, costituisce il
nuovo spazio spirituale in cui ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di
mondo l’uomo, come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio funzionale
simbolico che ad un certo punto si disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza
che lo costringe a trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo
esce dalla natura e in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla
base dei quali costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione
(tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi
strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno
delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia
volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di
dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci
circonda, e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a
mancare”461. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 457 Ivi, p.
132. 458 Ibidem. 459 Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di mondo, cit.,
p. 222. ! 157! Nel primo caso si tratta di una situazione di
privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo nell’aperto – la
Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo è condizione di
possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale divenga mondo.
Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita delle coordinate
categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza della dismondanizzazione
e di assenza di mondo non sono nient’altro che il regno dell’Aperto in cui è
assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento ma in cui Angst e
Langweile agiscono quali operatori metafisici nel contesto della Lichtung che,
come ci ricorda Agamben, “è veramente in questo senso, un lucus a non lucendo:
l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a una chiusura e colui che
guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi
asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella
apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli
oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più
aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un
mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel viaggio in generale e
in quello sudamericano in particolare noi facciamo esperienza di una epochè
dell’abituale e del consueto e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il
nostro non poterci tenere a niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza
dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che l’alterità radicale del mondo
sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la questione non marginale del
pathos: per Grassi esso ha una componente metafisica e non psicologica, dal
momento che grazie ad esso facciamo esperienza dell’originario. Come è noto, la
passione per il filosofo ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo
poiché consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere,
dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della
concreta situazione storica. Afferma Grassi che “si è costretti a riconoscere
che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non
possiamo liberarci da essa, incombe
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 462 G. Agamben,
L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 71. 463 E.
Grassi, Assenza di mondo, cit., p. 226. ! 158! come destino e nella
sua luce fa apparire il significato di ogni ente”464. La Stimmung che consente
l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare
un secondo senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda
Cacciatore “en uno de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la
lineas de una autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en
la significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones
de los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos”465. Differenza
che testimonia anche il profondo mutamento storico tra un’epoca, quella
moderna, in cui le categorie filosofiche erano forti e la ragione non aveva
ancora perso la propria terraferma; e l’epoca contemporanea che vive i tormenti
della propria debolezza categoriale sgretolandosi pian piano. La Conclusione di
Reisen ohne anzukommen, che reca il suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio,
in cui è narrata questa breve storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la
correlazione del viaggiare con l’idea di paesaggio. Grassi si pone un
interrogativo sul paesaggio e sul suo paradossale nesso con la filosofia. La
domanda si sviluppa in una breve storia in cui entrano in scena personaggi –
Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder, Melville – che sul paesaggio si sono
espressi. Il filosofo si chiede: “che cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre
insieme alla filosofia? [...] il paesaggio può offrire lo spunto per
riflessioni teoretiche, dal momento che il piacere che esso suscita si avvicina
alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a questa domanda significa porre in atto
una vera e propria rivoluzione filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie
della razionalità astratta e fare posto agli elementi mitici e poetici, alla
dimensione del pathos che schiudono una modalità di esistenza autentica in cui
la potenza delle immagini, a cui è inevitabilmente associato il paesaggio,
diviene la linfa vitale della filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non
ha nulla di ovvio, anche se tutti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
464 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica
latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit.,
p. 173. ! 159! credono che esso sia immediatamente accessibile dal
momento che lo si vede; il goderne non richiede alcuna riflessione, ma è
impossibile esprimere la sua essenza senza riflettere”467. Esso mostra e indica
la contraddizione tra ciò che ci sovrasta nella sua immensità, riluttante a
qualsiasi espressione univoca e definitiva, e la volontà umana di comprensione.
Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra incapacità di interrogare in modo
nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle che sono annotazioni di viaggio,
riflessioni e considerazioni si rivelano come i punti di partenza di
interrogativi filosofici ineludibili e pressanti. Ineludibilità e necessità che
contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il paesaggio sembra una realtà alla
quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore significato del viaggio è quello
cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica di una valenza cognitiva poiché
consente quella relazione del sé stesso con l’altro che è fonte di ricchezza
quanto più profonda risulta la distanza, la cesura, lo iato. Come afferma
Cacciatore in America latina “en esta experiencia cognitiva [...] el viaje y la
partida misma tienen sentido en la medida en que remiten immediatamente al
retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la confrontatiòn de Grassi con
Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el Otro, però tambièn un
hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales del Sì mismo”469. In
questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le sue forme – l’altro
uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al nostro mondo storico,
la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale quale esperienza
catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza. Secondo il
filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella filosofia
sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è l’olfatto, che
meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la “potenza della
distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a Casablanca, la tappa
successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò che a Madrid era solo
annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica, che nel frattempo si
era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà completamente nuova,
che ancora non si vede, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
467 Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G. Cacciatore, América latina y pensamiento
europeo...cit., p. 81. ! 160! che non si può nemmeno cogliere con
l’udito [...] anche il tatto non può far altro che occuparsi della cartella che
d’abitudine ci si porta appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un
inatteso primato [...] è attraverso l’olfatto che sorprendentemente si
percepisce la distanza”470. L’esperienza cognitiva del viaggio in Sudamerica si
configura come un movimento verso l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono
incerti: l’incontro con l’altro può avere un esito liberatorio o
distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare alla sua storia particolare, ma
può anche sollecitarlo a dubitare del tutto della realtà storica. Quest’ultimo
aspetto è particolarmente problematico: l’insistere del filosofo milanese
sull’opposizione tra natura e storia, tra Sudamerica e mondo europeo, appare
poco argomentato e poco incline a mediazioni, tracciando una cesura ontologica
tra l’uomo sudamericano e quello europeo. Occorre prendere “la expresiòn
grassiana naturaleza no historica con mucha cautela”472. Nonostante le dovute
cautele rispetto a quelle espressioni che cristallizzano le opposizioni tra una
presunta temporalità ontologica e immobile – quella sudamericana – e una temporalità
storica – quella europeaa –, bisogna riconoscere il merito del filosofo per
aver eletto il viaggio sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i
termini e i limiti dello strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione
di Grassi che guarda all’Europa nei termini di un “relitto di una vita
inattuale” e al Sudamerica come natura astorica non passa inosservata: i
colleghi universitari, primo fra tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in
La Amèrica ahìstorica y sin mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto
Giannini, in Experiencia y Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni
del filosofo italiano senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa
assenza di storia in modo più complesso e articolato: essa dice della possibilità
del nuovo474. Se l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica,
per il primitivismo che la contraddistingue,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 470 E. Grassi, Viaggiare
ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G. Cacciatore, América latina y
pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una ricostruzione dell’intera
vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474 E. Grassi, Viaggiare ed
errare, cit., p. 24. ! 161! non è ancora stata sopraffatta
dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia, aspiriamo
all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia non
troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente estranea a
noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente nell’atmosfera di
fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora riuscito a diventare
definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro presente, ma sembra
estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è quello
simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri orientamenti
conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca delle proprie
origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi dell’umanità si fa
esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà notevolmente
diverso. Quando Grassi descrive il passaggio per la grande catena montuosa
delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il vichiano
“divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza Nuova. Ma non
si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel momento Grassi
non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva ipotizzato:
“vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove prospettive. É l’accesso
a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un essere vivente storico
ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in queste ombre, in
queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il caos inteso non
nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può essere impresso
un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo di pure
possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la metafora di
quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di possibilità
inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo con cautela
possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione onto-antropo-logica
viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la natura, il mitico,
l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione di tale oggettività
– la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della storia, quella che
Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo percorso di
transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la ragione
totalitaria, la ragione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
475 Ivi, p. 69. 476 Ivi, pp. 80-81. ! 162! frammentaria, inquieta,
balbettante, critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle
pieghe nascoste del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella
metafora e nella fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo,
come condizione, situazione, e circum-stantia, è motivo centrale della
riflessione filosofica di Ernesto Grassi e pone in luce il legame indissolubile
e non estrinseco tra il luogo geografico di elaborazione di questi innumerevoli
significati del viaggio, il Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore
milanese. Un’idea che si costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione
della problematica umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno,
ripercorrendo itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono
in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad
un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum
univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che
possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici,
contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del reale, che si
rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel contesto più
generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo. Si tratta del
problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di retorica,
metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il Sudamerica
diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico e per
gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha voluto
confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano,
assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle categorie della
storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti
inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è
la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della
contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene.
Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una
realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel
nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 477 Cfr., soprattutto E.
Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il
problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi,
Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.;
Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, cit. ! 163! in prossimità
del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di
essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse
esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a
se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua
essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza
relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che
emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi
non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I
concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di
cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia,
che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per Grassi
“non basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei
quali ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le
tappe di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un
binomio vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa
spazio ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione
per rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo
riconoscimento capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La
pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni
spiegazione, è propria del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana
l’oggettivo appare come una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma
che domina l’uomo. Essa diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e
si sottrae ad ogni orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione
ciclica, in un eterno presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico
della natura può quindi suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante.
Una volta spezzata la coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si
distinguono più come momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si
precipita nello smisurato”481. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
478 Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit., p. 490. 481
Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116. ! 164! Entriamo nello
spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra
improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente appartenergli
nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità “ha luogo un
rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa,
perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine “di una
pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non
sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta riferendo ad una
realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il Sudamerica è il
simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che,
prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto impossibile immaginare, e a
gran pena ci è permesso di intendere”: qui è possibile guardare autenticamente
al mito non alla luce della demitizzazione, non come “prestazione arcaica della
ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma come “realtà in cui viviamo”. É
ancora consentito vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in
quel viaggio dal vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare
aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è
principio arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà
inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo
Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere veramente il carattere
di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo carattere apodittico,
bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni
tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487. L’atto fondativo e mitico
del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di
quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo
trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima
forma dell’ingegno, del nous “e come tale
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 482 Id., Arte e mito, p.
153. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro del mito, tr.
it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi, Significare arcaico,
cit., p. 486. 487 Ibidem. ! 165! unica espressione delle archai nel
loro carattere palesante e immediatamente indicativo”488. Perché come diceva
Vico, uno degli autori prediletti da Grassi: “di questa logica poetica sono
corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più
luminosa, più necessaria, e più spessa è la metafora [...] – che – vien’ ad
essere una picciola favoletta”489. L’analisi delle “meditazioni sudamericane”
di Grassi ha messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso
come evento semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale grassiana:
dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale
umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio
in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per
comprendere il senso della proposta neo-umanistica grassiana: essa si struttura
come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo
che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia
ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il
viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata
nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che
occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che
essere un itinerario geografico perché “in quanto viaggiatori in terra
straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità [...] oggi,
viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto
a un esame il mondo della nostra lingua, dei nostri pensieri e dei nostri
sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene allora una meditazione
sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza dell’oggettività: la nascita della
coscienza temporale L’analisi del viaggio nel suo significato tetravalente e la
focalizzazione sui temi della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci
consente di inquadrare meglio le altre due idee
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 488 Ivi, p. 494. 489 G.
B. Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano
2012, ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p.
124. ! 166! centrali nell’analitica esistenziale grassiana: i
concetti di coscienza temporale umanistica e di oggettività. Secondo il
pensatore milanese l’esperienza del disancoramento originario dalla realtà è
l’elemento principale che caratterizza la “situazione umana”. L’angoscia e il
terrore della foresta primordiale, l’agorafobia originaria che genera la paura
dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta in volta i codici di
decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti considerazioni
sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale simbolico e sulla
distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla funzione di
apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano. L’umanesimo contro la
techne che “la situazione umana è caratterizzata dal fatto che l’uomo ha la
esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il problema del
metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste nella ricerca
della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo, cioè di ricerca
di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del carattere
ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi”491. La situazione
in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso disancoramento-metodo-
orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei sensi, che provoca il
disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, Grassi individua la
nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del rapporto immediato
con la natura. Emerge un elemento concettuale di non secondaria importanza: il
tema della nascita della coscienza e delle scienze si intreccia indissolubilmente
alla questione dell’oggettività e alla ricerca della sua determinazione.
Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo
crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il
disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di un metodo, di
un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene nella
nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento che
caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria
della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 491 Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492
Ibidem. ! 167! un’oggettività “stabilita dai principi in funzione
ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà
fenomenica”493. L’assenza di coordinate e orientamento mette l’uomo in una
condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra mondo animale e
mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone nel contesto
dell’onto-antropo-logia grassiana quale condizione di possibilità della nascita
del mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo “la storia umana comincia
nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura in quanto
l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della non
indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è
espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi”494.
L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo
livello di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per
oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? III. XI. I gradi
dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una
volta quello della “condizione umana” che “si distingue nettamente dalla
condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e
progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il
mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo”495. L’indagine sulla situazione
del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato
l’individuazione di due livelli di oggettività. “Per giungere alla soluzione
della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto
partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta”496.
Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai
nostri parametri e dai “limiti da noi progettati”497
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 493 Ibidem. 494 Ivi, p.
203. 495 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p.
68. 497 Ibidem. ! 168! -! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo
del proprio divenire”498 Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e
organica la natura appare nel costante ritmo temporale dell’identico, in un
diastema, ossia in “ciò che sta (istemi) tra limiti (dià)”499, dettato dal
fenomeno stesso della vita e non da modalità molteplici di ordinare i fenomeni
naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo umano infinite unità di misura di
questa natura. Per il filosofo “della natura possiamo solo parlare in quanto
essa appare entro i diastema stessi, cioè entro determinati limiti”500 e
tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni fenomeni “il cui apparire non
dipende dalla nostra proiezione di diastema”501. Grassi riporta l’esempio dei
molteplici stati di un corpo502: un corpo può apparire in una forma solida o
liquida ma la modalità in cui esso appare non dipende da noi: la nostra
proiezione di diastema non è l’unica via di accesso all’oggettivo, all’essere,
alla natura. “Se è vero che la natura appare solo entro i limiti da noi
progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha
una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività dei fenomeni
naturali è la condizione dell’esperimento, è la risposta che la natura dà entro
i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo ricorre a Leonardo per porre in
luce il concetto di natura entro i diastema. Nello scienziato Grassi individua
un via di accesso alla natura mediata dall’esperimento che mostra il senso
autentico del concetto di diastema. Nel Trattato sulla pittura e Sull’anatomia
dell’uomo “l’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una
teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso
l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per
un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa
soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua
interezza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 498 Ivi, p.
69. 499 Ivi, p. 68. 500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503 Ibidem. !
169! ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle
domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue
capacità”504. La natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che viene
svelato in funzione della domanda impellente”505, quindi mantiene una zona di
opacità residua. Essa ha una propria oggettività che non può essere colta in
maniera esaustiva e definitiva. Il tema della doppia oggettività della natura
mette insieme l’idea dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e
inaggirabile, e l’idea della natura come banco di prova dell’esperienza umana
che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio
indissolubile tra il tema ontologico della oggettività, della natura,
dell’essere e quello etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei
progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle circostanze. In questo
percorso di superamento dell’oggettività della natura, di trascendimento della
sua alterità e di ricerca di principi di determinazione, l’uomo elabora le
proprie strategie di contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per
il pensatore italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di
quei principi primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere
al riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti,
ma bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i
nostri progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo
umano”506. La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi
nell’angoscia esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica:
“quella di guidare l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della
propria situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda
sull’idea del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò
che non è ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505
Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id.,
L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della
fantasia, cit., p. 259. 504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild
der heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione
nostra. ! 170! passato e futuro”508 in funzione di un presente.
Tale presenzialità tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con
un atomo temporale fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale
si riferisce il filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo
ed essere sono strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo.
Come leggiamo in Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora,
il NON-più e l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un
caratteristico aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un
carattere di nullità e sarebbe più corretto parlare di “presente del passato,
presente del futuro, presente del presente”511 che si danno nel ricordo e
nell’attesa. Una concezione del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra
capacità di percepire il tempo dalla nostra capacità di essere affetti
(affectio animi). Osserva Grassi che una simile concezione della temporalità
presuppone l’essere: non nel senso di ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma
nel senso di ciò che rende possibile le nostre esperienze. L’a-priori di ogni
esperienza temporale umana – quella dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione:
“il termine latino corrispondente ci chiarisce in che accezione appare qui il
termine attenzione: attentio significa tendere ad, e quindi attendere.
L’attenzione è quindi possibile nell’ambito di una tensione, di una tensio che,
come fondamento dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della
nostra capacità di intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e
ordiniamo i fenomeni in un modo”513. Solo nel contesto di questa
attentio/tensio originaria sorgono il presente, il passato e il futuro. La
struttura temporale della coscienza è a
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 508 Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e
storia, cit., p. 13. 511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14. !
171! fondamento del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini,
unità di misura come strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono
e ai quali dobbiamo corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514
della coscienza umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la
potenza delle quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di
soggetto e oggetto. La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè
tra soggetto e oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che
Grassi si propone di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a
prolegomena per una “semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo
potere originario che strappa l’esistenza umana dalla sfera della
consapevolezza del semplice segno biologico e la colloca in una situazione di
esistenza e di possibilità umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di
quel disancoramento primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come
produzione tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo
divenire e del suo superamento dell’immediatezza della natura allora il suo
compito fondamentale – il compito del vero umanesimo – sarà quello di
riscostruire la storia “di quella realtà originaria che l’ha strappato dalla
immediatezza della natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si
costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura
originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali,
tecnica, filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di
ricostruire – con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello
umano. L’uomo può realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda
originariamente e se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]:
sorge per l’uomo il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo
umano”518. Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni
singola esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che
escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 514 Cfr., sul tema
dell’autotemporalità come nota distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione
biologica Id., Vico contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id.,
Vico e l’Umanesimo, cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e
storia, cit., p. 12. ! 172! giusto, al tempo opportuno: poiché la
nuova esperienza di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza
dell’universale ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna
sapere quando, come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza
sarebbe “mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le
uniche capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come
realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo
olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande
interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo
umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo
dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice
dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle
origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della
retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica
antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai
problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola,
il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 519 Id., Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 256. 521 Ivi, p. 254. ! 173! CAPITOLO IV PALAIÀ DIAPHORÀ:
PENSARE E POETARE IV. I. Il significato della proposta retorica Nei capitoli
precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di Grassi
seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata
una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi
dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a
fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i
temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di
mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di
umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come
dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del
linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie
dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi
del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come
critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e
assoluti del positivismo logico, cui Grassi contrappone una logica del discorso
diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non
come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo
sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma
dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è
caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua
dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a
cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso
degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai
contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad
un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria
in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione, come
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 522 E. Raimondi, La
retorica d’oggi, il Mulino, Bologna 2002, p. 77. ! 174!
compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come
trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione
dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico la
retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa
produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti.
Il codice di cui parla il filosofo è “non soggettivo, non è scelto liberamente,
ma sofferto attraverso i sensi, in quanto essi si manifestano nella sfera del
piacere e del dolore [...] noi non abbiamo così il dualismo di codice e realtà
da decifrare, abbiamo invece il significato continuo, immediato e rivelato di
ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad agire sullo sfondo del discorso c’è la
riflessione antropologica novecentesca menzionata in precedenza: il concetto di
povertà, il paradigma dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come
animale carente, che si intreccia saldamente con la rivalutazione della
retorica come luogo privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo:
quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in
luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una
sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo
antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un
significato antropologico di retorica che si configura come la compensazione
dell’indeterminatezza dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica
di adattamento provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica
allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero,
uno strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa
della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle
istituzioni: la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel
poeta come oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la
riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del
senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del
segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al
livello !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 523 E. Grassi,
Vico e l’umanesimo, cit., p. 242. 524 E. Grassi, Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, cit., p. 135. ! 175! di filosofia in quanto
dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente
umano (ergon anthropinon)”525. La questione linguistica si intreccia con quella
antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia
primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si dipartono i mondi possibili
dell’umano. La declinazione antropologica della retorica in base alla quale
quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della
concreta situazione di vita”526 pone in luce come la retorica “assume un
significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la
tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale”527. Essa è la base di quel theorein che è
proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione razionalistica
ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come
tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”528. IV. II. La
retorica come critica del paradigma scientifico Il nucleo singolare dell’opera
di Grassi si rivela come una nuova e specifica prospettiva sull’umanesimo
retorico quasi sempre obliato dagli storici della filosofia del Rinascimento
tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come dimostrato dalla sua intensa
attività all’Istituto Studia Humanitatis (inaugurato il 6 dicembre del 1942
nell’università di Berlino), presso il Centro italiano di studi umanistici e
filosofici a Monaco (1948) e soprattutto dall’attività editoriale della
Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y Tarea, Grassi propone un’idea
diversa del pensiero umanista. Egli !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
525 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194. 526 W. Veit., Critica radicale
della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp.
99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113. 527 Id.,
Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono
nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp.
17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte nel II capitolo. ! 176! non
riduce tutto l’umanesimo al recupero del platonismo – ricordiamo l’opposizione
tra umanesimo platonico e non platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma
mette in risalto l’importanza dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica
il valore della parola poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi
vitale e storica. Lo studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di
una curiosità storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per
immettere la questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e
prassi che riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia
humanitatis. Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al
chiarimento di una concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica –
può sorgere a una nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve
la filosofia”, e quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la
problematica dell’umanesimo italiano – proprio in relazione alla preminenza
accordata alla prassi, alla negazione della parola astratta, razionale –
presuppone il superamento della dualità di una realtà esistente, sperimentata,
e di un mondo corrispondente alla ragione, una dualità che conduce
all’insuperabile divaricazione di teoria e prassi”531. Il recupero del passato
filosofico – la tradizione umanistica – fa tutt’uno con l’idea di un’utilità
pratica della filosofia che per Grassi nasce proprio come naecessitas, come
risposta all’appello dell’Abissale, poiché “conservare un passato (è indifferente
che si tratti di pensieri, monumenti o avvenimenti), non considerato in
relazione a un compito da assolvere nel presente, è il segno di una cultura
divenuta sterile. Ogni cultura, ogni tradizione, nella quale il passato perde
questa promettente considerazione, decade, avvizzisce. La tradizione si radica
solo nella comprensione del presente”532. All’interno di questa prospettiva il
filosofo milanese afferma che il vero umanesimo è quello che incomincia con
Dante e Boccaccio. Contro l’indirizzo “platonico” costituito dal versante
ficiniano dell’umanesimo per Grassi permane attraverso i contributi di Vives,
Nozolio, Peregrini, Tesauro, Graciàn, Vico, Muratori, Leopardi, una tradizione
non-platonica ma retorica, che resiste a quello !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
530 Cfr., E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo
VI “Antiplatonismo e platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza
dell’immagine, cit., pp. 259-260. 532 Ivi, p. 133. ! 177! spirito
razionalista che la relega nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione
di retorica e filosofia. Il punto di vista grassiano sull’umanesimo italiano
emerge in netto contrasto all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate
dal paradigma scientifico. Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la
conoscenza oggettiva sia l’unico modo per comprendere la realtà. Questo tipo di
impostazione logico-analitica, caratterizzata dall’utilizzo del metodo
scientifico, non è attenta all’hic et nunc della situazione concreta ma crede
di trovare assiomi autoevidenti universalmente validi: rispetto al discorso
retorico “il discorso razionale invece è fondato sulla capacità una di trarre
deduzioni e quindi di legare delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale
raggiunge la sua funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la
dimostrazione logica”533. Ne deriva che il discorso retorico non può avere
alcuno spessore filosofico all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine
fondamentale tra l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede
nella ricerca dei principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi
principi e la scienza si arresta alla constatazione delle premesse. Se il
discorso dimostrativo è quello che lega la definizione di un fenomeno
riportandolo ai principi ultimi, alle archai, “è chiaro che le prime archai di
qualsiasi prova, e quindi conoscenza, non possono essere esse stesse essere
provate, in quanto non possono essere oggetto di un discorso apodittico,
dimostrativo e logico”534. Da qui sorge il problema dell’individuazione del
tipo di logos adatto ad una ricerca sui primi principi, sulle premesse
indimostrabili. La risposta grassiana è nota: “l’uso di tali espressioni, che
appartengono all’originario, al non-deducibile, non possono avere carattere e
struttura apodittica e dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere
indicativo delle archai che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La
ricerca sul metodo adeguato per accedere al reale conduce Grassi a tematizzare
l’infondatezza di quella opposizione tra filosofia topica e critica.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 533 Id., Filosofia
critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p. 97. ! 178! IV. III. Retorica
tra filosofia critica e filosofia topica La dimensione retorica va considerata
secondo Grassi non come elocutio ma come inventio536: non si tratta di un
ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una
vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung
“umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della
metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della
metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami
dal mandato sempre provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico,
quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva
ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a
Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che
alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura
delle cose che altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise”
(Scienza Nuova, Degnità XIV) Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di
chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo
il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e
Vico, tra un filosofare critico e un filosofare topico, che divengono le due
allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare
quale bersaglio polemico di un discorso che vuole scardinare l’impostazione
razionalista del pensiero. Grassi fa sua la posizione heideggeriana che
sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione
ontologica valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo538,
tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non
ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 536 Cfr., sulle parti
della retorica dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo
di Liegi, retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di
retorica, Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione
heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e
Tempo, cit., §§ 19-21. ! 179! leggere in Essere e Tempo ai
paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella
metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa
sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che
rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce –
ad esempio, nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo
della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza
stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito,
ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una
nuova posizione dell’uomo539, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento
e la misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la
tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma
all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la
quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale
metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione
heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio
cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il
pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia
moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie
dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della
verità”542. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come
conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale,
storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato
dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia
critica e topica, viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo
teoricamente articolato nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di
cui egli ricostruisce minuziosamente le tappe della critica al razionalismo
cartesiano nel saggio Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di
pathos !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 539 M. Heidegger,
Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p.
169. 542 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos
e ragione, cit., in Id., Vico e l’Umanesimo, cit., p. 25. ! 180! e
ragione. Le questioni poste sul tavolo della discussione sono molteplici: la
pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione
delle verità seconde; esclusione del verisimile543. Se il primo vero riguarda
l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo,
le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono
l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici.
Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera
retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta
al suo puro aspetto cogitativo. Grassi pone l’attenzione sul passo vichiano del
De Ratione in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè,
come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità,
così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544. Si chiede il
filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali parte il
processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà,
limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo
critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la
sua unilateralità razionalistica?”545. Non è la deduzione che precede
l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente
sulla base di un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia
l’arte dell’invenzione di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui
già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità
di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali
elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a
disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da
una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli
forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La
radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di
un’esigenza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 543 Ivi, p.
35 e sgg. 544 G. B. Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39.
545 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e
ragione, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica,
101 b 3. ! 181! di unità nel quadro di una prospettiva
onto-antropo-logica che mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra
pensiero retorico e scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi
che l’essenza della filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale
non regge. Anzitutto perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività,
quella dell’invenire, che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di
trovare il fondamento comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva
non-riduzionista è capace di tenere conto di quella torsione che avviene
nell’uomo con il sopravvenire del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e
gli impulsi da un lato e gli scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i
diversi aspetti dell’umano che esprime il proprio senso della realtà
primariamente attraverso un logos metaforico e non tramite la definizione, il
concetto, il linguaggio razionale. Di conseguenza la soggettività che traspare
dalle riflessioni grassiane non è dotata di una identità monolitica e
infrangibile, non è compatta e unitaria ma è una soggettività frammentata e
consegnata alla contingenza, alla circostanza, costretta a ridefinirsi
continuamente. Il Da-sein è allora atto di ricomposizione, attraverso la “ragione
fantasticante”548 (che tiene insieme come compossibili e non come
contraddittori logos-pathos), dei cocci dell’esistenza tra i quali ci muoviamo,
consapevoli dell’instabilità e della mutevolezza, del divenire che necessita di
un logos adeguato alla sua espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia
grassiana ritroviamo un Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma
non rinuncia ad esporsi alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra
le pieghe e le piaghe che caratterizzano il movimento della vita. In questo
percorso di fondazione e di costruzione l’idea di retorica si pone in una
posizione innovativa. Come sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a
Retorica e filosofia Grassi può essere collocato di fatto nel contesto della retorica
contemporanea che mette in luce uno slittamento dalla teoria della
corrispondenza a quella !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
547 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e
ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 33. 548 Id., Viaggiare ed
errare, cit., p. 180. ! 182! della coerenza549. Afferma lo studioso
che “gli echi di Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling e molti altri
circolano nelle pagine di Grassi, ragione per la quale egli scrive nella
tradizione di coloro che credono nella natura circostanziale del pensiero e
nella implicita unità di idea e immagine”550. Tale slittamento mette in luce,
attraverso il ripercorrimento della lunga storia della retorica, da Aristotele
a Cicerone e Quintiliano, da Dante a Bruni e Valla, da Vico a Nietzsche e
Ungaretti, uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella
storia e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di
enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria
retorica grassiana mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per
dirla con McPhail551 che si fonda su una riconsiderazione del tema della
credenza/pistis. Il magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il
mondo della storicità umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno,
della metafora, il ruolo civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione
politico-economica dei miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di
convertire la natura in cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine
retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di partenza, i presupposti
dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue implicazioni gnoseologico-
pratiche e antropologiche. Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo
della vita, il momento che precede quello razionale, le archai originarie, di
natura topica e non critica, indicativa e non
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 549 Mette in luce
l’ipotesi dello slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della
coerenza in Grassi M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in
the Rhetorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118 in AA. VV,
Kenneth Burke and contemporary European thought: rhetoric in transition,
Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di Grassi nella
retorica contemporanea cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary
Perspectives on Rhetoric, Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp.
54-74. Per un approfondimento dei temi della coerenza e della corrispondenza
nelle teorie della verità cfr., M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della
verità nella filosofia analitica, ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La
retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of Rhetoric and
Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech 69, n. 2 (May
1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of Richards, Burke, Barthes, Derrida,
Ijsseling and many others ring through Grassi’s pages, for he writes in the tradition
of those who believe in the circumstantial nature of thought and the underlying
unity of idea and image”, p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail,
op. cit., p. 77. “A comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that
both writers’ conceptualizations of language exemplify the evolution from
correspondence to coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una
comparazione delle retoriche di Burke e Grassi mostra che le riflessioni sul
linguaggio di entrambi gli autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della
corrispondenza alla teoria della coerenza nella teoria retorica contemporanea”.
Traduzione nostra. ! 183! dimostrativa, ingegnosa e non razionale,
retorica e non logica, egli dedica attenzione particolare ad autori, quali Aristotele,
Vico e Leopardi, le cui riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale
della fondazione della civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una
idea di humanitas all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è
affidata al procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio
denotativo, chiaro e distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza
e all’opacità dei tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di
logica affidata alla pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il
filosofare noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -!
la focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei
principi epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione
umani -! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza
umana in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e
positiva in quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede
“l’esistenza umana come essenzialmente retorica ed esplora la metafora come
l’aneddoto rappresentativo dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La
concettualizzazione dei grandi temi della filosofia, ma anche dell’arte e della
letteratura, sposta l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo,
sulle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La
particolare considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo
contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma scientifico
sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico tradizionale
si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la via da
preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo logico e
ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso
l’individuazione del momento critico del pensiero razionale
nell’indimostrabilità dei principi.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 552 Ivi, p. 79. “Grassi
similarly sees human existence as essentially rhetorical, and explores metaphor
as his representative anecdote”. Traduzione nostra. ! 184! IV. IV.
La struttura della presupposizione Come leggiamo in La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la logica tradizionale
distingue tra due modi per fondare la conoscenza. Il metodo deduttivo comincia
da premesse e deriva le inferenze già presenti in esse. Qui è indispensabile
che le premesse risultino universalmente valide e necessarie [...] ma le
premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553. A fare problema
è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il filosofo
“quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè
originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può
avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele
– noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si
tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il
soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei
termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di
essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e logica555. Per il
filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi sono alla base di
ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso
il pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un
sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le
asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso
con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale
del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle
basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi),
pone la definizione di un
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 553 E. Grassi, La
priorità del senso comune e e della fantasia: l’importanza di Vico oggi,
pubblicato in AA. VV., Vico and Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press
International, New Jersey 1976, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43.
Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare noetico non metafisico, cit., p. 17. 555
Sul problema della presupposizione come mitologema originario della filosofia
cfr., G. Agamben, Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr.,
E. Grassi, Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit.,
97. ! 185! fenomeno riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è
chiaro che le prime “archai di qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non
possono esse stesse essere provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una
riflessione sul mito – come “principio instauratore originario di una comunità”558
– sulla dottrina topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione
originaria”559 – , sulla metaforologia – come “prassi linguistica e
biologica”560 –, sull’ingenium –come “proprietà comprensiva più che deduttiva
dell’uomo”561 – e sulla phantasia intesa nella sua funzione ontologica come
“attività originaria che scopre le relazioni sulla base delle visioni delle
somiglianze”562. L’apogeo della critica contro la deriva razionalistica del
pensiero si colloca nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni
aristoteliche di nous e di episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento
tra nous e archè, mettendo in luce la stessa matrice originaria dell’episteme:
l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi,
colti attraverso la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la
forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di
ogni dimensione deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella
sfera dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei
segni indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica,
patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non
ha luogo nella sfera !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 557
Ivi, p. 96. 558 Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e mito,
cit. 559 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 93.
560 Cfr., Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale,
cit., p. 192. “La facoltà del trasferimento di senso, il metapherein, è fin
dall’inizio essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia dell’umanesimo. In
problema epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo carattere immaginifico
e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la
teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso
particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta
all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id.,
Significare arcaico, cit., p. 491.! ! 186! dell’originario”564 –
palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare
che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente
semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous,
dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che
presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo
logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono
tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di Grassi che resta integro
proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope,
visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le
indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di
riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di
Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria
dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica
che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della
retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra rifiuto o
accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di
sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo si pone
è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica e
filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a
partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il linguaggio vive la
contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella
metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le
diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a
funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è
trattato, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 564!Ibidem.!
565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi cfr. M. Marassi,
Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi, La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi, Introduzione, pp. 11-27,
in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit. P. R.
Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto Grassi’s response to
Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, pp. 261-287;
M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of Kenneth
Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and
contemporary european thought, University of Alabama Press, 1995. !
187! allo scopo di mettere in luce non la compromessa unità del concetto
di retorica quanto piuttosto l’intrinseca capacità di generare significati e
contesti. IV. V. Il logos retorico: la tripartizione del discorso Nel contesto
dell’analisi delle molteplici forme di discorso Grassi parte dalla messa in
discussione della riduzione del discorso retorico a semplice tecnica di
persuasione. Secondo il filosofo il problema retorico può essere affrontato da
due punti di vista: si può considerare la retorica in senso tradizionale,
“quindi come arte, come tecnica di persuasione”567 o da una prospettiva più
generale di interazione con il sapere teoretico. Per comprendere il senso
autentico della concezione retorica dovremo prendere le distanze dall’approccio
speculativo che la riduce ad arte della persuasione, privandola della
componente filosofica. A tal proposito Grassi individua tre tipi di discorso:
-! il discorso retorico esteriore -! il discorso razionale -! il vero discorso
retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano
le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è
il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero
discorso retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è
indicativo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 567 E.
Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 55. 568
Ivi, p. 75. 569 Ibidem. ! 188! Tralasciando il secondo tipo di
discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra – vorremmo soffermarci
sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica della persuasione e come
discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo è quello di rintracciare
le caratteristiche del discorso semantico sulla base del quale è possibile
comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione sia il discorso
razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga il proprio
raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto della retorica
classica per divenire occasione per un ripensamento dei fondamenti del sapere
scientifico-filosofico e della tecnica oratoria classicamente intesa. Quella di
Grassi è non è l’ennesima sistemazione tassonomica del materiale discorsivo ma
una retorica come teoria che assurge a filosofia generale e che ha come oggetto
di riflessione i fondamenti pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi
del sapere. Il filosofo parla non a caso di significare arcaico. Leggiamo in
Retorica e filosofia che “il discorso indicativo o allusivo (semeinein)
fornisce la struttura in cui può nascere la prova. Inoltre se la razionalità è
identificata con il processo di chiarificazione, noi siamo costretti ad
ammettere che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale, e a
riconoscere che il linguaggio corrispondente, nella sua struttura indicativa,
ha un carattere evangelico”570. Secondo il pensatore milanese tale tipologia di
discorso – quello semantico-arcaico – è una Darstellung, una esposizione
fantastica-teoretica. In questa esposizione fantasia e teoria si identificano
in quanto facoltà della visione: “in tal modo il discorso che realizza tale
esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai) un significato”571. Il
sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra retorica e filosofia e
proprio in questa operazione di integrazione possiamo individuare l’unità del
discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già soffermati572. Afferma
il filosofo che “la filosofia non è una sintesi posteriore di pathos e logos,
ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere delle archai originarie [...]
quindi la vera filosofia è la retorica e la vera retorica è la
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 570 Id., Retorica e filosofia,
cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III
capitolo. ! 189! filosofia”573. Contro la tradizione occidentale
razionalista Grassi non pensa che la retorica non sia fonte di conoscenza vera,
anzi la retorica nasce dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il
termine retorica assume un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è,
né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il
discorso che costituisce la base del pensiero razionale”575. Si tratta della
tragedia del pensiero razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice
stessa del suo procedimento. La genesi della struttura del linguaggio
razionale, dialettico, dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante,
indicativo. Se il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può
nascere la prova, la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo
riconoscere che il linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed
evangelico “nel primitivo significato greco di questa parola, cioè di
osservare”576. La retorica come punto di partenza della scienza e della
razionalità è contrassegnata da una nota antropologica che si configura come
compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora
costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno
strumento di azione in mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto
Blumenberg “assioma di ogni retorica è il principio di ragione
insufficiente”577 e ciò vale anche per Grassi che conosceva bene Blumenberg578
e che asserisce, con una sorprendente consonanza teorica, che la retorica nasce
dall’insufficienza del pensiero razionale. La retorica allora mostra
l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un lato l’insufficienza e
dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono da quell’insufficienza
originaria e che non possono essere messe da parte in nome di una scienza della
verità e dell’evidenza. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
573 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id.,
La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id.,
Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576
Ibidem. 577 H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987, p. 103.
578 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H.
Blumenberg, Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di
Marbach. ! 190! Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra retorica
dell’ornatus579 e retorica come prestazione metaforica580, tale che la retorica
come compensazione di una mancanza non si articola anche come compensazione di
una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in ultima istanza una
piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in Grassi la compensazione entra
in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di evidenza, per eccesso di
verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente, che ci incalza e ci chiama
– l’Appello dell’Essere – appare nella sua evidenza abbagliante che possiamo
solo patire. Come possiamo leggere in La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono gli enti ma ciò che in
funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si impone sempre
carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto di “segni
indicativi”, cioè dell’Abissale di cui i sensi sono strumenti”581. Das Reale
als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è il reale,
il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa scattare
il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della vita che è
evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è caratterizzata da
un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione esistenziale – sia
essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in Grassi retorica e
filosofia, pathos e logos non sono che due approcci metodologicamente distinti
ma che hanno una medesima origine: il reale che genera angoscia, la quale
indica la “fondamentale esperienza esistenziale dell’inadeguatezza del codice
biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale puramente biologico e [...] a
mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla consapevolezza
della propria condizione strana e non addomesticata”583. La proposta retorica e
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 579 Quella dell’uomo
ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la
verità e che fa della retorica una tecnica compensativa. 581 E. Grassi, La
metafora “inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, pp. 5-20, in
Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1, 1988, p. 15. 582 Id., Retorica come
filosofia, cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono nostri. ! 191!
linguistica del filosofo si pone in antitesi alla coeva retorica di
Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria dell’evidenza. In Trattato
dell’argomentazione abbiamo una definizione del discorso proprio in relazione
al suo rapporto con l’evidenza: “la natura stessa dell’argomentazione e della
deliberazione s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera
dove la soluzione è necessaria, né s’argomenta contro l’evidenza. Il campo
dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui
questo sfugge alle certezze del calcolo”584. Secondo questa concezione il campo
dell’argomentazione è la prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere
è quello dell’incertezza. In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte
rientrano tutte quelle opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze
che non si qualificano come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad
una verità (che risponde solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a
pieno titolo in quell’idea di ragione integrale in cui il vero si declina come
verisimile. Emerge il tema dell’eikos concettualizzato anche da Grassi nella
sua lettura di Vico e che mostra il progetto di una nuova retorica che fa
appello ad una idea di ragione e verità che non si misura solo con il criterio
dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di verità delle questioni morali,
sociali, politiche e religiose. Afferma il filosofo in Retorica come filosofia
che il logos della nuova retorica è quello capace di dire “il fondamento del
mondo umano, il mondo come espressione di disperazione nella situazione
specificamente umana”585. Tale logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e
verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la totalità di significatività
nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo che “questa distinzione
– quella di onoma e rhema – acquista un significato fondamentale. La parola in
quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non
esiste mai isolato, poiché appare sempre solo nella dinamica di un compito da
adempiere rispetto a certi bisogni”586. La parola allora non definisce e non
isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in cui accade la loro relazione
reciproca e la connessione con !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
584 C. Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova
retorica, Einaudi, Torino 2001, p. 3. 585 E. Grassi, Retorica come filosofia,
cit., p. 191. 586 Ivi, p. 192. I corsivi sono nostri. ! 192!
l’essenza umana. “La parola in quanto presupposto e annuncio [...] viene perciò
espressa nel linguaggio retorico, in quel linguaggio che si impone nel nostro
impegno disperato e patetico, dal momento che la preoccupazione principale è
quella di formare l’esistenza umana”587. Proprio perché massimamente evidente
nella sua poliedricità il reale trova la sua dicibilità nella multiformità
linguistica: attraverso il dire metaforico. Secondo il filosofo la “metafora
agisce come una luce perché presuppone un’intuizione di relazioni”588.
L’essenza della parola risposa nella sua struttura analogica e traspositiva.
L’unica parola capace di indicare il trasferimento, il potere di mutazione e
trasposizione è la metafora. Grassi sottolinea come “il traslare (metapherein)
non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario: il
termine metapherein indica il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro –
dualità – il che presuppone un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve
progettare, cioè gettare da un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589.
La questione non è tanto quella di congedarsi dalla verità ma quella di
abbozzare i prolegomeni per una riflessione metodologica sui fondamenti del
discorso, sui presupposti dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana
prende congedo da un’idea di evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa
perno su un’idea di evidenza come certezza: lo sfondo antropologico della
retorica sottolinea come il nostro sapere sia basato sulla fiducia, sulla
pistis che ha la stessa radice di persuadere. La certezza è una sorta di
fiducia originaria. Come il filosofo asserisce in Il ripudio del razionale la
pistis “non è opinione né conoscenza [...] poiché non ha le radici
nell’indicazione di una ragione, ma è il risultato di un’esperienza
fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento scaturisce
dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della parola:
l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi
dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti
antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne
retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 587 Ibidem. I corsivi
sono nostri. 588 Ivi, p. 167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale,
cit., in Id., Vico e l’umanesimo, p. 165. ! 193! lunga “preistoria”
umanistica dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il
fondamentale incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica
della funzione della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica
diviene una tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere,
l’uomo, che si scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di
strategie indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo
culturale. Il discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del
politico all’interno del processo linguistico che rende possibile la fondazione
della comunità. L’apertura è verso una considerazione della retorica come
meccanismo antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione
metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto
di vista antropologico, come fa Grassi, significa rintracciare il fondamento
tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un
sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una
Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva
ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come
si afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della
logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”591 e per comprendere
questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie
che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione
politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma
paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è
costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso
come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una
retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono
subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi
possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso
di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 591 Id., Retorica come
filosofia, cit., p. 133. 592 Ibidem. Corsivi nostri. ! 194! La
radicalizzazione antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un
aspetto fondamentale dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico
dell’uomo che genera la retorica, in qualità di prestazione
sostitutiva/esonerante, non esce dalla logica compensativa. La retorica rimane
per Grassi – proprio per la sua valenza antropologica – una prestazione
compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione finisce con l’essere attribuita
retrospettivamente alla metaforologia e in prospettiva alla creazione di istituzioni.
La declinazione antropologica operata da Grassi comporta che il fenomeno
storico “retorica” sia privato della sua storia concettuale e delle sue
funzioni effettuali nella storia della cultura e della società, e sia eletto a
metafora assoluta della conditio humana. Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti
del discorso di Grassi, che rimane chiuso in un’interpretazione che in ultima
analisi lo costringe a considerare il comportamento tecnico dell’uomo come una
prestazione sostitutiva/esonerante, non uscendo dalla logica compensativa, e
non fornendo in alcun modo una lettura adeguata della natura tecnica dell’uomo,
cioè di quella stessa interazione natura/ars da cui pure muoveva l’interesse
antropologico per la retorica. La salvaguardia delle molteplici forme di
apparire dell’essere – il vero, il buono, il bello – , della metamorphè
costitutiva del reale, induce Grassi a ricercare la forma linguistica adeguata
a dire tale metamorphè. Il filosofo si pone i seguenti quesiti: -! “attraverso
che cosa sorge il mondo umano se l’uomo, a differenza degli animali, non ha un
ambiente immediato, se questo deve essere costruito ogni volta dall’individuo?
In altre parole, qual è la causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come
si rapporta questa costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del
logos?”594 -! “è possibile superare la concezione puramente formale della
conoscenza?”595 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 593 Ivi,
p. 183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo nostro. !
195! Le domande che vengono poste riguardano tre livelli della
riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà; il
piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema
epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi
problemi comporta per Grassi un’analisi della storia dell’umanesimo che propone
una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto
formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del
passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto
dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il
filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi
senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo
organico. IV. VI. Il mondo organico L’analisi del mondo organico mostra degli
aspetti che “possono essere ritrovati nel mondo sacrale”596 e retorico.
Nell’ambito dell’organico “ogni genere e specie vivente sta sotto i propri
segni determinati e indicativi”597. Tali codici/diastema mostrano che “la
realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni”598. Le
selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale
simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica
“un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il
filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle
analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce
su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 596 Ivi, p. 182. 597
Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp. 180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p.
181. ! 196! Dal punto di vista grassiano i semata che ritroviamo
nel mondo biologico mostrano un’intrinseca forza induttiva
(epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di guida (arcaico) che costringe
l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti del proprio cerchio
funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione. “Questi segni
possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un significato a ciò
che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento di significati
appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce la sua sola
realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi di questi
ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco come
ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per l’autoconservazione.
L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in cui la comunicazione
avviene per voci significative (psophos semantikos) viene meno nell’uomo. La
rottura del codice non verbale immediato che porta alla genesi del mondo umano
implica anche il superamento del livello della “comunicazione fonetica
immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio si profila un compito
per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui vivere”603 che spetta
all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi immediati del mondo
olistico e non problematico”604. L’esperienza della frattura – la
disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di
fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che si presenta
nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice
immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale?
Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o
prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato?
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 600 Ibidem. 601 Ivi, p.
182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem. !
197! IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo Grassi occorre
rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per
eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola
gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il
loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la
dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos –
un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se
l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e
oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può
essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già
sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò
si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia
indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della
separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa
con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice
pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice
immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè,
un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di
un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non
addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da
Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla
voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una
concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 606 Ivi, p. 185. Il
riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in Modelli
matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp. 187-188. 608
Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189. ! 198! linguaggio, in La metafora
inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La metafora
inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al problema
del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné. Prendendo in
considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II libro del De
anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi del
linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura
metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio.
“Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce
(phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos
semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di
completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una
metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno
indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce
è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi
che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione
l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo
“è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza
significato e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. Grassi dispprova la
spiegazione aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale
spiegazione non tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che
nel caso dell’uomo è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere
presente che il suono “ci appare solo entro l’ambito di un codice che si
impone”615; bisogna considerare la mutevolezza del codice616. Come
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 610!Id., La metafora
inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele,
De anima II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.!
614!Ivi, p. 43. 615 Ibidem. 616 Ibidem. ! 199! è noto Aristotele
definisce il suono come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro
qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. É pertanto
impossibile che si abbia un suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il
percuziente e il percosso sono distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in
voce occorre tenere in considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere
animato può produrre il suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi
determinanti della voce sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e
il suo carattere interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per Grassi
occorre risalire all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio
l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce
al filosofo ad affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che
manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia
voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un
suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici
schiudono “il teatro, nel significato originario di questo termine, cioè il
luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito
significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei sensi.
Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale
specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo
di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal
tipo di stimolazione a cui è sottoposto – Grassi individua la possibilità di
rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli
afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività
della voce (che traspone un significato al suono) si radica
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 617!Aristotele, De
anima, II libro, 419 b 10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un
suono dell’essere animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una
voce, ma per somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E.
Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale
Grassi fa riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen,
Koblenz, 1826, pp. 4-5. 622!E. Grassi, Prolegomena, cit., p. 45. !
200! originariamente nella significatività già presente nei sensi. Questi
ultimi dotati di un’energia specifica e carica di significato pongono in luce
l’ambito originario di formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che
rivelano i sensi, entro i limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon,
estraneo ai sensi, non è un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis,
intesa come parousia”623. Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale
ambito originario ha una struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere
la metaforicità del reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in
cui l’uomo fa esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in
cosa consiste il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella
passione, nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e
dolore – fa l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere
a ciò di cui è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di
corrispondere all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta
si presentano all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas
esistenziale”625, del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il
proprium dell’uomo, ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò
che ci è consueto, ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci
sentiamo a nostro agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma
quale linguaggio, quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la
parola nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta,
aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la
spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce
quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi
è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 623!Ivi, pp. 49-50.!
624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della
parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di estetica”, Bologna,
pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21. ! 201! della metafora nella sua priorità
rispetto al concetto, e della poesia come espressione della storicità
dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il filosofo che “il
vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento
razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si chiede se la
metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un mezzo solo
letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628. La Frage
che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente
onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il
modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo
circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per
Grassi un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che
“alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè
di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione
non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che
appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile
una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa
ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La
metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica
nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale
analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro
mondo”629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi
della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come
fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora
godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo
una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che
“riconosca !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 627 Id.,
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem.
629 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, p. 76. Corsivo
nostro. 630 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 14 ! 202!
l’importanza dell’esperienza storica”631. La riflessione sulla metafora è per
Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che non è in
grado di dire la natura temporale, storica e metamorfica degli enti, che si
esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo
interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano
l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui la
preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli asserisce che “l’indicazione
(semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la
cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”632; essa è la
condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al
mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio
semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio
primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva.
Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che
non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos ermeneutico, quello
dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Secondo il
filosofo “il termine metafora è esso stesso una metafora; deriva dal verbo
metapherein, trasferire, che originariamente descriveva un’attività concreta.
Alcuni autori limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole,
cioè di una parola dal suo proprio campo a un altro. Tuttavia, tale
trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle
somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare il concetto al quale spetta
come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo
fondamento universale. Nella ricostruzione etimologica grassiana il significato
di hòros può essere colto nella sua portata originaria mediante il riferimento
“al verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice
hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del
fondamento. La definizione (horismòs)
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 631 Ivi, p. 15. 632 Id.,
La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633
Ibidem. Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr.,
sull’analisi della metafora in Grassi M. Marassi, E. Grassi e il primato della
parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del
Novecento, IF Press, 2011. ! 203! esprime in tal caso proprio
questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per
forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che è compito della
retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello
storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più gioco letterario ma
originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale è possibile porre
“la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza
dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno
che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica espressione
delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo” 638,
costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso autentico della
metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel
“dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos
guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione
sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del
divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile
linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti,
Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione
storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein
La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del
linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa
come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto
traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio
da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come
trascendentale del linguaggio. Come
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 635Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id.,
Significare arcaico, cit., pp. 479-495, p. 494. 637Id., Potenza della fantasia.
Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id., Significare
arcaico, cit., p. 494. 639 Id., Il colloquio come evento, cit., p. 71. !
204! emerge già a partire da Il problema della metafisica platonica
il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi inevitabilmente con
quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema
della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo
Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione
primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale
della metafora, che per Grassi non è un gioco letterario ma la prima forma
dell’ingegno, del nous “e come tale unica espressione delle archai nel loro
carattere palesante e immediatamente indicativo”640. Il polimorfismo ontologico
viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico, ingegnoso, in
grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità,
questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della catena
delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello
di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a
partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di
ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo
strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere
descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti
riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò
che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del
modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la
“realtà”. Per Grassi la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un
medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda:
essa è ed è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le
culture interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo
afferma in Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento
indeducibile del linguaggio che “non va dimenticato che il traslare
(metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno
letterario; il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro
luogo e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 640 Id.,
Significare arcaico, cit., p. 494. ! 205! ciò presuppone un
passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio,
gettare un ponte da un luogo ad un altro”641. L’approccio
antropologico-filosofico descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso
attraverso la metafora, e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia
della fondazione del mondo della vita e della comunità umana individuando nei
processi di metaforizzazione e di concettualizzazione i congegni
antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione. Nella semantica
metaforica di Grassi non trova posto l’usuale contrapposizione del senso
traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti “il termine metafora
indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la precisione il
trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più tardi il
termine compare anche nell’ambito del linguaggio”642. Se l’idea che riduce la
metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua matrice pratica
– va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che tenta di
sostituire la metafora al concetto. Per Grassi la metafora non si trova a
supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un significato
di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da quello
proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici – l’esattezza –
determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo dire una
riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono contraddistinti
da una cristallizzazione del significato in un unico percorso interpretativo,
da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale alla chiarezza e
distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una filosofia pura. Per il
filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora equivale perciò a chiedersi se
la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico soltanto un residuo di
rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si mette sulla via del logos”643.
Nella prospettiva tradizionale la metafora sembra peccare di imprecisione,
ragione per cui è sempre stata estromessa dalla filosofia, per essere
ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 641 Id., Prolegomena ad
una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id., Potenza della fantasia,
cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. Corsivi
nostri.! ! 206! guardare quella che per il pensiero logico è una
imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento distraente che non
ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di una precisione
intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di precisione della
metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui carattere di epocalità
è rintracciato proprio in quella divaricazione della metafisica in ragionata e
fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano dell’homo non intelligendo fit
omnia Grassi asserisce che “se con la metafora [...] si risponde alle varie
necessità, il linguaggio metaforico, ricco di elementi fantastici è originale,
preciso, a differenza di quello astratto che si allontana”645 dal reale.
L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una metafora drammatica e
inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una feconda espressione di
Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e va a strutturare i
codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose.
Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica del giudizio (1790),
trattando il procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il
simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora grassiana. Essa determina
un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo che si trova a esser
strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora un’epoca esprime le proprie
certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le
azioni e gli interessi. Essa assume la
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 644 Id., Prolegomena,
cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico e
l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora
inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica
dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti,
Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della
metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A.
Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385.
“A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso
della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a
quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione
schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni
(Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono sottoposte a
concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono
esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono
dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui il
Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto
all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare
la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del
tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è
piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui
l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un
simbolo per la riflessione”. ! 207! funzione del codice. Per il
filosofo occorre “sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione
tra codice e metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e
interpretare la realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di
segni, gli elementi dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 –
“costituisce una sorta di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra
un’analogia con il codice poiché rende possibile la visione degli enti e
soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria
aristotelica esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora
significa percepire con la mente l’oggetto affine”651 Grassi pone strettamente
in relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va
identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera
la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo
nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La
metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce,
in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede
la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653
codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene
Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un
codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e
sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che
conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione,
scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654.
Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è
paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un
metodo che risale verso archetipi, i quali
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 648!E. Grassi, Heidegger
e il problema dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem.
651!Aristotele, Poetica, 1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia,
cit., p. 74. 653!Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.!
654!Ivi, pp. 76-77. Corsivi nostri. ! 208! fungono da paradigmi
esplicativi dei comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della
storia della cultura occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen
originario di riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si
espandono i concetti e i confini dei campi semantici, stabilendo nuove
connessioni di senso, soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e
ogni autore attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito
dalla metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene
quindi portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla
contrapposizione tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua
volta nasconde l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda
che chiede “come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua
trasposizione?”655 alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un
senso traslato o proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la
struttura di “visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con
una concezione del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la
metaforologia grassiana indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non
è dunque l’esistenza di un correlato di cui si asserisce l’assenza di
formalizzazione linguistica o l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di
esporre linguisticamente l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein.
Grassi elabora una semantica metaforica che affonda le sue radici in un
orizzonte di inconcettualità e sposta l’attenzione su quella dimensione di
gettatezza, sul nostro essere calati in un mondo di immagini che chiedono di
essere interpretate. In uno dei suoi ultimi testi, La metafora inaudita, Grassi
si mostra meno interessato al percorso di nominalizzazione che porta la
metafora verso il concetto, come accadeva invece nei precedenti lavori
sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta sempre di più verso il terreno in cui
si formano le metafore, e cioè il mondo della vita, la Lebenswelt che mostra
tutto il suo assolutismo, che viene contrastato proprio attraverso le
prestazioni della distanza nelle forme del mito e delle metafore assolute, e
quindi delle diverse pratiche metaforiche che traducono queste !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
655 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem. ! 209!
prestazioni, la cui funzione principale risulta allora compensatoria ed
esonerante. Leggiamo in Il dramma della metafora che “la parola metaforica
esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che
appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di
un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante
giusto”657. I processi di metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà
sono in altre parole lo strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare
l’assolutismo della realtà e a rendere meno violenta la sua percezione.
L’analisi della prassi metaforica parte dalla domanda “dove, come patiamo
l’oggettività dell’essere?”658 che sorge laddove si fa esperienza
dell’incapacità di restituire la ricchezza della res – il mondo oggettivo –
attraverso l’univocità della definizione. Se “l’essenza della parola consiste
nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato, necessariamente il
problema della verità sempre e ovunque valida deve venir sostituito dal
problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia”659. La retorica è
la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in volta viene
all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella dell’Ereignis.
Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti mediante un processo
razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È questo il prezzo da
pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a distanza tutti quegli
elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni. Sostiene Grassi in
Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano a determinare
ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale dell’Umanesimo
e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di Cartesio desidero
esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. Grassi è mosso dal
convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche del
sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere verità e
certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di erudizione
filologica che ha a che fare con la sfera delle
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 657Id., Il dramma della
metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli
1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la phonè
come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri. 660 Id.,
Retorica come filosofia, cit., p. 80. ! 210! passioni e delle
immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre una
priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a Aristotele.
Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi vuole proporre
un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un ruolo
preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi fondamentali:
le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va respinto in quanto
“ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza razionale e verità
rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia disadorna,
impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in considerazione
l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola, come ciò che
apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale all’interno
degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve essere
considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663.
Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero
umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola
su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va
inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non
designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal
contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica
stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla
parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare.
IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico
individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della retorica nella
sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso
esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto
a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su
basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica
intesa come argomentazione debole o
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 661 Id., Viaggiare ed
errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza dell’immagine, cit., p.
242. ! 211! tecnica del bel parlare – induce il filosofo a
ripensare la correlazione retorica-filosofia a partire dal nesso
vero-verisimile. Il tema è al centro di un saggio su Vico degli anni ’40, Del
vero e del verosimile in Vico664, che mostra come la figura del filosofo
napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di pensiero
grassiano665 – e non uno sbocco finale della filosofia di Grassi – e
costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In
Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio
retorico, che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto
dell’ingenium. Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio –
ritornante in maniera fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico,
Grassi sottolinea come a differenza della filosofia critica poggiante sulla
ratio la filosofia topica vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della
fantasia che sono facoltà di apprensione del reale immediate e intuitive e non
deduttive. Asserisce il filosofo italiano che la fantasia vichiana “è
l’espressione dello spirito umano in quell’istante del ciclo storico, che esso
deve sempre nuovamente percorrere, quando l’ente originario si rivela all’uomo
solo in immagini, simboli, miti. A riguardo si deve notare che anche il mondo
della fantasia, come prima fase dello sviluppo dello spirito umano, non è un
mondo primitivo in senso negativo; è essenzialmente e perfettamente formato in
sé, per certi aspetti è ancora più vicino all’ente originario di quanto non lo
sia il mondo della ragione”666. A differenza del pensiero critico il pensiero
topico ha come suo oggetto tematico il verosimile che appartiene alla sfera del
possibile e non del necessario ed è legato al tempo e allo spazio della
situazione. Leggiamo in Retorica e filosofia che “solo l’intuizione delle
caratteristiche comuni o condivise nel senso summenzionato rende possibile il
conferimento di significati che consentono alle cose di apparire (phainesthai)
in modo umano. Poiché tale capacità è tipica della fantasia, è proprio
quest’ultima a permettere al mondo umano di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 664!Id., Del vero e del
verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi scritti, cit.!! 665 Sulla
presenza di Vico in Grassi cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.; S.
Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di E. Grassi, cit.; J.
Sanchez-Esquillace, E. Grassi y la filosofìa del Humanismo, cit., J. M.
Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In dialogo con
Vico, cit. 666!E. Grassi, Del vero e del verosimile in Vico, cit., p. 963. !
212! apparire”667. Conseguentemente la fantasia si esprime
originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei significati
[...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto interpretativo stesso
che assurge dal particolare all’universale attraverso la rappresentazione di
un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua importanza per gli esseri
umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e ogni atto metaforico e ogni
metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo”668. É evidente che
l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano linguistico. La
metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine poiché per la sua
struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico: quello della
formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto
metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel
secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della
fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si
basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una
impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione
integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si
identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere
noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano
nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende
come la poesia per Grassi – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un
ruolo fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un
compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia
assuma per Grassi una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali
che la fantasia “immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli
eroi, essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone
sotto i nostri occhi terre infinitamente lontane,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 667 Id., Retorica come
filosofia, cit., pp. 38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una
concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio,
cit., p. 48. 670 Come abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la
Bildung dalla Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo
aspetto fondativo e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e
ragione nella filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico,
cit., p. 18. ! 213! abbraccia quelle distinte fra loro, valica
quelle inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle
impervie”672. L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza
vichiana è sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di
analisi della fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per
delineare una storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della
fantasia mira a sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente
umana riesce ad attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce
anche dal Cassirer filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i
diversi campi della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno
specifico libero mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata
porta tuttavia in sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una
sensibilità già formata e quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di
un sensibile semplicemente dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità
sensibili prodotte in una qualche forma del libero immaginare”674. Secondo
Grassi nella tradizione umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e
la relativa attività metaforica vengono interpretate come fonti originarie
dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è
l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il
metapherein?”675. Nel tentativo di risolvere la questione Grassi ricorre a
Vico, considerato l’ultima “vetta”676 dell’umanesimo. Egli offre con le sue
riflessioni sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione
fortunata per un ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori
dei cardini dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore
della Scienza Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica
della fantasia al fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e
concretezza –, un accesso che la logica tradizionale, con
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 672 G. Vico, Le Orazioni
inaugurali, I-VX, a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673
E. Grassi, La potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale,
cit. 674 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze,
1967, p. 22. Cfr. per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla
facoltà mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme
simboliche cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer,
pp. 85-104, in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando
Siciliano, Messina 2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239.
Corsivo nostro. 676 Ibidem. ! 214! la sua ricerca rivolta
esclusivamente all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore
milanese con Vico siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di
penetrare la realtà del mondo storico umano e individuale con maggior successo
di quanto non faccia la logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato
il centro speculativo della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia
ma antropologia innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende
possibile la nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle
attività che liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema
fondamentala di Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario
all’interno del quale soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia
il mondo umano come tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura
dell’esistenza umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato
ci consente di apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un
Vico antropologo delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico –
e dall’altro di cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage
onto-antropo- logica grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso
l’attenzione all’ursprünglich Rahmen680 – la Lichtung – e alla Struktur des
menschlichen Daseins681 – l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei
precedente capitoli. La questione del cominciamento del mondo umano è
intimamente legata a quella dell’origine della storia e dunque alla socialità a
cui Vico assegna il ruolo di elemento fondativo delle istituzioni politiche.
Grassi punta a sottolineare non tanto l’aspetto metodologico e
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 677 Ivi, pp. 239-240.
678 Cfr., su questo aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La
scienza della fantasia, Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas.
Journal of the Institute of Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso
sostiene che la comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e
dall’attività razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini
e dalla forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del
concetto vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio
Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M.
Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e
della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In
dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680
Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte
abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.
! 215! storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella
Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono all’origine
del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del mondo e della
natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e talvolta presentata
dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto alla ragione.
Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di produzione di
immagini che rappresentano una griglia interpretativa della realtà,
costituendosi come condizione trascendentale della crescita e dell’apertura
mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione del suo cammino
storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il suo essere nel
mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio vitale683, sebbene
attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma pur sempre vera,
dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena conoscenza di fenomeni
che sono stati creati da una identità superiore all’uomo. Pur accogliendo la
prospettiva grassiana della rivalutazione del tema della fantasia in Vico
vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il mezzo di controllo
della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola capace di regolare
il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al mondo reale – viene
salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero. Qui si inserisce
anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De ratione, per cui gli
uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di educare il loro modo
di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta l’utilizzo del metodo
matematico. Il filosofo napoletano, come è noto, distingue due fasi della vita
di un uomo in cui, a seconda dell’età e dell’esperienza acquisita, queste due
capacità intellettive hanno una valenza specifica e una preminenza nei
confronti dell’altra: nei giovani prevale la fantasia, negli adulti prevale la
ragione. Sostiene Vico che “come nella vecchiaia prevale la razionalità, così
nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in alcun modo opportuno
nei giovinetti offuscare !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
682 Per una lettura antropologia della Scienza Nuova cfr. L. Amoroso,
Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit.,
p. 53 e sgg.!! ! 216! quella che è sempre stata considerata l’indizio
più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale dei fanciulli li
agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente fondamentale in
questo determinato periodo della formazione della personalità umana. Con l’età
adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli enti, a far
prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di minorità. Vico
accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo, senza porre un
antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico, sottolineando con forza
come non debba essere oppressa e trascurata la fase originaria dell’essere-
nel-mondo umano, quella immaginativa, che è fondamentale per la crescita di una
persona. Infatti Vico riconduce la fantasia sotto la categoria della memoria,
che a sua volta si suddivide in tre distinte fasi: memoria come attività
dell’intelletto umano che “rimembra le cose”; fantasia come attività che
“altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno come attività che “pone in
acconcezza e assestamento” ciò che è stato precedentemente modificato. Come
sottolinea Cristofolini occorre tenere presente la duplice valenza della
fantasia in Vico: da un lato essa costituisce la capacità “primitiva” di creare
un impero della fantasia e del mito; dall’altro necessita di essere limitata e
sottomessa alle strutture della ragione685. A differenza di un’ipotesi che
ricomprende il concetto di fantasia all’interno di uno sviluppo razionale
graduale e progressivo Grassi propende per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza
delle molteplici interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili,
crea le prime analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e
infine le definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo
adattamento della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella
domesticazione dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale.
Grassi individua tre significati fondamentali della fantasia
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 684 G. B. Vico, Sul
metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, p. 37.
685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Nis,
Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia
nelle opere di Vico, in Id., Vico e l’umanesimo, p. 89. ! 217!
vichiana: -! “nella fantasia e mediante la fantasia si mostra che l’essere
umano, a differenza dell’animale, non soggiace a modelli dominanti che danno
alle percezioni sensibili un significato inequivocabile”687 -! “la seconda
funzione della fantasia fu di costringere l’uomo a farsi dominare dalla paura,
dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la terza funzione della fantasia è
quella di essere il primo originario fattore che dà un significato al
lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo significato è
strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo senso è legata
alla nascita della religione come prima forma di adattamento della natura e di
genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione alla fondazione
sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il proprio raggio di
incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la fantasia è la facoltà
della visione per eccellenza, essa è l’occhio dell’ingegno. Ingegno e fantasia:
entrambe facoltà che insieme al senso comune costituiscono la triade
ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e della Scienza Nuova.
Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico umano attraverso
il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso comune e della
fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio vichiano il mondo
storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane, dagli elementi di cui
abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di intervenire nella natura
umanizzandola e anche la necessità di stabilire istituzioni umane, comunità
sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di questa struttura ritroviamo
il senso comune !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 687 Ivi,
pp. 88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del senso
comune, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. ! 218! che è
guidato dall’ingegno. Per Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze
e basata sulla facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati
alle percezioni sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce
la facoltà originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà
che appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma
Vico nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo
faculitas da cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia
nel fare. Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]:
senso, fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre
il filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia
e ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di
definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le
affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo.
L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio
dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale
l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una
rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra
essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della verità.
Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché usandola,
noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la facoltà del
congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto indiscutibile
che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo intelletto e tende
ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa corrispondere
all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua capacità
immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo “stato di
ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della fantasia
all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in un’affinata
facoltà poetica, in !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
691!Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica del 1710, a cura di A.
Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694 Ivi, p. 114. !
219! una forza creativa che aiuta l’immaginazione dei poeti e la loro
capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la trasformazione
dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica a quella
prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una vivida
fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia che,
tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece
caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di
interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la
fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione
del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca
al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare
improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli
restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della
storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè
chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune,
o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la
fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia,
l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà
che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito
e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come
fondazione della comunità politico sociale ci consente di comprendere
l’estensione del discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di
Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi
alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di
Grassi Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato
nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel
1956 con il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 695 E.
Grassi, La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico
oggi, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und
Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda edizione riveduta e ampliata E. Grassi,
Kunst und Mythos, Frankfurt a. m. Suhrkamp, 1990. ! 220! titolo
Mito e arte in “Rivista di filosofia”, Gentili affronta il problema del mito in
Grassi quale evento originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio
ad una serie. Il lavoro condotto da Grassi sul mito è inquadrabile all’interno
di una prospettiva di demitizzazione che non è omogenea a quella di
razionalizzazione. “Nella misura in cui – Grassi – legge il mito alla luce
delle sue relazioni, porta allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e
demitizzazione”697. Come interpretare allora la relazione complessa e
articolata tra il mito e i suoi prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione?
Grassi analizza il mito quale atto di fondazione originario, arcaico,
indeducibile, attraverso le relazioni che lo stesso mito fonda: relazioni
retoriche e poetiche, religiose e anche filosofiche. Tuttavia la filosofia
interpretata come sapere dedotto e non originario non può avere il ruolo di
fondazione che solo la poesia riveste. Per Grassi il “mito fonda (begründet) il
logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo”698. Nella ricostruzione
grassiana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto che è alla base
delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia, ma persino
della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di mito come
storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che “il mito esige
di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima,
originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in sé
compiuto. Mito è ciò che dà ordine”699. L’essenza del mito va collocata
nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e
ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della
prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica
poiché nel mito “domina il tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo
italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, W. F. Otto,
individua due significati fondamentali del mito701:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 697 Id., Arte e mito,
tr. it. a cura di C. Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698 Id.,
Potenza dell’immagine, cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150. Corsivi
nostri. 700 Ivi, p. 166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 221!
-! il mito come favola e creazione artistica -! il mito come realtà
religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come favola e creazione
artistica – Grassi si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta nella Poetica
sul mito come “sintesi delle azioni” in cui è sovrapponibile la sua valenza di
fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito come realtà
vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un orizzonte
chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto, mito,
composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non secondaria
importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché “nasce nell’istante in
cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene infranto. Nel
momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece si manifesta
l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali”702. L’arte si pone
come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al mito – il suo
divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della dimensione
mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno strappo, una
lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre dell’universo
mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo artistico.
Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale, religiosa ed
esemplare. Per Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente distinto da quello
profano, in quanto il profano presuppone una temporalità, una caducità, un
essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non è neppure mai
chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza confini”703. Tra il
mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei
due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in
comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili
sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito esige di
sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima,
originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 702 Ivi, p. 158. 703
Id., Arte e mito, cit., p. 159. ! 222! kosmos in sé compiuto. Mito
è ciò che dà ordine. Stando a questa concezione, il mito racchiude gli elementi
eternamente esistenti dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso
rivela è l’eternamente presente”704. Nel mito viviamo quella connessione con il
mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione
all’esperienza sudamericana di Grassi – che appare a Grassi come “l’ora in cui
la realtà frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità
terribile, fuori del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che
incombe sul singolo e non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui l’uomo
si trova, come l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è
esemplificato con la metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece
come la morte di Pan, come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla
disintegrazione del mondo mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai
ritrovati tecnici” – l’arte come poiesis e come techne – “quando ha perso di
vista i riferimenti a una realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo
istante sorge l’empeiria, la necessità di trovare un guado attraverso il fiume
delle impressioni sensibili che si sono staccate dall’ordine originario”707.
L’emepiria va interpretata come una realizzazione del logos (non inteso come
ragione o intelletto) e non in senso materialistico. Secondo il filosofo si
tratta della prima fase di ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il
primo passo nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è
impressione”708. Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e
ordinamento dell’empeiria possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti
il filosofo giunge a chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in
questo aspetto ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel
carattere di produzione insito dell’arte. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
704 Ivi, p. 150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707
Ibidem. 708 Id., Arte e mito, cit., p. 92. ! 223! Se con
l’emepeiria siamo di fronte ad una constatazione, per quanto ordinata, dei
fenomeni – il termine usato da Grassi è fest-stellen in riferimento
all’empeiria709 – con l’arte siamo di fronte alla produzione di un modo umano a
partire dal mondo frantumato resoci accessibile attraverso l’empeiria.
“L’empeiria sembra avere la sua radice nella necessità di ordinare i fenomeni
sensibili, ma non è in grado di conferire ordine complessivo. Essa comunica di
volta in volta un mondo frantumato, nei cui frammenti noi vediamo rispecchiato
un kosmos in mille parti rilucenti”710. La potenza dell’arte invece risiede nella
sua capacità di produrre un cosmo, un mondo ordinato dotato di un’unità
significativa. L’arte come il mito è “il progetto universale delle possibilità
umane”711 e soprattutto la poesia assurge per Grassi a evento privilegiato
della relazione uomo-essere. Ma è possibile attraverso la poesia esprimere e
dire in modo immediato il mito? Oppure la dimensione poetica in Grassi è una
forma della ricezione mitica, una forma demitizzata del mito? Per comprendere
l’essenza e il valore di fondazione del mito non dobbiamo prestare attenzione
al passaggio dal mito al logos – dove il mito appare come una prestazione
arcaica della ragione e il logos come un mito razionalizzato – ma al nesso tra
mito e demitizzazione. Si tratta di un movimento tutto interno al mito e che si
intreccia al tema della fondazione. Il mito in quanto “topos atopos” è
premessa, origine che non può essere conosciuta ma detta attraverso la poesia.
Grassi parte da una idea di mito come fondazione origine e inizio, come
prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il mito – sia come realtà
religiosa esemplare, sia come creazione artistica e quindi come favola – può
venir considerato come il principio instauratore originario di una comunità
[...] con l’ordine – che pone una molteplicità di movimenti entro un’unità – si
preannuncia la realizzazione dell’aspetto sociale”712. L’interpretazione
grassiana della Poetica di Aristotele pone in luce l’aspetto di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 709 Ivi, p. 90. 710 Ivi,
p. 94. 711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 224!
secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle
possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata:
l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via
di accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare
della storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia
dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung dell’essere.
IV. XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e Langweile nelle
meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi due concetti
chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del disvelamento: si
tratta delle questioni supreme a cui Grassi dedica gran parte della sua
indagine storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo orizzonte
teorico due figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da Grassi: Vico
– come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è soffermata.
Entrambi appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo umano attenti
alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione politico-civile
i cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso grassiano di
ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione civile e del
disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani e la funzione
trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos della noia come
sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano le tappe
fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si concretizza
come formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica. Nel corso
della sua lunga ed operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso misurato con
le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la centralità che
il concetto di pathos assume all’interno del pensiero di Grassi è possibile
comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense al poeta di
Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 713 Id., Arte e mito,
cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il
mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 61-76, p. 62.
715 Ivi, p. 64. ! 225! argomenti del piacere e del dispiacere; del
principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè) poi con
Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In questa
sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con il padre
della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal Grassi,
quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il
poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza
dell’originalità e discutibilità delle tesi grassiane su Leopardi che, come
vedremo, non seguono i dettami del “filologicamente corretto” ma piuttosto
fanno interagire Leopardi con i concetti chiave del suo sistema
onto-antropo-logico. Quale ruolo può avere Leopardi all’interno dell’iter di
pensiero grassiano e qual è il valore della teoria dell’illusione a cui il
pensatore conferisce tanta importanza da giungere a definire il poeta italiano
teoreta dell’illusione716? Il filosofo sottolinea quanto l’approccio
leopardiano sia distante dal razionalismo della metafisica astratta del “secol
superbo e sciocco” insistendo soprattutto su quei concetti, quali illusione e
noia, piacere e dolore, natura e passione in cui Leopardi assume un
atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e il tema della
civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo moderno e delle
devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che si
iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico
costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica
di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi
può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si
tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta
dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che
la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al
grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante
prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in
considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che egli
appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti
1922-1946. La lettura dei saggi risalenti
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 716 E. Grassi, La
metafora inaudita, cit., p. 46. ! 226! al periodo compreso tra gli
anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche dello
Zibaldone, che resta il preponderante testo di riferimento delle note grassiane
sul poeta. Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di
riferimento registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei
concetti di formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se
consideriamo quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo,
la noia e l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come
fattore antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi
antropologica grassiana. In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del
1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung degli
studia humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera
educazione filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una
pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della
parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e
sulla sua formazione. Egli afferma che “il filosofare italiano non comincia con
il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in
relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti
antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il compito umanistico della
mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico,
letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi
letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una
formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si
affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato
delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza
quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente
all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il
formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo,
praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La
distinzione tra Bildung e Erziehung mostra come la posta in gioco nella nuova
idea di umanesimo sia la messa in discussione dell’essenza dell’uomo, della sua
condizione, che accomuna, secondo il filosofo, le figure di Bruno, Vico e
Leopardi. Così come per Bruno “ogni rapportarsi
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 717 Id., Il confronto
con la filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in Id., I Primi scritti
1922-1946, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718 Ivi, p. 881. !
227! originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico
come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire
qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi differenti”719 anche
per Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del pathos consente un
rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e
antropologici implica una rivalutazione del concetto di pathos da parte di
Grassi che tuttavia non indulge ad una forma più o meno celata di
irrazionalismo illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca emerge laddove
egli tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il
pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos
nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Nella sua prospettiva
il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o
all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della
nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza
ontologica. Secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico
della storia”721: esso è “passione abissale”722 in cui accade il fenomeno
dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi. Nella prospettiva grassiana
il pathos metafisico è ciò che Leopardi chiama illusione e natura. “Le passioni
hanno un carattere trascendentale, esse sono cioè condizione delle esperienze e
da esse non deducibili”723 e per il poeta indicano il nostro lasciarci
afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza
possibilità di sottrarci al suo appello. Grassi afferma che “l’espressione
illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto alla terminologia
tradizionale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 719Ivi, p.
882. 720 Ivi, p. 883. 721 Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p.
40. 723 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, pp.
156-175, in AA. VV, Tradizioni della poesia italiana contemporanea, Edizioni
Theoria, Roma 1988, p. 166. ! 228! che si serve della espressione
a-priori, il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del
trascendentale”724. Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello
Zibaldone l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria
angoscia – che nelle “meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui
“questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale
manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da
esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come
essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione.
L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità
dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere)
e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’ esistente
nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”725. Nel pathos
dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso
tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare
l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di
orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza
di mondo a cui il filosofo fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è
assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che
“in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non
essendo la nostra dimensione, ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti
diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a
loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia
la sensazione del precipizio”727.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 724 Ivi, p. 168. 725
Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi
scritti, cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”,
Roma, pp. 217-247, p. 226 727 Ibidem. ! 229! A caratterizzare
maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non
psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha
anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a
riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone
perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa
apparire il significato di ogni ente”728. Essa consente di prendere coscienza
dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come
schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. É proprio questo
concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel tema leopardiano
dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul problema
della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione
italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter Otto il cui
centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il singolo
(l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una risposta
nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del problema della
parola come massima espressione della vita individuale, la quale però “non ha
proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce alla
questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana sulle
modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana
e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in
una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò
che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto
molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito
all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il
comune”732. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 728 Id., Il
dramma della metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della
vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I
primi scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732
Ibidem. ! 230! L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente
originario che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di
objectum, conduce Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come
l’a-priori, il trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di
bella illusione – e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a
sapere, si impone come necessaria, essenziale e comune prassi umana di
trasformazione del reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della
filosofia del 1945 dedica una sezione molto significativa al poeta in
riferimento al concetto di noia e passione. Afferma il pensatore che per
Leopardi “la noia si rivela inaspettatamente come passione [...] poiché la vita
è sempre nella sua essenza impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così
l’uomo non può mai sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734.
La noia come morte della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e
dell’indifferente tuttavia è pur sempre passione, sia pure nel senso del più
basso gradino dell’esistenza. Siamo venuti ai temi principali che animano la
lettura grassiana di Leopardi presente nei saggi più sistematici dedicati al
poeta: Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt (1949),
Introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der
modernen Zeit735; Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la
teoria leopardiana delle illusioni
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 733 Ivi, p. 914. 734
Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi
scritti, cit., p. 1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen
Verstandeswelt. Si tratta di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des
schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34.
Tradotto in italiano da R. Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica
del mondo intellettuale moderno, cit. ! 231! (1987)736; Der
italienische Schopenhauer (1987)737; Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? (1989)738. Il testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo
Zibaldone, considerato da Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo
“all’officina poetica di Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung
und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema determinati problemi
della tradizione umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della
rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium.
Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen
Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze
dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal
Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di
Recanati Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto
teoretico contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano
che, sulla scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea
centrale che ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici
non tenendo conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire
la genuina antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto
di illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del Leopardi,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 736 Id., Passione e
illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle
illusioni in “Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di
Messina”, 5 (1987), pp. 69-82, presentato in redazione differente al Congresso
su Leopardi a Roma nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora in E. Grassi, La metafora
inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische Schopenhauer, pp.
125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper Munchen 1987 a
cura di Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o
schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C.
Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le
affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla
letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver
asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre
intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma
che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non
sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e
A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del
pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica
fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal
Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica
marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione. !
232! così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione
nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe
essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto
quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato
sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta
chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi
pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame
tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo
Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non
sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania,
pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo
Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione
e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione
ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se
si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine,
di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo
Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la
scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco
inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal
momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo
attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come
illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine,
poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni
creazione storica”743. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione
alla ragione. Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione
ed esplicitamente alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento
è al passo zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui
Grassi crede di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico,
che si identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità
della natura [...] si esprime attraverso la passionalità come
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 741 E. Grassi,
Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi
sono nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?,
cit., p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione
nostra. 744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6
ottobre 1821. ! 233! illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale
il filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della
ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi
alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello
della natura [...] Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli
chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa
con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria,
l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della
realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti
nella lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il
filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e
illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia
è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il
lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa
di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno
carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria
generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e
dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la
Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello
di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo
stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è
l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è
innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e
dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della
distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo
Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più
profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una
costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla
componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e
sulla !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 746 E. Grassi,
Leopardi e Freud, cit., p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e
critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160. !
234! Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a
“facoltà di patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li
possiamo cogliere e di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano
in modo finito, e la noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci
evidenzia come noi non possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In
altre parole: se tutto ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a
condizione che si mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e
distinto – allora anche la noia può essere colta solamente in quanto
impossibilità di esistere nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella
prospettiva che abbiamo cercato di delineare emerge che nella noia è coinvolto
lo stesso tema della léthe e dell’illatenza: il gioco di svelamento e
nascondimento, insito nel cuore della manifestatività, che decide dell’umano. La
noia leopardiana come facoltà di patire allora diviene un principio
storico-culturale che solo secondariamente scade a povertà di azione e pigrizia
ma si erge a condizione trascendentale del mondo storico dell’uomo. Essa è la
Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e del mondo, in cui l’avvento
dell’umano accade innanzitutto linguisticamente. Qui si installa un altro tema
centrale della lettura grassiana: la critica del mondo moderno presente nelle
annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche la qualità umanistica del
poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo, Grassi afferma,
ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e
l’approccio storiografico consolidato, che “gli studiosi hanno costantemente individuato
l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti
[...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì
la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono
l’uomo e il suo mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va
concepito come una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è
la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del
contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si
declina come ricerca sulle strutture del mondo umano.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 750 Ivi, p. 161. 751
Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida, Napoli 1985, p. 26. !
235! Alla metafora fotica nell’accezione heideggeriano-grassiana sopra
delineata fu sensibile già Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi
via via nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nello
Zibaldone, nelle Operette morali e nei Canti mostra un timore irrequieto nei
confronti della luce diretta e accecante – sia essa lunare o solare – che
genera un guardare piacevole e sublime. Grassi non sottolinea l’importanza
della metaforica della luce né l’attenzione alla connessione vita-apertura752
pur presente nello Zibaldone, privilegiando il tema dell’illusione nelle sue
molteplici sfaccettature storiche e fondative, nel convincimento che in quel
concetto sia esplicato un accesso alla filosofia non pregiudicato da una
metafisica razionalistica latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo
contrario la vista del sole e della luna in una campagna vasta e aprica e in un
cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione”753; e ancora :
“per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura dove la luce si spazi e
diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure
piacevolissima”754. La priorità trascendentale della radura sulla luce che si
offre, si dà in un atto di donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed
essere, è viva anche in Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a Grassi
– e al suo maestro Heidegger – ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica
della metafisica757, rivalutazione della poesia. Temi
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 752 G. Leopardi,
Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno originariamente fatti da
altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco dal noto hio, e altri
tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come vivesco significa
divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè
esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè divenir aperto, mentre hio
significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor,
adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali,
significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o
azione”, 14 ottobre 1823 [3689]. 753 Ivi, 20 settembre 1821 [1745]. 754 Ivi,
[1746]. 755 Ivi, 2-5 luglio 1821 [1276 e segg.]. 756 Ivi, 20 settembre 1821
[1745]. 757 “Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo
l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l’antica,
introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la
meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra astratta metafisica, e
derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e
dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è
quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’ quali la poca vita della
natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle
astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui
dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime
che colla poesia”, Ivi, 14 ottobre 1820 [276] ! 236! fondamentali,
questi, che corroborano l’idea, in altro modo proposta da Grassi, di un
Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata come oltrepassamento dell’immediatezza
e allo stesso tempo come natura che si apre alla storia. Come abbiamo visto,
l’indagine grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, si
concentra sulla dimensione ontica delle concrete Lichtungen, che si converte in
analisi del linguaggio. Per il pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di
solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario,
orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un
confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in
termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del
linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto,
tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a
mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con
l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica
e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della
res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un
linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti,
distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la
metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per Grassi
occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui
l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del
razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la
ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo Grassi, è
capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del
pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate
sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono
“cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...]
l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione
umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela
nell’azione, nella e con la praxis”760.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 758 E. Grassi, Heidegger
e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 80 760
Ibidem. ! 237! Infatti, per il filosofo milanese, la forma
sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo
manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al
concetto di prassi e di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo
concettuale di grande spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la
co-estensione del mondo (l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un
rapporto pratico (la fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i
limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si
ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai
temi centrali per Grassi della situazione, della circostanza e dell’occasione.
Per Leopardi “attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della
situazione, noi dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato
sempre differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua
identità con l’ingenium. Per Grassi con la teoria dell’illusione “di cui con
estrema lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha
compreso che il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una
situazione concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e
dell’ora, che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta
razionale, universalmente astratta, ma solo passionale”762. Con il poeta
italiano abbiamo una riconfigurazione del tema antropologico che implica una
svolta linguistica e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos
polisemico che restituisca la multilateralità e polidimensionalità di un reale
che si dà fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di
fronte ad una Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il
processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi
e forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il
metapherein, la trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di
apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro
atteggiamento verso il reale.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 761 Id., Leopardi e
Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 762 Id., La metafora
inaudita, cit., pp. 45-46. ! 238! La metafora è l’espressione
fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo
esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli
ultimi testi del filosofo, Il dramma della metafora, “la parola metaforica
esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che
appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza,
di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”763 in
cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la
traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei
segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’ abissale che urge, che
per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo
l’indeterminato”765. Anche in Leopardi Grassi intravede le tracce di un
colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in cui si gioca
la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come ingresso nel ludus
dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale. “Nel gioco giocato
dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene parlato) si liberano
molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e dunque tali da
frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il senso. Ma che cos’è
l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un entrare nel ludus,
uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da queste considerazioni
il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il Leopardi portavoce di una
filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una antropologia che contiene
in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma Grassi in La metafora
inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica filosofia in grado di tentare
questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza, “è una filosofia
dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di risolvere il
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 763 Id., Il dramma della
metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli
1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit.,
p. 46. 767 Ibidem. ! 239! problema razionalmente, prenda atto
dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi
dell’illusione e della natura, della noia e della passione, che solo
marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il
grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e
quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto-
antropo-logia grassiana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che
diviene ulteriore occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano,
Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo
che permea la sua prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere
interpretato, allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che
l’umanesimo autentico come pensiero poetante, come meditazione noetica e non
metafisica, ha ancora una possibilità di essere esperito a partire da una
tradizione a cui non è stata conferita la dovuta importanza. La traccia
leopardiana nell’iter grassiano ha fatto emergere, attraverso il concetto di
ingegnosa e bella illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con
l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene con le produzioni umane della
civiltà, della storia, della cultura. Solo illudendoci sperimentiamo la nostra
forza, la nostra umanità, come insegna Leopardi, e diveniamo artefici del
nostro mondo. La filosofia dell’esistenza proposta da Leopardi diviene un
experimentum vocis, una poesia pensante o un pensiero poetante. La
)&0&*& '*&2o"& descritta da Platone nella
Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato da
Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una epistemologia
o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline al vago ed
indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al fallimento –
ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in cui la
connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione
umano-civile-politico. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b. ! 240! Come è noto il
plesso disegnato da Grassi di metafora-fantasia-ingegno ha un valore teoretico-
conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario. Si tratta di facoltà che
appartengono a quella topica che sempre precede nella storia del mondo, come in
quella dell’individuo, l’operazione mentale della critica, l’arte del giudicare.
Memore delle riflessioni vichiane della Scienza Nuova e delle teorie barocche
dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, Grassi affida all’ingegno la capacità di
sintesi e connessione del molteplice empirico fino al punto di farne la
caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva mancare di sottolinearne
l’importanza teorica e pratica presente in Leopardi770. Ingenium come capacità
di ritrovare; fantasia come facoltà di visione delle somiglianze; metafora come
atto di trasferimento del significato e quindi creazione di una pertinenza
semantica – e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o di
comparazione – concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di
neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e
fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di attivazione di procedure di
formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà di apprensione del reale
attraverso una struttura pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare
un’espressione di Zubiri, collega di corso in Germania di Grassi. Essa è il
catalizzatore dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti
figurativi, simbolici e semantici del logos Grassi non rinuncia mai tuttavia
alla filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non
più metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di
giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da
un’ontologia che culmina in una metafisica”771, quella di Grassi ha come scopo
l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 –
che ha come oggetto il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
770 G. Leopardi, Zibaldone, 1 luglio 1821 [1254]. 771 E. Grassi- E. Hidalgo,
Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo,
Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20. ! 241! reale, “l’ontologia non
logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del mondo non può che trovare
espressione in un orizzonte di dicibilità che è metaforico. L’antica lotta tra
poeti e filosofi supera la secca alternativa tra un tentativo di purificare la
lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di epurare la theoria dal
concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può trovare una soluzione
attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato da un filosofare che
sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo di vitalità e
utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo Leopardi riveste
un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso, dalla critica,
che si è maggiormente concentrata sul Grassi lettore di Vico e Heidegger. La
svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un ripensamento,
da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con l’ontologia non
statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento del tema della
verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro, della filologia,
che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è una “scienza
sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a
partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza dell’uomo è
al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta
dell’illusione, il cui significato sociale etico e politico viene ribadito
contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e
l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano
dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la
natura e le illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per
lasciare spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di
fronte all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico
come due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del
linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile –
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 773 Ivi, p. 30. 774 G.
Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821. 775 Ibidem. ! 242! l’indicibile
non è altro che una presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di
volta in volta ci si misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che
restituisce le circum-stantiae della res attraverso la molteplicità dei verba,
va interpretata come l’ennesimo tentativo di dire la cosa stessa della
filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è in questione nella parola e nel
pensiero, la res che, attraverso la parola e il pensiero, è in gioco fra l’uomo
e il mondo. “Così poesia e filosofia stanno l’una accanto all’altra: chi non ha
immaginazione, sensibilità, capacità di entusiasmarsi o facilità a vivere belle
rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la verità, perché ogni analisi
può essere portata avanti solo dove la materia della vita è riccamente
delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a posteriori ma di giungere a
conoscenza dei principi agenti, dai quali innanzitutto può avere origine ogni
mondo, anche quello della filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha
insegnato, contro le devastazioni dell’intelletto, questa filosofia
dell’esistenza che guarda al phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non
con l’occhio della metafisica ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di
cogliere “l’appello che ci chiama da questo abisso”777. L’appello dell’origine.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 776 E. Grassi,
Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 172. 777
Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 243! APPENDICE I
Traduzione di E. Grassi Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der
heutigen Physik, Hamburg, Rowohlt, 1955, pp. 133-138. Il nostro concetto di
natura deriva dal termine greco 341*1.!Questa parola proviene dalla radice phy
(latino fio, fui, tedesco bin), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude
tutto ciò che nasce e diviene, e così comprende il cosmo nella sua totalità.
Noi traduciamo!341*1 con il termine “natura”, dalla espressione latina natura,
il cui significato esprime quello della parola greca (nasci, esser nato, crescere,
affine a gignere). Secondo l’originario concetto greco ciò che è immediato in
quanto cresce è visto come una realtà eccellente; tuttavia occorre ricordare
che per i Greci il crescere naturalmente realizza sempre la legge insita ad
ogni sostanza. Pertanto sotto il termine natura, come principio del divenire,
sarà compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il concetto di natura, la
rappresentazione quindi che lo spirito umano si costruisce attraversa una lunga
e movimentata storia. La conoscenza dei fenomeni naturali muta e di conseguenza
cambia anche la concezione della natura. L’età pre- filosofica della Cosmogonia
(sei secoli prima della nascita di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito
sull’origine del cosmo, del Tutto, è pervasa da rappresentazioni mitiche, in
cui già sempre la relazione dell’uomo con la natura gioca un ruolo centrale. Un
primo inquadramento non più mitico, ma filosofico del concetto di 341*1, di
natura, si ha nell’età antica con la Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e
Prodico, i più giovani contemporanei di Protagora) e la filosofia socratica.
Non più l’intera realtà è inclusa in questo concetto ma ora solo un suo settore
specifico. Per prima cosa i Sofisti hanno messo in gioco la 341*1 contro
il!%$μ$1 (legge), hanno posto il “naturale” solo in ciò che è fissato e posto
dall’uomo in sua contrapposizione.!Socrate nel porsi domande di natura etica
professa una bassa considerazione per una scienza della natura e vi contrappone
l’idea di una scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra
l’uomo con la sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero
occidentale si pone già il problema se sia più importante conoscere la natura o
l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e
Platone si arriva al grande progetto ! 244! finale della filosofia della
natura greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del
contenuto di questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le
scuole peripatetiche come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i
neoplatonici, apportarono variazioni che per noi non sono determinanti. La
divisione tra Natura e Spirito e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e
l’Etica e la Logica, dall’altro, si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo,
per quanto lo Stoicismo abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di
riconciliazione universale di entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla
fine inutile. Nel Neoplatonismo alla fine la 341*1 perde del tutto la sua
importanza e viene considerata come una realtà irrazionale fondamentalmente
nulla. Il pensiero cristiano dei primi Padri della Chiesa adotta parzialmente
l’originario concetto platonico aristotelico di natura, per quanto questo suo
preciso significato cambi e si perda giacchè la natura intera non viene più
concepita in modo classico ma come creazione di Dio a partir dal nulla. Anche
se nel Medioevo non c’è uno studio autonomo della natura, tuttavia questa epoca
conosce una scienza della natura caratterizzata dalla volontà di conservare
l’antica tradizione, soprattutto quella aristotelica. Custodi dell’antica
tradizione furono in primo luogo i filosofi e gli scienziati naturalisti
dell’Islam. L’apice della scienza della natura medievale in Occidente è
rappresentato da Alberto Magno, il quale partendo dal pensiero aristotelico
propone un quadro della natura completo ed esauriente. Con l’età dell’Umanesimo
e del Rinascimento sorge una nuova concezione della natura, che per noi è della
massima importanza. L’accesso alla natura è cercato soprattutto attraverso
l’esperimento – un concetto specificamente moderno che per la prima volta con
Leonardo Da Vinci assume una chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti
sono il Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione
della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di
verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il
punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria
dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la
natura nella sua interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della
teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e
alle sue capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di
Leonardo corrisponde anche la nuova ! 245! fondamentale teoria di Bacone.
Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna
conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo
dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della
moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la
sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il
concetto di esperimento si perfeziona con Galileo Galilei e grazie a lui e a
Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di
Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo
fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal
concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il
nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà
non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa
trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema
del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso
dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo.
Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la
terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno
una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza
di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle.
La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni
pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla
terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine
del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium
coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la
Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al
Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione
anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma
soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere
finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia
tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo
che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine
solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il
problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni
sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246! esperienza della natura, si
riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo;
categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà
necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore
della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua
libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui
oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di
esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra
più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia post-kantiana
non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il modo di
intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale della
filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente una
reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il
materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga
durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari
passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso
di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un
punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma
in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque restano
il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua ricerca non se
la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei fisici si
allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena qualche secolo
prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del sole. In seguito
ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei nostri occhi.
Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del vero si è
trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo arrivati a
credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui scorrono solo
ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante ha qui
l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso lo
sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo
processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli
risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina in modo
smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi permane
l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. ! 247! APPENDICE II
Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im Denken der
Gegenwart, a cura di V. Spierling, München-Zürich, Piper, 1987, pp. 125-138. I.
Il Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di un altro
autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una lingua
completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro autore
è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato
filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come
questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale, in modo
tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e
le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera strettamente
meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di
Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento
qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per
questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo
della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si tratta
di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato filosofico
generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi che dovremmo
rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui argomentazioni e
dottrine trovino luogo nella storia della filosofia [...] ma per questa parte,
che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se non sparse
osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e
preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è
riallacciato a questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è fortuita:
Hegel quasi con le medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti
in quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani
si sono !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 778 B. Croce,
Poesia e non poesia, Bari 1942, p. 98. [B. Croce, Poesia e non poesia. Note
sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946, pp.
98-99]. 779 [Grassi si riferisce al testo di K. Vossler, Leopardi (1923), tr.
it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli 1925]. ! 248! arenati in un
pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza del concetto.
Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti fondamentali dei sistemi
che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel tanto che
concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò che è
particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione
dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo la concezione di Hegel
l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso
permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della
metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per
rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale,
ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’“incapacità di
rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti
per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia umanistica, secondo
Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono alla filosofia poco
beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco
con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione
poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo
più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita
negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione
umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la
valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da
una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente
dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe
ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di
Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 780 Hegel, Vorlesungen
über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner, Suttgart 1928, p.
59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bordoli,
Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569]. 781 Ivi p. 121. 782 Ivi, p. 149. 783 E.
Grassi, Einleitung in philosophische Probleme des Humanismus,
Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986 [E. Grassi, La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi moderni, Napoli
1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question of Renaissance Humanism,
Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. 1983 [E. Grassi,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli
1985]. ! 249! tra Schopenhauer e Leopardi. Io farò riferimento alle
tesi di Leopardi senza discutere il parallelismo e la differenza con
Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono prendere i testi di Leopardi come
motivo per un confronto tra entrambi. A giustificazione di un metodo di analisi
di questo tipo sarebbe determinante una parola di Schopenhauer. Nella scorsa
metà del secolo scorso Francesco De Sanctis ha notato per primo in un saggio785
su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza filosofica del poeta, ma soprattutto ha
contribuito a mettere in circolazione quell’immagine del pessimismo
leopardiano, come noi oggi ancora comunemente pensiamo. Schopenhauer si
espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente con il suo amico Lindner:
“mi devo stupire molto nel vedere quanto questo italiano (De Sanctis) si sia
impossessato della mia filosofia e come l’abbia capita bene. Non fa come i
Professori tedeschi, specialmente Erdmann, sunterelli ed estratti dei miei
scritti, senza vera comprensione e secondo il numero delle pagine. No, egli li
ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha sulle punte delle dita per
adoperarli dove occorre”786. Io qui strutturerò i livelli di pensiero di
Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer possano discutere la
questione delle affinità e diversità tra i due autori. Innanzitutto perché è
possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra prospettiva, diversa
rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e l’idealismo tedesco.
I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della ragione, la natura,
l’analisi della noia, il significato filosofico delle passioni, l’illusione, la
mania – sono gli stessi di Schopenhauer. II. La ragione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 785 Grassi si riferisce
al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi che trae
origine dalla lettura da parte di Francesco De Sanctis dell’opera di
Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista
contemporanea”, VI (1858), Vol. XV, pp. 369-408 e confluisce in Saggi critici
(1874). Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id.,
Leopardi, a cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino 1983. 786 GBr, Nr.
454, p. 447 [Lettera di Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A.
Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota
220]. ! 250! I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono
dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era
destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo
originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo,
per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa:
consta di un manoscritto di 4526 pagine. Le annotazioni cominciano a luglio o agosto
del 1817 e terminano il 4 dicembre del 1832. La prima edizione apparve nel 1898
e fu pubblicata da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con il
titolo di “Pensieri di varia filosofia e letteratura” (un titolo che era tratto
da un’indicazione di Leopardi). La seconda versione migliorata, che si accorda
a questa traduzione787, appare negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di
pensieri, a cura di F. Flora, 2 volumi, Milano 1938. Io cito dalla traduzione
tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della riflessione di Leopardi è
il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha chiamato natura, criticando in
tale contesto ogni filosofia che creda di decifrare la realtà sulla base di
principi razionali e perciò tutto ciò che ha a che fare con i sensi e le
passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta nel suo significato
filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò che noi possiamo
dimostrare e dimostrare significa mostrare e determinare qualcosa sulla base di
un fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui voglio notare come la
ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui
perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace
di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa
saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita
umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla base di fondamento e
dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter prevedere anche
l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi mettere a riparo da
esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non
solo non vengono presi in considerazione ma cancellati, allorché
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 787 Grassi fa
riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns und Kritik der
modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von E. Grassi, aus dem
italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke 1949. 788 G.
Leopardi, Zibaldone, 20 gennaio 1820. ! 251! si manifestano, e
giudicati alla stregua di un fallimento delle nostre forze umane e razionali,
delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da
questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza
sicura e razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e
spirituale devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche
l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari
dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le
possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è
certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione
e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E
tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole
della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua
saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli”789. “ Ella rende
piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita,
annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre
e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce”790.
Partendo dalla tesi della priorità del pensiero razionale, ogni passione, ogni
impulso, viene considerato in realtà come un momento da oltrepassare, come un
momento che deve essere corretto o annientato. Di conseguenza la conclusione
dell’importanza del prevedibile, del sicuro, del giudizio divengono gli ideali
a cui poi ci si abbandona: la stessa vita politica, lo Stato, se assicura la
vita umana e vuole contribuire al suo sviluppo, deve partire da un’impostazione
del genere e attuarla. Una simile concezione della vita, che si prova a dedurre
more geometrico, corrisponde a una tradizione razionalistica contro cui
Leopardi assume una posizione, che analizza progressivamente per mostrarla come
causa delle rovine del mondo occidentale. Ma una concezione di questo tipo non
è apparsa e si è realizzata proprio in precise forme di Stato, di insegnamento,
di sapere quando ci si è allontanati
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 789 Ibidem. 790 Ivi, 11
luglio 1823. ! 252! già dall’originaria fonte della vita? Come è
considerato l’esito della priorità della ragione da un punto di vista sociale,
politico? “Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei
principi, nei costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti
separati, laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò
atti alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti
soli”791. In un mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile
e non anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni
forma già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di
imprevisto può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque
cosa bisogna opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle
passioni? “La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in
questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per
passione”792. Per Leopardi i concetti di natura e passione collimano: di che
natura è il loro rapporto profondo e da ciò come emerge una comprensione della
loro essenza? “ La ragione è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica
della natura”793. “ Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione?
Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda
né vive con se stesso (se anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794.
III. Natura e Passione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
791 Ivi, 4 luglio 1820. 792 Ivi, 7 giugno 1820. 793 Ibidem. 794 Ivi, 8
settembre 1821. ! 253! In che cosa risiede la potenza, la capacità
della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi
riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce
l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così
sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita,
che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare,
secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che
mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è
il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma
Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente,
dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di
distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è
meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della
vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti
dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui
odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza
un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire
deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire
l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e
la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello
sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a
riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il
dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà
in esso animo, come non si dava in natura [...] o vogliamo dire che il vuoto
stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia,
la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti
attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e
senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 795 Ivi, 8 maggio 1822.
796 Ivi, 17 ottobre 1823. ! 254! alla natura, poiché in essa ogni
disperazione è già apatica. Secondo l’opinione di Leopardi in ciò risiede
l’essenza della moderna esperienza del dolore che non ha nulla più di vitale.
Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di suoni e parole che si muovono
in un silenzio disumano, in cui né odio né speranza, né tantomeno interesse e
partecipazione sono presenti: è l’ultimo stato in cui si manifesta il naufragio
di una cultura, di una classe sociale. Al suo posto la natura si mostra nella
potenza della passione: affermazione, dunque, della passione contro la priorità
del razionale? Prima di rispondere insieme a Leopardi a questa domanda occorre
discutere la funzione e il potere della passione: “le sventure o
d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o
anche far morire, ma qual dolore ha più della vita, anzi massimamente se
proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore
ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle
sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è sepolcrale, senz’azione, senza
movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma piuttosto come un’oppressione
smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi sempre più grandi, magnanimi e
forti di noi nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della
necessità di esse e della forza invincibile che li rendeva infelici, e gli
stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e
sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato”798. Secondo
l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché credevano nella
vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci rinunciavano tanto più
l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore di Niobe, per il quale
non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E dal momento che per gli
antichi la disperazione è allo stesso tempo un’affermazione della vita, così
nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva attraverso il dolore la loro
immaginazione, traducendosi in azione, presentandosi nei miti, i quali non
hanno conosciuto ancora nessun sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli
antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine
operazioni altri fini che i nostri, mettevano i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
797 Ivi, 7 giugno 1820. 798 Ivi, 5 gennaio 1821. ! 255! dei in
comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi
delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non dubitando che elle
non fossero degne della invidia degl’immortali”799. Da questo punto di vista la
vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale, non attinge a ciò che è
sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla certezza razionale e
dimostrabile, bensì all’ambito del creativo, dell’imprevedibile, dell’abissale:
la prima possibilità dell’esperienza sorge da qui. Se noi oscilliamo
continuamente tra successo e fallimento, se inoltre siamo disposti alla
realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica la nostra
autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello oggettivo e
trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone l’attenzione sul
fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine esistente e consueto,
infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo non possono essere
dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare impossibile vivere in
modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi sentimenti più naturali si
mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa feconda non è mai deducibile e
calcolabile: da ciò proviene la priorità storica che i popoli naturalmente
rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni, ciò che è originario,
solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su quei popoli che sono
dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già spiegato, vive e si
fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili, solo essa desta i
sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi passa alla
descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora quelle forze
imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è razionalmente
deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo sotto forma di
immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi esercizi fisici, le
lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono la fantasia, destano
i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il significato dell’esistenza.
“Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non
erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor della gloria ma
contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il
coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 799 Ivi, 23 dicembre
1820. ! 256! debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza
e l’eroismo delle nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa
era viva secondo l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate
di essere uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo
che abitassero le belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc...,
entrandoci e vedendoci tutto solitudine, pur credevi tutto abitato”801. IV.
L’Illusione Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da
parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso
da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo
l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo
solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile
e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso
deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente
l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione,
di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di
fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non
mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi
della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello
al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di
ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una
concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a
fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è
determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione
del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che
ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza
misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la
nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non
mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie
non è la ragione ma la natura: (seguita però a
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 800 Ivi, 7 giugno 1820.
801 Ivi, p. 100. ! 257! dovere) essa ci somministra le illusioni
che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le
illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o
quasi affatto, l’uomo è snaturato”802. La potenza dell’illusione colpisce
pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta:
poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma
di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione,
ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso
la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la
consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo
palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In
questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice
forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione,
dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno)
si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà
appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni
cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò che è
sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione
Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella
illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente
più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade
il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci
par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più
tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola
infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che
tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo
presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale
circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e
dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che
altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era
allora”803. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 802 Ivi, p. 34. 803 Ivi,
p. 96. ! 258! mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante.
“L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor
preda”804. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte
le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli
occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza
umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò
nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla
natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di
qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la
natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è
categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena”
della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel
quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che
l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il
ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come
ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la
ragione di ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 804 Ivi,
24 marzo 1821. ! 259! grande azione, di ogni grande epoca, di ogni
creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico,
poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la
sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani.
L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo
di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con
questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale,
pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è
il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo
l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della
legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela
il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca
l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per
interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la
storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la
natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando
sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in
natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo
è snaturato”805. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e
dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in
cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella
di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è
portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più
intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa
di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro
del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto
emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un
lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso,
dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da
nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in
quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è
dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 805 Ivi, p. 34. !
260! che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla
cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’
pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel
giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi
diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui
tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora”806. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante.
“L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 806 Ivi, p. 96. !
261! popoli civili saranno lor preda”807. “Le quali cose se ridurranno
finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a
perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza
intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro
che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto
è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre
più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice
fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non
abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di un incivilimento
smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo indietro, i
nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno
posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati sorge
una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer: la
conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana, è
tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico dell’uomo,
non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto abissale? Oppure:
la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è l’illusione e non
la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza che lascia apparire
e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante misteriosa ha solo
riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma nessun interesse per il
destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il suo ruolo in questo
dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui l’Abissale conduce l’uomo
verso il teatro del mondo? Dove risiede allora l’essenziale identità o
differenza tra la teoria dell’illusione di uno Schopenhauer e quella di
Leopardi? La formulazione e la risposta a queste domande si discostano radicalmente
dall’analisi del pensiero di Schopenhauer, così come tradizionalmente viene
eseguita, quando si parte da Kant e dall’Idealismo tedesco per intendere
Schopenhauer. Per me era profondamente importante qui mostrare il significato
della teoria dell’illusione – che gioca un ruolo così profondo in Schopenhauer
– alla luce di una prospettiva completamente diversa e poterne discutere.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 807 Ivi, 24 marzo 1821.
808 Ivi, 18-20 agosto 1820. ! 262! APPENDICE III Traduzione di Vom
Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen
italienischer und deutscher Philosophie, München, Beck, 1939, pp. 218. La
ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità, pp. 37-43.
Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del
Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile
dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate
ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una
ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto
tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la
filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in
maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere
un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se
evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa
ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile
verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero?
All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare
quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della
verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe
possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa
questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità
dell’indagine, la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del
riconoscere la verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della
verità. “Come potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non
conosci ti prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come
riuscirai ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”.
Tuttavia ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare
ad essa, già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una
seconda difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale
motivo si dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione
sembra frenare sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la
questione più nel dettaglio ci si accorge ! 263! immediatamente che essa
in realtà fornisce già una prima indicazione utile (nell’individuazione del)
concetto di verità al quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende
possibile l’indagine come punto di partenza e giusto approccio filosofico.
L’aporia non riguarda la verità in sé ma solo una determinata concezione di
essa. Quale? All’essenza dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e
che in un certo senso è già esistente e non esistente. L’impossibilità che
qualcosa allo stesso tempo sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente
e che ricade sotto il principio dell’identità: questo principio è applicabile
sono ad un determinato ambito dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto
dell’indagine venga concepito in maniera oggettivistica. Il principio
dell’Identità non è applicabile al Divenire poiché in quanto tale esso ha già
la caratteristica di poter essere e non essere. Da ciò si evince dunque che se
il fondamento della verità viene identificato con l’immediata e concreta
semplice-presenza di un qualcosa, la possibilità della ricerca viene meno.
L’oggetto ha dunque solo due possibilità: la semplice-presenza e la
non-presenza. Un tale fondamento della verità non ammette indagine e l’aporia
si rivela come un qualcosa che non va ad interessare tutte le definizioni di
verità ma bensì solo una determinata concezione di essa. Ma qual è da un punto
di vista storico in generale la concezione di verità che nell’immediatezza
della semplice-presenza di un oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella
concezione di verità che tradizionalmente per analogia accettiamo come valida
in quanto afferma che la verità è verità logica essenziale e che in quanto tale
appartiene solo al pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di
oggetto razionale, come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale
come nell’espressione dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il
congiungere, l’atto di unire del pensiero, che si esprime nella concezione di
unità come connexio di soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel
momento in cui uniscono o separano ciò che si appartiene o non si appartiene,
così com’è nell'Essere. In primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base
di una tale concezione il fondamento della verità appare innanzitutto come
l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il
fondamento della verità del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di
fuori di esso e che per questo la preminenza del Logos come pensiero viene
negata; in terzo luogo che la definizione del fondamento della verità !
264! in una tale concezione deve essere necessariamente caratterizzata in
maniera oggettivistica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un
fondamento empiristico o razionalistico. L’interrogativo circa il dove
storicamente questa concezione si presenti realmente, sotto questa forma, resta
dunque ancora da sciogliere. La semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo
Analizziamo ora in maniera più approfondita la concezione oggettivistica del
fondamento della verità (così come della conoscenza) per verificare se essa
effettivamente ha ciò che rivendica. La concezione oggettivistica del
fondamento della verità (così come della conoscenza) si richiama all’immediato
manifestarsi di un qualcosa, alla sua semplice-presenza. Il fondamento del
rivelarsi nel presente di un qualcosa non si cela però, in una tale concezione,
dietro il concetto di semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto,
il Faktum empiristico o razionale. La contraddizione tipica di questa
asserzione è che l’essenziale non viene identificato con il manifestarsi
dell’oggetto ma bensì con l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma
allo stesso tempo si richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter
affermare il suo Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica
il fondamento concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi
di un qualcosa, con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo
comunque mantenere ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè
dell’oggetto diventa in questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento
che in questo caso considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a
rivelarsi in e attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più
alcuna possibilità di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva
solo come un processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della
semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi
in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il
processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la
terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del
dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se
il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta
allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto
non lo lasci ! 265! inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma
bensì porti con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non
sarebbe più strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo
passivo attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così
com’è in sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro
che solo mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre
rimedio a questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile
escludere da ciò che si ottiene quella parte di definizione che a partire
dall’assoluto deriva dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero
puro. Basterebbe questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci
trovavamo in precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto
che su di essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a
noi così com’era prima di tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico
della verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la
verità può almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un
oggetto, così come è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per
un altro se esso si manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una
concezione empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per
una razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di
un qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare
immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per
questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e
manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come
quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità.
Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla
non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si
conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò
che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante”
porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che
riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né
cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo
o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della
verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento
della conoscenza come un qualcosa di immediato, ! 266! oggettuale, simile
a un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile
un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento
del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti,
quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità
dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter
riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento
della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul
fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio
non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi
immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale
rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel
manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta
dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di
qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del
concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo
assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di
qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse
su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le
difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del
manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un
avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene
dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi
deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il
processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in
divenire, è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di
qualcosa non è un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso,
il processo stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una
lotta per quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un
tentativo di scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa
lotta e la conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la
possibilità della conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che
può diventare la prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della
verità. Da notare che nella logica tradizionale l’essenza della ! 267!
verità è stata ricercata nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto,
e analizzata nelle sue forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una
tale concezione si mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità
viene visto come l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la
verità stessa ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato.
Appare dunque evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di
oggettuale, anche se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le
forme della verità fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che
tutto ciò che è oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del
rivelarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni
tentativo di trovare una logica del pensato che consideri il pensiero solo come
oggetto si rivelerà fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare
l’essenza della verità nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel
quale soltanto qualcosa può apparire in quanto tale e dal quale può prendere
origine la verità oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la
verità nel pensiero inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme,
ed essendo partita da un tale presupposto per la definizione del problema
teoretico-conoscitivo, motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero
come momento di conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la
forma originaria della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa
possa essere fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito
dall’interrogativo sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in
particolare la definizione del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo,
dal confronto tra due pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali
resta valido sempre e soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale,
appare evidente che mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio
dall’uno all’altro. ! Differenza ontologica e disposizione d’animo, pp. 52-58
Non dobbiamo perdere di vista il filo conduttore della nostra indagine. Siamo
venuti a conoscenza di un elemento fondamentale ossia che il problema della
verità può essere inteso solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi
e che ciò non deve essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268!
Attraverso ciò siamo poi giunti alla definizione del problema del Logos: il
fondamento del manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo
o un atto che non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito
dai greci sulla base del significato originario del termine. La questione circa
la preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in
sé né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere,
del completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di
svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come
sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal
quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici
nell’irrazionale, nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe
pensare che Heidegger neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale
contesto si richiama alla mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento
della preminenza della logica così come le sue asserzioni circa la derivazione
del problema metafisico dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta
interpretazione del pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa
si intenda con il fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di
illogico o se abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità,
legame originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo
Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per
poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere
manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non
è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa
primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento
determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della
svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente
a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il
dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la
possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale
ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa
procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si
fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché?
Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema !
269! innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta
alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta
rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità
è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione
(anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere
dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza
originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale
l’Identità o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere
riconosciute. La stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è
legata dunque alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira
all’Ente; questa non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente
se prima non c’è stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica
e la verità ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica
la cui natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la
comprensione dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica
dell’afferrare la concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono
già fornirci un esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere
originaria. Ad esempio i principi basilari delle singole scienze, come ad
esempio il fondamento del domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano
e delimitano un determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione
attraverso la conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di
indagine scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari
delle singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e
dal momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una
determinata precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge
quindi spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto
all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi
l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza
fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di
riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la
risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che
è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente
ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione
d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto
all’Ente. ! 270! Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre
verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre
tale del suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili
l’uno dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al
manifestarsi dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità
(dell’essere) e molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come
processo, come atto e per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la
congiunzione e la separazione. Tale atto inteso come fondamento della
svelatezza è la differenza ontologica, laddove essa non si determina
precedentemente o successivamente al manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì
nel suo compimento. Heidegger dichiara che “la così definita e necessaria
sdoppiata essenza ontico-ontologica della verità è possibile solo in unione con
l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò si evince innanzitutto che il
fondamento della svelatezza si presenta come atto e poi che Heidegger definisce
tale atto come Logos, come leghein in senso più ampio, poiché afferma, facendo
riferimento alla pre-comprensione originaria dell’Essere dell’Ente, che esso è
“tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere in
senso ampio”. Il fondamento della svelatezza, che dunque rende possibile ogni
comportamento all’Ente (verità pre-ontologica che è così fondamento della
verità ontica e ontologica e disposizione d’animo laddove essa è intesa come
ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non inteso in senso tradizionale
come atto del pensiero che si deve necessariamente basare su un’originaria
semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione di una verità logica che
deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì come processo del
ricongiungere e del separare, processo del distinguere come un
venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro
affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento
della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine
mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una concezione
della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa di imminente
e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla precedente
convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava origine
nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza ontologica?
Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento della
svelatezza dell’Essere ! 271! rispetto all’Ente non sia che trascendenza:
ma cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di
un qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la
differenza ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto
deve essere necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che
si svela. Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine
fondazione e fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato
separatamente da esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della
differenza ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla
svelatezza, è svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità,
in un mondo, in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è
nell’essenza del suo Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea
Heidegger, non è dunque inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra
l’altro appartiene anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui
e per cui anche l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si
manifesta non precede o segue immediatamente un atto originario allora una
qualsiasi svelatezza non risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò
permette di comprendere lo stretto legame esistente tra trascendenza e
disposizione d’animo. Trascendere ovvero Esserci in senso metafisico è così
fondamentalmente un Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne
deriva che l’Esserci stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli
Enti ad esso appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci
si afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il
secondo modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa
che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che
presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma
bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come
processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza,
lo è per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad
essa appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il
perché, terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce
Heidegger. Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica
come processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la
comprensione ! 272! della necessità dei tre modi nei quali è insito il
fondamento, e della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La
possibilità dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, pp.
110-111. L’episteme come doxa alethes. Da un’approfondita critica
dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una prima definizione di
leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una definizione ossia di
un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti al superamento del
relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò
non risolve né il problema teoretico del Logos né la questione interpretativa
del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque nel dettaglio questo
atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo definisce Platone? Ma
soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità? Come una ricerca di
soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il pensiero solo una forma
esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo contenuto e la verità il
risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa
è la questione che partendo da un punto di vista storico e sistematico dovrebbe
portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di
Platone. Che l’anima abbia un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad
appagare unicamente aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora
modi e modalità di alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo
del leghein, che si fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il
fenomeno dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla
verità; poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale
da rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come
dovrebbe essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come
vedremo, dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa
spiegare o meno l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel
Teeteto: il processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale?
Abbiamo visto l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità:
leghein significa essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a
compiersi in una condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta
quindi di un rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo ! 273!
fondamentale processo. Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del
giudizio, del pensiero è ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione
immediata e che dunque deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è
la ragione per cui la doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a
quale pensiero ci si riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la
stessa teoria relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale:
dunque questo nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i
pensieri sono veri solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere
sia falsa che veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il
pensiero ma non ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il
significato generale di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e
non di una conoscenza motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia
della verità. Da qui nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta
di estetica o fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come
“opinione vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le
doxai, le opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono
anche di false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della
lingua e il suo significato ontologico, pp. 179-189. Legame tra ricerca del
fondamento del manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte.
In precedenza abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come
tale un atto o processo del leghein, il cui carattere resta però ancora
piuttosto generico: con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il
riunire, il circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come
tale. Abbiamo elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana
della differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre
modi del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo
rigettato un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo
riferimento alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però
come un qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale
fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche
l’interpretazione dell’affettività. Quando abbiamo però definito la
disposizione d’animo come momento logico in senso ampio non era stato detto
ancora nulla circa ! 274! il suo rapporto con il Logos inteso come
pensiero: non sapevamo ancora come definire il fondamento del manifestarsi.
Solo attraverso l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su
quei problemi sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore
definizione del Logos come necessità originaria, che si autoimpone, di
affermazione del generale e dunque del giudicare, del pensare. Il processo
dell’originario del leghein assume così un primo e determinante significato.
Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso
qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia riportare a quell’unità originaria
nella quale l’Ente può apparire come tale, in senso generale, ma bensì come un
ben determinato ricongiungere e riunire: quello del pensiero che si manifesta
nella necessità di affermazione del generale. Come abbiamo visto nel Teeteto,
nella necessità di affermazione del generale si manifesta per la prima volta
l’Essere, ciò che esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da noi
riconosciuto nella parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico di
un qualcosa attraverso il legame con la necessità di affermazione del generale.
Questa necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma di
problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una
determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal
pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo
precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del
filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato
che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto
della trascendenza (intesa come “Logos in senso ampio) una determinata forma
(quella del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche
la nostra interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi
scritti avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle
diverse forme di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in
“Hölderlin e l’essenza della poesia” in cui egli parla della funzione della parola
poetica nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere
assolutamente trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non
si definisce il carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte
ad un interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella
necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza?
Dobbiamo attribuire al Logos, ! 275! alla parola, alla lingua unicamente
la necessità di affermazione del generale? A questo punto è necessario far
notare che in nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate
sulla base di ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel
momento in cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza
ciò dovrebbe essere presentato mostrando che oltre alla necessità di
affermazione del generale esistono altre forme del fondamento originario del
manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo
quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e
dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero
se la parola, il Logos abbiano solo un significato “logico”. È evidente come un
tale problema si ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è
definita in maniera chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad
esempio come necessità di affermazione del generale. Ma come possiamo
sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli
alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le questioni che si
presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger chiedendoci se
il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca l’essenza
delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per determinare
l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò
Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo potremo determinare
definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra
posizione in merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte
nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli
assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il
problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno
solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di
Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo
se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi
dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella
contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano
ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte
hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la
filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha un doppio !
276! significato: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi
dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è
alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone
alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della
filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica
tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e
che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo
quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in
quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento
del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema
ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione
dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della poesia” andremo a
discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se
il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così
com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del
fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: “La lingua per prima
accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente”;
“Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora aggiunge: “La lingua ha il
compito di permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di
custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita
unicamente la determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto
“Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il manifestarsi
dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la
differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola
nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così
come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque
ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta?
Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello
sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo
prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è
innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata
spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto
proprio da questo punto ! 277! di vista. Dal momento che la discussione
heideggeriana sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un
poeta, in un primo momento la questione appare essere considerata da un punto
di vista che è al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che
l’ambito non sia estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si
evince però dalla scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della
sua interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento
considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo.
Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza “è
colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione non si vuole
qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la
determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve testimoniare l’uomo? “La sua
appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione risulta difficile da
comprendere in quanto nella nostra comune concezione di uomo la sua
appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere dimostrata dal
momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque inspiegabile come essa
possa essere considerata un suo compito, un’attività da compiere che si impone
costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione della parola. Da
ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger l’uomo è tale solo
in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza non si manifesta
nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e realizzarsi. Tale
atto viene definito da Hördelin come testimonianza “dell’intimità” con la
terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin “intimità” è da intendersi
ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose. La
“testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la
creazione di un mondo [...] la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo
compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il
necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però intendere
l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa
creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger
afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come
storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò
ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una
qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si
lega alla parola). Il ! 278! mondo che appartiene all’uomo è solo il
mondo della parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si
appropria della realtà esistente così come percepita considerandola il proprio
mondo solo attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo
mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi
dell’uomo. Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe
sbagliato in quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di
denominare qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del
significato, ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta
l’Ente e lo fa solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che
l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto
la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è
lingua può esserci mondo”. “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di
manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola
acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la parola
pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità
di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione dell’Ente:
parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più originario del
termine. Heidegger aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e
nella parola”. Ma cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in
termini filosofici (termini legati a una determinata problematica
teoretico-conoscitiva e proprio per questo qui evitati da Heidegger)
significherebbe qualcosa che non presuppone l’esperienza, la percezione e che
non può essere dedotta da essa a posteriori ma bensì a priori. Attraverso il
denominare dei poeti “l’Ente viene per la prima volta chiamato e conosciuto
come tale [...] ma dato che l’Essere così come l’essenza delle cose non può
essere mai né determinato né dedotto dal presente, essi devono essere creati
liberamente, fissati e donati. Tale libera donazione è fondazione”. Da ciò si
evince che se la poesia fonda l’originaria manifestazione dell’Ente in essa
l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così come afferma Heidegger: “Il dire
dei poeti è fondazione non solo intesa come libera donazione ma bensì anche
come solida istituzione dell’Esserci umano sul suo fondamento”. La definitiva
determinazione dell’essenza della poesia è da intendersi come ciò che si
realizza nella parola, nella lingua nel discorrere, nel parlare,
nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però solo !
279! sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale possiamo
comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella propria lingua,
nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come afferma Heidegger,
l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e dunque sempre presente.
In questo modo però la lingua si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però
solo in poesia la manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella
parola per poter definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è
necessario sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla
parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della
parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale
significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto
segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger
una determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una
definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al
fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza
ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione
in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il
manifestarsi nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione
del generale così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del
manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di
essenza della poesia così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo
attraverso la risposta a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria
forma e necessità e dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel
momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza del fondamento” e
“Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta essenzialmente
della definizione di fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la
differenza ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma
che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e
che la svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella
dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento” pag. 78), per cui il fondamento
della svelatezza si trova nell'atto come differenza ontologica laddove esso è
tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere, del
Logos in senso ampio” (pag.77). Questo svelamento si realizza solo per via di
tale originario atto del distinguere, così che la ! 280! sua essenza sia
trascendenza e fondazione (pag. 102) e dunque fondamento di tutto l’apparire
che non può essere dedotto da esso ma che bensì lo rende possibile (pag. 81).
In questo modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza, resta però aperta
la questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi atto. Per questo
motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la questione heideggeriana
giungendo autonomamente a una definizione il più veritiera possibile di un
qualunque processo sulla base del pensiero di Teeteto. Nella sua ricerca sulla
poesia Heidegger attribuisce dunque alle parole la manifestazione dell’Essere.
Ci è consentito quindi riferirci a questa identità delle definizioni che egli
attribuisce alla parola così come accade in poesia e nella differenza
ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto consente la possibilità di
trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente” (pag.7) e che la poesia “è
fondazione attraverso la parola e nella parola” (“Hölderlin e l'essenza della
poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza ontologica (origine dei tre modi
del fondamento) anche per la poesia si afferma qui che “essa è nella sua
essenza fondazione e dunque istituzione determinata” (pag.14). Heidegger
afferma ancora che: “Solo dove vi è lingua vi è mondo” (pag.7) e ciò è
possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’Ente come “Ente così
conosciuto” (pag. 11). Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza è
comprensione illuminante dell’Essere (“Dell’Essenza del fondamento”, pag.77),
fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque
possibile” (pag.81), e se in conclusione l’atto della differenza ontologica (il
quale svela la sua essenza nell’Ente) “ è nella sua essenza creatore di mondo”
(pag.98) qual è la differenza tra fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che
è proprio della differenza ontologica come fondamento della verità ontologica
nella sua generica concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di
esistere e di manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo
stati autorizzati nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla
definizione di Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter
attribuire alla poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da
quella verità ontologica generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora
potrà essere chiarito anche il significato di fondazione, mondo, istituzione,
manifestazione. Tale problema relativo alle forme della realtà si è manifestato
nel corso della nostra ! 281! indagine laddove siamo stati costretti a
decidere se attribuire o meno alla parola solo il significato dell’asserzione
generale o anche altri. Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione
dei concetti heideggeriano di affettività, disposizione d’animo,
Essere-nel-mondo e così via sono dovuti in parte al fatto che la determinazione
della realtà come svelatezza non deriva da una considerazione generale
antioggettivistica del fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger
il problema delle diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli
discuta dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in
cui si attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel
momento ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la
definizione di verità come processo del leghein che nell’asserzione del
generale si impone come pensiero pensante, si realizza il presupposto per
sollevare la questione circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo
porre in maniera critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo
sottolineare la necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto
anche di tali questioni. Il problema delle forme del Logos, pp. 204-209. Sulla
scia del pensiero filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come
si evince anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato
essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo
però dimenticare che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si
oppone alla visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del
manifestarsi poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli
afferma che tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto
attraverso l’atto del pensiero, a cui egli attribuisce un significato
ontologico originario, dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del
manifestarsi senza riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo
con un insieme di forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista
empiristico. Una differenziazione è possibile solo sulla base di un atto
originario nel quale e per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del
pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si
rivela all’artista coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli
la realtà è ciò che gli si manifesta. Unicamente nel ! 282! momento in
cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del
giudizio solo allora la realtà gli apparirà come un qualcosa di ottenuto, di
soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa irrealtà e idealità
(dell’arte) diviene realtà viva e presente se la si considera così come la
fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella fantasia
dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella a cui si
fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin tanto che
si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si cela dietro
il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone sempre del
pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione.
L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse
forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un
atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione
opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia
possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia come
una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il senso
fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del
manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la
cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato
queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la
questione metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il
problema dell’Essere dell’Ente si ricollegava allora espressamente a quello
dell’unità e della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità
separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il
rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento dell’apparire,
è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in cui è ben
circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza (ciò che
Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così come
abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale.
Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa
conoscenza come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così
come Platone la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la
svelatezza del proprio fondamento. Questa avviene nella trascendenza
filosofica, nella conoscenza dell'essere come conoscenza del proprio
fondamento: ! 283! l’ineluttabile necessità di affermazione del generale.
Da questo generale e dalla conoscenza che ne deriva non è stata ancora mai
creata poesia. Nella conoscenza del fondamento c’è l’essenza dell’atto
filosofico. Questa conoscenza riguarda anche la creazione dell’arte ma da essa
non deriva alcun tipo di arte: questa conoscenza del fondamento non appartiene
all’arte in quanto tale tantomeno si riscontra in essa un inizio di ciò. Questa
necessità, che ci costringe alla conoscenza del fondamento e quindi alla
conoscenza come asserzione generale, è fondamentalmente un qualcosa di diverso
da una qualsiasi necessità che spinge l’artista alla creazione della sua opera.
Con l’affermazione di Gentile secondo cui qualsiasi differenziazione si fonda
nell’atto del pensiero non si va ancora a toccare il nocciolo della questione
che ci riguarda. Il problema delle diverse forme del manifestarsi può essere
sollevato o negato solo se non ci si limita a considerare ogni distinzione come
atto del pensiero: se ogni differenziazione si realizza per mezzo di un atto,
il quale per via della sua origine non può essere né dedotto né motivato (dal
momento che esso stesso è il presupposto di ogni motivazione, domanda o
risposta), allora dobbiamo chiederci se la necessità nella quale si manifesta
l’Essere logico come aspirazione all’affermazione del generale è la stessa
necessità per la quale ad esempio si compie la differenziazione poetica. Ogni
atto come fondamento del manifestarsi di qualcosa è necessariamente fondazione,
trascendenza e dunque possibilità di apparire di una molteplicità, di una
differenziazione che non presuppone l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in
una molteplicità ordinata, in un mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la
manifestazione di un qualcosa nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si
ottiene dunque attraverso il dubbio, dalla necessità di affermazione del
generale una differenziazione poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si
trova” in un mondo delle differenze e delle determinazioni che è identico a
quel mondo che deriva dal pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta
nel pensiero pensante essenzialmente come necessità di affermazione del
generale. Da ciò possiamo dedurre che la questione circa la molteplicità delle
forme del manifestarsi non può essere sollevata o risolta se si afferma che
ogni differenziazione non è altro che la realizzazione di un atto del pensiero
ma bensì solo domandandosi se la differenziazione poetica, la determinazione
siano da ricondurre alla necessità di affermazione del generale. Rispetto a che
cosa ! 284! misura il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che
è all’esterno altrimenti come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì
da ciò che in esso si manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere,
differenziare, decidere ed è possibile solo sulla base di una necessità,
attraverso la quale il poeta capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo
ciò che è necessario, fisso ed esistente può essere misurato. Questa necessità
che si cela nell’oggetto poetico si manifesta nell’immediatezza
dell’originario, del primo che per questo deve essere sempre qualcosa di
istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo presente e unico. Solo
grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è già e ciò che ancora non
è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre temporalità di un
determinato manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico e il suo
paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico non deve
essere considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì come
qualcosa in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella quale
all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo pensante non
misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si trova al di fuori
della necessità di affermazione del generale dato che l’Essere logico è e
appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è solamente quello che
riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da essa poiché ricorre a
una determinazione che in sé non può giustificarla. In ciò consiste il profondo
carattere etico che ogni verità possiede. Già il riconoscere di non sapere è
una risposta all’originaria necessità. Allo stesso modo in cui l'uomo pensante
guarda solo a una qualsiasi necessità che possa fargli riconoscere la verità della
propria determinazione, verità che si cela con la forza attraverso la quale la
necessità si manifesta, così il poeta paragona e sceglie la parola poetica non
paragonandola all’Ente esteriore ma bensì alla necessità che si manifesta in
esso: questo non è però mai un momento di conoscenza del fondamento. Solo
rispondendo alla domanda che ci siamo posti sulle forme della necessità, sulla
base della quale può essere distinta una molteplicità, si evince,
contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i tre modi del fondamento
che egli ha indicato come motivo del manifestarsi, fondazione (trascendenza),
Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del perché, solo in questo
contesto possano essere definiti chiaramente. È importante precisare che
attraverso il carattere originario e ! 285! immediato della necessità
dell’Essere dall’Ente, il problema delle forme dell’Essere si cela dietro
quello dei diversi attimi per l’ambiguità della parola tedesca Augenblick che
può essere intesa sia come visione e dunque manifestazione dell’Ente sia come
espressione temporale di attimo, momento. Infatti l’Essere oggetto della nostra
indagine che nel dubbio si manifesta originariamente come necessità di
espressione del generale ci offre una ben determinata visione di svariati Enti.
Questa molteplicità in quanto tale è solamente un momento del compiersi di una
qualsiasi necessità. Da ciò si evince anche un ben determinato arco temporale:
poiché sulla base dell'imporsi di una qualunque necessità si manifesta un
determinato “prima” e “dopo”, una visuale di ciò che vediamo “già” e di ciò che
non vediamo “ancora”, un passato e un futuro. Saggi: “Il problema della
metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire e dell’essere”; “Linee
della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed errare -- un confronto”
(Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come anti-arte. – il bello
nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza dell’immagine – ri-valutazione
della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della fantasia” – “Per una storia del
pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli,
Guida, Umanesimo e retorica. Il problema della follia, Modena, Mucchi, La
filosofia dell’umanesimo. un problema epocale, Napoli, Tempi Moderni, La
preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis,
Modena, Mucchi, La metafora inaudita, a cura di M. Marassi, Palermo,
Aesthetica, Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini, Filosofare noetico, non
metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte” (Lecce, Congedo, “Il dramma della
metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, Roma, L’officina tipografica, A
proposito di un Cinquantenario, in «Rassegna Nazionale», Roma; Germania, in
«Rassegna Nazionale», Roma, I giovani e il Partito Popolare Italiano, in
«Rassegna Nazionale», Roma, Il Tragico,
in «Rassegna Nazionale», Roma Scolastica e storia. A proposito di due articoli
di Saitta, in «Rassegna Nazionale», Roma Machiavelli e lo stato, in «Rassegna
nazionale», Roma La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in «Rassegna
Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano
Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della fenomenologia
«Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente «Giornale critico della filosofia italiana»,
Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo
«Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di
filosofia», Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana»,
Firenze “Paideia ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno «Sophia»,
Napoli Logo, in «Archivio di filosofia», Roma La nulla «Giornale critico della
filosofia italiana», Firenze La tradizione speculativa in «Giornale critico
della filosofia italiana», Firenze Esistenzialismo e marxismo, in Atti del
Congresso di Filosofia (Roma), Il
materialismo storico, a cura di E. Castelli, Milano, Castellani Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno, in Tradizioni della poesia
italiana contemporanea, a cura di R. Copioli, Roma, Theoria, La filosofia nella
tradizione umanistica, in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, I, a
cura di L. J. Guerrero, Mendoza-Buenos Aires.Il concetto di “realismo
politico”, in Actas del primer Congreso Nacional de Filosofia, III, a cura di
L. J. Guerrero, Mendoza-Buenos Aires, Il fondamento esistenziale
dell’Umanesimo, in «Archivio di filosofia», Umanesimo e Machiavellismo, Padova
Il tempo umano. L’umanesimo contro la “techne”, in Umanesimo e scienza
politica. Atti del Congresso Internazionale di Studi Umanistici (Roma-Firenze),
a cura di E. Castelli, Milano Esperienza europea nell’ambito sud-americano. Il
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Psicopatologia, Milano L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, in «Archivio di
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«Archivio di filosofia», Apocalisse e Insecuritas, Padova L’esperienza
dell’assenza del mondo, in «Aut-Aut» Mito e arte, in «Rivista di filosofia»,
Torino, Assenza di mondo, in «Archivio di filosofia», La diaristica filosofica,
Roma Significare arcaico (Fede e ragione), in «Archivio di filosofia», Mito e
Fede, Roma Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e
ragione, in «Archivio di filosofia», Campanella e Vico, Padova Il nome di Dio:
un problema filosofico o teologico? La morte di Dio «Archivio di filosofia», L’analisi
del linguaggio teologico. Il nome di Dio, Padova L’infallibilità. L’aspetto
filosofico e teologico, Padova La mania ingenosa. Il significato filosofico del
manierismo, in L’umanesimo e “La Follia”, a cura di E. Castelli, Roma, Abete
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Marxismo, umanesimo e il problema della fantasia nelle opere di Vico, in Vico e
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oggi, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini Risposta dell’autore, in Vico e
l’umanesimo, Milano, Guerini Il terrore della secolarizzazione. La metafora
vuota, in «Archivio di filosofia», Ermetica della secolarizzazione, Padova Una
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metaforico? La tradizione umanistica, in «Archivio di filosofia», L’Ermeneutica
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Politica, Padova La priorità del senso comune e della fantasia in Vico, in Leggere
Vico, a cura di E. Riverso, Milano, Spirali, La facoltà ingegnosa e il problema
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L’umanesimo italiano e la tesi di Heidegger della fine della filosofia, in Vico
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pensiero occidentale. Dramma sacro, profano e assurdo, in La rinascita della
tragedia nell’Italia dell’Umanesimo, Atti del convegno di studio, Viterbo, Sorbini Filosofia e religione di fronte alla
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Grassi. Grassi. Keywords: la metafora inaudita, metafora, Vico, Ovidio -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grassi e Grice: il Vico di Grassi: metafora come implicatura” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756306250/in/dateposted-public/
Grice e
Grassi – dove fiorisce il limone – filosofia italiana – la giovinezza e il fascismo
– parole ai giovane – al senato -- filosofia
fascista – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Mascali).
Filosofo. Grice: “I like Grassi; he
wrote on Faust!” Inizia gli studi ginnasiali presso il seminario di Acireale
fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania, presso il liceo
"Nicola Spedalieri". Assiduo
frequentatore della sala di lettura dell'Catania, conobbe Rapisardi, cui lo
legò una profonda stima ed affinità. Si
laurea a Napoli con “La memoria delle immagini acustica e visiva della parola in
rapporto specialmente al tempo di "fissazione", suggeritagli da
Bianchi (Rivista di Freniatria). Si trasferì a Messina dove divenne assistente
di Weiss. Comincia a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile
contrasto fra le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di
piegarlo a umilianti compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima. Muta bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla
facoltà di scienze naturali, conseguendo così la laurea con Mingazzini
sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu pubblicata
su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna, era felice di averlo
come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie ed altri sbocchi, e
così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano nella facoltà di
filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente
influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure
come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo
e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei
fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e
Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti
Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato
Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò. Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri,
anche M. Sgalambro. Altre saggi: “Preludi
a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla
vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della
ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione);
“L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De
Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”,
“Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di
Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;
“La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”; “Il faust e il tramonto dell’occidente o di
una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro
della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici. Un filosofo
dall'anima di poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi
la psicologi concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita
psichica; ma visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo
(rappresentato specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo
(Horwicz,Regalia), e il volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.).
Questo terzo, è pare, all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il
neo-idealismo, che non si accorge di restringere ancora più la intui rione dal
mondo in un piccolo cerchio antropomorfico. Il Grassi esamina le teorie
metafisiche dello spirito e le critica tutte e tre, con Egli conclude per il
monismo psicologico: ossia contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o
all'altro elemento fra i tre fondamentali, si pronuncia per una unità
primordiale di tutta la psiche, la quale unità consta ad un tempo di
rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze integrate in maniera
indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre più chiarezza e
sempre più distinzione.Cosi Grassi si connette a due psicologi italiani
insegnanti nello stesso Ateneo Patavino , ma purtanto dissimili: Bonatelli e Ardigò,
due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia.
Un'osservazione critica. Grassi inserisce molte citazioni originali in tedesco,
il che (oltre a dar luogo a gravi errori di stampa) induce fatica inutile
nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco,
massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust,
il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosa mente. È upa ostentazione
di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche
insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato
di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col
cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No : si citi
pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano: la
chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione.
RENDAA.,Ladissociazionepsicologica. Torino,F.lliBocca,1905. La
dissociazione,dice l'Autore, è un processo normale dell'attività mentale:questa
non soltanto associa,ma pur dissocia,poichè «distin gabile competenza una
inne non si può dire per ciò che faccia fica italiana;tutt'altro!L'argomento ,
ma molto utile filoso è di cosi alta portata che riesce in materia ; egli era
stato preceduto dal Faggi opera inutile nella letteratura guardarlo da varie
parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai tre indirizzi principali, il
Grassi parla anche di alcuni scrittori darii,fra cui Ward,Ebbinghaus secon
giovane , Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche
nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e
forti, al ,e noi pari del presente volume. Va Uu op.in-8.°,di pag.200.
598 RASSEGNA DI FILOS. “Goethe in Italia” L'opera fu scritta in tre
momenti successivi: l'Urfaust, scritto tra il 1773 e il 1775, influenzato
dalle rappresentazioni del Faust di Christopher Marlowe a cui il giovane Goethe
aveva assistito sotto forma di teatro delle marionette (vedi Dottor Faustper il
personaggio storico). L'Urfaust appartiene culturalmente alla corrente
letteraria tedesca dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune
aggiunte, nel 1790 sotto il nome di "Faust. Ein Fragment". Più tardi
(1808) pubblicò un ulteriore seguito, che già ricade nella corrente letteraria
del classicismo, "Faust. Erster Teil" (Faust. Prima parte): viene
aggiunto il Prologo in cielo e sono apportate modifiche significative
all'Urfaust. Così Mefistofele appare a Faust promettendogli di fargli vivere un
attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai.
In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust è sicuro di sé: tale è la sua brama
di piacere, azione e conoscenza, che è convinto che nulla mai al mondo lo
sazierà tanto da fargli desiderare di fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa
conoscere la giovane Margarete (Margherita) - detta Gretelchen (Margheritina) e
Gretchen (Greta) - la quale si innamora perdutamente di Faust, inconsapevole
del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è nient'altro
che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di Margherita
sarà tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte, 1832) la scena si
allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico:
Faust seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso
risulta di 12.111 versi. Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, trad.
di Giovita Scalvini e Giuseppe Gazzino, Le Monnier, Firenze, 1857; Fausto,
trad. Giovita Scalvini, 2 voll., Sonzogno, Milano 1882-83 e 1905-06; come
Faust, Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W. Goethe, trad. di F. Persico,
Stamperia del Fibreno, Napoli, 1861 Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad.
di Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier, Firenze, 1869 Fausto. Parte Prima.
Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe, trad. di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le
Monnier, Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni,
Firenze, 1900 Johan Wilhelm von Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E.
Vellani, Cogliati, Milano, 1927 Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol.
I Versione, pp. 326 + vol. II Commento, pp. 423, versione integra dell'edizione
critica di Weimar, Introduzione e trad. e commento di Guido Manacorda,
Mondadori, Milano, 1932-45; Collana I Classici Contemporanei, pp. 774,
Mondadori, Milano, 1949; ora in Faust, con un saggio introduttivo di Thomas
Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Giulio Schiavoni, Collana
Classici, BUR, Milano, 2005-2013, ISBN 978-88-17-06698-3. Volfango Goethe,
Faust. Tragedia, trad. di Cristina Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il
"Faust" nella sua forma originaria, Introduzione e trad. e commento a
cura di C. Baseggio, Collana I Grandi Scrittori Stranieri n.20, pp. 224, UTET,
Torino, 1932-1944 Faust. Parte I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma,
1933; come Il primo Faust, BUR nn. 39-40, Milano, Rizzoli, 1949, pp.190; Il
secondo Faust, ivi (BUR n. 339-341), 1951, pp.371. Faust, trad. di Vincenzo
Errante, 2 voll.: vol. I pp. 310 + vol. II pp. 476., Sansoni, Firenze,
1941-1942 Faust, trad. di Enzio Cetrangolo, pp. 278, Federici Editore, Pesaro,
1942 [scelta] Faust, introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi,
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introduzione e commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana
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prefazione e note di Barbara Allason, pp. 450, Francesco De Silva, Torino,
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Collana Universale n.16, Einaudi, Torino, I ed. 1953 - II ed. riveduta su nuovi
documenti, pp. 179, 1960; Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe,
a cura di B. Mirisola, Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana,
2012 Faust. Urfaust, versione integrale, 2 voll., Introduzione e note a cura di
Giovanni Vittorio Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, pp. 459,
UTET, Torino, 1950 - pp. 532, 1959 - pp. 588, 1975; in Faust e Urfaust, Collana
UEFn.500-501, Milano, Feltrinelli, 1965; ora in Collana Universale Economica. I
Classici n.2018-2019, 2001-2014, Feltrinelli, ISBN 978-88-07-90068-6. Faust. Seconda
parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust, Introduzione,
trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte, pp. 1180,
Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1970-2009 ISBN 978-88-04-08800-4;
Collana Biblioteca n.18, 2 voll., Mondadori, Milano, 1980-1987; Collana Grandi
Classici, Oscar Mondadori, Milano, 1992-1997 - Collana Nuovi Classici, Oscar
Mondadori, Milano, 2012 ISBN 978-88-04-52011-5 Faust, a cura di M. Cometa,
Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani, pp. 592, Schena
Editore, 1984 Faust, trad. di R. Hausbrandt, 2 voll., Dedolibri, 1987 Faust.
Urfaust, trad. e cura di Andrea Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott,
prefazione di Erich Trunz, Collana I Libri della Spiga, pp. 1462, Garzanti Libri,
Milano, 1990-1995 ISBN 978-88-11-58648-7; prefazione di Italo Alighiero
Chiusano, Collana i grandi libri n.545-546, Garzanti Libri, Milano, 1994-2012
Faust. Testo tedesco, traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli.
Prefazione di Fabrizio Cambi, pp. 472, edizioni aicc castrovillari; trad. di
Vittori Santoli e V. Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna, 1996 Faust,
trad. e note di Andrea Casalegno, illustrazioni di Eugène Delacroix,
presentazione di Mario Luzi, Collana I Grandi Libri Illustrati, pp. 294, Le
Lettere, Firenze, 1997 ISBN 978-88-7166-347-0. Il Fausto di Gounod. Dimora
casta e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy
with calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were
published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo
Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il limone, la giovinezza e il fascismo:
parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grassi” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754624207/in/dateposted-public/
Grice e
Grataroli – sulla memoria – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Bergamo). Filosofo. Grice: “I like Grataoroli, the Pope called him ‘infamous
heretic,” which is a good start! He wrote a book on ‘semiotics’ of the times,
but it got lost – you cannot understand Bruno unless you do Grataroli – he
philosophised on many subjects, including dreams and alchemy!” –Di una famiglia
benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città di Venezia.
Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val
Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti
(tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino),
annoverava tra i suoi membri una folta schiera di "phisici", tra i
quali si segnalarono il nonno di Grataroli, fondatore del collegio dei fisici
di Bergamo, e il padre di Grataroli, Pellegrino, fisico presso la città
orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura.
Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del
papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione
dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia. Eeretico pertinace
et scandaloso et infame, peste contra la fede. Insegna a Basilea. Presso
l'ingresso dello studio aè presente un suo busto. Noti sono i suoi trattati sul
potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di peste, sulle
proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti
inerenti all'alchimia. Si segnala per la teoria fisiognomica. Argomenta su
Pomponazzi e da indicazioni sia per il mantenimento della salute che per
l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi
viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria
reparanda, augenda ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium,
vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba
Philosophorum”; “De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur
conservanda praeservandaeque valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ
alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna,
Basilea); “De fato, libero arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae,
quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea);
“De balneis” (Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte
e psicologia da Leonardo a Freud M.
Meriggi e A.Pastore, Le regole dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo
ed il suo territorio. Bergamo, Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e
degli scritti di Gulielmo Grataroli filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi,
Le regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie. del Rinascimento, T. Bottani e W. Taufer,
Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, G. Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica
Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua
& cer- ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt,
aut Jìunt , krevìter, & dare, ordine que alphabetico de scripta
per Gulielmum Gratarohun Medicum P/iy/i- cum y cuni Addinone undcam
fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo . Basilea? apud Jacobum
Pareum in 8. Ibi- dem apud
Nicolaum Episcopium in 8. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum
. V opera indicata , con le altre due » De Memoria reparanda
t e » De Prje- diclione morum » > si trovano unite tiell*
accennata edizione di Argentina alli Trat- tati di Chiromanzia , e di
Astrologia natu- rale di Giovanni Indagine , o sia Giovalini Hagen dotto
Certosino del decimoquin- to secolo ? ed al libro » De Sculptura »
di Pompeo Gauricio Matematico Napolita- no . Perchè il Grataroli non
venga taccia- to di superstizione o di puerile credulità a motivo
delle cose da esso scritte parlan- do dei Pronostici naturali e della
Predi- zione dei costumi , credo cosa necessaria fedelmente
trascrivere la Protesta , o sia Avvertimento al Lettore, che si trova
nel- la edizione di Argentina Devi poi » avvertire , che
generalmente parlando le » cose dette si verificano nella gente
gros- » solana y vale a dire di coloro , i quali » non sono
rigenerati dallo spirito e dalla » grazia di Dio , perchè di questi è
vero » ciò che dicesi della depravata natura in » Adamo , che »
Naturce fequitur femina quifque fucc » : Ma air opposto i
rigenerati » dallo Spirito Santo mortificano la pro- « pria carne
con i suoi vizj , e con le » sue concupiscenze , sebbene la concu-
» piscenza ed il fomite del peccato vi re- » stino sempre , e da
moltissimi , o Dio , anche pur troppo si riducano alla pra- » tica
», A gloria di Gulielmo riporterò anche la sua opinione sopra la causa
del flusso e riflusso del mare r avendo preco- 6
A Aizzato più di due secoli prima quasi in- tieramente il
sistema del rinomatissimo Ca- valiere Isacco Neuton circa lo stesso
feno- meno : opinione approvata ed insegnata da quasi tutti i
Filosofi posteriori a quel subitine Geometra » : Il moto periodico
del- ia Luna ha grande predominio sopra li corpi fluidi , quindi fa
che il mare s in- nalzi e si abbassi ^ singolarmente per una
particolare di lei influenza , e ne segua il flusso , ed il riflusso
secondo i differenti aspetti relativi alla medesima , e secondo che
questi accadono nella maggiore -> o minore forza della sua influenza :
Accade ciò perchè la Luna ha bensì certa in- fluenza coir Oceano ,
ma non già coi la- ghi e coi mari di poco estesa superficie . Per
la qual cosa mentre quel Pianeta si muove dall' Oriente verso il mezzo
gior- no , fa che la superficie del mare s' innal- zi , e che
conseguentemente ne segua il riflusso medesimo . Quando poi si
muove dal mezzo giorno verso Y occidente fa che il mare si abbassi
, e però ne nasce il ri- flusso . Similmente allorché la Luna si
muove dall' occidente verso V angolo della notte , o sia da settentrione
verso V o- i icnte , ne segue nuovamente il riflusso r>
II. » Guliclmi Grataroli Bergomatis Artium > & Mediani?
Docloris de Memo- ria reparanda , augenda > fervandaque , Liber
omnimoda Remedia > & Pnzceptio- nes continens cujufivis facultans
jhuliofis apprime utilis «, immo maxime necejjlvius , Tiguri ? apud
Andream Gesneruni in 8. , Basilea apud
Nicolaum Episcopium in 8., Lugduni , apud Gabrielem Coterium in 8.,
Francofurti apud Joannem Vichelium in 12. Ibidem apud Viduam Petri
Fischeri 1596. in 12., Argentorati in 8. » Nel frontespi- zio dell'accennata
edizione di Argentina si trovano queste parole : » Omnia ab An-
afore correcla P ancia finis > 6' ultimo edita «. La stessa Opera » De
Memoria re- paranda » è stata stampata unitamente all' altro libro
del Grataroli » De confervanda Valetudine » da Enrico Rantzovio .
De Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex infipeclione par*
tìum corporis > tutu aids modis «> Anelare Gulielmo Gratarolo
Medico , & Philojopho B ergo mate • Basilea 1554» in 8., Ti- guri
apud Andream Gesnerum in 8. , Lugduni apud Gabrielem Coterium ,
&* Argentorati 1 6*5 3» Li tre accennati libri De Memoria reparanda:
De Temporum omnimoda mutatìone Prognofìica: De Prce* diclione morum
» furono dati alla luce per la prima vo ? ta dal Grataroli in Basilea ,
e dedicati ad Edoardo VI. Re d'Inghilterra; siccome pure la seconda
edizione di tali Opuscoli fatta nella medesima Città nell* anno
1554. fu consagrata a Massimiliano II. Re di Boemia lutto questo
evidente- mente si rileva dal primo periodo della Dedicatoria
medesima al secondo dei com- mendati Sovrani , la quale cosi incomincia
Nello scorso anno, ottimo Re, per le pressanti istanze degli amici e
del- io stampatore > sono stato costretto a dare alle stampe
assai più presto di quello che averei desiderato tre miei libretti
intorno ai quali erano già molti mesi che affatica- va , e perchè
essendo assente , molti er- rori corsero nello stamparli, però
riveduta di nuovo queir opera , non solo ne cor- ressi i difetti ,
ma in oltre impiegando ogni possibile diligenza ed applicazione , e
prestandovi , come si suol dire , V ultima mano , F ho accresciuta di
parecchie belle aggiunte a segno, che la presente edizio- ne è
superiore alla prima siccome lo è un parto di nove mesi a quello di soli
sette , *7 o pure Toro fino ali* argento • Avevo
de- dicata la prima ad Edoardo VI. Re d' In- ghilterra , il quale
innanzi anche di aver- ne notizia , non che di averla potuta ve-
dere, fu costretto infelicemente a cambiare la vita con la morte ». Tale
Dedicatoria fu scritta in- Basilea nel mese di Febbrajo deiranno
1554. Nondimeno non posso accertare in quale città siano stati
stampa- ti li sopradetti Opuscoli la prima volta che dal Grataroli
furono indirizzati alli due già nominati Sovrani . Pejlis
Defcrìptio , Caujjoe > Si- gnu omnigena > & Proefervatio .
Anelare Guliclmo Gratarolo Medico . Basilea? ; per Ludovicum Lucium
Anno Salutis Humana? Mense Augusto; Lugduni, apud Gabrielem Coterium
1555. • La prima edizione di tale veramente aureo Trattato fu
dedicata ad Ascanio Marzo Ambascia- tore Cesareo presso i sette Cantoni
della Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e virtù fornito ed
amico di Gulielmo ; e questi appunto furono i motivi , che lo
spinsero a sceglierlo per Mecenate con scrivergli : La vostra conosciuta virtù , e la non
volgare vostra mansue- tudine , non meno che il vostro amore per
tutte le sane dottrine , e per la pie- tà , mi hanno costretto a
dedicarvi quest' opera » . Perchè si veda quanto amava le massime
di pietà e di religione conviene notare , che dopo di aver egli
prescritti neir indicata sua opera li rimedj fisici con- tro la
Peste , raccomanda con fervore li spirituali con queste parole (81) »
Ma per brevemente indicare li remedj più for- ti , più giovevoli e
generali , prima di tutto allontanate da voi la paura della morte ,
ma non già il santo timore di Dio . Non perciò doverete amare il
peri- colo , né incorrervi temerariamente , se non sarete sforzati
o dalla carità cri- stiana del prossimo , o dalla gloria di no-
stro Signore Gesù Cristo > il quale devesi anteporre a tutte le cose
De Litteratorum > & eorurn qui Magijlratibus funguntur
confermando, proe- fervandaque valetudine , illorum prcecipue qui
oetate confiftentìoe vel non lunge ab ca ab funt > curn ex
probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione , & fideli praxi > &
experientìa concinnatum . Basilea apud Henricum Petri in 8.,
Francofurti in 12. apud Ioanncm Vchel ; Ibi- dem apud Nicolaum
Hofmannum \6 17. ($9 in 8. » La stessa opera è stata
tradotta nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P e stampata in
Londra Tanno in 1 2 . Questa dottissima opera è riferita dal
rinomatissimo Medico Ermanno Roerhave nel suo » Methodus (ludii Medicorum
» . De Confervanda valetudine . Francofurti apud Henricum
Randzov . Questa opera fu stampata unitamente all' ultima
registrata dallo stesso Randzov •Re girne n omnium iter agentium . Basilea?
apud Hemicum Petri \66\. Argentorati per Vendelinum Rihelium 1 s6%.
in 12. Colonia? apud Petrum Hofmannum 15/1. in 8. V edizione fatta di
tale uti- lissima opera in Argentina fu dedicata dal Grataroli »
alla vera pietà, (82) e nobil- tà del chiarissimo Egenolfo Barone , e
Si- gnore in Rapolstein Hochen Ack e Ge- rolzeck in Vassichin » e
nel frontispizio della medesima vi si leggono i seguenti la- tini
versi . Ut peregrìnands vita ejl jubjecla procellis Aeris ,
& varìis undique prejja malis ; No/ira procelle* fi vario jìc
turbine mundi Volpi tur incertis anxia vita rnodis.
7° Hoc bene pericolo Jervans prò tempore litro
Tutìor utque voles carpe Vìator iter. VIII # De Laudibuj
Medicina ejus origine > progrejju ? militate . Argentora- ti i 5
£3. in 8. IX. De Pefle Thefes. Basilea in 8. Apud Henricum Petri
. De Vini natura , Artificio , & Ufu , deque omni re
potabili . Basilea , Apud Henricum Petri . XI. Equorum P
& Domejlicorum quo- rundam Ànimalium remedia $ senza data in
tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis Philojbphici nomendaturoe . Basilea La
medesima opera trovasi inserita nel Volume in foglio stampato in Colonia
Tan- no 1571. da Pietro Orstio , con il titolo Veroe Alchimia?
Scriptores . XIII. De janitate menda . Argento- rati 15 6 5.
Trovo quest* opera citata dal Mercklino nel suo Lindenius
renovatus. XIV. De Thermis Rhoctias , & Val- lis
Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis . Si trova stampata tale opera per la prima
volta da Tommaso Giunti in Venezia Tanno 1553. nella sua copiosa
raccolta di tutti quelli y fi che sino alla
detta epoca avevano scritto sopra i Bagni , ed è riportata alla
pagina 192. , con questo titolo Guìlhdmus Gra- tarolus
ad Corradum Gefnerum Medicum Tis'urimim de Thermìs Jxhoetìcìs
Tutti o quelli i quali a mia cognizione hanno par- lato
di questo trattato di Guliclmo , sia neir occasione di dare il Catalogo
delle sue opere , o • sia per semplice erudizione , e perfino il
nostro Padre Donato Calvi , non hanno citata nessun' altra edizione
della stessa opera , che quella dei Giunti % e tutti ne fecero sempre
autore il Grataroli , senza mai mettere in dubbio questo punto d' Istoria
letteraria . Ciò nondimeno non deve recare maraviglia , particolar-
mente delli scrittori oltramontani , e spe- cialmente di quelli del
decimosesto secolo : ma fa bensì stupore , che siasi continuato ad
attribuire al Grataroli un simile tratta- to , dopo la nitida e ben
corretta edizio- ne fatta dal valoroso Cornino Ventura X anno 1582.
in 4. di tutti i dotti Medici Bergamaschi , che avevano scritto sopra
i Bagni di Tres^ore ; poiché apparisce , ed è anche evidentemente
provato da quel diligente stampatore , e dagli eruditi e perspicaci
fratelli Licini suoi direttori, che il trattato , che porta
quel titolo , appar- tiene sicuramente a Bartolommeo Albani Medico
Collegiato della Città di Bergamo., scritto dal medesimo sino dall'anno
1470., vale a dire quasi un secolo prima della indicata edizione
Veneta di Tommaso Giun- ti • Di fatti T Opuscolo dell' Albani
termi- na precisamente con questa data : anno mìllejìmo quadrigentefimo
y & feptuagefimo de menje Julii die vìge fimo Ceptimo . Per
ExeelL Artìum & Me dicince Dociorcm Bartholomceum de Albano. Si fa
ancora as- sai ' più manifesta tale verità da quanto afferma il
Cornino alla decimaquarta pagi- na della sua edizione degli Scrittori
Berga- maschi circa li Bagni Trescoriani , nella annotazione
seguente posta in fine dell* Q- puscolo del sopracitato Bartolommeo
Albani per maggiore sua giustificazione » Da un antichissimo
esemplare manoscritto (83) ri- trovato nella libreria de" Padri
Domenica- ni , il quale si vede eziandio trasportato nella lingua
Italiana , sotto il nome dello stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di
Bar- tolommeo Colleoni , lasciato al Luogo de Ha Pie- tà,
conservato sino a questo tempo ». Non si deve adunque più dubitare , che
il ve- ro Autore di quel trattato non sia Bariolommeo Albani , mentre
anche il Padre Cal- vi così ha lasciato scritto nella sua Scena
Letteraria (84) >> Bartolommeo Albano della Medicina celebre
Professore fiorì verso la metà del passato secolo -> e fu il primo
y che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre- score j leggendosi le
sue degne fatiche con quelle d 5 altri Autori nel libro » De Bal-
neis Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Ber- gomi Questa è T accennata
edi- zione di Cornino Ventura. Si noti in que- sto luogo , che lo
stesso Bibliografo indi- cando l'opera del Grataroli (85) sopra io
stesso argomento , dopo di avere scritto De Thermìs Rhoeticis, &
Vallìs Tranfche- rii agri ìSergomatis » aggiunge » Questo si trova
nell' opeia Veneta De Balneis » » Adunque al Calvi era nota tanto V
edi- zione dei Giunti , quanto quella del Co- rnino : dopo tutto
questo, in quale manie- ra si potrà difendere il Grataroli dalla tac-
cia di plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile ,
Ricercato Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande amico , che si
chiamava il Plinio dell* Ale- magna , perchè gli facesse avere delle
no- tizie circa le Terme , o Bagni della Re- zia , e della
Provincia Bergamasca , egli ^per fare cosa grata ad un amico di tanta
rinomanza , prese in mano il manoscritto dell' Albani , vi aggiunse
qualche cosa del proprio , ed ancora molte cose di quelle che aveva
scritto sopra i Bagni di Tresco- re il dotto Medico Lodovico Zimalia ,
le- vando alcune cose che gli sembravano su- perflue , o inesatte ,
con purgato stile la- ^inò , e con veri termini tecnici rifuse il
manoscritto dell' Albani , e cosi riformato ed ordinato lo spedì all'
amico, unitamen- te ad una erudita lettera relativa alle Ter- me
della Rezia : e siccome in quei giorni il Gesnero si trovava in Venezia
per de- scrivere i Pesci , ed i Crostacei del mare Adriatico ,
averà consegnato questo scritto a Tommaso Giunti s che in quel
tempo era occupato a pubblicare la sua grande edizione di tutti li
Scrittori sopra i Bagni e le aque Termali n siccome ho già di so-
pra notato . Indubitata cosa ella è che il Grataroli chiude il suo
scritto con queste parole (86) » Ho raccolte brevemente, e con
chiarezza tutte le soprascritte cose a benefizio , e sollievo del mio
prossimo^ io Gulielmo Grataroli Dottore di Medicina : frutto tutto
questo delle mie oculari osser- vazioni , e della lettura di parecchi
amichi Medici della mia patria » . Appunto questa sua protesta
dalle persone oneste e giudiziose deve essere considerata una
confessione del fatto , ed ancora del di- ritto che aveva acquistato di
appropriarsi quello scritto ; tanto più che il Grataroli nello
spedirlo al Gesnero , lo previene con la seguente onorata e sincera
dichiarazio-ne Vi spedisco l'intiera Descrizio- ne delie Terme
Bergamasche , le quali non sono lontane dalla Rezia più di due
gior- nate di cammino • Di queste niente sino al presente trovasi
pubblicato con i tor- eh) ; onde mi giova sperare , che diver-
ranno celebri anche in avvenire , siccome lo furono in passato , dopo che
Y occul- ta, e quasi intieramente ignorata loro vir- tù sarà fatta
nota con le stampe ; purché non vi rincresca accoppiare le
erudizioni Italiane alle Tedesche » . Poteva qui espri- mersi
Gulielmo con più candida , ed one- sta sincerità ? Confessa di essere
semplice raccoglitore d^gli altrui scritti, mentre dice » Ho
raccolto dagli scritti di altri antichi Medici Bergamaschi » Non
chiama sua quella fatica , ma dice semplicemen- te (89) » Vi
spedisco T intiera descrizione delle Terme Bergamasche > delle
quali niente sin ad ora è stato pubblicato » Non si deve dunque
condannare di plagiario il Grataroli $ e certamente non conviene ,
che egli abbia avuto rimorso di avere commes- so una cosi vile, e
detestabile impostura , mentre essendo sopravissuto quasi quindici
anni dopo l'edizione Veneta di queir opu- scolo , sicuramente non
averebbe mancato di giustificarsi presso il mondo erudito circa il
preteso plagiato . Ecco tutto quello , si può dire in difesa di questo
Medico Fi- losofo sopra tale inssusistente accusa , né altro posso
aggiungere «> se non che far noto al mio Leggitore , che per
quante diligenze abbia usate «> non mi è giammai riuscito di
ritrovare i due citati mano- scritti , e che in oltre il Padre
Donato Calvi , a cui era nota Y edizione di Co- rnino Ventura , non
ha nella sua Scena Letteraria dimostrato di sospettare dell' o-
nestà letteraria di Gulielmo Grataroli . Pri- ma di terminare il presente
articolo dei Bagni di Trescore, riferirò il zelante uma- nissimo
Voto, con il quale Gulielmo chiu- de la sua opera stampata dal Giunti
Faccia Iddio , che la Bergamasca Re- pubblica abbia diligente cura di
rimettere nel primiero loro stato questi saluberrimi Bagni , che
certamente lo può , e lo de- ve fare » . Faccio io pure fervidi e
sin- ceri voti , perchè abbia effetto tutto ciò che caldamente
raccomanda il Grataroli ; e per maggiormente incoraggire la mia Città
, ed i miei Cittadini a procurare al- la patria un vantaggio così
rimarcabile , vivamente li supplico a leggere T erudita ed elegante
latina lettera di Lodovico Zi- malia , premessa al suo dottissimo
Trattato dei Bagni di Trescore , dedicato al suo magnanimo Mecenate
Bartolommeo Colleoni Capitano Generale degli Eserciti della Serenissima
Veneta Repubblica , (91) nella quale prova con una evidenza che
sorprende, e che deve intenerire chiunque senta amore per la sua patria ,
che quello famosissimo Eroe deve senza alcun dubbio essere
ugualmente ammirato , e commen- dato sì per le sue azioni militari , che
per le sue virtù politiche , a benefizio «> ed eterno vantaggio
, e decoro di tutta la sua amata nazione Bergamasca . De
Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello stampatore .
Tuttavia nominerò ancor io tra le opere di Gulielmo un libro con tale
ti- tolo , ritrovandolo registrato dal Calvi , e dal
Papadopoli suo copiatore , ma non dal Frehero , non dal Bayle , non
dai Maizeaux suo illustratore , non dal Mer- ci: lino , non dall'
Eloy , mentre tutti que- sti si suppone avessero molto interesse di
far autore di un libro Anticattolico Romano un erudito e dotto Italiano -
sic- come era da tutti considerato il Grataro- li. Non però verun
altro Letterato ha po- sto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro
• D' altronde è cosa più che cer- ta , che si può scrivere dei caratteri
dell' Anticristo anche dalla più religiosa e ze- lante penna
cattolica : ed è certo di più , che il Calvi , o non averebbe
registrato un così fatto libro , o non averebbe man- cato di
scriverne qualche parola in dete- stazione del medesimo . Ma di più
anco- ra quanto al Papadopoli , probabilmente questi non averà
nemmeno veduta quest* opera , essendosi intieramente riportato al
Padre Calvi , siccome egli stesso scrive nella sua storia dell'
Università di Padova parlando di Gulielmo Grataroli . Avendo in
oltre riportati i titoli delle altre sue opere senza data , alterati , e
confasi no- tabilmente, non sarebbe stato egli il primo a giudicare
di un libro mai veduto , nò letto • A me stesso è accaduta la
medesi- ma sorte y non solo di poterlo trovare > ma neppure di
averne fondata contezza , per quante ricerche abbia usate non sola
in Italia , ma altresì nella Germania e nell* Olanda . Sostengo
finalmente , che se que- st* opera esiste , che io non credo , o se
fu composta da Gulielmo Grataroli -, non doveva essere tanto malvagia e
perversa , quanto alcuni senza ragione sospettano ; mentre che
tutte le opere del Grataroli è vero che sono poste nell* indice de'
Libri proibiti ? ma con la semplice cautela ; Quandiu emendata non
prodieri nt (92) « Dal che si è da presumere che se que- sto fosse
stato un libro veramente Etero- dosso , Santa Romana Chiesa lo
avrebbe posto nella classe dei libri empj e mal- vagi di prima
classe • XV I. Confilium de Proe fervanone a Vcnenis .
Gulielmo Gratarolo Aucìore . Hamburgi in 8. Ecco registrate
tutte quelle opere che mi è riuscito di raccogliere, le quali furo-
no composte da questo dottissimo Medico e Filosofo : ora passerò alla
seconda classe delle opere tradotte e fatte stampare dal medesimo
. J. Joannis Braccfchi de
Alchimia , cum propofìtionibus 29. Idem argume ri- rum compendiofa
brevitatc compleclens ex Italico Aucloris Autographo in latinum
verni -> & edidit Gulìelmiù Gratarolas . Basilea 156*1. in folio.
Apud Henricum Petri . Non mi è noto dove sia stata
stam- pata la prima volta questa traduzione; ma solo ne ho trovata
un' altra ed zione fat- ta in Amburgo neir anno 1^7 3. in 8.
II. Chirurgico rum quorundam Auclo- rum Libros Gali ice fcriptos
latine reddidit ? & in cap'-ta difiribuit Gulielmus Grataro-
las • Lugduni in 8. Apud Gabrie- lem Coterium , Classe terza
delle opere d* altri Scrit- tori fatte stampare con prefazioni , note
y e commenti da Gulielmo Grataroli . I. Ve ree Àlchymìce
Scriptores aliquota cum Praefationibus 9 & D celar ationibus
col- Ifgit y & una edidit Gulielmus Gratarolas. Basilea? , apud
Henricum Pctri in folio . II. Vetri Apone njls de Vene ni s
eo- rumane Remediis , cum Additionibus Gu- Udini Grataroli .
Francofurti , apud Joan- n ìm Velici in 8. 8i
III. Hermannl a Ncunare de no- vo haclenufque inaudito Germanice
morbo ^pompar* idcft judatoria febre , quern vulgo fudorem
Britannicum vócant, libellus a Gu- lielmo Gratarolo editus. Colonia in
4. Ermanno Ncunare era Conte e Pre- vosto della Cattedrale di Colonia
. Simeonis Riquinii Judicium do~ clijjimum duabus epijìolis
contentimi de fiutato r ice Febris cura t ione editum a Gu~ lielmo
Gratarolo Medico > & Philofopìio B ergo mate . Colonia in j
6. V. Joackini Schdlerii ^ o come altri scrivono Sckilfeni de
Pejìe Britannica Commentariolus aureus a Gulielmo Grata- rolo
Medico & Philofopko editus . Basilea? 1 5 c> 3. Apud Henricum
Petri in 12. VI. Alexandri Benedicii de Pejlilen* tioe
Caujjls s Proe fervanone > & auxiliorum Materia Liber Jingularis :
Omnia ex ma- nufcriptis exemplaribus auxit y & illujìravit
Gulielmus Gratarolus Medicus 9 & Pialo- fophus . Basilea? 1559. in 4.
Ibidem 1572. in folio apud Henricum Petri . VII. Correcliones
, & Additiones ad librum Italicum , falfo tributum Fallopio 7
infcriptum , Secreta Fallopii . Francofurti irfoò. in folio , e
i6"o£. cum operimi 6 1 82
Appendice Guliehni Grataroli Medici Bcr- gomatis. Girolamo
Mercuriali da Forlì coe- taneo del Grataroli , soprannomato Mercu-
rio e Trimegisto per la vastissima sua medica scienza , nell' erudita
opera : De ratione dijcendi Mediana/?! , edizione di Argentina
dell' anno 16*07. > m proposito dei libri falsamente attribuiti a
Gabriele Fallopio , racconta che vi furono alcuni , i quali o per
malignità , o per sordido lucro cacciarono fuori opere sotto il
nome del Fallopio , che affatto non sono sue , come il libro dei
Secreti . Opere indegne del suo maestro , e soltanto capaci a to-
glierli quella vera , e soda gloria , la qua- le si era acquistata presso
i dotti • Vili. Cenjura & Additiones in Li*- bruni Alexii
Pedemontani , ubi de Quinta effentia funplici . Per Gulielmum
Grataro- lum . Venetiis apud Jun£hs in 12. Conjìha , &
Curationes variorum doclijfimorum Medicorum de Sudore An- glico a
Guliehno Gratarolo edita . Colo- nia apud Franciscum Hofmannum
1602. in folio . X. Thaduei F/orenini , che 1' Alido-
sio chiama Taddeo Aledrotto^ & Guliclnù a Brixia Conjìlia • Colonia*
i^c^. Apud Iranciscum Hofmannum in 4. Per Gidid- mum
Gratarolum . XI. Johannis de Kupecijja de Extra- tione
Quinte? ejfentioe omnium rerum prò u fu Medico . Venetiis apud Juntìas
156*1. in 1 2. XII. Theatrum G aleni > hoc eft uni-
verjlv medicince a Galeno diffupz *> fpar- f inique traduce
Promptuarium completimi & in
meliorem ordinem redaclum per Lu-> dovicum Luride llum a Gulielmo
Gratarolo Medico } & Philojbpho editimi . Basilea? 15 68. Apud
Henricum Petri in folio «> Hamburgi apud Joanneni Neumannum >
& Georgium Volfium \6j2. in foiio. Petri Pomponacii de Incanta*
tionibus libri in quibus dijficilUma Ca- pita > & Quefliones
Theologicoe , & Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei doclrina
explicantur > & multis rarìs Hijìoriis > & Glojfulis
illujlrantur . Per Gulielmum Gra- tarolum Medicum , & Philojbpkum
Bergo- matem > qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum
Dociorum Judicio fubmittit . Basilea? Kalendis Martii ex Offi- cina
Henripetrina in 8. cum Csesa- rea Majestatis gratia & privilegio.
Quesra edizione del trattato deeli Incantesimi di
&4 Pofnponacio tu consagrata dal Grataroli a
Federico Conte Palatino con una nobilissi- ma , e giudiziosissima
dedicatoria impiega- ta parte in encomj della virtù e meriti di
quel Principe, e parte in difendere Y ope- ra di quel Filosofo Mantovano
, del quale afferma e sostiene , che fu a torto impu- gnato , e
perseguitato ; e che se fosse sta- dio con prudenza e carità Cristiana
tratta- to , sarebbe riuscito uno dei più zelanti e forti
Apologisti della Chiesa Cattolica, come riferisce essere avvenuto a Giustino
Martire , al grande Agostino , ed a mol- tissimi altri difensori della
nostra santissima religione • Di fatti Pomponacio per atte- stato
di tutti gli Scrittori della sua vita mori cattolicamente (93) : » Voglio
spera- re , che Pomponacio prima di mandare fuori T ultimo suo
spirito , siasi per singolare grazia delia divina providenza e misericordia
ravveduto e pentito , e che non abbia perseverato neir ateismo .
Imperoc- ché tale essere stato il Pomponacio Y ho udito spesse
fiate a rammentare da Elideo Medico di Forli chiarissimo ornamento
del- la medica scienza , ed uno de suoi più cari discepoli » . Ho
ricopiato questo sen- timento dui Grataroli acciocché si conosca quanto
grande fosse Sa sincerità e Tat- , taccamento verso la Chiesa Cattolica.
Gis- berto Voet , o Voezio ^ dotto Professore di Teologia -, e
delle lingue Orientali neìl' Università di Utrecht , inimico
capitale della Filosofia e di Cartesio , ha parlato con molta lode
della suddetta edizione, dicendo Gulielmo Grataroli Medico Italiano , li
di cui scritti vengono coiti* mendaci per lo zelo di pietà e di
religio- ne che vi traspirano, e per li encomj de* quali lo ricolma
Teodoro Beza nelle sue lettere , e per li suffragj di molti altri
uo- mini dotti, che lo trattarono nelle sue ope- re stampate in
Basilea difende Pomponacio contro li suoi caluniatori, ed afferma,
che abbia terminati i suoi giorni assai piamente. Dalla medesima
dedicatoria di Gulielmo da esso scritta un anno solo prima del suo
pae- saggio all'altra vita si rileva, che già die- ci anni innanzi
egli aveva fatto stampare r senza che mi sia riuscito di sapere in
qua! parte ^ il Trattato De ìncantationibus di Pomponacio , perchè
così scrive al Princi- pe suo Mecenate * (9$) » La parte di questo
libro , che tratta delle cause , e degli effetti naturali, o sia degli
Incantesi- u mi fatta da me stampare sono già
più di dieci anni , T avevo dedicata e spedita air Illustrissimo
Principe Ottone Enrico Elettore di felice memoria , e S. A, non
sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo proprio pugno » . Mi è
piacciuto di nuo- vamente riportare quanto Gulielmo Grata- roli
scrisse in quella sua elegante Dedica- toria , perchè dalla premura e
zelo da es- so dimostrato sino agli ultimi periodi del- la sua vita
, e dalla universale estimazio- ne , che hanno sempre costantemente
fat- ta palese in faccia di tutto il mondo tanti letterati del
primo ordine , d* ogni nazio- ne , e d' ogni religione , della dottrina
, della probità, e dell' amore del vero , e del giusto , che ha
conservato in tutte le sue operazioni , possa invogliarsi qualche
valente ed erudita penna della sua , e mia patria a tessere , ed in assai
miglior modo ordinare una più compiuta istoria scevra dai difetti ,
dei quali questa mia pur troppo è ripiena , di un Filosofo e Medico
j che ha impiegati e consagrati tutti i suoi talenti , e tutti i momenti
de' tuoi giorni a benefizio e vantaggio della languente umanità ,
ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del
sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere
in diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in
fine illustrando ed arricchindo di uti- lissimi riflessi e profittevoli commenti
un numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni genere
di scienze e di cognizioni, siccome ne forma una evidentissima prova il
copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo
Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla memoria, de balneis, turba philosophorum.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689900199/in/photolist-2mKAsyK-2mKEftR
Grice e
Grazia – il principio di benevolenza conversazionale -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo. Grice: “Grazia is important to understand
Galileo, whom Italians consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about
architecture – a truly Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto,
dalla natia Calabria, da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli.
Studia filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in
nome dell'esperienza. Saggi: “Discorso sull'architettura del teatro” (Napoli:
Giordano); “La scienza umana” (Napoli: Flautina); “Logica speculativa” (Napoli:
Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama); “Considerazioni
sopra 'l discorso di Galileo Galilei intorno alle cose che stanno su l'acqua, e
che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don Carlo Medici
(Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario Biografico degli Italiani.
Classe- Appetito;Volere.Condizionediogni appetito è l'andarsi rinvigorendo con
lareiterazione degli atti fino a rendersi dominante su gli altri appe titi.
Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio acquistando maggior potere
su imoti del corpo sog 3.Classe- Moloriprimitividellavolontà:Ten
denzaistintivadellenostreforze all'azione;appetito istintivo del piacere nella
sua triplice forma, e a v versione al dolore ; amor di sè stesso co'tre carat
teri di concentrazione, di reazione, di espansione spontanea. 4.Classe- Oggetti
dell'amor-proprio diconcen nale, onore esterno. Reazione dell'amor-proprio: Emo
sentimento. Espansione spontanea : Benevolenza. Ilbenessereè certamente oggetto
dell'amor proprio; ma nella3.classevadistinto dall'amor proprio l'appetito istintivo
del piacere, e l'avversionealdo l o r e . N o n è p e r c h è a m i a m o n o i
s t e s s i, c h e d e s i d e r i a m o il piacere e fuggiamo il dolore.
L'amor proprio si pronunzia nel cercare imezzi per procurarci l'uno, e per
sottrarci all'altro, fino a contrastare a tale uopo altriappetiti.L'appetito quindi
del benessere, una delleesigenzedell'amor proprio,éprecisamentequel principio,
in cui lo Stewart ha fatto consistere tutto il nostro amor proprio. Un tale
appetito abituale non è getti al suo comando, come anche su l'attenzione
ri. flessiva. Seconda condizione dell'appetito è l'essere accompagnato da
piacere , quando è soddisfatto ; e da dolore, quandoessendoistigato
nonèsoddisfatto. È questo esclusivamente il piacere e il dolore morale.
trazione:Benessere,dignità.perso IL METODO. Classe Slati diversi dell'appetito:Desiderio,
o contento ; godimento , o afflizione, o rammarico ; speranza,o
timore;pentiinento;disperazione. zione benevola di riconoscenza; ri
invero irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori epiaceri ,eragionee
volontà,essoprevedendolecon seguenze delle sue azioni, non mancherà di formarsi
u n p i a n o d i c o n d o t t a p e r e v i t a r e il dolore, p e r p r o
cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in
questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito
del benessere a sola mira di esibire intero nella 4. classe
ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far riguardare con
tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già completato il
quadro de'fenomeni pri mitivi del pensiero , distinguendolo in tre categorie
corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, V o lontà ; e tenendo conto
delle condizioni loro comuni . Pria di progredire nel nostro divisamento,
daremo fine a questo articolo con la seguente generale osser vazione. La
semplicità di una classificazione di feno meni primitivi non si dee giudicare
su laclassesu prema.Ilnumero de'principjignotièegualealnu mero de'fenomeni
distintinellatotalità della classifica zione. Può quindi avvenire,che due
classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti a s
saidiversi.Se,peresempio,allaprima classe,che comprende i tre fenomeni ,
Sensazione, Giudizio, V o lere,sifosseanche ascrittalamemoria,esifossedi stinta
nella riproduzione degli atti mentali , e nel ri. conosciinento;non sisarebbe
nullacangiatouelnu Inero de'fenomeniirreducibili. Ciò nondimeno un tal
cangiamento non sarebbe del tutto indifferente.Nella classificazione da noi
preferita i fenomeni della prima 124 PARTE PRIMA, IL METODO.
125 classe sono i più differenti di natura ; m a ciò che si riproduce nella
memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee astratte si riproducono
nella loro perfettaintegrità. Lesensazioniperdonoestremarnente di vivacità al
riprodursi nella immaginazione:niente altrocangianodilorocondizioneprimitiva.E
lostesso avviene nella riproduzione delle affezioni morali. La
memoriaquindi,presanelsuopiùampio significato, non reca fenomeni di natura
differente da que'della sensibilità , dell'intelletto, e della volontà : queste
u l time facoltà somministrano materiali fra loro diffe renti , e la memoria è
addetta a ritenerli in deposito. Cosi la prima classe ha potuto segnalare
laprima di visionedellascienzane'trerami logica,etica,este tica.Non è
certamente questo un vantaggio di allo rilievo,ma
nonv'eraalcunaragioneperdisprezzarlo. Si supponga or che invece di
esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in una sola
lista , come è costume : sensazione , giudizio , atten zione,immaginazione,
reminiscenza,analisi, sintesi, astrazione,generalizzazione...Ilnumero de'feno
meni primitivi potrebbe rimanere lostesso, ma senza esservimarcataladipendenza
traimedesimi.L'al tendereèproprio dell'intelletto; l'immaginazioneè una legge
della sensibilità ; la reminiscenza o ricono scimento è un giudizio ;
l'analisi, la sintesi , l'astra zione,lageneralizzazione....appartengono all'in
telletto.Una tale dipendenza è una condizione di più nel fenomeno : è
propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro esempio , se i
motori della volontà si enunciassero come segue:Tendenza istintiva delle nostre
forze all'azione ; appetito istintivo del 126 PARTE PRIMA, piacere;
appetito razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito
dell'onore esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento;
benevolenza ; si a v r e b b e c o m p l e t o il n u m e r o d e ' m o t o r i
primitivi, ma niente apparirebbe della loro dipen denza; l'enunciazione non
darebbe ultimata laloro riduzione,non siesprimerebbecompleto,perquanto a noi
siscopre,ilsistema della natura pe'fenomeni della volontà. Vedulaprimordialenellericerchedellaori
gineedellareuliàdellascienzaumana » 1 II. Sula ipotetica origine a priori delle
idee e IL METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA. IN QUESTO VOLUME PRIMO primitivi ..realtà
delle conoscenze IV. Continuazione V. Osservazionipreliminari DI Ciò che si
CONTIENE INTRODUZIONE delle conoscenze III.Siannunziano iprincipj, trattida
osser . vazioni parlicolari, su la origine e
Classificazionede'fenomeniprimitivi » II.Riduzione de'fenomeni particolari a'
»esempio trattodalla estetica Classificazione delle scienzenell'ordinelogico
VII.Metodo inventivo nelle scienze natu VIII.Metodoinventivarellascienzadelpen
IX.Melodo di esposisione nelle varie X.
Metododiesposizionenellascienzadelpensiero - poche idee sul metodo
Utilitàinultimarleriduzioni Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL
METODO PER LA SCIENZA PRIMA. CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA, E
SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Me- todo —
Esemplare classico del metodo speculativo— Primo esemplare del me-
todo di pura osservazione. . .EL. Deviazioni del metodo nel periodo sco-
è è » a 00 a_n _d Articolo HH. Metodo di pura osservazione nella
parte psicologica della Filosofia ortodossa. » Articolo 1V,
Progresso della osservazione analitica nel- la Filosofia moderna, ad onta
che i si- stemi: declinassero o al sensualismo, o al’ idealismo;
Idealismo assoluto de’ discepoli di Kant— Declinazione della osservazione
anali- tica, e rifiuto de’ suoi prodotti prece- denti, surrogandovi
una supposta per- cezione de’.sensi, e una dimessa ma ra
soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso-detta discorsa
Rassegna ci con la seguente O'S 8 ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA SPECULATIVA.
SU LA LOGICA DI HEGEL. ‘Articolo E. Su l'identità de’ due
contrarii . ... >» 4 Articolo HI. Le idee fondamentali dell’ intimo
senso Vanno snaturate in ogni panteismo . » Articolo m. Su le
categorie, e l'Idea assoluta. .. . » 2% = vo nella scienza prima
— tende di continuo ad alterare il genui- no valore delle
idee fondamentali. SU LA FILOSOFIA SPECULATIVA. SU LA IMPOTENZA DELLA RAGIONE
INDIVI- DUALE , SECONDO IL LAMENNAIS. . » 3% C4PO-T7-="Sv-t5
EINE DI Dio, DEL cinite, SISI L'ATTO CREATIVO, SECONDO IL Gro-
SERIE input » Sul secondo a della formola. .IN. Su Te altre parti della Formola
, cioè T Enie e l'alto creativo. .Su la Visione delle idee in Dio >
indi- pendentemente dalle altre parti della iu DETTE
IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA ODIERNA FILOSOFIA. Articolo I. Sul
concetlualismo, perenne caasa delle deviazioni della Filosofia. . . Hi.
Su i recenti proget di nuova Filosofia OROCO: «..-_/._. cs. iu »
Influenza della sacks tedesca su la Filo- sofia del secolo . . ...... +.
D 203 Articolo IV. Su le più famose obbiezioni prodotte da’ moderni
contro la Teologia naturale. » 238 Articolo VW. Riassunto degli articoli
precedenti e con- seguenze per le scuole d’insegnamento. » ÈNTE IN
UNIVERSALE, LUME PERENNE DELL'U- MANO INTELLETTO , SECONDO ZL ROSMINI.. »
275 Articolo Il. Su i modi dialettici adoprati dal Rosmini nel
mostrar conforme al suo sistema la dottrina insegnata da S.
Tommaso. » 314 Articolo Wl, già un anno decorso che uno dei più
profondi filo sofi di questa Italiana provincia faceva da noi dipartila ! Niun
periodico della capitale fra i tanti che pur trattano di futilità e di non
nulla , o tutt'al piú di celebrità di teatro,fecealcunmottodilui:ilsoloOmnibus
annun ziandone la grave perdita, prometteva una biografia dell'estinto:ma tale
promessa insino ad ora non l'ab biamo veduta recare in atto Noi per mera carità
di patria e senza pretenzione letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per
come abbiamo potuti raccogliergli frugando nella nostra memoria (1). A quella
regione ferace di eletti ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a
Galluppi (tralasciando tanli altri illustri nomi) appartenne il nostro
Filosofo, avendo avuto i natali verso il 1792 nell'antica Reazio ,oggiM e
Ahi sugli estinli Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso
pianto. . 7 soraca,inProvinciadiCalabriaultra2.dabaronale ed
agiatafamiglia. Passòl'infanzianellaterranatale,ima mostrato avendo svegliato
ingegno, fu pensiero di un suo zio,religioso dello insigne ordine de'Teatini di
con durlo in Napoli per fargli apparare belle lettere e filosofia appo
que'RR.Padri. Quivi dedicandosi alacremente a talistudi,ebbe a con
discepoloilfamoso ex Generale de Teatini,P.Gioacchino Ventura, che se tutti
ammirano per non comune facondia , per vasto sapere ,per rettitudine ed
illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a ragione desiderato
continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui cominciata a p r o p u
g n a r e n e g l i a n n i 1 8 4 6 e 4 7 . C o n l u i il D e G r a z i a l e
g o s s i con tale intima amicizia e scambievole stima , che le m e morie di
quella loro prima età insieme trascorsa, dopo tanto volgere d'anni non più
cancellaronsi ,abbenchè pel diverso stato da essi prescelto, vivuto avessero
quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito il De Grazia da quelle
scuole,diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche ,non pure
tra lasciando qnelli della filosofia , pe ' quali monstrava incli nazione
grandissima. Giovane ancora militò per qualche tempo nel Genio ; m a
poscia,smesso il cingolo militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando
nel Corpo detto allora de' Ponti e Stradë. Si nell'una che nell'altra carriera
adempi lode volmente ai doveri della sua carica , e procacciossi giusta
-8 > 2 9 7 estimazione.Ed abbenchè per lasua indipendenza
di pen samenti e per la sua modestia , non venisse adoperato come avrebbesi
dovuto,pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati disegni in opere
pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci di uni versale
contentamento,e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere ricercato e
consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione. Ma nel paese
del De Grazia da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da
potersi rivelare il genio artistico di un'ar chitetto;e se pure alcuna fiata
qualche notevole edifizio debbesi costrurre,l'ingegnosirimanefrapastoje;perché
condannato a grame proporzioni di una architettura bor ghese, od a meschine
economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni
incomplete,ovvero menate a compimento , ma di gran lunga variate dagli
originali disegni. V e r s o l ' o t t a v o l u s t r o d i s u a e t à il D e
G r a z i a , o m e t t e n d o i lavori per Ponti e Strade e smessa ogni altra
cura ed applicazione, si dedicò con tutto ardore a quegli studi filosofici che
fin dalla gioventù avea mostrato di molto prediligere. Frutto delle sue
lucubrazioni e speculazioni filosofichefulagrave opera:Saggio sulla realtà
della scienza umana ; lavoro sapiente e profondo , che in 4 volumi pubblicossi
a Napoli nel 1839-43 e che verso il 1847 il Silvestri in Milano ed ilFontana a
Torino voleano ristampato pe'loro tipi,ma non vedendosi incuorati da
chicchessia a tale pubblicazione , e la stampa tacendo su di un'opera di
tanta mole , ne smisero il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione
sul suo si stema filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne fac ciamo qui
menzione ,pon sentendoci da tanto,e lasciando a'profondi pensatori un tale
incarico.Solo diciamo ,ch'egli rifuggendo da'sistemi oltramontani e
dallaservile imita zione, ha tutte leproprietà dell'italiano Filosofo, per q u
e l l a s u a m a n i e r a d i s t u d i a r e il m o n d o e s t e r i o r e
, e p e r quel pratico senno che loconducono dall'esperienza alla induzione
,per modo da congiungere sempre l'osservazione di fatto colla generalità delle
idee.In ciò fare egli seguiva in gran parte le dottrine del sommo Aquinate
,gloria d’l talia e della Chiesa ; senza aver letto ancora Opera alcuna di
questo santo Dottore. Per caso in confutando talune teoriche dell'altro nostro
celebre italiano , l'abate Rosmini , il quale in un luogo delle sue opere
ivaesponendo molte sentenze di S. Tommaso in conferma de'suoi detti,sorse
vaghezza al De Grazia di leggere la somma di esso santo; e grandissimo fu il
suo compiacimento in rilevare l'ac cordo delle loro dottrine in ciò che
concerne ilprincipio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di ricondurre
la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di rispetto e
di ammirazione pel santo d'Aquino, iva seco stesso facendo le più alte
maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica in questi u l
timi sei secoli. 10 > Oltre a molti altri scritti minori ,
pubblicati in parecchi giornali specialmentenel Progresso enel Calabrese,altra
grave sua Opera è quella intitolata : Discorsi sulla Logica di Hegel e sulla
Filosofia speculativa , ove adoprandosi dimostrare l'assurditàdi
taleLogica,confutaque'filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene
d'intede scare la filosofia italiana. Per chi le Opere del De Grazia
punto non conosce,riu. scendogli per avventura nuovo un tal nome ,potrebbe di leggieri
riputare sospetti i nostri elogi, se non altro ,per troppa carità di patria :
noi a renderlo persuaso del con trario, e che anzi,il lodato resta sempre al
disotto delle nostre umili laudazioni , citeremo l'autorità di un giudice assai
competente ed in nulla sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg
Cav. Carlo Mittermaier. Questi nel suo Libro Condizioni d'Italia pubblicato nel
1846 e precisimente nella Lettera di appendice indiritta al chiaro abate Mugna
, traduttore del suo libro, dopo aver parlato delle celebrità letterarie e
scientifiche d'Italia , e m o strando desiderio che le opere filosofiche
degl’Italiani fos sero meglio sludiate dagli stranieri ed in ispecie da'suoi
connazionali , venendo a parlare di Napoli dice : « Il genio della filosofia
napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito umano,sempre unito a
grande dovizia d'idee e ad una tendenzapratica ».Ad essoappartengonoleopere di
P. Galuppi e di V. De Grazia, peculiarmente l'opera di questo:Saggio sulla
realtà dellascienzaumana.Esa >
minandol’A.gliscrittide'suoipredecessori,non che de'filosofi tedeschi ed
entrando in minute particolarità (peresempio
vol.2.p.1.174)intornoa'varipensamenti sulla origine delle idee,seguesi con
piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo e si ammira la sua fina analisi
intorno alla natura delle conoscenze pure intuitive , e c o noscenze
dimostrative. « Fin qui il Mittermaier.Le parole di un tant’uomo sono più che
sufficienti a testificare sul merito filosofico del nostro concittadino , ed
altre singole illustritestimonianzepotremmopurqui addurre;ma le opere di lui
per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza.Solo non vogliamo tralasciare
di dire che fu in grand'estimazione tenuto da quell'antico uomo di stato e
scienziato profondo il Conte de' Camaldoli , Francesco Ricciardi,e che ilsuo
grand'emulo il Galluppi (la cui fllosofia era stata in qualche parte del De
Grazia confutata perché non severamente italiana , nè in tutto da lui tro vata
scevra di straniere dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio
della realtà dellascienza umana , rispose:l'operaprocedemoltobene,secondo
ilsistema seguito dall'autore.E qui di volo ci si permetta doman d a r e a n o
i s t e s s i : c h i r a g g i u n s e p i ú il v e r o d e ' d u e c h i a r
i concittadini nei loro rispettivi sistemi?chi più possedette geniocreatore?A
ciòrispondiamoesserpaghidirilevare
inambidueilpositivoprogressodellafilosofiaappo noi e possiamo riguardarli come
continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi Calabresi Telesio e
Campanella 42 > > > che cercarono di richiamare la
filosofia del secolo decimo settimo a'suoi veri principi facendo appello
all'esperienza, alla propria ragione ed all'esatto studio del mondo ,quale si
offre alla osservazione, e sopratutto cercando di sce verare la filosofia dalle
quisquiglie scolastiche del tempo ; per il che ebbero a sostenere aspra guerra
per parte de' loro avversari , seguaci delle dottrine d'Aristotile , più in
quanto alla forma che alla sostanza. Or nella gran serie di sistemi de'
filosofi di Europa , ognuno dei quali nasce per distruggere l'anlecedente , e
per essere poi a sua volta distrutto dal successivo,i sistemi seguiti da' due
grandi Calabresi, Galluppi e De Grazia, sono sistemi italiani, sopratutto
quello del secondo , e sopravviveranno a'posteri assai più,se non
c'inganniamo,dell'eccletismo di Francia e del razionalismo puro di Germania
,ilquale u l t i m o s i s t e m a a r g u t a m e n t e il D e G r a z i a c h
i a m a v a : p o e m a filosofico;abbenchède'filosofitedeschiegli faceastima
grandissima,especialmentediEmanuele Kant,ch'èil primo
nellaseriediquellicheformanolamodernascuola, per la mente profonda, vasta e
unicamente originale fra tutti i filosofi di Germania ,per maturo
giudizio,fervida imaginazione,esottilissimoingegnoanalitico,ma lamen lava che
il suo genio batté la via del eccletismo scettico e del dommatismo razionale.
Ma benché per noi sian grandi tutt'e due inostri con cittadini,nondimeno sembra
rilevarsi dalle suespresse parole del professore di Heidelberg che
nell'opera,da lui 13 > citata e da noi di sopra più volte
riferita,la penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro De Grazia
abbiano richiamato la sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche
del Galluppi. Eppure questi , sebbene tardi, fü almeno ricordato da quel
Governo , essendo stato nominato professore di filosofia nella cattedra della
universitàdegli studi di Napoli (2)e nella morte di lui fu r o n v i p u b b l
i c h e e s e q u i e , e r e c i t a r o n s i f u n e b r i e l o g i ( 3 ) m
a il De Grazia visse e mori ignorato! e non fu noto che alla
calabraterra,chevidelonascere,edaqualche singola celebrità nostrana e
straniera. Di chi la colpa ? Forse de' tempi ? del governo ? o della propria
sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le suindicate cagioni. C
i r c a il g o v e r n o c u i a p p a r t e n n e il D e G r a z i a , il m e
r i t o non è merce cui è andato per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel
tempo presente solo il pensarlo è utopia. E finalmente l'indole di lui
rifuggente dallo adulare potenti,dalcercarmecenati,dalraccomandare odedicare
isuoi scritti achichessia,mantenendosi sempre in dignità Il secolo che
corre: e che appellasi posilivo non ha altripensieridominanticheilcredito,>
laborsa,lespe culazioni commerciali, o tutt'al più qualche progresso materiale
da solletitare l'ardente brama del guadagno (peste della società presente) che
di continuo lo stringe ed arrovella;epperò non è secolo che occupar puotesi di
filosofia. e modestia , coltivando la scienza per abitudine contratta
agli studi severi e per naturale inclinazione del suo genio inventivo e
calcolatore, senza avere unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto
influiscono alla fama ed a rendere popolare il nome de’loro maestri)e menando
per conseguenza vita laboriosa e ritirata ; fecer si tutte le cosi
fatteragionicheilnome suorimanesseignotoall'universale. Ma qui non possiamo
fare a meno di non osservare che in questa epoca di generale centralizzazione
governativa negli stati di reggimento assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso
negato a privati di fare puranco il bene (4)o altra innocentissima cosa ,senza
previa superiore autorizzazione, o sovrano beneplacito;ove nullapuossi mandare
a stampa senzapreventivarevisioneecontro revisione;non rebbe uu richieder
troppo da cotali governi se alla mania di voler lutto sapere ed operare
aggiungessero un pò di buonavolontàedesideriodiconoscerelegrandi intelli genze
, tenerne nota ed applicarle a vantaggio della n a zione. E grata cosa sarebbe
riuscita al De Grazia,abbenchè dell'indole qui sopra descritta , e sempre
abborrente dalla s e r v i t ù e d a l l a v a n i t à , s e il g o v e r n o i
n m o d o q u a l u n q u e avessegli addimostrato di tenerloin pregio,o nominandolo
professore di filosofia nella Università, dopo la morte del Galluppi, non
essendovi in tutto il reame altri che più diluinefossestatodegno,omostrandogli
dipregiarlo in altra guisa qualunque,ma sempre per moto spontaneo, essendo
stata sua massima indeclinabile che ilmerito de -15 > sa
vesi conoscere volenterosamente dagli altri,senza sforzo di sorta per
parte propria. Sonovi però di momenti nella vita de' popoli in cui l'opinione
pubblica si addimostra regina e manifestasi con tuttalapossibilespontaneità.Un
talemomentosifuquando nel 1848 ilDe Grazia,non pure senza brigarlo,ma senza
avervinemmeno pensalo,vide ilsuo nome con migliaia di voti sortire dalle urne
elettorali, qual depulato cala brese nel Parlamento napoletano.Molto egli si
compiacque per tale dimostrazione di stima e di fiducia da parte dei suoi
concittadini;ed accetatone il grave mandato ,pieno di buon volere e di coraggio
si parti con gli altri deputati per alla volta della capitale. Lusingavansi gli
elettori suoi nella speranza di vederlo presto discendere dalle astrattezze
filosofiche,alla realtà della vita politica:ma tanto non avvenné, 16 2
> Equicisipermettanoperpocotalune reminiscenze, r i a n d a n d o 'u n t e m
p o , c h e g i à f u ( 5 ) p e r i l i b e r a l i o n e s t i e di buona fede
che credevano alla santità ed alla osservanza di giuramenti (6) e del cui gran
numero facevano parle quasituttiiliberalidelleprovincie,traqualiilDe Grazia,
que' tre primi mesi, dopo il sollenne 29 Gennaio 1848, con assai più ragione di
quello che uno scrittore francese diceva del suo paese nel 1830 furono giorni
deliziosi,in cui la generazione nostra conobbe quell'allegrezza,quella
‘speranza, quel non so che si raro nell'umana storia che ci fa dimentichi del
peso della vita. L'avvenire non più - 17 -
rappresentavasitristea'nostrisguardi,scoprivasiun'oriz. zonte sconosciuto,
tutto era color di rosa,perché crede vasial progresso
indefinitodell'umanità,ealcompimento insperato di tuttele promesse della
filosofia moderna. Quelle notizie sempre succedentisi di libertà di popoli, di
cessazione di ogni dispotismo e tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza
ed autonomia di nazioni, eccede vano l'immaginazione e faceano degli uomini
tanti inna morati viventi in un'atmosfera inebbrianto....... Tempi felici! e
che non più ritorneranno !perocchè a tutte quelle nobili aspirazioni (forse
perché non provegnenti nella gran maggioranza da vero disinteressamento,
abnegazione e pura virtú) sono troppo rapidamente succedute le idee finanziarie
e di materiali interessi, che stan materializ
zandotuttiglispiritiedimmergendoliinunprofondo le targo
daimpedirediaddarsidellalenta,ma sempreognor crescente propagazione del
dispotismo; e che per sopras sello invece di farei indefinitamente progredire,
ci ha fatto, e ne sta facendo precipitosamente indietreggiare (7).E cio di
passaggio. Ma ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti
Filosofi che hanno il coraggio del pen. sieroe non quello dell'azione.Uomo
adusato da tanti anni а star chiuso nella rocca della sua mente per dare
corpo e vita a'suoi pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo
delpiùsaldoproposito:ma arrivatoalcontatto della fredda realità, divenne
esangue ed impallidi. Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono
conce I fatti che vide nel famoso 15 Maggio , al primo scio
gliersidella Camera de'Rappresentanti della nazione, non c h e n e l t e m p o
s u c c e s s i v o (d a s u p e r a r e f i n a n c o l e s u e p r e visioni
e che iscusano la sua condotta inverso chi volle accagionarlo di timidità)
fecero d' allora in poi addive nirlo più solitario e ritirato di prima. Lui
felice ! che p o teva col pensiero allontanarsi dalla triste realtà che cir
condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi della fi losofia. Fu verso
quel torno che rivedemmo per l'ultima volta il'De Grazia,ilquale ci feceaperto
diesser egli tuttoap plicato al compimento di un lavoro già concepito quando
lesselaSomma dell'Aquinate.A questonomeglidichia rammo francamente il desiderio
nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome dalle sentenze filosofiche
scelte dalla S o m m a presentar volea la Filosofia di S. T o m m a s o ,
coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di
tutte le sentenze politiche, di che ab bonda quell'aureo libro, ci facesse
conoscere la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la s
u prema autorità non trasmodasse in dispotismo e tirran nide, e che la macchina
governativa fosse tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza
della co 48 dute le improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore
s'impossesso della situazione politica del momento , e m i surandone tutta la
portata, promise a sé stesso di non porre piede nell'aula del Parlamento
Napoletano. e mune Patria;che simili
scritti,soggiugnevamo,potrebbero serviredifrenoalpotere,affinchéne'suoiattinon
de generasse in forza brutale. Al che il nostro Filosofo (cui sembravagli
ancora di sentire il fragore delle artiglierie) mestamente rispose: L'eloquenza
dellabocca de'cannoni fa ammutolire ogni lingua , e fa cadere la penna dalle p
a ralizzatemani.E noidirimbecco:seilcannonedistrugge, la penna può e sa
riedificare. Fu dunque nel 1851 che il cennato suo lavoro col litolo
di:Prospetto della Filosofia Ortodossa, venne stampato in Napoli, in un volume
in 8. di pagine 632. Fra le molle lodi che questo libro ebbe dalla stampa
periodicadi di verse parti, furono quelle tributategli con molto calore dalla
perma'osa Civiltà Cattolica (8)(anno 3. vol.10. N. 60) connostra grande
maravigliaesatisfazione.Ma lamag gior lode che ridondar possa a vantaggio del
De Grazia, si è, che per il primo ha cercato di far rivivere la Filo
sofiadiS.Tommaso,echeilsuo pensieroè statoposcia seguito dalla Università
-parigina e da parecchie di Ger : mania. Era sua intenzione comporre un'opera
di Estetica ed un'altra d'Istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per
esservene secondo lui, gran difetto nelle scuole : m a tale divisamento non
potè mandare ad effetto: sonosi tro vati,èvero,de'manoscrittinellasuacasa,ma
forte te m i a m o c h e a n d r a n n o p e r d u t i. F e r a l e m o r b o m
i n a v a d a p i ù tempo isuoigiorni,edegli vide approssimare ilsuo fine con
la serenità di un fanciullo e con l'impassibilità di un Filosofo ed il 22
settembre 1857 cessò di vivere. -19 Fu ilDe Grazia di
ordinaria statura e di gracile com plessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed
insieme di tratti gentili, e cortesi epperò riusciva piacevole nella
conversazione.Nel suo incesso vedevasi grave e pensoso come se ruminasse
qualcosa col cervello,o talmente era assorto da suoi filosofici pensieri,da non
por mente alle cose esteriori,e da non addarsi degli amici che passavan gli
allato, se questi nol riscuotevano chiamandolo per nome.Visse sempre
celibe.Lasciò un'unico nipole, erede de'suoi beni, mostrandosi pur generoso
nelle ultime dis posizioni verso due suoi antichi compagni ed i suoi d o
mestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di questo mondo senza che nemmeno
un fiore si fosse sparso sulla sua tomba ; senza che nè pietra pè parola
additassero ove han riposolesueceneriericordasseroilnome diluiagli avvenire ! A
voi Italiani,che amate gl'illustri figli della comune sventurata patria nostra,
e che vi distinguete per nobili sentimenti di nazionalità, abbiamo rivolta la
nostra p a rola:inscrivete,per come é debito, il nome di Vin cenzo De Grazia
tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità ! Tu , illustre
Mittermaier, che nel fare m e n zione in semplice lettera, de'chiari Italiani,
non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito filoso fico del
nostro Eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por vendicare
l'ingiusto silenzio tenuto dal 20 21 paese ovo nacque e
mori.E tu,o venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo condiscepolo,
abbenché sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse ignori ch'ei non è
più , in rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per quell'ingegno
sdegnoso di ogni schiavitù mas sime se straniera,che co'suoi scritti fè sempre
aperta guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle fonti del
Cristianesimo,ciòinfluirànonpocoafarsicheilnome deltuoanticoamicosiaconto
all'universale(9).Le no stre rozze e disadorne parole rassembreranno talco o
mica inruvida roccia,ma levostresarannoripetutedagliechi, lontani e renderanno
al virtuoso obbliato, dopo morte quel merito che in vita gli fu negato. 0
Napoli febbraio 1858. Sopra un'amena collina distante una diecina di
chilometri dal mar Ionio è situata Mesuraca,paesello che conta un due migliaia
e mezzo di abitanti.Uno scrittore che sognasse,ve gliando,gl'irrevocabili
portenti della Magna Grecia,nei ru deri che ingombrano il vicino monte
Matonteo, crederebbe di scorgere gli avanzi di un vetusto tempio , sacro a
Venere ; e nel nome tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di
ricordare il riso e gli amori , fidi compagni della
vezzosaDeadiAmatunta.Noi,nellanostramodestaprosa, ci contentiamo a più vicine,e
più certe memorie. Egli adunque contava quindici anni meno del suo illustre compaesano,del
Galluppi, ch'era nato il 1770, nella stessa provincia di Catanzaro ,in una
piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto mare;e,vedi caso,era nato
anche lui di casa baronale ; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo
lo stemma gentilizio non fosse così ostinatamente avver so agli studi
Addi 19 febbraio 1785, in quel paesello appunto,nasceva da Marco e Laura
Brondolillo quel Vincenzo De Grazia, di cui vogliamo esporre la dottrina
filosofica. Nasceva di casa baronale ; ma non è quel che ci preme ;nè pare
importasse neppure a lui, che aveva il buon senso di segnare a fronte
de'suoilibriilproprio nome ecognome asciuttoasciutto,e senza nessun prefisso.
Giovanettino ancora di soli cinque anni lascio, o meglio gli fu fatto lasciare
il paese nativo, e fu condotto a Napoli , e quivi chiuso nel
collegio di San Carlo alle mortelle, dove continuò a studiare,come
sisuole,finoallaprimagioventù. Tra le poche carte,non disperse o
distrutte,dalle quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita
di lui, avanza una lettera del rettore di quel collegio,certo Teofilo
Misa,sottoladatadel15agosto1795,concuisiraggua g l i a v a il p a d r e d e l l
a b u o n a r i u s c i t a d e ' p u b b l i c i s a g g i d a t i d a i
figliuoli di lui.Questa lettera giova non tanto a testimonian za del profitto;
chè un baroncino , si sa, fa sempre bene ; e di fatti il buon rettore si lodava
non solo di Vincenzo , m a del l'altro fratello Domenico ; quanto ad assodare
la data della nascita . Eugenio Arnoni , che laboriosamente s'ingegna di
scrivere lememorie dellaCalabria,lofanato il1792:seil1795 da va pubblici esami
, quella data è dunque sbagliata ; e rimane accertata quella che ho trovata
scritta io nel volume su la logica di Hegel , insieme con l'altra concernente
la morte del De Grazia.Il volume appartiene alla famiglia del filosofo,ed
iol'hopotutoavere,insieme conglialtridocumenti,perla cortese premura di Antonio
Serravalle, valoroso giurecon sulto,e caldo promotore della gloria del nostro
paese:qual cuno di casa vi avrà registrato certamente quelle due date. Forniti
i primi studi , diessi a coltivare le matematiche, e divenne
ingegnere.Ilnapoletano conquistato dalle armi fran cesi,doveva allora,per
l'imitazione de'conquistatori, corre re dietro al mestiere delle armi . Il 1811
il nostro De Grazia trovavasi arruolato da sottote nente nel Genio,quando con
Decreto Reale del 29 agosto di q u e l l ' a n n o , c o m u n i c a t o g l i
d a l C a m p r e d o n il 1 4 s e t t e m b r e , e r a stato nominato ingegnere
aspirante di Ponti e Strade. L'an no appresso,con Decreto del 22 aprile 1812,fu
promosso ad ingegnere ordinario di seconda classe. Qui i documenti , che
abbiamo avuto sott'occhio , finisco no;nèsappiamo,se,cessato
ildecennio,eiritirossi disua 2 scelta, o se fu licenziato dal
Borbone restaurato sul trono. Dal 1812 ci è forza saltare al 1838 . Il 29
giugno di quell'anno la Società Economica di Cala bria Ultra 2.a lo proponeva a
socio : la nomina aveva luogo soltanto il 18 dicembre 1839. Era lentezza,o si
erano incon tratiostacoli?nonsisa,efameraviglia,come diunuomo di vaglia,
vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a
lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo erano molto
casalinghe, che dal- la famiglia ei visse diviso , che per le vie raro si
faceva v e d e r e . E d i o m i r i c o r d o , c h e a n d a t o s t u d e n
t e a C a t a n z a r o il n o vembre del1852,benchè misidicesse
cheilDeGraziaci fosseallora,benchèioavessidesideriodivederlo,nonmiven ne mai
fatto d'imbattermegli per via. Questariservatausanza,e'lnon
averemaiinsegnato,fe cero sì, che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei
passasse quasi sconosciuto. Quando il Serravalle mandommi le sue carte, credevo
di trovarci copiose notizie,od almeno un frequente carteggio : m'ingannai
:corrispondenze non mantenne,o non conservo ; più facilmente però non
mantenne,perchè non ci sarebbe sta ta ragione di conservare alcune lettere, e
di distruggere le altre.Nè ciòprovenne,aparermio,danoncuranza,ma da
impossibilità; correndo tempi fieramente avversi ad ogni a c comunamento degli
animi,pieni di paure e di sospetti. 3 Dueotrenomine diAccademie
glivennero,chenoiab biamo trovate fra le sue carte,con una certa cura
custodite: una ,a socio onorario dell'Accademia Valentini di Napoli ,che
avevaaprotettoreilContediSiracusa,sottoladatadel4giu gno 1842;una seconda,a
socio corrispondente della R. AC cademia de'Peloritani,sotto la data del 10
ottobre 1842 ;una terza,più tarda, ma non più celebre,a socio onorario della R.
Società Economica della Provincia di Cosenza, sotto la data del 9 novembre 1853
. Ecco gli scarsi onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama !
IlMittermaier,professore dell'Università diHeidelberg,
scrivevaintantoall'ab.PietroMugna,cheavevavoltatoin italianoilsuolibro
sulecondizioni d'Italia,quest'onore vole giudizio sul nostro filosofo : « Il
genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina a n a lisi dello spirito
umano ,sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica.Qui
appartengono le opere di Gal luppi,ediV. deGrazia,peculiarmente
l'ultimadiquesto. Esaminando l'autore gli scritti de'suoipredecessori,anche de
filosofi tedeschi,ed entrando in minute particolarità,(per esempio
vol.II,pag.1-171)intorno a'varî pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi
con piacere nel suo ingegnoso sviluppo,e si ammira la sua fina analisi (per
esempio vol.II, pag . 171 ) intorno alla natura delle conoscenze pure e cono
scenze dimostrative ». Così scriveva il giureconsulto tedesco il 1845 . L'opera
del De Grazia,a cui egli alludeva,e che preferiva a quelle dello stesso
Galluppi, era appunto il Saggio su la realtà della scienza u m a n a cominciato
a pubblicare a N a poliil1839,efinitoil1842. Della importanza di quest'opera,e
della mira che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente : per ora giova
a v vertire, che gli stranieri avevano letto ed ammirato un libro che
gl’Italiani di allora quasi ignoravano,e che i contempo r a n e i , p e r n o n
f a r t o r t o ai l o r o m a g g i o r i , c o n t i n u a n o a d i g n o
rare.Escludo daquestonumero ilprof.Ferri,che nelsuo
SaggiosulastoriadellafilosofiainItalialoriportònelca talogo dei libri
filosofici (degnazione non piccola) ; guardan dosi,beninteso,di accennarne
almeno lo scopo.Forse non lo aveva letto. IlDe Grazia passava ilpiù del suo
tempo a Napoli, dove il Galluppi fin dal 1831 teneva la cattedra di filosofia
nella 4. Università,ed attirava a sè la gioventù si per
l'insegnamen to vivo, come per la popolarità de'suoi elementi .Al De G r a zia
mancava l'una cosa e l'altra,perciò non gli riuscì di ave re seguaci. E che
desiderasse farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scriveva Lorenzo
Zaccaro il 3 marzo 1842 . Nel saggio medesimo da lui pubblicato le allusioni al
Gallup pieranofrequenti;mavelate,esenzacitarlodinome.La fama del suo illustre
concittadino turbava i suoi sonni ; ma
all'emulazionenonsimescevanessunsensod'invidia,emol t o m e n o o b b l i q u e
a r t i p e r s o p p i a n t a r l o . Il p r o f . P a o l o E m i l i o
Tulelli anzi mi ha raccontato, che,vacando per la morte del Galluppi la
cattedra della Università napolitana,al De Grazia non sarebbe stato difficile
ottenerla,se l'avesse chiesta.M o stratagli questa agevolezza,eiricusò di
chiederla,benchè la desiderasse,enon lonascondesse:offerta l'avrebbeaccettata;
mailGovernonapoletanoparchenonlovedessedibuonoc chio . IlDe
Grazia,intanto,alparidelGalluppi sieratenuto ap partato,nè si era mescolato nei
rivolgimenti politici:entram bi,per usare una frase del Bonnet,s'erano
fabbricato un ri tiro dentro il proprio cervello . Il Galluppi aveva visto le
stra gi del 1799 ,gli spergiuri del 1821 , ed aveva continuato tran q u i l l o
l e s u e m e d i t a z i o n i : il 1 8 2 0 p u b b l i c a v a , i n m e z z
o a q u e l rimescolio , i suoi elementi di filosofia. Il De Grazia non a
vrebbe potuto, per l'età,prender parte ai casi del 1799;a vrebbe potuto il 1821
, m a nol fece : la filosofia civile e bat tagliera era finita col patibolo di
Mario Pagano ; da indi in poi,nel mezzogiorno d'Italia,prevalsero le
speculazioni soli tariefattene'penetrali dellacoscienzasubbiettiva.IlGioia ed
il Romagnosi scontavano nello Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno
alla Statistica,ed al Dritto pubblico :nel Napoletano,tra il 1799 ed il 1848, i
filosofi furono esclu sivamente psicologi. Non so se bisogna far eccezione per
quel Pasquale Borrelli, che,sotto lo pseudonimo di Pirro Il 1848
trovavasi il De Grazia avanti negli anni,dedito da quasi cinque lustri agli
studi filosofici, stimato, se non cele bre ; adatto adunque a rappresentare
decorosamente alla C a mera la sua provincia. Pare che questi numeri gli
meritas sero isuffragî degli elettori politici,ed egli riuscì eletto con 5103
voti,terzo fra inove deputati della provincia di Catan zaro .L'esito gli fu
comunicato il 7 maggio 1848 dal Presiden te Ignazio Larussa, valoroso
giureconsulto ,e scelto Deputato anche lui,con queste parole: < < T a l v
e r b a l e , n e l l ' e s s e r e il m a n d a t o l e g a l e d e p o t e r
i a L e i conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa del le Sue
eminenti virtù ». Il De Grazia però non fece a tempo di saggiarsi nella vita p
o l i t i c a : il 1 5 m a g g i o , l a m a l a f e d e d e l p r i n c i p e
a i u t a t a d a l l a inesperienza politica del popolo insanguinava le vie di
Napoli e sgomentava naturalmente l'animo di chi era fatto per la quiete dello
scrittoio,anzi che pei clamori e per le zuffe del l e p i a z z e . Il D e G r
a z i a , s e n z a i n f a m i a e s e n z a l o d e ,t o r n ò a g l i
studi. 6 Lallebasque,scriveva aLugano laGenealogia del pensiero, e che
quivi pare balestrato da contrario e prepotente de stino. Dopo lamorte
delGalluppi,contro lacuifilosofiaaveva assiduamente armeggiato nel saggio,era
nel mezzodì inval saquelladelRosmini edelGioberti,ed,oltreaquesteita liane,
quella straniera dell'Ilegel: i due ultimi filosofi aveva no principalmente il
sopravvento . Ciò dava molestia a lui, costante e schietto sostenitore della
filosofia della sperienza. Se gli era parsa incauta e sdrucciolevole quella che
il M a miani chiamava la riservatissima filosofia del Galluppi,è da immaginare
quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi del Gioberti e dell’Hegel. In
un volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di quello del
francese Lamen nais,e pubblicollo il 1850. Pur lodando l'impresa
del De Grazia,il Padula non gli dis simulava però che la critica fatta
dell'Hegel e del Gioberti era scarsa al bisogno : instava, che ci tornasse sopra,e
che raddoppiasse i colpi ; sollecitava da ultimo il filosofo a p u b blicare la
Filosofia del pensiero, opera dal De Grazia dovu ta accennare come in via di
esser composta. Quest'opera pe rò non venne , nè la critica contro all'Hegel ed
al Gioberti fu rinforzata: venne bensì fuora il Prospetto di filosofia orto-,
dossa , il 1851. L'autore fin dalle prime mosse era dovuto p a rere sospetto di
sensualismo,e quindi pericoloso alle creden ze religiose:a lui l'appunto
rincrebbe,e si risolse di scagio narsene . Divisò quindi invocare a soccorso la
filosofia dell'A quinate, valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed
amettere in salvo la pericolante ortodossia.IlProspetto,
invero,piacquealcleronapoletano,piacqueaiGesuiti;ras sicurò l'autore
medesimo,che doveva sentirsi in disagio.
VincenzoPadula,ilsolo,credo,cheleggesseallorailibri
delDeGraziainCalabria,glibattevalemani daAcri,suo
paesenativo.LeletteredelPadulailDeGraziaavevacon servate; gradito applauso in
tanto silenzio.Il Padula però gli dipingeva iltrionfo delle idee giobertiane
appresso la gioven tù calabrese, ed in una lettera segnata addi 1 del 1851 ,da
Acri,gli scriveva,non senza un certo sgomento,così : « Sia comunque , l'epopea
giobertiana ha sedotto molti let tori;ed io invano da due anni a questa parte
mi vado adope rando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di essere
chiamato bestia ». A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di risposta
doveilDeGraziaraccontaleliete,enonsoseoneste,acco glienze fatte al suo ultimo
libro dal Sanseverino.Ricopio le sue medesime parole: « Oltre l'articolo
inserito nella Civiltà Cattolica , al quale accenna la sua pregiatissima
lettera,un altro forse se ne pub
blicherànelPeriodicolaScienzaelaFede.Eparmichean 8 c h e il c l e r
o n a p o l i t a n o a b b i a a c c o l t o c o n f a v o r e il m i o p i c
colo lavoro ;ilche io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina del
regio prof. Don Gaetano Sanseverino, profes sore di filosofia nel Seminario di
Napoli, il quale ha una m e r i t a t a r i p u t a z i o n e p r e s s o il c
l e r o a n z i d e t t o . È b e n s ì i n d i p e n d e n t e d a t a l f a v
o r e v o l e o p i n i o n e il s u f f r a g i o d e ' r e d a t t o r i d e
l l a Civiltà cattolica ». Ho detto di dubitare, che queste accoglienze fossero
one s t e , q u a n t o e r a n o l i e t e . Il c l e r o n a p o l e t a n o
a l l o r a , e i G e s u i t i specialmentemiravano
ascalzarelafilosofiadelGioberti,a denigrarla,ametterla
inmalavoce.IlGiobertifilosofonon era forse la secreta n:ira de'loro strali
:tiravano al filosofo per colpire l'uomo politico : guerreggiavano la costui
filosofia per vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le
pagine dell'illustre torinese. In quella che il Padula aveva
chiamatal'epopeagiobertiana,lafilosofianonerasenonun e pisodio solo;e se gran
parte de'giovani corse dietro ai pensa m e n t i d e l G i o b e r t i ,v i c o
r s e s o s p i n t a d a q u e l c a l d o p a t r i o t t i s m o , onde
ilfilosofo aveva saputo ravvivarli.Igiovani hanno più sicuro,che non gliuomini
fatti,ilpresentimento dell'avve nire. I Gesuiti se n'erano accorti, e
festeggiavano l'opera del De Grazia,perchè vi trovavano un poderoso aiuto.Non
dico che il De Grazia sospettasse le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli
accettava la lode, perché la credeva di buona fe de.Nell'annunzio che ne dà al
Padula,e che noi abbiamo ri ferito,c'è la ingenuità, e direi quasi ilcandore di
un fanciul lo che non ha pratica del mondo . Ecco ora l'intonazione
dell'articolo della Civiltà cattolica : ne cito solo il primo periodo: ex ungue
leonem . « Lode al cielo !Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per
intedescare la filosofia italiana, intenebrandola colle lar ve di
quell'Assoluto che sfuma nel vacuo del possibile,e colla nullità di una logica
che teorizza la contraddizione, sorge all'estremità d'Italia , nella patria
degli Archita, dei Zenoni , dei Campanella, dei Galluppi un
ingegno sdegnoso di tale schiavitù, che tenta richiamare gli Italiani a
pensamenti meno aerei spezzando gli idoli adorati oggidì dalla filosofia
eterodossa, e congiungendo l'osservazione di fatto colla ge neralità delle idee
». Qui la frecciata va agli hegeliani ; e'l contrapposto fra ita lianissimi e
tedescanti non poteva essere più abilmente, o più gesuiticamente messo in
rilievo : non basta però a colo rire intero il disegno dell'articolista, ed
ecco un 'altra frec ciata,che mira più addentro. «Oh
questosì,chepotràdirsiunverorinnovamentodifi losofiaitalica!enegode l'animo
dipotervaticinarealch. A. esito migliore e maggior riconoscenza per parte dei
suoi concittadini , di quella che sperar possono certi rinnovamenti di
filosofia italica, i quali tentano di risuscitare i sogni di Pitagora e di
Zenone per fingersi Italiani, mentre in verità altro non sono che triste
imitazioni del protestantesimo te desco,o dell'eccletismo francese. Mentre
costoro per dare lo scambio agli Italiani vanno nella Magnagrecia ad invocare
la Pitonessa,perchè risusciti dalla tomba iprofeti del paga
nesimo,all'estremità della Magnagrecia presso la calla del cattolico Galluppi
la Provvidenza fa sorgere un ingegno sin golare, che passando dalla milizia
alla Scuola sembra con trapporsi al Renato ,che abbandonò la milizia per
combattere la Scuola ». FinquiilGesuita.Ordunque,notoio,quandosivuolfi losofare
alla tedesca , l'Italia è la patria degli Archita , e dei Zenoni,e non istà
bene curvarsi a gioghi stranieri: quando poi sirisale a Pitagora,ch'era stato
modello adArchita,ed allo stesso Zenone da voi indicato,ecco che questi
diventano a un tratto profeti del paganesimo : potremo sapere a quali filosofi
bisogna ricorrere per aver il vostro pieno beneplaci to,padre reverendo ?
-- 9 2 « La lettura della bella sua opera mi fa sentire anche più
la perdita che io ho fatta;e che sarebbe per me irreparabile se non mi
riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in Napoli prima di ripartire
per R o m a . Se in tale occasione p o tessiriceverel'onorediunasuavisita,mi
stimereifelicedi conoscere il Ristoratore della filosofia ortodossa ». Mi son fermato
su questi giudizî,perchè qualcuno ne ave va indotto,aver ilDe Grazia
nell'ultima opera cangiato via, ed essersiaccostato alTomismo.IlDe Grazia,qui
come nel Saggio,rimane saldo nella sua dottrina sperimentale: se di fetto v'ha
in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle m e d e sime idee,e delle
medesime parole stemperata in molti volu mi;ma cangiamenti non glisipossono
imputare.Quel che si trova dippiù nel Prospetto di filosofia ortodossa è lo
sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli pre messe,non
indovino : era per tranquillità della propria co scienza ? era per capacitare
gli altri ? era per aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione
diffondere la sua dottrina ? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimase
quasi sconosciuta, nè le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero
allora, e forse le nocquero più tardi : successe di lei ciò ch'era succeduto di
un teatro da lui disegnato,e costrui t o a C o s e n z a ; il q u a l e f u d i
s f a t t o p e r i m p i a n t a r v i u n c o l l e g i o di gesuiti.
10 Ma lasciamolo làilGesuita,che non siaccorge,quanto la filosofia del De
Grazia possa arrecar di nocumento alla sua fede:ilcritico non va a cercare
tanto per lo sottile,e siap paga dell'autorità di san Tommaso ,e del titolo del
libro:più inlànonvede.NèpiùinlàvideilP.Taparelli,contuttala fama di dotto,
perchè in una lettera scritta al nostro De G r a zia da Sorrento,in data del 12
agosto 1852,lo salutava,senz'al t r o , r i s t o r a t o r e d e l l a f i l o
s o f i a o r t o d o s s a . Il D e G r a z i a , s a p u tolo a Napoli , era
stato a fargli visita : non lo aveva trovato , e d il T a p a r e l l i , i n f
o r m a t o n e , g l i a v e v a s c r i t t o c o s ì . Meritava
egli quest'obblio ? Certo che no ; e noi ci studie remo
didimostrarlo,facendouna rapidaesposizionedellesue dottrine contenute ne'libri
finora accennati. E primaditutto:qualieranolecondizionifilosofichedelle
provincie meridionali , quando egli diessi a filosofare ? Quale fine si propose
egli ? Quali mezzi aveva sotto mano ? Queste notizie sono indispensabili per
valutare equamente il risulta to delle sue ricerche . Vincenzo de Grazia aveva
avuto una coltura matematica ; e, come porta questa coltura, il suo spirito ne
aveva attinto un bisogno di dimostrazioni rigorose,ed un'avversione alle
conclusioni frettolose, ed alle sintesi arrischiate. Da parec chie
testimonianze si raccoglie,ch'ei diessi alla filosofia sui quarant'anni, quando
già la fantasia è manco vivace pur n e gli u o m i n i c h e p i ù n e a b b o
n d a n o . E l ' e d u c a z i o n e a d u n q u e e l'età lo attiravano per
quella via piana e sicura, dove un pie de va innanzi l'altro, senza intoppi, e
senza bisogno di salti. Nel 1825,quando all'incirca eisimise afilosofare, ilGal
luppi aveva lastricato quella via, ed additatala ai suoi con cittadini.La
filosofia sperimentale era in voga. Erainvoga,ma lestavasempre
difronte,temutaavver saria,quella filosofia che rivendicava all'attività dello
spiri to un'attività produttrice ed indipendente, benchè sotto v a rie forme.Il
Locke nel secolo diciassettesimo aveva combat tuto l'Innatismo cartesiano,ma
era stato alla sua volta com battuto da Leibniz :l'Innatismo ricompariva sotto
altro aspet to.Non dicogiàchelefiguresianobell'edisegnatenelmar
mo,dicevaLeibniz;ma ilmarmo nonèperòliscioeschiet to,c'èuna certavenatura,che
messa inrisalto siaccosta as sai alle linee che ti occorrono a figurarle.
Stefano Bonnot di 11 IlDeGraziamoriaNapoliil20novembre1856,quasii gnorato
: era attorno ad altri lavori , fra i quali un'Estetica,
eleIstituzionidifilosofia;ma diquestimanoscrittiforsela sciati a Napoli non si
è potuto avere nessuna notizia. Condillac ripigliava l'impresa del
filosofo di Wrington , e non c o n t e n t o d i d i v o l g a r l o t a l e q
u a l e , c o m e a v e v a f a t t o il V o l t a i r e , lo semplificava,lo
facilitava,sicchè la sola sensazione faceva a lui quell'ufficio, pel quale al
Locke erano occorsi due coef ficienti : la riflessione del filosofo inglese era
sbandita come soverchia.IlCondillacaveva,come suolesuccedere,comincia to con
ricalcare fedelmente le orme di Locke , poi aveva ri fatto a modo suo : e la
sua semplicità maravigliosa piacque in Francia più della circospetta indagine
del filosofo inglese. Onde,morto luiil1780,ilsuofilosofarecontinuò,inter r o t
t o a p p e n a d a l l o s t r e p i t o d e l l a r i v o l u z i o n e ,c h
e t e n n e d i e t r o allasuamorte.Cessato,difatti,ilterrore del1793,l'anno
appressoicondillachianiriapparveropadronidelcampo filo
sofico,edebberoinmanolaScuolanormale,el'Istituto,che allora sorgeva per Decreto
della Convenzione attuato dal Di rettorio.Questo gruppo detto degl'Ideologi
contava nomi ce l e b r i : C a b a n i s il f i s i o l o g o d e l l a s c u
o l a , T r a c y l ' i d e o l o g o p r o priamentedetto,Volney
ilmoralista,Garatprofessorealla scuola normale e difensore del sistema ; e poi
con loro altri che dipoi deviarono,chi più chi meno ,ma che allora stavano p e
r la m e d e s i m a d o t t r i n a : il M a i n e d e B i r a n , il D e G e
r a n d o , ilLa Romiguière. Nel decennio corso fra la cessazione del terrore e
la fon dazionedell'Impero,dal1794 al1804,questogruppodiva lentuomini si adunava
nei giardini di Auteuil, e l'amicizia deglianimi siaccoppiava ne'loro convegni
allaconcordia delle dottrine . Sotto l'Impero , il cielo per loro si annuvolo .
Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone teneva l'I
deologia;nontuttinesannoilmotivo.Napoleonenon l'odia va tanto come
dottrina,quanto come partito. IlCabanis,ilVolney,ilGarat,ilDeTracy,cheavevan
visto di buon occhio il Nettuno che placava le onde tempe stose della
rivoluzione, non furono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove .
Gli tennero il broncio , ed ei si 12 vendicò nel rimpastare l'Istituto,scartando
la sezione delle scienze morali, e destituendo l'Ideologia, secondo la frase
del Damiron . Il Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonicacontro
quegl'innocenti ideologhi,che poinon lameritavano davvero.All'Ideologia Napoleone
imputava di scandagliare le fondamenta dello Stato col fine di scalzarle. Vera
o falsa che fosse l'accusa,l'Ideologia ne scapitd, alme no perdendo la veste di
filosofia ufficiale, e lo spiritualismo,
chenespiavalemosse,lasoppiantonellascuolanormale, dove ilRoyer Collard
l'introduceva il1811. Seguace del keid,questo eloquente filosofo seppe vincere
la preoccupazio ne invalsa, che filosofare liberamente non si potesse fuori
della Ideologia;e che quindi o bisognava accettare lo spirito teologico del De
Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a c a p o il T r a c y . C o l R o y
e r C o l l a r d l ' a l t e r n a t i v a f u e v i t a t a , e d inaugurata
la nuova scuola filosofica della Francia , quella ch'è stata da indi in poi
sempre al potere col Cousin ,col R é musat, col Barthélémy de Saint Hilaire,
col Waddington , colSimon. In Italia lo spiritualismo ,rinfiancato
dall'eccletismo cousi njano,benchè tradotto dal Galluppi,non fece fortuna:
gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne scostarono per ben altra
filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la filosofia del senso comune
proposta dal Reid per fronteggiare lo scetticismo di Davide Hume ,ed accettata
dal Royer -Collard per combattere l'Ideologia,diè da pensare agl'I
talianilafilosofiatrascendentale di Emanuele Kant.IlGal luppi se ne mostrava
profondo conoscitore fin dal 1819, quando incominciava la pubblicazione del
Saggio su la cono scenza umana ;sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse e
s p o s i z i o n i d e l V i l l e r s . P i ù t a r d i s o l t a n t o , il
1 8 2 1 , t r a d u c e v a laCriticainitalianoilMantovani;ma
PirroLallebasque,il 1824,era in grado di studiarla su l'originale, come dimo
stra di saper fare nella esposizione che ne dà nella sua Intro 13 duzione
alla filosofia del pensiero : caso degno di nota per quel tempo, quando nè la
lingua,né la filosofia tedesca era no divolgate, come oggidì, non dico in
Italia, ma neppure nella rimanente Europa .
Leduevieaperte,daindiinquà,furonoadunque,almeno p e r n o i , q u e s t e d u e
: il s e n s i s m o , e d il c r i t i c i s m o . T r a q u e s t e cercava
di aprirsi un varco intermedio il Galluppi ; al sensi smopropendeva
ilBorrelli,alcriticismo ilColecchi.Pa squale Borrelli scriveva e stampava a
Lugano, quasi con temporaneamente al Galluppi, ch'ei conosceva però soltanto di
nome .Ottavio Colecchi insegnava pure in quel torno,ma le sue questioni
filosofiche non furono pubblicate, se non il 1843. Che ilDe Grazia non abbia
quindi conosciuto gli scritti del Colecchi , è certo ; del Borrelli si può
dubitare, benchè a certi segni,che appresso additeremo, si possa credere di
averne avuto sott'occhio le opere .Indubitato è però che siasi formato sul
Galluppi,e che siasi prefisso di camminare su la via dischiusa dal suo gran
concittadino, evitando gli svia menti ,in cui l'altro era incorso ,e tirando
più dritto alla meta . Più dritto e difilato procedette in realtà;ma verso dove
? ParvealDeGraziacheilGalluppi,scambiodifondarelafi losofia della sperienza,
come si era proposto, per incaute concessioni al Kantismo,era finito con
darsegli in preda. Cotesto sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi
libri, come nell'ultimo;primacopertamente,esenzapronunziarne
ilnome,poiallasvelata.Onde amenonpiccolasorpresaha cagionato il giudizio di
certi nostri storici e critici ad orec
chio,iqualiconfondonoilGalluppicolDeGrazia,comese professassero la medesima
dottrina. Capisco che iltitolo, c o m u n e a d e n t r a m b i , di filosofia
s p e r i m e n t a l e , h a p o t u t o t r a r reinerroreiprelodatigiudici;ecompatirei
losbaglio,s'ei fossero dilettanti;ma è da condannare severamente in loro, che
si danno l'aria di scrivere storie e critiche, senza leg gere neppure ilibri
istoriati e criticati. 14 15 TornooraalDeGrazia.Perdimostrareilprocessostori
co de'due opposti avviamenti, ei ricorre alla sorgiva :rifà quindi la storia de
sistemi filosofici moderni,ed ammaestra to dagli errori altrui ripropone il
problema, e si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza del Galluppi è
manifesta, avendo questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia
della filosofia, e dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie
con le indagini fatte prima da altri sul m e d e s i m o s o g g e t t o : il D
e G r a z i a t u t t a v i a r i t e s s e l a m e d e s i m a storia con
altro intendimento ;perciò la sua non è ripetizione di quella fatta dal
Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. II. La
filosofia pel De Grazia si aggira sul problema della scien zaumana,nèpiùnémeno,chepelGalluppi:iltitolodelle
due opere capitali scritte dai due filosofi calabresi accusa la medesima
intenzione.Il Galluppi scriveva il Saggio plosofi co su la critica della
conoscenza ; il De Grazia, il saggio su la realtà della scienza umana . Questa
similitudine ha tratto in errore alcuni storiografi dafrontispizî,perchè
dallaintestazionesono corsi,senz'al t r o , a d a s s e r i r e c h e il G a l
l u p p i e d il D e G r a z i a p r o f e s s a n o l a medesima dottrina.Se
non che,questa volta l'hanno sba gliata ; chè se il problema è lo stesso in
entrambi , la solu zione è diversa non solo,ma opposta.Il De Grazia scrisse col
manifesto divisamento di combattere la soluzione gallup piana. Già nella stessa
intestazione il filosofo di Mesuraca accenna a questo punto capitale del suo
Saggio , ch'è la real tà della scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazio
ne accettata dal filosofo di Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico
delproblema,com'è espo sto dal De Grazia. IlGalluppi aveva dato l'esempio di
accoppiare alla sua Ancora non gli eran potute essere note le tre
epoche di stinte da Augusto Comte , che par di non aver conosciuto n e p pure
dopo,egiàeglitripartiscelastoriadellafilosofia,aun di presso,con un criterio
analogo a quello del filosofo francese. Nella prima epoca la ragione,baldanzosa
per inesperta gioventù,silibra a volo,e tenta costruzioni metafisiche, te nendo
scarsissimo conto della scienza principale,e facendo ne quasi un'appendice
delle sue fantastiche cosmogonie. Nella seconda,ella piglia per verità le mosse
dal proble madelconoscere;matostoloabbandona,sedottadallame tafisica. Nella
terza,la ragione rinsavita si propone chiaro il suo cômpito,ed'altronon
sibriga;senon che,pur nelle solu zioni del problema conoscitivo,di quando in
quando,fa capo lino ilrazionalismo. Insomma l'esosa metafisica,lo scapestrato
razionalismo s o n o p e r D e G r a z i a il v e r o o s t a c o l o , c h e n
o n l a s c i a p a s s a r l a vera scienza per la sua via. Alle tre epoche
egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi abbozzi
ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione,e de'ragionamenti
d'induzione ; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a Locke ; in
terrotta qua e là dai tentativi del Galilei, del Bacone,e del Des
Cartes;laterzaduraancora,edènelmeglio delle sue conquiste. 16- dottrina
la genesi storica del problema da lui riproposto ; e
sirifàdaCartesioaquestaparte,daCartesiocheperluiè il padre della filosofia
moderna .Il De Grazia risale più in su , fino ai primordî della filosofia greca
, senza perder d'occhio p e r ò il p r o b l e m a d e l l a s c i e n z a . Il
s u o c r i t e r i o s t o r i c o è s e m plicissimo:v'èduefilosofie,una che
ritienel'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima, comechè
si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza,m e ritasempreilnome
dirazionalismo. È mestieri,diceilDe Grazia,distaccardeltutto leme
tafisiche speculazioni dalla scienza del pensiero,per forzar la ragione al
metodo di pura osservazione ». La ragione,secondo lui, ha una tendenza
precisamente contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel
chetrovasidatodainduzione.È necessario adunque che la filosofia n e infreni l'
i m p e t o , e n e m o d e r i la foga ; e , p e r n o n
esserviriuscitaancora,lametafisica èrimastastazionaria, piena zeppa di
ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. «Positivoprogresso
dellafilosofiad'oggidì è quello di es
sersiridottelericerchemetafisiche,cheuntempo formava no la sterile ricchezza
degli scritti filosofici ». L a s t e s s a a v v e r s i o n e h a il D e G r
a z i a p e r l o s p i r i t o t e o l o g i c o . « L'intervento divino nella
spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello scioglimento
del nodo diuna tragedia.Perocchè è ben facile espediente ilriporta re ad una
causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo ricondurre alle cause
naturali ». Soggiunge innotaunariserva,èvero;dichiaradinon v o l e r i m p u g
n a r e i m i r a c o l i : il p u n t o p r i n c i p a l e n o n è m e n
saldo però,l'esclusione loro dalla scienza. QuiilDe
Grazia,siacheloconoscesse,oche s'incontras se col Comte , si mostra cosi aperto
avversario dell'interven todivino,come delleipotesimetafisiche:teologia,erazio nalismo
sviano dalla vera scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana
rivive dopo tresecolinelDeGrazia:fondamentodellascienzaèlasolaos servazione;e
nondimeno riserva di ossequio verso l'autorità religiosa,da parte degli autori.
IlDeGrazia rivolgeaifenomeni delpensiero quella os servazione, che il Telesio
aveva rivolto a'fenomeni naturali. Ilmetodo ch'ei si traccia,e che si studia di
seguire,è il se guente:osservare ifenomeni primitivi,ridurli finoagli ele menti
irreducibili. 17 3 18 «La filosofiaintellettuale,eidice,dopoaverriconosciuto
i fatti attuali di coscienza dee saggiar di risalire di riduzio ne in riduzione
al fatto primitivo,alla pura veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi
del pensiero a cui si fer ma?Sono tre,lasensazione,ilgiudizio,ilvolere;quindi
tre parti principali della filosofia,Estetica,Logica,Etica. Lasciando di vedere
se questi tre sono proprio i fenomeni irreducibili,certo è però che ilmetodo da
lui seguito è pre cisamente quello tenuto dalle scienze esatte.L'autore non
dissimula il bisogno da lui sentito di applicare alla filosofia ilmetodo
dellematematiche,allequali s'era da prima ad detto, e dal cui studio deriva in
gran parte il riscontro che si può scorgere tra la sua filosofia e quella che
nel torno m e desimo si coltivava in Francia sotto il nome di filosofia po
sitiva. « E p p u r e , e s c l a m a il D e G r a z i a , n o n v ' è c h i p
a s s a n d o d a l la evidenza delle matematiche alle ricerche filosofiche non
senta irrequieto ilbisogno di sortir fuori delle incertezze, in cui vede
implicato il sistema della scienza ». Come dalla semplice osservazione lo
spirito possa solle v a r s i a l l a r i d u z i o n e s c i e n t i f i c a d
e ' f e n o m e n i , il D e G r a z i a d e scrive in modo molto preciso;e
tale che merita esser riferi to con le sue stesse parole. « Ma l'esperienza non
è l'osservazione empirica,che si arresta a'fenomeni isolati.Ilmetodo
sperimentale sigiova dituttiinostrimezziperiscovrirelaconnessione de'feno
meni;del ragionamento astratto,della induzione,delle spe rienze artifiziali,
delle ipotesi.Con sì varî mezzi la fisica la vora alle classificazioni
de'fenomeni esterni,a ridurre i fe nomeni particolari a'generali,a rilevare dal
corso della na tura le sue leggi,cioè le costanti condizioni de'fenomeni,le une
costanti e permanenti , le altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal
divisamento non mira soltanto a minorar tuale ». l'ignoto,che
resta limitato a'fenomeni irreducibili, ma ad uno scopo più positivo,a quello
diprevenir l'esperienza,e somministrar così preziosi materiali a tutte le arti
». C h i r i c o r d a il m o t t o d e l C o m t e : « s a v o i r c ' e s t p
r é v o i r » r i conoscerà di leggieri il riscontro de due filosofi. Nè
risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni fino all'estremo limite,
affine di minorare l'ignoto . Trasportandoorailmetodotestedescritto
alleinvestiga zioni filosofiche, il De Grazia procede cosi ; osserva , cioè, i
fatti della coscienza,qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione risale
finoaiprimielementi,ond'ellaèstata ge
nerata.Eglistessoformolailsuoproblemainquesti termi
ni:«coimezzichesonoinnostropotere,ritrovarlagene razione delle verità,di cui
siamo in possesso ». Questo metodo ei lo chiama genealogico; e la parola ed il
concetto sitrovano inun altro filosofo italiano,noto alDe Grazia,in Pasquale
Borelli,che intitolò lasua filosofia,Prin cipii della genealogia
delpensiero.Fino a che punto s'ac cordino nel loro intento,toccheremo appresso
:qui basta n o tare,chelafilosofiavera,lafilosofiaseriapelDeGrazia co mincia
con quest'analisi minuta degli elementi primi del pensiero.Dimodochè sebbene ei
lodi Aristotele di aver a m messo la realtà delle idee universali,e più ancora
di essersi fondato sul senso,nondimeno,poiché lo Stagirita vi arrivo quasi di
lancio,e per un'affrettata generalizzazione,il n o
strofilosofononripiglialaverastoriadalui.Ilprimo sag gio genealogico del
pensiero sembra a lui,essere stato il Saggiosul'intellettoumano diLocke,chepure
ilGalluppi chiamava immortale. QuelSaggio,cadutopoi indiscredito,ebbe una
meritata rinomanza;elafamafupiùfondatadeldiscredito.La filo sofia inglese mette
capo tutta quanta in esso ; la francese del secolotrascorso
nederivò;allatedesca,iniziatadalKant, d i è il p r i m o u r t o p e r m e z z
o d i H u m e . O g g i d i , a p p r e s s o d i n o i 19 Il
principal merito del filosofo di Wrington era agli occhi del De Grazia quello
di aver combattuto ad oltranza le idee innate.Ritenere tutte,o alcune idee per
innate,porta ne cessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine; e
quindi impedisce il progresso della filosofia, che tutta si dee travagliare
attorno a questa ricerca.Cartesio e Leibniz,
chesicredonodiaverleammesse,inrealtàleritenneroco me semplici disposizioni ;e
fu per colpa di una improprietà dilinguaggio ses'imputòalorodiaverleaccettate.E
qui dava una toccatina alGalluppi. Ma
ilsistemalockiano,nelrintracciarelagenealogia del pensiero, omise moltissimi
atti mentali che vi concorrono ; ed era omissione scusabile in un primo
tentativo,ed in ri cerca cotanto complessa.Locke diè,per dir così,una for mola
generale,allaqualeeranoapplicabilipiùvalori:Con dillac si avvisa di darle un
valore preciso ; ma precisando, disvia.Locke,difatti,aveva riconosciute due
sorgenti delle nostre idee,la sensazione,e la riflessione:quest'ultima non era
ben definita,erauna funzione che accoglieva un po'di
tutto,giudizio,astrazione,ragionamento,volontà,era in definita,siconfondeva con
lacoscienza:Condillac dà un va - 20 - sièpiùgiustiversodelmodesto,delsincero,del
pazientis simo Locke ; smessi i superbi fastidî delle sintesi frettolose: al
tempo che scriveva il De Grazia le invettive giobertiane erano accolte senza
molti scrupoli ; ed al filosofo calabrese f u g l o r i a n o n e s s e r s e n
e l a s c i a t o s m u o v e r e . Il G a l l u p p i , c o m e abbiamo
visto,lo aveva pregiato assai,ma i consigli del buon vecchio cominciavano ad
aver poca presa su gli animi de'giovani.Fuori d'Italia l'Herbart faceva tanta
stima del Saggio lockiano,che al Consigliere Clemens,il quale lo ri chiedeva
intorno alla filosofia da insegnare ne’ginnasi, riso lutamente rispondeva : dal
maestro di filosofia ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che
avesse letto Locke . lore preciso , riduce tutto alla sensazione , o
semplice , o t r a sformata : sentire è giudicare. IlDe Grazia,come abbiamo
visto,fa della sensazione e del giudizio due fenomeni irreducibili ; egli non
può dunque nè contentarsi dell'ambiguità della riflessione lockiana, ne
moltomeno dellasemplicitàdellasensazionecondillachiana. All'osservazione
de'fatti gli pare che il Condillac abbia sosti tuito la tortura del fare
sistematico . Gran merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del
giudizio,di questo fenomeno irreducibile,stato dal Con dillac confuso con la
sensazione. Pel filosofo di Koenisberg gli ultimi elementi delle nostre idee
sono da una parte le sensazioni,dall'altraigiudizî:idueelementi appunto che al
nostro filosofo paiono indispensabili alla soluzione del p r o blemachesièproposto.
Ma con questo gran merito egli imputa al Kant una gran colpa,la soggettività
de’rapporti; vizio che gli sembra infet tare la filosofia contemporanea. L a s
o g g e t t i v i t à d i K a n t p e r ò , e d il D e G r a z i a n e c o n v
i e n e , fu una necessità storica. Locke aveva detto che tutte le n o stre
idee nascono dalla sperienza,e che un'idea originale semplice non può derivare
quindi da un ragionamento : H u
meaccettòlepremesse,econtinuò:mal'ideadicausanon ܚ.ܝ 21-
Per lui,come per d'Alembert,lafacoltà distintiva dell'es sere attivo e
intelligente,è quella di poter dare un senso al la parola è:ora il Condillac
questa distinzione l'ha distrutta. ; i J tà el
Seelementisoggettivi,eglinota,simesconoco'dati spe rimentali,in taleipotesinon
conosceremmo quel ch'è nel fattoosservato,ma quelcheciapparisce
esservi;talchese spogliamo ilfattodiciòch'ènostraproprietà,lanostraco noscenza
svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le
ideedispazio,ditempo,disostanza,dicausa?Togliete via dunque dagli oggetti
esterni e dal proprio essere siffatti ele menti;e la scienza della natura,e
dello spirito è distrutta », 22 può derivare dalla sperienza ;dunque non
c'è.Cosi tutta la scienza della natura andava in aria,e Reid sirifugiò nel sen
so comune ,in una credenza irresistibile,istintiva:Kant a m mise degli elementi
aggiunti dall'attività dello spirito. IlDe Grazia nota con molto
accorgimento,che in sostan zailsensocomune,dicuitantosicompiacciono certi filo
sofi anche oggidi,non salva nulla;che per giunta è pieno di
contraddizioni,perchè introduce classificazioni e distinzioni arbitrarie,mentre
si era prefisso di accettare le comuni cre
denzetaliqualisitrovanonellacoscienzavolgare;che tra Reid e Kant,per ciò che
riguarda la realtà della scienza, nonc'èpuntodidivario.
«Kantnellospiegareilfenomenolosfigura,elascia sco
vrireildubbio:lascuolascozzesetieneoccultato ildubbio perchè non imprende la
spiegazione del fenomeno .... È BravoilDeGrazia!Eglinonsilasciaappagaredallepa
role,e civedebenaddentro;esel'haconKant,saperò rendergli giustizia,nè
condannando lui,assolve quelli che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene
ilbuono.Nella dottrina kantiana ei capisce subito, che non il numero degli
elementi soggettivi aggiunti dallo spirito,ma l'aggiunzione sola,quanta che
fosse, era sufficiente a compromettere la realtà della scienza umana . Certi
nuovi critici,che in filosofia credono poter servirsi dellastadera,han
detto,peresempio:ilKantammette in tuizionipure,categorie edidee,tutte apriori,ilGalluppi,
invece, appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'i dentità e di
diversità,dunque è lampante ch'ei sian discosti le mille miglia uno
dall'altro. sta dunque la differenza, in quanto alla realtà delle nostre
conoscenze , tra il proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina della
scuola di Reid !> que IlDe Grazia scrive così:«basta ilsupporre una pura ve
duta dello spirito il solo rapporto d'identità e di diversità, ·23
rapporto fondamentale delle nostre conoscenze , per ricadere nel realismo
empirico del sistema kantiano ».(Saggio etc. Vol.2,pag.160 - Napoli 1839). Nè
contentoacid,altroverincalzalasuaosservazione in questi termini: « M e t t i a
m o o r a i n d i s p a r t e il s i s t e m a k a n t i a n o ; c a n g i a m
o la sua ripartizione tra gli elementi soggettivi e gli oggettivi accordando
più largamente alla sperienza ; o anche tutte le idee diciamole derivate dalla
sperienza,e riteniamo bensi solamente che non sono condizioni oggettive i
rapporti a n zidetti appresi tra le sensazioni ; noi ricadiamo apertamen te nel
realismo empirico della filosofia critica ». (Vol. 3, p.367). Pel De Grazia il
kantismo consisteva nell'applicazione di elementi soggettivi alle
sensazioni:dovunque riscontra que sto medesimo processo ei riconosce ritenuto
il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli altri non
siansi accorti di questa medesimezza. « La storia nota a stupore della
posterità,che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema kantiano,
e che niuno aveva avvertito, l'idealismo esser nella supposta n a tura
soggettiva delle idee di rapporto ».(Vol.4,pag.512). Quale sarebbe stata la
maraviglia del De Grazia,se avesse vistoche,quando
ebbenotatacotestasomiglianzaloSpaven ta,controluigridaronotutteleoche,vigili
sentinelledella rocca filosofica. Parve denigrazione della filosofia italiana,
quella ch'era critica aggiustata e seria:parve così a coloro, iquali se ne
predicavano sostenitori,quando non l'avevano studiata,e forse neppure letta. Ma
torniamo al De Grazia. Ei non cita il Galluppi in tutto quanto il Saggio, se
non una volta sola ; egli però scrive il libro per combattere la dottrina del
suo gran concittadino,che glipareva derivata a dirittura da quella di Kant.Che
però miri al Galluppi, ap parisce da un'apposita nota,che aggiunge
a pag.239 del 4° vol.delsuoSaggio. « La dottrina degli elementi soggettivi,ei
dice,è stata da noi detta soggettivismo per denotarla qual vizio radicale del
metodo filosofico.Puòanche dirsiformalismo,riferendosi alleformepure diKant,che
sono gli elementi soggettivi. Noi abbiamo preferito finora la prima espressione
per la c o n siderazione, che nelle dottrine attualmente in vigore si abbraccia
l'ipotesi degli elementi soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome
credono alcuni di non incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella
ipotesi;noi nel combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome
or generalmente adottato, quello di elementi sogget tivi.Se
cifossimoinvecediretticontro ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di
mira il solo sistema kantia no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal
sistema serve a render più potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina
degli elementi soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e
si sono adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da
taluni si è creduto evitare l'idealismo k a n tiano !» Pel De Grazia adunque il
divario fra Kant e Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso,
era più dinomeched'altro.Checosanediràilprof.Acri?checo sa ne diranno tutti
quei ciarlatani grandi e piccini,che sen
zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche citano,lo mitriarono vindice della
filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile rivolgere nessuna domanda;al pro
fessore Acri domando che cosa voleva dire,quando scrisse a proposito del
Galluppi il seguente giudizio ricavato dal De Grazia . 24 « Ma perciò che
Galluppi e Kant affermano tutt'e due che questeidee(identitàediversità)sono
soggettive es'accor dano nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi
sia kantia n o ? Il t u o a r g o m e n t o s a r e b b e q u e s t o n è p i ù
n é m e n o : q u e l l ' a n i m a l e lì è c a n e ; q u e l l a c o s t e l
l a z i o n e lì è c a n e : q u e l l o a b baia;dunque quell'altra deve pure
abbaiare.Se si considera ilpensiero delGalluppi su questo argomento,quantunque
non molto lucido e netto, come ha notato quel nostro De
Graziadegnodimaggiorfama,sivedesubitochel'idea
diidentitàhavaloreoggettivoereale,perchènasce dall'i dentità reale dell'io come
cosa,non altrimenti che l'idea di unità ».(Acri,Critica etc.p.31). Quando lessi
questa scappata dell'Acri,mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto
nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella esposizione del De
Grazia,che sa pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano
la falsità. Stando all'Acri,adunque,quel nostro De Grazia aveva notato
benissimo che per Galluppi le idee di identità e di di versitàerano
oggettive;chesoltantonellaespressioneave va questi mancato di lucidezza.
HailprofessoreAcrilettodavveroilSaggio delDeGra
zia?Iocredo,edebbocrederedino,perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro
valoroso concittadino d'altro non biasimailGalluppi,pursenzacitarlodinome,che
diaver accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di
questi due d'identità e di diversità. - 25
Ilprof.Acri,seavesselettoillibro,non sarebbeuscitoin quella citazione,inesatta
non solo,ma assurda ;chi pensi, che ilDe Grazia ad altro fine non scrisse,che a
rilevare la medesimezza de'risultati, per rispetto alla realtà della n o stra
scienza,si delle forme kantiane,come degli elementi
soggettividelGalluppi.Capiscocheilprof.Acri potevafar a fidanza con l'ignoranza
assoluta de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia,ma egli non
doveva contare per niente,dunque,neppure isuoi contraddittori?
Padronissimo di creder lui,che que'rapporti pel Galluppi
sianooggettivi,ma perchèvolertiraredallasuaancheilDe Grazia,che tuttalavitascrisseappunto
per dimostrare il contrario?È un po'troppo,parmi. Finchè visse ilGalluppi,ilDe
Grazia non riflni dal com batterneladottrina,congrandeinsistenzaforse,delche si
scusava;ma con profondaconvinzione,edopo averne lunga mente ponderato quelli
che a lui parevano inconvenienti gravissimi.Nol nominò però mai,altro che una
volta sola, c o m e a b b i a m o v i s t o , e p e r l o d a r l o . M o r t o
c h e f u il G a l l u p p i , scrivendo egli l'ultima sua opera col titolo di
Prospetto della filosofiaortodossa,smettelaprima riserva,elocombatte no
minatamente .Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli scrive cosi : « Su tutto
quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina della sensazione
essenzialmente percettiva, e della soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo anoistessiil
far noto a'nostri cortesi lettori,che fin dal 1839 le stesse osservazioni, più
estesamente sviluppate,furono fatte di ra gione pubblica, e non abbiam poi
cessato di riprodurle in parte,e ripetutamente in varii articoli pubblicati in
diversi giornali ».(pag.141-142). Dimodochè rimane fuori di ogni controversia,
che il De Grazia ha inteso combattere la dottrina del Galluppi su la
soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere questa dot trina conforme a
quella di Emanuele Kant . Potrei anzi a g giungere,che la soggettività
de'rapporti parve al De Grazia concedere più di quel che Kant medesimo
ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto
questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi soggettivi
».(Vol.4,pag.267). Eperchèdippiù?PerchèKantlimitavaalmenoilnumero delle sue
forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più largamente.
Ecco le strette in cui il De Grazia pone questa filosofia. 26
«Finché siritiene,eidice,da'filosofilanatura soggetti
vadelleideedirapporto,restainconcusso ilprincipio,che
isensinonpossonoaltrodarcichenude sensazioni.Questo p r i n c i p i o o r o v e
s c i a p e r i n t e r o il s i s t e m a s p e r i m e n t a l e , o deve
ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo
èilformalismoassoluto,all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure dello
spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice ilformalista:tutte le
nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate, dice
ilsensualista».(Vol.4,pag.269-270). O Kant,oCondillac:eccoilbivio
dellafilosofia,secondo il nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due
soluzioni sono possibili, quando non si tien conto di tutti nostri m e z zi del
conoscere.Questi mezzi sono due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un
solo,importa o lasensazione tra sformata di Condillac,o ilformalismo kantiano.
Formalista è dunque il Galluppi, formalista il Rosmini ; entrambi costretti ad
ammettere tutt'igiudizi come sinteti ciapriori. « Se l'idea di identità fosse
un elemento soggettivo,come essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il
nostro giudizio sarebbe in tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma
ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto dal De
Grazia non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si fermasse alla buccia
delle q u e stioni;noncosìilDeGrazia,ilquale vipenetraaddentro. È una
contraddizione,eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera dottrina
è quella che non dipende dal la intenzione,o dalla professione di fede che fa
un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che giudizi
sintetici a priori non vole 27 rà; « Non si è dunque avvertito, che son
due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e
l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.). te
ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o
parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello
spirito. Quale dottrina contrappone ora il De Grazia a quelle del Condillac,e
del Kant ? L'uno diceva : giudicare è sentire ; l'altro, seguito dal Rosmini e
dal Galluppi, diceva:giudicare è a g g i u n g e r e ; il D e G r a z i a , d i
s c o s t a n d o s i d a l p r i m o e d a l s e condo,dice:giudicare
èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà alla funzione
del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la sensazione. Né
Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla percezione ;
Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu sforzato
ilGalluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle che vanno
dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale del De Grazia .
Due sbagli commette ilGalluppi,uno di confondere ilsen - timento con la
coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il
sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi
abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che
sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello
spi rito ».(Vol.4,pag.17). « Confondendo la coscienza della sensazione con la s
e n sazione, non si sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il
conoscere, il percepire col sentire, c o n fusione che essi medesimi
rimproverano a'sensualisti ». (loc. cit.). Queste due confusioni erano state
fatte veramente dal G a l luppi,avendoeglicompresosottoilnome
disensibilitàin 28 Il simile si dica della idea dell'ente, che il Rosmini
a g giunge ad ogni giudizio; su la quale torneremo altra volta. 29
«Sentireilmesensitivodiunfuordime,glidiceilDe
Grazia,èlapiùforzatacontrazione,che potea darsi all'e spressione del fatto di
coscienza ».(Vol.4,pag.18). L'industria adoperata dal Galluppi per nascondere
questi giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo,
dal perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo
motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di
spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert,
entrambi geometri , e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto
il bisogno di spiegareilpassaggiodalmealfuordime:idueprimiave vano anzi
proceduto più avanti,additando come mezzo l'in
duzione;ilGalluppitagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non esservi
luogo a passaggio,quando la sensa zione coglie immediatamente l'oggetto. Doppio
sbaglioadunque da partedelGalluppi:primo,aver disconosciuto igiudizî
primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del mondo
esteriore,ilsoccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva prevenuto la
dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il presupposto
che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto primitivo
non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi
fapassareall'oggettoesterno,come,diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare
una seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle
sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il Condillac ; -
ternailsentimentoelacoscienzadelme;esottoilnomedi sensihilità esterna la
sensazione e la percezione . Perchèdalsentimentosivadaallacoscienza,edallasen
sazioneallapercezionecivuoleilgiudizio;non ilgiudizio galluppianocheaggiungarapportisoggettivi,ma
ilgiudi zio che osserva,ed osservando distingue i rapporti reali delle
cose. e della forza dell'abitudine Hume ,e della efficacia della in
duzione avevano accennato il Leibniz ed il D'Alembert ! IlDe Grazia riassume e
tesoreggia isaggi de'suoi prede c e s s o r i , e li c o m p i e c o s ì .
associazione adunque spiega l'origine : l'induzione as sicura la realtà;come si
può assicurare, beninteso, una ve rità contingente , la quale non esclude mai
la possibilità del l'opposto. Coloro i quali han posto mente alla sola
abitudine fonda ta su l'associazione,han detto :ma qual garantia ci porge ella
della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo descritto 'da Davide Hume. Il D
e G r a z i a , s c h i v a le p r i m e e le s e c o n d e difficoltà , e f o
r m o l a il p r o c e s s o g e n e a l o g i c o c o s i : l ' a s s o c i a
z i o n e c o m i n c i a , senza badare alla realtà;l'induzione legittima ciò
che trova, senza doversi brigare del cominciamento. In siffatta guisa il nostro
filosofo fa capitale di tutt'i saggi parziali
tentatiprimadilui,licollega,liordina,licompie uno con l'altro :la sensazione e
igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac ;l'osservazione,
indefi nitatralemanidiLocke,edaluimeglioprecisata;lamas sima aurea del Kant
:pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a rilievo da Hume;la
induzione accennata da Bacone in generale,additata da Leibniz e dal D'Alembert
a scenze provvisorie. 30 La sensazione dà iprimi dati,ilgiudizio osserva
i rap portichevisonocontenuti;l'associazionedelleideecifor nisce leconoscenze
prime concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria ;l'induzione,più
tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla tardiva comparsa d
e l l a i n d u z i o n e , h a n n o o s s e r v a t o , c o m e il G a l l u
p p i : m a l a i n duzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester
na,richiede troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può
supporre capace. 31 proposito dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di
fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva
enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali,chealnostromodo
diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due geometri
filosofi, cioè al Leibniz ed al D'Alembert. La storia intanto invece di
attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati sempre
più alla soluzione delproblema delconoscere,ricordalemacchine artificiose
de'lorosistemi,l'occasionalismo,l'armonia prestabilita,e simili deviamenti
dalla salda filosofia. IlGalluppipoiagliocchisuoihailtortonon solodinon aver
profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato anche al di là di
quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto per obbiettivo, o
percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a tutti i sensi,
occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà oggettiva de gli
esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: « ciò che non veggono
alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettividell'oggetto
esterno i no stri sensi,credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà
dell'oggetto esterno ».(Vol.2,pag.254-255). IlGalluppidiffidandodituttociòche
civieneinorigine per mezzo de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im
mediatamente siapprende con l'atto del giudizio (pag.316). Ei non s'accorge che
c'è una contraddizione manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura
soggettiva de'rap porti (pag.316-317).
Ondechesquadrilaquestione,ilDeGraziatorna,edin siste sempre su questo vizio
radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve chiaro in Kant,e che in
lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive leidee,contraddicendo alla
loro provenienza . Nel Galluppi rivive la tesi del concettualismo , che il n
o - 32 - stro filosofo combatte aspramente;nel Galluppi,e più anco
ranelRosmini.IlDe Graziafautore del realismo,non del platonico però,spende
molte pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo medioevale,e più
del moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una rassegna appo
sitapubblicatail1850,eidifendeSanTommaso dallataccia di concettualista, ed
impugna la somiglianza che il Rosmini vuol trovare tra la sua teorica dell'ente
possibile, e quella dell'Aquinate. Di questa particolare ricerca diremo appres
so : continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta del De Grazia , le lacune
ch'egli addita ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato attuale fu
fatta maestrevolmente da K a n t : il D e G r a z i a è l a r g h i s s i m o d
i l o d i a l f o n d a t o r e d e l C r i ticismo,filosofo per questo verso
inarrivabile.Della origine peròilKantnon
occupossi,dichiarandoaggiuntiaprioritut tiquegli elementi, di cui gli pareva
arduo rintracciare la ge nerazione.Quanto sitoglieaiverimezzi diacquistar cono
s c e n z e , t u t t o si a t t r i b u i s c e a d u n a s u p p o s t a o r
i g i n e a p r i o r i , a questo vasto serbatoio di tutte le perdite
dell'analisi . Cosi , con una similitudine arguta,ei battezza per vere
lacune,per difetto di analisi ogni forma a priori. Nella stessa maniera han
combattuto,dopo delDe Grazia,l'apriori ifilosofi po sitivisti.Siricasca
inquesto metodo dunque,sempre che, abbandonatalagenesisperimentale,siricorre
allospedien te di addizioni di forme pure;sia qualunque ilnome con cui si
travestiscano . D'accordo con Kant,dice ilDe Grazia,che la conoscenza risulti
dasensazioniedagiudizî;ma giudicare,perme, semplicemente osservare,e non è
punto aggiungere. La ve duta èprora quando siosserva nell'oggetto,non già
quando - Ilmetodo daseguire,nelproblema dellaconoscenza,era
questo:esaminare lo stato della coscienza,qual'è attualmen
te;risalirealleoriginidelleideecheoravitroviamo;legit timarne la realtà.
O siaggiunge dal soggetto.Aggiuntachel'avretevoi,non è più da discorrere
della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece benissimo la
critica della coscienzaattuale;arrestossi per via nel rintrac ciare le origini
della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè legittimare la realtà
della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata con la dottrina del
giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è assicu rata;
se,invece,è una funzione addizionale,la realtà non si può a nessun patto
legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere, perchè il
De Grazia combatta con tanta insistenza la filoso fia del Galluppi,ed insieme
di valutare,quanto poco la mira delDeGrazia
siastatascortadaquellichenehannofinora discorso.Egli ritorna spesso su la
critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata non piccola causa
dell'esser passatainavvertita,perchèdileggereiseivolumidelle sue opere i più si
sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua discussione si può ridurre
a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatalaricercadellaumana
cognizione:gliuni avevan detto col Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a
vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi
soggettivi:egliavevarisposto:èfalsal'una el'altraspiega
zione.Ilgiudicarenonèsentire,ma osservare;irapporti sono oggettivi,non
soggettivi. Il Galluppi intanto , destreggiandosi tra le due spiegazioni ,
aveva di ciascuna ritenuto una parte.Pur discostandosi dal
ladottrinacondillachiana,purdistinguendo ilgiudiziodal la sensazione,aveva però
ammesso de'rapporti,iquali era no sentiti:tali erano il rapporto tra
modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra effetto e causa. Similmente,pur
promettendo divolersiappartareda Kant, pur professandosi fedele al metodo sperimentale,
aveva a c ce to B EL er EN 33 5 0 cettato due rapporti come
soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e
giusta critica del De Grazia aveva messo in e videnza le due capitali
contraddizioni della filosofia del Gal luppi.La consapevolezza
piena,profonda,ch'egli ha delle obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve
lo fa insistere forse soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande
perspicacia di mente nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. «
L'idea di azione,di connessione,egli scrive,è idea di
rapporto;eirapportisigiudicano,non sisentono.Sièdi menticato in questa
occasione,che una sensazione non è più che una nostra modificazione, e per se
stessa non può darci altra idea che quella di un particolar nostro modo di
esistere » (Vol.4,pag.140). L'anno appresso,che ilDe Grazia finiva la
pubblicazione d e l s u o S a g g i o , il 1 8 4 3 c i o è , u n d o t t o a b
b r u z z e s e , O t t a v i o Colecchi,pubblicava in due volumi le sue
Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica delGalluppi,muovendo da un
criterio opposto a quello del nostro De Grazia,ed intanto somigliantissima nel
significato. Il Colecchi segue la filosofia kantiana nel concetto fonda
mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie tutte quante a
quelle di sostanza e di causa;le dedu c e n o n g i à d a l l e f o r m e d e l
g i u d i z i o , c o m e a v e v a f a t t o il K a n t , ma dalle anzidette
nozioni di sostanza e di causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ;
rifiuta lo schematismo kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e
finalmen te crede , che la realtà della nostra scienza non ne sia punto
compromessa . Il Colecchi adunque biasima il Galluppi d'incoerenza per
averammesso alcuni rapportioggettivi,edaltrisoggettivi;
senonche,invecedisoggiungerecomeilDeGrazia:dove
vateritenerlituttiperoggettivi,corregge lacontraddizione 34
io galluppiana in un modo opposto,soggiungendo:dovevate ammetterli tutti
per soggettivi. Tralasciando ora le modificazioni arrecate dal Colecchi
allafilosofiakantiana,eraffrontandolesueobbiezioni con tro il Galluppi in ciò
che s'accordano con le altre antece dentemente mosse dal nostro De
Grazia,citiamo in compro va testualmente le parole del filosofo
abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata somiglianza. Dopo aver egli
ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e di diversità ammessa dal
Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò si domanda ora:se
rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che le separa
da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito o no
dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai
sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua
nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di
analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le
sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò
nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori
alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so
stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la
sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle
due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono
un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi » ? (Qui
stionifilosofiche,vol.1,pag.197-198- Napoli1843).
Potreicitarealtriluoghi,concuiilColecchinota ildi - 35 un li ne ato 4 1
Biasima inoltre il Galluppi di aver detto che sono sogget
tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi
spazio,ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che
sono soggettive,senza essere rapporti. verso valore che debbono
avere nella ipotesi del Galluppi le idee di identità e di diversità quando si
applicano o agli o g getti dellamatematica,oaquellidellasperienza;ma usci
reifuoridelmiotema.Amepremeassodarechelecontrad dizioni, in cui s'era avvolta
la filosofia galluppiana per m a n co di coerenza,erano state rilevate con
mirabile acume dal De Grazia e dal Colecchi. Il prof.Ferri,il quale scrisse due
grossi volumi su la sto riadellafilosofiaitaliananelnostrosecolo,non trovòaltro
spazio per ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che que sto,occupato dalle
seguenti parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de
Collecchi , Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en c o m battant
Galluppi,n'ont cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la
philosophie critique ».(Essais sur l'histoire etc. tom . 1, p . 334 ). Certo
così il prof. Ferri non si compromette. En m o d i fiant, en combattant, sono
frasi tanto diplomatiche che par c h e d i c a n o , e n o n d i c o n o . Il D
e G r a z i a h a m o d i f i c a t o il G a l l u p p i ; il C o l e c c h i l
' h a c o m b a t t u t o : c i h o g u s t o : s t a b e n e ; m a c h e c o s
a h a n d e t t o ? Q u e s t o è il p u n t o ; e s u q u e s t o , s i l e n
zio perfetto.E poi ilDe Grazia non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure
: l'avesse combattuto, qual lume si
ricaverebbedaquestemezzeparole?Nonerameglioconfes sare di non averne letto
sillaba ? E perchè non occuparsene? Forsechèerandamenoditantialtri?Io,peresempio,sen
za far torto a nessuno , e salvo la disparità per altri riguar di,trovo più
ingegno filosofico nel De Grazia e nel Colecchi, che non nelMamiani.L'ho detta
grossa?Chiedo scusa a tutti quelli che ne prenderanno scandalo ;certo di aver con
mecoloro,chesen'intendonodavvero;eche intendendo sene ardiscono dire il proprio
parere. Del silenzio sul Colecchi il prof. Ferri si scusa quasi ,scri vendo in
una nota così : 36 « Les écrits de Collecchi dispersés dans
les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un seul corps il
y a quelques années ». Pardon,prof.Ferri:gliscrittidelColecchi furono stam pati
fin dal 1843 in due volumi,che io ho qui sul tavolo,ed hanno
questaindicazione:Napoli,all'insegnadiAldoMa nuzio,CarrozzieriaMontoliveton.13,1843.Qualgirodi
anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non vi bastano
? E perchè non una parola sul De Grazia , che doveva es servi noto,poichè ne
registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in
questo secolo ? Forse n o n e n t r a v a n e l d i s e g n o v o s t r o , c h
' e r a d i d e s c r i v e r e il p e n siero italiano tutto inteso a cercare
ciò che poi ha finalmen te trovato , l'idealismo temperato ? ed allora perchè
accusare diparzialitàloSpaventa,cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto
dal suo criterio hegeliano ? Ma passiamo oltre,avvertendo soltanto,poichè siamo
su q u e s t o a r g o m e n t o , c h e il c o g n o m e d e l D e G r a z i a
n o n v a s c r i t toDiGrazia;echeilColecchinonvarinforzatocome l'ha
rinforzatoilprof.Ferri,che loscriveCollecchi.Sarebbero minuzie, se non
attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto
chefuilGalluppi,ilDeGrazia,benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel combatterne
le dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione. Ne'discorsi pubblicati
il 1850 ei se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva preso
ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva
l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso
di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale,com'erastatoilcasodelGal
luppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla
svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova generazione.IlDe
Grazia comprende tutti que 37 stisistemisotto un nome
solo,sottoquello difilosofia spe culativa . Traquestisistemiperò,secondolavaria
importanza,al cuni combatte più acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure
del consenso del genere umano del La Mennais,del tradizionalismo del P.
Ventura;delprimo un po'più distesa mente, perchè s'accorda col sistema del
Gioberti nel rifiu tare la testimonianza e l'autorità della coscienza
subbiettiva. Quanto al P. Ventura, poco seguito aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza,nèilDeGraziaglienedàmolta.
Mente severa, educata alle scienze matematiche, il De Grazia la giustizia
sommaria di tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e
la base solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo.
la:nemo accedat,nisigeometra;igiovanettioggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E
non hanno torto,perché ove si tratta di creare enti, o di manifestazioni del
Dio -Cosmo, e di ispirazioni,e di intuiti,o di nuove logiche trascenden
tali,non può esservi luogo pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è
per tutti, come si vede, e non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i
francesi,né i nostrani ;ma vediamo quali obbiezioni particolari muova a
ciascuno ;e basterà ac cennarle,perchè oramai abbiamo abbastanza conosciuto il
suo criterio. « Più dilettevole trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar
per ogni dove un riflesso del d o m m a religioso ; che 38 Contro del La
Mennais nota che la ragione umana collet tivaèun'astrazione,che solo
l'individuo esiste;e quindi il c o n s e n s o u n i v e r s a l e n o n h a a
l t r o v a l o r e , c h e q u e l l o d e g l ' i n dividui, da cui proviene.
Con non dissimulata derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche de'fenomeni
naturali per mezzo del domma. Punzecchiando
ilGioberti,siricordadelGalluppi,cheper
liberarsidaognimolestiasularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni , e
scrive . Le sue celie su la commodità di questi spedienti sono fre quenti;senoncheglisembra
che nègl'intuiti,néleispi razioni , nè gli istinti, nè le idee inerenti allo
spirito , benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano però a surrogarla pie
namente . Se ilDe Grazia tralascia gl'influssi divini, cið avviene perchè il
Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli appunti ch'ei muove al
Gioberti.Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È ecclissato,sirepli
ca,estabene;ma comeunmotivofinitobastaadecclissarlo? Il D e G r a z i a , p e r
q u e s t o i n e s p l i c a b i l e e c c l i s s e , s ' i n s o s p e
t 39 d'altronde doveasi toccare con più rispettoso contegno. Fino n e ' s
e t t e c o l o r i d e l p r i s m a s c o r g e il t e r n a r i o , d a c h
e t r e s o l i secondo l'autore sono iprincipali ». Che cosa avrebbe detto
ilDe Grazia,se avesse letto la Vita di Gesù Cristo dell'abate Fornari ? Il
Gioberti si studia di sostenere col ragionamento la dot
trinaquasiispiratadelLaMennais:ilDeGraziarendegiu stizia al filosofo
italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove.
IlGioberti,perlui,escludeognianalisi delle idee,eper dispensarci dalle minute
inchieste psicologiche, ci accorda l ' i m m e d i a t a v e d u t a d e l l e
i d e e d i v i n e . C e r t a m e n t e , r i p i g l i a il De
Grazia,eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri flesse dal lume divino su le
parole, che attentarsi di rima neggiarle con profana analisi ! « P e r t o g l
i e r s i d a o g n i i m p a c c i o b a s t a o g g i il d i r e : i o s e n
to i corpi esterni,le mie sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero
per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia
: io intuisco il creato,il creatore,el'atto creativo!»
tiscedellaesistenzadell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla
coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè
piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si
passasse alla riflessione. Il p o t e r e d e l l a p a r o l a , d i c e il D
e G r a z i a , è m i s t e r i o s o : n o n circoscrive l'idea,su la quale
non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce la nostra facoltà intellettiva.
Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti cilasciacon una virtù intellettiva in
potenza , e con una riflessione a nude parole. Dove però il De Grazia va più
addentro nel sistema giober tiano,è,a parer mio,nella seguente osservazione.
«Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre taciuto,
concernelapossibilitàdellavisioneinDio.La stessanonè
solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere
può vedere le idee di un altro es sere ». Questa obbiezione del De Grazia
equivale a quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto
dall'intuito giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica
del Rosmini . Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel
Saggio ; ci torna di poi nelle opere posteriori alla morte del Galluppi con più
larghezza. 40 IlDe Grazia continua:vedere le idee in Dio,presuppone
assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono
scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici
e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui
riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con
quella di Sant'Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per
ortodossa. Nel Galluppi il De Grazia aveva combattuto il concettua
l i s m o , a v e v a c o m b a t t u t o l ' a s s e r z i o n e , c h e
le n o s t r e i d e e n o n siano rappresentative.A proposito del Rosmini
ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si fonda su la
subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro ilconcettualismo
adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : « relatio nem
esserem naturae ». O r q u a l d o t t r i n a s e g u e il R o s m i n i ? F o
r s e q u e s t a d e l l ' A q u i
nate,fondatasulpiùschiettorealismo?No;nesegueuna ambigua , e per tal ambiguità
cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso . « L ' e n t e i d e a l e d e
l R o s m i n i , d i c e il D e G r a z i a , è b i f r o n t e ; da un lato
offre l'idea universale di esistenza, dall'altro un ente esistente ».
Basterebbe questa profonda osservazione, per dimostrare diquantaperspicaciafossefornitoilDe
Grazia;ma egliva più in là ancora,ed addita un riscontro, che rivela la forza
della sua critica. « M a , ci si dirà, qui non trattasi di una esistenza sostan
ziale, o di accidenti di una sostanza, bensi di una esistenza ideale, qual può
competere ad una idea.Si,ciò ricorda l'Idea di Hegel , con la differenza che
questa contempla sè stessa, e l'idea universale di esistenza è l'oggetto
contemplato da tutte le intelligenze, differenza che gli hegeliani farebbero
sparire.Quanto allanaturadellaesistenza,l'entedelRosmi ni non è meno lucido e
trasparente, che l'Idea hegeliana, perchè altro non è che l'idea di esistenza,
o la possibilità - 41 - «Sipongaormente,eglidice,cheiduepuntimessia
maggiorrisaltonelnostrolibrosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale
delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi
speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha
felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». 6 42 -
dell'esistenza,come lo stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi
lettori ». « Se quindi si ammette una esistenza attuale e indetermi
nata;attuale e non reale; se si ammette la possibilità dell'e sistenza essere
un'attuale esistenza,si avrà il caso proprio di una identità de'due contrari
«.(Esperimenti della filoso fiaspeculativane’sistemidelsecolocorrente
-Napoli1850-- 29 Rassegna,pag.288). Ho notato in corsivo l'ultima conclusione
del De Grazia, perchè il lettore rifletta su la somiglianza da lui additata tra
l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando lo Spaventa, dopo del De Grazia,e
senza sapere forsedelfilosofocalabrese,lecuiopere,specialmente leul time,erano
rimaste sconosciute,mise in rilievo con più lar g h e z z a q u e l r i s c o n
t r o , la c o s a p a r v e s t r a n a , e ci si v i d e u n o
stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un criterio
preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap
presentanzadellafilosofiaitaliana,levarono lavoce,epro testarono contro il
malvezzo di voler far parere la nostra filosofiaun'imitazione
dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse !il Galluppi kantiano ! Il Rosmini
hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon gliectipi;voi non sapete
che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi, e che voi altri li sfigurate
barbaramente per poterli tramu tare in ectipi. Questa brava gente,veramente
tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco sforzato, da esser apparso
manifesto ad un filosofo, il quale non era punto tenero della filosofia
tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che della smania divoler
costruire la storiaapriori.IlDe Grazia, difatti,aveva a chiare note,e con
grande insistenza,segna latoilkantismonelsistemadelGalluppi;econ menodiffu
sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema delRosmini.Oh!come
dunqueivindici,glistoriografi,i rappresentanti
dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel
nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo alRosmini. IlDe
Grazia,dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente
rosminiano,dopoaverbiasimatoilRosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e
medesima sentenza,di averlo una
voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume
divinomedesimo,eidimostraugualeaccorgimento nelrile vare altri difetti.
L'origine delle nostre idee è doppia,una l'idea dell'ente, l'altra
lapercezionesensitiva;ma ilDe Grazia s'accorge, che la vera sorgente,l'unica
sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che serve il contrarre
l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo immediatamente con una
sensazione ? Il participio sostituito al verbo potrà mai avere ilvalore di
nascondereimoltigiudizî,chesicontengono nellaformola «enteagentesuimieisensi»?
Il participio sostituito al verbo è difatti il ripiego della i d e o l o g i a
r o s m i n i a n a : il D e G r a z i a l ' h a c o l t o a m a r a v i g l i
a . « La percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero ? Se lo
è,siavrà un pensare identico alsentire;
senonloè,siavràunapercezione,allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in
sensualismo, o è nulla pel nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque
non si vede in che diver sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba
concorre re traccia di pensiero : nè molto proficua è la ragione, che il De
Grazia chiama potenza terza e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica
ildato dell'intelletto ai dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma
chimallevaallorala realtà ?Non l'intelletto che ha da fare col possibile ; non
il senso che non può cogliere altro che nostre modificazioni. 43
« La capacità di sentire e la facoltà di percepire sono due potenze così
differenti,che dee tenersi per ugual controsenso l' a t t r i b u i r e l a p e
r c e z i o n e a l l a s e n s i b i l i t à , e l ' a t t r i b u i r l a s e
n sazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce al
senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto del
Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio
ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De
Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione
immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno
di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera
esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe
dirsi apocrifa ! » Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi
niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e
reale. Come impugni il De Grazia le interpetrazioni date dal
RosminialsistemadisanTommasovedremoaltravolta;chè tal ricerca non è
semplicemente storica,e meglio si collega allaesposizione della dottrina del
nostrofilosofo,ilquale altro non pretende di aver fatto,che di aver rinnovata
la filosofia del sommo Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o
frantesa. Venghiamo al giudizio su l'Hegel. Già pel De Grazia tutt'i sistemi
nati in Germania dopo del Kant sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra
gli altri, anzi a capo degli altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa
de'sistemi tede schi, quanto ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pub b
l i c a t o a P a r i g i il 1 8 4 4 . N o n è d a r e c a r m a r a v i g l i
a a d u n q u e , - 44 - Al De Grazia non isfugge nessuno dei tortuosi
giri dell'ideo logia rosminiana. 45 s'ei qui non possa penetrare
sempre addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e
coi nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini
edelGioberti,benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e
profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la
cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non
sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una
esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che
a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così al De
Grazia il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col
non-essere. Par che baleni il sospetto di qualche alterazione al De Grazia
stesso,ma tosto si ripiglia, ed afferma che « si può esser sicuro che le pro
posizioni fondamentali della Logica hegeliana non valgono in tedesco più di
quel che valgano in italiano o in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza
veramente fa un poco a calci col metodo d'osservazione adottato dal nostro
filosofo. Il quale se avesse conosciuto iltedesco, si sarebbe accorto che non
trattavasi nè di movimento,nè molto meno distrofinamento. L'accusaperò,chemuove
allaLogicahegelianadiessere un sistema di rapporti senza termini,è molto più
fondata. SenonchenellaLogica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che
relazioni anch'essi ; ma non è vero però, c h ' e i s i a n o u n m e r o n i e
n t e , e c h e t u t t o il p r o c e s s o h e g e l i a no riesca al
postutto ad un movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è in lui
derivata dal non aver c o m p r e s o b e n e il v a l o r e d e l N i c h t -
s e i n , c h e n o n e g l i s o l t a n t o , m a parecchi si sono incaponiti
ad intendere per un bel nulla. Fisso in questa interpetrazione, ei continua a
biasimare questo modo di far della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni
realtà salda,e solo conveniente a quella fi losofia,che
riduceirapportiapurevedute dellospirito.Qui, 46 . come si può
scorgere,ei non vuol lasciarsi fuggir l'occasio ne di scagliare un'altra
frecciata alla tanto combattuta filo sofia del Galluppi, accennando la
simiglianza che corre tra la soggettività de'rapporti e l'Idealismo
trascendentale ,che poi siassolvettenell'Idealismoassoluto.IlDe Graziaconfino
accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime e non
sospettate conseguenze del suo principio. « Un rapporto ideale senza itermini
sarebbe appreso dalla. nostramente,sesiammettesse lasupposizione,che irap porti
sono pure vedute dello spirito, alle quali nulla corri sponde nelle cose ».
Hegel è agli occhi del De Grazia « un elevato e perspicace p e n s a t o r e »
, m a il s u o s i s t e m a è u n a p e r p e t u a i r o n i a . L a sola
istruzione che se ne possa cavare è quella di capacitarsi della impotenza della
filosofia speculativa a cogliere ed a spiegare la realtà. « Ecco dunque
l'istruzione ch'egli (Hegel) ci dà in forme le più solenni :volete voi passare
dal cerchio delle idee astrat te al mondo reale ? vi è forza porre innanzi
tratto, che il reale è lo stesso che l'ideale ! In altri termini : dalle idee
astratte non si può derivare la realtà; e questa massima può servir di lezione
pe'tentativi,in cui con minori proporzioni, o più propiamente, con meno di
purità speculativa, si voles se maneggiare ilmetodo ontologico ». I due
principii che lo informano sono l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il
sistema hegeliano piglia le prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne
inferisce? Q u e s t o s o l t a n t o , c h e il c o n c e t t u a l i s m o è
f a l s o ; m a l a v e r a f i losofia rimane illesa dai suoi colpi. Il valore
che il De Grazia attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli nol dica
espressamente, di quello che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia
socratica avrebbe svelato le contraddizioni della Sofistica, come l'ironia
hegeliana avreb be tirato le ultime conseguenze del Concettualismo moderno
. H e g e l , s e c o n d o il g i u d i z i o d e l D e G r a z i
a , a d d i t o il r i m e d i o contro le forme subbiettive di Kant ,deducendo
da quelle pre messe , che dunque « i fenomeni del pensiero sono la sola v e
rità assoluta », Tutta la storia della filosofia si spiega,adunque, e siran
noda intorno al problema della conoscenza. Tre domande si possono fare: qual è
lo stato presente della nostra coscienza ? qual è stata la sua origine ? qual è
la sua realtà ? Il criterio con cui il nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è
il s e g u e n t e : « c i ò c h e l a n o s t r a m e n t e v e d e i n u n f
a t t o o è realmente nel fatto, o la nostra veduta è su tal riguardo il
lusoria ». D a u n l a t o a d u n q u e c ' è il r e a l i s m o , a f a v o r
e d e l q u a l e e g l i s i s c h i e r a ; d a l l ' a l t r o l a t o il c
o n c e t t u a l i s m o , c h e p i g l i a d i v e r se forme, finchè non
diventi idealismo assoluto, ossia l'iro nia hegeliana, che mette a nudo le
coperte magagne de'siste mi antecedenti,Benchè
ilibridelDeGraziasianopiuttostopolemiciche dottrinali,pure in essi,e nel Saggio
principalmente,si scor gono le linee di una nuova soluzione del problema
genealo gico delle idee.Il De Grazia fa consistere in questa soluzio ne tutta
la sostanza della filosofia;m a a lui la genealogia non ha
lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse probabilmente
ilnome.IlBorrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi l'Herbert Spencer, studia
la genesi del pensiero sotto l'aspetto fisiologico : il De Grazia si arresta ai
tre fe nomeni primitivi del sentire,del pensare,e del volere,e di quivi
soltanto piglia le mosse . Qual è ora per lui l'immediato,o ilfatto primitivo,
sul quale riposa la filosofia sperimentale ? IlGalluppi aveva risposto :questo
immediato è ilsenti mentodelmeedelfuordime;ilDeGraziarisponde:ilve
roimmediatoèilsentimentodelmesolo. Questa prima discrepanza si può dire la
origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. E
n trambi vogliono partire dalla esperienza immediata, m a i li miti di questa
immediatezza non sono tracciati al modo m e desimo . «Ilmetodo
d'osservazione,dice ilDe Grazia,ciguida a riconoscere,che ilcampo
dellaimmediata percezione di fatti reali è la sola esperienza interna, ove
l'oggetto è in noi , è la nostra esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m
a niere di essere.Gli oggetti esterni non sono esposti alla im m e d i a t a n
o s t r a p e r c e z i o n e , m a n o i li p e r c e p i a m o c o l m e z z
o di più atti mentali ». Questa confusione sembra al nostro filosofo tanto più
ine scusabile nel Galluppi,quanto più questi si era chiarito con trario alla
tesi della sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre egli(ilGal
l u p p i ) c o m b a t t e a v i v a m e n t e il p r i n c i p i o s e n s u
a l i s t a , g i u d i c a r e è s e n t i r e , a b b i a p o i r i t e n u t
o , c h e il s e n t i r e è u n a s p e c i e del pensare ? » Il De Grazia
scorge manifesti gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita
così . «Quandosiammette,chelerealtàesteriorisonodanoi sentite,e che poi
l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non
sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti
distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura pri m i t i v a ; o n
d e t u t t o il c a p i t a l e d e l l a e s p e r i e n z a e s t e r n a è
c o stituito da ciò che sisente,e da que'rapporti,che il nostro spirito ha in
pura sua seduta,ma che non sono nelle cose. Si fatte conseguenze vengono poi
confermate ed ampliate con essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità
interna,cioè 50 All'acume del De Grazia non isfuggi la conseguenza,che
avrebbe portato il principio galluppiano. Se la realtà este
rioreècoltaimmediatamente,dunque ilsentire è lostesso c h e il p e r c e p i r
e ; è l o s t e s s o , c h e il p e n s a r e . G a l l u p p i s e n ' e ra
aperto con molta chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne l'oggetto
sentito,come ilpensare suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era dunque una
specie del pensare :sentire e pensare non erano più due fenomeni primitivi, ed
irredu cibili,come ilDe Grazia sostiene. la conoscenza de'fatti
interni è sensibilità. Vedesi quindi che con questi principî ilsentire non fu
distinto dal pen sare ». Gli estremi , tra cui si studia di librarsi il De
Grazia , son questi due:da una parte quello che raccorcia la portata del la
coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre il convene vole.Chi
dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e
chidice:lacoscienzasiestendeallarealtàesterna,dice u gualmente cosa inesatta
;per difetto, la prima osservazione; per eccesso,la seconda.
IlGalluppiammetteundoppioimmediato,ilme edilnon me;ilDeGrazianeammetteuno,ilmesolo:dondeproviene
siffatto divario ? Eccolo ,con le parole stesse del De Grazia, le quali
compendiano e chiariscono la dottrina galluppiana. « Il dir che partendo dalle
nostre modificazioni sensibili, noi veniam per via di giudizî acquistando la
conoscenza del m o n d o e s t e r i o r e , v a l q u a n t o il d i r c h e l
o s p i r i t o u m a n o c o n i s u o i p r o p r i i e l e m e n t i c o m p
o n e il m o n d o . L a f i l o s o f i a s p e r i mentale di Francia su
questo punto va a coincidere con l'I dealismo di Kant ». E perchè? Perchè il
Galluppi non si affidava ai giudizî per coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo
lui,erano pure v e d u t e dello spirito ; d i m o d o c h é , se il m o n d o
n o n ci fosse a p parso dal bel principio così,come oggi lo apprendiamo , quel
lo costruito di poi sarebbe stato una mera relazione del n o stro spirito,a cui
nulla sarebbe corrisposto di reale nella natura.Diffidente della sincerità
de'nostri mezzi di conosce re,ilGalluppiquindiappigliossialpartito delReid,edam
mise l'immediatezza della sensazione,confondendola con la percezione
esterna. 51 « Si è quindi detto,osserva il De Grazia,che nel fatto io s e
n t o n o n è c o n t e n u t o il p r o p r i o e s s e r e , e si è t e r m i
n a t o d ' a l tra parte con dire che nel fatto io sento si contiene l'essere
straniero,ilnonio». 52 IlDe
Graziaritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti come reali,e quindi non
alla sensazione,ma ad un pro cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi
venuti abituali ed indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello
stato presente le troviamo nella nostra coscienza . Esclusa dal De Grazia
l'immediatezza della sensazione, non per questo ei mena buoni que'sillogismi,
iquali si cre devano più spedito passaggio dalle nostre sensazioni alm o n do
esterno. Il De Grazia nota che il modello di questi ragionamenti ri sale fino
al nostro Campanella , il quale lo formolò così: Sia
monoichemutiamo:dunquesentiamosolonoistessi,enon giàlecose.Noisentiamo
lecoseesterne,soloperchécisen tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal
tracosacimuta. Questo sillogismo , che , variamente rimaneggiato , è r i m a
sto in sostanza il gran ponte di passaggio dal mondo interno
all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro fi losofo.Le
lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente colmare.Anzitutto :chi vi
dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la volontà ? L'associazione
delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed intanto è mutazio nenostra.Epoi,poniamochelamutazioneviadditialcun
c h è d i e s t e r n o , c h i v i g a r a n t i s c e c h e il p r i n c i p
i o e s t e r n o s i a un corpo ? A
taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim potente a discoprire un fatto
:esso è utile soltanto a disco prire verità di ragione. Tolta l'immediatezza
della sensazione,tolto il sillogismo, il D e G r a z i a t o r n a a l l e r a
p p r e s e n t a z i o n i , c o m e i m m a g i n i d e l le cose esterne,ed
alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle immagini,va legittimando la
realtà delle immagini complesse,che l'associazione ha spontaneamente ed abitual
mente formate.Non sarà una dimostrazione necessaria,ma nelle verità
di fatto non si dà mai l'assoluta impossibilità dell'opposto,e bisogna
contentarsi della certezza morale. L'associazione collega insieme le immagini
visive e le tat tili:igiudizîabitualicolgonoirapportiqualirealmente e sistono
;noi adunque venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con
vedute subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa
è stata pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa.
Nell'ultima opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia
ortodossa,ilnostro filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le
parti fondamentali della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi
arrecato, supplendo a quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to
mistica.IlDeGrazianoneraabbastanzaversato nella filo s o f i a a r i s t o t e
l i c a , d a a c c o r g e r s i c h e il m e g l i o d i q u e l l a , c h e
ei battezzava per dottrina ortodossa,era mutuato da Aristo tele.Vediamo intanto
quali principii ei ne accoglie,e ne te soreggia. Primieramente il De Grazia
avverte la differenza che l’A quinate mette tra isensibili proprî,ed
icomuni;differenza, che noi sappiamo appartenere ad Aristotele. Con molto acume
l’Aquinate aveva avvertito di fatti che isensibili proprî sono qualità,come
odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e che isensibili comuni,invece,sono quanti
tà o estensiva,o intensiva,o discreta,come figure,distan ze,movimenti,
successione :« sensibilia propria ... sunt qualitates : sensibilia communia
omnia reducuntur ad quantitatem ». Finalmente cita la sentenza che accenna alla
formazione delleimmagini corporee,echeattribuisceallospirito,enon 53
Dipoi ricorda la dottrina sui rapporti,che San Tommaso
hariconosciutocomereali,comeresnaturae,enongiàco me res rationis.
giàaicorpi.«Imaginemcorporisnoncorpus inspiritu, sed ipse spiritus in
seipso facit ». Alla quale ultima sentenza ilDe Grazia aggiunge questa
avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare l'equivoco del le forme
soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de perseveranza
combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi esterni, l'idea del
corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione del Galluppi, m a in
questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi :tutti idati sono
reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione
dell'Aquinate,che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona
così :dat (anima) eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque
aveva tracciato le prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui ilDe
Grazia si dà per continuatore: i due filosofi cadono d'accordo sui seguenti ri
sultati : 1o che nel senso non v'è altro che il cangiamento del
senso;2ocheleimmaginide'corpi sivan componendo con elementi
nostri;3ochenoigiudichiamo,essere icorpi simili a quelle immagini. S e n o n c
h e S a n T o m m a s o s ' e r a f e r m a t o q u i : il D e G r a zia ha
domandato inoltre:con quali operazioni si son for mate quelle immagini ? Con
qual criterio le giudichiamo si mili ai corpi esterni ? E alla prima domanda ha
risposto : le operazioni sono i giudizî accoppiati alle
sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le immagini tattili:
giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla
seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione 54 « Quanto però
egli(San Tommaso )enuncia,non lascia dub bio, che nella formazione delle
immagini de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri elementi,che
que'del senso e della imaginazione ». Quando , difatti, io applico
ai fenomeni della estensione le verità della geometria,e l'applicazione
riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge tutta la forza
della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo di logica
dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme. « Se
l'estensione corporea,dice ilDe Grazia,è reale, la troverò costantemente
conforme alle leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà
presentare nelle vo lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer
mativa v'è la necessità assoluta di trovarsi avverate le ve
ritàmatematiche,come sihanell'esperienza:nellaipotesi negativa,l'evento che ne
dà l'esperienza, è uno degli in finiti eventi possibili. Questo cenno può far
presentire, a qual grado si eleva la pruova induttiva del Leibniz,riguar
dandola dal solo lato delle verità matematiche. Esposta in questi termini la
mente del nostro filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti
tra la sua dottrina,e quella del Galluppi. Il Galluppi aveva pareggiata la
sperienza interna con l'e sterna,e quindi ammessa una doppia relazione colta
imme diatamente, quella tra sostanza e modificazione, e l'altra tra
causaedeffetto.IlDeGrazia,invece,distingueleidee pri 55 - si fa non per
la immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per via
d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz,ediD'Alembert,idue
filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione
apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere
causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap
porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma
aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di
quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo
e corpo ! mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che sono
ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto
nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna.
« Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di
numero, di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le
idee derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del
possibile;e non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per
essersi supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro
dell'intelletto ». L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio
essere:delle modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è
la sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non
sarebbe nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe u n m e z
z o t r a l' e s s e r e e d il n o n e s s e r e ; il c h e è a s s u r d o
. 56 Cosi dice egli parlando delle forme kantiane,e l'appun to si può
volgere pure al Galluppi,che alla sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo
visto, la medesima origine. Pel De Grazia la coscienza è l'lo sento,e in questo
fatto permanente della propria esistenza lo spirito apprende la sostanza, come
la modificazione nelle sensazioni in cui si senteesistere.Ilmododiesisterenon
sipuòdispiccaredal laesistenza,edilDeGraziachiama una rivoluzione filoso fica
quella avvenuta in occasione dello scetticismo di Hume , quando si cominciò ad
affermare che nel fatto di coscienza v'èilsolomodo diessere,enon
giàl'essere.D'allorain poi si cercò di supplire a questo difetto supposto per
via di aggiunzioni provenienti da altresorgenti:così ilRosmini suppose che al
fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea dell'essere.Pel De Grazia
ilfatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e l'altro; se non che a
cogliere questo rapporto non è attalasensazione,siveramente ilgiudizio.
Senza avere sperimentato il fatto del passaggio da una modificazione ad
un'altra,noi non avremmo potuto affer marlo : dopo la sperienza però,noi
essendo in un dato m o do pensiamo la tendenza di passare ad un altro; e
cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no di costante
gli stati successivi della sostanza. Nella originedell'idea di causa noi
abbiamo bisogno di al tri dati. a Non siavverte,diceilnostro autore,chelacausa
che produce le sensazioni è quella che mette in esercizio la sen
sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi pensare,ma
èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce ivoleri non
è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi ricorda ora
che a queste tre classi di fenomeni ri duce
eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te
cheperluiselacoscienzaporgeilmodellodellasostan za,non
èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono più sostanze, di cui una
determina l'altra. Nella sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata
dallostatoanteriore;nellacausaessamutazione èdeter minata e dallo stato
anteriore e dalla mutua azione. Il De Grazia riassume la sua dottrina su queste
due idee capitali nel seguente modo . « La
sostanzapersistenellasuaimmutabilenaturaal can giar delle modificazioni.
Nell'ordine naturale nè possono prodursi nuove sostanze, nè
leattualiannientarsi. I cangiamenti di una sostanza sono cosi connessi tra lo
ro,cheinogniistanteilsuostatoèdeterminatodalsuosta to antecedente,cioè nel
corso de'suoi cangiamenti ha per modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim
mediato vaseguendo,equestatendenzaèquelchenoico - 57 8
nosciamo della forza interna di una sostanza.La diversa na tura di queste
forze ci viene manifestata dalla esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della
sostanza.Così distinguia mo levarieforzeinternediunasostanza,elevarieforzein
terne delle diverse sostanze ». « Una sostanza, che trovasi in uno stato
permanente non può da sè stessa,cioè per propria forza,passare ad altro stato
». «Oltrelaconnessionetraicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una
connessione tra i cangiamenti di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le
medesime ». « Tutti gli avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e
l'azzardo non è che l'incontro di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo
incontro medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie
de'cangiamenti anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che
s'incon trano ». Ecco la somma della sua dottrina,la quale,intorno alla
causalità specialmente, è la traduzione filosofica delle leggi delmoto
diNewton.Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a ragione, non sarebbero vere leggi
degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi della mutua azione. Locke
intanto aveva negato l'idea di sostanza, Hume la connessione richiesta dalla
mutua azione nella causalita ; entrambi per lo stesso motivo,che noi cioè non
conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa.Pare al nostro au
torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime ma:noinonabbiamoideaadeguata
diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le ricerche,dalle quali Hume era stato
indotto a questa conclusione ,la quale troncava i nervi ad ogni attività scien
tifica, si possono brevemente esporre così.L'esperienza non dàconnessione,ma
semplicecongiunzione:ilragionamento non dà idee nuove :l'abitudine non cangia
la natura della 58 prinda percezione,come una serie di zeri è
impotente a co stituire una quantità. Con
lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu dichiamo
appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione noi rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La
spe rienza esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma con tal costanza,che noi
ci avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto:noi
induciamo,che questa congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacon t r a r i
a s u p p o s i z i o n e , ei r i s p o n d e , i m p l i c a l ' a s s u r d
o , c h e d u e sostanze con le stesse modificazioni sono condizionate ad e
sercitare una mutua azione in un tempo più tosto che in altro;in un luogo più
tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte quelle funzioni del pensiero,che
isolate non sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau
sale,intrecciateabilmente insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse
diHume,lasciate correre senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a
priori ; evitando con questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri
aveva inferito,che ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma
analiticoadirittura, come trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia
riconosce che nella idea dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua
causa ; dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma
crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì
a tal principio.Giovaesaminarequest'ultimo aspetto della que stione .
.-59 11DeGraziareplicò:altroèilnonavereunaideaadegua
ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a verne la menoma idea.Vero è
inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè l'abitudine bastano da soli,ma
intrecciati insieme forsebasteranno:epoisièlasciatafuordiconto l'in
duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed eccocome. Kant aveva
attribuito al principio di causalità un'origine
apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore ogget t i v o : il D e G r a z i
a i n t e r p e t r a o g g e t t i v o n e l s e n s o d e l l a f i l o s o
fiasperimentale,ed affibbiaalKant una contraddizione,che proviene da una poco
esatta cognizione della Critica della Ragion pura.
«Daunapartesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a priori hanno un
valore oggettivo nella na tura ... Dall'altra parte si sostiene che la
causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi alla
nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a era
semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o quella
coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in universale,in
ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo questa
significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive appunto cosi:
« N u n heisst « verknüpft sein in reinen Bewusstsein » soviel als « obiectiv
verknüpft sein ». Ma di tali inesattezze fu causa non la poca penetrazione
dellamente,sil'averluiignoratolalingua tedesca;ilche lo costrinse a servirsi di
poco sicure traduzioni. N e l l ' e s a m e d e l m o d o , c o m e il D e G r
a z i a s p i e g a l ' o r i g i n e dell'idea disostanza,equella dicausa,noi
abbiamo indi cato tutto quanto il suo processo analitico nella genealo gia del
pensiero,perchè la prima idea è primitiva, la se conda derivativa. Pure di
altre principali toccheremo un cenno per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo
testual mente la formola del suo metodo. « Pura osservazione di fatto nelle
idee primitive;pura os servazione di concetti astratti nelle idee derivative
;ecco i due cardini del presente Saggio. La natura oggettiva delle idee di
rapporto , e i giudizî parte integrante di alcune idee . . . 60
-61 sono ledue vedute primordialinellaquistionedellaorigine e realtà delle
nostre conoscenze ». Con questo criterio ora ilnostro filosofo si fa ad esami
nare ilfatto,ediquivi pervia diastrazione,ossiapervia del giudizio,attinge ogni
nostra idea. Percepire ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è possibile, come
percepireilnecessariovalgiudicareciòch'èneces s-ario,e percepire ilgeneraleval
giudicare ciò ch'è gene r ale ». È una falsa opinione il credere che la
necessità,la pos sibilità,launiversalità,come altresì laidentità,ladiversi t à
non siano contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti : il giudizio
non aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più. «
Il nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità,con
cuisioffronoleideeallanostra percezio ne:eccoquantodevesisolamentediredalfilosofo».
L'infinito non è pel nostro autore,se non la quantità in finita, e la origine
di questa idea è anch'essa dovuta alla e sperienza. « Partendo dal
principio,che ilpositivo dee precedere il negativo nell'ordine genealogico,
abbiamo conchiuso,la quantità che ha limiti dover precedere la quantità che non
ha limiti;ilfinito dover precedere l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco
ènelcredere,che una quantitàinfinita non ènegativa». Che
sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere in se tutte le finite, è da osservare
altresì ch'essa le comprende non come negazione,ma come quantità:lanegazione
siri ferisce al limite. Tra quelli che San Tommaso chiamava sensibili comuni
c'erano l'estensione e lasuccessione,rapporti quantitati vi,mentre
isensibiliproprîeranoqualità.Oralavorando
Piùcomplicataèlagenesidelleideedispazioeditempo. 62 sopra questi
due dati,vale a dire considerando come as soluta la posizione de'punti nella
estensione,e degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio,
nel se condo iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p
a zio :in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di
successione non è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il
valore assoluto de'suoi istanti ». Che cosa vuol dire questo valore assoluto ?
Ecco:l'estensione consiste nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua
natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma
a tutt'i punti assegnabili,siavrànonpiùunadataestensione,ma lo spa
zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un
istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a
tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite
della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita.
Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono ?
IlDeGraziachelichiamasensibilicomuni,ritenendo la nomenclatura tomistica nel
Prospetto della filosofia o r t o dossa,nel Saggio ne attribuisce l'origine non
alla sensibi lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina k a n tiana
delle forme pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e
successione senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come
diverse, o meidentiche;sicchènumero,diversità,identitàsono con dizioni
dell'apprensione di questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e
successione.Kant che le attribuiva alla sensibilità non si accorgeva del
concorso indispensa bile dell'intelletto che vi si richiedeva ;ed anzi si
contrad CO diceva ammettendo, che la materia sensibile prende
un pri mo ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e
la moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa contraddizione
era stata avvertita dal Borrelli pri ma
delGrazia,eforsequestil'hamutuatadall'autoredella
Genealogiadelpensiero.Kant,aveva dettoilBorrelli,tie ne
percategoriedell'intellettoladiversitàelamoltiplicità: e d intanto ammette una
varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità: come va ciò ? Nè il
Borrelli, né il De Grazia s'accorsero però che il divario tra categoria, ed
intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma nel
diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di giudicare
nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi discoprire
lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i costui
sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni spiegazio n
e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è
nonperprodurre,maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa
disposizione d'animo gliando a
sanguelafilosofiadell'Aquinate,che,foggiatasul'ari stotelica, gli parve
battesse la stessa via.Ripetendo l'an tico
adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia,l'Aquinate procede
difatti di astrazione in astrazione,ma senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che
cosaèilfantasma?Similitudinedellacosaparticolare:Si militudo reiparticularis.Checosaèl'attodell'intendere?
È laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna ad astrarre
dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che
cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso lu me
divino,sulqualetantoavevadisputatoilRosmini,seera Dio stesso,ounsuoriflesso?PelDeGrazianonèaltro,se
63 1 64 non l'effetto della attenzione, che vi si presta. Il
giudicare era a lui un fatto irreducibile,da non confondere con la s e n s a z
i o n e ,m a i n s i e m e e r a u n p u r o m e z z o d i o s s e r v a z i o
n e . O s s e r vare adunque è la parola che compendia tutta la sua filosofia .
Per questo verso la filosofia del De Grazia è più moderna di quella del
Galluppi, e rasenta assai da presso il Positivis mo
contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di filosofia positiva
dettato da Augusto Comte fu p u b b l i c a t o i n F r a n c i a d a l 1 8 3 0
a l 1 8 4 2 : il D e G r a z i a a v r e b bepotuto averne
notizia,matuttoinduce acredere,ch'ei non
l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte
era stata avvezza alle scien zeesatte,elapocapropensione per lespiegazioni
trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. Il De Grazia al
pari de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una
mera riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi
appli care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e
rimentali,e da qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la
scarsa che attribuisce al sillogismo . Se non che all'osservazione
immediata ei seppe accoppia re l'induzione,ch'è l'osservazione mediata.Della
induzio ne ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli
ceradunamento de'fattiosservati,ma ne estese la portata oltre ai limiti della
sperienza.In questo allargamento però essa non genera nell'animo quella
evidenza, che scintilla soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità
di r a gione;ma una certezza morale,laquale ammette la possibi
litàdell'opposto.Tutte lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello
stato, ch'è pure tanto discosto dal d u b biotormentosolasciatoinereditàdạHume,ilqualedisco
nobbe l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze,le quali si
potrebbero cre dere imitate da Augusto Comte. « Il metodo è il
ridurre i fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più
generali fino ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione
viene operata a lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate osservazioni
dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli incessanti rigo rosi
tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu tamente irreducibile alle
note forze primarie delle sostanze corporee,note però negli effetti, e per noi
sempre ignote nella loro essenza ». « I nostri mezzi sono impotenti a scovrir
la natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la nostra ragione nella
scienza della natura è riposto nel classificare i fatti speri mentali con
andarrisalendoda’fattiindividualia'generali, e da questi a'più generali fino a
raggiungere ifatti primiti vi,ov'èforzal'arrestarsi». Ma
allatoaquestesomiglianzetroviamonelDeGraziadei tratti, che lo differenziano dal
fondatore del Positivismo francese;ne addito due come principali. Il Comte trascura
affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema rimane pel De
Grazia ilprimo ed il capitale. Il Comte attribuisce alla metafisica un valore
storico sol t a n t o , il D e G r a z i a è p e r s u a s o c h e l a m e t a
f i s i c a p o s s a r i m a nere accanto alla scienza
sperimentale.Così,sebbene dichia ri
inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non
esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità,
l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo
metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in
lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che
il tomismo stesso a lui or balena 9 65 - va come riflesso
dalla filosofia aristotelica,or come lume r a g giante
dallarivelazionedivina;edellaortodossia del cre dente si faceva schermo a
nascondere gli ardimenti del si losofo .
Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce
da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato :
eccone u n o per esempio. « Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto p r
o trattiinostrigiorni,finoall'istantedirassicurarciche il nostro
comunquedebolelavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate
odiose imputazioni ». Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità
diSanTommaso periscagionarsidellatacciad'incredulita. L o s t u d i o d i S a n
T o m m a s o , e d il P r o s p e t t o d e l l a f i l o s o f i a ortodossa
che ne fu ilrisultato,ebbero adunque per fine ladifesa della
propriadottrina.Meglio forse avrebbe fatto a dispregiare ilvano cicaleccio
delvolgo,che di ogni ri cercafilosoficas'adombraes'insospettisce;ma l'indoledel
nostro filosofo era dimessa e circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto
l'egida di un dottore di santa Chiesa; come se u n
altrettalespedientefossegiovato alRosmini edalGioberti. Senza il bisogno di
questa apologia della sua dottrina a vrebbe potuto por mano a quella Filosofia
del pensiero, a cui accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi a
stampa,ilsuo sistema rimane appena delineato nel prin
cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni allaEstetica,oal l'Etica si trova più di un
semplice accenno : la Logica stessa n o n v i è d i s t e s a p i e n a m e n t
e , s e b b e n e t u t t o i'l S a g g i o n o n s i occupi di altro che di
Logica. Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per
lui sarebbero state la logica,l'etica,l'estetica, perchè itre fenomeni
irreducibili del pensiero sono ilgiudi care,ilvolere,ilsentire.Ilsillogismo
ègiudizio pure;ma 66 un giudizio fondato sopra idee astratte,
mentre il giudizio primitivo è la osservazione immediata della realtà concreta
. Il sillogismo è applicabile alle sole verità di ragione. La prova induttivá
si adopera a slargare la cerchia della sperienza immediata :essa però
presuppone la realtà delle idee di
numero,identità,diversità,sostanza,modificazione, necessità,possibilità.Queste
idee non si possono ricavare per induzione, altrimenti ci sarebbe un
circolo:sono ricava te per astrazione dalla osservazione immediata fatta per m
e z zo del giudizio. L'associazione è la sorgente spontanea,ma illegittima del
le nostre idee : l'induzione dipoi legittima, confermandole , quelle
relazioni,che l'associazione delleidee aveva per ipo tesi anticipato. E c c o a
d u n q u e d e l i n e a t o il c o m p i t o d e l l a l o g i c a : a n a l
i s i d e l senso comune ,e giustificazione delle credenze spontanee che quello
contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa sappiamo,ch'egli,a differenza di
El v e z i o , il q u a l e d à p e r o r i g i n a r i o il s o l o d e s i d
e r i o d e l p r o p r i o utile,ammette appetiti disinteressati
originalmente,non cre dendo che l'abitudine potrebbe andare fino al punto di
snatu rare laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale
de motivi disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra
appetiti primitivameute tali. AnchequiadunqueavrebbeilDeGraziaadottatolostesso
procedimento della conoscenza :lo spirito avrebbe legittima to
conlaragioneciòchelanaturaspontaneamenteavessein 1 67 Prima la mente
crede,perchè non ragiona ancora ;poi crede,perché laragione ha legittimato
lasuacredenza.Fin chè il dubbio non l'assale,la mente riposa sicura sui nessi
stretti spontaneamente dalla associazione naturale delle sue idee:quando
ildubbio sottentra,la induzione ne la libera, giustificando la spontanea
credenza . origineoperato.Senon che,eglisenerimetteaquella Filo
sofiadelpensiero,chepoiononscrisse,ononarrivòsino a noi. M e n o p r e c i s o
è il d i s e g n o , d e l q u a l e si s a r e b b e d o v u t o t o c c a r e
d e l l a E s t e t i c a . N o i s a p p i a m o s o l o , c h e il B e l l o
è p e r l u i «l'oggetto della percezione,quando ci riesce piacevole il
contemplarlo ». M a ,oltre a questo effetto prodotto dalla bel lezza nello
spirito contemplatore,invano si cercherebbero altri schiarimenti . Nei
voluminosi libri che scrisse avrebbe il De Grazia po tuto colorire intero il
disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato troppo in polemiche ed
in apologie,soventi superflue, e se avesse usato maggior parsimonia nello
stile, ch'èdiffuso,stemperato,eridondante d'interminabiliripe tizioni. I sei
volumi si sarebbero potuti restringere in un so lo,o in un paio al più,senza
nessun danno per le idee che viesprime;eforseconquestoguadagnodippiù,diaverpo
tuto trovare maggior numero di lettori. Dobbiamo in questa occasione
ricordare,che il sensua lismo era la dottrina favorita de'giovani italiani,
pria di comparire il Saggio su la critica della conoscenza,ilche av venne nel
1819;e che in parte con la forza del ragionamen
to,einparteconquellaautoritàcheilnostroGalluppi ven ne mano mano acquistando pel
valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti
giovanili,ed avviarle a'sani principi della morale e della religione.Quindi le
sue istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del
Saggio,furono adottate per quasi tutte le scuole d'inse gnamento in Italia.Un
tal positivo giovamento recato alla 68 Il De Grazia combatté la filosofia
del Galluppi, finché que sti viveva e professava nella Università napoletana :
la c o m battè perchè la credette sbagliata e perniziosa. Morto che fu ilsuo
grande avversario,ei,pur rimanendo saldo nella sua sentenza , scrisse di lui
queste parole . sua patria è la gloria maggiore cui aspirar mai si
possa da un filosofo». C o s ì il D e G r a z i a g i u d i c a v a il G a l l u
p p i m o r t o n e l P r o s p e t to di filosofia ortodossa ; ed il giudizio
ci rivela il carattere integro,leale,generoso di chi lo portava.Combattendo le
dottrine di un avversario,ei rispetto,ei lodò le intenzioni ; ei non disconobbe
l'utilità che aveva arrecato al suo paese . Talvolta anzi ei par che non
agogni,che non cerchi altra gloria, che quella conseguita dal suo valoroso
avversario: dispera quasi di conseguirla vivo,pur se l'augura dopo m o r to,non
tanto per sè,quanto a pro della sua patria. «Esenonpuògodernechil'hameritata,purquestatar
dagloriasiriflettesulasuapatria,servedisprone a'suoi concittadini sopra
tutto,nella faticosa carriera letteraria, e riesce di nobile compiacenza per
tutti gli spiriti fatti per a m mirare,per amar lavirtù ». Chi scriveva queste
magnanime parole ebbe certamente un
cuorenonminoredellamente,elatardagloriadaluiinvo cata è un tributo ben meritato
da chi non stimolato da biso gno,nonallettatodapremio,passòlavita,non fragliagi
ereditati,manellafaticosapalestradellostudio,dove s'in vecchia e simuore anzi
tempo,ma dove siha almeno ildrit todicredereche,morendo,nonsimuoredeltutto.Vincenzo
Di Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Grazia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689392211/in/photolist-2mRigWB-2mR7Xaf-2mQCyu5-2mQwYd8-2mPGkBm-2mPsU62-2mPvn8a-2mPmmR4-2mNzeEc-2mN8Hgb-2mLGvyP-2mLQxu7-2mPrdWj-2mLExs3-2mPtp3t-2mKS7Wc-2mKBDtr-2mKG3XG-2mPpVqK-2mKCnei-2mKEPgR-2mKjsJY-2mJ3q6x-2mGnP2f-nUmNhz-hSTpSd-nW9LZ2
Grice e
Gregory – implicature clandestine – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo. Fellow of the British
Academy. Grice: “I like Gregory; being a Roman, he studied Roman philosophy in
one of the most interesting epochs: the thirties! Then he explored what he
calls the ‘lessico filosofico,’ which Austin detested – “Why do we need the
philosopheer’s ‘volition’ when we have ‘would’??” Si laurea a Roma con Nardi. Insegna
a Roma. Direttore di Ricerche storico-filosofiche. Direttore della sezione di
Storia della filosofia Lessico Italiano. Diresse la collana "I filosofi.” Saggi:“Anima
mundi” (Firenze, Sansoni); “Platonismo” (Roma); “Scetticismo ed empirismo”
(Bari, Laterza); “L'idea di natura”, “La filosofia della natura (Passo della Mendola, Firenze, Sansoni); “L’atomismo”,
“Aristotelismo” “Il genio maligno”; “Il demonio maligno”; “Mundana sapiential”;
“Theophrastus redivivus”; “Erudizione e ateismo” (Napoli, Morano); “Il
libertinismo”; “La filosofia clandestina” (Firenze, La Nuova Italia), “L’Etica
della critica libertina” (Napoli, Guida); “Forme di conoscenza” (Roma, EStoria
e Letteratura); “Lo spazio come geografia del sacro” Della sobria ebbrezza”;
“La terminologia filosofica” (Firenze, Olschki); “Speculum natural” (Roma,
Storia e Letteratura); “Principe di questo mondo”; “Il diavolo” (Roma, Laterza);
“Della modernità, Pisa, Torre); “Vie della modernità” (Firenze, Monnier
Università). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A.
ALIOTTA, A. CAPITINI, P. CARABELLESE ETC., Il problema di Dio, a cura di G.
Savio e Tullio Gregory, Roma, Universale di Roma, Raccolta di un ciclo di
conferenze promosse dal Centro Romano Studi presso l’Università degli Studi di
Roma nell’A.A. BRUNO NARDI, Storia della filosofia. Il naturalismo del
Rinascimento, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni Universitarie, 1949, 191
pp. 2 Bibliografia di Tullio Gregory – 1951 torna su 1951 esci 3.
BRUNO NARDI, La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, a cura di Tullio
Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 95 pp. 4. BRUNO NARDI, Il problema di Dio
nella filosofia medioevale, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica,
1951, 88 pp. 5. Sull’attribuzione a Guglielmo di Conches di un rimaneggiamento
della “Philosophia mundi”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III,
XXX, 1951, pp. 119-125. 6. L’Anima mundi nella filosofia del XII secolo,
«Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp.
494-508. 3 Bibliografia di Tullio Gregory – 1952
torna su 1952 esci 7. BRUNO NARDI, Le meditazioni di Cartesio, a cura di Tullio
Gregory, Roma, La Goliardica, 1952, 51 pp. 8. L’idea della natura nella Scuola
di Chartres, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXI, 1952,
pp. 433-442. 9. Cattolicesimo e storicismo. La polemica sulla «nuova teologia»,
«Rassegna di filosofia», I, 1952, pp. 49-66. 10. Gli studi italiani sul
pensiero del Rinascimento, I. La polemica sul Rinascimento, «Rassegna di
filosofia», I, BRUNO NARDI, Il dualismo cartesiano, a cura di Tullio Gregory,
Roma, La Goliardica, 1953, 48 pp. 12. Note sul platonismo della Scuola di
Chartres. La dottrina delle specie native, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. III, XXXII, 1953, pp. 358-362. Diventa, corretto e aumentato, il
quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi
Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18) e
Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23). 13. Gli studi
italiani sul pensiero del Rinascimento, II. Platonismo e Aristotelismo,
«Rassegna di filosofia», BRUNO NARDI, La filosofia di Dante, a cura di Tullio
Gregory, Roma, La Goliardica, 1954. La pubblicazione è in due volumi, il primo
di 111 pp. e il secondo di 109 pp. 15. L’escatologia cristiana
nell’Aristotelismo latino del XIII secolo, «Ricerche di storia religiosa», I,
1954, pp. 108-119. 6 Bibliografia di Tullio Gregory – 1955
torna su 1955 esci 16. “Anima mundi”. La filosofia di Guglielmo di Conches e la
Scuola di Chartres, Firenze, Sansoni, 1955,·(«Pubblicazioni dell'Istituto di
filosofia dell'Università di Roma», 3), 294 pp. Indice del volume: I. La vita e
le opere di Guglielmo di Conches, p. 1; II. La teologia, p. 41; III. L’anima
del mondo e l’anima individuale, p. 123; IV. L’idea di natura, p. 175; V. Gli ideali
culturali della Scuola di Chartres, p. 247; Indice dei manoscritti, p. 281;
Indice dei nomi, p. 285. 17. L’Apologia e le “Declarationes” di Francesco
Patrizi, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, I, Firenze,
Sansoni, 1955, pp. 385-424. 18. Note e testi per la storia del platonismo
medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIV, 1955,
pp. 346-384. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo
medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note sul platonismo della
Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Nuove note sul platonismo
medievaleIl maestro interiore nel pensiero di S. Agostino, in BRUNO NARDI, Il
pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine-
Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia»), pp. 3-19. Si veda anche
il 1965, n. 44. 20. Il «De magistro» di S. Tommaso d’Aquino, in BRUNO NARDI, Il
pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine-
Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 183-201. Si veda
anche il 1965, n. 44. 21. La «reductio artium» da Cassiodoro a S. Bonaventura,
in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze,
Edizioni Giuntine-Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp.
279-301. 22. Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani,
a cura di Antonio Viscardi, Bruno e Tilde Nardi, Giuseppe Vidossi, Felice
Arese, con la collaborazione di Gian Luigi Barni, Luigi Brusotti, Don Giuseppe
De Luca, Tullio Gregory, Luigi Ronga, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956 («La
letteratura italiana. Storia e testi», I), LXXI-1237 pp. I capitoli in cui
Tullio Gregory ha curato la nota introduttiva e/o le traduzioni sono: Dalla
epistola ad Drogonem philosophum (traduzione), pp. 362-365; Lanfranco da Pavia
(nota introduttiva e traduzioni), pp. 420-434; Sant’Anselmo di Aosta (nota
introduttiva e traduzioni), pp. 435-470; Gioacchino da Fiore (nota
introduttiva), pp. 723-725. Il volume è stato successivamente ristampato da
Einaudi (si veda 1977, n. 76 e n. 77). 8 Bibliografia
di Tullio Gregory – 1957 torna su 1957 esci 23. Nuove note sul platonismo
medievale. Dall’anima mundi all’idea di natura, «Giornale critico della
filosofia italiana», s. III, XXXVI, 1957, pp. 37-55. Diventa, corretto e
aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24)
insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n.
12) e Note e testi per la storia del platonismo medievale Platonismo medievale.
Studi e ricerche, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1958
(«Studi storici dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 26/27), 159
pp. Indice del volume: I. Il commento a Boezio di Adalboldo di Utrecht, p. 1;
II. L’Opusculum contra Wolfelmum e la polemica antiplatonica di Manegoldo di
Lautenbach, p. 17; III. La dottrina del peccato originale e il realismo
platonico: Odone di Tournai, p. 31; IV. Il Timeo e i problemi del platonismo
medievale, p. 53; Indice dei manoscritti, p. 153; Indice dei nomi, p. 155. Per
la traduzione tedesca del secondo capitolo si veda 1969, n. 58. Nel quarto
capitolo sono raccolti, corretti e aumentati, i saggi Note sul platonismo della
Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12); Note e testi per la storia del
platonismo medievale (si veda 1955, n. 18); Nuove note sul platonismo medievale
(si veda 1957, n. 23), tutti pubblicati sul «Giornale critico della filosofia
italiana». 25. Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena, «Giornale critico
della filosofia italiana», s. III, XXXVII, 1958, pp. 319-332. Con revisioni e
aggiunte è diventato il primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi La
polemica antimetafisica di Gassendi. I, «Rivista critica di storia della
filosofia», XIV, 1959, pp. 131-161. Per la seconda parte si veda 1959, n. 27.
27. La polemica antimetafisica di Gassendi. II, «Rivista critica di storia
della filosofia», XIV, 1959, pp. 243-282. Per la prima parte si veda 1959, n.
26. Entrambi i contributi sono stati stampati, con numerazione continua, in un
estratto unico: Tullio Gregory, La polemica antimetafisica di Gassendi,
Firenze, La Nuova Italia Editrice, Mediazione e incarnazione nella filosofia
dell’Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIX,
1960, pp. 237-252. Con modificazioni e aggiunte è diventato il secondo capitolo
di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi Scetticismo ed empirismo. Studio su
Gassendi, Bari, Laterza, 1961 («Biblioteca di Cultura Moderna», 557), 254 pp.
Indice del volume: I. La polemica antimetafisica, p. 5; II. Scetticismo ed
empirismo, p. 119; III. Empirismo e metafisica, p. 179. 30. L’opera di Bruno
Nardi, «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», II, 1961, pp. 31-52. 31.
Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, «Giornale critico della
filosofia italiana», s. III, XL, 1961, pp. 163-174. Testo presentato al
Convegno “L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo” e
pubblicato negli atti (si veda 1962, n. 33). Diventa il capitolo 9 di Mundana
Sapientia (si veda 1992, n. 134). 32. Platone e Aristotele nello “Speculum” di
Enrico Bate di Malines. Note in margine a una recente edizione, «Studi
medievali», s. III, III, 1961, pp. 302- 319. 13
Bibliografia di Tullio Gregory – 1962 torna su 1962 esci 33. Escatologia e
aristotelismo nella scolastica medievale, in L’attesa dell’età nuova nella
spiritualità della fine del medioevo, atti del 3° Convegno del Centro di Studi
sulla Spiritualità medievale (Todi, 16-19 ottobre 1960), Todi, Accademia
Tudertina, 1962, pp. 263-282. Apparso sul «Giornale critico della filosofia
italiana» (si veda 1961, n. 31). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si
veda 1992, n. 134). 34. Per i sessant’anni della Casa Laterza, «Belfagor»,
XVII, 1962, pp. 701-713. Testo della conferenza tenuta in occasione
dell’inaugurazione della Mostra storica della Casa Editrice Laterza, a Roma, il
7 aprile 1962. 35. Discussioni sulla doppia verità, «Cultura e scuola»,
Giovanni Scoto Eriugena: tre studi, Firenze, Le Monnier, 1963 («Quaderni di
letteratura e d'arte», 21), 82 pp. Indice del volume: I. Dall’uno al
molteplice, p. 1; II. Mediazione e incarnazione, p. 27; III. «Contemplatio
teologica» e storia sacra, p. 58. Il primo capitolo è una rielaborazione,
riveduta e corretta del saggio Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena (si
veda 1958, n. 25). Per una traduzione tedesca del primo capitolo si veda 1969,
n. 57. Il secondo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio
Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena (si veda 1960, n. 28),
entrambi apparsi sul «Giornale critico della filosofia italiana». Diventano i primi
tre capitoli del volume Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224)
37. Note sulla dottrina delle «teofanie» in Giovanni Scoto Eriugena, «Studi
medievali»i 38. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso
della fisica di Aristotele. Il secolo XII, Firenze, Sansoni Editore, 1964, 43
pp. Testo presentato al Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale
“La filosofia della natura nel Medioevo” (Passo della Mendola 31 agosto-5
settembre 1964). Successivamente è stato pubblicato negli Atti del Convegno (si
veda 1966, n. 46). Diventa il terzo capitolo di Mundana Sapientia (si veda
1992, n. 134). 39. Aristotelismo, in Grande Antologia Filosofica, diretta da
Michele Federico Sciacca, coordinata da Andrea Mario Moschetti e Michele
Schiavone, VI, Milano, Marzorati, 1964, pp. 607-837. 40. Einleitung, in PETRUS
GASSENDI, Opera Omnia, Faksimile-Neudruck der Ausgabe von Lyon 1658 in 6 Bänden
mit einer Einleitung von Tullio Gregory, I, Stuttgart-Bad Cannstatt,
Frommann-Holzboog, 1964, pp. V-XXII. Il testo in italiano è apparso sul «De
Homine» (si veda 1964, n. 42). La traduzione in tedesco è a cura di Franz
Rauhut e Hermann Dommel. 41. Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo,
«Belfagor», XIX, 1964, pp. 1- 16. Testo italiano di una lettura tenuta
all’Instytut filozofii i socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5
novembre 1963, edito in polacco con il titolo Filozofia i teologia wdobie
kryzysu XIII wieku (si veda 1967, n. 51). Diventa il secondo capitolo di
Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 42. Pierre Gassendi, «De Homine»,
9-10, 1964, pp. 89-114. La traduzione tedesca del saggio, a cura di Franz
Rauhut e Hermann Dommel, è pubblicata come introduzione all’Opera Omnia (si
veda 1964, n. 40). 43. Studi sull’atomismo del Seicento, I. Sebastiano Basson,
«Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLIII, 1964, pp. 38-65. Il
saggio è seguito da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si
veda 1966, n. 47) e da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967,
n. 50). Tradotto in francese diventa il settimo capitolo della Genèse de la
raison classique TOMMASO D’AQUINO, De magistro, introduzione, traduzione e
commento a cura di Tullio Gregory, Roma, Armando, 1965, 181 pp. È utilizzata,
rivista in più punti, la versione dei testi di Tommaso d’Aquino già pubblicata
nel volume BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, pp. 203-275 (si
veda anche 1956, n. 19, 20). 45. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso
d’Aquino, in Per la storia della cultura in Italia nel Duecento e primo
Trecento. Omaggio a Dante nel VII centenario della nascita, «Studi medievali»,
s. III, VI, 1965, pp. 79-94. Diventa il decimo capitolo di Mundana Sapientia
(si veda 1992, n. 134). 17 Bibliografia di Tullio Gregory
– 1966 torna su 1966 esci 46. L’idea di natura nella filosofia medievale prima
dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, in La filosofia della
natura nel Medioevo, atti del Terzo Congresso Internazionale di Filosofia
Medievale, Vita e Pensiero, Milano, 1966, pp. 27-65. Diventa il capitolo 3 di
Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Si veda anche 1964, n. 38. 47. Studi
sull’atomismo del Seicento, II. David van Goorle e Daniel Sennert, «Giornale
critico della filosofia italiana», s. III, XLV, 1966, pp. 44-63. Il saggio è
preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) ed è
seguito da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967, n. 50).
Tradotto in francese diventa l’ottavo capitolo della Genèse de la raison
classique (si veda 2000, n. 173). 18 Bibliografia di
Tullio Gregory – 1967 torna su 1967 esci 48. TULLIO GREGORY, GIORGIO TONELLI,
World Soul, in New Catholic Encyclopedia, XIV, New York, McGraw-Hill, 1967, pp.
1027-1029. 49. La saggezza scettica di Pierre Charron, «De Homine», 21, 1967,
pp. 163- 182. Pubblicato come terzo capitolo di Vie della modernità (si veda
2016, n. 256). Tradotto in francese diventa il quinto capitolo della Genèse de
la raison classique (si veda 2000, n. 173). 50. Studi sull’atomismo del
Seicento, III. Cudworth e l’atomismo, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. III, XLVI, 1967, pp. 528-541. Il saggio è preceduto da una prima
parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) e da una seconda parte su
David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47). Tradotto in francese
diventa il nono capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n.
173). 51. Filozofia i teologia w dobie kryzysu XIII wieku, «Studia
Mediewistyczne», 8 1967, pp. 3-18. Testo edito in polacco di una lettura tenuta
all’Instytut Filozofii i Socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5
novembre 1963. Traduzione a cura di Ryszard Palacz e Juliusz Domański. Il testo
in italiano è apparso su «Belfagor» Pierre Gassendi, in Grande Antologia
Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Michele
Schiavone, XII, Milano, Marzorati, 1968, pp. 723-786. 53. Vorwort, in JOANNES
DUNS SCOTUS, Opera Omnia, Reprogr. Nachdruck der Ausg. Lyon, 1639, mit einem
Worwort von Tullio Gregory, I, Hildesheim, Olms, 1968-1969, pp. V-XII. 54. Gli
scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini,
«L’Alighieri. Rassegna Bibliografica Dantesca», IX, 1968, pp. 39-58. Si veda
anche 1990, n. 123. 55. Bruno Nardi, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. III, XLVII, 1968, pp. 469-501. 56. Due interventi
sull’Università, «Problemi», 7, 1968, pp. 290-291. Il primo intervento è di
Salvatore Valitutti (pp. 289-290). 20 Bibliografia di
Tullio Gregory – 1969 torna su 1969 esci 57. Vom Einen zum Vielen. Zur
Metaphysik des Johannes Scotus Eriugena, in: WERNER BEIERWALTES (Hrsg.),
Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche
Buchges, 1969, pp. 343-365. Traduzione tedesca del primo capitolo di Giovanni
Scoto Eriugena: tre studi (si veda 1963, n. 36). 58. Das Opusculum contra
Wolfelmum und die antiplatonische Polemik des Manegold von Lautenbach, in
WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters,
Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1969, pp. 366-380. Traduzione
tedesca del secondo capitolo di Platonismo medievale. Studi e ricerche (si veda
1958, n. 24). 21 Bibliografia di Tullio Gregory – 1970
torna su 1970 esci 59. Opera e studi di Bruno Nardi, «La Provincia di Lucca»,
X, 1970, pp. 5-13. 22 Bibliografia di Tullio Gregory – 1971 torna
su 1971 esci 60. Premessa, in BRUNO NARDI, Saggi sulla cultura veneta del
Quattro e Cinquecento, a cura di Paolo Mazzantini, Padova, Antenore, 1971, pp.
IX-X. 61. Tre opinioni sulla riforma. Interviste a Pietro Gismondi, Tullio
Gregory, Ugo Spirito, a cura di Lido Chiusano, «Riforma Universitaria», I,
1971, pp. 41- 52. L’intervista a Tullio Gregory è alle pagine 45-50.
23 Bibliografia di Tullio Gregory – 1972 torna su 1972 esci 62.
Gassendi e Galileo, in Saggi su Galileo Galilei, a cura di Carlo Maccagni,
Firenze, Barbéra, 1972, pp. 309-323. 63. Erudizione e ateismo nella cultura del
Seicento – Il “Theophrastus redivivus”, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. IV, LI (LIII), 1972, pp. 194-240. Con numerose modificazioni e
aggiunte diventa il primo capitolo del volume Theophrastus redivivus (si veda
1979, n. 79) 64. Abélard et Platon, «Studi medievali», s. III, XIII, 1972, pp
539-562. Comunicazione presentata alla International Conference “Peter Abelard”
tenutasi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lovanio nei giorni
10- 12 maggio 1971. È stata pubblicata negli atti (si veda 1974, n. 67) ed è
diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).
24 Bibliografia di Tullio Gregory – 1973 torna su 1973 esci
65. FRANCESCO ADORNO, TULLIO GREGORY, VALERIO VERRA, Storia della filosofia.
Con testi e letture critiche, 3 v., Bari, Laterza, 1973, [199413]. vol. II, Dal
Rinascimento a Kant, a cura di Tullio Gregory, VIII-546 pp. Nel 1979 è stata
pubblicata un’ottava edizione riveduta e ampliata. Nel 1996 viene pubblicata la
nuova edizione (si veda 1996, n. 155). 66. Considerazioni su «ratio» e «natura»
in Abelardo, «Studi medievali», s. III, XIV, 1973, pp. 287-300. Traduzione
italiana della comunicazione presentata al Colloque International “Pierre
Abélard, Pierre le Vénérable”, tenutosi all’Abbaye de Cluny dal 2 al 9 luglio
1972. La versione in francese è stata pubblicata negli atti (si veda 1975, n.
70) ed è diventata il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n.
134). 25 Bibliografia di Tullio Gregory – 1974 torna
su 1974 esci 67. Abélard et Platon, in Peter Abelard, proceedings of the
International Conference (Louvain, may 10-12, 1971), edited by Eloi Marie
Buytaert, Leuven-The Hague, University Press Leuven, 1974, pp. 38-64. È stata
pubblicata in «Studi medievali» (si veda 1972, n. 64) ed è diventata il sesto
capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 68. Dio ingannatore e
Genio maligno. Note in margine alle “Meditationes” di Descartes, «Giornale
critico della filosofia italiana», s. IV, LIII (LV), 1974, pp. 477-516. Diventa
il capitolo 15 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). La traduzione in
francese viene pubblicata nel decimo capitolo di Genèse de la raison classique
(si veda 2000, n. 173). 26 Bibliografia di Tullio
Gregory – 1975 torna su 1975 esci 69. La nouvelle idée de nature et de savoir
scientifique au XIIe siècle, in The cultural context of Medieval learning,
proceedings of the First International Colloquium on Philosophy, Science, and
Theology in the Middle Ages (September 1973), edited with an introduction by
John Emery Murdoch and Edith Dudley Sylla, Dordrecht-Boston, Reidel Publishing
Company, 1975, pp. 193-212 (Discussion, pp. 212-218) Diventa il quarto capitolo
di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 70. Considérations sur ‘ratio’ et
‘natura’ chez Abélard, in Pierre Abélard, Pierre le Vénérable: les courants
philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du XIIe
siècle, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche
Scientifique (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), Paris, Éditions du CNRS,
1975, pp. 569-581 (Discussion, pp. 582-584). Versione in francese del saggio
Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo apparso su «Studi medievali»
(si veda 1973, n. 66). Diventa il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si
veda 1992, n. 134). 71. Giovanni Scoto Eriugena, in Questioni di storiografia
filosofica. Dalle origini all’Ottocento, a cura di Vittorio Mathieu, I, Dai
presocratici a Occam, Brescia, La Scuola, 1975, pp. 503-522. 72. L’escatologia
di Giovanni Scoto, «Studi medievali», s. III, XVI, 1975, pp. 497-535. Il testo
originale francese di questo saggio è stato presentato al Colloquio “Jean Scot
Erigène et l’histoire de la philosophie” (Laon, 7-12 juillet 1975). Il testo
italiano è stato pubblicato con un apparato di note più ampio di quello in
calce al testo francese destinato agli atti (si veda 1977, n. 78). Diventa il
capitolo ottavo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Diventa il quarto
capitolo di Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224).
27 Bibliografia di Tullio Gregory – 1976 torna su 1976
esci 73. La filosofia medievale. I secoli XIII e XIV, a cura di Tullio Gregory,
Alfonso Maierù, Franco Alessio, in Storia della filosofia, diretta da Mario Dal
Pra, VI, Milano, Vallardi, 1976, pp. 1-232. La cultura filosofica nella prima
metà del Duecento, pp. 3-46. Alberto Magno, la Scuola di Colonia e il
neoplatonismo medievale, pp. 47- 68. Bonaventura e l’agostinismo, pp. 69-110.
Tommaso d’Aquino e le origini del tomismo, pp. 111-146. L’averroismo latino,
pp. 147-181. Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, pp. 183-208. Enrico di Gand, Goffredo
di Fontaines, Egidio Romano, pp. 209-220. Le grandi enciclopedie, pp. 221-232.
74. Rapport sur les activités du «Lessico Intellettuale Europeo», in I
Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di
Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1976, pp.
21-43. 75. Centro di studio per il lessico intellettuale europeo, Roma.
Attività scientifica svolta nel 1975, «La ricerca scientifica», CNR, XLVI,
1976, pp. 1171-1173. 28 Bibliografia di Tullio Gregory – 1977
torna su 1977 esci 76. Scritture e scrittori del secolo XI, a cura di Antonio
Viscardi e Giuseppe Vidossi; con la collaborazione di Tullio Gregory, Bruno e
Tilde Nardi e Luigi Ronga, Torino, Einaudi, 1977, VIII-319 pp. Questa edizione
riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi latini, italiani,
provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e precisamente le pp.
XI-LXXI e 257-510. I capitoli curati da Tullio Gregory sono: Dalla epistola ad
Drogonem philosophum (traduzione e note) pp. 108-111; Lanfranco da Pavia (nota
introduttiva e traduzioni) pp. 166-179; Sant’Anselmo di Aosta (nota
introduttiva e traduzioni) pp. 181-215. 77. Scritture e scrittori del secolo
XII, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi, con la collaborazione di
Felice Arese, Tullio Gregory e Tilde Nardi, Torino, Einaudi, 1977, VIII-289 pp.
Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi
latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e
precisamente le pp. XI-LXXI e 513-735. Tullio Gregory ha curato il capitolo
Gioacchino da Fiore (nota introduttiva e note) pp. 213-215 78. L’eschatologie
de Jean Scot, in Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie, Colloques
Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Laon, 7-12
juillet 1975), Paris, Éditions du CNRS, 1977, pp. 377-392. Il testo in italiano
della comunicazione qui pubblicata è apparso su «Studi medievali» (si veda
1975, n. 72), con un apparato di note più ampio ed è diventato il capitolo 8 di
Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 29
Bibliografia di Tullio Gregory – 1979 torna su 1979 esci 79. “Theophrastus
redivivus”. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano, 1979 («Collana
di filosofia», 20), 217 pp. Indice del volume: I. Gli dei figli degli uomini,
p. 7; II. La storia naturale della religione, p. 77; Appendice: Le citazioni di
Machiavelli, p. 197. Il primo capitolo del libro riprende, con numerose
modificazioni e aggiunte, il saggio Erudizione e ateismo nella cultura del
seicento (si veda 1972, n. 63). 80. GIAMBATTISTA VICO, Principj di una scienza
nuova intorno alla natura delle nazioni, Ristampa anastatica dell’edizione
Napoli 1725, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, 15-270
pp. 81. TULLIO GREGORY, GIORGIO PETROCCHI, Ricordo di Bruno Nardi, con sue
pagine autobiografiche, Roma, Casa di Dante, 1979, 28 pp. Nel volume compaiono
i testi degli interventi di Tullio Gregory e Giorgio Petrocchi alla “Casa di
Dante” in apertura dell’anno di studi 1978-1979. L’intervento di Tullio Gregory
è alle pagine 5-13. 82. La conception de la philosophie au Moyen Age, in Actas
del V Congreso Internacional de Filosofía Medieval, I, Madrid, Editora
Nacional, 1979, pp. 49-57. 83. Pour un Thesaurus mediae et recentioris
latinitatis, in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale
Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1979, pp. 719-738. 84. Lessico Intellettuale Europeo (1974-1976),
in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a
cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo,
1979, pp. 779-785. 30 Bibliografia di Tullio Gregory –
1980 torna su 1980 esci 85. Elogio di Henri Gouhier, in Allocuzioni pronunciate
durante la cerimonia di consegna di lauree honoris causa. Allocuzioni di
Antonio Ruberti, Luigi De Nardis, Tullio Gregory, Carlo Muscetta, Henri
Gouhier, Eduardo De Filippo, Roma, Università degli Studi di Roma, Facoltà di
Lettere e Filosofia, 1980, pp. 7-10. 86. Ricerche sul Lessico Intellettuale
Europeo, in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel
campo delle scienze dell’antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di Italo
Lana e Nino Marinone, Torino, Accademia delle Scienze, 1980, pp. 47-54.
31 Bibliografia di Tullio Gregory – 1981 torna su 1981 esci 87.
TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO
PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel
Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre- 1 novembre 1981),
Firenze, La Nuova Italia, 1981, XII-430 pp. 88. Il libertinismo della prima
metà del Seicento: stato attuale degli studi e prospettive di ricerca, in
TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO
PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel
Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre-1 novembre 1981),
Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 3-47. Tradotto in francese, diventa il
primo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 89. Le
biblioteche universitarie, in La riforma universitaria e le biblioteche
dell’Università, atti del Convegno internazionale su “Le biblioteche
universitarie e i loro problemi di struttura, coordinamento, unificazione”,
Roma 4-5 ottobre 1980, Roma, Bulzoni, esci 90. Relazione sulle attività del
Lessico Intellettuale Europeo (1977-1979), in Res. III Colloquio Internazionale
del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi
Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. 509-518. 91. Foreword, in Global
linguistic statistical methods to locate style identities, proceedings of an
International Seminar (Gallarate June 5-7, 1981), edited by Roberto Busa S.I.,
Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. VII-VIII. 92. “Omnis philosophia
mortalitatis adstipulatur opinioni”: quelques considérations sur le
Theophrastus redivivus, in Le matérialisme du XVIIIe siècle et la littérature
clandestine, actes de la table ronde des 6 et 7 juin 1980, organisée à la
Sorbonne à Paris avec le concours du CNRS par le Groupe de recherche sur
l’histoire du materialisme, dirigé par Oliver Bloch, Paris, Vrin, 1982, pp.
213-218. 93. Aristotelismo e libertinismo, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. V, LXI (LXIII), 1982, pp. 153-167. Relazione letta al Convegno
Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna” (Padova,
23-27 settembre 1981). È stata pubblicata negli atti del Convegno (si veda
1983, n. 95) e diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda
2016, n. 256). Tradotta in francese diventa il secondo capitolo di Genèse de la
raison classique (si veda 2000, n. 173). 94. La tromperie divine, «Studi
medievali», s. III, XXIII, 1982, pp. 517-527. Comunicazione presentata alla
Table ronde internationale su “Preuve et raisons à l’Université de Paris.
Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle”, organizzata dal Centre
d’Études des religions du livre (Laboratoire associé au CNRS) a Parigi (5-7
novembre 1981). È stata pubblicata negli atti (si veda 1984, n. 97) ed è
diventata il capitolo 14 di Mundana Sapientia Aristotelismo e libertinismo, in
Aristotelismo veneto e scienza moderna, atti del 25° anno accademico del Centro
per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, a cura di Luigi
Olivieri, Padova, Antenore, 1983, pp. 279-296. Apparso su «Giornale critico
della filosofia italiana» (si veda 1982, n. 93). Diventa il settimo capitolo di
Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 96. Introduzione, in BRUNO NARDI,
Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, Bari,
Laterza, 1983 («Collezione storica Laterza»), pp. VII-XLIV. L’opera è stata
ristampata nella collana «Biblioteca Universale Laterza» La tromperie divine,
in Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie
au XIVe siècle, actes de la Table Ronde internationale organisée par le
Laboratoire associé au CNRS (Paris, 5-7 novembre 1981) edité par Zénon Kaluza
et Paul Vignaux, Paris, Vrin, 1984, pp. 187-195. Pubblicato su «Studi
medievali» (si veda 1982, n. 94), diventa il capitolo 14 di Mundana Sapientia
(si veda 1992, n. 134). 98. Temps astrologique et temps chrétien, in Le temps
chrétien de la fin de l’Antiquité au Moyen Age. IIIe-XIIIe siècles, Colloques
Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Paris, 9-12
mars 1981), Paris, Éditions du CNRS, 1984, pp. 557-573. Diventa il capitolo 12
di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 99. Instrumenta Lexicologica
Latina: verso un «Thesaurus Patrum Latinorum», «Studi medievali», s. III, XXV,
1984, pp. 449-457. 100. Premessa, in Francis Bacon. Terminologia e fortuna nel
XVII secolo, Seminario Internazionale, Roma, 11-13 marzo 1984, a cura di Marta
Fattori, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, pp. 1-3. 101. Introduzione, in
Architettura in Provincia. Il centro storico di Sacrofano, a cura di Enrico
Guidoni e Pia Pascalino, Roma, Edizioni Kappa, Filosofi, Università, Regime: la
Scuola di filosofia di Roma negli anni Trenta. Mostra storico documentaria, a
cura di Tullio Gregory, Marta Fattori, Nicola Siciliani De Cumis, Roma-Napoli,
Istituto di Filosofia della Sapienza-Istituto italiano per gli studi
filosofici, 1985, 506 pp. Presentazione pp. XI-XIII. 103. I sogni nel Medioevo,
Seminario Internazionale (2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma,
Edizioni dell’Ateneo, 1985, VIII-358 pp. 104. Il Lessico Intellettuale Europeo,
in Lo storico e il suo lessico. Atti del Convegno di Prato, 1-3 aprile 1982, a
cura di Maria Caterina Cicala. Presentazione di Luigi De Rosa, Società degli
storici italiani, [Messina, La Grafica], 1985, pp. 3-14. 105. Introduzione, in
BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo
Mazzantini, introduzione di Tullio Gregory, Roma- Bari, Laterza, 1985 [19902]
(«Biblioteca Universale Laterza»), pp. VII-XLIV. La prima edizione dell’opera è
apparsa nella collana «Collezione storica Laterza» (si veda 1983, n. 96). 106.
I sogni e gli astri, in I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (Roma,
2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985,
pp. 111-148. Diventa il tredicesimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda
1992, n. 134). 107. Discorso di chiusura, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto
Medioevo, atti della XXXI Settimana di studio del Centro italiano di studi
sull’alto medioevo (Spoleto, 7-13 aprile 1983), II, Spoleto, Centro italiano di
studi sull’alto medioevo, 1985, pp. 1445-1485. Diventa il capitolo 16 di
Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 108. L’importanza dei filoni
tradizionali, in Cento anni Laterza 1885-1985. Testimonianze degli autori,
Bari, Laterza, 1985, pp. 149-151. 109. Premessa, in Trasmissione dei testi a
stampa nel periodo moderno, I seminario Internazionale, Roma, 23-26 marzo 1983,
a cura di Giovanni Crapulli, Roma, Edizioni dell’Ateneo, Etica e religione nella critica libertina,
Napoli, Guida, 1986 («Interventi», 31), 117 pp. Indice del volume: I. Il
libertinismo erudito, p. 11; II. Il «libro scandaloso» di Pierre Charron, p.
71; Nota bibliografica, p. 111. Testi di due lezioni tenute nel 1985
all’Istituto Suor Orsola Benincasa, riveduti per la stampa e arricchiti delle
note a piè di pagina e della nota bibliografica. Il volume è stato pubblicato
tradotto in polacco con il titolo Etyka i religia w krytyce libertyńskiej (si
veda 1991, n. 127). Il primo capitolo diventa il sesto capitolo di Vie della
modernità (si veda 2016, n. 256); in una versione leggermente ridotta, è stato
pubblicato tradotto in inglese (si veda 1998, n. 168). Il secondo capitolo è
stato pubblicato come quarto capitolo nel volume Vie della modernità (si veda
2016, n. 256); tradotto in inglese con il titolo Pierre Charron’s ‘Scandalous
Book’ è stato pubblicato in Atheism from the Reformation to the Enlightenment
(si veda 1992, n. 135). I primi due capitoli, tradotti in francese, diventano
rispettivamente il terzo e il quarto capitolo della Genèse de la raison
classique Ideologia e programma dell’Olimpiade delle civiltà, a cura di Tullio
Gregory, Achille Tartaro, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987, XIX-173 pp. 112.
Le platonisme du XIIe siècle, «Revue des sciences philosophiques et
théologiques», tome 71, 2, 1987, Paris, Librairie philosophiques J. Vrin, pp.
243-259. Testo presentato alla conferenza al Collège de France il 19 febbraio
1986; sono state aggiunte alcune note essenziali. 38
Bibliografia di Tullio Gregory – 1988 torna su 1988 esci 113. The Platonic
Inheritance, in A History of Twelfth-Century Western Philosophy, edited by
Peter Dronke, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 54-80.
Translated by Jonathan Hunt. Diventa il quinto capitolo di Mundana Sapientia
(si veda 1992, n. 134). 114. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella
cultura medievale, «Archives internationales d’histoire des sciences», 38
(1988), pp. 189-242. Relazione presentata in apertura della prima sessione
plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki,
24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella
filosofia medievale”. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia
italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n.
124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo
capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 115. Forme di conoscenza
e ideali di sapere nella cultura medievale, «Giornale critico della filosofia
italiana», s. VI, LXVII (LXIX), 1988, pp. 1-62. Relazione presentata in
apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di
filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza
scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata negli
«Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114),
negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si
veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana sapientia (si
veda 1992, n. 134). 116. Lessico Intellettuale Europeo: recherches sur la
terminologie intellectuelle du Moyen Age, in Actes du colloque Terminologie de
la vie intellectuelle au Moyen Age, Leyden/La Haye 20-21 septembre 1985, edité
par Olga Weijers, Turnhout, Brepols, 1988, pp. 105-108 117. Sémantique, in
Image & Réalité du Vin en Europe, Actes du Colloque pluridisciplinaire sur
le vin et les sciences, Organisé par l’Université Catholique de Louvain, en
collaboration avec l’Institut Italien pour le Commerce Extérieur,
Louvain-la-Neuve, 28 septembre-1 octobre 1988, pp. 151-154. 118. Necessità di programmare
le carriere amministrative in funzione della specificità dei profili
professionali. Il ritorno alla selettività e alla preparazione scientifica, in
Memorabilia: il futuro della memoria. Beni ambientali, architettonici,
archeologici, artistici e storici in Italia. Confronti per l’innovazione, a
cura di Alberto Clementi e Francesco Perego, Bari, Laterza, Ricordo di Paul
Vignaux, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVIII (LXXX),
1989, pp. 129-143. Testo letto in apertura della tavola rotonda su “Théologie
et droit dans la science politique de l’Etat moderne” organizzata dall’École
française de Rome nei giorni 12-14 novembre 1987; Paul Vignaux – che doveva
presiedere la tavola rotonda – era deceduto il 24 agosto in Spagna. Pubblicato negli
atti della tavola rotonda (si veda 1991, n. 131). 120. Il calcolatore in
lingua, «Il pensiero informatico», 3, 1989, pp. 13-15. 121. Ideali di sapere
nella cultura medievale, «Il veltro. Rivista della civiltà italiana», anno
XXXIII, gennaio-aprile 1989, pp. 5-51. Relazione presentata in apertura della
prima sessione plenaria dell’VIII Congresso internazionale di filosofia
medievale su “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”
(Helsinki, 24-29 agosto 1987). È stata pubblicata nel «Giornale critico della
filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda
1990, n. 124), negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si
veda 1988, n. 114), ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda
1992, n. 134). 122. Presentazione, in GIORDANO BRUNO, Summa terminorum
metaphysicorum. Ristampa anastatica dell’edizione Marburg 1609. Nota e indici
di Eugenio Canone, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1989, IX-X pp.
40 Bibliografia di Tullio Gregory – 1990 torna su 1990 esci
123. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini,
in BRUNO NARDI, «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di Rudy Abardo con
saggi introduttivi di Francesco Mazzoni e Aldo Vallone, Firenze, Le Lettere,
1990, pp. 285-312. Si veda anche 1968, n. 54. 124. Forme di conoscenza e ideali
di sapere nella cultura medievale, in Knowledge and the Sciences in Medieval
Philosophy, proceedings of the Eight International Congress of Medieval
Philosophy (Helsinki, 24-29 August 1987), edited by Monika Asztalos, John Emery
Murdoch, Ilkka Niiniluoto, I, Helsinki, Societas philosophica Fennica, 1990
(«Acta Philosophica Fennica», 48), pp. 10-71. Relazione presentata in apertura
della prima sessione plenaria del Congresso. È stata pubblicata nel «Giornale
critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli «Archives
internationales d’histoire des idées» (si veda 1988, n. 114) e nella rivista
«Il veltro» (si veda 1989, n. 121). È diventata il primo capitolo di Mundana
Sapientia (si veda 1992, n. 134). 125. Théologie et astrologie dans la culture
médiévale: un subtil face-à-face, «Bulletin de la Société Française de
Philosophie», 84, 1990, pp. 104-130. Prima comunicazione del saggio che poi
diventerà il capitolo 11 di Mundana Sapientia, dal titolo Astrologia e teologia
nella cultura medievale (si veda 1992, n. 134). 126. Missione scienza,
«Ulisse2000», Etyka i religia w krytyce libertyńskiej, przelozyla Anna
Tylusińska, Warszawa, Polska Akademia Nauk Instytut Filozofii i Socjologii
(«Renesans i Reformacja», 6), 1991, 59 pp. Versione in polacco del volume Etica
e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). Indice del volume:
I. Libertynizm erudycyjny, p. 7; II. “Księga skandaliczna” Pierre’a Charrona,
p. 37; Nota bibliograficzna, p. 57. 128. Sul lessico filosofico latino del
Seicento e del Settecento, in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia
filosofica e storia delle idee (V- 1991), a cura di Antonio Lamarra e Lidia
Procesi, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1991, pp. 1-20. Relazione presentata
al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal
Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991. Diventa il terzo capitolo di
Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006,
n. 200). 129. Intervento, in Per la storia del «vissuto religioso». Gli scritti
di Gabriele De Rosa. Interventi di Emile Goichot, Tullio Gregory, Liliana
Billanovich, Antonio Cestaro, Fulvio Tessitore, Pasquale Villani, Cosimo Damiano
Fonseca, Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, 1991,
pp. 21-29. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 21-29 ed è stato tenuto
per la presentazione del volume di Gabriele De Rosa Tempo religioso e tempo
storico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1987, avvenuta a Vicenza,
presso la Sala degli Stucchi di Palazzo Trissino, il 14 ottobre 1988, per
iniziativa dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, con il
patrocinio del Comune di Vicenza. 130. Gli studi di filosofia medievale fra
Ottocento e Novecento. Conclusioni, in Gli studi di filosofia medievale fra
Otto e Novecento. Contributo a un bilancio storiografico, atti del convegno
internazionale (Roma, 21-23 settembre 1989), a cura di Ruedi Imbach e Alfonso
Maierù, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, pp. 391-406. Pubblicato
in appendice a Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 131. Ricordo di Paul
Vignaux, in Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne,
actes de la Table ronde organisée par l’École française de Rome avec le
concours du CNRS (Rome, 12-14 novembre 1987), Rome, École française de Rome,
1991 («Collection de l’École française de Rome», 147), pp. 1-16. 42
Bibliografia di Tullio Gregory - 1991 Pubblicata sul
«Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1989, n. 119). 132.
Cultura umanistica e istituzioni, «La rivista dei libri», I, 2, 1991, pp.
18-20. 133. Le discipline umanistiche. Analisi e progetto, Supplemento al
Bollettino «Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato,
1991, 147 pp. Rapporto finale della Commissione Nazionale per la formazione e
la ricerca nelle scienze umane, del Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, redatto dal Professor Gregory in qualità di
coordinatore della Commissione. 43 Bibliografia di Tullio
Gregory – 1992 torna su 1992 esci 134. “Mundana sapientia”. Forme di conoscenza
nella cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992 («Storia
e Letteratura», 181), 480 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sulla
storia della filosofia medievale pubblicati in sedi e anni diversi. Il saggio
Astrologia e teologia nella cultura medievale (capitolo 11) è nuovo, e ne fu
data una parziale anticipazione alla Société française de philosophie (si veda
1990, n. 125). Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi
già pubblicati. Indice del volume: Avvertenza, p. V; I. Forme di conoscenza e
ideali di sapere nella cultura medievale, p. 1 (si veda 1988, n. 114 e n. 115;
1989, n. 121 e 1990, n. 124); II. Filosofia e teologia nella crisi del XIII
secolo, p. 61 (si veda 1964, n. 41); III. L’idea di natura nella filosofia
medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, p. 77
(si veda 1964, n. 38 e 1966, n. 46); IV. La nouvelle idée de nature et de
savoir scientifique au XIIe siècle, p. 115 (si veda 1975, n. 69); V. The
Platonic Inheritance, p. 145 (si veda 1988, n. 113); VI. Abélard et Platon, p.
175 (si veda 1972, n. 64 e 1974, n. 67); VII. Considération sur ratio et natura
chez Abélard, p. 201 (si veda 1975, n. 70; la versione in italiano è stata
pubblicata su «Studi medievali», si veda 1973, n. 66); VIII. L’escatologia di
Giovanni Scoto, p. 219 (si veda 1975, n. 72; per la versione in francese, con
un apparato di note ridotto si veda 1977, n. 78); IX. Escatologia e
aristotelismo nella scolastica medievale, p. 261 (si veda 1961, n. 31 e 1962,
n. 33); X. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, p. 275 (si veda
1965, n. 45); XI. Astrologia e teologia nella cultura medievale, p. 291; XII.
Temps astrologique et temps chrétien, p. 329 (si veda 1984, n. 98); XIII. I
sogni e gli astri, p. 347 (si veda 1985, n. 106); XIV. La tromperie divine, p.
389 (si veda 1982, n. 94 e 1984, n. 97); XV. Dio ingannatore e genio maligno.
Nota in margine alle Meditationes di Descartes, p. 401 (si veda 1974, n. 68);
XVI. L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo, p. 443 (si veda
1985, n. 107); Indice dei nomi, p. 469. 135. Pierre Charron’s ‘Scandalous
Book’, in Atheism from the Reformation to the Enlightenment, edited by Michael
Hunter and David Wootton, Oxford, Oxford Clarendon Press, 1992, pp. 87-109.
Traduzione inglese del secondo capitolo di Etica e religione nella critica
libertina (si veda 1986, n. 110). La traduzione francese compare nel quarto
capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 136. Gli
atti del Convegno di Lecce: prospettive degli studi cartesiani, in GIULIA
BELGIOIOSO (a cura di), Cartesiana, Galatina, Congedo Editore, 1992
(«Università degli studi di Lecce, Istituti di Filosofia. Testi e Saggi»), pp.
97- 101. 137. E 42. Utopia e scenario del regime. I. Ideologia e programma
dell’Olimpiade della città, a cura di Tullio Gregory e Achille Tartaro, Catalogo
della mostra (Archivio centrale dello Stato, Roma, aprile-maggio 1987),
Venezia, Marsilio, 1992, XX-180 pp. 138. Préface, in Pierre Gassendi
explorateur des sciences. Catalogue de l’exposition, quatrième centenaire de la
naissance de Pierre Gassendi (Musée de Digne, 19 mai-18 octobre 1992), rédigé
par Anthony Turner avec la contribution de Nadine Gomez; préface de Tullio
Gregory, Digne-les-Bains, Musée de Digne, 1992, pp. 11-28. Traduzione a cura di
Simone Matarasso-Gervais. 139. Pierre Gassendi dans le quatrième centenaire de
sa naissance, «Archives Internationales d’histoire des sciences», 42, 1992, pp.
203-226. Discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi
(Digne-Les- Bains, 18-22 maggio 1992). È stato pubblicato negli Atti col titolo
Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n. 145). La traduzione italiana è stata
pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n.
140). Diventa il sesto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda
2000, n. 173). 140. Pierre Gassendi nel IV Centenario della nascita, «Giornale
critico della filosofia italiana», s. VI, LXXI (LXX), 1992, pp. 202-226.
Versione italiana del discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre
Gassendi (Digne-Les-Bains, 18-22 maggio 1992). Diventa il quinto capitolo di
Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). La traduzione francese è stata
pubblicata negli «Archives Internationales d’histoire des sciences» (si veda
1992, n. 139) e negli Atti del Colloquio con il titolo Pourquoi Gassendi? (si veda
1994, n. 145). 141. Presentazione, in Lessico Filosofico dei secoli XVII e
XVIII. Sezione latina, a cura di Marta Fattori, con la collaborazione di
Massimo Luigi Bianchi, I, a- aetherius, coordinamento di Eugenio Canone e
Giacinta Spinosa, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992, p. VII.
45 Bibliografia di Tullio Gregory – 1993 torna su 1993 esci 142.
Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André
Vauchez, 3 v., Roma, Laterza, 1993. Il secondo volume è a cura di Tullio Gregory
(si veda 1994, n. 144). 46 Bibliografia di Tullio Gregory –
1994 torna su 1994 esci 143. L’eclisse delle memorie, a cura di Tullio Gregory,
Marcello Morelli, prefazione di Giorgio Salvini, traduzioni di Marcello
Morelli, Roma-Bari, Laterza, 1994, XI-283 pp. 144. L’età moderna, a cura di
Gabriele De Rosa e Tullio Gregory, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di
Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, II, Roma, Laterza, 1994,
XX-596 pp. Si veda anche 1993, n. 142. 145. Pourquoi Gassendi?, in
Quadricentenaire de la naissance de Pierre Gassendi 1592-1992, actes du
Colloque International Pierre Gassendi (Digne-les-Bains 18-21 mai 1992),
Digne-les-Bains, Société Scientifique et Littéraire des Alpes de
Haute-Provence, 1994, pp. 21-39. Discorso di apertura del Colloquio. Pubblicato
con un titolo diverso negli «Archives Internationales d’histoire des
sciences» La traduzione italiana è stata
pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n.
140) 146. Gli studi di filosofia medievale di Sofia Vanni Rovighi, in
Sapientiae studium. La giornata operosa di Sofia Vanni Rovighi (1908-1990), a
cura di Mario Sina, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 13-26. 147. L’ordine
della natura e l’ordine del sapere, in Storia della filosofia, a cura di Paolo
Rossi e Carlo Augusto Viano, II, Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, Diventa, con
il titolo Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, il secondo
capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 148. Considerazioni conclusive
in Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, A cura di Jean-Robert
Armogathe e Giulia Belgioioso, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
Introduzione, in Retorica e filosofia in Giambattista Vico: Le Institutiones
Oratoriae: un bilancio critico, a cura di Giuliano Crifò, Napoli, Guida,
Conclusioni, in Ricerca e terminologia tecnico-scientifica, a cura di G. Adamo,
«Lexicon philosophicum., Quaderni di terminologia filosofica e storia delle
idee», 151. Dell’Elefante. Parole pronunciate il 12.IX.1994 in occasione della
mostra Res Libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma, Roma, Edizioni
dell’Elefante, 1994, 19 pp. Opuscolo in edizione limitata. Pubblicato in
Bibliomania Perennis (si veda 2002, n. 178). 152. Università e Beni Culturali, ricerca
– formazione. Relazione della Commissione Nazionale per il Corso d Laurea e
Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, Supplemento al Bollettino
«Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, Relazione
finale della Commissione Nazionale per il Corso di Laurea e Facoltà in
Conservazione dei Beni Culturali, del Ministero dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica, redatta dal Professor Gregory in qualità di
coordinatore della Commissione. 48 Bibliografia di Tullio Gregory –
1995 torna su 1995 esci 153. Introduzione, in “Fabula in tabula”. Una storia
degli indici dal manoscritto al testo elettronico, a cura di Claudio Leonardi,
Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto
Medioevo, 1995, pp. 3-8. 154. I «thesauri» dei Padri greci e latini, «Studi
medievali», F. ADORNO, T. GREGORY, V. VERRA, Manuale di storia della filosofia,
Roma, Laterza. Curail secondo volume, XIV-457 pp. e i capitoli dal 19 al 41 del
I volume. Pensiero medievale e modernità, «Giornale critico della filosofia
italiana», Relazione tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei in apertura del
VI Convegno di studio su “Pensiero medievale e modernità” (Roma, 12-14
settembre 1996) organizzato dalla Società Italiana per lo Studio del Pensiero
Medievale. Diventa il nono capitolo di Speculum naturale ‘Natura’ e ‘Qualitas
planetarum’, «Micrologus», IV, 1996: Il teatro della natura/The theatre of
nature, pp. 1-23. Diventa il quarto capitolo di Speculum naturale (si veda
2007, n. 203) 158. Premessa, in Album. I luoghi ove si accumulano i segni, a
cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro di
Studi sull’Alto Medioevo, 1996, pp. VII-XII. 159. Prefazione in Accademia
nazionale dei Lincei-Archivio centrale dello Stato- Consiglio nazionale delle
ricerche, Guglielmo Marconi e l’Italia. Mostra storico-documentaria (Roma 30
marzo-30 aprile 1996), catalogo a cura di Giovanni Paoloni e Raffaella Simili,
prefazione di Tullio Gregory, introduzione di Raffaella Simili, Roma, Accademia
nazionale dei Lincei, Prólogo, in MICHEL DE MONTAIGNE, Ensayos (selección),
Prólogo de Tullio Gregory, Traducción y notas de María Dolores Picazo y
Almudena Montojo, Barcelona, Círculo de Lectores, 1997, pp. 9-31. Il testo in
italiano è stato pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si
veda 1997, n. 163). La traduzione francese, con qualche variante, diventa il
secondo capitolo di Vie della modernità Apertura dei lavori, in Il vocabolario
della republique des Lettres. Terminologia filosofica e storia della filosofia.
Problemi di metodo, atti del Convegno Internazionale in memoriam di Paul Dibon
(Napoli, 17-18 maggio 1996), a cura di Marta Fattori, Firenze, Leo S. Olschki
Editore, Les nouveaux outils d'analyse textuelle, in Le Plurilinguisme dans la
Société de l’Information, Actes du Colloque International (Paris, 4-6 dicembre
1997), Paris, UNESCO Publications, Per una lettura di Montaigne, «Giornale
critico della filosofia italiana», Testo italiano della prefazione spagnola
all’antologia degli Essais di Montaigne (si veda 1997, n. 160). 164. Nel mondo
semantico del virtuale, «if. Rivista della Fondazione IBM Italia», V, 1997, pp.
14-17. 165. Introduzione, in Bibliotheca encyclopaedica: catalogo del fondo
storico della Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da
Giovanni Treccani, a cura di Roberto Mauro e Massimo Menna; presentazione di
Rita Levi-Montalcini, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Introduzione,
in RENÉ DESCARTES, Discorso sul metodo. Traduzione di Maria Garin. Introduzione
di Tullio Gregory, Roma, Laterza, 1998 [201819], pp. V-XLVIII. 167. Conclusion,
in Vie spéculative, vie méditative et travail manuel à Chartres au XIIe siècle
(autour de Thierry de Chartres et des introducteurs de l’étude des arts
mécaniques auprès du quadrivium), Chartres, Association des Amis du Centre
Médiéval Européen de Chartres, 1998, pp.135-142. Discorso di chiusura del
colloquio internazionale del 4 e 5 luglio 1998. 168. ‘Libertinisme erudit’ in
Seventeenth Century France and Italy: The Critique of Ethics and Religion,
«British Journal for the History of Philosophy», L’articolo, apparso in
italiano con il titolo Il libertinismo erudito come primo capitolo del volume
Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110), è stato
leggermente ridotto in alcune parti. Traduzione di Letizia Panizza. 169.
Introduction, in Le Dictionnaire de l'Académie Française et la Lexicographie
Institutionelle Européenne, Actes du Colloque International (Paris, 17- 19
Novembre 1994), publiés par Bernard Quemada avec la collaboration de Jean
Pruvost, Paris, Honoré Champion Éditeur, Nature, in Dictionnaire raisonné de
l’Occident médiéval, ed. Jacques Le Goffe - Jean-Claude Schmitt, Paris, Fayard,
1999, pp. 806-820. Diventa il primo capitolo di Speculum naturale (si veda
2007, n. 203), restituendo in latino i testi tradotti in francese. 171. Per una
fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario ai paradisi della
metafisica, «Micrologus», VII, 1999: Il cadavere/The corpse, pp. 11-42. Diventa
il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 172. Sapor
mundi: scritti sulla civiltà dei sapori da Il Sole 24 Ore, Roma Raccolta degli
articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1994 e il 1998 su Il Sole
24 ore. Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, traduit par
Marilène Raiola, préface de Jean-Robert Armogathe, Paris, Presses
Universitaires de France, 2000 («Épiméthée», 84), V-365 pp. Sono raccolti in
questo volume alcuni saggi dedicati alle figure e ai problemi appartenenti alla
prima metà del XVII secolo francese e europeo, pubblicati in sedi e anni
diversi. Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già
pubblicati. Indice del volume: Notice de Tullio Gregory, p. v; Préface de
Jean-Robert Armogathe, La première crise de la conscience européenne, p. 1; I.
Le libertinisme dans la première moitié du XVIIe siècle, p. 13 (si veda 1981,
n. 88); II. Aristotélisme et libertinisme, p. 63 (si veda 1982, n. 93); III.
Ethique et religion dans la critique libertine, p. 81 (si veda 1986, n. 110);
IV. «Le livre scandaleux» de Pierre Charron, p. 115 (si veda 1986, n. 110; per
la traduzione in inglese si veda 1992, n. 135); V. La sagesse sceptique de
Pierre Charron, VI. Perspectives sur Pierre Gassendi à l’occasion du IVe
centenaire, p. 157 (si veda 1992, n. 139); VII. Sébastien Basson, p. 191 (si
veda 1964, n. 43); VIII. David Van Goorle et Daniel Sennert, p. 235 (si veda
1966, n. 47); IX. Ralph Cudworth, p. 269 (si veda 1967, n. 50); X. Dieu
trompeur et malin génie, p. 293 (si veda 1974, n. 68). 174. Vers un «Thesaurus
totius latinitatis»: problèmes et perspectives, in L’élaboration du vocabulaire
philosophique au Moyen Age, actes du Colloque international de Louvain-la-Neuve
et Leuven (12-14 septembre 1998), organisé par la Société Internationale pour
l’étude de la Philosophie Médiévale, éd. par Jacqueline Hamesse et Carlos
Steel, Turnhout, Brepols, 2000, pp. 539-549. 175. Informatica e analisi
testuale, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti. Appendice 2000,
I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 919-922. 176. I cieli,
il tempo, la storia, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel
Medioevo, atti del XXXVI Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre
1999), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2000, pp. 19-45.
Diventa il quinto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 177. Il
liber creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, in
Le vie del medioevo, atti del Convegno internazionale di studi (Parma), a cura
di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2000, pp. 45-48. Diventa il terzo
capitolo di Speculum naturale Scrittura,
fondamento di civiltà, in Duemila. Verso una società aperta, 3. Istruzione,
scienza, linguaggio, a cura di Marco Moussanet, il Sole 24 ORE, Milano,
Apologeti e libertini, «Giornale critico della filosofia italiana», Diventa il
capitolo 8 di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 55
Bibliografia di Tullio Gregory – 2001 torna su 2001 esci 180. Per i cento anni
della Casa Laterza. Il sodalizio Croce-Laterza nella cultura italiana del
Novecento, «Accademie & Biblioteche d’Italia», s. I, LXIX, 2001, pp.
117-121. Testo del discorso pronunciato al Teatro Comunale Piccinni il 18
settembre 2001, alla presenza del Capo dello Stato, in occasione delle
celebrazioni per il 100° anniversario della Casa Editrice Laterza. 181. Come
cucinare un filosofo, «l’Erasmo», Introduzione, in VINCENZO CORRADO, Del cibo
pitagorico ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de’ Letterati. Opera meccanica
dell’oritano Vincenzo Corrado; seguito dal Trattato delle patate per uso di
cibo, opera del medesimo autore. Con una introduzione di Tullio Gregory e una
nota alle illustrazioni di Francesco Abbate, Roma, Donzelli, Due testi
autobiografici di Giordano Bruno, in Memoria di Giordano Bruno Atti del convegno (Roma) con il patrocinio
dell’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Roma, a cura di Maria
Mantello, Roma, VE.GRAF, Dell’Elefante, in Bibliomania Perennis. Mostre delle
Edizioni dell’Elefante. Prologhi e testi di occasione, Roma, Edizioni
dell’Elefante, 2002, pp. 135- 151. Parole pronunciate il 12 settembre 1994 in
occasione della mostra Res libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma GEORGE
TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi. Testi di Tullio Gregory,
Firenze, Fratelli Alinari, 2002, 112 pp. 186. Il valore di una cultura comune.
Il ‘nuovo mondo’ dei dotti del Seicento, «l’Erasmo», Lo spazio come geografia
del sacro nell’occidente altomedievale, «Giornale critico della filosofia
italiana», Testo integrale della relazione parzialmente letta in apertura della
Cinquantesima settimana di studio organizzata dal Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo (Spoleto, 4-9 aprile 2002) sul tema: “Uomo e spazio
nell’alto Medioevo”. Pubblicato negli atti del Convegno (si veda 2003, n. 191).
Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si
veda 2007, n. 203). 188. Introduzione, in GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un
ritratto di Todi, Alinari, Firenze, 2002, pp. 11-12. 189. Apertura dei lavori,
in Experientia. X Colloquio Internazionale (Roma, 4-6 gennaio 2001), atti a
cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Noè ovvero della sobria
ebbrezza, in L’ebbrezza di Noè. Sedici artisti per San Gimignano, a cura di
Marisa Zattini, Cesena, Il vicolo, 2003, pp. 23-25. Catalogo della Mostra
tenuta a San Gimignano nel 2003. Edizione di 1500 esemplari numerati. 191. Lo
spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, in Uomo e spazio
nell’alto Medioevo: settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto
Medioevo (4-8 aprile 2002), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto
Medioevo, 2003, pp. 27-60. Discussione sulla lezione Gregory, pp. 61-68. Il
testo della relazione è apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana»
(si veda 2002, n. 187). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di
Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 192. Nani sulle spalle dei giganti.
Traduzioni e ritorno degli Antichi nel medioevo latino, «Studi medievali», s.
III, XLIV (2003), pp. 1053-1075. Relazione presentata al VI Convegno
Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28
settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2006, n. 201).
Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna.
Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200 e l’ottavo capitolo di Speculum naturale
(si veda 2007, n. 203). 193. Un cibo da Bengodi. Viaggio nel mondo della pasta,
«l’Erasmo», 15, 2003, pp. 87-95. 194. Istituti culturali e territorio: i
problemi della ricerca e della formazione, «Accademie & Biblioteche
d’Italia», Apertura dei lavori, in Informatica e scienze umane. Mezzo secolo di
studi e ricerche, a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Editore,
2003, pp. VII-VIII. 58 Bibliografia di Tullio
Gregory – 2004 torna su 2004 esci 196. Alle origini della terminologia
filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi, in «Giornale critico della
filosofia italiana», Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della
Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata
negli Atti del Convegno (si veda 2005, n. 199). Diventa il secondo capitolo di
Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006,
n. 200). 197. Introduzione, in MAURO SIMONAZZI, La malattia inglese. La
melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna,
Bologna, Il mulino, 2004, pp. 9-13 198. Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO,
Dall’Apiarium alla Μελισσογραφια. Una vicenda editoriale tra propaganda
scientifica e strategia culturale, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. IX, v. XV,
Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2004. 59
Bibliografia di Tullio Gregory – 2005 torna su 2005 esci 199. Alle origini
della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi in
Significare e comprendere. La semantica del linguaggio verbale. Atti dell’XI
Congresso nazionale, a cura di A. Frigerio e S. Raynaud, Roma, Aracne, 2005,
pp. 85-116. Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di
Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata su «Giornale
critico della filosofia italiana» (si veda 2004, n. 196). Diventa il secondo
capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si
veda 2006, n. 200). 60 Bibliografia di Tullio Gregory – 2006
torna su 2006 esci 200. Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di
ricerca, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2006 («Lessico intellettuale europeo,
Opuscula», 1), X- 120 pp. Indice del volume: Premessa, p. IX; Nani sulle spalle
di giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel Medioevo latino (relazione
presentata al VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli
antichi», Parma 24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno, si
veda 2006, n. 201. Pubblicata in «Studi medievali», si veda 2003, n. 192.
Diventa l’ottavo capitolo di Speculum naturale, si veda 2007, n. 203), p. 1;
Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi,
neologismi (relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di
Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti,
si veda 2005, n. 199, e in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda
2004, n. 196), p. 33; Sul lessico filosofico latino del Seicento e del
Settecento (testo, con l’aggiunta di una nota finale di aggiornamento
bibliografico, della relazione presentata al Congresso Internazionale di studi
sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18
aprile 1991 e pubblicata in Lexicon philosophicum, si veda 1991, n. 128), p.
77; Referenze bibliografiche, p. 109; Indice dei nomi, p. 111. 201. Nani sulle
spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli antichi nel Medioevo latino, in
Medioevo: il tempo degli antichi, Atti del Convegno internazionale di studi,
Parma 24-28 settembre 2003, a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa,
2006, pp. 57-64. Pubblicato in «Studi medievali» si veda (2003, n. 192).
Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna.
Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200) e l’ottavo capitolo di Speculum
naturale (si veda 2007, n. 203). 202. Paul Vignaux storico del pensiero
medievale, «Studi medievali», XLVII (2006), pp. 361-381. Traduzione italiana,
leggermente modificata, della relazione francese Paul Vignaux historien et
philosophe, letta in Sorbona il 2 aprile 2004, al Colloquio “Paul Vignaux
citoyen et philosophe”. Speculum naturale. Percorsi del pensiero
medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007 («Storia e
Letteratura», 235), X-254 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sul
pensiero medievale, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da
l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del
volume: Nature au Moyen Âge, p. 1 (si veda 1999, n. 170); Riscoperta della
natura e nuove scienze nel secolo XII, p. 15 (si veda 1994, n. 146); Il Liber
creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, p. 35
(si veda 2000, n. 177); Natura e qualitas planetarum, p. 47 (si veda 1996, n.
157); I cieli il tempo la storia, p. 69 (si veda 2000, n. 176); Lo spazio come
geografia del sacro nell’Occidente altomedievale, Per una fenomenologia del
cadavere. Dai mondi dell’immaginario, p. 121 (si veda 1999, n. 171); Nani sulle
spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi, p. 151 (si veda 2003,
n. 192, 2006, n. 200 e 2006, n. 201); Pensiero medievale e modernità, p. 173
(si veda 1996, n. 156); Cosmologia biblica e cosmologie cristiane, p. 197;
Appendice: Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento, Gusto del cibo,
itinerario storico sentimentale, «L’attimo fuggente», Presentazione, in JUNE DI
SCHINO, FURIO LUCCICHENTI, Il cuoco segreto dei papi. Bartolomeo Scappi e la
Confraternita dei cuochi e dei pasticceri, Roma, Gangemi, Per una Storia delle
filosofie medievali. Discorso di chiusura pronunciato al XII Congresso
Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo 16-22 settembre 2007) promosso
dalla SIEPM, «Studi medievali», Pubblicato negli Atti. Le acque sopra il
firmamento. Genesi e tradizione esegetica, in L’acqua nei secoli altomedievali,
Spoleto, Fondazione Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp.
1-41. 208. Spazio sacro, spazio profano. I confini simbolici nel cristianesimo
altomedievale, in Frontiere. Politiche e mitologie dei confini europei, a cura
di Carlo Altini e Michelina Borsari, Fondazione Collegio San Carlo di Modena,
2008, pp. 41-70. 209. Cosmogonia biblica e cosmologie cristiane, in Cosmogonie
e cosmologie nel Medioevo. Atti del Convegno della Società italiana per lo
studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.), Catania, 22-24 settembre 2006, a
cura di Concetto Martello, Chiara Militello e Andrea Vella, Louvain-La-Neuve,
Brepols, 2008, pp. 169-194. 210. Prefazione, in ROBERTO DE MATTEI, Il CNR e le
scienze umane, Attività della Vice Presidenza Roma, Consiglio Nazionale delle
Ricerche, Allocution, in Remise de l’Épée d’Académicien à Jean-Luc Marion, par
Marc Fumaroli de l’Académie française de l’Académie des Inscriptions &
Belles- Lettres, en Sorbonne, Salon d’honneur de la Cancellerie, 1er décembre
2009, pp. 8-13. 212. Translatio studiorum, «Quaderni di storia»,Testo
parzialmente presentato, in inglese, al decimo congresso della International
Society for Intellectual History su “Translatio Studiorum”. Ancient, Medieval,
and Modern bearers of Intellectual History (Verona, 25- 27 maggio 2009). 213.
Prefazione, in XXI Secolo-Norme e idee, direttore Tullio Gregory, Istituto
della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma 2009, pp. IX-X. 64
Bibliografia di Tullio Gregory – 2010 torna su 2010 esci 214. Dante e la «Commedia»,
in Dante e l’Islam. Incontri di civiltà, Biblioteca di Via del Senato Edizioni,
Milano 2010, pp. 37-44. 215. Bruno Nardi, storico della filosofia. Uno sguardo
d’insieme (Relazione di chiusura al Convegno di Pescia), in Per ricordare Bruno
Nardi, a cura di Laura Simoni Varanini, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2010,
pp. 43-49. 216. Tullio Gregory incontra Cartesio, «Le interviste immaginarie»,
Milano, Bompiani, 2010, 19 pp. Ristampato in appendice alla raccolta di saggi
Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 217. Il lessico Intellettuale
Europeo, in Lectio Brevis. Anno Accademico Atti della Accademia Nazionale dei
Lincei, Anno CDVIII – 2011. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche.
«Memorie», Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Testo della Lectio brevis
tenuta il 12 novembre 2010 presso l’Accademia dei Lincei, in apertura dell’anno
accademico Eugenio Garin: un ricordo in Normale, «Quaderni di storia», LXXII
(2010), pp. 11-29. 219. Claudio Leonardi medievista, «Rinascimento. Rivista dell’Istituto
Nazionale di Studi sul Rinascimento», L’ascesa del Poeta è una vera
‘Rinascita’, «La Biblioteca di via Senato – Milano», Postfazione, in LUCIO
MARIANI, Farfalla e segno. Poesie scelte (1972-2009), Milano, Crocetti
Prefazione, in FRANCA FOFFO, E le stelle stanno a mangiare... La Dolce Vita
continua, Roma, Sovera Edizioni, 2010, pp. 9-14. 223. La libraria di Fausto
Maria Franchi, in FAUSTO MARIA FRANCHI, Studiolo Crispolti, a cura di Lucia
Sabatini Scalmati, Roma, Gangemi,
Giovanni Scoto. Quattro studi, Premessa di Enrico Menestò, Spoleto,
Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2011 («Uomini e mondi medievali»,
24), VIII, 110 pp. Sono ripubblicati i tre studi su Giovanni Scoto Eriugena Le
carte di Carlo Lorenzetti, relazione tenuta presso la Biblioteca Vallicelliana
di Roma il 25 febbraio 2011, in occasione dell’inaugurazione della mostra di
Carlo Lorenzetti. 226. «Vi esorto alla Bibbia», in Bibbia, cultura, scuola.
Alla scoperta di percorsi didattici interdisciplinari, a cura di Gian Gabriele Vertova,
Carocci, Roma 2011, pp. 17-20. 227. Alle origini dell’etica moderna, in Per
un’Etica civile. Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2010-2011, a cura
di Licia Ferro, Roma, Liceo Classico Orazio, 2011, pp. 13-31. 228. Natura, in
Dizionario dell’Occidente medievale. Temi e percorsi, 2:
Letteratura/e-Violenza, Torino, Einaudi, Il tema della fortuna in Montaigne,
«Giornale critico della filosofia italiana», s. VII, LXXXX-XCII (2011), pp.
9-26. 230. Il gusto sullo scaffale, in IBC Dossier. Lo scaffale dei sapori, a
cura di Rosaria Campioni, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e
naturali della regione Emilia Romagna, 2011, pp. 60-63. L’articolo è tratto
dalla rivista «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», XIX,
3, 2011. Si veda anche 2011, n. 232. 231. L’Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, «Nuova informazione bibliografica», Il gusto sullo scaffale, in Lo
scaffale del gusto. Guida alla formazione di una raccolta di gastronomia
italiana (1891-2011) per le biblioteche, di Rino Pensato e Antonio Tolo, con la
collaborazione di Adele Blundo, contributi di Tullio Gregory e Massimo
Montanari, Bologna, Editrice Compositori, Montaigne e la fortuna, Modena,
Consorzio Festivalfilosofia, 2011 («Paginette») Bibliografia di Tullio Gregory
– 2012 torna su 2012 esci 234. Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei, in
Le Accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti del Convegno Linceo (Napoli),
Roma, Scienze e Lettere Editore Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei,
in Quintino Sella Linceo, a cura di Marco Guardo e Alessandro Romanello, Roma,
Accademia Nazionale dei Lincei, 2012, pp. 19-42. 236. Per una Storia delle
filosofie medievali, in Universalità della ragione. Pluralità delle filosofie
nel Medioevo, Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale
(Palermo), Sessioni plenarie, a cura di Alessandro Musco, Fascicolo monografico
«Schede medievali», n. 50, Palermo, Officina di studi medievali, «Studi medievali» Les sources oubliées d’une
Introduction à l’Ethica, «Giornale critico della filosofia italiana», Quasi una
Prefazione, in FRANCA FOFFO, Il dolce della vita, Roma, Sovera Edizioni, 2012,
pp. 9-11. 67 Bibliografia di Tullio Gregory – 2013 torna su
2013 esci 239. Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Roma-Bari,
Laterza («I Robinson / Letture»). Indice del volume: I. La caduta di Lucifero. II.
Apparenza e realtà, p. 17; III. La via del nero, p. 31; IV. Il principe di
questo mondo, p. 57; V. Satana e modernità, p. 67; Bibliografia, p. 79. 240. Translatio
Studiorum, in MARCO SGARBI (ed.), Translatio Studiorum. Ancient, Medieval and
Modern Bearers of Intellectual History, «Studies in Intellectual History», 217,
Leiden, Brill, Paul Vignaux, Historien et Philosophe, in Paul Vignaux, Citoyen
et Philosophe (1904-1987), sous la direction de Olivier Boulnois, avec la
collaboration de Jean-Robert Armogathe, Turnhout, Brepols, 2013, pp. 9-26. 242.
Per il XXV della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, «Studi medievali»,
Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, La biblioteca di Trisulti. L’ordine dei
codici tra il 14° e 16° secolo, Roma, Scienze e Lettere, 2013, pp. 149- 167.
244. Presentazione, in Accademia nazionale dei Lincei. Inventario dell’archivio
(1944-1965) a cura di Paola Cagiano De Azevedo, Roma, Ministero dei beni e
delle attività culturali, Le carte di C.
Lorenzetti, Discorso pronunciato il 24 febbraio 2011 nel Salone Borromini della
Biblioteca Valliceliana in Roma per l’inaugurazione della Mostra “Carte e libri
d’artista” di Carlo Lorenzetti, Città di Castello, Bibliografia di Tullio
Gregory – 2014 torna su 2014 esci 246. Le plaisir d’une chasse sans gibier.
Faire l’histoire des philosophies: construction et déconstruction, «Giornale
critico della filosofia italiana», Testo della relazione presentata il 25
settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut
International de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son
histoire”; in italiano diventa il primo capitolo di Vie della modernità il
Lessico Intellettuale Europeo compie cinquant’anni, in Locus- spatium. XIV
Colloquio Intrnazionale (Roma 3-5 gennaio 2013), Atti a cura di Delfina
Giovannozzi e Marco Veneziani, Roma, Leo S. Olsckhi Prefazione, in FAUSTO MARIA FRANCHI, PIER
LUIGI PICCARI, LUCIA SABATINI SCALMATI, Ricette preziose dal gioiello al pane,
Terni 2014, pp. 7-10. 249. Presentazione, in LUISA RUBERTI, Le ricette di
Luisa. La cucina campana a modo mio, Firenze-Milano, Giunti, 2014.
69 Bibliografia di Tullio Gregory – 2015 torna su 2015 esci 250. Carlo
Lorenzetti e il Lessico, in Segno e parola. Carlo Lorenzetti e il Lessico
Intellettuale Europeo, Catalogo della mostra (Roma), a cura di Giovanni Adamo e
Cristina Marras, Firenze, Leo S. Olschki Editore, La rinascita nel dopoguerra,
in Treccani. Novanta anni di cultura italiana, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, 2015, pp. 15-18. 252. Dubbio, fede e religioni in
Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», Prefazione, in La
cultura e il mondo. Aggiornamento della Enciclopedia Italiana, Nona appendice,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,
Michel de Montaigne o della modernità, Pisa, Edizioni della Normale,
2016 («Variazioni», Translatio linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze,
Leo S. Olschki Editore, 2016 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 2),
IX-75 pp. 256. Vie della modernità, Firenze, Le Monnier Università, 2016
(«Centro Interdipartimentale di Studi su Descartes e il Seicento. Saggi. Nuova
serie», 1), 174 pp. Indice del volume: 1. Il piacere di una caccia senza preda.
Fare storia delle filosofie: costruzione e decostruzione, p. 1 (testo italiano
della relazione francese presentata il 25 settembre 2014 in apertura
dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de Philosophie sul
tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; apparso sul «Giornale
critico della filosofia italiana», si veda 2014, n. 246); 2. Michel de
Montaigne ou «le plaisir de la variété», p. 22 (traduzione francese, con
qualche variante, della prefazione all’antologia dell’edizione spagnola degli
Essais di Montaigne, si veda 1997, n. 160; 3. La saggezza scettica di Pierre
Charron, p. 40 (pubblicato in «De homine», si veda 1967, n. 49); 4. «Il libro
scandaloso» di Pierre Charron, p. 55 (pubblicato in Etica e religione nella
critica libertina, si veda 1986, n. 110); 5. Pierre Gassendi nel IV centenario
della nascita, p. 71 (testo italiano del discorso di apertura del “Colloque
International Pierre Gassendi”, pubblicato in «Giornale critico della filosofia
italiana», si veda 1992, n. 140); 6. Il libertinismo erudito, p. 93 (pubblicato
in Etica e religione nella critica libertina, Aristotelismo e libertinismo, p.
115 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1982,
n. 93, e negli atti del Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo
veneto e scienza moderna”, si veda 1983, n. 95); 8. Apologeti e libertini, p.
127 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2000,
n. 179); Appendice: Tullio Gregory incontra Cartesio. Commentario (direzione
scientifica) in GIORGIO SIDERI DETTO CALAPODA, Portolano 6. 1550, Roma,
Treccani, 2016, 236 pp. 258. Ereditare e tradurre, Modena, Consorzio
Festivalfilosofia, 2016 («Paginette»), 24 pp. 259. Postfazione “La cultura del
vino” in MARCELLO MASI, ROCCO TOLFA, Signori del vino, prefazione di Carlo
Petrini, Roma, Rai Eri, 2 Bibliografia di Tullio Gregory – 2017 torna su
2017 esci 260; “L’ambigua dignità dell’uomo moderno” «Quaderni di storia», Bibliografia
di Tullio Gregory – 2018 torna su 2018 esci 261. Considerazioni per una storia
del pensiero scientifico altomedievale, «Studi medievali», Veritates in mensa,
Modena, Consorzio Festivalfilosofia («Paginette»), La biblioteca dei Lincei:
percorsi e vicende, Letture corsiniane, Roma, Bardi Edizioni, 2019, 24 pp. 264.
Fra i miei libri, «Giornale critico della filosofia italiana», Fra i miei
libri, «Voci», Istituto Enciclopedia Italiana, Sapida scientia. Percorsi
gastronomici da Il Sole 24 ore (1999-2018), Roma, ILIESI, 2019, 217 pp.
Raccolta degli articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1999 e il
2018 su Il Sole 24 ore. Stampato in numero limitato di esemplari in occasione
del novantesimo compleanno di Tullio Gregory. 74Tullio Gregory. Gregory.
Keywords: implicatura clandestina, clandestino – cognate with celare and
occolto -- terminologia filosofica, libertinismo, filosofia clandestine, il
libertino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregory: l’implicatura” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754581552/in/dateposted-public/
Grice e Griffero – l’inter-soggetivo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Asti). Filosofo:
Grice: “I like Griffero; for one, he has a taste for neologisms, like his
atmospherelogy – He has understood that aesthesis, qua sensatio, is the basis
for aesthetics, and he has explored the philosophies of Tarso, Spranger, and Schelling!”
Insegna a Roma. Studia a Torino sotto Vattimo su“L’ermeneutica.” Studia Betti (“Interpretare.
La teoria di Betti e il suo contesto” – Rosemberg,Torino) ed il concetto di spirito
e forma di vita. La filosofia della cultura (Angeli, Milano). Si dedica al
rapporto tra arte e mito, scrivendo poi Senso e immagine. Simbolo e mito (Guerini,
Milano), Cosmo Arte Natura. Itinerari
(Cuem, Milano), nel quale si concentra sulle caratteristiche del
real-idealismo, e infine una ricostruzione dell'apporto dato da questo autore
all'estetica filosofica (Estetica -- Laterza, Roma). La nozione di
"immaginazione transitiva", è invece affrontata in “Immagini Attive:
beve storia dell'immaginazione transitiva (Monnier, Firenze). Ricostruisce la
storia della credenza secondo cui una fantasia particolarmente forte sarebbe in
grado di agire, cambiando o addirittura generando la realtà esterna. In
Realismo e Idealismo (Nike, Segrate) analizza il Pietismo Speculativo. La
corporeità spirituale è il "fine ultimo delle opere di Dio. L'ampia storia
del concetto e esposta in Il corpo spirituale. Ontologie sottili"
(Mimesis, Milano). La ricerca sulla fenomenologia del corpo e della
percezione e l'estetica delle atmosfere è affrontata in “Atmosferologia.
Estetica degli spazi emozionali (Laterza, Roma). Nel libro Quasi-cose. La
realtà dei sentimenti (Mondadori, Milano ) indica e analizza sulla scorta dei
un'estetica neo-fenomenologica i sentimenti atmosferici, il dolore, la
vergogna, lo sguardo, il crepuscono, il corpo vissuto come quasi-cose, entità
aggressive e decisive per la nostra esistenza senza essere riducibili al
paradigma cosale tipico della tradizione occidentale Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica
patica (Guerini, Milano) delinea, a partire dalla nozione estetico-fenomenologica
di “atmosfera”, i contorni di un'estetica orientata non allo gnosico ma al
patico, che non tematizza un oggetto (come una espressione) speciali come le
opere d'arte ma il modo in cui “ci si sente” quando ci si espone, soprattutto
involontariamente, ai sentimenti presenti nell'ambiente circostante. Il
tema è sviluppato, esteso a considerazioni sull'atmosfericità del linguaggio, sulla
presenza e la inter-soggettività re-interpretate in chiave fenomenologica.
Altre opera: Storia dell'estetica (Nuova Cultura, Roma). 5. Quali
atmosfere per quali spazi? Dicendo, con precisione tutt’altro che metaforica
(cfr. Griffero 2010d) che, ad esempio, l’aria si è fatta pesante e il suono
opprimente, l’odore penetrante e il silenzio solenne, ci si riferisce non certo
allo spazio locale ma allo spazio assoluto e predimensionale (più o meno
transitorio) delle “isole” leiblich. Ne viene – ed è ciò che ovviamente più
interessa nel nostro più generale progetto atmosferologico (cfr. Böhme 1995,
Griffero 2010 e Griffero 2014) – che lo spazio non locale del sentimento
(Gefühlsraum)14, permeato cioè da sentimenti o tonalità emotive (Gefühle o
Stimmungen) (cfr. Schmitz 1969), intesi ora come atmosfere, come quasi-cose
caratterizzate (quanto meno nella loro forma 12 Una spazialità a rigore non
solo non tridimensionale, ma neppure bidimensionale (superficie),
monodimensionale (retta) o non-dimensionale (nel senso in cui lo è il punto).
13 L’abitare è per Schmitz, propriamente, cultura-coltivazione dei sentimenti
in uno spazio recintato. 14 La tesi secondo cui «i sentimenti sono spazialmente
estesi [...] sarebbe inconcepibile o addirittura comica se si riferisse allo
spazio locale», giacché in tal caso «un sentimento sarebbe forse una sorta di
sfera o un triangolo nel ventre o in prossimità della testa» (Schmitz 1990, p.
292). © SpazioFilosofico 2014 – ISSN: 2038-6788 351 prototipica e cioè
oggettivo-distonica) da direzioni abissali, costituisce l’apriori di ogni
nostra esperienza, specialmente involontaria. Come le valenze espressive delle
singole cose e persone possono invitarci a fare o respingere qualcosa, così le
affordances dello spazio del sentimento, irriducibili all’assetto ottico e agli
effetti solo pragmatici cui pensa James Gibson, portano infatti in luce
l’articolazione decisamente anisotropa (atmosferica) della nostra Lebenswelt.
Ma, se avvertire un’atmosfera significa avvertire la qualità affettiva e
leiblich “espressa” (un termine da non concepire, in una radicale
Erscheinungswissenschaft, nel senso dell’estroflessione di un interno) dai
nostri “intorni”, occorre da ultimo interrogarsi sulle atmosfere specifiche dei
tre livelli di spazialità menzionati. Allo spazio della vastità c)
corrispondono le atmosfere letteralmente s-confinate delle Stimmungen pure,
come tali alla base dell’intero edificio della vita emozionale. Troviamo qui da
un lato l’estensione piena della soddisfazione, concepibile non come gioia ma
come quieto equilibrio (nel senso, ad esempio, dell’intimità famigliare), e
dall’altro l’estensione vuota della disperazione, concepibile più come la
medioevale acedia o l’ennui (nel senso, ad esempio, della lieve noia che ci
coglie nelle stazioni o al cospetto del graduale impallidire serale delle cose)
che non come un cruccio opprimente. Allo spazio direzionale b) corrispondono,
invece, tre forme di atmosfere vettoriali. Anzitutto b1) le Erregungen pure,
vale a dire emozioni strutturate e tuttavia diffuse e prive di un vero tema
specifico (per questo abgründig per Schmitz), le quali, contrariamente alle
fondamentali direzioni leiblich, possono essere anche centripete, aggredirci ab
extra pur in assenza di una fonte precisa (cosa o quasi-cosa che sia) e quindi
di una “ragione”. E poi b2) le emozioni “centrate”, le cui terminazioni e
condensazioni in un oggetto (quando la Sehnsucht, ad esempio, si precisa come
amore), in quanto tali responsabili della (secondo Schmitz fuorviante) teoria
dell’intenzionalità dei sentimenti15, possono essere unilaterali (esaltanti o
deprimenti), onnilaterali, centrifughe (come la Sehnsucht), centripete (come la
paura e la sfiducia indeterminate), ma anche indecise, come nel caso del
“presentimento”. Allo spazio locale a), infine, corrispondono16 le atmosfere
generate dagli oggetti e dalla loro collocazione, relativa fin che si vuole
nella spazialità locale eppure su di noi intensamente “attiva”, ad esempio in
virtù di qualità espressive che, eccedendo di gran lunga l’ufficio delle
proprietà − in linea di principio accidentali e parassitarie rispetto a un
substrato sostanziale (nei sentimenti atmosferici assente in linea di
principio) −, fungono da vere e proprie “estasi” (cfr. Böhme 2001, pp. 193-210).
Quasi fossero i “punti di vista” con cui le cose in un certo senso escono da se
stesse (cfr. Griffero 2005) e che appaiono inspiegabili come mera espressione
di un interno (qui propriamente inesistente), le atmosfere o estasi delle cose
paiono analoghe a potenze 15 I presunti sentimenti intenzionali – l’ira, ad
esempio − sarebbero meglio spiegabili, come sentimenti atmosferici centrati,
chiamando in causa una dissociazione tra punto di ancoraggio (lo stato di cose
che suscita l’ira) e zona di condensazione (l’uomo o l’oggetto con cui si è
adirati): due elementi di solito poco connessi sotto il profilo causale o
logico (gestalticamente: figura/sfondo), visto che – ed è forse illogico ma
adattivamente funzionale! – si teme, ad esempio, più la persona che potrebbe
ucciderci (condensazione) che non la morte come tale (cfr. Schmitz 2007, p.
64). 16 Ma Schmitz qui obietterebbe che, le atmosfere non essendo per lui
intenzionalmente producibili e riducibili a cose singole (giusta una più
generale campagna contro la forma mentis singolaristica su cui non possiamo qui
fermarci), le impressioni suscitate dalle cose non sarebbero autentiche
atmosfere. 352 demoniche (numinose) indipendenti dalla nostra
volontà. Sono, in altri termini, qualità espressive (inviti, affordances),
nella cui manifestazione in certo qual modo le cose si esauriscono, esattamente
come il vento coincide col proprio soffiare (cfr. Griffero 2013b). Sono
modi-di-essere pervasivi (cfr. Metzger 1941, pp. 77-78) che, generando lo
spazio affettivo cui il soggetto accede, danno vita a una co-presenza
(proprio-corporea, anzitutto, ma anche sociale e simbolica) di soggetto e
oggetto, a un “tra” (un tema caro a Böhme) anteriore alla distinzione
soggetto/oggetto, a una relazione che paradossalmente (per la logica ordinaria,
s’intende) dev’essere anteriore ai suoi relati, pena una ricaduta nel dualismo
aborrito.Tonino Griffero. Griffero. Keywords: l’inter-soggetivo, Betti,
ermeneutica, fenomenologia, Vico, il circolo dell’implicatura, implicatura
ammosferica-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Griffero” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754816486/in/dateposted-public/
Grice e
Grimaldi – implicatura anti-peripatetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cava
de’ Tirreni). Filosofo. Grice: “I have spoken of ‘magic’ – “two kinds of magic’
– actually, for Grimaldi there are THREE: ‘black magic,’ ‘artificial magic,’
and my favourite, ‘natural magic’!” Nacque da nobile famiglia locale di origini
genovesi. Compì i suoi studi avvicinandosi a Cartesio, di cui fu seguace e fece
parte del gruppo chiamato degli epigoni dell'Accademia degli Investiganti. Consigliere
Regio. Scrive numerose opere, raccolte poi in "Istoria dei libri di don
Costantino Grimaldi, scritta da lui medesimo". Tra quelle più note si
possono elencare le “Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del
Regno di Napoli” (Napoli), le “Discussioni filosofiche” (Lucca), la “Dissertazione
sulle tre magie, naturale, artificiale e diabolica (Roma). Il figlio gli dedicò
"Ragioni genealogiche a' favore della Famiglia Grimaldi del Sig. Cons. D.
Costantino Grimaldi. Colli signori Grimaldi di Seminara, e con quelli patrizj
di Catanzaro" F. A. Meschini, nel Dizionario Biografico degli Italiani, indica
Napoli come città natale. Memorie di un anticurialista del Settecento. Testo,
introduzione note V.I. Comparato. Firenze, Olschki, Biblioteca dell'«Archivio
storico italiano», Franco Aurelio Meschini,
Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Anticurialismo. GRIMALDI, Costantino. -
Nacque a Napoli il 30 genn. 1667 da Francesco Antonio e Antonia Cacace. Ebbe
come maestro per le belle lettere e l'oratoria Matteo Taurini. Spinto dallo zio
Scipione, sacerdote secolare, a frequentare le Scuole pie di largo dello
Spirito Santo, vi strinse amicizia con il padre Tommaso di S. Tommaso d'Aquino,
dal quale apprese la filosofia aristotelica. Dopo l'anno di logica, al termine
del quale sostenne alcune pubbliche conclusioni, proseguì gli studi non di
metafisica, come avrebbe voluto, bensì, per volere paterno, di legge, sotto
Domenico Radesca e Matteo De Lellis. Lesse poi, per proprio conto, E. Tesauro,
F. Piccolomini e, per i casi di coscienza, la summa di A. Diana e l'opera di M.
Bonacina. A sedici anni, con la dispensa del Collaterale per la giovane età,
ottenne la laurea. Prese quindi a frequentare il foro, senza tralasciare,
tuttavia, lo studio delle belle lettere sotto la guida del leccese Luca
Giordano che lo avviò alla lettura dei moderni: L. Di Capua, T. Cornelio, R.
Boyle, P. Gassendi, R. Descartes. Non trascurò i classici, Cicerone e
Quintiliano sopra tutti, studiò lo spagnolo e il francese, i rudimenti della
geometria su Euclide e la medicina sotto la guida di Tommaso Donzelli. Di lì a
poco prese a frequentare il circolo di Giuseppe Valletta e strinse amicizia con
diversi personaggi illustri: Francesco Billio, Filippo Anastasio, Giuseppe
Lucina, Giacomo Grazini, Domenico Greco, Antonio Monforte, Giacinto Di Cristofaro,
Niccolò Capasso, Niccolò Cirillo, Matteo Egizio, Ottavio Ignazio Vitagliano,
Amato Danio, Felice Stocchetti. È di questi anni l'idea, cara
all'ambiente vallettiano, di una storia universale della filosofia, che il G.
concepì in contrapposizione al gesuita Giovan Battista De Benedictis. Questi
nel 1694, sotto lo pseudonimo di Benedetto Aletino, aveva dato alle stampe a
Napoli le Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della
filosofia peripatetica: cinque lettere indirizzate a personaggi fittizi (ma
facilmente identificabili) e reali dell'ambiente investigante. La necessità di
una risposta al gesuita fu immediata; lo stesso G. fornisce l'elenco di quanti
risposero o manifestarono l'intenzione di rispondere: Giuseppe Lucina, Filippo
Anastasio, Francesco D'Andrea, Domenico Greco e Giuseppe Magrino. Da parte sua
il G. in un primo momento (è lui stesso a ricordarlo) pensò di rispondere
indirettamente, compilando la sopra ricordata storia, che avrebbe dovuto
seguire lo sviluppo della filosofia nelle singole nazioni, soprattutto nel suo
sorgere presso i Greci, nel passaggio ai Romani, quindi agli Arabi e infine ai
moderni. Quando apparve chiaro che le risposte attese o annunciate non
avevano raggiunto lo scopo o che addirittura erano destinate a restare allo
stato di progetto, mentre peraltro l'Aletino e i suoi sostenitori continuavano
nell'offensiva contro i moderni, il G. si accinse a rispondere al
gesuita. Le tre risposte del G. videro la luce tra il 1699 e il 1703.
Nella prima (Risposta alla lettera apologetica in difesa della teologia
scolastica di Benedetto Aletino. Opera nella quale si dimostra esser quanto
necessaria ed utile la teologia dogmatica e metodica, tanto inutile, e vana la
volgar teologia scolastica, stampata a Ginevra per l'interessamento di C.
Musitano, presso Tournes, ma datata da Colonia presso S. Hecht), pubblicata
anonima, il G. muove dalla distinzione (già in Valletta) tra una buona e una
cattiva (volgare) scolastica: la prima che non si discosta dalla Sacra Scrittura,
dalla tradizione, dai Padri, dai concili, dall'autorità, la seconda che, al
contrario, non fa debitamente ricorso alla tradizione e pretende di provare le
verità di fede con la sola ragione umana, muovendo dalla filosofia. Descartes,
che secondo uno schema consueto ai novatoresnapoletani viene accomunato spesso
a Gassendi, è presentato come estremamente rispettoso nei confronti della sacra
dottrina, in contrapposizione a quei filosofi che dialettizzavano la
teologia. La Risposta, di cui ben presto si conobbe il nome dell'autore,
procurò al G. notevole fama e apprezzamento anche fuori del Regno e lo mise in
contatto con letterati illustri, tra cui G.V. Gravina, L.A. Muratori, A.
Magliabechi, J. Mabillon. Nella seconda risposta (Risposta alla seconda lettera
apologeticadi Benedetto Aletino. Opera utilissima a' professori della
filosofia, in cui fassi vedere quanto manchevole sia la peripatetica dottrina,
1702), non più anonima, data la favorevole accoglienza della prima, e stampata
realmente a Colonia "perché trovò le stamperie occupate in Ginevra",
sono affrontati più direttamente i problemi della filosofia aristotelica e del
suo rapporto con la fede e con la dottrina cristiana. Con abile mossa il
G. trasforma questa seconda risposta in un serrato attacco ad Aristotele,
proprio sul terreno più caro all'Aletino, l'affidabilità teologica dello
Stagirita. Sulla base di un sapiente incastro di testi (F. Patrizi, P. Ramo, P.
Gassendi, ma anche gesuiti come Juan Maldonado, Antonio Possevino, Michel
Elizade o domenicani come Melchior Cano) e di abili argomentazioni, il G.
dimostra come alla luce dei principî aristotelici diventino insostenibili i
cardini della fede cristiana: la provvidenza, la creazione, l'immortalità
dell'anima; e, sul versante della scienza, la corruttibilità dei cieli.
Diversamente, i moderni, Descartes sopra tutti, hanno professato dottrine non
in contrasto con le Scritture: ne è esempio l'impegno del filosofo francese per
conciliare la dottrina eucaristica con la sua concezione della res extensa.
Alla terza risposta (Risposta alla terza lettera apologetica contra il Cartesio
creduto da più d'Aristotele di Benedetto Aletino. Opera in cui dimostrasi
quanto salda e pia sia la filosofia di Renato delle Carte e perché questa si
debba stimare più d'Aristotele, 1703), stampata questa volta in Napoli da G.
Rosselli, ma sempre con l'indicazione di Colonia (perché senza la licenza
dell'arcivescovo), è affidata la difesa di Descartes dagli attacchi
dell'Aletino. Questa risposta, più ancora delle prime due, rappresenta
uno fra i più importanti documenti nella diffusione del pensiero e delle opere
di Descartes in ambiente napoletano. Il G. appare, anzi, come uno dei più
attenti, se non il più attento interprete partenopeo del filosofo francese, sia
per la conoscenza pressoché integrale del corpuscartesiano allora disponibile,
comprese le lettere e gli Opuscula postuma, sia per l'acume interpretativo.
Descartes, "il miglior filosofante di ogni tempo", viene visto
soprattutto muovendo dalla sua metafisica: "È ben noto che non solamente
il metafisico sistema cartesiano s'aggiri tutto intorno alla cognizione d'Iddio
[…] ma il sistema ancor fisico tutto quanto è, suppone necessariamente per
fabro, e regolatore il supremo facitore" sicché "togliendosi per
ipotesi il darsi Iddio, caderebbe e si ridurrebbe a nulla la macchina del
Cartesiano sistema" (pp. 186-188). Questa piegatura metafisica, nuova
rispetto a pensatori come Valletta e D'Andrea e più in generale all'ambiente
investigante e a quello dell'Accademia di Medina Coeli, permise al G. di
allontanare da Descartes la pericolosa accusa di collusione con l'atomismo
antico, e di inserirlo nell'alveo della tradizione di Platone e di Agostino, di
cui, in particolare, Cartesio è detto "fido seguace". Tutti i temi e
i testi della metafisica cartesiana, in un discorso che è al tempo stesso
giustificazione e ricostruzione del moto rinnovatore napoletano che da quei
testi aveva tratto alimento, sono passati in rassegna: il dubbio, il cogito
ergo sum, il criterio dell'evidenza (ove grande importanza è data al momento
dell'intuitus, il "guardo"), le dimostrazioni dell'esistenza di Dio.
Esaminata e così difesa la metafisica, la fisica cartesiana, di cui il G.
discute il ruolo delle ipotesi (diverse dalle supposizioni dei poeti e degli
astronomi, spesso impossibili), appare se non più agevole, certo più sicura. Il
G., che difende al tempo stesso Descartes e Leonardo Di Capua, polemizza non
solo con l'Aletino ma anche con talune sue fonti come il padre G. Daniel e
soprattutto l'astronomo Pierre Petit, che l'Aletino aveva indicato come propria
guida. Vengono così discusse, cogliendone precisamente i nessi, le principali
concezioni fisiche del filosofo francese: il corpuscolarismo legato al rifiuto
delle forme sostanziali (concetto applicabile solo all'anima
"ragionevole"); la riduzione della materia a estensione e negazione
del vuoto; l'universo indefinito (non infinito come gli attribuiva l'Aletino),
costituito dal moto che Dio ha impresso alla materia; l'accettazione del
principio inerziale, da cui discende che il cosmo è retto dalle leggi del moto
e liberato da ogni visione antropomorfica e finalistica. Con questo cosmo
materiale l'uomo, non più centro dell'universo, intrattiene un rapporto grazie
alle sensazioni e alle passioni, che sono in vista della conservazione e della
salvaguardia del composto anima e corpo. Nel 1703 uscì una replica
dell'Aletino alla terza Risposta del G., la Difesa della scolastica teologia,
ed ebbe inizio anche lo scambio di accuse tra i due presso il Sant'Uffizio, che
diede il via a una serie di relazioni e controrelazioni. Nonostante ciò, il G.
trovò a Roma un clima non del tutto sfavorevole, soprattutto tra i prelati
filogiansenisti, e l'opera poté liberamente circolare; anzi, grazie soprattutto
all'interessamento di A. Magliabechi (cfr. lettera del G. a Magliabechi del 13
marzo 1703, Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII.671), ebbe una notevole
diffusione in Italia e fuori. Tra il 1703 e il 1704 il G. abbozzò le risposte
contro la IV e la V lettera del gesuita. Nel 1704 venne colto da un colpo
apoplettico e l'anno dopo l'Aletino (insinuando che il 28 febbr. 1704 s.
Ignazio avesse colpito il G. perché aveva osato "malmenar" la sua
Compagnia) intervenne nuovamente con una Difesa della terza lettera apologetica
di Benedetto Aletino. La morte improvvisa del gesuita, l'anno successivo (il G.
non mancò qualche anno più tardi di vendicarsi delle insinuazioni dell'Aletino,
collegando la sua morte a una punizione celeste), la sua stessa malattia, la
denuncia alla congregazione romana delle tre risposte, il fatto che altri
avessero risposto alla replica dell'Aletino (Filippo Anastasio diede fuori uno
scritto, che non venne pubblicato, ma il G. ebbe modo di leggerlo), sono tra i
motivi per cui il G. non volle dar seguito allora alla polemica; nello stesso
periodo, tuttavia, mise mano a un'Analisi del modo di teologare, il cui
bersaglio era pur sempre la teologia scolastica, che l'autore non portò a
termine perché chiamato (direttamente dalla corte di Barcellona, su consiglio
di Nicolò Caravita) a difendere gli editti regi in materia di benefici
ecclesiastici nel Regno di Napoli contro la Curia romana. Il G., che
aveva già ricoperto cariche in seno all'amministrazione (governatore
dell'arrendamento dei ferri in Terra di Lavoro e deputato dell'arrendamento del
tabacco), venne chiamato a questo incarico il 20 luglio 1708. La pretesa del re
Carlo d'Asburgo, espressa negli editti, di conferire benefici ecclesiastici
solo a regnicoli, contro la pretesa della Curia romana, venne dunque sostenuta
dal G. nelle Considerazioni teologico-politiche fatte a pro degli editti di s.
maestà cattolica intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (I-II,
Napoli 1708-09), che furono recensite nel IV supplemento degli Acta eruditorum
del 1711 (pp. 369 s.). La risposta di Roma non si fece attendere: il 17 febbr.
1710 la Curia emanò una bolla che colpiva, con le opere di Alessandro Riccardi
e Gaetano Argento, la prima parte del Trattato delle considerazioni
teologico-politiche, mentre la seconda parte veniva raggiunta dalla censura
neppure un mese dopo, il 24 marzo. Il G., che nel 1709 era stato nominato
consigliere straordinario del tribunale di S. Chiara (diverrà ordinario il 28
febbraio dell'anno successivo), preparò contro il testo della censura (la cui
stesura si doveva al benedettino Nicolò Maria Tedeschi) un Avviso critico et
apologetico intorno alla bolla, et alla censura fatta a' libri intitulati
Considerazioni teologico-politche, che circolò manoscritto negli ambienti anticuriali
napoletani. Morto l'Aletino, la polemica con i gesuiti non cessò: in un
processo che li riguardava essi ricusarono il G. come giudice, facendo leva
sulla passata polemica con il loro confratello e ottennero poi, con l'appoggio
del reggente S. Biscardi, l'esclusione del G. da tutti i processi in cui fosse
coinvolta la Compagnia, con una sentenza del Collaterale del 19 dic. 1710. Il
G., che cercò inutilmente di ottenere la revoca del decreto (facendo anche
intervenire L.A. Muratori presso il viceré Carlo Borromeo Arese, di cui l'abate
modenese era amico), ebbe tuttavia dalla sua parte Gaetano Argento e il
reggente Gaetano Rubini. Numerosi consulti negli anni successivi testimoniano
la sua attività di consigliere. In questi stessi anni il G. riprese in mano le
risposte all'Aletino con l'intenzione di pubblicarne una nuova edizione. Le
controverse vicende della stampa sono documentate dal G. stesso nelle sue
Memorie, ora pubblicate, a cura di V.I. Comparato, con il titolo Memorie di un
anticurialista del Settecento, Firenze 1964. Terminata la stesura dell'opera il
G., il 29 marzo 1719, chiese la licenza di stampa al Collaterale (non
all'arcivescovo, precisa lo stesso G., per l'illegittimità, a suo avviso, della
licenza ecclesiastica); si rivolse quindi allo stampatore Nicolò Parrino, che,
iniziata la stampa, la sospese di lì a poco su pressione di ambienti curiali. A
questo punto il G., secondo una prassi invalsa, ottenuti dallo stesso Parrino i
caratteri, continuò la stampa in casa propria. Gli ostacoli e gli equivoci
erano, tuttavia, ben lungi dall'essere superati: il cardinale Francesco
Pignatelli, arcivescovo di Napoli, cercò, infatti, di far interrompere la
stampa, senza però riuscirci; d'altro canto il viceré, cardinale Michail
Friedrich d'Althan, che in un primo momento aveva fatto intendere che avrebbe
gradito che l'opera gli fosse dedicata - cosa che il G. fece - sollevò mille
difficoltà, cui il G. rispose punto per punto, finché "vidde, ed odorò che
il signor viceré non facea più da viceré, le cui parti altre certamente
sarebbero state, ma da ministro di Roma, e da esecutore delle voglie altrui,
non ascoltando altro che gl'impulsi venutigli da colà" (ibid., p. 54). I
volumi, già stampati, vennero sequestrati, salvo quelli che il G. aveva fatto
circolare tra gli amici. Tre copie vennero inviate a Roma per il tramite del
cardinale Àlvaro Cienfuegos, ministro plenipotenziario austriaco. Una di queste
venne fatta pervenire direttamente al pontefice. Il 23 sett. 1726 arrivò la
condanna della congregazione dell'Indice, che colpiva sia la prima sia la
seconda edizione delle Risposte. Il G. affidò la sua difesa a un memoriale in
cui rivendicava il fatto che la prima edizione delle Risposte fosse passata
immune per ben tre volte all'esame del Sant'Uffizio. La nuova edizione,
intitolata Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche di Costantino
Grimaldi fatte per occasione della risposta alle lettere apologetiche di
Benedetto Aletino (I-III, Lucca 1725), contiene, in realtà, alcune importanti
aggiunte, che danno conto soprattutto delle letture che in quegli anni il G.
andava facendo e di nuovi legami maturati anche al di fuori dell'ambiente
napoletano: in particolare Mabillon e Muratori, Jean Le Clerc e Noël Alexandre.
Gli interventi più significativi sono nella prima risposta, con una più
convinta difesa del giansenismo, che è al tempo stesso presa di posizione per
un cristianesimo nutrito delle Sacre Scritture. Ciò significava anche, nel
momento in cui veniva tolta alla ragione la giurisdizione sulla fede, liberare
il campo della filosofia dalle intrusioni teologiche e difendere quella
libertas philosophandi che era stata e continuava a essere la bandiera dei
novatores. Le risposte alla quarta e alla quinta lettera, rimaste manoscritte e
ora conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli, furono redatte in un
lasso di tempo che presumibilmente va dagli anni immediatamente successivi alla
pubblicazione della terza risposta a dopo il 1724. Nella quarta risposta il G.
attinge a pensatori come Pierre Bayle e Richard Simon, a libertini come
François de La Mothe Le Vayer e Gabriel Naudé, alla cultura investigante,
sempre a Descartes, ma anche a Nicolas Malebranche. E, tuttavia, è soprattutto
il Muratori, con le sue Riflessioni sopra il buon gusto, a rappresentare in
questa fase, in cui la polemica con l'Aletino è ormai piuttosto un pretesto, un
punto di riferimento. La scolastica è attaccata sia nel suo interprete più
ortodosso, Tommaso d'Aquino, la cui valorizzazione di Aristotele non può
servire ai sostenitori del filosofo greco perché filologicamente non sorretta
dalla conoscenza del greco, sia nel suo ispiratore principe e cioè Aristotele
stesso, di cui il G. passa in rassegna gli errori nelle varie scienze. A essi,
tuttavia, il G. non contrappone un nuovo corpusdottrinale, bensì, con un
atteggiamento caro ai moderni, il metodo, aprendosi a una vera e propria
apologia della ricerca. Non mancano altresì affermazioni che nella
sostanza suonano anticartesiane, soprattutto nella direzione di un certo vitalismo
della tradizione naturalistica meridionale. Nella quinta risposta, Per la
scelta d'Aristotele in maestro contro a' libertini ed atomisti, il G. affronta
il tema dell'ateo virtuoso e, per spezzare la relazione tra atomismo e ateismo,
cavallo di battaglia dell'Aletino, ribalta l'accusa di ateismo su Aristotele,
che per di più è giunto in Occidente attraverso la mediazione irreligiosa di
Averroè ed è all'origine sia degli errori di P. Pomponazzi sia, ancor più, di
B. Spinoza. La fortuna della filosofia aristotelica, d'altro canto, era nata,
secondo il G., dalla crisi della cultura nel Medio Evo e ora era in declino
proprio per l'avanzamento della verità, grazie, soprattutto, alle scienze
sperimentali. L'opera, che si conclude con un'apologia della ragione e
dell'esperienza, contiene anche i germi di quel riformismo cattolico che
troverà in Muratori più compiuta maturazione: diminuzione delle feste
religiose, superamento della condanna sull'usura, rifiuto del magico e del
diabolico. Rinnovamento che passa - ciò è una costante nelle opere del G. -
attraverso la comprensione critica della storia ecclesiastica, meglio,
attraverso la storia ecclesiastica quale strumento critico della disciplina se
non della dottrina. Tra il 1729 e il 1733, cioè dall'uscita di scena del
viceré d'Althan all'avvento degli Austriaci, il G. trascorse uno dei periodi
più tranquilli della sua vita e al tempo stesso più intensi per la sua attività
politica: insieme con Biagio Garofalo compilò la lista delle "proposizioni
ingiuriose alla potestà de' principi" nelle Riflessioni morali e
teologiche, scritte dal gesuita G. Sanfelice contro P. Giannone, prese parte al
progetto di riforma dell'Università di Napoli, appoggiò la candidatura di
Biagio Garofalo a teologo del Collaterale e di Celestino Galiani alla
cappellania maggiore del Regno. Il ritorno a Napoli degli Spagnoli con
l'avvento di Carlo di Borbone segnò una nuova svolta negativa nella vita del
G., nei cui confronti venne aperta un'inchiesta, ancora una volta in base alle
accuse della corte di Roma e dei gesuiti, in seguito alla quale, nel 1735,
perse la carica di consigliere, non senza, tuttavia, che il re riconoscesse il
suo valore: gli venne, infatti, concesso "l'onor della toga e l'intiero
soldo". È in questo momento che il G. pose mano all'Istoria de'
libri di Costantino Grimaldi scritta da lui medesimo, con l'intento di
difendere il suo operato; fonte preziosa che permette di seguire la genesi
delle sue opere e delle polemiche in cui fu impegnato. Per ottenere il
passaggio delle sue opere censurate dalla prima alla seconda categoria
dell'Indicedovette adoperarsi con tutte le forze, ricorrendo agli amici,
facendo appello a tutta la Curia romana e giungendo, infine, a una
ritrattazione (1736) che, a sua insaputa e con suo disappunto, venne pubblicata
l'anno successivo nelle Novelle letterarie di Venezia. Negli anni
successivi visse appartato, continuando a intrattenere rapporti epistolari con
vari rappresentanti della repubblica letteraria, in particolare G.M.
Mazzuchelli. A questo invierà l'Elogium che gli aveva dedicato il padre Casto
Innocente Ansaldi, insieme con le Discussioni storiche e una versione
abbreviata dell'Istoria de' libri, scritta nel 1735, cui aggiunse le notizie
relative agli anni successivi al 1734 e cenni sulla sua giovinezza, materiali
questi che Mazzuchelli utilizzerà per le Notizie storiche e critiche intorno
alla vita e agli scritti di C. G., pubblicate l'anno dopo della morte del G.
nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici di A. Calogerà. Il 17
febbr. 1744 il G. fu arrestato, con l'accusa di intrattenere corrispondenza con
gli Austriaci, insieme con il figlio Gregorio, che fu poi relegato nell'isola
di Pantelleria. Il G. restò in carcere quaranta giorni (Vat. lat., 9281, cc.
130-140). Dello stesso anno è una Lettera apologetica indirizzata al padre
Sebastiano Paoli sull'involuzione della liturgia nel Medioevo (tema ripreso il
23 maggio dello stesso anno e il 30 nov. 1745 in due lettere a Mazzuchelli).
Polemiche attardate, come quella durante la crisi napoletana del Sant'Uffizio
nel 1746-47 allorché il G. compose il trattato Sciagura maggiore…, rimasto
manoscritto, in cui riproponeva la lotta anticuriale a favore del sovrano e
contro l'intrusione del potere di Roma. L'ultimo scritto del G., pubblicato postumo
(Roma 1751; rist. anast. Milano 1974) a cura del figlio Ginesio, è una
Dissertazione in cui si investiga quali sieno le operazioni che dependono dalla
magia diabolica e quali quelle che derivano dalle magie artificiale e
naturale. Il G. morì a Napoli il 16 ott. 1750. Dei tredici figli
avuti dal matrimonio (1692) con Giovanna de' Marzi, morta durante la sua
prigionia, gli sopravvissero Gregorio e Ginesio, Bernardo, chierico e abate di
S. Maria della Misericordia a Itri, Aniceto e Teodosio, monaci olivetani, e tre
femmine. Il G. intrattenne un'ampia corrispondenza: in particolare le sue
lettere al Magliabechi sono conservate nella Biblioteca nazionale di Firenze,
quelle al Muratori nell'Archivio Muratoriano di Modena, quelle al Bottari,
infine, presso la Biblioteca Corsiniana di Roma. Fonti e Bibl.:
Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 9281, cc. 130-140: Viri clarissimi
Costantini Grimaldi senatoris Neapolitani elogium authore P. C.I. A. O.P. [C.I.
Ansaldi]; G. Grimaldi, Lettera di Claristo Licenteo [Licunteo]scritta al signor
Rodolfo Grandini, in cui si essaminan due luoghi del signor Francesco Maradei
in persona del regio consiglier d. C. G., s.l. 1716; Lettere dal Regno ad
Antonio Magliabechi, a cura di A. Quondam - M. Rak, Napoli 1978; G.G. Scarfò, Opuscoli,
III, Napoli 1727, pp. 56 s.; G.M. Mazzuchelli, Notizie storiche e critiche
intorno a C. G., in A. Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici,
XLV, Venezia 1751; Index librorum prohibitorum, Roma 1758, p. 17; M. Delfico,
Elogio di C. G., Napoli 1784; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori
legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1787, s.v.; M. Schipa, Il Muratori e la
coltura napoletana, in Arch. stor. per la provincie napoletane, XXVI (1901),
pp. 553-649; P. Sposato, Le "Lettere provinciali" di Biagio Pascal e
la loro diffusione a Napoli durante la "rivoluzione intellettuale"
della seconda metà del secolo XVII, Tivoli 1960, pp. 27-47, 72-100; N.
Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, passim; E. Boscherini
Giancotti, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, in
Giorn. critico della filosofia italiana, XLII (1963), pp. 339-362; R. Ajello,
Il preilluminismo giuridico, Napoli 1965, pp. 146 s.; V.I. Comparato, Ragione e
fede nelle discussioni istoriche, teologiche e filosofiche di C. G., in Id.,
Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 48-93; B. De Giovanni,
"De nostri temporis studiorum ratione" nella cultura napoletana del
primo Settecento, in A. Corsano et al., Omaggio a Vico, Napoli 1968, pp. 141-191;
B. De Giovanni, Il ceto intellettuale a Napoli fra la metà del '600 e la
restaurazione del Regno, Napoli 1968, pp. 35, 37 s., 43, 83 s.; F. Venturi,
Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 31-33, 83, 87,
322, 375, 388, 532; V.I. Comparato, Giuseppe Valletta e le sue opere. Un
intellettuale napoletano alla fine del Seicento, Napoli 1970, ad ind.; G.
Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli
1970, pp. 266-271; A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel Regno di
Napoli. Problema e bibliografia, Roma 1974, ad ind.; L. Osbat, L'Inquisizione a
Napoli: il processo agli ateisti 1688-1697, Roma 1974, pp. 51, 54; G.
Ricuperati, C. G., Nota introduttiva, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed
economisti del primo Settecento, V, Milano-Napoli 1978, pp. 741-774; E. Garin,
Storia della filosofia italiana, Torino 1978, pp. 874-876, 882, 907; V.
Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel
primo Settecento, Napoli 1982, pp. 478-481; M. Torrini, La discussione sullo
statuto della scienza tra la fine del '600 e l'inizio del '700, in Galileo a
Napoli, a cura di F. Lomonaco - M. Torrini, Napoli 1987, pp. 357-383; F.
Cacciapuoti, Il processo agli ateisti: dalle discussioni teologiche al
giusnaturalismo, in Dalla scienza mirabile alla scienza nuova. Cartesio e
Napoli, Napoli 1997, pp. 149-174; G. Belgioioso, La variata immagine di
Descartes. Gli itinerari della metafisica tra Parigi e Napoli (1690-1733),
Lecce 1999, pp. 29-62; E. Lojacono, Immagini di Descartes a Napoli: da Valletta
a C. G., II, in Nouvelles de la république des lettres, 2000, n. 2, pp. 45-65.Costantino
Grimaldi. Grimaldi. Keywords: magica naturale, magica artificiale, magica
diabolica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura peripatetica”–
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692105690/in/photolist-2mQHpXE-2mPpb7N-2mKC3nj-2mKLP2r-2mKRy6y-2mPHbXQ-nSmehQ-mujkJt-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujmJz-mujhJF-mujo6x-mujjcR
Grice e
Grimaldi – inter-azione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara).
Filosofo. Grice: “Grimaldi for some reason did some deep research on cynicism –
a wonderful etymology, too!” -- Esponente dell'illuminismo. Fratello minore di
Domenico Grimaldi, filosofo. Nato in una famiglia aristocratica che faceva
risalire le proprie origini alla nota famiglia di Genova, dei principi di
Monaco, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un
uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione innovativi
nelle sue proprietà terriere (peraltro non molto estese). Inviato a Napoli, conosce
Genovesi. Comincia a interessarsi alle vicende culturali e politiche della
Repubblica di Genova: volle anch'egli essere iscritto fra i patrizi di Genova,
esprimendo la convinzione che l'aristocrazia genovese avrebbe dovuto riprendere
la funzione, svolta nei secoli precedenti, di classe dirigente della
Repubblica. Studia il diritto testamentario romano. Fu pertanto fautore del “fedecommesso”
istituzione risalente a Roma antica e prediletta dalla classe
aristocratica. Maestro venerabile della
loggia massonica di Genova. Partendo dalla filosofia romana, cerca di
analizzare l’interazione umana. Al di fuori della società l'uomo, in balia dei
"sentimenti fisici", diventerebbe “un vero bruto” – “como Romolo” --.
Tali riflessioni saranno approfondite nel "Saggio sull'ineguaglianza
umana”. Sostenne che, in natura, gli uomini non sono uguali e che le
differenze, sia fisiche che morali, ha origini soprattutto ambientali (per es.,
il clima, la diffusione delle malattie). La inter-azione non e uno stato di corruzione, ma lo stato
"naturale" dell'uomo. La struttura gerarchica dell'Ancien Régime era
giustificata dall'ineguaglianza degli uomini. L’educazione non sarebbe riuscita
ad appianare tale disuguaglianza. Scrive gli Annali del Regno di Napoli. Fa una
Descrizione de' tremuoti accaduti nella Calabria. Altre saggi: “De
successionibus legitimis in urbe Neapolitana systema. Pars prima in qua ius
Graecum Neapolitanum vetus, et ius omne Romanum a 12 tabulis ad Iustinianum vsque
absolutissime expenditur” (Napoli: Simoniana); “Lettera sopra la musica
all'eccellentissimo signore Agostino Lomellini già doge della serenissima repubblica
di Genova (Napoli); “La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio genovese, illustrata
con riflessioni politiche, e morali, e con una brieve narrazione del governo
politico della Repubblica di Genova dalla sua origine” (Napoli: Raimondi); “La
vita di Diogene Cinico” (Napoli: Vocola); “Riflessioni sopra l'ineguaglianza
fra gli uomini” (Napoli: Vocola). (Franco Crispini, Vibo Valentia: Sistema
Bibliotecario Vibonese) Annali del Regno di Napoli dedicati a Ferdinando IV. re
delle Due Sicilie. Epoca I. Dal primo anno dell'edificazione di Roma sino alla
fine del quarto secolo dell'era Cristiana” (Napoli: Porcelli); “Annali del
Regno di Napoli” -- Epoca II. Dall'anno 409. dell'era volgare, sino all'anno
1211” (Napoli: Porcelli); “Descrizione de' tremuoti accaduti nelle Calabrie” (Napoli:
Porcelli. (Saverio Napolitano, Bordighera: Manago). La vita di Ansaldo Grimaldi
patrizio Genovese” (Napoli: Raimondiana); “De successionibus legitimis in urbe
Neapolitana” (Napoli: Simoniana); “Nico Perrone, La Loggia della Philantropia.
Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio); Fulvio Tessitore, «Grimaldi e
l'ineguaglianza». In: F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria
dello storicismo, Roma: Edizioni di storia e letteratura, M. Tallarico,
«CESTARI (Cestaro), Giuseppe». In Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F.
Crispini, Appartenenze illuministiche: i calabresi Francesco Saverio Salfi e
Grimaldi, Cosenza: Klipper, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma:
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Boccanera, «Grimaldi In: E.Tipaldo,
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti, e de'
contemporanei, compilata da letterati italiani di ogni provincia e pubblicata
per cura del professore E. Tipaldo” (Venezia, Alvisopoli)’ Melchiorre Delfico,
Elogio del marchese don Francescantonio Grimaldi dei signori di Messimeri,
patrizio di Genova e assessore di Guerra e Marina, In Napoli: presso Vincenzo
Orsino (ristampato in Opere complete di Delfico, a cura dei G. Pannella e L. Savorini, ITeramo: Giovanni Fabbri). R. Ubbidiente, Il
pensiero e l'opera di Domenico e Francescantonio Grimaldi. Tesi di Laurea in
Filosofia italiana. Salerno. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. CAP. I. DelPineguaglianza degli efferi orga-
nici. pag. 4. 1 CAP. II. Dell ineguagliang? del [effe , 9 deir età degli ejferf
organici . ' 9. CAP. III. Della di/fimilitudine fifica , che vi è traglt
nominile gli altri efferi organici » »«' CAP. XV. Dell' ineguaglianga fijica
tra gli uomini . CAP. V. Dell' ineguaglianza della [enfìbìlità 3S» degli efferi
organici . I$I> CAP. VL Deìr ineguaglianza della [enfibili- > tà tra gli
uomini . 26$» CAP. VII. Dell ineguaglianza delle facoltà intellettuali 283. CAP.
Vili. Dell' ineguaglianza delle pajjio- 31£ CAP» IX. Deir ineguaglianza della
volontà . 384.INDICE DE’CAPITOLI Della feconda Parte. CAP. I. Principio
generale intrinseco dell' ine- * , gli uomini Ji fono ritrovati dopo della
generale inondavo- Uh cietà familiari 122. CAP. XI. Delle Tribù de'Selvaggi.
145. CAP. XII. Delle Nazioni barbare. 159- CAP. Delle Nazioni civili. 190. CAP.
Dello Sviluppo delle facoltà in- tellettuali nelle Nazioni civili rela* . 6S.
92. 99’ Digitized by Google relativamente alle arti, ed al. /e
fetente . CAP. XV. Dello Jviluppo delle pajjioni de- uomini ctvilt . . CAP.
XVl. Della maniera come dicare dell’ homo morale nella civile focietà . CAP.
XVII, Concbiufione della feconda par- I -»i _Della ICerza Parte CAP. I.
U"T^XEl? ineguaglianza naturale pag. 8. CAP. II. CAP. III. Della libertà ,
e della ferviti civile ;. 45 CAP. IV. De Governi . 66. CAP. V. Della legge di
Natura. ^8. CAP. VI. Del diritto delle Genti. 140. CAP. VII. Del Diritto
Civile. 152 CAP. Vili. Della maniera come fi giudica da noi Vineguaglianza
politica de*diritti e delle obbligazioni degli uomi-m ni . • 180, CAP. IX.
Conchiufione della Terza Parte .• Uesta breve ricordatila dell’ illustre
Cittadino, questo semplice monumento alla Memoria d’un Uomo ce- lebre nella
Repubblica delle Lettere, questo esempio «i« • l*» ttttmalv m »!tX4 «m
ITlUvl/1C ifflHllU tato dalla sincera e disinteressata amidkia. Possa egli
contribui- re ad alleviare il dolore d’ una perdita nazionale , «ervire per
ricordo di gratitudine a' concittadini , per motivo d’ imitazione agli Uomini
di Lettere , e somministrare un modello a coloro che bramano di conservar nel
loro cuore i più rispettabili sen- timenti , che istillar possono concordi la
Natura e l’ Educazione! Digitized by Google Nascita , Grimaldi t 4*4 vi
44 ed 'TT'L nome Grimaldi contemporanco alla Storia Moderna d’ Eu- ^ * ** r0Pa
^ stat0 scmPrc fecondo d’ Eroi . Un ramo di que- sta illustre Famiglia si
trovava da più secoli trapiantato in estraneo suolo , cioè, nella Città di
Scminara in Calabria (<z) . Ivi da Pio Grimaldi , e Porzia Grimaldi nacque
Francescan- tonìo (a) Le emigrazioni delle famiglie da uno Stato all'altro in
Italia furono frequentissime nel XIII. e XIV. secolo, quando per la debolezza
delle Costituzioni de’ Governi non regnavano le leg- gi , ma i partiti. Genova
soffrì forse più lungamente che qualun- que altra Città d’ Italia queste
politiche concussioni . I Grimaldi Guelfi di partito , ebbero de' tempi di
disdetta ; ma non fu ni per disgrazia , ni per delitto , che Bartolomeo Grimaldi
si spa trio . Figlio sccotiAoeenìio di Ranieri L Principe di Monaco , venne
colle sue galee nelL 1309. in ajuto del Re Roberto a ri- acquistar la Sicilia ,
e formò il ramo de' Grimaldi Signori di Mes- sirneri. Per più d' un secolo ,
ciol , fino ai tempi di Giovanna II. essi st conservarono in grande stalo ; ma
le non insolitejiccnde di famiglia, più frequenti ancora sotto quel Regno,
ridussero i Grs maldi in più umile grado di fortune . Perdute le grandi
ricchezze,' e ridottisi -in urta - Città- di Provincia , conobbero chi vi può «
- sere una grandezza nella virtù , che forse frequenta più le pri- vate
abitazioni , che quelle de' grandi • Piccola consolazione nel Cinsuperabile
ineguaglianzal » -~-, Digitized by Google 44 vii >4» ionio
(a) , che nel secolo XVI1L ha accresciuto nuovo lustro agli allori -de' suoi
maggiori. L’ onestà , la virtù , e le lette- re , che avevano fatto sempre la
principal caratteristica di questa Famiglia , fecero l'educazione di Colui che
abbiamo per* duco. 11 di lui savio genitore , memore -di partecipare all* au-
torità suprema d’ una Republica illustre , non conservava solo nel suo cuore le
comuni doti d’ ordine degne d’ un membro di Senato Aristocratico t ma nato in
una libera monarchia rico- nobbe altre più vere idee della virtù , che seppe
imprimere nel- l’ animo di quelli a’ quali aveva dato 4' esistenza « Conobbe
egli » » «he la severità della virtù passa agevolmente in difetto , quan- do
non è accompagnata da quei sentimenti d’ umanità che devono costituire il benefico
carattere dell’uonjo sociale ; e che questo perfezionamento della virtù non si
acquista che colti- vando Jo spirito, e perfezionando la ragione. Per tal modo
quel tavil>«tUirJatJ»***-!r»i.—i—— «<* *mi ri no que’ semi virtuosi , che
vennero poi vigorosamente a germo- gliare. L’esempio stesso della di lui vita
fu per esso una cont»* mua lezione di que’ doveri , che accompagnano l’ uomo
ne’ suoi varj rapporti e. situazioni . Qual raro e piacevole spettacolo è in
latti , il vedere un amico genitore occuparsi gradatamente a perfezionare l’
instabile e balbettante lingua de’ suoi fanciulli « condurli quindi alla
conoscenza e varietà de’ linguaggi ; mo- (a) A' io. Maggio 1741. strar
Digitìzed by Google * «M vili H» Strar. loro ora l’ indole degl’ idiomi
, ora le bellezze dello stile t ora la verità de’ fatti , ed ora quelle della
ragione ! Questa fu la vera e rara educazione , che F. A. G. ebbe la sorte di
go- dere. 11 solo padre fu il suo istitutore - Nato con una costituzione
vigorosa , sana , e di sanguigno temperamento, ajutato da una educazione
corrispondente svi- luppò prematuramente un carattere capace del grande . E
sic- come sono le circostanze che determinano 1’ attività nostra a tale o tal’
altra direzione ; così le sue forze incapaci d’ un’ iner- zia vergognosa ,
presto si determinarono al laborioso migliora- mento delle facoltà
intellettuali , che duplicano quasi la nostra esistenza , facendo sviluppare lo
spirito e sublimando la ra- gione . Ciò che si chiama Corso di Stud) no» fu per
esso , come co* illunemente esser suole , una serie di lezioni consuetudinarie
, che invoco di mijlioi—• I— ,p!n»A non famin rVm dete* riorarlo . Egli studiò
le scienze con quella vera attenzione , che meditando su le idee e verità
conosciute vede sbucciarne delle nuova , e richiamando per i varj e necessarj
rapporti mol te idee a quella che principalmente si medita , fa quasi sorgere *
crea nuove verità , che altrimenti resterebbero in dubbio retaggio ai secoli
futuri-. Un* anima cosi elevata da moltiplicità di cognizioni erra qual- che
tempo nell’ immenso campo delle idee , ora seguitandone arditamente una serie ,
ora poggiando su le adire per sentirle quasi più da vicino j ma noa SÌ
stabilisce finalmente e riposa Digitized by Google che sopra quelle
, che sono d’ un vantaggio dichiarato per t* nomo. • • La Morale scientifica e
prattica no , non è per nostra sverrà tura un affar comune e volgare. £' il
risultato di meditazioni profonde, di cognizioni moltiplici , di quantità di
paragoni , chedopod’avernequasiformatouncorsod'esperienze, ritor- na alle
cagioni e ne stabilisce i principj . E' la scienza dell» Felicità publica e
privata : fi chiunque non è nuovo nelle scien- ze converrà facilmente che
questa parte della Filosofia è egual- mente grande per l’ importar»»» •»» • p»r
hi sue sublimità. Que- sta fu , non dirò la prescelta^* dal nostro Grimaldi ,
ma quella verso della quale egli fu trasportato dalla forza del suo inten-
dimento combinata con quella del suo cuore. I primi saggi in- fatti del di lui
spiritOi anche indirettamente, fecero subito rico-; noscerc quésta naturale
inclinazione» Un* -11°— " ra o nell’ immenso caos delle sensazioni i
principj di quell’ ar- monia generale , che donò il gusto del Bello ma fra le
Belle Arti la Musica é forse la più vicina e la più dipendente da co» desti
principj non ancora interamente rivelati dalla Natura : Perciò allor quando il
cuore è più sensibile e l’anima più ar- monica è facile il trasporto al gusto
musicale . 11 di lui savio educatore fin dalla prima infanzia profittò di questo
stato pre- coce della sensibilità del suo allievo. Quindi seppe insinuargli fc
fargli nascere il più sicuro senso dell’ordine, della proporzio- ne, e
dell'armouia , coll’isiruirlo nei principj del Disegno , della a Pit- Digitized
by Google • fattura e della Musica . Non vedeva egli ancora qua!
parta avessero queste istruzioni nell’ istituzione della virtù : onde seguitò
lo studio della Musica per trasporto piuttosto che per ragione. Ma allorché le
altre cognizioni cominciarono ad accu» snidarsi nel di lui spirito -* quando
cominciò a travedere ( che la Musica non è solamente un’ arte , ma parte ancora
delle scienze sublimi quando riconobbe gli effetti sicuri e necessar} , della
Musica, e che i principi dell' armonia sono immediata- mente dettati della
Natura , non si ritenne più su la semplice esecuzione , nè Sì contentò della
sola parte imitatrice , ma vol- le esprimere le proprie idee , ie mflhagini, i
sentimenti ; e ’l suo istromento rispose perfettamente alle domande . I suoi
progress* furono in breve meravigliosi , giacché il gusto , 1* esattezza e i’
espressione vi si ravvisavano tanto nell inventare che neU’esegui- re . Per la
perfezione meccanica dell’ arte si richiede un esercì* zio abituale C Continuo
di , ma un taT-nt/. «OH fattO pCt rimanersi alle porte del tempio della gloria
prende delle Belle Arti quella parte che serve al miglioramento della
sensibilità , c trapassa ad altri più utili oggetti . Egli nondimeno ,
trasportato k veder tutto per un lato morale, avendo osservato colla scor- ta
degli Antichi -che la Musica ha tante influenza sul cuore e sul costume , cioè
sulla creazione di quei sentimenti fondamen- ti' , che caratterizzano gl’
individui e le nazioni , volle com- «nunicare al Pubblico le sue osservazioni,
*i-»•«-*«...j j>*•t ** Sono 44x MM Digitized by Google 44 xi M»
secssoesaeeMieMfleM —* . > Ono esse contenute nella Lettera sopra la Musica
alt Lo- Lettera sopt4 ^ HSK*> cruentissimo Signore Agostino Lomellini (a) .
A quest' uo* no degno d’ eterna ricordanza volle il Grimaldi indrizzare I» sue
idee , non solo perchè n’ era un giudice competentissimo ì ma per attestargli
parzialmente quella stima, della quale L’ Euro» pa tutta r onorava . ' E‘
meraviglioso il vedere come il Grimaldi in questa operici ciuola abbia potuto
combinare tanta abbondanza d’erudizione è di ricerche , « tante fona di
wgtwaiMBta. — , . __ Egli vede la Musica come una parte- sublime dalla
Filosofia } che ha contribuito all’ espansione della virtù , alla regolarità
de' Governi , alla conservazione del costume > alla sublimazione de’
sentimenti più convenienti per 1’ uomo - Vede- che in altri tempi questa ch’era
stata la miglioratrice degli animi, concorsi poi jJIk-Wo t» «rwwf! r i- eroe»a-
j zioni dèlia sua sensibilità , attenuò quasi «1 indebolì finanche la fisica di
lui costituzione. Tutti questi varj fenomeni sono dimostrativamente provati
dalla Storia amica , e dalle memorie cd osservazioni de’ Filosofi
contemporanei. La diversità degli e£* fotti pruova quelle delle cagioni , che
il Filosofò ricerca » Eglg incomincia dal distinguere la Musica’ sotto tre
forme : la prima " (à) In Napoli 1766. ""l! vx B2 * che»
Digitized by Google 4-4 xii cte chiama Naturale , la «*rr>nda
Armoniea voluttuosa, e la terza Armonica Filosofica . Per quanto siamo lontani
dalla prima esistenza della specie ì pure siamo in istato di giudicare della
sua Musica primitiva t perchè tuttavia esistente . Le impressioni delle
passioni su 1’ or* ^ gauo vocale, la nascita degli accenti , la diversa
prolusione di essi , la successione ora più stretta ora più larga degli stessi
tuoni , o di pochi di essi ; ecco la prima Musica naturale e vo- 1* cale . L'
imitazione dei rumori fece nascere l’ istromentale ; e una e 1* altra semplice
e monotona , 1’ una e V altra conservata, nel civ Aizzamento della Società e
nel perfezionamento della Mu- sica , con questa differenza che quella restò
sola presso le Na- zioni barbare , ma nelle Nazioni culte restò quasi per la
parte barbara della Nazione. Quindi è che le cantilene volgari por- tano quasi
dappertutto questo cara**ttere primitivo - La Musica Armonica voluttuosa pare
«V»* non H.-hha essct distinta dall’ altra detta Filosofica , che per la
qualità degli ef- fetti , poiché l’una e l'altra ànno bisogno di Filosofia
nella com- posizione. Ma la prima sembra diretta a soddisfare più 1’ orga- no
ecfj&itare le emozioni voluttuose , quanto 1’ altra lo è a far nascere de’
sentimenti cooperatori della virtù , affinan- do la sensibilità non per una più
estesa facilitazione di sem- plici piaceri corporali^, ma per rendere la
macchina e l’anima stessa armonica , onde sentire agevolmente 1’ Ordine , che
deve essere la base delle virtù politiche ed il sostegno degli Stati. La
Filosofia dunque della Musica dovrebbe consistere non solo nel- - lo Digitized
by Google \ , lo stabilire una qualità di Musica assoluta , i cui
effetti fossero» necessar e costanti , ma anche una relativa secondo il
caratte- j re de’ popoli , che o si vogliono richiamare dalla corruzione , o
avviare alla perfettibilità, e secondo l'indole o lo stato deità sensibilità
lora Esaminando però U Storia, «cmlura-ch# qnesta Musica Filoso- fica abbia
albergato poco sul Globo te più culte ne inno fatto più un oggetto di voluttà ,
che di —. costume. Questo però non toglie , che vi sia una verità di prit>
cip), che si palesa negli .Atti. Lm virtù e "i- sentimenti che le
producono, possono avere un’espressione degna di esse : ecco la Musica
Filosofica. Questa forse era quella, «olla quale si can- tavano le antiche
leggi, e le gesta degli Eroi ; questa, che det- tava i principi Morale, questa,
che eccitava, i cuori all» gloria , e che nudriva 1’ amor sociale . Ecco perchè
i più illu-. stri fondaifijà.delllumanitfc.|pci.Tl^., Al^nrio . oaio . Cadmo ,
Chirone furono tutti stimati inventori della Musica , non solo .perchè la
Musica è l’emblema dell'armonia sociale, ma perchè ne è la conservatrice . Ecco
perchè ancora, i Filosofi di primi ordine o fecero della Musica una parte della
Filosofia, o la ca- ratterizzarono come uno dc^ più veri principi dell’ordine
socia- le, che solo può conservare il costume e la costituzione degli Stati ;
ed ecco infine perchè il nostro Autore si duole che in tanto gTado di
miglioramento morale non si richiamila Musica ai suoi principi , e non si
feccia del piacere una strada alla virtù. Che se lasciasi ancora d’ adoperarla
con vista immediata al pubblico ... b«»e» j giacchi tutte le Nazioni
Vita £Ansal- do Grimaldi. <H xiv H»
mesacenomessat>cs>08e»OB<-B>ogs>ocr>opge>saeg>«o«"»aag*»a
tene , può frattanto essere di grandissimo utile agli individui * giacché non
manca in parte di quegli effetti , che decisamente migliorano la nostra
sensibilità. Cosi egli, ad esempio de’ Filosofi antichi , moralizzò quest'
Oggetto , seguendo con ciò la più utile determinazione del suo spirito <e la
migliore applicazione delle proprie cognizioni. L gradimento dell’ illustre
Tìxdoge Lomellini fu grandissimo: Ie maggiore anche il piacer di vedere , che
il nome Gri- maldi fuori del patrio suolo prometteva nuovo splendore alla
Patria ed alla famiglia . La Republica di Genova già ammirava i talenti del
nostro Grimaldi, quando dovett’essere più contenta nel vedere impegnata la di
luì penna a dimostrar anche da lon- tano il più vero spirito patriotico , solo
retaggio rimastogli dai tuoi antenati . Fu certamente 1’ effetto di questo
sentimento » che 1’ impegnò a pubblicaro 1» Vita -4n**IJ* CrtrrutUi ^4) I Eroe
della Patria e della famiglia. Chi legge questo libro par che non lo trovi
corrispondente alla prima idea che dal titolo ne viene eccitata ; perchè poco
vi si parla della vita d’Ansaldo. Sembrami però . che due fossero le mire
principali dell'Autore , che ben rettificano la sua inten- zione . La prima di
rilevare quelle qualità d' Ansaldo , che gli fanno meritare il titolo di Grande
; la seconda, di rischiarare di- . versi (a) in Napoli 1769. Digitized by
Google «H xv W versi punti importantissimi delia Storia politica di
Genova e di segnare il carattere della sua vera Costituzione ed i principj veri
e regolari della sua sussistenza. Quest' oggetto rientra tutto nella Storia d’
Ansaldo , non solo perchè esso fu il Restitutore della libertà e del decoro ma
perchè in quel tempo si scosse- , ro più possentemente i cardini della
Republkana libertà e si sta* •bill la insino allora di Stato è indivisa da
quella dello Stato istesso . Non mancò dunque 1’ Autore se non tenne dietro a
quelle particolarità che occupano ordinaria J. rwna <Wi Biografi, ma pensò
di cs* •ere più utile col sostituire riflessioni s ed alle personalità, donde
poi provenivano quelle vicende, che tenevano lo Stato in continua rivoluzione ;
e per quale sue* cessione di disordini si giunse finalmente all’ordine, che
tut- tora vi regna. E codesta, che interpolatamente contiene le gesta dell’
Eroe , fa la parte principale dell^Opera . Ma siccome la Sto* ria delle
Republiche è stata sempre la vera miniera delle poli- tiche e morali
osservazioni , cosi il nostro Autore non potè evi- tare quelle riflessioni che
il corso della Storia naturalmente gli presentava . Esse sono opportunamente
collocate , e formano quasi una «rie di tanti saggi Politici e Morali , ne’
quali ben- ché vacillante Aristocrazia . La storia dell' uomo interessanti a
fatti di poco momento . Egli cosi ha divisa quest’ Opera quasi in due parti .
Nel Testo si fa come' un quadro animato della Storia Po* litica di Genova'
scritta da vero Filosofo cagioni agli effetti. Fa veder come la mancanza di
Costituzio- ni e **88* 1.10 . metraggio , cioè, ravvicinando le * Digitized by
Google ^XVI H! thè r uomo non sia risparmiato , poiché viene
mostrato qual' è •chiavo delle passioni c delle circostanze, il Grimaldi non
lascia d’ indicare nel tempo stesso quei doveri, che in. ogni circostanza •ono
le leggi vere della condotta e della vita • Bisogna assolu- tamente leggere
-quest’ Opera , che sotto semplice titolo contiene tante nobili idee , e che è
impossibile di dettagliare in un cir- coscritto discorso . Torno per tanto
all’oggetto principale, cioè, al Grande Ansaldo. Il titolo di Grande, che dall’
adulazione è stato consacrato ai distruttori deli’ Umanità, non si deve che
ai^uoi Benefattori- La prima qualità per esser Grande è la Beneficenza. Ansaldo
gene- roso , benefico, illuminato, coraggioso , sensibile meritò dunque questo
titolo d'onore . Non ignoro che la grandezza consista nella quantità dell’azione,
e nell’effètto: ed ecco ciocché si rea- lizzò in Ansaldo. Come uomo di Stato
egli sostenne la Patria col vigore de’ suoi consigli, rolla sublimità de’ suoi
talenti , colle ric- chezze ammassate dalla sua temperanza. Come semplice
Cittadino, fu il benefattore di quanti potevano essere oggetti d’una illuminata
beneficenza, cui non si contentò di esercitare nel ristretto tempo della sua
durata , ma volle estendere all'avvenire e che anco- ra persiste . Non solo
vivendo fece codest’ uomo il miglior uso delle sue ricchezze, ma fece che la
sua volontà restasse perpe- tuamente benefica nella serie de’ secoli.
Incominciò egli dal con- tribuirc i mezzi che perfezionando la Ragione
perfezionano si- milmente la Morale , cioè , dal fare assegnamenti per **l*a
publi- '-* ca istruzione , e stabili non solo delle Cattedre di Scienze , ma
som- Digitized by Google 4-i xvii somministrò anche soccorsi a
coloro che v’attendevano'. Egli non trascurò moderatamente i luoghi religiosi ,
gli ospedali ed altre fondazioni di pubblica pietà . Egli pensò da uomo libero
e non da Aristocratico : volle che tutti partecipassero della sua beneficenza ;
quindi non solo ebbe in mira le opere dan- neggiate dalle passate guerre , come
la darsina , il porto , le mura , i ponti e i mulini , ma lasciò altre somme
considerabili per le ordinarie spese della Republica ; liberò dai debiti Je ga-
belle che già troppo aggravavano il popolo Genovese » nè gli Stessi agricoltori
furono obbUacì nelle sue liberalità e benefi- cenze • • La pubblica beneficenza
non gli chiuse però il cuore ad una più propria e particolare del suo nome e
della sua famiglia . Le risoluzioni domestiche, si osservano più facilmente nel
tem- po che quelle degli Stati . Ansaldo lo vide ; e considerò che della sorte
. Quindi da gran politico pensando che , nelle Ari- stocrazie specialmente,
dalla povertà de’ Nobili incomincia la corruzione , volle , per quanto potè ,
prevenire questi tristi ro- vesci della fortuna , formando nella sua Casa una
quantità di beni , che potesse decorosamente mantenerla , e stabilendo per
tutta la famiglia un Albergo che fosse atto a sostenere senza avvilimento Io
splendor del cognome Fece de’ legati partico- larmente per i Grimaldi che
attendessero alle lettere , con pen- sione che durava per anni otto : volle che
le donzelle Grimaldi avessero nella loro collocazione un conveniente soccorso ;
e nel- C le aeoaeeseueaaysa Digitized by Google 4 xviu >4* le
annue liberalità che per i poveri stabili , volle che non fos- sero obbliati
quelli del suo nome , che una rivoluzione sventu- rata poteva in questa classe
collocare • Una cosi estesa e perpetua generosità , un uso cosi giusto delle
ricchezze , una liberalità , che si propagava fino all'ultimo Cittadino »
riunite a tutte le altre qualità che gareggiavano ad ornarlo fece dunque bea
meritare ad Ansaldo il’ titolo di Gran- de : e più lo merita a’ giorni nostri
quando un lusso distruggi- tore à estinto negli animi ogni sentimento di
beneficenza. Ma se dall’ antica veneranda tomba alzasse il capo il Grande Ansaldo*
forse esclamerebbe: O Patria, ingrata Patria, o Posteri più in- grati alla mia
memoria ed ai miei sentimenti ! Io non feci delle mie ricchezze un Banco di
Commercio, ma di Beneficenza Come V amministraste voi verso quella famiglia ,
che per virtù e per le circostanze diveniva la prediletta nella mia intenzione
? Voi nega- ste al vostro sangue , al vostro nome stesso quei soccorsi che lo
Spirito di Patria , d' Umanità , di famiglia mi dettò contro i di- spettosi
rovesci della Fortuna . Ah ! un nome illustre non ì che un tormento se è
accompagnato dal bisogno L Ma sento da un cu- • po oscuro Chiostra ì teneri ed
acuti accenti di cinque mie figlie , che rivolte all’ antica Patria ridamano i
diritti di quel sangue che loro scorre nelle vene . Possano queste voci
giugnere ai vostri cuori , ed onorarvi di meritata riconoscenza ! Genova ,
Grimaldi , calmate V ombra del vostro Benefattore -1 Il nostro Grimaldi fu
veramente desiderato molto dalla Re- publica per onorarlo personalmente e
promuoverlo alle su-- iy pren>£ Digitized by Google «H x*x preme
Magistrature ben meritate da’ suoi talenti e dalla sua virtù ; ma lé
circostanze Napoletano non gli permisero d’ accettare il meritato invito si
contentò di farsi più denza colla Filosofìa , e l’esercizio di essa con quello
della virtù. ta la Filosofìa par che debba zione, cioè in tutti i rapporti
degli individui fra loro e verso , di famiglia e I» applicazione al Foro e
desiderare, dando a conoscere con diversi Responsi ch’egli aveva saputo
combinare la sublime Giurispru- yjjpRapasserò intanto leggiermente su questa
professione, eh* per qualche tempo ei volle esercitare. Chi considera in1
Avvoca^a - Trattato Le- * astratto la qualità di Cù,reconsulto una migliore
applicazione de’talenti , per che non possa vedere nella Società dove vive.
Tut- servire a questo primo oggetto so-« ciale . La conoscenza del Giusto in
tutta ì immensa sua esten- tutti gli oggetti coi quali sono in relazione , è I’
apice delle umano ragiuuom_ 1-oaàc—o» .do!-«wo-Adwry, applicarvi le verità di
dritto è la più nobile operazione come ritrovar più i principj d’ una
tranquilla della Ragione. Ma multuose bolge del nostro Foro, ed in no? Quasi
ognuno conviene della deficienza delle nostre leggi della Giustizia , e della
perniciosa mancanza d una vera Approvazione nei Giusdicenti e dei difetti
esistenti nell* amministrazione nei Giureconsulti; e, per un effetto di vera
dono di questi mali c gli altri ne profittano. Quindi si moltipli- cano
all’infinito gli attori di questa scena tragica per la società e per la Morale
; e questo malore contribuisce sempre più alla C a dete*. ragione fra le tu-
quel vertiginoso frastuo- corruzione, i più ri- , Digitized by Google
a.. «H xx deteriorazione del costume ed all’ affogamento de’ talenti ,
che nella loro freschezza rivolgono facilmente , come le piante , le radici a
quella parte ove più abbondantemente possono succiare gli umori nutritivi 11
Grimaldi cautamente portò il piede su le sponde di code- ito baratro pericoloso
. Senza immergevi nel bujo , vedeva dal- la circonferenza a quali limiti
bisognava rimancrfe . Non cupido d’una gloria efimera e fugace, non avido di
que’ lucri, che di rado sono il premio della virtù e del valore , egli si
contentò dell’ approvazione della Ragione piuttosto che di quella del vol- go
ammiratore Se alcuno volesse dubitare , che si ritenesse in tali limiti per
mancanza di convenevoli talenti , l'Opera legale che egli ancor giovine molto
dettò , potrebbe facilmente sincerarlo . Nell’ e- là di soli ventiquattro anni
egli publicò il libro Dt Succ(s- sionihus legitimis in urhr Nfapolir.ina (a) -
Qual differenza fra questa e tante altre Opere legali uscite dal nostro Foro ,
che I opprimono il buon senso ed oscurano la Ragione ! Tutte le co- gnizioni
antecedenti , necessarie a formare non dirò un Giure- consultomaunLegislatore,
nonmancavanogiàalGrimaldiin età cosi giovanile. La Storia e la Filosofia erano
cosi amalga- mate nel di lui spirito , che la conoscenza prattica e teorica
dell’ Uomo e delle società gli era sempre presente per conoscere ( ) lo Napoli
1766. le Digitized by Google le cause delle sue idee e de* suoi
movimenti , e per ravvisare quali fossero i piti convenevoli alla sua
destinazione. Egli dun- que vide la materia delle successioni legittime come
provenien- te dai primi dritti della Natura realizzati nelle società collo sta-
bilimeuto della proprietà e dei dominj . Dimostrò come lo staro della
legislazione civile d' una nazione siegua la sua politica Costituzione ; e
quindi in uno stesso popolo la differente ma- niera di considerare gli stessi
oggetti, secondocchè i rapporti si alteravano. Venendo al suo oggetto, cercò
rapidamente 1’ origi- ne deile Consuetudini N«potetene' te rapporto alle
successioni nell’ antico stato Uepublicano di questa Città , nell’ analogia di
governo colle altre Greche Republiche , e con una felice e nuo- va applicazione
ne trovò la filiazione nelle leggi dì Solone . L’ erudizione sparsa in queste
ricerche è ampia , ma non lussu- reggiante ; e cosi procede nel resto
dell'esame, cioè nel mostrare quale fu quecta pwrt* «talli cibilo JcgreUxione
net 'SUCCOSsivi cambiamenti della Romana Repubiica . L’Aristocrazia espressa
tutta nella legislazione decemvirale fissò le agnazioni, e l’esclu- sione delle
donne , avendo in mira la conservazione e perpetui- tà delle famiglie
Aristocratiche . I progressi alla Democrazia , ne- - cessario frutto dell
interno vigore dello Stato , che liberò i beni dalla schiavitù , che sciolse
gli individui dalla dipendenza dell’ opinione e della servitù personale; che
strappò il codice arbitra- rio dalle mani sacerdotali , cangiò anche questa
parte di legis- lazione : e le donne furono riguardate come parte della specie
e della Società . Tutto cangiò coi cangiamento del Governo ; e si
serbarono i nomi mentre le cose non erano più . Le forinole e le
solennità de’ Giudiy , che costituiscono fino ad un certo ter- mine la libertà
civile , cederono a quelli detti impropriamente di Buonafede,
chesembranopiùconvenientiadunGovernome- no complicato , facendo strada a quell’
arbitraggio che è la . , morte della Civile libertà . Le alterazioni in questa
parte della legislazione .si fecero insensibilmente sotto gl' Imperadori fino a
quelli , che con nuova Religione portarono nuove leggi sul Tro n no. Ma qui non
è luogo di seguire 1’ Autore in tutta la serifc. istruttiva delle tante idee
utili e nuove , che s’ incontrano ad ogni passo della sua Opera . Tocca ai
profondi Giureconsulti il giudicarne con dettaglio » e far vedere qual
precisione e chia- rezza egli seppe portare nel pii oscuro legale labirinto,
quan- te cognizioni seppe nobilmente combinare alla dilucidazione del suo
oggetto , e quale vera utilità debba produrre la di lui Opera non solo nel
giudicare , ma nel riformare questa importante par-» .te delle nostra
legislazione* Asciò noudimcno 11 G,!malcl‘ <*’ immergersi nelle cure del
gene. JSL*Foro, nonriguardandolocomeoggetto, chedovessein- tieramente assorbire
il prezioso tempo delle sue applicazioni , ed assoggettare il fervore de’ suoi
tajpnti e la forza del suo spirito attirato da oggetti più sublimi e più
generali . Restò egli per alcuni anni nel silenzio, ma non nel riposo , poiché
l’ attitudine formatasi allo studio ed alla meditazione tira il stato di
piacere iella sua anima vigorosa, che quindi sentiva il più vero bisogno di Vita
di Dio- ‘TìT Digitized by Google •H XXXIII K- di pascersi e nudassi d’
idee e sentimenti analoghi al stio ca- rattere deciso. Questo vigore di
sensibilità , che sempre accom- pagna i talenti superiori perchè li crea , non
permette che lo spirito resti confinato dalla stretta circonferenza delle idee
e delle virtù comuni • Sorse quindi quel sentimento di perfezione unico scopo
del Genio e della Virtù , che fermentando nelle a- nime sublimi tenta tutte le
vie per aprirsi la strada all’ utile Gloria ed alla verità . V" Nella
vecchia Storia della Filosofia cioè de’ progressi della , Ragione e degli
errori , vide I! Grimaldi i grandi sforzi degli amichi Filosofi, che non più
contenti d'una Morale di prover- bj , parabole e sentenze , si studiarono di
ridurla a princlpj ge- nerali che potessero condurre 1* uomo In tutto 1’ uso
della vi- ta . Ma esaminando particolarmente la dottrina e condotta loro, vide
quanto è difficile una lunga Epoca della Ragione . Trovò nondimeno fra quegl»
antichi Istitutori e maèstri dBTMorale un Filosofo che fissò tutta la sua
attenzione ; e questi fu Diogene del quale volle scrivere la vita . (<r) k
Credè alcuno , eh’ egli imprendesse quasi per giuoco , si, fatto assunto t ma
chi ha letto questo nobile opuscolo , può giudicare della verità della sua
intenzione. Egli fece vede- re in Diogene non quel Cinico descrittoci da
Laerzio , non quell' impudente che ci dipinsero gli altri , nè quello
stravagan- te • '^''•'' _,i (a) in Napoli 1777. , Digitized by
Google 4*4 XXIV le che*corrimunemente è creduto.' ;.ma provò ad
evidenza che quel Filosofo fu il più conscguente r giacché le azioni .corrispo-
sero sempre alla sua dottrina : e codesta era la più vera , la più utile , la
più giusta che fosse ' •* dettata insind allora . Sinope , Corinto ed altre
Città ono la memoria di quell’ illustre uomo coi bronzi e con 1 marmi , ma non
poterono salvar la di lui fama presso l’invida posterità . Grimaldi nel Se-
colo XVIII. rinnalza Diogene su i monumenti erettigli da' suoi compatrioti e
diviene il Restitutore della di lui fama , e della di lui virtù . La Morale di
Socrate era divenuta puramente nominale , quando a Diogene sorse il talento di
reintegrarla ad uso dell’ umanità . 1! principio della Morale prattica par che
consista nella facilitazione della Virtù . Non basta il dipingerne le bellez-
Iezze , l’ indicar^ le attrattive , ravvivarne il quadro col più vago colorito
, se pei ci sì mostra divisa ed isolata dall' insor- montabile vallo del dolore
. Diogene volle dimostrare , che que- sto divisorio è d'invenzione umana, è
creato nella Società , e che bisogna perciò ravvicinarsi alla Natura. Questa
vera osservazione gl’ indicò la Temperanza per un principio fondamentale della
Virtù . La Temperanza non è un’ dea assoluta : essa ha una gradazione dì beni
da un estremo ali’ altro della 'sua lùtea . L’ uomo , questo animale
privilegiato , che può vivere in tutti i climi e nudarsi di tutti gli alimenti
, ha più facilità alla sussistenza . E dunque un effetto dell’Educa- zione
quello che gli dà quantità di bispgjù , che non vengono dalla Digitized by
Google . ^xxv^4» - «aaBeMecSeaooeoeeseaaoosMsaeeseeeiMjeBft dalla
Natura . L’ uomo diviene cosi un aggregato di bisogni 6 di desìdeij,che
accrescono m ragion diretta la sua sensibilità al dolore, senta proporzione
relativa al piacere ed alla felicità . Se questo spiacevole accrescimento di
sensibilità è effetto dell’ edu- cazione , esso è opera dell’uomo , è di
creazione sociale; vi è dun. » que tutta la possibilità d’ abolirlo . Si può
essere decentemente coperto d’un Pallio senza infelicitarsi per non avere in
dosso le gemme ed i preziosi metalli ; si può vivere bene e sano senza esser
velato dalle leggerissime spoglie dell' Oriente o soffogato sotto i rarissimi
velli del Settentrione : e , se dell’aria comune la più respirabile è la più
libera , si può vivere, e meglio, sen- ta le stanze ermeticamente chiuse ,
senza che sieno ricca- mente foderate , e senza richiamar tutte le arti e tutti
i climi ad estenuarci ed estinguerci nella mollezza • Tutte le eccedenti ricchezze
s'acquistarono forse alle spese della virtù; aveva dun- que egli regione di
veder I» Temperanza come la base princi- pale di essa- Ma se per la Vmù è
necessaria quella tal disposizione abi- tuale dell’ animo che si chiama
Tranquillità , questa è simil- mente figlia della Temperanza: L’animo distratto
dalle passioni disanaloghe alla natura dell’ uomo , cioè non tranquillo , non
può essere virtuoso . Diogene non diceva: „ fatti del dolore la strada alla
virtù tristo comando alla Natura umana - Non diceva : „ divieni apa- to ed
insensibile „ altro precetto peggiore e non conducente alla perfezione morale-
Diceva solo: „sii temperante che sarai tran- D quii- . 4^ xxvi
>4* jquillo , ed essendo l’ uno , -e 1* altro puoi essere virtuoso . „
Finché 1’ uomo è distratto da sensazioni vaghe « immerso ne’ desiderj ,
lacerato dalle passioni non sentirà che se stesso ; ma quando nè i bisogni , nè
le idee, nè le immaginazioni tumultua» rie Io tormentano , egli deve essere
necessariamente benefico , cioè , virtuoso . Se le ricchezze fossero sempre
necessarie all’ esercizio della beneficenza , la virtù sarebbe solo riposta
nell’ uso de’ metalli , ed il non ricco non potrebb’ 'essere giammai Virtuoso .
La virtù , nel sistema di Diogene, non doveva essere Un fantasma dell’
immaginazione , un’ astrazione per alimenta- re le dispute de’ Moralisti; ma
bensì il partaggio dell’ Umanità» il vero sistema della beneficenza universale
• Se la virtù è nell’ azione , e quest* azione dev’ essere facile , equabile ,
pronta * Diogene voleva render l’uomo libero dagli inutili ceppi fabbri- cati a
se stesso, per renderlo attivo , benefico , virtuoso . Uno aguardo anche
passaggiero su la Morale esistente prova la ve- rità e la profondità delle
Ciniche osservazioni Qual era diuresi Ja serie ragionata e conseguente delle
idee morali di Diogene ? Temperanza , indipendenza , libertà , tran- quillità ,
beneficenza ; virtù tutte nascenti 1’ una dall’ altra • tutte conducenti per la
più agevole strada alla meta della Morale • La Vita di Diogene non ismentì i di
lui principj . Egli visse libero , tranquillo e contento , cioè virtuoso e
felice . Apostolo della vtréi e della virtù , egli non fece che predicarle . Un
Re «d un llot^ erano eguali agli occhi di lui : la verità e la virtù fa- .
Digitized by Google $*4 xxvii $4*
ess<se-e»eoes>eoe^oe<==yat=sor=>oot=r»-sot=xì eeyecaìtjesa faceva
egualmente il loro bisogno . Diogene rispettava le leg- gi e la pubblica
Autorità da vero Filosofo , cioè , approvan- do quelle che erano dirette al
pubblico bene , ed indiziando quelle che mancavano di questo fine . Venerava la
Religione ; ma ne abominava l’ intolleranza e l’ abuso , che conduce sem- pre
alia superstizione. Rideva di quei tanti Impostori, che anche ia q-v «empi
sotto vario manto e varie regole dividevansi il culto e le sostanze de’ divoti
. Si vuole che dissuadesse e disap- provasse il vincolo conjugale ; ma come
fargliene un delitto ? Che altro vedeva egli nelle Società de’ suoi tempi che
la trista alternativa di nobili , e plebei , di ricchi e miserabili , di ti-
ranni e di schiavi ? Un Filosofo non può amare la moltip li- catione e la
riproduzione di queste razze degenerate dallo sta- to pteseritto loro dalla
Natura. Diogene non morì, come Socrate, martire della Verità e della Virtù :
egli ritornò nel seno della Natura così spontaneamente come n’ era uscito . La
distruzione e la riproduzione dei corpi organizzati è nelle sue immutabili e
costami leggi , che non «paventano il Filosofo , il contemplatore della Natura
, l’ amico della Ragione. La vita di Diogene rettificata da una etilica
imparziale c» mostra un modello di vera vita virtuosa in tutte le circostanze e
situazioni . Non fu dunque nè per giuoco , nè per gloria per vanità che il
Grimaldi imprese a dettagliarne le azioni e la dottrina , ma per rendere un
giusto tributo a quel Filosofo cui ayeva cercato d’ imitare > o per
partecipare al pubblico un vero D a fiJCh , nè Digitized by Google
xxvm ^
tJtis»oe«cM»eé<Jsae«^Qee=»oeH=>ee^eg=aem^->gceg»oogrg>r'e)gac
modello di filosofica virtù. Egli si dichiara in più luoghi della sua Opera ,
che Io stato attuale delle Società non comportereb- be una vita esteriore come
quella di Diogene propone come un modello, al quale quanto più l’uomo
s’accosta., più s’avvicina alla perfezione . Non altrimenti fece Grimaldi . Le
virtù di Diogene furono le sue. Ne chiamo in testimonio gli amici, che lo anno
veduto in tutti i punti della sua vita . La tempe- ranza de’ suoi desideri , la
tranquillità dell’ animo suo , la veri- tà e la sincerità de’ suoi sentimenti ,
la libertà del suo spirito , il coraggio e l’ amore per la verità , la
tolleranza de’mali , 1’ ar- mor della Pubblica Beneficenza , il sentimento
costante de' do- veri, e tutto condito ed addolcito da una sensibilità
purificata, lo resero rispettabile come Diogene , ma più amabile , perchè seppe
combinare i principj e 1’ uso della Virtù, con tutta la de- cenza della vita
sociale, e coll'esercizio di quelle funzioni e do- veri, che formavano la sua
civile esistenza Riflessioni so- FOn sono certamente le idee astratte e le
sublimi nozioni, pra rInegua- glianza. che possono far meritare il. titolo
rispettabile di Filoso- fa . Se la virtù non è posta in azione , se le grandi
idee non diventano di qualche uso , se la fiaccola s’ asconde sotto il moggio ,
non solo si è in colpa , ma si è reo di lesa umanità. colpa che meriterebbe
maggior castigo chel disprezzo e i’obblio. Sentiva Grimaldi nel più vivo
dell’animo questa verità, e per- ciò veggiamo come la sua vita fu ima continua
serie di me- ditazioni e d’azioni tutte coordinate allo stesso fine di
migliorar se . ; ma che egli lo Digitized by Google .- 4*4 xxix £4*
se stesso , e di essere utile agli altri Quindi i suoi non inter- . rotti srudj
e le continue meditazioni lo condussero alle più estese cognizioni e alle più
utili che si possano acquistare Or quando lo spirito è abbondantemente nudrito
d’ idee e di cognizioni varie, quando è gu lungamente abituato al difficile
esercizio di molti e conseguenti raziocinj , quando codesti sono specialmente
diretti verso qualche oggetto particolare , che per- ciò divicu dominante :
l’animo prova una certa inquietezza e quasi un’ oppressione da questa folla di
pensieri , e par che sia costretto a liberarsene . Chiunque ha scritto sopra
qualche og- getto particolare e lungamente meditato , ha dovuto provare in se
questo sentimento penoso . Quindi la volgare espressione dà chiamare le opere
parti dello tpirin , non manca di una ve- rità nella sua origine;- ma non tutti
i parti sono regolari . Ho indicato antecedentemente la predilezione che il
Grimaldi ebbe sempre per le idee morali , e la facilità che aveva di ri-
chiamarle ai principi pid sublimi, e di renderle più attive e fe- conde : ma
dopo d’avere per più lungo tempo estese le sue ap- plicazioni su tali oggetti
li vide in tutta 1’ ampiezza della qua- le sono capaci , e fra tanti fenomeni
Morali che presenta la So- cìtà , fu specialmente colpito da quello , che
stende il suo do- minio su tutti i punti dall’ esistenza , dico della Morale
Ine guagliania A tutti sono note le riflessioni che l’ eloquente Gian-^iacomo
portò su questo punto; ma la ragione trasportata dall’entusias- mo lasciò de’
gran ruoti fra le idee principali , balzò agl! estro- ., 44 xxx
>4» estremi obbliando le idee intermedie e necessarie, guardò 1' og- getto lateralmente
> e quindi fra molte vere e nobili osservazio- ni ci presentò de’ paradossi
in luogo di tranquilli ragionamenti ed utili risultati . Vide intanto il
Grimaldi di quale utile fosse il ritornare solidamente a quest’ oggetto >
che è quasi la base del- la Morale e della Politica . Prescélse quindi un
campestre ed isolato soggiorno ; e lungi da ogni distrazione , irapenetrabile
anche agli amici ed alla famiglia , concentrato lo spirito in que- sta idea
principale , impetrava dalla Natura la rivelazione delle verità più utili all’
uomo . In codesto stato egli delineò il piano delle sue Riflessioni sopra
VIneguaglianza tra gli uomi- ni (<*) Le sue prime considerazioni gli
scoprirono , che la base dell* Ineguaglianza è nella Natura . L* Ineguaglianza
Fisica la generatrice delle altre: è dunque legata ad un ordine: è per
conseguenza una legge immutabile ed eterna . Le stesse ricerche preliminari,
che fa su questo punto, portano f espresso carattere della novità . Colla più
seria attenzione poi assottiglia il suo Sguardo per penetrare nei più
complicati recessi di quest’ Esse- re sublimemente organizzato , che si chiama
Uomo - I più te- nui rapporti non sono negletti; e combina una maravigliosa
mol- tiplichi di cognizioni per farsi strada all’ oggetto . La Fisica la
Fisiologia , la Storia Naturale , quella particolare dell’ uomo 00 In Napoli
1779-80. è perciò e del- Digitized b’y Google 44 xxxi h» e delle
Società , tutto è da esso ordinatamente richiamato a dare il risultato , che si
era proposto , cioè , a far conoscere 1* essenza reale di questo composto
meraviglioso. Incominciando dal punto principale , cioè, dall’ Ineguaglian- za
generale degli esseri organizzati , passa all’ esame particolare della
Ineguaglianza che nasce dalla diversa destinazione degl'ìnr dividui della
stessa specie . Osserva , che la differenza sessuale si va distinguendo a poco
a poco dagli esseri più semplici 9 meno complicati fino ai più composti e
perfetti . Che questa differenza porta per necessiti di natura una
Ineguaglianza di- stintissima nel temperamento, nella forza , nel carattere ,
nelle passioni , ed in tutto ciò che si chiama meccanismo e sensi-* biliti.
......, _tv-:• ' Si trattiene poi ad osservare la dissomiglianza in ge^qfgjp»
degli esseri organizzati; e riducendo questo paragonerai ferenza che vf ha fra
IV m+eeanlSrtto delTwnno <fJ»!f$..rR|ljl'* altri corpi organici ', rileva
qual sia l’essenza fisica pbitós’' aefc. la spezie umana • Si apre quindi la
strada ad esaminéft * geograficamente le differenze, e quindi 1’ Ineguag(^|5-
de’ P|po- li e delle Nazioni. Egli scorre con abbondante." -ed
adatyy^fcrvp. . dizione la superficie tutta del Globo , indicando le cagioni
pria- cipali e le concause , che rendono gli esseri delIiL stessa specie tanto
dissimili gli uni dagli altri , e come questa dissomigliati? za fìsica porti
nel tempo la morale . Ha riflettuto e dimostra^', che la sola differenza di
climi non poteva-produrre questo tv* levantissimo effetto, ma che la situazione
locale, la quali$ -delP^- ’-;' ’,aria , , . * • Digitized by Google
xxxii >4 •ria > le maniere diverse di vivere , di nudrirsi , d'
abiure vi concorrono necessariamente , e sono forse cause ed effetti nel tempo
stesso . La Natura ha prescritto dappertutto la legge dell* Ineguaglianza . Gli
uomini sono ineguali, come le piante della •tessa spezie in diverso dima ed in
diverso suolo, e come diffe- renti sqno ancora gli alberi della stessa selva .
Le cagioni sono qualche volta impercettibili, ma gli effetti ne manifestano
resi- stenza . Da questa Ineguaglianza più apparente , par che divenga una
Conseguenza necessaria quella della Sensibilità . Nel tempo ster- eo che 1’
Autore sbandisce la Metafisica delle Scuole , tratta i più malagevoli e spinosi
punti della Psicologia , e combattendo ora i sistemi ora le ipotesi e le
sottigliezze , si fa strada alla Realità , . Per una lunga serie di
osservazioni egli gradatamente giunge a stabilire ; Chi la sensibilità negli
esseri organici siegue i gradi dfl loro meccanismo ; e che la differenza che vi
è fra il tertiro dell' uomo e quello degli altri animali cossituisce la ca-
-tatteristica essenziale della nostra seusibiihd paragonata colla ion • • / Che
che ne sia della sensibilità assolutaci sonode’corpi più « meno conduttori , ma
il più d’ ogni altro è 1* uomo . L’ esame particolare degli organi de’ nostri
sensi , paragonati con quelli degli altri esseri sensibili, ne compruova
maggiormente 1' assun- to , che anche più resta dilucidato colla dichiarazione
di ciò -che si chiama Senso interno , punto centrale della sensibilità e *. *he
par che segua la gradazione dd meccanismo e della sen- sibi- * Digitized by
Google . xxxili >4* eoofesamjwegWBesaoexeBui-^BeSeeeaeeeaaetja
sibiliti istessa . Ciocché 1’ Autore ha ridotto nel cap. V. della prima Parte
basterebbe per fare un’Opera illustre. L’esame che egli fa della sensibilità ,
riducendola quasi agli elementi primitivi che la formano e la generano ,
dimostra che essa non può essere eguale fra gli uomini ; e rileva la dispia-»
cevole verità , che il tuono fondamentale della sensibilità è il dolore :
tristo partaggio di quest’ essere , di cui divien prin- cipio di moto , e di
sviluppo d’ attività in tutu 1’ esten- sione . 1 Alla sensibilità sicgue ì*
intelligenza come l’effetto alla causa e che per conseguenza deve portar 1*
istesso carattere della sua genitrice. Questa è forse l' Ineguaglianza la piò
espressa fra gli uomini ; ma a dir vero la meno fastidiosa . I piaceri dell’
intel- ligenza sublime non s’ acquistano forse che alle spese dell' esi- stenza
e della vita. Ne fu un esempio funesto il nostro Gri- maldi medesimo Dalla
sensibilità e dall’ intelligenza risultano le passioni e no portano il
carattere . Chi non ne vede continuamente l' Inegua- glianza? Due illustri
Moralisti Francesi , due nomi immortali per i progressi dalla Filosofia ,
Montesquieu ed Helvetius , so- stennero le cause uniche delle differenze
generali fra gli uomi- ni , 1’ uno rapportando tutto alle cause fisiche , 1’
altro alle morali ; ma 1' amor del Sistema nascose alla loro vista la chia- ra
verità che rivela la Natura. Se la sensibilità e 1’ intelligenza fanno nascere
le passioni sono queste che determinano la volontà. Tutto dunque è Ine- E gua-
Digitized by.Google . xxxiv eoaeejeBeaseesaeesoeeBeeaaeaoiyaeo
>aiicjaL<ju< quagliatila ; dai primi composti fisici fino ai più
sublimi risul- tati morali, tutto siegue questa legge eterna ed inevitabile
della llatura . Lo stato d Ineguaglianza morale, cioè dell' uomo come essere
pensante, è estesamente sviluppato nel secondo Tomo di codest’ Opera, dimostrandovisi
che questa Ineguaglianza è in ragion composta delle facoltà intellettuali
dipendenti dai meccanismo particolare degl' individui, e dalle cause esteriori
, che più o meno si combinano o si coordinano a svilupparla. L’ Uomo è in
relazione con tutti gli esseri che lo circonda- no . Ogni sensazione o
piacevole o dolorosa fa una parte della sua vita o della sua esistenza ; e
questo è nell’ ordine eterno della Natura , perchè i rapporti degli oggetti fra
di essi e con f Uomo sono figli di quella Essenza delle cose , che forse la
Natura ci ha velata per sempre ; ma sono quindi necessari co- me la loro stessa
esistenza. , La sensibilità è il mezzo che lega V uomo agli altri esseri :
Questa facoltà che si estende, si nobilita, si sublima , à dun- que varj gradi
relativi a se stessa ed agli effetti che la percuo- tono . Quindi la diversità
de’ bisogni e quindi delle percezioni » delle idee c dei sentimenti, che colle
necessarie attenzioni svi- luppano le intellettuali facoltà . Ora essendo
riconosciuta 1 ine- guaglianza della sensibilità dipendente dalla differenza
del parti- colar meccanismo , zie siegue necessariamente , che le impressio- ni
degli oggetti esteriori non sieno neppur simili ed eguali ne- gli individui .
Ed ecco come la diversità di bisogni e di desi- deri , ' Digitized by
Google . xxxv derj, che forma l' ineguaglianza morale fra gli
uomini contemporaneamente questo principio d’ineguaglianza nella Na- tura
stessa , cioè , nei bisogni relativi alla sensibilità di ciascun individuo . Chiunque
non vede altro nell’ Uomo in ultima analisi che il Sentimento e V Espressione
ravviserà in un colpo la ve- , rità di fatto delle idee dell' Autpre .
Stabiliti tali principi , egli rileva primamente colle più giuste osservazioni
che 1 indicazione dell’ Uomo Naturale è un’ inven- zione gratuita ed erronea è
sempre lo stesso, e allorché diversifica per le circostanze, sono anche codeste
naturali , cioè, nell’ordine della Natura che l’Uo- ; raononàuncaratterease,
maquellocheè loèperlasi- tuazione relativa alle circostanze giacché in esso vi
è altro ,, che la sensibilità modificabile dalle cahse esterne , e circoscrit-
ta dalla forza del meccanismo di ciascun individuo. Che quia- di Io stato
morale di ciascun individuo i relativo alle circo- stanze sociali combinate con
quelle , che sorgono dalla propria sensibilità Con questi principj si apre la
strada all’ esame morale deU’ uomo . Egli lo sottopone all’ esperienza , non
come un semplice Fisico farebbe, ma come il Chimico più esperto e sensato,
sottopo- nendolo all’ operazione di diversi agenti , analizzandolo , ricom-
ponendolo , e combinandolo , per vedere in quale stato possa dare più felici
risultati , risultati che caratterizzino la differenza e 1’ Ineguaglianza
morale degli uomini e delle Società . L’ Uomo solitario è 1’ oggetto di queste
sperienze esposto alla E a sciti— dei Filosofi ; perchè l’uomo per Natura ,
stabilisce Digitized by Google XXXVI
ocsfleesaoejeeoooeaooesocsocBooeaooeaoee'Mtoo semplice vista ; ma nella Società
egli è messo ad un vero ci- mento, giacché ivi siscuoprono i varj gradi di
rapporti, di affi- nità, di coesione Scc. su i quali si può misurare la sua
moralità. Dopo d’ aver considerato che i rapporti dell’ Uomo solitario sono
quasi negativi giacché sente appena i bisogni d’una sus- , sistenza che non
conosce , per passare a considerarlo nello sta- to <Ii Società, riflette
primamente , che la sociabilità è un» qua- lità essenziale dell' uomo ; cosa
dimostrabile per ragionamenti se non fosse una verità comune , continua e
coesistente colla stessa Umanità. Le Società anno intanto diversi gradi alla
per- fezione . Il minimo par che lo conosciamo : ma il massimo , se vi può
essere per 1’ uomo , sarà riserbato ad epoche più felici . Ma come tutti questi
immaginabili gradi di perfettibilità sociale mettono i componenti in 'rapporti
e circostanze diverse , cosi la sensibilità e la morale saranno del pari
differenti . Gli uomini posti vicino alle catastrofi del Globo dovettero avere
de’ senti- menti proprj ad essi , che nelle prime società di famiglia dovet-
tero provare cangiamento ed alterazione . Lo stesso dovè acca- dere quando le
famiglie cominciarono a moltiplicarsi , e la gran selva della Terra a popolarsi
di selvaggi , e poi per successivi e varj gradi prevenire allo stato di
barbarie ancor molto esteso e vergognoso per la specie . Tutti questi lenti
passi dell’ umana perfettibilità sono partico- larmente osservati dall'Autore ,
sempre riportando tutto ai suoi principi , e facendo vedere come naturalmente
ne discendano . La gradazione de* bisogni porta quella delle idee e de’
rapporti, dal- Digitized by Google xxxvir .1 KiueBeteaaoeaeoeeaaoc
^>3frC-»o ccS3g>uce:!>o ysra& dell affinamento della sensibilità ,
dello sviluppo delle facoltà in- tellettuali. dell attività dello spirito, e
finalmente della riflessio- ne . figlia necessaria di quell'olio , che
susseguendo ai bisogni soddisfatti > ne vede o immagina gradatamente de'
nuovi . In qnesy varj stati, per i quali passa 1' uomo, egli (à vedere come
nascano l' indipendenza e la libertà , come si alterino e si per- dano, e come
i sentimenti morali cangino d’aspetto al cambiarsi dei rapporti e delle
circostanze. In somma egli fa la Storia mo- rale della specie , se non
comprovata da documenti che devono mancare , almeno qual doveva essere per necessità
di Natura- Scorsa cosi la Storia oscura dell Umanità, dove sempre l' Ine-
guaglianza domina e campeggia , perviene finalmente allo stato di luce , all’
epoca della Società civilizzata ed ingentilita . E’ permesso al Poeta ed all'
Uomo fortemente appassionato di riso- spirare le selve al centro del vortice
sodale , come è loro per- messo di evocar le Ombre e le Furie , che io guidino
nel per- petuo albergo dell’obblio . Ma il tranquillo Filosofo , compassio-
nando gli eccessi della sensibilità e della immaginazione, richia- ma 1’ uomo
ai suoi doveri rimostrandogli le beneficenze della vita sociale • Quando si
considerano le Società civilizzate , e la perfettibilità della quale sono
capaci , bisogna aver lo spirito falso per abborrirle , o per preferire ad esse
uno stato naturale, che non esistè giammai in Natura. Nelle Società solamente
si svi* luppano le facoltà morali ed intellettuali deli* Uomo : è dunque in
esse che si purifica o si perfeziona la specie. Diogene vole- va ravvicinar 1'
Uomo alla Natura , non col degradarlo mino- rando XXXVIII H* »ando
la sua esistenza , ma colla virtù accrescendola e miglio- randola ; e questa
non è anch’ essa il più nobile ramo dell al- bero sociale ? E’ vero che nella
Società si sviluppa e manifesta maggiormen- te 1’ inegu3gliania morale ; ma in
che altro consiste essa che nei gradi di miglioramento del carattere e dei
sentimenti degl individui ! E se anche le circostanze sociali portano delle
catti- ve abitudini, che altrimenti non esisterebbero, codeste sono mo- derate
e ritenute dalle leggi conservatrici . Ma questo rientra nell’esame dell’
ineguaglianza politica, che 6 1‘ oggetto della Ter- za Parte. Qual infinita
differenza fra 1 selvaggio e 1 uomo civile ! E' la crisalide trasformata in
farfalla . Questa metamorfosi , eh’ è un miracolo agli occhi volgari , non è
che un naturale svilup- po a quelli dell' attento Naturalista . Tale è 1’ uomo
sodale per chi medita la Natura umana . Ma qual differenza ancora nel seno
stesso della Società ! Nel massimo della civilitazione si trova spesso lo
stolto selvaggio ed il barbaro feroce , 1’ uomo di genio e lo stupido , il
virtuoso Filosofo , 1 imbecille supersti- zioso , 1‘ opulenza ed i cenci ; il
Frate ed il Militare esistono nella stessa società e sotto lo stesso Governo. Ma
fra i Governi ancora quai triste differenze ? "Lo stupido Despota da un
trono invisibile sacrifica milioni di schiavi ; mentre un Rè vive da amico col
popolo che lo adora . Un Senato Aristocratico a pas- si lenti e regolari
calpesta un popolo che crede degradato per Natura , e che lo è spesso per
sentimento ; mentre una Demo- cra- Digitized by Google crazia ,
sragionando quasi sempre nelle sue risoluzioni opprime , , «M-xxxix h*
sooooeaaecaje e tiranneggia gli altri popoli che le appartengono La tumultua- .
ria libertà è al centro- la schiavitù , e l’ oppressione alle circon- ferenze .
Che strani misti ancora possono sostenersi , senza un contrasto di forze
resistenti l E quali specie di sentimenti nascono ancora sotto queste varia- te
forme! L opinione sostenuta tà il vessillo dei ineguaglianza; e le leggi,
sempre deboli contro • quella dominatrice dell’ Universo, la vedono spesso lor
malgrado de' varj Governi , che non dal potere innalbera in mezzo alla Socie-
trionfare. Ognuno si sforza per avvicinarsi revole; e se tutti gli sforzi non
sono egualmente felici, cosi non- dimeno si scuote l’inerzia fondamentale
dell'Uomo , così esso di’ viene un essere attivo, così si sublima a un grado
superiore a tutti gli altri esseri senzienti . Le circostanze che s' incontrano
, ael corso della vita, determinano gli uomini diversamente in ra- gione della
loro sensibilità ; e quindi nella riunione delle azioni . formano un tutto, non
di parti similari, ma differenti e dissimi- li , che fermentando
necessariamente rigenerano il moto e danno origine a nuove trasformazioni Senza
l’ineguaglianza le Società non sussisterebbero. Non posso» no codeste
distruggerla, ma non per questo essa porta un caratte- re intrinseco di male: e
quando siam persuasi che le idee mo- rali sono tutte relative , e che esse
traggono la loro sorgente dai rapporti immediati dell'uomo, ci bisogna esser
conseguenti iti riconoscere il bene che fa la Società col moderare e rintuzza-
, a quell' insegna favo- .,. 4*4 XL te i disgustosi eccessi dell’
ineguaglianza che viene dalla Natu- ra . Nelle Società sono nate le leggi
protettrici della de- bolezza e direttrici della forza e della Ragione ; e se
le Società non danno sempre quegli effetti che dovrebbero per loro natu- ra,
non parmi che sia per intimo difetto della cosa, ma della Na- tura umana finora
incapace d’ un sublime grado di perfezione Se nondimeno la ragione , la
sperienza e la Storia ci mostrano, che 1' uomo in società è sempre determinato
dalle cagioni e dalle circostanze ; e che queste sono in gran parte in mano del
Legislatore e del Governo , basta far nascere queste circostanze, per far
prendere agl’individui quella determinazione , eh è più atta fare la loro
felicità relativa • Alfonso 1. amò le lettere , fu !’ amico de' valentuomini ,
li premiò , li onorò, e durarono iìno al tempo de’ suoi brevi successori La
legislazione moderna d'Europa manca ancora dima parte, cioè, del premio alla
virtù. Quindi ritieguaglianza divien più do- lorosa , e le leggi non
communicano un moto sufficiente verso la Beneficenza . Chi a caso s' avvia per
questa strada , vi si vede quasi isolato; e non potendo giugnere all’insegna
dell’opi- nione per la gran folla pervenutavi per istrade più brevi, si con-
tenta d’ un piccolo tugurio su la via percorsa , e colà vive da Eremita Bisogna
assolutamente leggere i tre uhimi Capitoli della Parte Terza, per avere le più
giuste e vere idee della Legge di Natu- ra , del Dritto delle Genti e del
Civile . J principj fattizj d’ al- cuniFilosofivisonomodestamenteesaminati,
colmostrareche essi Digitized by Google •M XLI essi non s’ adattano
all’ uso dell’ umanità , e per conseguenza non sono tratti da quei rapporti
coesistenti colla specie , e che non si cangiano , che nei diversi punti della
naturale progres- sione . Le prime leggi di Natura sono comprese nella teoria
della sensibilità tanto bene sviluppata dall'Autore. Tutti i drit* ti
dell'uomo, in qualunque stato, sono una emanazione di quella qualità inerente
alla sua esistenza , e su di essa si devono misurare . Quindi dimostra infine
che non bisogna giudicare delle azioni morali col rapportarle all’ idea di
utile , perchè sa- remo sempre ingiusti ; c clic I" archetipo al quale si
devono ri- ferire è la Giustizia , che vale a dire, T espressione perpetua ed
eterna della morale verità Ecco il secco scheletro d'un’ Opera pienissima ,
fatto solo col ravvicinare il più che per me si è potuto le idee principali
dell’ Autore relative al suo titolo , titolo che forse per sola mo- destia
volte Imporle ; poiché *i -parer mìo , è il più completo corso di naturale
Filosofia, essendo tratta dalla vera natura dell’ uomo , ed il più utile,
perchè applicabile a tutta la pratica del- la morale ed alla teoria della
Legislazione . Qual giustezza • qual vastità di spirito , qual’estensione di
cognizioni e quale su- blimità di genio abbiano avuto parte à quest’Opera non
può rile- varsi in un estratto. I Giornali d'Europa fecero eco in celebrar- la
: e questa e quella del Cavalier Filangieri, facendo molto ono- re alla Nazione
, eccitarono le più lusinghiere speranze di ve- der presto in un nuoyo Codice
gir'effetti di questi lumi e di ’ queh Digitized by Google ,. XLI1
quella libertà che non si scompagna giammai dalla Ragione e dalla Virtù . Una
tale Opera che sarebbe stata sufficiente per fare la cele- brità d'un uomo, che
poteva farne nascere delle altre utilissime, che non pecca d’ altro che d’
abbondanza d’ idee e profondità di pensieri , avrebbe dovuto fare riposare lo
spirito dell’ Autore , se avesse travagliato pel solo desiderio della Gloria .
Ma que- sto sentimento lo tormentava cosi poco , che non potè calma- re 1’
attività dello spirito sempre sollecito d; pensieri utili ed interessanti , e
lo diresse ad altr* oggetto , che doveva eterna- re la sua memoria colla
gratitudine della Nazione. Annali del TTL sentimento di Patria, soggetto ad
estinguersi sotto ‘1 di- Regno JlL, spotismo , ricomparisce nello spirito e nel
cuore sotto di- versi aspetti ne' Governi moderati. li desiderio della Gloria e
del Pubblico bene accompagna costantemente questo sentimento nel- ie anime ben
nate ; e ciascuno brama nel suo interno , che, la sua Nazione sia la più
rinomata e la più felice . La nostra Nazione è come una illustre antica
famiglia della quale si contano tanti -Eroi nella Storia e le cui glorie sono
coeve del tempo htcsso s ma ridotta in più povera fortuna ed umile stato ,
riclama solo per suo vanto le imprese c le gesta de’ suoi maggiori . Vide il
Grimaldi che nella folla de' nostri Storici Scrittori si era mancato sempre a
quella vista che l' ottimo Storico deve ave- re, 1' utile cioè dell'umanità e
della Nazione in particolare per la qua- Digitized by Google XLIII
ì* t<.gaeoaoe3ao(^i)oce9ae5uiryj<xs)3iitsatii3aae»ioi=>» quale si
scrive . Vide che uu nudo racconto di fatti non sareb- be stato che una inutile
rapsodia atta ad occupare il tempo degli oziosi e degli annojati. Vide che la
Storia non è altro , che la vita morale delle nazioni . Vide che i fatti che
formano il ma- • teriale d' ogni Storia, non sono che fenomeni, che devono
ave-* re delle cagioni . Vide finalmente che la Storia doveva essere d’ un
utile presente . Ecco ciocché gli fece nascere l’ idea di compilare gli Annali
del Regno . L’apparato delle difficolti da scoraggiare qualunque spirito non
fecero arretrare il suo. Quel vigore di sentimento e quella co- stanza ch'ei
portava in tutte le sue intraprese, lo accompagnaro- no similmente in questa
pur troppo malagevole e difficoltosa. Egl’ incominciò dalla Geografia, non col
far una secca no- menclatura o una nojosa discussione critica su i veri nomi a
situazioni delle antiche Città e popoli : ma col dare nettamente in risultato
quello che vi era di piò verificato e che più im- portava di sapere . Un
Filosofo vede con occhio differente da! Filologo gli antichi fatti ed i
superstiti monumenti. Così egli non si fermava sn i fatti isolati , ma
combinandoli e riducendoli li richiamava quasi a nuova vita , e per tal modo
con .molta fatica ci ha dato la Storia de’ tempi quasi del tutto ignoti alla
Storia, stessa. Egli ha descritto Io stato barbaro del Regno prima che le
Colonie d' oltremare venissero a civilizzarlo : à fatto vedere 1* azione
reciproca d qua.’ popoli fra loco. , e per effetto delle j varie leggi , 1'
avanzamento degli uni e la decadenza e di$tru-> ' zione degli altri; i
progressi della perfettibilità Fi non sociale j Inforza DìgiUzed by
Google LXIV teMPOeeOaaoaBoeeesoeieeaeBOiuo^eeaooo» non sempre
accompagnata dalle ricchezze : la popolazione o le coltura crescer col
commercio e colle arti e poi divenir preda d’altri popoli più guerrieri. Egli
discese fino alla particolarità di quelle costumanze che allora si chiamavano
Religione , feroce o lieta secondo lo stato e carattere della Nazione. Lo
stesso Go- verno economico e politico non è stato trascurato , mostrando come
questi popoli liberi e divisi sapessero poi formare un uni- tà ed una forza
concorde , che formasse di tanti voleri un so- lo, cioè , quella volontà
generale , che è la legge eterna delle Nazioni . Le arti , 1; agricoltura , le
Scienze anno anche meritato la sua particolare attenzione : e sebbene sembri
eh' abbia rab- bassati troppo i popoli Autottoni d Italia , pure chi considera:
attentamente, troverà, che si è egli voluto attenere più alla ve- rità Storica
, che alla vanità Nazionale In tutto fi corso di questa Storia la di lui penna
è sempre animata dal cuore. La tirannia , il vizio t la superstizione , che
entrano pur troppo spesso nella Storia dell’ uomo , sono mostri che non si
stanca mai di combattere , smascherandoli anche dove li uova coperti e velati ,
per far via più campeg- giare la vera gloria e la virtù, sempre rara nel corso
de’ secoli. La libertà , parola volgare , poco ancora intesa , dritto prezioso
dell’ uomo e più prezioso per la Società , è sempre rilevata dall’ animo del
vero Filosofo , che non può far a meno d’ amarla . ' Su questo gusto egli
tratta la Storia de’nostri progenitori . fin- ché essi e l’ Italia tutta non
perderotto la propria esistenza , per diventare nou sudditi ma schiavi di Roma.
U . . Digitized by Google . 4*^ XLV >4* la forma del Governo
cangia il carattere morale de popoli „ Niente di grande , niente di generoso
sema 1’ amor della Patria e sema il sentimento di libertà . Un lusso
distruggitore, il lan- guore dell’ inerzia , la schiavitù e la spopolazione
corteggiano sempre il dispotismo. E questo è il quadro degli antichi popoli
sotto l' Impero de’ Romani I Barbari distruggendo l’Italia la rigenerarono.
Essa non po- teva rinascere che dalle sue ceneri : ma con qual progresso lento
, con quali nuovi errori , con qual nuova strage deli* u- manità riprendesse
questo corso , tutto è attentamente rimarca- to dall' Autore , a cui nulla
sfugge di quanto deve far vergo- gnar 1' uomo delle sue pretensioni o
consolarlo ed istruirlo . Ma è inutile di parlare più oltre di quest’ Opera,
che è nelle mani & ogni onesto cd illuminato cittadino . E' stata vera
disgrazia della patria, che l’Autore sia rimasto a mezzo ’l corso della sua
vita e del più utile prodotto , che potesse dare alla Nazione. Ecco con quali
Opere Fr. A. G. rese immortale il suo nome. Ecco con quali mezzi cercò di
essere un utile e benefico cittadina Ecco quali titoli abbiamo di celebrare e
piangere la sua memoria. La di lui vita si può dire compresa tutta nelle Opere
sue , non solo perchè le idee nuove e sublimi fanno quasi 1’ apice dell’
esistenza d’ un uomo di lettere e d’ un vero Filosofo ; ma per- chè nelle di
lui Opere morali souo espresse e manifestate quelle idee, e que’ sentimenti
ch'egli esercitò in tutto il corso del suo vi- vere. Tuttavolta il mio cuore
sente ancora il bisogno di parlare, di qualche altra particolare circostanza.
Si Digitized by Google 4*4 xlvi >4» Si inno ordinariamente delle
strane idee s» la sensibilità del cuore umano . Si dispensa e prodiga spesso il
titolo di sensibi- le alle anime deboli o alterate , credendosi volgarmente che
la sensibilità non possa esser compagna della virtù e della ragione.
Bisognerebbe essere o stupido o affatto depravato per rimaner insensibile ai
più lusinghieri e naturali sentimenti; ma questi per essere conformi alla loro destinazione)
devono nascere da quella analogia d' idee , da quella uniformità di sentimenti
e da quel- ( la consensibilità di cuore) che formano la base armonica dell'
amore.-Se un uomo sensibile resta indeterminato a questo sen- timento , non è
certamente per mancanza di sensibilità fonda- mentale, ma dal non essersi
ancora incontrato con un cuore v che possa combaciarsi e quasi amalgamarsi col
suo . Rari in- contri , ma possibili, per consolazione della spezie tonio
Grimaldi fa abbastanza ragionevole e fortunato, per collo- care gli onesti
sentimenti del suo cuore in quello della Contessa tratteggiata dall'
espressione della virtù c dei doveri , era poi quasi alluminata Aurora Barnal
a. Una fisonomia felice, fortemente da più soavi e teneri sentimenti del cuore.
La dolcezza delle -sue maniere , la facilità della sua ragione il gusto per ,
laverità, la superiorità ai pregiudizj desiderj ( virtù rara nel sesso ) faceva
parere che fussero tras- fase nella di lei anima le virtù del suo compagno come
spesso , il disinteresse , e la temperanza dei , una maschile fisonomia ei
conosce in più delicato volto e pren- , de la morbidezza e ’l carattere del
sesso che investe- Con que- ste qualità fondamentali si potrebbe mai dubitare ,
se D. Auro- ra ! Francescan- Digitized by Google 4*4 XLVII H ra facesse
la feliciti della sua famiglia , se fosse la più teneri amica del marito , la
più saggia madre delle sue figliuole , la più atta all’incarico delle
domestiche cure ? Non si conosceva intera- mente F. A. G. sema conoscere ancora
qual donna egli s’ avesse assortita . Gli amici e confidenti di lui erano
egualmente j suoi Lo spirito di ragione e ’l gusto ch’essa portava su varj
oggetti, ne rendevano la compagnia egualmente piacevole ed interes- - sante .
la sua casa era quindi il punto di riunione di coloro che ai talenti
accoppiavano le Non è questo il luogo di fare il catalogo dei molti amici del
Grimaldi * tutti conosciuti per merito e per probità ; mi non posso trattenermi
dal ricordar colui la cui memoria dovrà esser mai sempre cara alla nostra
Nazione , dico d’Antonio Genovesi, padre e creatore de’ nostri ingegni Quell’
Uomo egualmente di . cuore benefico e di spirito sublime aveva assai punti di
rappor- to per esser stretto amico del giovine Grimaldi , che già in fre. sca
età dava non dubbj segni d’ esser destinato a divenirgli successore nella
pubblica stima , e nella celebrità » Grimaldi era un uomo che abbisognava
d'amare per istinto; sin- cero e semplice nelle sue maniere come ne’ suoi
sentimenti , il suo cuore non era chiuso nè dalla diffidenza nè dal disingan-
no . La libertà della- sua ragione non era mossa nè dallo spiri- tò di dispuu
nè dal gusto di primeggiare : ma aveva il giusto principio di richiamare tutte
le idee allo scopo dì qualche uti- lità morale . Con questa maniera di pensare
, oh quanto d’ inu- tile si trova negli usi ordinar) della vita ! Eppure essa
dà il meto- do p iù lodevoli qualità, del cuore- . * Digitized by
Google 4*4 xlviii >4* do più vantaggioso per giudicare del bene
reale delle cose e del- le azioni . I suoi più prediletti discorsi si
raggiravano su que- sto punto che tanto facilmente ricorre nelle Capitali .
dove la grandetta della scena è proporzionata alla moltitudine degli at- tori .
Così quest’ uomo nel tempo che si sottraeva alle necessa- rie applicazioni' non
si distraeya in inutili trattenimenti , ma in compagnia d’eletti amici rilevava
Io spirito con altre idee era-, gionamenti d’un utilità più ordinaria e
generale. Non solo i nazionali ma gli esteri ancora vollero avere il piacere
-di vedere dawicino quest’uomo illustre, e restavano sor- presi nel riconoscere
in una somma semplicità di maniere quel Filosofo , che in lontananza avevano
altrimenti immaginato. Egli però poco desideroso di essere conosciuto , niente
avida» di gloria letteraria , anzi pieno d’ una vera modestia che ac- cresceva
il di lui merito reale, evitava. le nuove conoscenze, e cercava di tenersi
chiuso eristretto fra’l numero di pochi amici, eh’ egli più che fraternamente
amava . Pareva che non esistes- se veramente fuori della sua famiglia . Cosa
rara nel seco- lo ! Le persone eccentriche ai sentimenti primitivi , che anno
bisogno d’uria esistenza adjettizia, che unicamente vivono in so- cietà
estranee ad essi, o dnno la disgrazia d’aver sonito circo- stanze infelici , o
non esistono che per 1’ ambizione e per la vanità . La prima morale comincia,
dai primi vincoli e rapporti che ci dà la Natura ; e chi non sente questi non
sentirà che in apparenza quelli della società che sono più lenti. Chi non trova
i germi delia sua felicità nella prima società naturale, potrà difficil- jncu-
Digitized by Google 44 XLIX
euere39ee»au(^>jeejeBg3eomjaoiie35e»^><- c»iwieeao «ente rinvenirli
altrove. Quindi egli menava il più che poteva la vita domestica , e poco si
estrinsecava , anche per non inde- bolire i vincoli del cuore , che si spossano
nelle troppo suddi- vise diramazioni . Non potè però celarsi allo sguardo di
chi lo cercava senza conoscerlo. 11 Generale Afton, desideroso d’avere al suo
fianco un uomo , che all’ estesa cognizione delle Leggi riunisse non ordinarj
talenti e le più preziose qualità del cuo- re, non altrove seppe porre il suo
giusto sguardo e fermar la sua scelta che sopra Grimaldi, già molto conosciuto
per nome e per i suoi libri in Europa. Egli lo rese noto alla Maestà del
Sovrano che sempre amante dc'talenti dc’suoi sudditie voglioso di ricono-
scerne il merito , fece che restasse impiegato nelia delicata cari- ca
d’-Assessore de’ suoi Reali Eserciti, avendolo poi in mira per altre situazioni
, dove più utilmente e più estesamente avrebbe impiegato la forza de’ suoi
talenti, e l’attività del suo cuore. Io non devo estendermi sii! dìsiiBpegno
particolare della sii* Carica . Pieno di talenti , della più vera rettitudine
di cuore , ed esercitato alla virtù chi potrebbe dubitare se ben l’esercitasse
è li Publico ne ha fatto l' Elogio, e lo ha fatto colle lagrime . Nel rimanente
della sua vita privata era lo stesso cogli estranei e co- gli amicj . Ignorò
sempre ciocché si chiama lingua e tuono del mondo , non essendo stato giammai
Cortigiano , nè potendo es- serlo pel suo carattere . La verità usciva nuda c
sincera dalla di lui bocca, e la espressione di essa gli era cosi naturale come
il sentimento» Mai ricercato o ingegnoso, non isforzava lo .spiri- to per mostrare
d’ averne , e le sue maniere non erano model- G late , Digitized" by
Google L eCJlMStysooe^fle^oe^e^nr^anp^sagsg^at x —v^' * s^ey— late
sul gusto o sulla moda , ma spontanee , cordiali e vere . , In tal guisa egli
faceva la delizia di chi aveva la fortuna d' essergli vicino. In questi ultimi
anni però era poco il tempo che poteva con- sacrare all’amicizia. Pieno di
sentimenti di dovere pel suo im- piego , ei s’ occupava in gran parte di quello
e compromesso ; col pubblico e con se stesso per l’Opera degli Annali,
travaglia- va e meditava assiduamente su quest’ oggetto a lui caro . Ru- bava
le ore- necessarie al rinfranca delle perdite giornaliere della macchina per
soddisfare alle intense brame del suo spirito . Ma questa combinazione
eccessiva di fatiche alterò non poco la sua robusta e valida costituzione* Gli
accessi del male che soffrì più volte , furono tanto ferali, che minacciarono
la sua esistenza : ma fatto più per abbandonare se stesso, che disposto a
trascurare in menoma parte i suoi doveri, non si diede mai un serio pansiere
della propria conservazione. La sofferenza che si aveva acquistata per i mali
fisici passava qualche volta in neghittosa noncuranza, nè voleva ricordarsi
della pur troppo stretu dipendenza del no- stro essere dallo stato delf
organizazioue . Le rimostranze che gli si facevano per questo , erano
sufficienti per disturbarlo ; e se qualche volta si ridusse per le amicali
violenze a temperare alquanto le sue applicazioni, e a prendere qualche cura
della sua esistenza , ad ogni piccolo miglioramento ritornava inconta- nente ai
modi usasi . senza badare , quanto la machina, indebo- lita prende con faciliti
le cattive abitudini , che ne portano 1* distruzione .Ma V intemperanza nelle
applicazioni dello spirito,'. è sta- Digitized by Google +Ì LI H* è
stata in ogni tempo il difetto comune ai grandi e sublimi ta- lenti. In questo
stato d’ assidue fatiche e di spossatezza , un colpo terribile gli fece
risentire la catastrofe , che nel disastro della Calabria involse anche il
luogo della sua nascita . Quel giorno di lutto comune della Nazione fu
terribile per lui, che colla ma- dre perde cinque altri individui della sua
virtuosa famìglia . La ragione non à fòrza di consolare il cuore destinato a
sentire e non ad essere comandato.; e In inaura»*»»*»»» dell» sensibilità so-
no le più distruttive di questa nostra tenue e troppo complica- ta
organizzazione • In mezzo al più vivo dolore il Grimaldi non diede soltanto
sterili lagrime alla Patria . Egli per Sovrano com- mando fu il primo descrittore
di quella fatale sventura , il pri- mo a suggerire le necessarie viste d’una
ben intesa beneficen- za , ed a sollecitare la sensibilità, del Trono per
conservare gli avanzi di quel popolo infelice. Dalle di lui carte ne nacquero
altre molte , che forse quanto inno di esattezza Io devono s quelle , eh’ egli
per sua modestia non volle publicare Ma forse nè per quel violento attacco di
sensibilità, nè in con- seguenza delle nuove fatiche l’ arressimo immaturamente
pianto, S® il più terribile e fatai colpo non l’avesse sopraffatto in questo
sta'to di salute indebolita . Egli vedeva da più tempo la diletta compagna del
suo cuore, in età giovane ancora, perdere quell* espressione.ti «alm*. r:
-1—lietaunafisonomia. Tutte le attenzioni che trascurava per se medesimo, volle
che fos- sero moltiplicate per lo sospirato ristabilimento della sua consorte
Ci . •0 Qigìtized by GoogleJ "1 4*i LII >4. td amica-
L’insinuante qualità del male , che già della di lei tersotia si era
impadronita, dava luogo a frequenti alternative di speranze e di timori: ferite
mortali nell'animo di chi ama . Chi è stato anche solo spettatore in si fatti
casi conosce in qua- le stato d’ orgasmo sia un cuore sensibile, ed a quali
lacerazioni sia in necessità di soggiacere . Il male che nel corso di circa due
anni distrusse la vita d’ Aurora Darnaba , fece anche crol- lare quella cfel
suo illustre consorte . Le anime sensibili e non infelici nel sacro nodo
ronjugale possono forse sole immaginare qual profonda acerbissima ferita dovè
farsi nel cuore superstite . Gli amici , che gli erano d’ in- torno, vedevano
espressa su la di lui costretta fisonomia l’ im- mensità del dolore e P
indifferenza alla vita . Il solo amor pa- terno poteva ancora rendergli non
odiosa 1' esistenza ; ma la macchina non resiste alla gravezza de’ mali
dell'animo . ed O T una o 1’ altro deve soccombere. Gl’incomodi, che prima
Pavé- vano travagliato ad intervalli, divennero continui; le medele a- vevano
perduto la loro attività; la macchina ora indebolita a se- gno , che un colpo
solo tolse la più preziosa esistenza per 1‘ a- micizia e per la virtù • La
perdita del Pubblico e degli amici è irreparabile ; ma le cinque nobili ed
afflitte pupille ànno trovato nei cuori di Fer- dinando E Carolina la
sensibilità e P affetto dei loro Geni- tori - Possa «ampie hi BemeficenT» far
I’ Elogio de’ nostri adora- bili Sovrani ! Questa è la vera riconoscenza eh’
essi possono testimoniare alle ceneri dell’ Illustre Cittadino , come queste
pO- Digitized by Google un >4* poche pagine e questi sentimenti
sono dopo le lagrime l' uniccr omaggio , che 1’ amicizia poteva consacrare ALLA
MEMORIA ETERNA DI FRANCESCO ANTONIO GRIMALDI; v. A. XLU. M. IXFrancesco Antonio
Grimaldi. Francesc’Antonio Grimaldi. Francescantonio Grimaldi. Marchese Grimaldi
dei signori di Messimeri. Keywords: compassione, la compassione, Romolo bruto. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura ed inter-azione” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691180351/in/photolist-2mQHpXE-2mPpb7N-2mKC3nj-2mKLP2r-2mKRy6y-2mPHbXQ-nSmehQ-mujkJt-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujmJz-mujhJF-mujo6x-mujjcR
Grice e
Gruppi – la via italiana al socialismo – filosofia italiana – Luigi
Speranza -- (Torino). Filosofo. Grice: “Gruppi is an Italian philosopher; at
Oxford, someone who writes only on politics is not considered usually one!” -- Il
concetto di egemonia in Gramsci Incipit Antonio Gramsci è senza alcun dubbio
quello che, tra i teorici del marxismo, ha maggiormente insistito sul concetto
di egemonia; e lo ha fatto in modo particolare richiamandosi a Lenin. Anzi,
direi che, se vogliamo vedere il punto di contatto più costante, più scavato,
di Gramsci con Lenin, questo mi pare essere il concetto di egemonia. L'egemonia
è il punto di approccio di Gramsci con Lenin.
Citazioni La scienza si ha quando si supera il dato immediato, l'apparenza;
si ha con un salto dialettico. In tutte le analisi che Gramsci conduce, io
trovo la presenza di un filo rosso che le guida, presente in tutti i Quaderni. Luciano
Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Riuniti, Roma. Gramsci è
senza dubbio quello che allaccia, se così si può dire, congiunge il movimento
operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è giustamente il primo bolscevico
italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del nostro Paese. Attraverso
un processo che fu complicato e che parte dalla sua comprensione non completa,
ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione d'Ottobre, arriva ad
affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il Capitale di
Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del Capitale,
secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del
capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della
funzione del partito come guida dei processi rivoluzionari. Gramsci
sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin con un
processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è
un approfondimento del pensiero di Lenin. Gramsci si aggancia
direttamente al concetto di dittatura del proletariato come si trova in Lenin,
individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo mutamento
della struttura economica e politica del paese, ma una profonda rivoluzione
culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini non
solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più
essere la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in
Russia. La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di
pensiero, secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e
filosofia affermando che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di
agire, sta nella sua politica più che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo
egli ricava che il principio teorico-pratico dell' egemonia (e qui egemonia
significa dittatura del proletariato) ha anch'esso una portata gnoseologica,
cioè di conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico
massimo di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo. Lenin
avrebbe fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece progredire
la dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due
elementi. In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche
la filosofia o le filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la vita
stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco
erede della filosofia classica tedesca, come aveva detto Engels, e si può
affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilic
[Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico, cioè nel senso di
pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta». Il
processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è
complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una
riflessione sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma
sullo Stato borghese italiano, una individuazione della sua specificità.
In un articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato
italiano che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet
come la città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la
natura spietata della classe proprietaria. Si può dire che lo «Statuto
albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti
della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che funzionano
nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re
sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si
pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera
iniziativa. Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che
presidi almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà
individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di
riunione, mentre negli altri Stati democratico-borghesi almeno una garanzia,
almeno formale, esiste, in Italia non c'è neanche la garanzia formale.
Negli Stati capitalistici che si chiamano liberal-democratici l'istituto
massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato
italiano la giustizia non è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è
uno strumento della corona e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del
ministro della Giustizia. Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico
ministero avviene ad opera del ministro della giustizia. La direzione generale
delle carceri, le direzioni particolari, gli agenti della pubblica sicurezza,
tutto l'apparato repressivo dello Stato dipendono dal ministero degli Interni,
si capisce perché in Italia il presidente del consiglio si riservi sempre il
ministero degli Interni, come era tipico nello Stato prefascista, in modo che
tutto l'apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue
mani. Il presidente del consiglio è l'uomo di fiducia della classe
proprietaria - alla sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi
industriali, i grandi proprietari terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara
a conquistare la maggioranza parlamentare con la frode e con la corruzione; il
suo potere è illimitato non solo di fatto - come è indubbiamente in tutti i
paesi capitalistici - ma anche di diritto, il presidente del consiglio è
l'unico potere dello Stato italiano. La classe dominante italiana non ha
avuto neppure l'ipocrisia di mascherare la sua dittatura, il popolo lavoratore
è stato da essa considerato un popolo di razza inferiore che si può governare
senza complimenti, come una colonia africana. Il Paese è sottoposto ad un
permanente regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della notte un
ordine del ministro dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento
l'amministrazione poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei
locali di riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via
amministrativa la libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini
sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e
nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in difesa contro la brutalità ed i
contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il semplice ordine di
un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e perquisito, una
riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore cancella
uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate
dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di
un prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di
sciogliere un'associazione, ecc.». È un'analisi spietata dei limiti
liberali e democratici dello Stato liberale italiano, della sovrapposizione del
potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere giudiziario, è una
descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai prefetti, ai
questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà. Ora a questa
visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano, Gramsci
ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come per
Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di
distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si
organizza sin da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per
Lenin, viene concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si
compie in un determinato momento. La domanda infatti, che egli si pone
nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto il lavoro del giornale, dell'Ordine
nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a Torino, un embrione di
Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le commissioni interne.
E aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in qualche cosa di piu,
bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza dei Consigli
di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla loro
iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina,
per mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento
non solo della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un
organismo attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della
produzione, della organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della
produzione, stabiliscono un potere nella fabbrica, un potere democratico della
fabbrica e un potere che poi dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a
diventare potere nella società e nello Stato. indice I consigli di
fabbrica Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice salariato
- schiavo del capitale, non cosciente della funzione storica della propria
classe - in produttore (egli prende da Sorel questo termine), ma esso è
presente anche in Marx quando parla della Comune come l'autogoverno dei
produttori e non più degli operai salariati, cioè dell'operaio che ha superato
ogni limite corporativo, che non ragiona più come mentalità di categoria, di
classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri interessi
immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e interprete
degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale,
forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire. Egli scrive
nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i circoli
socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali
occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia
operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai
quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne
limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di
arbitraggio e di disciplina, sviluppate ed arricchite dovranno essere domani
come organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue
funzioni utili di direzione e di amministrazione. Cioè bisogna imparare prima a
dirigere le fabbriche se vogliamo abolire il capitalismo. Fin d'ora gli
operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee di delegati
scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola d'ordine: «tutto
il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata all'altra: «tutto
il potere dello Stato ai consigli operai e contadini». Vi è, quindi, un
tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a fare come in
Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li va a cercare
nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste, cioè le
commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e molta più
capacità rappresentativa. A questa concezione di elevamento della
funzione dirigente della classe operaia prima della conquista del potere, come
condizione della conquista del potere, qui Gramsci ragiona già alla leniniana,
a questa sua concezione si contrappone un'obiezione di Bordiga e del suo
giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio, utopico pensare che la
classe operaia possa avere una funzione dirigente nella fabbrica prima della
conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti, solo
quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere
nella fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo
prendi? Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo
di crescenti contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla
grande crisi che è il momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il
proletariato e il Partito comunista devono prepararsi mantenendosi puri,
intatti, non contaminando si in alleanze, in compromessi e in cose del genere.
Vi è cioè in Bordiga una visione meccanicistica, di materialismo volgare,
meccanicistico del processo rivoluzionario che ignora la funzione del soggetto,
del partito. Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni
parlamentari. Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato.
Riprende cioè una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed
Engels avevano polemizzato, come Lenin polemizza inEstremismo malattia
infantile del comunismo contro queste posizioni di Bordiga. Per Gramsci,
invece, ripeto, la rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad illustrare
tutte le vicende dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero
dell'aprile del '20, detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la
questione dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il
padronato decise di passare dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare
senza avvertire i consigli di fabbrica. Gli operai arrivarono in fabbrica
e trovarono le lancette dell'orologio spostate e fu lo sciopero. Era in gioco
una questione di principio: il potere democratico del consiglio di fabbrica.
L'ingenuità fu il non aver unito alla questione altre rivendicazioni piu
sostanziose che potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu solo una
lotta di principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe
padronale passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il
momento più avanzato della lotta, ma un momento di difesa. Funzionarono,
però, i consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la disciplina,
ma nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè il
movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi
esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della
fabbrica, e anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e
soprattutto una grave debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico
limite dell'Ordine nuovo. Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei
consigli con l'occupazione delle fabbriche si pone l'esigenza del partito, come
momento unificante di tutto il movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci
aveva visto, ma in modo incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva
privilegiato i consigli rispetto alla questione del partito stesso.
indice Necessità della ricognizione nazionale La riflessione
di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare? scritto per una
rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati
sconfitti? Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce
il proprio Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro
sulle stratificazioni sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle
classi, non è uscito un libro sulla storia dei partiti italiani, c'è
un'infinità di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in Sicilia i
contadini sono autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono
autonomisti i latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti
gli anarchici sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere
perché non conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo,
che Marx ed Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco
l'esigenza di usare il marxismo non come strumento di propaganda, ma come
strumento di analisi, di comprensione della realtà. Certo, spiegare la
sconfitta del '20-21 col fatto che non si conoscesse bene l'Italia è insufficiente,
è unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli elementi della
verità. Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del partito col '24,
cercherà di arrivare ad un'analisi dell'Italia, ad una conoscenza del processo
storico italiano. Le tesi del terzo Congresso di Lione sono un'analisi del
processo attraverso cui si è formato lo Stato unitario italiano per individuare
da questa analisi concreta, storica, le forze motrici della rivoluzione nella
classe operaia del Nord e nei contadini del Mezzogiorno e delle Isole. Si veda
il saggio sulla Questione meridionale, contemporaneo alle Tesi di Lione.
Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25 aveva già usato in
polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il concetto leniniano dell'egemonia,
dell'alleanza della classe operaia con gli altri ceti e soprattutto con i
contadini e si è attenuto ad una posizione astratta per cui la classe operaia
deve restare chiusa in se stessa, ha temuto che ogni alleanza fosse una
contaminazione piccoloborghese della classe operaia, per questo non ha capito
l'essenziale di quello che è il leninismo, alleanza operai contadini,
costruzione dell'egemonia. Nella Questione meridionale inoltre Gramsci
pone non solo la questione meridionale come elemento nazionale decisivo e
quindi chiave della egemonia della classe operaia, ma entra in una definizione
pili precisa della egemonia. Che la questione meridionale sia elemento decisivo
della egemonia è un momento molto importante, perché non aver capito questo
aveva reso il movimento socialista subalterno alla politica della borghesia e
di Giolitti, cioè aveva accettato la politica di Giolitti assai limitata, da un
lato, e, dall'altro, riformistica senza riforme in un certo senso, che però
faceva concessioni alle cooperative del Nord, al diritto di associazione, alla
funzione dei sindacati, non interveniva come Stato nei conflitti del lavoro,
ecc., facendo pagare tutto questo al Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la
politica della camorra, degli «ascari», cioè dei deputati che andavano in
Parlamento per votare sempre « Sì », reclutati attraverso le clientele, ecc. Il
modo in cui si spezza l'egemonia della borghesia è il modo in cui si rompe
questo blocco industriale e agrario tra la borghesia capitalistica del Nord e i
grandi proprietari terrieri, latifondisti del Sud, e si salva l'alleanza classe
operaia del Nord e contadini del Sud. A questo proposito Gramsci dice: il
proletariato può diventare classe dirigente e dominante, nella misura in cui
riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare
contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione
lavoratrice, il che significa in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti
in Italia): nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe
masse contadine. La questione delle alleanze, quindi, è vista come
questione decisiva per conquistare il dominio e la direzione, e la questione
contadina viene vista come essenziale. Ma non la questione contadina in generale
(tra l'altro non esiste). La questione contadina in Italia è storicamente
determinata, non è la questione contadina ed agraria in generale, in Italia la
questione contadina ha, dice Gramsci, per la tradizione italiana, per il
determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e
peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto
con i contadini del Sud e con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di
ispirazione cattolica. Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire
che c'è un altro passo in cui egli si richiama alla dittatura del proletariato,
che l'egemonia viene vista come una direzione che si conquista nella società
civile e la dittatura del proletariato è concepita come la forma statale,
politica dell'egemonia, anzi essenzialmente come la forma. statale.
Inserisce qui una distinzione tra società civile e Stato. Nella società civile
l'egemonia, nello Stato la dittatura del proletariato, che però in Gramsci non
è così schematica. I due momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che
la distinzione tra Stato e società civile, società politica e società civile è
una distinzione puramente di metodo, metodologica, non organica, perché in
realtà questi due elementi sono fusi. Società civile e Stato non SI separano
nella realtà. Come è noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che
significa dirigere, guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel
significato tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel
senso originario, etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo
termine da Lenin, perché Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare
la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione
democratico-borghese; Lenin non lo usa più nel 1917, quando usa ormai il
concetto di dittatura del proletariato. Ma non c'è dubbio che la capacità
dirigente della classe operaia nel processo rivoluzionario congiunge nel '17
strettamente la rivoluzione democratica alla rivoluzione proletaria, in modo
che la dittatura del proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione
democratica, quegli obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella
dittatura del proletariato vengono infatti indicati, come obiettivi primi,
obiettivi democratici e non obiettivi socialisti: la terra ai contadini, la
nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo. indice Egemonia e blocco
storico Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del
proletariato, ma riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e realizzata
da Lenin. Poiché l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione del 1905 fu
sconfitta, significa che Gramsci usa il termine di egemonia nel senso di
dittatura del proletariato, quella teorizzata e realizzata. Ora Gramsci
sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il consenso, la
coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia? La chiama
egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato la funzione
dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e ideale che
l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso uso dei
termini. Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato, sia
perché era quello rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno (si
era sempre intesa la dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle
libertà, e non come l'essenziale capacità dirigente, come Lenin aveva sempre
più sottolineato, man mano che veniva avanti la costruzione del regime
sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci usa questo termine, la
egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze del '19-20-21 e
si pone ancora la famosa domanda: perché non abbiamo vinto? Non abbiamo
vinto, dice Gramsci, perché bisogna capire le differenze che esistono tra una
società e un potere politico come quello russo, zarista, e un potere politico
in una società come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati.
La domanda - si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le condizioni
oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una risposta in
questa analisi di Gramsci. Gramsci dice: in Oriente, cioè in Russia, lo
Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatina sa (ecco il
punto); nell'occidente tra Stato e società civile c'è un giusto rapporto e nel
tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società
civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava una robusta
catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a Stato) ma
questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale. Ecco la
grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente casi, in
una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una enorme burocrazia
zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui quando lo Stato andava
in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta militare e durante la
guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente che resisteva.
In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e lo Stato italiano
tremò fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta struttura della società
civile, c'era l'apporto del capitalismo, le sue organizzazioni, la sua tenuta
culturale e cosi via. Questo, secondo me, è un tentativo di risposta di
Gramsci al perché nel '19-20 siamo stati sconfitti, ma è al tempo stesso una
riflessione molto più generale sul modo in cui si pone il problema della
rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati. Di qui egli trae la
necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in altre pagine .
Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale, gelatinosa, era
possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe rapidamente
risolutivo, in Occidente è necessaria la guerra di posizione, che qui non
significa stare fermi. 'è un altro passo in cui con guerra di posizione Gramsci
indica una relativa staticità dei processi sociali e politici, qui non
significa questo, qui guerra di posizione è la guerra di trincea, per cui vai
all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè individui i
gangli essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica
(attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto
di tutte le complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza
di una nuova strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la
rivoluzione. Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo
dall'Ordine Nuovodel '19-20, attraverso La questione meridionale per arrivare
ai Quaderni, perché il problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare
anche in Italia come in Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo
dal movimento reale, non astrattamente. Nel '26 già individuiamo che cosa
distingue la questione contadina in Italia dalla questione contadina in Russia.
Come noi risolviamo questo problema decisivo della egemonia proletaria che
Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini? Qui che cosa è
l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è questione
vaticana che l'origina. Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza
di una strategia, cioè dice: non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno
di una ricognizione del terreno nazionale, cioè di una analisi concreta della
situazione concreta italiana, di calarci nel processo storico, nella
originalità dei processi sociali, politici e culturali del nostro Paese.
L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che
Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata)
applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era
la sola possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del
fronte unico della classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla
Terza Internazionale, al suo Quarto congresso del 1922, la individuazione di un
tipo diverso di lotta rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a
mio parere, molto di più di quanto Lenin non volesse dire, forza il suo
pensiero, lo porta oltre. Lo porta oltre però partendo da intuizioni che
in Lenin ci sono, perché vi sono scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno
conosceva in cui Lenin dice: in Occidente tutti i lavoratori sono organizzati,
non è come in Russia dove non c'erano sindacati, dove i partiti avevano scarse
radici, non avevano avuto una vita legale, ci sono cooperative, sindacati,
partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente tutti i cittadini
partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia », quindi
Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una
strategia, diversa, cioè il fronte unico. Gramsci parte da questa
intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto oltre e sottolinea fortemente
la necessità di una ricognizione del terreno nazionale: una classe di carattere
internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali
strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali,
particolaristici e municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in
un certo senso, cioè deve calarsi profondamente nella realtà nazionale se è
internazionalista, in quanto è internazionalista, se vuole dirigere i
contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare la specificità del
processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile al di fuori
della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di individuare
la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società,
l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo
livello di cultura, scoperta di cose che non si conoscevano. Questo
nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista
dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è
individuazione della tattica e della strategia nuove che si devono usare in
determinate situazioni. Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx
aveva detto nella Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una
società sono le idee della classe dominante, cioè la classe dominante diffonde
le sue idee, la sua cultura, la sua ideologia in tutta la società. più
esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica dell'economia politica
del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di proprietà
prevalente, che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il
modo di pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di
produzione e il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi
questa contraddizione, la contraddizione che esiste nel modo di produzione
capitalistico, tra classe operaia e capitalisti per esempio, pone in
discussione non solo la politica economica, le questioni sindacali immediate,
ma anche la politica e la cultura delle idee della classe dominante. Non
appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato,
assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non
soltanto delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una
concezione del mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che
contrappone ai valori ed alla morale della società dominante. Attraverso un
processo enormemente faticoso, attraverso una piccola avanguardia, poco alla
volta, cerca di strappare all'egemonia ideale e politica della classe dominante
una parte sempre più grande della classe operaia e dei suoi alleati, contadini,
ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali. Ora Gramsci si chiede
come si tiene insieme una determinata società, cioè un determinato «blocco
storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene insieme questo
rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di scambio, e
lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una
determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui
interessi sono opposti. Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli
operai, tra i contadini, i cui interessi sono opposti a quelli della società
capitalistica, non solo con l'influenza politica, dice Gramsci, ma con
l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco storico, che lo salda,
che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo differente, ma
con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande
cemento del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo
ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere
dissociata dal momento dell'ideologia e delle idee. Noi allora abbiamo un
processo per cui le classi, antagoniste per interessi, sono subalterne
all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una propria
cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo
eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi
subalterne è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne
sono però spinte alla ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non
riesce ad organizzarsi in una politica perché c'è subalternità ideale, culturale.
È necessario tutto un processo perché le classi subalterne diventino autonome,
si diano un partito, una linea politica, una concezione culturale, e allora da
autonome lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già prima della conquista
del potere possono diventare egemoni, cioè. diffondere la propria concezione
non solo politica, ma culturale, in tutta la società. L'egemonia si
conquista prima della conquista del potere ed è una condizione essenziale per
la conquista del potere. Il processo di egemonia è quindi un processo di
unificazione del pensiero e dell' azione perché - quando le classi sono
subalterne - può esserci per esempio una insurrezione contadina unita
all'affermazione che i proprietari della terra ci sono sempre stati, e magari
sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per sistemare le cose. Può
accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in corteo al palazzo
dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo zar
pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano
subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della
chiesa ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.
Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è
quella della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata
che vive nella coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale.
Bisogna sogna congiungere questi due elementi attraverso un processo di
educazione critica per cui la filosofia reale di ciascuno, la sua politica,
diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia dichiarata. Per giungere a
quel processo di unificazione di teoria e pratica, di costruzione di una
cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le due cose
sono strettamente congiunte per Gramsci. Gramsci riprende questo concetto
di riforma intellettuale e morale ancora una volta da Sorel, ma cambiandone
completamente i contenuti. Riprende anche un tema tipico della cultura italiana
del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo Oriani, per esempio, come
nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia mancato qualcosa di
simile alla riforma protestante, cioè una riforma della concezione del mondo e
morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è stata invece la
controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione del
dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà
scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia,
che ha viziato profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei
cortigiani, ne ha fatto dei servi. È mancata una riforma protestante.
Gramsci dice che non solo è mancata una riforma protestante, ma è mancato
qualche cosa ben di più della riforma protestante; qualche cosa di analogo
all'illuminismo francese del settecento che preparò la rivoluzione francese,
qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese. indice La nozione
di intellettuale Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro
compito che era di diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo
umanesimo :fino agli strati più profondi e più incolti del popolo. Come era
necessario fare. Gli intellettuali democratici laici non l'hanno fatto perché
si sono mantenuti come una casta separata, con un suo linguaggio separato, con
una sua vita culturale separata. È mancato l'elemento essenziale della
costruzione democratica e di una riforma intellettuale e morale nel nostro Paese,
cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa cattolica, perché la
Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla due
linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta bene
attenta che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al tempo
stesso. Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una riforma
intellettuale per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo lasciano
la religione che è la filosofia di quelli che non hanno filosofia
cosciente. Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici
lo può fare la classe operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e
creando nuovi quadri intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i
suoi quadri, i suoi dirigenti. Qui muta completamente la nozione di
intellettuale, l'intellettuale non è chi sa il latino o il greco, lo scrittore
o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della società, il quadro
sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un intellettuale,
secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega
bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci,
perché organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono
gli intellettuali secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico,
gli elaboratori della egemonia della classe dominante la quale senza gli
intellettuali non potrebbe essere egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e
oppressiva e le mancherebbe la base di massa, il consenso necessario per
esercitare il suo dominio. La cosa interessante è che Gramsci elabora
queste idee attraverso un'analisi del processo storico italiano. C'è sempre
concretezza nel suo pensiero. Ad esempio analizza come si sia formata in Italia
l'egemonia dei liberali, come i liberali con un'azione molecolare ed empirica
abbiano assimilato, isterilito le forze repubblicane, mazziniane, ecc., e
disgregato il blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione
intellettuale e morale. Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento
ideale e morale nella direzione dei liberali moderati. Ed è qui che egli
introduce il concetto di supremazia. Un gruppo sociale, una classe ha una
supremazia in quanto ha la direzione e il dominio, la classe che è
all'opposizione non ha ancora il dominio, ma deve conquistare la direzione,
cioè l'egemonia, se vuole conquistare anche il dominio e una volta conquistato
il dominio deve mantenere la direzione. Come si presenta, quindi, per
Gramsci la rivoluzione? La rivoluzione si presenta in realtà come una c risi di
egemonia, cioè come una crisi di capacità dirigente da parte di coloro che
hanno il dominio perché non riescono più a risolvere i problemi del Paese, non
riescono più a tenerlo insieme con l'ideologia. Pensate ai processi che oggi si
sono compiuti. Lo spostamento a sinistra degli studenti, pur caotico ed anche
pericoloso che sia, contiene molti elementi di individualismo borghese
esasperato - e quindi resta nel quadro dell' egemonia culturale borghese molto
più di quanto non si pensi -, ma è anche il segno della disgregazione di questa
egemonia culturale, una disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa,
che si rigira e si tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa
crisi. Basta vedere come le idee del marxismo si sono diffuse e si
diffondono. Qui c'è un allargamento della nozione di rivoluzione.
Marx aveva detto: la rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in
una contraddizione incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte
di qui, ma vede la totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha
quando la classe dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse
non accettano più di essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo una
grande ribellione di massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la crisi
di egemonia, come uno scollarsi tra dominio e direzione, come il venir meno
della direzione, quindi come una crisi che investe tutta la totalità sociale,
in cui il momento culturale, morale, ideale ha un'enorme importanza. Noi
stiamo vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il vecchio blocco di
potere che aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta meno la capacità
dirigente del vecchio blocco di potere (che è sempre stata molto limitata del
resto), non si è ancora costruito un nuovo blocco di potere che possa portare
ad un nuovo blocco storico. Blocco di potere è un'espressione che Gramsci non
usa, la usa Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un nuovo blocco
storico e di una nuova società, di una nuova base sociale, di un nuovo tipo di
Stato, di un nuovo rapporto tra base sociale e Stato. Il momento di
questa crisi di egemonia è dunque un momento anche di crisi ideale, di crisi
culturale, di crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del soggetto,
della coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è
iniziativa, è intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin
aveva detto nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il
materialismo storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti
i quali, avendo individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel
processo per condur1o in una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi
non hanno capito la prima tesi su Feuerbach, la funzione del rapporto
soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci chiama il marxismo «filosofia della
prassi», usando una terminologia che fu usata da Gentile. Però Gramsci l'usa in
tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come intendeva Gentile, ma la
prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di soggetto-oggetto, intervento
del soggetto sulla realtà. Attenzione però. Gramsci parla sempre di
egemonia della classe operaia, non del partito, perché Gramsci non ha mai
rinnegato l'esperienza dei consigli di fabbrica e ritiene che la classe operaia
debba darsi una molteplicità di organizzazioni per conquistare il potere. Mai
Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il potere solo col partito,
essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve essere presente
nelle istituzioni statali oltre che di massa. Inoltre Gramsci non
mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente deve saper depurare
il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio, di arretrato,
di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza
moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la
spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli
chiama il senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune,
nelle sue contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni
arretrate. indice Il partito, moderno «Principe» È compito del
partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il nocciolo
razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica
della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia
della classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il
partito, perché esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della
filosofia istintiva, non consapevole, presente nell'azione, e della filosofia
consapevole che bisogna fare acquisire, dando la prospettiva, dando la visione
dell'insieme. In questo senso egli chiama il partito il moderno principe,
riferendosi al Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe
moderno non più come individuo, perché nella società moderna questo non è più
possibile, ma come intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una
grande volontà collettiva: il partito è il moderno principe. Del partito
Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della direzione. In
ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto
ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per
entusiasmo o per fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza
questi tre elementi il partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con
l'elemento di base voi non formerete nulla, non formerete mai il partito;
occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un esercito non forma il capitano, ma
alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la formazione del partito va
dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso, parte dal punto
più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma è una
visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo.
Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di
Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come
fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione. Il partito è
il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la vecchia concezione
e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del meccanicismo
materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista da cui lui
veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento sulla totalità
sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali: l'egemonia costruisce
un determinato blocco storico e il blocco storico si tiene insieme grazie
all'egemonia, grazie alla direzione. L'egemonia è il momento di
saldatura. Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente blocco
storico. Rompe il vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e costruisce
un nuovo tipo di totalità sociale, anzi, direi, sociale, politica e
culturale. Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non
di più. A mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di
scrivere i Quaderni nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da
togliergli la forza fisica di scrivere. In questa elaborazione noi siamo
andati avanti, cercando di dare una risposta a che cosa è la strategia
rivoluzionaria in paesi capitalisticamente sviluppati. L'abbiamo cominciato a
fare durante la guerra di Liberazione, parlando di democrazia progressiva, di
democrazia di tipo nuovo, come diceva Togliatti. Secondo Togliatti non ci
si poteva più rifare al modello russo della rivoluzione perché la rivoluzione
ha modi e scadenze diverse a seconda dei paesi, non c'è un unico modello. La
ricerca del nuovo modello avrebbe potuto avvenire attraverso l'azione dei CLN
(Comitati di Liberazione Nazionale) che Togliatti valorizza quando dice:
avremmo preso una strada più rapida e più sicura se avessimo potuto mantenere
in piedi i CLN. Lo afferma al quinto congresso del PCI. Lavorando su
questa indicazione di Gramsci, e non solo, lavorando sulla realtà oggettiva,
riprendendo l'esperienza della guerra di liberazione, siamo venuti costruendo
quella strategia che è, che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa
strategia non può grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza
avere delle convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento
operaio in altri paesi capitalistici. Quello che gli altri chiamano
euro-comunismo è fatto di accordi tra noi e il partito comunista francese, il
partito spagnolo ed altri partiti. Abbiamo naturalmente esteso il
concetto di egemonia.Per noi l'egemonia, la capacità dirigente della classe
operaia è capacità di realizzare tutte quelle alleanze che sono indispensabili
affinché la classe operaia abbia accesso al potere in una società di
capitalismo monopolistico e di capitalismo monopolistico statale. Perciò la
classe operaia deve andare al di là dell'alleanza operai-contadini poveri (tra
l'altro i contadini oggi sono solo il 15% della popolazione, comprendendo anche
quelli ricchi), ma deve arrivare ai ceti medi delle città e delle campagne,
deve arrivare al settore della piccola e media industria. Si tratta di un
sistema di alleanze assai articolate e, badate bene, contraddittorio. perché,
tra gli operai della piccola e media industria e il proprietario della piccola
e media industria c'è indubbiamente una contraddizione, una contraddizione che
noi dobbiamo indirizzare verso la contraddizione principale, come direbbe
Mao-Tse-Tung, ovvero contro il capitalismo monopolistico. Ora alleanze
sociali cosi ampie non possono che esprimersi a livello politico, cioè in
partiti politici. Questa è una cosa che Gramsci non aveva presente, per lui un
partito solo faceva la rivoluzione: il Partito comunista. Al Partito socialista
bisognava tagliare le radici. Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia
delle alleanze, non ci poteva arrivare. indice Quale
pluralismo Per noi invece questa visione si esprime in una pluralità di
partiti, e d'altra parte le democrazie popolari ci danno un esempio di pluralità
di partiti. In Polonia, nella RDT, vi sono partiti che hanno una scarsa
autonomia forse, ma esistono realmente. Come mandare oltre questa
esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze, anche a livello politico, che è
fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è fatto di lotta. Ad
'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche lotta, è anche
discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema lo possiamo
chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un termine che non
è nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla sociologia cattolica e
dalla sociologia americana. La sociologia cattolica intende per
pluralismo una pluralità di istituzioni che si equilibrano l'uno con l'altra:
la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e cosi via. Il suo pluralismo è
fondato sull'interclassismo, cioè sulla collaborazione tra classe operaia e
capitalisti e sul superamento della contraddizione tra l'una e gli altri.
La sociologia americana dice: il pluralismo è una pluralità di istituti che
impedisce a una sola forza di avere l'egemonia, il dominio, la
prevalenza. Per noi il pluralismo è invece un'ampiezza di alleanze
sociali e politiche tale da isolare il grande capitale monopolistico, la sua
logica e la logica da cui oggi è dominato il capitalismo di Stato in questa
società, 1ìno a sconfiggerlo. Cosi si realizza il vero pluralismo, perché noi
diciamo che fino a quando esiste il grande capitale il pluralismo reale nella
società non ci sarà mai, sarà sempre apparente. La nostra Costituzione è
pluralistica, ma il pluralismo reale della nostra vita è apparente. Invece vi è
il monopolio dei mezzi di informazione, dell'economia e cosi via. Ad
esempio il pluralismo della società americana nasconde la realtà di una società
in cui il potere economico e politico è al massimo grado concentrato, e la
partecipazione democratica dei cittadini è puramente formale. In realtà, devono
votare per due partiti che si confondo l'un con l'altro, che si mescolano, non
si sa bene che differenza ci sia tra democratici e repubblicani. A volte i
democratici su certe cose sono d'accordo con i repubblicani, su altre sono
d'accordo solo con certi repubblicani. Si può dire che negli Usa ci sia un
pieno trasformismo. Un reale pluralismo si ha quanto più si batte il
capitalismo, quanto più si avviano forme di autogoverno della società, di
partecipazione. Il nostro pluralismo è anche statale, di istituzioni statali e
sociali. L'autonomia del sindacato, poi, è un momento decisivo. Quando diciamo
pluralismo delle istituzioni statali intendiamo parlamento, regioni, comuni
autonomi, comprensori, consigli di quartiere o di circoscrizione, sino ad
arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un istituto statale, ma sono
sanciti dai contratti e riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori. Perciò
pluralità di istituzioni sociali e politiche. Inoltrel'autonomia dei sindacati
significa che il pluralismo è già dentro la classe operaia, che esso non
caratterizza semplicemente il rapporto della classe operaia con forze sociali non
proletarie e il rapporto del Partito comunista con partiti non proletari, ma
che vive nella classe operaia. Infatti nella classe operaia ci sono i
comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i democristiani, c'è anche il
sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica, che ha anche esso una sua
dialettica nei rapporti col sindacato e coi partiti. Il pluralismo vive
nella classe operaia e per questo può attuarsi nella società. Egemonia nel
pluralismo, dunque, e non: egemonia e pluralismo, come diceva bene Ingrao, e
fra i due termini c'è un rapporto dialettico. Più egemonia c'è, e più c'è
pluralismo, non come confusione di forze, ma come forma di lotta, la più ampia,
la più acuta, la più caratterizzata dal punto di vista di classe oggi. D'altra
parte, senza pluralismo non si ha egemonia, ma isolamento della classe operaia
e suo ritorno a posizioni subalterne. Di tale nesso dialettica tra i due
termini i nostri avversari ovviamente non capiscono nulla, e dicono: se parlate
di egemonia non potete parlare di pluralismo, e viceversa. Dal punto di
vista della sociologia cattolica e americana hanno ragione, ma noi usiamo
questo termine con tutt'altro significato. Legato a questo si pone anche il
tema della dittatura del proletariato. Come ci collochiamo? Quando i
socialdemocratici escludevano la dittatura del proletariato, e anche Kautsky la
escluse dopo la rivoluzione d'Ottobre, in realtà dilatavano una concezione
della democrazia tale per cui nell'esercizio della democrazia si arriva al
socialismo, ma smarrivano la questione dell'autonomia e dell'egemonia della
classe operaia, concepivano il processo come puramente elettorale e non come
un'egemonia che rompe il blocco avversario, che aggrega e costruisce un nuovo
fronte, quindi un'egemonia fondata sull'iniziativa e sulla lotta. Noi
abbiamo parlato di dittatura del proletariato nella Dichiarazione programmatica
del nostro VIII congresso, nel '56, per sottolineare come cambino le forme
della dittatura del proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il concetto,
ma abbiamo sottolineato questo elemento: cambiano le forme. Abbiamo
ripreso questo concetto al decimo congresso, nel '62, per sottolineare che
della dittatura del proletariato emerge sempre di più l'elemento della
direzione e del consenso. In seguito non abbiamo più ripreso questa nozione,
l'abbiamo lasciata cadere. Mi chiedo se sia compito dei documenti del
partito affrontare questa questione tipicamente teorica o se invece non si
debba sviluppare la discussione e il dibattito a livello teorico su questo
problema. Ad ogni modo la mia opinione, che altri possono naturalmente
confutare, è che la nozione della dittatura del proletariato è nella situazione
italiana dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello
superiore. Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at·
traverso tutto un processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo
unitario), costruire un nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una
funzione dirigente. D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si
costituisce sotto la direzione della classe operaia o non si costituisce.
Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e
politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo
progressivo se ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si
conquista ogni giorno. Ecco allora che è il blocco di potere ad
esercitare la coercizione sulla società attraverso la legalità dello Stato.
L'elemento della coercizione non può essere eliminato, non si costruisce il
socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa viene esercitata dal blocco
del potere, non direttamente dalla classe operaia. Del resto anche nella
concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha esercitato la
coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non verso
gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui
la coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna
pagarli molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di
consenso e un elemento di costrizione. Se si allarga il blocco di potere,
come da noi deve allargarsi, si allarga anche la sfera del consenso, ma di un
consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra contrasti, anche,
tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe operaia non
esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo modello di
Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet,
che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si
sono estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale.
La classe operaia ha creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per
riprendere una frase biblica, cioè ha impresso la sua visione statale su tutta
la società. Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo
il parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni,
le stesse regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come
elementi nostri invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri
e cosi via, i quali sono gli elementi di una democrazia diretta che supera il
parlamentarismo. In questo senso allora mi pare che non si possa parlare
di dittatura del proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un
elemento: la coercizione esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue
forme e nei suoi modi. La coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere
che esercita anche la direzione sulla società, non sola la coercizione.
Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere
esercitare la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere,
per tenerlo insieme, per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si
va avanti nel senso del socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e
diventa più avanzato, più omogeneo dal punto di vista di classe e cosi
via. Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento
essenziale: l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia,
superando l'altro elemento, lo elemento della coercizione inquadrandolo in un
ambito più ampio. Questa è soltanto la mia opinione in proposito. “C’è
in molti giovani comunisti uno stile di serietà riflessiva, di maturità e di
chiarezza responsabile, che stupisce, se confrontato al tono un pò vacuo,
avventato o ciondolone, che è tradizionale di molta gioventù italiana. Sono
giovani che, usciti dalla dura scuola che i tempi impartiscono – sia pur con
diverso profitto – a ciascuno, son passati alla scuola del Partito, e diventano
in breve dirigenti : acquistano quel piglio, quel polso, quella quadratura,
quasi non avessero fatto altro da molti anni, o come se tutto in loro da tempo
tendesse a farne dei quadri comunisti, o non altro. Un dirigente di questo tipo
è Gruppi, segretario della Federazione di Torino. Laureato in filosofia, e
questa è una delle chiavi della sua personalità, ma proprio in un senso che
smentisce nel modo più assoluto il concetto che dei filosofi s’ha volgarmente.
Tutto in Gruppi è esattezza logica, ragionamento filato, rigore razionale: un
matematico, potrebbe anche essere, se i numeri non fossero entità troppo
astratte per il suo bisogno di concretezza.” Così Italo Calvino, dalle
pagine de l’Unità piemontese, descriveva Gruppi. Mi sembra giusto rendere
onore ad un grande compagno, anche se non ho avuto la fortuna di conoscere se
non attraverso i suoi scritti. Gruppi è stato per lungo tempo il
responsabile della Sezione culturale del PCI e successivamente direttore
dell’Istituto di studi comunisti “Palmiro Togliatti”, la famosa scuola di
Frattocchie. Pubblicato numerosissimi articoli su Rinascita, su l’Unità, su
Critica marxista (di cui è stato vicedirettore), assieme ad altre pubblicazioni.
Il suo lavoro, nel Partito ed all’Istituto, è stato fondamentale nel costruire
quadri e militanti e nello sviluppare quella teoria rivoluzionaria che a noi,
comunisti del XXI secolo, così manca. Una testimonianza diretta da mio
padre Marco. “Conobbi Gruppi alla scuola di Partito di Frattocchie/ In
quel periodo il partito si era impegnato molto nella formazione dei gruppi
dirigenti. Io insieme ad altri giovani compagni della gloriosa Federbraccianti
delle varie regioni d’Italia, fra i venti e i trent’anni avevamo partecipato,
orgogliosamente, a quella settimana di studi e approfondimenti sulla questione
agraria e economica del Mezzogiorno. Ci colpi’ molto la preparazione e la
competenza di Gruppi, ma soprattutto il suo linguaggio e la sua dialettica,
coerentemente alineata a sani principi etico-morali. E uno che volava
alto, ogni tanto si lasciava andare in ragionamenti filosofici che a noi,
ancora politicamente acerbi, sembravano un pò difficili. Una settimana intensa
e ricca che ci forni strumenti di analisi, di critica e di proposta.”
Qualche cenno biografico per i compagni che non lo conoscono, dal sito
biografico gestito dalla moglie Tilde Bonavoglia e da suo nipote Andrea
Bonavoglia http://digilander.libero.it/lucianogruppi/ : Iscritto al
Partito comunista italiano. Partecipa alla Resistenza. Dopo la Liberazione è
membro della Segreteria e responsabile della Commissione giovanile della
Federazione di Torino. Responsabile della Commissione giovanile, poi della
Sezione di stampa e propaganda, membro della Segreteria della Federazione di
Milano. Responsabile della Sezione d’organizzazione e vicesegretario
della Federazione di Torino. Segretario della Federazione di Torino. Fa parte
della Segreteria regionale del Piemonte. Membro della segreteria del Consiglio
mondiale del Movimento dei partigiani della pace a Praga e a Vienna. Vice
responsabile della Sezione di stampa e propaganda del Comitato centrale del
PCI. Fa parte della segreteria della Federazione di Torino ed è capogruppo
consiliare al Comune di Torino. Rappresentante del PCI nel Comitato di
redazione della rivista internazionale Problemi della pace e del socialismo, a
Praga. Vice responsabile della Sezione culturale del Comitato centrale del
PCI. Dal ’64 al ’66 responsabile della Sezione per le scuole di
partito. Dal ’66 al ’73 vice responsabile della Sezione culturale del
Comitato centrale del PCI. Vicedirettore della rivista Critica
marxista. Direttore dell’Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti
(Frattocchie). Presidente dello stesso istituto. Membro del
Comitato centrale, Membro della Commissione centrale di controllo. Al congresso
ha chiesto di non essere riproposto per organismi dirigenti del PCI; Ha
restituito la tessera dei Democratici di Sinistra; Iscritto al Partito
della Rifondazione Comunista; Nello stesso sito è possibile trovare
l’importantissimo “La concezione marxista dello Stato”, che riunisce le lezioni
tenute presso Frattocchie. http://digilander.libero.it/lucianogruppi/concezionedellostato/la_concezione_dello_stato.html
Per finire, la commemorazione su “L’Ernesto”
https://www.marx21.it/rivista/5142-marx-dalla-democrazia-radicale-al-comunismo-rivoluzionario.html
Un breve estratto da quest’ultimo articolo, ancora oggi attualissimo, di Bianca
Bracci Torsi e Fosco Giannini, che mi sento di condividere in pieno :
“Due propensioni, quella dello studio teorico e della formazione, quanto mai
necessarie ed attuali oggi, in questa fase caratterizzata sia dalla povertà
teorica che segna di sé una parte significativa del movimento comunista che
dalla grave sottovalutazione del valore della formazione politico-teorica ( la
“scuola quadri”) che si manifesta anche in Rifondazione comunista. Luciano
Gruppi, dunque, non solo nel ricordo: ma per il lavoro futuro, come è destino
dei grandi. “Luciano Gruppi. Gruppi. Keyword: la via italiana al socialismo, egemonia
della filosofia del linguaggio ordinario -- Refs.: Luigi Speranza: Grice e
Gruppi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755430814/in/dateposted-public/
Grice e
Guastella – la conoscenza – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Misilmeri). Filosofo. Grice: “Guastella is an interesting
philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and metaphyusics in a
clear style.” Cosmo Guastella (Misilmeri), filosofo. Figlio di Vincenzo
farmacista e da Marianna Piazza, uno dei quattro figli della coppia, ancorché
di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse
di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il capostipite del
fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”; “Metafisica”; e “Il fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica.
Dizionario Biografico degli Italiani, Dizionario di filosofia. Cause
empiriche: e cause metaempiriche. La caasa
nel senso scientifico. Distinzione tra la
causa nel senso metafisico (causa efficiente)
e la causa nel senso scientifico. I filosofi
hanno ammesso generalmente questa distinzione
Impossibilità di provare la dottrina di
Comte sulle cause efficienti.L’ANTROPOMORFISMO. La
Filosofia teologica. La filosofia teologica
nel periodo prescientifico. Funzioni della
divinità come principio esplicativo dei
fenomeni. La divinità come principio
motore. La divinità come principio di una
spiega- zione teleologica dei fenomeni. Le
prove dell'esistenza della divinità. I concetti
della teologia trascendentale ^^
Immutabilità ed extra-temporalità di Dio--
Pag' ' Dio come l'Infinito
o l'Assoluto .
. 1^9^ Il dualismo e il panteismo
nella filosofìa antica e nella moderna. Il
valore delle prove dell'esistenza della
divinità dipende da quello del
concetto di causa efficiente. L'animismo come
spiegazione dei fenomeni biologici. §
8. Osservazioni generali suU'animismo come
ipotesi biologica 85-La spiegazione animista
dei fenomeni bio- logici 87-Estensione
del dominio della coscienza in conseguenza
dei principii dell'animismo. 102-Spiegazione
intellettualista dell'istinto. L'ilozoismo. Osservazioni
generali sull'ilozoismo .
111-L' ilozoismo nella filosofia antica
e moderna 119-128 14. L'ilozoismo
nella filosofia contemporanea. 11 panpsichismo.
Osservazioni generali sul panpsichismo. La
monadologia di Leibnitz. I panpsichìsti moderni. L'idealismo.
Osservazioni generali sull'idealismo. L'idealiijino di
Kant 200-L'idealismo assoluto, dei successori di
Kant 214-219-Il coneetto di eansalità
deirantropiomorfismo. .§ 21. leoda
volizionale della causazione e teorie
affini. Osservazioni su queste teorie. La
filosofia meccanica o impulsionista. §
1. Della filoso fia meccanica o
impulsionista in generale 251-Il principio
, su cui è fondata la filosofia
meccanica, in Cartesio e i cartesiani,
in Hobbes, in Spinoza, in Newton, nei
primi newtoniani, in Locke, in Leib-
nitz, in Clarke, in Huygens, Bernouilli, Eulero,
d' Alem- bert, Hume, Reid, Dugald-Stewart, Hamilton,
Galluppi, Rosmini, Cuvier, nei fisici e
filosofi contemporanei. La proposizione che V
azione a distanza è inconcepibile,
assurda e contraddittoria. Origine e sviluppo
dell'idea di causa bf- , ficiente.
§ 1. Le causazioni più
familiari ci sembrano spiegarsi da se
stesse e potere spiegare tutte
le altre. Proposizioni di filosofi che
hanno ricono-scinto questo fenomeno
psicolo^co \(di ^ Bacone ,
Stuart-Mill , Bain , GiiffopA
, Pag. Stallo). L' idea di
causa efficiente deriva, dall' «et
sperienza delle causazioni più famlliani. Le
causazioni più familiari non sembrano,
misteriose che nella riflessione scientifica. Perchè l’azione
volontaria diventa mi- - steriosa
Perchè diventa misteriosa, in generale,
l'azione mutua tra lo spirito e il
corpo. Perchè diventa misteriosa 1' attività
inte- riore dello spirito 3Perchè diventano
misteriose IMnipulsione e le altre azioni
fisiche più familiari — Conclusione sulle
ragioni per cui le cau- sazioni più
familiari perdono la loro intelligibilità. La
tendenza naturale a spiegare le sequenze non
familiari riconducendole alle familiari, e
quindi il principio di causa- lità
efficiente nella sua forma primitiva e
spontanea, non possono avere alcun valore
obbiettivo Forma secondaria del principio
di cau-salità efficiente —Il principio
di causa*- , lità efficiente
è un'induzione incosciente dalle
causazioni più familiari. Origine comune e
differenziazione prògressiva dei concetti fisico
e metafisico i' deWsL causalità. La
dottrina dbll'inconoscibilb b l'idea di
CAUSA EFFICIENTE. La dottrina dell'
inconoscibile come ap- Digitized
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pliéàzìone del principio di causalità efficiente
'tiella sua forma secondaria .
. J?ni-39S §'lLa proposizione che
non conosciamo l'es- senzal disile cose
11 fondamento principale della teoria del -
l'ÌDCon<6scibìl'e è il principio di
causalità efficiènte. Questo fóndamente non può pretendere ad alcun calore obbiettivo.
Ciò è provato più chiaramente dalTesame dell'inferenza incosciente di cui è la conclusion.
Noi conosciamo o possiamo conoscere l'essenza delle cose e il modo essenziale della produzione dei fenomeni
La Forza nel senso metafisico. La fij.osofia
apriorista. Lo sforzo di ricostruire la
realtà a priori è una delle tendenze
più generali della speculazione metafisica. La
filo&ofìa apriorista è sovratutto un'ap-
plicazione del principio di causalità efficiente
La filosofìa apriorista in Cartesio, in
Malebranche 4(ìy-in Spinoza in Leibnitz, in Locke, in
Condillac, in d'Alembert, in Hume, in Kant, in
Fichte, Schelling, Hegel, in Reid, Ehigald-Stewart
, Galluppi , Ro- smini, Gioberti, Mamiani, in
Taine e Spencer e in Hartmann. Le
pretese dimostrazioni dei principii della
meccanica. La filosofia apriorista al di
fuori della ri- cerca della causa efficiente. Dottrine
della filosofia apriorista sulla essenza e
la definizione. Dottrine di Aristotile e di
Platone in particolare. Dottrine analoghe e
particolarmente quella di Cuvier della
correlazione organica. Spiegazioni della filosofia
apriorista della costituzione del cosmos
(e particolarmente quelle di Platone e
di Aristotile). L'argomento ontologico come
applicazione della spiegazione apriorista. IL REALISMO DIALETTICO.
Perchè si realizzano le astrazioni. Spiegazioni correnti e precisasione della
qaistione. Il realismo, in quanto è una
spiegazione del mondo (realismo dialettico),
ha Io scopo di identificare il rapporto
logico tra il principio e la
conseguenza al' rapporto ontologico tra la
causa efficiente e V effetto— Origine del
realismo degti scolantici. Il sistema di Hegel. Il
sifttema di Taine. Realismo
(realizzazione dei concetti) del Taine. Il
suo metodo dialettico (cioè di dedurre
i concetti realizzati). L'idea fondamentale
di questo sistema è Ti- dentificazione
del rapporto tra il principio e la
conseguenza a quello tra la causa ef-
ficiente e Teffetto. Il sistema di Piatene. Cenni generali sulla filosofia di Platone. Apriorismo di Platone. Suo metodo puramente
deduttivo. Importanza capitale attribuita al
metodo; universalità della filosofia e sua sìstemftticìtà. Affinità
del metodo dialettico col metodo matematico. Caratteri
prepri del metodo dialettico, per
cui differisce dal matematico. Tutte le
altre Idee si deducono da quella
del Bene. L'Idea del Bene non è
solo il principio logico ma anche il
principio ontologico (la causa produttrice)
delle altreldee, enonne è il principio
ontologico che in quanto ne è
il principio logico. La deduzione
progressiva delle Idee le une dalle
altre é una derivazione reale delle
Idee che si deducono da quelle
da cui sf deducono. L'Idea del Bene
è la più generale di tutte. Contenuto
di quest'Idea. Metodo di divisione e
gerarchia delle Idee. Teoria della definizione. La
dieresi è una deduzione in cui V
Idea divisa funge da principio, e le
Idee in cui si divide da conseguenza.
Come la dieresi è una deduzione, e
come si trovino in essa 1 caratteri
distintivi del metodo dialettico dì
cui al § 12. . »
264-Il metodo indiretto del Parmenide
É con questo metodo che deve dimostrarsi
il primo principio (cioè l'Idea del Bene). Un'Idea
generale non è solo il principio logico ma anche
ontologico (la causa), clelle Idee
più particolari in cui si divide. L'obbiettivazione
dei concetti e il metodo dialettico
hanno per Iacopo Tidentiflcazione del
rapporto tra il princìpio e la
conseguenza a quello tra la causa
efficiente e Teffctto. n iftiema
41 Spinosa. Idea generale della filosofia di
Spinoza. Il concetto del parallelismo psico-fisico
e suoi sviluppi Metodo puramente deduttivo. Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo ontologico.
Le cose considerale sua specie aetemitatis. L’essere, secondo Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che derivano logicamente
e ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e la conseguenza é identico con quello tra la causa (efficiente) e l’efi'etto. Difi'erenze e omologia fra tutti questi sistemi.
Come il realismo dialettico deriva dalla
tendenza naturale del nostro spìrito da
cui derivano tutti gli altri concetti
metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT. Tendenzanaturale
a supporre che il reale nella
sua essenza é immutabile. I fisici greci
in generale
-Dottrine di Empedocle e di Anassagora. Il sistema degli atomisti.
Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica.
Dottrina di Eraclito della identità dei
contrari Dottrina degli Eleati. Spiegazioni
meccaniche dei fisici in generale. Dottrine
dei filosofi indiani. Dottrine di Bnmo e
di Telesio. La teoria meccanica (cioè
laridnrio- nedi tutti i fenomeni a
quelli mecca-rici) nella scienza moderna. Applicazione
della teoria alla costituzione della materia. Ancora
della teoria meccanica- Applicazione ai fenomeni
psichici. Spiegazione meccanica dei fenomeni
della vita Il principio della
persistenza delle co- nelle
stesse proprietà nell'atomismo metafisico,
nei sistemi monisti, nel realismo,
nel criticismo. Doitrine di Herbart e del prof.
Corleo Dottrina delTidentità della causa e
dell'efletto. IL CONCETTO DELL'ANIMA. L'animismo
(sostantificazione dell’anima) è il prodotto
d'una tendenza naturale dello*spirito umano. Le
.prove della sostanzialità dell'
anima. Materialiià deir anima Della for- ma
primitiva deirÀnìmismo. L'animismo è
anch'esso un' ap- plicazione del principio
deirim- mutabilità dell'essenza delle cose
» Le concezioni moniste si fonda- no
su questo principio egualmente che le
dualiste. . È per esso che deve
«piegarsi anche Tanimismo de -l'uomo primitive. Il
concetto dell'immortalità del- l'anima e quello
della bua im- materialità sono degli
sviluppi naturali della teoria animista. »
Il substratum , supposto indi sponsabile j
dei fenomeni psi- chici non è che il
fantasma del corpo » La terza
forma dell 'animismo, cioè la dottrina che
la sostanza dello spirito è un fatto
psichico permanente che è il sobstratom
di tutti gli altri. DOTTRINA DI ROSMINI
SULLA SOSTANZA DELL'ANIMA carte. IMMANENZA
DELLE IDEE PLATONICHE. Prove di qoeat*
immanetiixa . I termini designanti le
Idee in generale. I termini designanti
ciascen'Idea. carte Il concetto e la
conoscenza generale si riferiscono airidea »
La definizione e la dieresi,
che hanno per oggetto le Idee, si
riferiscono alle eose considerate d'una
maniera generale ed astratta L'Idea è
Tuniversale, ciò che è lo stei^so
in tatti gl'individui del genere. VLa
napouoCa, la (léBe^i^ e le altre
espressioni del l'inerenza nelle Idee nelle cose.
Contenenza reciproca tra le Idee gene-
riche e le Idee specifiche. Gli elementi
delle Idee sono anche gli elementi
delle cose » 89-100 IX. Tutto
il reale si risolve nelle Idee. L'essere
non 6 fuori del divenire, ma nel
divenire stesso. BlMeuMione degli argomenti
contro V ImmanenBa I. La sostanzialità
delle Idee. La distinzione fra le Idee
e le cose inter- pretata come una
separazione . ni. Le
Idee considerate come esemplari a cui le
cose non si conformano che approssimativamente. Le
allegorie del Fedro e del Timeo. La
testimonianza d'Aristotile. IL PITAGORISMO PLATONICO
Cenni snlle dottrine del Pitagorici e
sul pitagorismo di Platone In generale. I
namert ideali carte I doe elementi
A. La forma e la materia delle
Idee. La forma e la materia delle cose. Le
entlUi matematielie (come intermediarie fra
le Idee e le cosej. li piiagerifiino
nel Timeo e nel Filebo Motivi
deireTolnzione di Platone verso il
pi- tagorismo. II pitagorismo nel Tìm^o
(Carattere simbolico della cosmogonia del
Titneoe&no significato). Il pitagorismo
nel ^^eòo(il limite e V illimi- tato di
questo dialogo) » 242-251 V. Il
pitagorismo nel discepoli di Platone
Le tre dottrine dei platonici sui
numeri carta La dottrina
di Xenocrate . . .
. carte 251-25o La
dottrina di Speusippo. DOTTRINE DI PLATONE
SULL'ANIMA E LA DIVINITÀ NEL LORO
RAPPORTO COL SISTEMA DELLE IDEE. L'anima e
suo rapporto eon le Idee e eoi
fenomeni (ranima individuale carte
ranima cosmica e. £80-293).
carte L'Interpretaslone teistica del siste- ma
delle Idee (che le Idee soro i
pen- sieri della divinità creatrice)
liOldee e 11 pensiero (Interpretazione di
Hegel e del Teichmùller dell'immortalità
dell'anima e altre dottrine connesse — Pla- tone
non ammette Tidentità dell'essere e del
pensiero, e la sua Idea è un*
entità puramente obbiettiva. Cosmo Guastella. Guastella. Keywords:
conoscenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e
noumenismo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689814494/in/photolist-2mPE1ox-2mLNi1Z-2mKDP1b
Grice e
Guicciardini – le cose dello stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo. Guicciardini. Grice: “Guicciardini is what I call an Italian classic;
some like Machiavelli, as Austin used to say, “but Guicciardini is MY
Renaissance man!” – Grice: “There are various topics of interest: the italian
of Machiavelli and Guicciardini in the development of a philosophical political
lexicon; there’s the trope of the centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure
political philosophy of the type enjoyed by members of the Debating Union at
Oxford!” Terzogenito dei Guicciardini,
famiglia tra le più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima formazione
umanistica in ambito familiare dedicata alla lettura dei grandi storici
dell'antichità (Senofonte, Tucidide, Livio, Tacito), studia a Firenze seguendo
le lezioni di Pepi. Soggiornò a Ferrara per poi trasferirsi a Padova per
seguire le lezioni di docenti di maggior importanza. Rientrato a Firenze,
esercita l'incarico di istituzioni di diritto civile. Nominato capitane dello
Spedale del Ceppo. Inizia la stesura delle Storie fiorentine e dei Ricordi.
Esattamente dieci anni prima, ossia con l'anno 1498, si chiudono quelle
Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono le premesse degli avvenimenti
riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di cui Guicciardini si occupa,
nelle sue Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla politica fiorentina. In
occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato a pratica dalla signoria,
ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi
portarono il Guicciardini anche ad una rapida ascesa nella politica, ricevendo
dalla Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso Ferdinando il
Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica nacque la
Relazione, e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di teoria
politica in cui Guicciardini sostiene una riforma in senso aristocratico della
Repubblica fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a
far parte della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici,
avvocato concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio
pontificio di Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo
piano nella politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore
di Reggio Emilia e di Parma. Nominato commissario generale dell'esercito
pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi, matura quell'esperienza
che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi Ricordi e della Storia
d'Italia. Alla morte di Leone X, si trova a contrastare l'assedio di
Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa di Parma. Dopo
l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di Clemente VII, venne
inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle lotte tra le famiglie
più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli abilità diplomatiche.
Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda un'alleanza fra gli stati
regionali allora presenti in Italia e la Francia, in modo da salvaguardare in
un certo qual modo l'indipendenza della penisola. L'accordo fu sottoscritto a
Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di questo periodo è il Dialogo
del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il modello della repubblica
aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e Roma fu messa al sacco dai
Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la repubblica. Coinvolto in
queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai repubblicani per i suoi
trascorsi medicei, si ritira nella villa Guicciardini di Finocchieto, nei
pressi di Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio accusatoria e la
defensoria, ed una Lettera Consolatoria, che segue il modello dell'oratio
ficta, nella quale espose le accuse imputabili alla sua condotta con le
adeguate confutazioni, e finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse le
Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra la
prima deca di Livio", in cui accese una polemica nei confronti della
mentalità pessimistica dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione
definitiva dei Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di
nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a
Bologna. Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea
come consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare
lo stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non
fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro,
Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di
Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili,
raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad
Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata. Guicciardini
è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle
vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e
il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e
più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche
Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti. L'opera
districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del
Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come
spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati
eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione
delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo). Guicciardini è l'uomo
dei programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui
al saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire
"con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si
determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da
leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del
pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il saggio,
cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come
realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di
agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non
va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione
solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare
pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica
situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).
In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della
fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia
moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di
verifica della sua Storia d'Italia. La reputazione di Guicciardini poggia
sulla Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi
discendenti aprirono gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di
pubblicare le sue memorie. Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono
ad un'accurata conoscenza della sua personalità. «L’angolo di prospettiva
dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII,
l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori
secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole
Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio il Guicciardini sopra
il Giovio, sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le
mani colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi,
la superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi
dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità
fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento
con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario,
una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare,
superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e
precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato
esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i
meno benevoli alla Storia.» Il giudizio di Francesco De Sanctis
Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Francesco De Sanctis non
ebbe simpatia per Guicciardini ed infatti non nascose di apprezzare
maggiormente il Machiavelli. Nella sua Storia della letteratura italiana il
critico irpino mise in evidenza come Guicciardini fosse, sì, in linea con le
aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in linea con i suoi ideali, il
primo invece "non metterebbe un dito a realizzarli". De Sanctis
affirma:“Il dio del Guicciardini è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno assorbente
che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli ideali
scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un
popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che l'INDIVIDUO.” “Ciascuno
per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più corruzione, contro la quale si
gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita”. E
poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale è quella medesima del
Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o
l'osservare. Né altro è il sistema. Guicciardini nega tutto quello che il
Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più
logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di
asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo
istrumento". Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per
l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia
del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che Guicciardini vale
più come analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso,
preciso a prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della
narrazione. "Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo
delle autopsie". Altre opera: Scritti autobiografici e rari
(Laterza), Storie fiorentine; Discorso di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi
del Machiavelli, Ricordi politici e civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia
d'Italia, Scritti sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia
(Firenze, Olschki); Le cose fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi,
presso Zanichelli, Bologna; presso Istituto per gli studi di politica, Firenze;
presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di
grandissimo animo e molto virile", secondo il Guicciardini (Storie
fiorentine). N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, La
Nuova Italia, Firenze, A. G. BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi
non vedescriveva il Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale
appunto conviensi alla grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica
dell’Istorico che le tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e
sostenuti, per esser ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l
senso facile e piano in maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi,
come nello stil di Villani, che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A.
TASSONI, Pensieri diversi, Venezia, Il
legame del pensiero politico tassoniano con quello di Guicciardini (incluso, a
differenza del Machiavelli, tra gli storici della «prima schiera» con Comines e
Giovio, ossia considerato pari agli antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è
noto: i due fiorentini, come dice il Fassò, furono «i due poli» a cui si volse
la sua riflessione politica. (Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma, T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra
del paragone politico, I, Bari, Walter
Binni, I classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino,
Nuova Italia, Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari,
Laterza); “Historia di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia,
Angelieri): Scritti autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici”
(Bari, Laterza); “Storia d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari,
Laterza); Studi R. Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo
politico, Firenze, R. Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, Guicciardini.
Dalla politica alla storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per Francesco
Guicciardini. Quattro studi, Roma, E. Cutinelli-Rèndina, Guicciardini, Roma, Famiglia
Guicciardini. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Propositioni, overo Considerationi in materia
di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili, &
Concetti Politici di Guicciardinii, Lottini, Sansovini, Venezia, Presso
Altobello Salicato, Opere illustrate da Giuseppe Canestrini, Firenze, Barbera,
Bianchi e Comp., (Bari, Gius. Laterza); biblioteca italiana. AVVERTIMENTO
PRIMO. R Principe,checolmezodelsuoAmbasciatorevuoleingannar
Paltro,deueprimaingannar l'Ambasciatore,percheopera,en parlaconmaggior
efficaccia,credendo che cosisiala mentedel fuo Principei,lchenon
farebbesecredesseesseresimulatione,eg ilmedesimoricordousiogn'uno,che
permezod'altrivuoleper Juadereaun'altro ilfalso. 11. DAL
fareònonfareunacosachepaiaminima,dependebenspejlomomentodi coseimportantiffime,o
però nellecosepiccoledeuefieffereauuertito,ceonsiderato. III. FÁCIL
cosaèguastarsiunbel'eseredificilealracquistarlo,peròchisitruong inbuon
gradodeuefareognisforzodinonlasciarselovscirdimano. IIII.
E'Pazziasdegnarsiconquellepersoneconlequaliperlagrandezzaloro,tunon
puoisperaredipoteruendicarti,peròsebena pareessereingiuriatodaquesti, bisogna
patire,efimulare NELLE
cosediguerranasconodaun'horaàvn'altrainfinitevarietà,perònon fideuepigliaretroppoanimodelenuoueprofpere,nèuiltàdelleauuerse,perchespeso
nascequalchemutatione,ma questodeueinsegnare,chea chifelipresental'occasione
non laperda,perchedurapoco. COME ilfinedemercantièilpiudellevolteilfallire; quellodenauigantiilfom
mergere, cofispessodichilungamentegouernailfineècapitarmale QYESTI
ricordisonregole,cheinqualchecasoparticolarechehadiuerfa VII LE
cosechesonouniuerfalmentedesiderate, rareuolteriescono,laragioneècheli
pochisonoquellichecommunementedannoilmottoallecose,e alifini, dichesono
contrarijaljaigliappetitidimolti VIII. TVTT.E
lesicurtàchesipossonohaueredel'inimicofonbuone,difede,diamici,
dipromesse,ed'altreassicurationi,maperlamalaconditionedeglihuomini,evariatio
nedetempinissunaaltraèmigliore,& piuferma,cheaccommodarsiinmodo,chel'ini
mico non habbiapoteftàd'offenderti IX NESSUNA cofa deue desiderarepiul'huomoinquestomodo,nèattribuirlopiu
a fuafelicità,cheuederel'inimicofuoprostratointerrae ridottoaterminitali,chetu
l ' h a b b i a a d i s c r e t i o n e :M a quanto è f e l i c e a c h i a c c
a d e q u e s t o , t a n t o d e v e f a r s i g l o r i o s o
conl'ofarlalaudabilmente,cioèesserclementeaperdonare,cofapropriadeglianimi
generofi, & 'eccellenti: ragione,
ragione,hannaeccettione,maqualifianoqueicasiparticolari,sipofonomaleinsegnare
altrimenti,chceon ladifcrettione. diuèdicarsi
dite,nonlofacciaprecipitosamente,anziaspettiiltempoel'occasione,laqualesenza
dubbioliuerrà diforte,chesenzascoprirsimaligno,oappasionato,potràsodisfareal
fuodesiderio. XIIII. Chi hadagouernare Città,opopolielivogliatenercoreti,Sappiacheordina
riamentebastapunireidelinquentiaföldiquindiciperlira,maènecessariopunirlitut t
i , c h e i n e f f e t t o s i a c u s t i g a t o o g n i d e l i t t o, m a
s i p u ò b e n f a r q u a l c h e m i s e r i c o r d i a , e c c e t
todellicasiatroci,chebisognadaressempio. XVI. IL ricordodisopra, bisognavsarloin
modochel'acquistarnomedinoneserbene.
fattore,nonfaccia,chegl'huominifugghino,& aquestosiprouedefacilmente,conbe
n e f i c i a r n fe u o r d e l l a r e g o l a q u a l c h ' o n o , p e r c
h e n a t u r a l m ě t e h a t a n t a s i g n o r i a n e g l h u o
minilasperanzachepiutivaleràpressoaglialtri,& piuessempiofavno chetuhaba
biabeneficiato, checentochenonhabbinodatehauutoremuneratione. S. Auuertimenti
di XII. INGEGNATEV Idinonvenireinmalconcettoappressodichièsuperio
renellapatriavostra,neuifidatedelbuongouernodeluiuernostro,chesiatale,che
nonpensiated'hauergliacapitarnellemani;perchenasconoinfiniti,enonpenfaticasi
dihauerbisognodilui, èconuersoil Superioresehavogliadipunire,& XIII. TVTTI
glihuominisonobuoni,cioedouenoncauanopiacereoutilitàdel m a l e , p i a c e p i
u l o r o i l b e n c h e i l m a l e :m a s o n o v a r i e l e c o r r u t t
e l e d e l m o n d o e f r a g i l i t à loro;& spessoperl'interesseproprioinclinanoalmale.PeròdafauiLegislatorifieper
fondamento dele Republiche trouatoilpremioelapena,nonperviolentareglihuomi ni,m
a perche seguiting l’inclinationenaturale. XVII. PIV tengonoamemoriagl'huomini l'ingiuria,cheibeneficijriceuuti,anziquan
dopuresiricordanodeibenefici,lofannonell’imaginesuaminore,chenon furiputun
dosimeritar piuchenonmeritano.Ilcontrariosifadell'ingiuria,cheduoleadogniuno
XI. E 'laudato appressogl'antichi,& è verissimoprouerbio: Magistratusvirumoftédit,
perche conquestoparagonenonsolosiconosceperilpesochesiba,sel'huomoèd'assai
odapoco,maperlapoteftà,elicenzasiscuopronoleaffettionidell'animo,cioèdiche
natural'huomofia, perchequantoaltruièpiu grande,tantomancofreno,erispettoha
alasciarsiguidaredaquelchegl'ènaturale. XV. SE
liScrittorifuferodiscreti,ogratisarebbehonesto,edebito,chelipadronilibe
neficiasseroquantopotesero,ma perchesonoilpiudellevolted'altranatura,equando
fonopieni,olilasciano,òlistraccano,peròèpiu vtileandareconloroconlamanostret
ta, e trattenendoliconsperanza, darlorodieffettitantochebastiafarechenonsidi
Sperino. piu, cheragionenolmentenon
doveriadolere,peròdouegl'altritermini.forpara
guardateuidifarquellipiaceri,chedinecessitàfannoadun altrodispiacerevguale,
percheperlaragionedettadisopra, siperdeingrosso,piuchenonsiguadagna. ,percheper
esperienzasivedecheglihuomininonsongrati,perònelfareicalcolituoi, òneldi
segnardisponerdeglihuominifamaggiorfondamentoinchineconseguevtilità,chein
chis’hadamuouerfoloper rimunerarti,percheineffettoibeneficijsidimenticano.
cheprocededa bron’animo, fivede, chepurtalvolta èremunerato qualchebene ficio,e
anchespessodiforte,chenepagamolti,& ècredibilecheaquellapotestà
ch'èsopraglibuominipiaccinol'ationinobili,eperònonconsentachesianosenza frutto:
XX. INGEGNATEV Id'haueredegliamici,perchesonbuoniintempi,luo ghiecasi, chevoinonpensarete,equestoricordobenchevulgato,nonlopuòconsidera
reprofondamentequantovaglia, achinonèaccadutoinqualchefuaimportanzafen
tirnel'esperienza: XXI. P I A C E vniuersalmente, chièdinataraverae liberă,&
ècosagenerosa,ma
talvoltanuoce.Madall'altrocanto,lasimulationeèvtile,ma'èodiata,G hadelbrut the
ènecessariaperlemalenaturede glialtri,però non sòqualesidebba eleggere,
Credoperò, chesipossavfarel'onaordinariamente,senzaabbandonarl'altra,cioènel
corsotuoordinariocomume vjarlaprimainmodo,cheacquistinomedi personalibe ra,
nondimenoincerticasiimportantipotrai sarelasimulatione,laqualeàchivi
uecosìètantopiuvtile,e sicredemeglio,quantoperbauernomedelcontrario,tiè
facilmentecreduto XXIIII. E INCREDIBILE quantogiouiachihaamministratione, chelecosesue
fienosegrete,perchenonsoloidisegnisuoqiuandosifanno,possonoeserprenenuti,e
interrotti,maancoral'ignorareisuoipensieri,fachegl'huominifannosempreattoniti
3 XVIII. PIV
fondamentopotetefareinvnoc'habbiabisognodivoi,oc'habbiainqua! checasol'interese
communecheinvnoc'habbiariceuutodaboibeneficio XIX. H
O.postoiricordidisopra,perchesappiateviuere,ericonosciatequelchelecose
possono,nonacciocheviritiriatedalbeneficiare,percheoltrecheècosagenerosa,en
XXII. P E R Lecagionidisopra,nonlaudochiviuesempreconsimulatione,& conarte,
mascufobenechiqualchevoltal'vja. XXIII. $1A
certochesetudesideri,chenonsisappiachehaifatto,òtentatoqualcheco
Ja,cheèsempreapropositoilnegarla.Percheancoracheilcontrariosiaquasiscoperto
& publico,tuttauianegandolaefficacemente,sebenenonlopersuadiachihaindi tij,
ocredeilcontrario,nondimeno perlanegationegagliardaseglimetteilceruello
àpartito. A 3 esospetti, efofpetti,aoßeruarelesueattioni.Ed'ognifuominimomoto,sifannomillecommente
ti,& interpretationi,ilcheglidàgranriputatione,peròchièintalgradodouerebbe
auezzareisuoiministrinonsoloàtacerelecosechemaisifappino,ma ancortuttequel
lechenonèptilechesipublichino. XXVI, ANCORA quellicheattribuendotuttoallaprudenza,
ovirtů, s'ingegnano e s c l u d e r e l a f o r t u n na ,o n p o s s o n o n e
g a r e , c h e n o n f i a g r a n d i s s i m a f o r t e n a s c e r e d q u
e l tempo, oabbattersia quelleoccasioni,chesienoinprezzoquelleparti,opirtùinchę
tu vali . XXVII . N O N
vogliogiàritirarquellicheinfiammatidall'amoredeltaPatriasimetto H o a p e r i c
o l o p e r r i m e t t e r l a i n l i b e r t à ., e l i b e r a r l a d a T
i r a n n i ; m a d i c o b e n e , c h e c h i cercamutationedistatopersuointereffenonèsauio,percheècofapericolosa,
elivede cõeffettiche
pochissimitrattatisonoquicheriescano,epoiquãdobeneèsuccesso, fide e quasisempre
che nellamutatione tu no conseguiscidi gră lunga quel chetu haidife gnato,&
inoltretioblighiàvnoperpetuotrauaglio, perchesempretuhaidadubita re, nontorninoquelli,
chetuhaifcacciatijetivecidino. XXIX. CHI
purpuoleattendere'atratati,siricordi,chenefunacosalirouinapiucheit
desideriodivolerlicondurretroppofieuri, perchéchi vuolfarperinterponere manco
tē po, implicapiuhuomini,emescolapiucose,dallaqualcausasiscopronosemprefimili p
r a t i c h e . E t a n c o è d a c r e d e r e c h e l a f o r t u n a , f o t
t o l ' a n i m o d i c h i s o n q o u e s t e c o s e . f i j d e
gniconchivuolliberarsidallapotestàfua& aficurarsi,peròèpiufécurovolerliesem
quireconqualchepericolo,checontroppasicurta. įXX. NON
disegnatesùquello,chenonhauete,nèspendetefuliguadagnifuturi;
perchemoltevoltenonfuccedono,etitrouiinuiluppato, & sivedeilpiudelevol te, chelimercantigroffifallisconoperquefto,quando
persperanzad'vinmaggior
guadagnofuturo,entranosuocambi;lamoltiplicationedequaliècerta, & hatempo
determinato, maliguadagnimoltevolte,ononnengono, ofiallunganopiucheildia
Aiuertimenti di X X V :. O S S E R V A I quandoere AmbasciatoreinIspagnaappressoil
Re Ferdinan dod'AragonaPrincipefauio,&
glorioso,cheegliquandovoleuafareunaguerra,
impresanuoua,òaltracosad'importanza,nonprimalapublicaua,epoilagiustifica ua, maperilcontrariovsauaartecheinnāzis'intendessequellocʻbaueuainanimo,er
fidiuulgana ilRe douerebbeperletalicagionifar questo inmodo,chedoppopublican
dosiquelchegiàpareuagiuftoadogniunoonecesario,èincredibileconquantalände
eranoriceuutelefuedeliberationi. XXVIII.", RCON
viaffaticateaquellemutationichenonparterisconoaltro,shemutarei visidegl’huomini:
perchechebeneficiotirecafequelmedesimomale,odispetocheti facciaPietro
tifacciaGiovanni? 12 . Jegne,
Tegno,dimodo,chequellaimpresachetuhauenicominciatacomevtile,tiriescedania
nofiffima XXXI. SE hauetefalitopenfatelabene, emisuratelabene, tananzicheentriateinprigio
nepercheancorach'ilcafofussemoltodificileascoprire,tamenèincredibile,aquante
cosepensailgiudicediligente edesiderosoditrovarelaverità,& ogniminimospiras
glioèbastanteafaruenire tuttoaluce. ,ofa tiche.Ma quelchelafa forsedesiderabileancoraall'animepurgate,èl'appetitoche
s'had'esserefuperioreagl'altrihuomini,ilcheècerto.cafabella &
beata,attesomaffia me ch’innessunaaltracosacipesamoassomigliareaDio
dentisubitiderepentini,cosacheagiudiciomioèrarissima pericoli,& mai XXXII
LÀ medesimaragionefa,chequantopiul'huomoinuecchia,tantopingliperfa
ticailmorire, e semprepiuconleattioni,econlipenfieriviue,comesejapesenonha
weremaiamorire. XXXVII. SI CREDE,&
ancospessofeuedeperesperienza,chelericchezzemale
acquistate,nonpassanolaterzageneratione. Sant'Agoftinodice,cheDiopermet te, chechil'haacquistategodainrimunerationediqualchebene,chehafattoinvi
ta,ma poinonpassanotroppoinnanzi, percheègiudiciodiDioordinariamente,che
cosinadadimalelarobamaleacquistata. IodiligiàadunPadre,cheameoccor
reuaun'altraragione,perchechiha acquistata la roba,ècommunemente allenato
dapouero,l'amasc sal'arte diconferuarla,maifigliuolichesononati& allcuatida
XXXII. 10 hodefideratocomeglialtrihuominil'honore& l'otile,&
infinquipergram tia'diDioèfuccedutosopraildisegno,enondimenoquãdohocõseguitoquelchedeside
rauo,nonuihoritronatodētroalcunadiquellecosechemihaueuoimaginato,ragione,
àchibenla considerasse , chedoueriabastareadeftinguereaffailafetedeglihuomini.
XXXIII. LA grandezzadiftatovniuersalmenteèdesiderata,perchetutoilbenech'èin
Jei-appariscedifuori,ilmaleftàdentroocculto,ilqualechinedessenonebarebbeforse
tantanoglia,percheèpienasenzadubbiodipericoli,disospettodimilletrauagli
XXXII11. LE cosenonprenedute, nuoconosenzacóparationepisa,cheleprouifte; peròchiama
moioanimograndeeperito,quelocheregge, enonsisbigotisceporili XXXV. N O N
èdubbio,chequantopiul'huomoinuecchia,piucrescel'auaritia.Sidice
communementeessernecausà,perchel'animodiminuisce,ragione,cheamenonècapa
ce,percheè beneignorantequeluecchio,chenonconoscehauerneminorbisogno,quan
ldpiuinuecchia, &inoltreueggo, chene'uecchis'augmētaperilcotrariolalufuria,
(dicol'apetitoenonlaforza lacrudeltà, egl'altriuitijperòcredo,chelaragionue-:
safia,chequantopiusiuiue,tantopiul'huomos'habituaallecosedelmondo o per
consequentepiul'ama > ricchi, A 4 r i c c h i, n o n s a n n o c
h e c o s a s i j l ' a c q u i s t a r r o b a , & n o n h a u e n d o a r
t e , ò m o d o d i c o n f e r . varlafacilmenteladisipano. XXXV TII. NON
fipuòbiasimarel'apetitodihauer figliuoli,percheènaturale:madico bene, cheèfpeciedifelicitànonhauorne,percheetiandiochiglihabuoni,e
saur,' perdita ditēpošle quali cosesonotenutemalenelinostrigiudicij,che X L I
I. E ' IMPOSSIBILE, chel'huomo (sebene èd'ottimoingegno, e giudicion a
turale)posaaggiugnères& beneintenderecertiparticolari,però ènecessariale
fperienza,laqualnonaltrogliinsegna,e questoricordolointenderàmeglio,chiha
maneggiatofacendeassai,percheconlesperienzamedesimahaimparatoquantovan
glia,esiabuonal'esperienza. strettonontoglieànessuno,pinsonoquellichepatisconodel
legrauezzedel prodigo, chequellichehannobeneficiodellaficalarghezza:Laragio
nedunquealmiogiudicioè,cheneglihuominipuopiulasperanza cheiltimore,etpiu
Sonoquellicheferonocoseguirequalchecosadalui,chequi,chetemonoessereoppreffi.
1. Auuertimenti di
senzadubbiomoltopiudispiacerediloro,checosolatione.L'esempiol'hovedutoinmio
Padre,cheasuoidìeraessempioaFirenzedipadrebendotatodifigliuoti,peròpensa
secomestia,chiglihadimalaforte. XLIII. PIACE senzadubbiopiuvnPrincipec'habbiadelprodigo,chevnoo’habbia
dellostretto,ő tamendouerebbeessereilcontrario.percheilprodigoèneceßitatofa
reestorsioni,Grapine,lo sha messiasuavolontà,& afuobeneplacito, perchelaleggenonglihavolutodarpoteftà
difarnegratia,manonpotendoneicasiparticolari,perlavarietàdellecircostanze
darneprecisadeterminarione,sirimetteall'arbitriodelgiudice,cioèallasuaconscien
za, checonsideratoiltutto, facciaquelcheglipare piugiusto,& bonefo,&
chialtija mentil'intendesse,s'inganna,perche laforzadellaleggeloaffoluedihauerneadar
conto,perchenonhauendoilcasodeterminato,sipuòsemprescusare,manonglidàfa
caltàdifardonodellarobad'altri. Χ Ι Ι. SI VEDE
percfperienza,cheipadronitengonopococontodeseruitori,e per
ognsiuacommodità,& appetitoglimettonodaparte. Tolaudoqueseruitori,chepi
gliandoessempioda padroni, tengono piùcontodeleinteresisuoi,chediloro,ilcheperò
consigliochesifaccia,faluandosemprel'honore,e lafede. X L. E R R A
chicredechelicasi, chelaleggerímetteadarbitriodelgiudice, fienorin 2 XXXIX ,
-NON BIASIMO interamentelagiustitiaciuiledelTurco,cheèpiutosto
precipitosa,chefommaria:perchechigiudicaaocchichiusiragionevolmente,spedisce
lametadellecausegiustamente, e liberalepartidaspese,&
spessofarebbepiuperchiharagioneha
uerehauutodaprimalasentenzacontra,checonseguirladoppotantodifpendio,do
titrauagli,senzacheàpermalignità,operignoranzadelligiudici;ó ancoraper
ofleruanza delle leggisifa delbianconero : 1 L’IN
deuiofferuarequestaopinione,etiamconqualchetuain- commodità,&
inquestos'ingannanospessoglihuomini,perchesimuovondoa qualche pocodidanno, cheapparisce,&
nonconfideranoquantosianograndiibeni,chenonsi veggono,
percheisudditinonveggono,enonmisuranoappuntoquelchetupuoifare,anzi
imaginandosimoltevoltelapotestàtuamaggiore,chenonè,credonoaquellecoseche
tunonlipotresticostringerė. XLIX. SONO
alcunihuominisauiasperarequellochedesiderano,altrichemailocrea
dono,infin,chenonnesonobensicuri,& senzadubbiopiuvtileèsperareinfimilicasi
poco,chemolto,perchelasperanzatifamancaredidiligenza,e tidàpiudispiacere,
quandolacosanonsuccede. LII. QUANTO
bendissecolui.Ducuntvolentesfatanolentestrahunt,seneveg
gonoognidìtanteesperienze,cheamenonpare,chemaicosaalcunasiaiceljimeglio.
Saui,chesidevgeodereilbeneficiodeltempo. M. Francesco Guicciardini. XLIIII. S
L’INTENDERSI beneconlifrateli, econliparenti, fainfinitibeni, che
tunonconosci,perchenonapparisconoadviper vno,mainfinitecosetiprofitta,
fattihauereinrispetto,però altrimentièimpossibile,chelungamentesiatenutobuono.
XLVII. XLVI. CHI nonsicurad'esserebuono,madesiderabuonafama,bisognachesiabuono,
10 fuigidd'opinionedinonvedereetiamcolpensareassai,quelchenonvedeuo prefto: maconl'esperienzahoconosciutoeserefalfifsimo,peròfáteuibefedichidi
cealtrimenti. Quanto piusipensanolecose,tantomeglios'intendono,á sifanno:
XLVIII. QVANDO tiverràoccasionedicosa chetudesideripiglialasenzaperdereten po, perchelecosedelmondosivarianotantospello,chenonsipuòdiredihauercofaal
cuña, finchenonsiainmano.Etquandotièpropostaqualchecosa,chetidispiace,cer caildiferirlapiuchetupuoi,percheogniborasivede,cheiltempoportaaccidenti,
cheticauanodiquestedifficoltà,& cosìs’hadaintenderequelprouerbio,chediconoi
LIII : ILTIRANNO faestremadiligenzadiscoprirel'anitzetio,ciodseticon
tentideltuostato,consideragliandamentiÜnnodituoi,concetičaredritesdiertocat chi
XLV. CHIHA autorità, &signoriapuofpingersi,&flenderlaancorasopralefor
zesue, LI . L. SE
tuvuoiconoscerequalifienoipensierideTiranni,legiCornelioTacito,quan
dofamentionedegloltimiragionamentic'hebbeAugusto conTiberio. IL medesimo Cornelio
Tacito achibenloconsidera,insegnapereccellenzacome s'ha da gouernarechi
vinesottoa un tiranno. thìconuersateco,e
conragionartecodivariecofe,&ponerti domandarti partiti,&
parere,peròsenonvuoichet'intenda,bisogna,chetiguardicongrandissimadiligen za, damezzicheeglivsa,nonvsartermir:
LIIII. A chi haconditionenella Patria,efiafotoonTirannofanguinofo& beftia
le,siposjondarepocheregole,chseienobuone,eccettoiltorsol'esilioM.a quandoilTi
fanno,oper prudenza,òpernecessitàdel suostatosigouernaconsospetto, on’huomo
benqualificatodeuecercarediesseretenutodaaffai, & animoso,madinaturaquieto,
nècupidod'alteraresenonèsforzato,percheintalcasoilTirannotiaccarezza,e
cercadinondarticaufadifarnouità,ilchenonfariaseticonoscesseinquieto, perche
all’horapensainognimodochetunonsiaperftarefermo,ondeèneceffitatopensare
sempreťoccasionedispegnesti. SECONDO
ilterminedisopra,èmegliononeseredelipiuintimieconfiden tidelTiranno, perchenonsolotiaccarezza,mainmoltecose,famancoasicurtàte
co, checonlisuoi,cosìtugodilasuagrandezza,& nellarouinasuadiuentigrande, ma
diquestoricordononsenepuòvalerechinonhaconditionegrādenellasuapatria. LVI.
E'DIFFERENZA dhauerelifudditidisperati,adhanerlimalcontenti,
perchequelinonpensanomaiadaltro,cheamutationedistato,elacercanoetiamcon suopericolo,
questisébenenonsicontentano,edesideranocosenuouteamennoninui tanoleoccasioni,ma
aspettanochedaseuenghino. LVII. NON.
posonogouernareisuditibenesenzaleuerità,perchelamalignitàde
glibuominicercacosim,asiuvolemescolardestrezza,& fardimostratione, accioche
glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità, esalute
publica. LVIII. SIDOVERIJ atenderealiefet,inonaledimostrationi,esuperficie,e
nondimancodincredibilequantagratia,cöfauoveticöcilinoappresoglihuominileca
rezze, etlahumanitàdiparole.lragionecredochesia,percheogniunosistima,
parmeritarepiuchenonuale,eperòsisdegna',quandonede,chetunontieniquel
contodilui,chegliparechesegliconuenga. Auuertimenti di
chebabbinoadarsospetto,guardandoco meparli,etiamconlintimituoi,e secoragionando,&
rispondendodiforte,chenonti poljacauare, i!chetiriuscirà,setipresupponisemprequel'obbietto,cheegliquanto
puoticirconuieneperscoprirti. LV . AC LIX E'COSA
honoreuoleàun'huomononprometteresenonquellocheuuoleoffer nare,ma
communementetuttiquelligachituneghi,á giustamente,reftanomalfodif
fatti,percheglihuomininon Jilalanogouernaredallaragione:Ilcontrariointra
uiéneachipromette,percheintrauengonomolticasi,chefannochenonaccadefare
l'esperienzadiquello,chetuhaipromello,& cosihaisodisfattoconlamēteyetsepure
s'hadauenireal'atononmancanoSpedoscuse,emoltisonofigrofli,chesilasciano
aggirare M . Francesco Guicciardini. aggirareconparole,nondimeno è
fibruttomancareallaparolafua, chequestopre
ponderaogniutilitàchesitraggadalcontrario,& peròl'huomosideueingegnaredi
trattenersiquantopuoconrispostegenerali,&pienedibuonasperanza,manondifor
techetioblighinoprecisamente. percheèpaz giafarsinimicosenzaproposito,&
ueloricordo,perchequafiogniunoerrainque ftaleggerezza. LXI. Chi entrane' pericolisenzaconfiderarequelchepossono,oimportino,
fichiama bestiale, maanimosoèquellocheconoscendoipericoliuientrafrancamente,operne
cefftà,operhonoreuolcagione. ranno . mad ti ipopoli, 6 LXII. CREDONO
molti,cheunfauio,percheuedetutiipericoli,nonpossaesserea nimoso:
10sonodicontrariaopinione,chenonpossaesseresauiochinonèanimoso, p e r c h e m a
n c a d i g i u d i c i o , c h i s t i m a a d a u u e n i r e i l p e r i c o
l o , p i u c h e n o n s i d e u e ,m a p e r
auuenturaquestopaso,cheèconfuso,deuesiconsiderare,chenontuttiipericolihan no effetto,perchealcunineschifal'humo
coladiligêza,etindustria,etfrächezzasua,
altriilcasoiftesoetmilleaccidētichenasconoportanouia, peròchiconoscospericoli,no
lideue metteretuttiad entrata,& presupponerechetuttisuccedano,m a
discorrerecon prudenza quelchealtruipuò
sperared'aiutarsi,edoueilcasoverisimilmenteglipuò
farfauore,farsianimo,nèritirarsidall’impresedirili,&
honoreuoliperpauradituttii pericolicheconosceessernelcaso. LX111. ERRA
chidice,chelelettereeglistudijguaftanoilcervellodeglihuomini, percheforseè veroachil'hadebole,
ma doueleletteretrouanoilnaturalebuono,lo
fannoperfetto,percheilbuonnaturalecongiuntocoʻlbuonoaccidentalefannobuonif Jima
compositione. Livi E'SEN?A comparationepiudetestabileinvn Principel'avaritia,cheinun
priuato,nonsoloperchehauendopiúfacultàdadiftribuire,priuaglihuominitantopiù:
maetiamperchequellochehavnpriuatoètuttofuo,&perusofuo,& nepuòsenze
giuftaquerelad'alcunodisponere,matuttoquellochehailPrincipe,glièdatopervalós
& beneficiod'altri, &peròritenendoloinfe,fraudaglihuominidiquelchedeueloro.
L X V I .. LX. GV ARDATEV Idatuttoquellocheuipuonuocereenongiouare,però
inpresenzad'altri, nonditemaisenzanecessitàcose,chedispiaccino, LXIIII. NON
furonotrouatiiPrincipiperfarbeneficioaloro,perchenessunofefareb
bemessoinseruitùgrauiffima,ma perinteresedepopoli,perchefuserobenegouernati,
peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli,nonèpiu Principe DICO che il Principe
chefamercantia,questononsolofacosavergognosa,maè Tiranno,facendoquellocheèoficiodepriuati,enondePrincipi,&
peccatantoverfa Auuertimenti di ipopoli, quantopeccherienoipopoliversolui,volendointromettersiinquelcheèoficio
solodelPrincipe. LXVII. LE cosedelmondosonovarie,edipendonodatanticasi,&
accidenti,chedifficilmē tesipuofargiudiciodelfuturo,&
sivedeperesperienza,chequasisempreleconiet t u r e d e s a n i j s o n o f a l
l a c i,p e r ò n o n l a u d o il c o n s i g l i o d i q u e l l i c h e l a
s c i a n o la c o m m o d i tàd'onbenpresente,bencheminore,perpaurad'onmalfuturo,benchemaggiore,se
non èmoltopropinquo,etmoltocerto,peichenon succedendo poispessoquello dichete
meui,titrouipervnapauravanahauerlasciatoquellochetipiaceua,& peròèfauio
quelprouerbio.Dicosanascecosa. LXVIII. NELLE cosedellostatoho vedutospessoerrarechifagiudicio,
percheesamina
quellocheragioneuolmentedouerebbfearquestoequelPrincipe,etnoconsideraquel
lochefarà,verbigratiailRediFrancia,perchedeuehauerpiurispeto,qualsialana
tura& costumidonFrancese,cheàquellodouerebbefarciascunPrincipe,prudente,
faggio,& giusto. LXIX. 10 HO dettomoltevolte, etlodicodinuouo, ch’oningegnocapace,
& chesappia
farecapitaledeltempo,nonhacausadilamentarsi,chelauitasiabreue,perchepuò
attendereadinfinitecose,& spendereytilmenteiltempo,gliauanzatempo. LXXI.
NON èfaciletrouarequestiricordi,maèpiudificileesequirli,perchespesso
l'huomoconosce, manonmetteinatto, peròvolendovsarlisforzatelanatura,e fate
niunbuonhabito,colmezodelquale,nonfolofaretequesti,maancoraviverràfatto
senzafatica, tuttoquellochevicomandalaragione.
sottol'Imperio,cheTiberiohuomotiranno,& superbohaueuaesofa
tantadappocagine. LXXIII. SE hauetemalasatisfattioned'ono,ingegnateuiquantopotete,chenonsen'accor
ga, perchesubitofialienaràdavoi,& vengonomoltitempi, &
occafionichevipollo noferuire, viseruirebbe,secoldimostrared'haverloinmalconcetto,nonvelbauesti
giocato,e ioconmiavtilitàn'hofattol'esperienza,cheinqualchetempohohauuto
malanimoversod'ono,chenonaccorgendosenem'hapožinqualcheoccasionegiouato, com'è
statoamico. L'AM LXXII. NON simarauigliarddell'animobasoeseruiledemoltipopolichileggerainCor
nelio Tacito,cheliRomanisolitiàdominareilmondo& viuereintantagloria,ferui
uanosivilmente > . LXX CHI vuoletrauagliare, nonsilascicanaredipossessionedellefacende,
perchedal l'onanascel'altra,siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa
tionechetiportailtrouartiinnegotio,& peròsipuo.ancoaquestoadattareilprouer
bio:Di cosa nasce cosa. 1 1 & nefas,como
ècausad'infinitimali.PeròveggiamocheliSignori fimilichehannoquestoobiet
to,nonhannofrenoalcuna,o fannounpianodellaroba,& vitadeglialtri, purche,
cosigliconfortiilrispettodelasuagrandezza.
similimodi,hapiulungotrattocheprimanons'haveb becreduto, comeancoraintrauieneadvnochemuored'eticooditisico,chelasuavi
tasempresiprolungaoltral'opinionechehannohauutoimedici,colivnmercăteinan
zichefalisca, pereserecõsumatodagliinteresifireggepiutēpo,cbenöeracreduto.
LXXIX. M'E parfasempredificileacredere, cheDiobabbiaapermettere,chelifigliuoli
delDuca Lodouico, habbinoagoderquellostato,quandoioconsidero,cheilpadresuo
l'havfurpatofceleratamente,é pervfurparloèstatocausadellarouina, seruity
d'Italiaeditantitrauagliseguitiintutta Christianità, a questichelibiasimama
nosonopazzi, perchestarebbefrescalaCittà,cóloro,seiltirannononhauesseattor
noaltrichetristi. M. FrancescoGuicciardini. 7 LXXIIII. L'AMBITIONE
dell'honore,edellagloriaèlaudabile,& vtilealmondo,
perchedacaujaagl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse.Nonècosiquel la
delagrandezza,perchechilapigliaperidolo,vuolhauerlaperfas, LXXV. L'IMPRESE e
cose,chehannodaaccaderenon perimpeto,maperchepri
masiconsumano,vannoassaipiuinlungo,chenonsicredeuadaprincipio,perchegli
huominisiostinanoapatire,apatiscono, lopportanomoltopiu,chenonsisarebbe
creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerraches'babbiaafinireperfame,perl'incomodi
tà,per mancamēto didanari,& LXXVIII. FATEV
1beffediquestichepredicanolalibertà,nondicoditutiman’ec
cettuobenpochi,percheogniunodiquestitali,chesperasjehauerepiubeneinvnosta
tostreto,cheinunlibero,vicorrerebbeperleposte,perchequasituttipostponeran
noilrispetodel'intereseloro,esonpochifimiquelicheconoscono quanto vagliala
gloria& l'honore. gottirti, e
coltenereilcapofranconontilassareleuarefacilmente. LXXVII . LXXVI . CHI
conuerfacongrandinonfilafcileuaracauallodacarezzeedimostrationi
fuperficiali,conlequaliefefannocommunementebalzarglihuominicomevogliono,
@affogarlinelfauore. Etquantoquestoè piudificileadifendersitantopiudeuesbir N O
N potetehauermigliorparte,chetenerecontodell'honore,perchechifaque ftonontemei
pericoli, nefamaicosachesiabrutta,perotenetefermoquestocapo, ú
faraquasiimpossibile,chetuttononvisucceda.bene,expertusloquor LXXX. Dico
cheunbuoncittadino,& amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi
coltirrannopersuasicurtà, percheèinpericoloquandoèhauutoinsospeto,maanco
taperbeneficiodelapatria, perchegouernandosicosi,glivieneoccasioneconconsigli,
& conoperedifauoriremoltibuoni,edisfauoriremoltimali LAV
städodimezzotusemprerilieuietuincachisiuoglia. LXXXII. LA
naturadepopoliècomequelladepriuati,diuoleresempreaugumentaredel
gradoinchesitrouano,peròèprudenzanegareloroleprimecose,chedomandono,per
checoncedendononlifermi,anzigliinuitiadomandarpiu,& conmaggiorinstanza,
chenonfaceuonoda principio,perchecol.darlispessodaberesegliaccresce lasete.
LXXXIII . OSSERVATE condiligenza lecosedetempipassati,perchefannolumealle future,
cumsitcheilmondofiasempred'unamedesimaforte,& chetuttoquellocheè,
sarà,èstatoinaltrotempo,perchelemedesimecoseritornano,mafotodiuerfinomiz & colori,peròogniunononleconosce,masolochièsauio,eleconsideradiligentemente.
LXXXV. SE Oferuatebene, trouateched'etàinetàsimutanononsolamenteiuocaboli,
modideluejlire,eticostumi,maancoraquelcheèpiuigustiel'inclinationidell'arme,
& questadiuersitàsivedeetiaminuntempomedesimodipaeseinpaese,douenonso
loèdiuersità delleinftrutioni,maancoradegustidecibiedegliappetitiuarijdegli huo
mini. Lamětepericolodellauittoria,ma Auuertimenti di i LXXXI. LAVDO
chinelleguerred'altristaneutrale,chièpotentediforte,hatalconsi derationedistato,chenonhadatemereiluincitore,perchefuggeilpericolo,elaspesa,
elaStracchezza,didisordinid'altripossonoparartiqualchebuonaoccasione:fuordi
questiterminilaneutralitàèunapazzia,percheattacãdoticonunadelleparticorriso 9 4
1 LXXXIIII. SENZA dubbiohamigliortempoinquestomondo,piulungavita,esipuochia
mareinuncertomodofelice, chièd'ingegnopiubasso,chequestiintellettieleuati,pero
chel'ingegnonobile,seruepiutostoatrauaglio,&
cruciatodiehil'ha,nondimenol’uno
participapiudell'animalbruttoched'huomo,l'altrotrascendeilgradodell'huomo,
s'accostapiuallenaturecelesti. LXXXVI. INANZI
alM.CCCCXC111.nelqualtempol'ambitione,&cecita del Duca
Ludouicoaperselauiaallarouinad'Italia,eranocome ogn'unosaimodidels la
guerramoltodiuersidaquestiloppugnationedellecittà,leuccisioni,iconflitid'ale
traforte,& quasisenzafangueinmodochechihaueuaunostatodifficilmenteglipote
wa effertolto, dipoifiridusse,chechierapadronedellacampagna,haueuauinta laguer
ra, comeinunmomento,s e eranodueesercitiincampagna siueniuainuntrattoale
lagiornata,& eradatalasentêzadelaguerra,cosiuedemosenzaromperelanciaper
dersiilRegnodiNapoli,ilDucatodiMilano,econlafortunad'unsologiocarsitutto
lostato deVenetiani.Hoggi il Signor Profpero primo ha dimostratodiuerfo modo di
guerra, checolmettersinelleterrehafoggiogatol'impetodichierapadronedellacamo p
a g n a ,m a n o n r i u s c i r e b b e b e n e q u e s t o , a c h i n o n h
a u e s s e d i s p o s i t i o n e d e p o p o l i f a u o r e
wole,cornehahauutoegliquelladiMilanocontraFrancesi. LXXXVII. LE medesimeimpresechefattefuorditempo,Sonoštatedificiliseme,òimpoffibile,
1 quando
quandosonoaccompagnatedaltempoedall'occasionesonofacilißime,perònonsiuuo
letentarleattrimenti,perchesetuletentifuordeltemposuo,nonsolonontifuccedono,
maportipericolo,checonl'hauerletentatenonleguastiperqueltempo,chefacilmen
tefarebbonoriuscite,peròsonotenutisauijipatienti. LXXXIX. NON
ègrancosa,ch'ungouernatorevsandospesoaffrezza,òefetidifeuerità,
sifacciatemere,percheisudditihannofacilmentepauradichilipuosforzare,eroui n a r
e , & v i e n e f a c i l m e n t e a l l' e s e c u t i o n e ,m a l a n d
o i o q u e l l i g o u e r n a t o r i, c h e c o n f a r p o cheaffrezge, et
esecutioni, fannoacquistarsi, & conferuarnomediterribili. xcІ. RICORDATEV I
diquellochealtrevoltehodettodiquestiricordischeno s'hannoad
osseruaresempreindistintamente,mainqualchecasoparticolare,cheara
gionediuerfanonsonobuoni,& qualisienoquesticasi,nonsipuocomprendereconrego
laalcuna,nesitroualibrochel'insegni,maènecessariochequestolumetelodiaprima
lanatura, & poil'esperienza. ... XCIII . cu i
diseonpopolo,diseveramenteunpazzo,percheeglièunmoftropienodi tonfusione;ó
d'errore,perchelesueopinionisonotantolontandeallauerità,quanto
secondoTolomeo,laSpagnadall'India. COME M. FrancescoGuicciardini. 8 *
011. A miogiudicioinnesjungrado, òantoritàsiricercapiuprudenza,& qualitàec
cellente,cheinvnCapitanod'onoesercito,perchesonoinfinitequellecose,a cheproue
deré,&
comandaresinfinitiaccidenti,etcasivarijsched'horainhoraseglipresentano,
inmodocheperamentebisognachehabbiapiuocchid'Argo,e nonsoloperl'importa zafua, maperlaprudenza,
chelibisognareputoinognialtropesoniente. XCIIII.
Edifferenzaadesereanimoso,&nonfuggireipericoliperrispetodel'bonore,Psta
noel'altroconosceipericoli,ma quelloseconfidapoterfenedifendere,efenonfusseque
staconfidēzanõgliaspetarebe,questopuoeferschetemapiudeldebitoznèsiafaldo,
perchenonhabbiapaura, maperchesirisolueavolerpintostoildãnocbelauergogna.
LXXXVIII. HO osseruatowe'mieigouerni,chequandomièvenutainanzivnacausa,cheho
hauutoper qualchegiustorispettodesiderio d'accordarla,nonhoparlatod'accordo,ma
folmetterevariedilationi,& ftrachezzehofattochelemedesimepartilhannoricer
cato, cosiquello,chesenelprincipioiol'haueßiproposto,sariastatoributtato,s'eridotto
intermine,chequandoèvenutoiltemposuo,ionesonostatopregato. XC: N O N
,chechitieneglistatinonsianecessitato,metterlemaninelsangue,madi
cobenechenonsidevefarsenzagranneceßità,& cheilpiydellevolteseneperde,
piuchenonseneacquista,perchenon solos'offendequellichesonotocchi, ma ancorasa
dispiaceall'vniuerfaledeglialtri,efebenetuleuiquelloinimico,oquelloostacola,non
perosenespegneilseme,cumsitscheinluogodiquellosott'entranodeglialtri,&
fpeffo intrauiene,comesidicedell'hidra;cheperognunojnenafcesette. $
XCVIII. N O N possoio, nesofarmibello,nedarmiriputationediquellecose,cheinperin
tànonsonocosi,& tamenfariapiuvtilefareilcontrario,percheèincredibilequanto
giouilariputatione,e opinionechehannoglihuomini,chetusiagrande.Conquestoru
moresoloticorronodietro,senzachetun'habbiavenireacimento. che
ilpadrone,eproportionatamenteil superiorelisudditi, perchenonsipresentaianzialuitaliqualisipresentanoagl'altri,
anzicercanocoprirsialui, & parered'altrafortecheinverononsono. ,e pericoli,
qualfortehabbiapiuadesiderareuna
Città,òdicaderenelgouernod'vno,òdimolti,odipochi. p e r c h e d'hora in hora
nascono o c c a s i o n i, c h e e g l i c o m m e t t e a c h i v e d e , ò a
c h i g l i è p i u e p r o p i n q u o, c h e s e t i h a u e s s e a c e r
careòaspettarenontisicommetterebbe, e chiperdevnprincipiobenchepiccolo,per
despessol'introduttione,e aditaarosegrandi.
fawpusēruitorichefannoilmedesimoversoipa droni,non
facendoperacosachesiacontralafede,l'honore. Auvertimenti di XCE . COM
Ecoluic'haagiutato, òeftatacaufa, cheunosalgainungrado,louuolgouer
nareinquelgrado,giàcominciaa căcellareilbeneficio,chegliha fato,volēdousarper
se,quelcheprimahaoperato,chesiadiquell'altro,eglihagiustacausadinon.com
portarlo,neperquestomerita eserechiamatoingrato. XCVI. R O N
s'atribuiscaalaudedifa, òchinonfaquellecose, lequalifepotefse,ofa
cesjemeriteriabiasimo". XCVII. DICE
ilprouerbioCastigliano,ilfilsirompedallatopiudebole,semprechepensi v e n i r e
i n c o n c o r r e n z a è c o m p a r a t i o n e d i c h i è p i u p o t e n
t e o r i s p e t t a t o, p i u s u c c u m b e i l piudebole,nonostante,chelaragioneèl'honestà,òlagratitudinevolesseilcontrario,
perchecommunemente;s'hapiurispetoal'interese,chealdebito:+31 xCІ. NIVNO
conoscepeggioliferuitorisuoi GII. 10 velodicodinuouo, lipadronifannopococontodeseruitori,&
perogniinteresse listrascinanosenzarispeto,perosono 2 CI. TP
chéstaiincortë,& seguitiongrande, edesideriessereadoperatodaluiinfa cende, ingegnatidiStarlituttaniadinanzia
gl'occhi, pome ...) C O N C O R D A N O -tutieferemeglioreloftatod'vnoquandoèbuono,
ibedi pochiedimolti,o
buoni,eleragionisonomanifeste,cosiconcludono,chequellod'ono
piufacilmentedibuonodiuentacattiuo,chegl'altri,& quando ècattivoèpeggioredi
tutti,tantopiuquandovaperfiuèceffione,percheradevolteadunpadrebuono fa uio, succedeunfigliuolosimile.Perovorreichequestipoliticim'haueJerodichiarato,
consideratetutequesteconditioni CTII CHI
siconoscehauerebuonaforte,puotentarl'impreseconmaggioranimo,maè d a a u u e r t
i r e c h e l a f o r t e n o n s o l o p k o e s s e r e v a r i a d i t e m p
o i n t e m p o ,m a a n c o i n u n t e m
pomedesimopuoelervarianellecose,perchechiosseruauedràperesperienza,mol
tiesserefortunatiinunaspeciedicoje,&
inun'altraesseresfortunati,etioinmiopar ricolarehohauutoinfinoaquestodàtrediFebraroM
D XX111.inmoltecose bonißimaforte, tamennonPhosimilenellemercantie, one
glihonori,cheiocerco d'havere, perchenoncercandolimicorrononaturalmentedietro,ma
come cominciò a cercarli,pare chesidiscostino . CV. LE
cosedelmondononstānoferme,anzihannosempreprogressoalcamino,àche
ragioneuolmenteperfuanaturahannodaandare,e finire,matardanospesopiache
ilcrederenostroperchenonlemisuriamosecondolavitanostra,cheèbreue,e non
secondoiltemposuo,cheèlungo, & peròipaffifuoifonopiutardi,chenonsonoino fri,&
fitærdipersuanatura,cheancorachefimouinononciaccorgiamospesode fuoimoti,e
perquestosonofpefjofalsiigiudicij,chenoifacciamo, CVII . R O N
sosesideuonochiamare: fortunatiquelli, achivnavoltasipresentavna
grandeoccasione,perchechinonè prudente,nonlafabenevsare,masenzadubbiofo no
fortunatiffimiquelli,aqualivnamedesimagrandeoccasionesipresentadueuol
te,perchenonèbuomocosidappoco,chelasecondavoltanonlasappiavsare, cosi
inquestocasosecondos' hadahauere tuttal'obligationeconlafortuna, donenelpri
mohaluogo-ancoralaprudenza . , cheuiuonoinlibertà, ma queli, neiqualiera
meglioprouiftoallaconferuationedelleleggiedellagiuftitia. fannoinuentionediquel
löches'aspeta,òsicrede,epiuorecchivipreftosefononuouestrauaganti,o'inaspet
tate, perchemancooccorreaglibuominifareinuentioni,òpersuadersiquellochenon
èinalcunaconsideratione,ediquestohovedutoiomolteuoltel'esperienza. GRUAN
forteèquelladegliastrologi,cheancora,chelaloroprofeffionefiava M.
FrancescoGuicciardini. CIIII . N O N hamaggioreinimicol'huomo,chefefteso,perchequasitutiimali,perico
li,& trauaglisuperflui, chehanonprocedonodaaltro,chedallasuatroppacupiditate
CᏤ,
L’APPETITO dellarobanascedaanimo'balo,omalcomposto,fenonside.
fiderasseperaltro,cheperpoterlagodere,ma essendocorrottoilviueredelmondo,co me
èchidefiderariputatione,èneceßitatoàdesiderareroba,perche.coneffarilucono
Levirti,cfono inprezzolequaliinunpouerosonopocoftimate,& mãcoconosciute. B
CVIII. La libertàdelleRepublicheèministradellagiustitia,perchenonèfondataadal
trofine, senonperdifensione, chel'onononsiaopressodal'altro,peròchipotesseef
soresicuro,cheinunostatod'unoòdipochis'ofjeruajelagiustitia,nonharebbetau
fadidesiderarelalibertà.Questaèlaragione,chegliantichisauij, & Filosofinon
laudornopiudeglialtrique'gouerni CIX. QVANDO
lenuoues'hannod'Autoreincerto,&fienonuoueverisimili,d
aspettate,ioliprestopocafede,percheglihuominifacilmente СХ; nito,
Auuertimenti di mità, òperdiffettodell'arte,ofuo,tamenpiufedeglidàvnaverità,chepronostica
no,checentofalsità,é tamenneglihuominiintrauieneilcontrario,cheunabugia, c h se
i a r e p r o b a t a d a v n o , f a , c h e s i s t à s o s p e s o a c r e d
e r l i t u t t e l ' a l t r e v e r i t à , & procede
daldesideriograndec'hannoglibuominidisapereilfuturo,dichenonhauendoaltro modo
dihauerecertezza;credonofacilmente ,a chifaprofessionedisaperlolordire,
comeall'infermoilmedico,chelipromettelasalute.
,òdallauoluntàdiquelli,chedominano,perchenonhan
uendesiacūbattereconragioniimmutabili,ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille
cafi,chefacilmentetisolleuanodachipuopretenderedileuartidiposeso. scarso, perchenessunacosaof
fendepiùl'animod’unfuperiorecheilparerglichenonlisiahauutoquelrispetoeri
uerenza,chegiudicaconuenirseli. CXI. F T Ë
ognicosapernontrouaruidonesiperde,percheancora,chenonuisia colpaisoftra, nehauetesõprecarico,
nèsipuoandareatuttelepiazzegetbanchiagiu Stificarsi,comechisitrouadouefi vince,
siportasemprelaudeetia Jenzasuomerito. fa
nellecosepriuate,trouarsiinpoffeffioneantica,chele ragioninonfimutano,6
imodidegiudityediconsignareilsuofonoordinarü,&fer mi,masenza
cumparationeèmoltomaggiorevantaggioinquellecose chedependo
nodagliaccidentidellistati CXIIII. FV crudeleildecretode Siracusani,dichefamentioneLiuio,
cheinsinoalledon n e n a t e d e t i r a n n i f u s s e r o a m m a z a t e , ma
non però a l t u t t o s e n z a r a g i o n e , p e r c h e m ă
Catoiltiranno,quellicheuiueuanouolentierisottodilui,sepotefjeronefarebbono
un'altrodicera, enonessendocosifacileuoltarela riputationeaun'huomonuouo,si
ritiranosottoognireliquia,chereftidiquello.Peròuna Città, cheescanuouamente
dallatirannide,nonhamaibensicuralalibertàSenonspegnetuttalarazza,& pro
geniedetiranni,dicoperò glimaschi,enonlefemine. CXV. N O N
èinpoteftàd'ogniunoeleggersiilgrado,elefacende,chel'huomouno le, manonbisognaspessofarquelle,chet'appresentalatuaforte,&
chesonoconfor mialostatoincheseinato, peròtuttalalodeconsisteinfarlasuabene,comeinuna
comedia,nonèmancolodato,chibenrappresentalaperfonad'unferuo,chequelli,a
chisonomeffiindossoipannidelRe,od'altrapersonadegna,ogniunoinefetonel
gradofuopufoarsihonore. E vantaggiocomeognun CXII . CXIII . CHI
desideraeseramatodasuperiori,bisognamostrared'hauerelororispetto,e riuerenza,e
conquestoeferpiutoftoabbondante,che CXVI. OGNIV NO
inquestomondofadeglierrori,daqualinascemaggioreomi
nordanno,secondogliaccidenti,& casicheseguitano,mabuonafortehannoquelli,
ches'abbattonoadevrareincofediminoreimportanza, òdallequalineseguitaman
codisordine. 2 E gran CXVII. E 'granfelicitàpotereviuereinmodo
chenonsiriceua,nèfifacciaingiuriaad altri,ma chis'adduceingrado,chesianecessitato,oaggrauare,òapatire,deueper
mioconsigliopigliareiltrattoauantaggio,percheè cosigiustadifesa,quella chesifa
pernonesseroffeso,comequella,chesifaquandol'offesatièfatta,ènerochebisogna
bendiftinguericasi,nèpersuperflupaauradarsisenzacausaadintendered'eserene
ceshtatoapreuenire,nèpercupidità,nèpermalignità,doueinverononhainèdeui
hauerefolpettovolereconallargarequestotimoregiustificarelaviolenza,chetufai.
CXVIII. NE glihuominie lapatienza, el'impetosonobastantiapartorirecosegranuis
perchel'onooperaconl'urtareglibuomini,esforzarelecose,l'altraconlostraccara
li,evineerlicoltempo,el'occasioni,peròinquellochenuocel'ono,gioual'altro,Grå
conuerfo,& chipotessecongiugnerli,&
vsareciascunoaltemposuosarebbediuino,
maperchequestoèimpoßibile,credocheožbuscõputatis,lapatienzaemoderationfi:
landabileinun Principepercõdurremaggiorcoseafine,chel'impetoelapcipit.iticne.
CXX. NLELLE cosedellEconomicailuerboprincipaleèrisecaretutelespesesuper flue,ma
quelloinchemipare, checonsistal'industria,èchifalemedesimespesecon piuvantaggio,ecomesidicevolgarmente,spendereilfoldoperquattroquattrini.
CXXII. DICEVA unpadre,chepiubonoretifaunducatoinborsa,chediecichene
baispesi,parolemoltodanotare,nonperdiventarfordido,nèpermancarenellecose
honoreuoli,e ragionevoli,maperchetifafrenoafuggirelecosesuperflue. la
malitia,ochenelmaneggiarelecoses'accor gono diquelloharebbono
dibisogno,sicercafardirealiStrumétiquello chel'huomo
vorrebbechedicese,peròquandosonogliinftrumentidicosevostred'importanza,
habbiatepervfarizafaruelilenaresubito,& hauerliincasainformaautentica.
10 M. FrancescoGuicciardini. CXXIII. RARISSIMI sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano,madopo
fatisecondocheglihuomiuipensano CXIX . SE
benglihuominideliberanoconbuonoconsiglio,gliefetisonoperòlpelocat
tiui,tantosonoincertelecosefuture,nondimenononsiuuole comebestiadarsiinpicito
daallafortuna,macomehuomoandarcontaragione,& chièSauio,hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio,ancorchel'efetosiastatocattiuo,chefeconvácon
figliocattivo, hauessehauutol'effettobuono. CXXI. TENETE amente,chechiguadagna,sebenpuospenderequalchecosadipiu
chenonguadagna,tamenè pazziaspenderelargamentesulfondamentodeguada
gni,seprimanonhaifatobuonocapitale,perchel'occasionedelguadagnarenondu
rasempre,& fementreessaduranontiseiacconcio, passatacheellaèytitrouipouero
comeprima, edipiuhaiperdutoiltempo,el'honore,percheallafineètenutodipo
coceruello,chihahauutal'occasionebella,& nonl'hasaputausarebene, &
questo ricordotenetelobeneamente, perchehovistoamjeidiinfinitierrori. E Cer
B2 puoalcunauoltamettendoinsiemela gratitudinechesisentedatuttiefere
notabile. CXXV. DEL fareun'operabuona, &
laudabilenonsivedesempreilfrutto,peròchi nonsisatisfafolumdelbenfaredi
sesteso,lascidifarlo,nonparendoglitrarneuti lità, maquestoèingannodeglihuomininonpiccolo,
percheilfarelaudabilmente,se
bennontiportasjealtrofruttoeuidente,spargebuonome,& buonaopinionedite,
laqualinmoltitempi & cafitirecautilitàincredibile. progressoditemposi p o c
h e c o f e u e r i f i c a t e , c o m e s i t r o v a a c a p o d e l l ' a n
n o d e g l i a s t r o lp o ge i ,r c h e l e c o s e del
mondosonotroppouarie. CXXVIII. NELLE
coseimportantinonpuofarebuonogiudicio,chinonfabenetuttii
particolari,perchespesounacirconftantias& minima,nariatuttoilcaso, mauidice
bene, chenonhanotitiaadaltro,chedigenerali,& questomedefimogiudicapeggio
intesii particolari,perchechinonhailceruellomoltoperfettoemoltonettodallepaf
fioni, facilmenteintendendomoltiparticolarisiconfondeeuaria. CXXXI. SE
d'unos'intendedlegge,chesenzaalcunofuocommodo,èinterefe,ampor
Auuertimenti di CXXIIII. E'Certo, chenonsitiencontodeliseruitijfattialipopoliinuniuersale,
comedi quellichesifannoinparticolare, perchetoccandocolcommune, nessunositienseruito
inproprio, peròchis'affaticcaperlipopoli, &vniuersità,nosperiches'affatichinoper
luiinunsuopericolo,òbisogno,òchepermemoriadebeneficij,lafcinounalorocomo
modità, nondimenononsprezzatetantoilfareseruitioapopolichequandouisipre
sentil'occasionelaperdiate,percheseneuieneinbuonnome,ebuonconcetto, cheè
fruttoasaidelafatica, senzapure,cheinqualchecasogiouaquellamemoria,& rin
mzoneachièbeneficiatosenonsicaldamente,comelibeneficipropri,almancosarà
partediquantosiconuiene, &fonotantiquestiachitocca questalorleggieraimpres
fione,che CXXVII. CH I facessefuun'accidentegiudicaredaun'buomosauioglieffetti,chenasce
ranno,& scriueseilgiudicio, trouerebbetornandoa uederloin CXXIX, SPES SO
s'inganna, chisirifoluesuiprimiauuifi,cheuengonodellecoseper
ebeuengonosemprepiucaldi,& piuspauentofi, chenonriefconopoiconglieffettin
però chino nèneceffitatoaspettisempreisecondi, edimanoinmanoglialtri. CXXVI.
CHI halacurad'unaterra, chebabbiaaesserecombattuta,òassediata,deuefa
repochiffimofondamentointuttiqueirimedij,cheallunganogestimareassaiognico
fachetolgatempo,etiampiccoloaliiniinici,perchespessoundìpiu,o un'borapor
taqualcheaccidente,chelalibera. CXXX. NON
combatteremaiconlareligione,neconlecosecheparechedependonoim mediateda Dio, perchequestoobiettohatroppaforzanellementideglihuomini.
ilmale CX XXIIIK E'buonmezo
aguadagnarsifauoriilmostrareaquelli,dachituduoiguada gnareilfauoredifarlicapisG
CXXXVI. QY ANDO sifauna cosa, sesipotessesaperequelchefarebbeseguito, senon
sifufefatta, sòifussefattoilcotrario,senzadubbiomoltecosesonoda glihuominilau
dati,chenon fariano,anzimeriterebbono contrariasentenza: CXXXVIII. A C C A DE
:molteuolteinunadeliberationecheharagionedaognibanda, che
ancorachel'huomohabbiadiligentementepenfato,chepoichehafattoladeliberatio ne, gliparebauerelettolapartepeggiore,laragioneè,
chepoichetuhaideliberato
tisirappresentanosolamenteallafantasialeragioni,cheeranonell'opinionecontra
rialequaliconfideratesenzailcontrapesodell'altretipaionopiugraui,e pireim B 3
portanti M.Francesco Guicciardini. Ir i
male,cheilbene;fideuechiamarbeftiae, t nonhuomo, poichemancadell'appetia
naturale , n o a fauorire quello, che p e r a l t r o h a r e b b o n o d i s
fauorito CXXXV. CXXXII. NON
credeteaquestichepredicanocheamanolaquiete,etd'essereStracchi
dell'ambitione,& hauerelasjatele.facende,perchequasisemprehannonelcuoreil
contrario, esisonoridottiavitaappartata, & quieta,òpersdegno,òpernecessità,
òperpazzia,l'essempioseneuedetuttoildì,percheaquestitalisubitoches'appres
Sentaqualchespiragliodigrandezza,abbandonerannolatantalodataquiete, & nifi
mettonoconquelpericolo, chefailfuoco,adunacosafecca. CX XXIII. :L'INCLINATIONI,
e deliberationide.popolisonotantofallaci, &
Menatepiuspessodalcaso,chedallaragione,chechiregolailtrainodeluiuerfuo,non
inaltrocheinfüilasperanzad'hauereadeseregrandecolpopolozhapocogiuditiosper
cheopporsièpiutostoventuracbefenno.
autoridiquellacosa,nellaqualen'haidibisogno,perche la piupartede
glihuomini,presidaquellauanità,òambitione,uisiaffettionanoinmo
do,chedimèticatiirispetticontrari,ancoradepiuragioneuoliepiuurgenticomincia
INFINITE Sonolevarietàdellenature,dadepensierideglihuomini, però non sipuoimaginarecosa,
nèsìstrauagante,nèsicontraragione,chenonsiasecondo
ilceruellod'ałcuno,perquestoquando sentiretedire,ch'altrihabbiadetto,ofattoco.
facchenonuiparrauerifimile,nèchepossacadereinconcettod'huomo,nonuënefat
teleggiermentebeffe,perchequellochenonquadraate,puofacilmentetrouareachi
piaccia, òpaiaragionevole. CXXXVII. PA RE chei Principi sienepiuliberi,e
piupadronidellelorouolontà,chegli altrihuominóznonèuero nePrincipi
chesigouernano prudentemente,perchesonone
cefsitatiprocedereconinfiniteconsiderationi,rispetti,inmodochemoltevoltecat
tiuanoilordisegni, iloroappetiti,el'altrevolontàloro, iochel'hoosseruato,n'ho
pedutemolteesperienze. ,diriandaretutteleragioni,chesonohinc,&
inde,perchequeen stoconcorso& contrarietà, chetiapprefentiinanzi,fa,cheleragionichesiconcede
ilano,nontipaianepiudimaggiorpesosoimportanzadiquello,cheveramente CXLII.
QVANDO nelleconsulsteonoparericontrarij, sealcunoescefuoraconqual. Che partitodimezo,quasichesempreèapprouato,non
percheipartitidimezo,il piudellevoltenonsier:opeggiori,ma
percheicontradittoricalanopiuvolentierid quello,cheall'openionecontraria,&
ancoglialtri,òpernondispiacere,opernonef
jerecapaci,sigettanoaquellocheparloro,chehabbiamancodisputa. CXLIIII. POSSONO
maleglihuominipriuati,biafimareolodaremoltoleationide
Principi,nonsolopernonsaperelecosecomestanno& peressergliintereffi,&
ilo to finiincognitismi ancoraperchela differenzaèdall'hauereauuerzo ilceruello
advsodePrincipi,adhauerloaurezzoadvsodepriuati,facheancorchelostato,
ifinidellecose, & gliintereshfulero all'unonoticomeal'altro,leconsiderationi
Auvertimentidi
portanti,chenonpareuanoinanzi,chetudeliberafi:Ilrimediodiliberarsidaquesto
molestia,èsforzarsi CXXXIX . V NO huomo,chenonsiaprudente,nonsipuoreggeresenzaconsiglio,nondime
noeglièmoltopericolosopigliarconsiglio,perchechidàconsiglio,haspesopiuconside
rationeall'interessesuo,cheaquellochelodomanda,anziproponeognisuopicciolo
rispetto,& fodisfattioneall'interesse,benchegrauissimo,a
importantijimodiquela l'altro,peròdico,cheintalgradobifogna,
ches'abbattaconamicifedeli,altrimenti
portapericolodinonfarmaleapigliarconsiglio,etmaleetpeggiofa,ànolopigliare. mol
tevolteinterzooquartocaso,chenonfumaiinconsideratione,e chedifficilmente
fisarebbeimaginato,chepoteseesseremolteutoltesitrouaingannato. CXLI . : NON
sipuochiamareinfelicevnacittà, chefioritalungamente,uieneabal Sezza, perchequestoèilfinedellecosehumane,nësipuoimputareinfelicitàlelle
resotopostoaquellalegge,cheècommuneatutiglialtri, mainfelicesonoqueicit
tadini,a iqualihadatolafortenascerepiuprestonelladeclinationedellasuapatria,
cheneltempodellasuabuonafortuna. fono. però C X L. Si CHI
sulfargiudiciodelfuturovuolpigliare-qualchedeliberatione, comespesso calcula, latalcosaanderà,òneltalmodo,òneltale.,&
suquestodiscorsopigliail
suopartito,percheperlavarietàdellecose,edegliaccidentidelmondo,viene CXLIII. VR
Principe,chevolessetorreilcreditoagliAstrologi,chestampanoigiudicij
vniuersalmente, nonharebbeilpiufacilmodo, checomandare,chequandosistampa
ilgiudicioloro,perl'annofuturo,fusseristampato, &
appiccatoconessoloroilgiudi
ciodell'annopaljato,percheglihuominirileggendoinquelloquantopoco fifienoa p
postidelpassato, farelbonosforzatinonprestarfedealfuturo,& hauendosidimenti
catolebugiedell'annopaljato, lacuriositànaturale,chehannoglihuominidisapere,
quelchehadaessere,gliinclinafacilmenteaprestarlifede. 1
peròsonomolto'diuerse,äsidiscorronolecosecondiuersoocchio, sigiudicano
condiversogiudicio,& infine,l'unolemisuracondiuerfamisuradall'altro.
fareognioperapossibile, fachecoluiilpiudelleuoltècominciaacre
dere,chenonlovoglia seruire;ilcontrariointrauienea chifalarghezzadisperan
2a,&difacilità, perches'acquistapiucolui,ancorche l'efetononriesca,cosisi D
e d e , c h e c h i s ig o u e r n a con arte, o p e r d i r m e g l i o c o n
q u a l c h e a u u e r t e n z a ,è p i u g r a to, &
piufailfattosuo,nèprocededaaltro,senondaesserelapiupartedeglihuo
miniignorantialmondo,ches'ingannanofacilmenteinquellochedesiderano.onesto ma
utilitario,ambi ziosoepositivo, consideratoildramma dellaruina italica, in
mezzo al quale si svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il
segreto per giudicare la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui
manifesta l'anima sua,che vibra d'ambizione,di
collera,discoraggiamento,dibeffardoscetticismo e anche di nobili
entusiasmi. e 2 ZANONI. INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI SULLA
PRIMA DECA DI TITO LIVIO. NiccolòMachiavelliposemano aisuoiDiscorsisulle Deche
diTitoLivionel1513,elifinìmoltopiùtardi: liandò leggendo negli Orti
Oricellari,circondato dalla gioventù fiorentina,che pendeva ammirata dallesue
labbra. Egli dice, sin dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto
argomento dal bisogno di o p e rare quelle cose che credeva adatte a recare
comune beneficio a ciascuno. E se l'ingegno povero,la poca esperienza delle
cose presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo suo conato
difettivo e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con
più virtù,discorso e giudizio,possa a questa sua intenzione soddisfare.Più
apertamente manifesta questo suo desiderio,concludendo:«Benchè questa impresa
sia difficile, nondimeno aiutato da coloro, che mi hanno ad entrare sotto
questo peso confortato, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve
cammino a condurlo al luogo destinato.'» Il Guicciar dini ne accettò l'invito e
scrisse le sue osservazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli,fermandosi a
con 1Machiavelli,nel proemio al primo libro dei Discorsi. CAPITOLO
SECONDO. CONSIDERAZIONI DEL GUICCIARDINI CONSIDERAZIONI INTORNO AI
DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 19 Il Machiavelli tratta delle origini delle città e
os serva che se trovansi in luoghi sterili, i cittadini d i ventano energici ed
operosi : m a se si stabiliscono in luoghi fertili, cadono nell'ignavia,se non
si cerca con le leggi di correggere il male morale portato dalla fecondità
della terra. Se non che la sterilità dei luo ghi non offre facile via alle
conquiste,e per questo i Romani fondarono la loro città in luogo fertile e
adatto a spianare ad essi la via dell'imperio : al ri manente rimediarono con
leggi severissime,le quali resero armigero il popolo. Su quest'ultima parte il
Guicciardini,che assaiammira l'arte militare deiR o mani e non troppo il governo
e la politica loro, os serva che Roma era bensìposta in paese fertile,ma per
non avere contado e essere cinta di popoli po tenti, fu forzata allargarsi con
la virtù delle armi e con la concordia ;e questo si discorre non in una città
chevogliavivereallafilosofica,ma inquellechevo siderare i primi due libri
e appena qualche capitolo del terzo,perchè gli mancò iltempo a continuare il
lavoro intrapreso.In esse spicca la differenza di mente fra il Guicciardini e
il Machiavelli : questi guarda le questioni da sublime altezza e sotto un
aspetto più g e nerale,abbandonandosi alla sua geniale idealità,nello studiare
l'organizzazione dello Stato ; il Guicciardini invece,ricco di tanta
esperienza,vero genio del senso pratico,nonsegueilsuoamiconeivolipoetici,ma si
ferma soltanto a rettificare quelle idee del Machia velli a lui sembrate
erronee : in ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza profonda dei
go verni. Egli discute i mezzi di reggere le repubbliche e i principati, ne
studia l'indole per cercare il go verno migliore : parla dei modi di
comportarsi coi soggetti e di aumentare fuori l'imperio degli Stati,di condurre
le guerre, dell'efficacia delle religioni sulla civiltà delle nazioni:ragiona
sullanatura umana,do minata dai due istinti del bene e del male. <
20 CAPITOLO SECONDO. gliono governarsi secondo il comune uso del mondo,
come è necessario fare;altrimenti sarebbono,essendo deboli, oppresse e
conculcate da'vicini.'» Moltissime sono le osservazioni del Guicciardini circa
le varie specie di governo,le guarentigie da prendersi per custodire la
libertà, le qualità e condizioni necessarie ad un regime per essere forte.”
Degne di studio sono pure quelle riguardanti il principato,ilgoverno popolare e
quello degli ottimati. « Il frutto del governo regio,così il Guicciardini,è che
molto meglio, con più ordine, con più celerità, con più segreto, con più
risoluzione si governano le cose pubbliche quando dipendono dalla volontà di un
solo, che quando sono nell'arbitrio di più.» Ma se il so vrano è cattivo, gli
effetti ne sono pessimi. E però, secondo lui,è necessario farlo perpetuo,ma
limitargli l'autorità, con fare che da sè solo non possa disporre di alcuna
cosa e solamente abbia libertà d'azione in quelle che sono di minore
importanza. Dichiara che nel governo degli ottimati è il bene, perchè essendo
in più non possono cadere tanto facilmente nella ti rannide, come avviene nel
principato :essendo uomini qualificati governano con più prudenza e intelletto
del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose p r o p r i e e o p p r i m
o n o il p o p o l o : l ' a m b i z i o n e f a n a s c e r e in essi le
sedizioni e per via della tirannide si produce la ruina della città. Se poi,
invece del governo degli ottimati, per elezione o per qualità, che si potrebbe
rendere buono con acconci provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per
nascita o per eredità,questo sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di
popolo è di buono che mentre dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi
che gli uomini ; e il fine di tutte le deliberazioni è badare al bene
universale. Di male 1 F. GUICCIARDINI, Opere inedite, vol.I, pag.5. Firenze,
Bar bèra,Bianchi e Comp.,1857. 7 2 Ibidem,pag.6.
CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 21 Egli,nei suoi
giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del popolo che
disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e l'ama.Intorno alla
ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina « che senza comparazione
il popolo sia più in grato ; perchè, e per essere gli uomini distratti in varie
faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco distingue e manco conosce
che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade più facilmente negli
uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o di nobiltà o di
ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta ; nè cosa
alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più qualità di loro
e questi sempre desiderano abbas vi è che il popolo,per la ignoranza
sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e desi deroso
sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato dagli uomini
ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati, che gli neces
sita a cercare novità e perturbazioni.» Il Guicciar dini,inchinevole più al
governo di uno, quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare, si di
scosta in ciò da Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze : questo è
uno dei punti,in cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra di
essi.Del resto il Guicciardini reputava ottima la forma del governo misto di
principe,popolo,ottimati,togliendo da ciascuna specie il buono e lasciando
indietro il cattivo, cercando di conciliare tutti gl'interessi; la qual forma
presenta delle somiglianze coi governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è
quellalodatapure dal Machiavelli. I due grandi statisti fiorentini discor rono
dei governi secondo le idee di Polibio, ma il Guicciardini, profondo
conoscitore delle condizioni dei suoi tempi,con acume più pratico parla dei
varî re gimi e delle passioni e appetiti che muovono iprin cipi, i nobili e il
popolo ad impadronirsi dello Stato. 1Op.cit.,pag.44,45 ec. 2
Op.cit.,pag.14,15,16 3 Op.cit.,pag.42,43. CAPITOLO SECONDO. sare.'>
Crede il Guicciardini di non saper bene ciò che voglia dire la questione
presentata da Machia v e l l i, s e s i d e v e p o r r e l a g u a r d i a d e
l l a l i b e r t à n e l p o polo o ne'grandi. Se intendesi discorrere di chi
deve partecipare al governo,ciò spetta,nei governi misti c o m e quello di R o
m a , tanto ai patrizî c o m e ai plebei , che salvarono spesso la libertà
della patria. «Ma quando fosse necessario mettere in una città o un governo
meramente di nobili o un governo di plebe, è manco errore farlo di nobili,
perchè essendovi più prudenza ed avendo più qualità,sipotràpiùsperare si
mettino in qualche forma ragionevole,che in una plebe,la quale essendo piena
d'ignoranza,di confu sione e di molte male qualità, non si può sperare se non
che precipiti e commetta ogni colpa. > Lo stesso disprezzo per il popolo lo
rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere stati i Romani meno ingrati degli
Ate niesi verso iloro cittadini più illustri.Ciò accadeva per
chènellanaturadeiRomani nonfulaleggerezzadegli Ateniesi e anche per la
diversità del governo.In Atene poterono i cittadini con le arti popolari salire
presto in potenza e farsi grandi : m a i capi, in questo g o verno popolare,
caddero più facilmente in sospetto e con più leggerezza e meno considerazione
furono op p r e s s i . L a p l e b e r o m a n a t r o v ò il c o n t r a p p
e s o d e l l a n o biltà,poichè nel Senato si trattavano le cose più gravi. La
qualità quindi del governo dei Romani,più tempe rato e prudente, fu causa che
icittadini ebbero meno degli Ateniesi aperta la via alla tirannide e vi furon m
e n o b a t t u t i . M a q u a n d o il G u i c c i a r d i n i v u o l d i m
o strare che la costanza e la prudenza sono qualità meno del popolo regolato da
leggi e più del principe e degli ottimati regolati dalle leggi,egli diviene
aspro e quasi violento contro il popolo : « Perchè dove è
CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 23 minor
numero,èlavirtùpiùunita,epiùabileapro durre gli effetti suoi ; vi è più ordine
nelle cose, più pensieroedesame,ne'negozîpiùrisoluzione;ma dove è
moltitudine,quivi è confusione; e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono
varî giudizî,varî pensieri, varî fini, non può essere nè discorso
ragionevole,nè riso luzione fondata, nè azione ferma. Però non senza cagione è
assomigliata la moltitudine alle onde del
mare,lequalisecondoiventichetiranovannoora in qua ora in là, senza alcuna
regola, senza alcuna fermezza.' I principi e con essi i più eminenti
statisti della Rinascenza avevano la convinzione essere le istitu zioni un
trovato dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere senza badare alla
responsabilità delle azioni, nè alla violenza che isovrani avrebbero esercitata
so pra i soggetti. Essi non sospettavano che il governo di un popolo dovesse
sgorgare direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno nelle tradizioni
del paese. Il Guicciardini soltanto in parte era di ciò persuaso ; vagheggiava
un governo misto, ma inten deva accordare al popolo la minore ingerenza
possibile in esso:pure ilregime desiderato da Firenze,eche era stato la gloria
della repubblica,era il democra tico, malgrado gli errori in cui era
caduto.Tuttavia a lui, osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle
cose e dice che un popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con
difficoltà mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia
stato libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo
caso si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos
sedette, ed essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche
la difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal
caso 1Op.cit.,pag.54,55. necessita fondare un governo
temperato,opprimere i nemici, lasciando sicuri quelli che vogliono vivere
bene.E più avanti:un principe che ha inimico il popolo,per la oppressione male
esercitata, vi rime dierà levando via le ingiurie e governando giusta mente,ma
non vi rimedierà se si trova davanti un popolo che vuole essere libero per aver
mano al go verno,perchè in questo caso sono vane le dolcezze.? Al Guicciardini,
nel meditare sulle vicende storiche del passato, appariva vana la speranza di
ritrovare il buono assoluto nelle forme di governo,perciò ne cer cava il buono
relativo che potesse reggersi in mezzo al trambusto degli avvenimenti
tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli stranieri.La società
trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi bisogni che occorreva
seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi estremi col cercare
l'armonia dei varî interessi. M a , ripetiamo, egli accordava al popolo una
piccola partecipazione al governo,mentre l'aveva avuta grandissima, e quindi
urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura delude con le sue
leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione di dominarla, non
cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione sul capitolo X V I ,
già da noi ricordata,ilGuicciardini mostra la differenza fra l'in dole sua e
quella del Machiavelli, il quale assicurava che in Roma antica non si poteva
trovare mezzo più efficace per cementare la libertà che ammazzare ifigli
diBruto.IlGuicciardini,rispondendogli,riconosce la
necessitàdituffareasuotempolemaninelsangue, tuttavia fa voti perchè « non
desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini
contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la
severità ;perchè se bene è necessario in 1Op.cit.,Considerazione sul
cap.XVI. 24 CAPITOLO SECONDO. 1 CONSIDERAZIONI INTORNO AI
DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 25 simili casi mettere mano nel sangue, sarebbe stato
meglio non avere avuto necessità, e che Bruto non avesse figliuoli, che averne
per avergli ammazzare.'> Nell'agitare la quistione sulla bontà dei governi,
si discute,dal Guicciardini e dal Machiavelli,non solo intorno ai mezzi di
ringagliardire la repubblica,ma a n c h e il p r i n c i p a t o . S e u n p r
i n c i p e , s e c o n d o il G u i c ciardini, si trova di fronte a un popolo
che ami la li bertà,ilsolo rimedio sarà quello « o di farsi dei par tigiani di
qualità, che siano potenti a opprimere il p o p o l o , o v v e r o , c o l b a
t t e r e e a n n i c h i l i r e il p o p o l o d i sorte che non possa
muoversi,introdurre nuovi abi tatori e di qualità che non abbino a avere causa
di d e s i d e r a r e l a l i b e r t à .? » C o s ì , s e n z a p a r e r e ,
e g l i s e m braaccostarsimoltoalleideediMachiavelli,ma tosto cerca di rendere
meno cruda e assoluta la sentenza emessa. « Però bisogna che il principe abbia
animo a usare questi estraordinarî,quando sia necessario; e nondimeno sia sì
prudente che non pretermetta q u a lunque occasione se gli presenti di
stabilire le cose sue con la umanità e co'benefizî, non pigliando così per
regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra
modo e rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il Machiavelli è d'opinione che a
fondare una re pubblica bisogni essere solo e che per questo fece bene Romolo
ad ammazzare ilfratello.A luirisponde ilGuicciardini: «Non è dubbio che uno
solo può porre migliore ordine alle cose che non fanno molti, e che uno in una
città disordinata merita laude,se, non potendo riordinarla altrimenti,lo fa con
la vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. M a è da pregare Dio che le
repubbliche non abbino necessità diessereracconcepersimilevia,perchè
glianimi 1 O p . c i t ., p a g . 3 4 . 2Op.cit.,pag.35. 3 O p . c i t .,
p a g . 4 1 , 4 2 . 26 CAPITOLO SECONDO. degli uomini sono fallaci
e può uno sotto questo onesto colore occupare la tirannide.> Inoltre « bi
sogna prima bene leggere e considerare la vita di Romolo,ilquale,sebbene mi
ricordo,sidubitò non fosse ammazzato dal senato,per arrogarsi troppa au
torità.'> E mentre il Machiavelli entusiasmato parla della generosità d'animo
del suo principe legislatore, che, compiuta l'opera, senza lasciare lo Stato ai
figliuoli, lo affida alle cure vigili del popolo, ecco il Guicciardini
interromperlo e osservare che « questi pensieri che i tiranni deponghino le
tirannidi,e che i re ordinino bene i regni, privando la loro posterità della
successione,si dipingono più facilmente in su'li bri e nelle immaginazioni
degli uomini,che non se ne eseguiscono in fatto.”» Ammette,col Machiavelli, la
frode, la violenza, l'inganno,per cementare salda mente uno Stato, ma vuole
attenuare il fatto, e ne discorre con parole moderate e suggerite dal buon
senso. Così pure non condivide gli entusiasmi del M a chiavelli sull'uomo
destinato a dare nuova vita a un popolo, sebbene egli creda gli uomini meno cattivi
di quelloche sono reputati dal segretario fiorentino. Dimostra il Machiavelli
che si viene di bassa a gran fortuna, più con fraude che con la forza ;m a il
Guicciardini osserva : « Se lo scrittore chiama fraude ogni astuzia o
dissimulazione che si usa anche senza dolo, può essere vera la conclusione
sua,che la forza sola,non dico mai,che è vocabolo troppo assoluto, ma rarissime
volte conduca gli uomini da bassa a grande fortuna.Ma se chiama fraude quella
che è proprio fraude, cioè il mancamento di fede, o altro procedere
doloso,credo si trovino molti che hanno senza fraude acquistato regni e imperî
grandissimi. Di questi fu Alessandro Magno,di questi Cesare,che di cittadino
privato con altre arti che di fraude si 1-2 Op.cit.,pag.22,23,26.
CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. Presuppone il Machiavelli
che tutti gli uomini sono cattivi ed essere necessario all'ordinatore di una re
pubblica infrenarli con le leggi,perchè non operano mai ilbene se non per
necessità.IlGuicciardini è con trario a questa sentenza eccessiva, e crede la
maggior parte degli uomini inchinevoli più al bene che al male : e se alcuno ha
altra inclinazione, è così diffe rente dagli altri e spoglio dell'istinto che
ci porge lanatura,da doversipiùprestochiamaremostroche uomo.È
adunqueogniuomoinclinatoalbene,ma, essendo la natura sua fragile, può essere
deviata dal retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal
l'avarizia:leleggisidevonofareinmanierada impe dirgli di fare il male di cui
sente l'impulso, e nel tempo stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene il
Machiavelli essere sempre la frode un mezzo di in grandimento : il Guicciardini
talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata da parte,non in nome della
morale, m a di un ben inteso interesse. Il Machiavelli sostiene che nel mondo
fu tanto di buono in un'età quanto in un'altra,benchè varino i condusse a
tanta grandezza,scoprendo sempre l'am bizione sua e lo appetito di dominare . .
. . M a ,quanto alla fraude, può essere disputabile se sia sempre buono istrumento
di pervenire alla grandezza ;perchè spesso coll'inganno si fanno di molti belli
tratti,spesso anche l'avere nome di fraudolento toglie l'occasione di con
seguire gl'intenti suoi.'> Tutti e due eran d'accordo che l'inganno è
necessario per riuscire ad un buon fine, però il Guicciardini non accetta in
modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe renza della sua
indole, molto più pratica,se si para gona a quella del Machiavelli ; più
sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode conduce o non
conduce alla meta agognata. 1 O p . c i t ., p a g . 6 6 , 6 7 . ? O p . c i t
., C o n s i d e r a z i o n i a l p r o e m i o d e l l i b . I I , p a g . 6
0 , 6 1 . luoghi, la qual cosa equivale a dire che sempre nella u m
a n a f a m i g l i a il b e n e e il m a l e si e q u i l i b r a n o . A l l
' i n contro il Guicciardini, con mirabile penetrazione, e v o cando dinanzi a
sè le età passate,risponde di no :e a n che riconoscendo che l'antica non è
superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che la somma del
bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli esempî : « Chi
non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de'Greci e poi de'Romani la pittura
e l a s c u l t u r a , e q u a n t o d i p o i r e s t a s s i n o o s c u r e
in t u t t o il m o n d o ; e c o m e d o p o e s s e r e s t a t e s e p o l t
e p e r m o l t i secoli siano da centocinquanta o dugento anni in qua
ritornate in luce ? Chi non sa quanto a'tempi antichi fiorì non solo appresso
a'Romani,ma in molte pro vincie la disciplina militare, della quale i tempi n o
stri e quelli de'nostri padri e avoli non hanno veduto in qualunque parte del
mondo se non piccoli e oscuri vestigî ? Il medesimo si può dire delle lettere,
della religione, che senza dubbio in alcune età sono state sepolte per tutto,
in altre sono state in molti luoghi eccellenti e in sommo prezzo. Ha visto
qualche età ilmondo pieno di guerre,un'altra ha sentito e go duto la pace ;
dalle quali variazioni delle arti, della religione,dei movimeti delle cose
umane,non èm a raviglia siano anche variati i costumi degli uomini, i quali
spesso pigliano il moto suo dalla istituzione, dalle occasioni,dalla
necessità.?» Pel Guicciardini è indispensabile ai popoli la reli gione, in
ispecie quando viene usata come elemento di forza nello Stato, e ad esso
sottomessa : tuttavia non condivide col Machiavelli l'opinione che iRomani
abbiano dovuto alla religione una sì gran parte della loro potenza, e dimostra
avere le armi maggiormente contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla
terra. Alla questione sulla religione dei Romani si collega 28 CAPITOLO
SECONDO. 2 1 Op.cit.,Considerazioni al proemio del lib.II,pag.60,61.
Op.cit.,pag.26,30. e e 2 CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL
MACHIAVELLI. 29 quella particolare circa l'influenza del papato suide- '.
stinid'Italia,in cuiidue eminentipensatorihanno punti di contatto e altri che
li dividono. Afferma il Machiavelli avere la Chiesa cattolica di Roma tenuta
l'Italia divisa, ed essere stata causa che non potesse venire sotto un capo e
rimanesse sotto a più principi e signori, dai quali le venne tanta disunione e
debo lezza da cadere preda dei barbari potenti e di chiun
quel'assaltasse.IlGuicciardinirisponde:«Non si può dire tanto male della corte
romana,che non m e riti se ne dica più,perchè è un'infamia,un esemplo di tutti
i vituperî e obbrobrî del mondo.» È con vinto essere stata causa la grandezza
della Chiesa che l'Italia non sia caduta in una monarchia. Pure è dubbioso se
il non essersi organata nella monarchia sia stata felicitào infelicità di
questa nostra terra, poichè la divisione sua in tanti dominî, malgrado le
sofferte calamità, produsse le sue glorie comunali. Osservazione profonda e
vera,poichè se l'Italia fosse caduta sotto il dominio di uno solo, le varie
regioni, in cui si divise,non avrebbero prodotto l'energia in dividuale dei
comuni, che creò tanti tesori in molte parti dello scibile e della attività
umana, nei com merci e nelle industrie,preparando gli splendori della
Rinascenza,che furono fiaccola alla civiltà del mondo . Il Guicciardini
rimaneva ad osservare la realtà delle cose che aveva d'attorno e non voleva
seguire ilM a chiavelli,che lanciava il suo guardo di aquila oltre i c o n f i
n i d ' I t a l i a , a o s s e r v a r e il f o r m a r s i d e l l e n a z i
o n i u n i t a r i e , g i o v a n i e f o r t i, a v e n t i u n v i v o s e
n t i m e n t o p a trio. Secondo il segretario fiorentino,l'Italia,divisa e
debole,non poteva difendersidalle loro cupidigie d'in g r a n d i m e n t o , e
g i à c a d e v a s o t t o i l o r o c o l p i b r u t a l i, mentre nei
secoli passati, senza la piaga del papato, essa pure avrebbe potuto divenire di
mano in mano una nazione unita e forte sotto i suoi legislatori, ed ora non si
sarebbe trovata immersa in tante infelicità. Nella quistione sulla
lotta fra la plebe e la nobiltà, che agitò Roma e Firenze,non vanno d'accordo.
Il Machiavelli osserva che le divisioni di Firenze furono esiziali alla città,
perchè la vittoria del popolo porto larovinadeigrandi:quellediRoma inveceriesci
rono di grandezza allo Stato,perchè ilpopolo,rima sto a combattere sulla via
della legalità,si accontentò di rivendicare isuoi
giustidiritti;e,conseguitili,di vise coll'aristocrazia il governo. A queste
giuste e originali osservazioni risponde ilGuicciardini,e com batte la maniera
assoluta con cui sono dette : « Se da principio o non fosse stata questa
distinzione tra patrizî e plebei, o se almanco si fosse data la metà degli
onori alla plebe come si fece poi, non nasce vano quelle divisioni,le quali non
possono essere lau dabili,nè si può negare non fossero dannose,sebbene in
qualche altra repubblica manco virtuosa avrebbero fatto più nocumento. Laudare
le disunioni è come laudare in uno infermo la infermità,per la bontà del
rimedio che gli è stato applicato.?» E ponendo mente all'ambizione di
uominicospicui, che approfittarono delle lotte fra popolo e nobiltà per
impadronirsi del governo,ilGuicciardini dice come Appio Claudio fu rovesciato
dal potere non per essersi unito ai grandi a combattere ilpopolo,mentre doveva
fare altrimenti, m a perchè tentò di rovesciare la repubblica, la quale era
allora governata da ottime leggi,piena di santis simi costumi e ardentissima
nel desiderio della li bertà.Manlio Capitolino,sebbene procedesse contro
ilSenatoconartemeramentepopolare,purefuop presso dal popolo medesimo, appena
capì che cercava di spegnere la libertà. Silla occupò la tirannide a Roma
elastabiliconl'aiutodellanobiltà;ilDuca d’Atene si fece tiranno a Firenze col
favore dei grandi, che non seppe mantenersi fedeli per la sua impru O p . c i t
., p a g . 1 2 , 1 3 . 30 CAPITOLO SECONDO. 1 CONSIDERAZIONI
INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 31 denza e leggerezza. Cesare si fece
signore di Roma col favore della plebe.Così nell'una parte e nell'al tra si
trovano molti esempi e ciascuna parte ha le sue buone ragioni. « I partiti non
si possono pigliare con una regola generale, ma la conclusione s'ha a cavare
dagli umori della città, dall'essere delle cose che varia secondo le condizioni
dei tempi e altre oc correnze che girano.'> Secondo il Guicciardini chi ha
seco la nobiltà ha un fondamento più gagliardo di riuscita : chi ha il popolo
dalla sua parte ha più s e g u a c i , m a l a p o t e n z a s u a è m e n o s
i c u r a , p e r il m u tarsi degli umori della moltitudine. Il principio
annunziato dal Machiavelli che sono lodevoli i fondatori di una repubblica o di
un regno quanto vituperevoli quelli di una tirannide, è dal Guicciardini
trovato giusto. Però,egli dice con rettitu dine,non
bisognaconfonderegliesempî,perchè qual che volta può darsi che le forme della
libertà sieno così disordinate e le città ripiene tanto di discordie civili,da
condurre qualche cittadino,non potendo sal varsi altrimenti,a cercare la tirannide
o ad aderire a chi la cerca.Mentre è detestabile in Cesare,pieno dialtavirtù,ma
oppressodall'ambizionedeldomi nare : accade pure al governo della plebe di
diventare tirannico e allora,dai perseguitati,si desidera la m u tazione dello
Stato. Il Guicciardini,quando siferma a meditare sulla storia di Roma antica,
vi guarda dentro con l'occhio del politico,non con quello dello storico.Non si
cura di ricercare se i re sono esistiti veramente ovvero se simboleggiano le
varie età che si succedettero presso la gente romana così famosa : questi
dubbî,già balenati alla mente degli umanisti
delsecoloXV,nonlatoccanonemmeno.Egliguarda soltanto ai caratteri della politica
romana,e,contro il parere del Machiavelli, afferma che, eccettuata la 2 1
O p . c i t ., p a g . 5 2 . O p . c i t ., p a g . 2 3 , 2 4 .
disciplina militare, Roma ebbe un governo in molte
partidifettoso,come,peresempio,lafacoltà accor data ad un uomo di fermare le
azionipubbliche e le deliberazioni della città,come feceroiconsoli,anche
togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei consoli fu il diritto di privare
dell'autorità senatoria uomini onorandicomeMamercoEmilio.'Eglièpuredelpa rere
del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî fu occasione grande a chi
volle occupare la repub blica, perchè era istrumento a farsi amici i soldati
eseguitocoire.Mailfondamentodeimalifulacor ruzione della città,la quale,datasi
all'avarizia,alle delizie,era in modo degenerata dagli antichi costumi che ne
nacquero le divisioni sanguinose della città, dalle quali sempre ne'popoli si
viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu corrotta,la prolungazione
degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei tempi difficili usò molte
volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che « se non fussino state le pro
lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli altri che occuparono la
repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per altra via,essendo la
città c o r r o t t a .? » 32 CAPITOLO SECONDO. Non ostante la loro
somiglianza,idue grandi po litici fiorentini avevano tendenze intellettuali
diffe renti, e spesso si trovavano in disaccordo.Nelle m a s sime che
risguardano laguerra,ilMachiavelli sostiene che si deve fare col ferro e non
coll'oro :ibuoni sol dati soltanto sono il nervo della guerra e non l'oro : occorronocertoidanari,ma
insecondoluogo,essendo impossibile che abbino a mancare ai buoni soldati. Il
Guicciardini, che si attiene alla vita reale del se
coloXVI,incuinonc'eranoarmiproprie,sesiec c e t t u a il t e n t a t i v o f a
t t o i n F i r e n z e s o t t o il g o n f a l o n i e r e Pier Soderini, per
impulso generoso del Machiavelli ; 1 O p . c i t ., p a g . 5 4 . 2 O p . c i t
., p a g . 7 8 , 7 9 . CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL
MACHIAVELLI. 33 ilGuicciardini,ilquale era stato governatore di pro vincie,
commissario generale negli eserciti e cono sceva la venalità dei capitani e
delle milizie, che per il danaro calpestavano la fede giurata e rinne gavano
sin anche la patria,non poteva essere dello stesso avviso,sapendo per
esperienza che occorreva danaro per avere illustri capitani, milizie e buone
fortezze. Del resto, se egli sostiene che il danaro è il nervo della guerra,
non intende che i danari soli bastino a fare la guerra, nè siano più necessarî
dei soldati, perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi cola. All'incontro
intese « che chi faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo di danari e che
senza quelli era impossibile a sostenerla, perchè non solo
sononecessarîperpagareisoldati,ma per provve derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni
e tanti istrumenti che si adoperano nella guerra ;iquali ne ricercano tanto
profluvio,che a chi non l'ha pro vato è impossibile a immaginarlo. E sebbene
qualche volta un esercito scarso a danari con la virtù sua e col favore delle
vittorie li provvede,nondimeno ai tempi nostri massime sono esempli rarissimi
:e in ogni casoeinognitempononcorronoidanaridietroagli eserciti, se non da poi
che hanno vinto.'» A questo disaccordo si aggiunse l'altro intorno alle
fortezze e alle armi da fuoco,che ilMachiavelli, per stare troppo attaccato
all'esempio dei Romani, non tiene in nessun conto,dicendo le fortezze più dan
nose che utili. Il Guicciardini lo riprende con ragione e dice : « Non si deve
lodare tanto l'antichità che l'uomobiasimituttigliordinimodernichenon erano in
uso appresso a'Romani, perchè la esperienza ha scoperte molte cose che non
furon considerate dagli antichi,e,peressereinoltreifondamenti diversi,con
vengono o sono necessarie a una delle cose che non Op.cit.,pag.61,62. 1 3
ZANONI. convenivano,o non erano necessarie all'altre.Però se
iRomaninellecittàsudditenonusaronoedificarefor tezze,non è per questo che erri
chi oggidi ve le edifica : perchè accadono molti casi,per i quali è molto utile
avere fortezze. E quella ragione che si adduce nel Discorso, che le fortezze
danno animo a'principi a essere insolenti e fare mali portamenti, è molto fri
vola,perchè se s’avesse a considerare questo,avrebbe un principe a stare senza
guardia, senza esercito, senza armi. Dipoi le cose che in sè sono utili,non si
debbon fuggire, sebbene la sicurtà che tu trai da loro tipossa dare animo a
essere cattivo:verbigra zia,sideve biasimarelamedicina,perchègliuomini, sotto
fidanza di quella, si posson guardare manco da 'disordini e dalle cagioni che
fanno infermare ? ' Certo si deve deplorare che queste fortezze il Guic
ciardinilestimasseutilisoltantoaiprincipiper guar darsi dai popoli,desiderosi
di cose nuove,e tenerli obbedienti col terrore. Però, come è maraviglioso
questo duello tra due ingegni grandissimi che s'incontrano sul campo del
l'antica sapienza governativa:sono due gigantiuguali di forze, muniti delle
stesse armi,che si contendono una gloriosa vittoria nel più difficile
conflitto.IlGuic ciardini, come uomo di Stato, supera d'assai il M a
chiavelli,e bastano a dimostrarlole osservazioni che di mano in mano
contrappone ai Discorsi del celebre segretario sulla prima Deca di Tito
Livio,nelle quali, colla fredda acutezza della sua mente calma,colpisce sempre
il lato debole dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile,i
ragionamenti poetici ed entusiastici,mettendone a nudo ora la fallacia, ora la
indeterminata incertezza. Nella storia dei pen satori italiani non si trova una
figura che possa reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia Op.cit.,pag.70,71.
34 CAPITOLO SECONDO . 1 >> CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI
DEL MACHIAVELLI. 35 mancato al Guicciardini per continuare il suo esame intorno
ai discorsi del Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio,perchè ci avrebbe rivelato
maggior mente la potenza della vigorosa argomentazione del suo genio pratico di
fronte a quello idealista del se gretario fiorentino.Francesco Guicciardini. Guicciardini.
Keywords: implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guicciardini:
l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Guzzi – la lingua inaudita, la lingua inaudibile, la lingua audita -- (Roma).
Filosofo. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue – with a
foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al Liceo
classico statale Giulio Cesare. Direttore dei seminari del Centro studi Eugenio
Montale. La poetica di Guzzi, fin dall'inizio, si è concepita come
un'esperienza spirituale, una ricerca di stati più dilatati della coscienza,
sulla scia della linea che da Hölderlin, e attraverso Rimbaud, arriva fino al
nostro migliore ermetismo. La ricerca teoretica di Guzzi ha affrontato, in
particolare nel saggio filosofico La svolta, significativamente sottotitolato
"La fine della storia e la via del ritorno", il tema del cambiamento
epocale che a suo avviso l'uomo è chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e
fuori di sé. Opere: Raccolte di poesia Anima in vetrina, Il Giorno, Scheiwiller, Teatro Cattolico,
Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza, Jaca, Preparativi alla vita terrena, Passigli, Nella
mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline, Saggi di filosofia e di religione La Svolta,
Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio,
Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La
profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità,
Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine
all'inizio, Paoline, Dodici parole per
ricominciare, Ancora Il cuore a nudo,
Paoline, Buone Notizie, Ed. Messaggero Imparare ad amare, Paoline L'Insurrezione dell'umanità nascente,
Edizioni Paoline, Fede e Rivoluzione,
Paoline Il profilo dell'Uomo di Dio,
Paoline Alla ricerca del continente
della gioia, Paoline “Dizionario della
lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with
‘lingua inaudita’ – literally ‘unheard of’ – but ultra-literally turns his
dictionary into a magical oxymoron! Marco Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua
inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.
Grice e
Guzzo – pagine di filosofi per i giovani italiani – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I admire Guzzo; he founded
‘Filosofia,’ a philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected
‘pagine di filosofi per i giovani italiani.’ He wrote interesting essays on
“Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a very systematic
philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes sphynx – that says
it all!” Si laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e
Pisa. Fonda "Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo
di Gentile. È considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo.
Saggi: “Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”;
“Idealisti ed empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo”
(Brescia, Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”;
“Religione; “Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario
Biografico degli Italiani, Treccan. AUQUSTO GUZZO L’ISAGOGE
DI PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO EDIZION B . i
697 I . 173 ' aa TORINO I DE
“L’ERMA,- X I I T^37 AUGUSTO GUZZO L’ISAGOGE DI
PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO TORINO
EDIZIONI DE “L’ERMA, X I I & ,173
Ù‘ì ESTRATTO DAGLI Annali delV Istituto Superiore di Magistero
del Piemonte. Voi. VII
XII TORINO -XII TIPOGRAFIA DPIGLI ARTIGIANELLI (G.
RoSSIj VIA JUVARA, 14 445'/^59 L’Isagoge di
Porfirio e i Commenti di Boezio SOMMARIO 1. Il
Commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele. — 2-5. Questioni su le
Categorie. — 6. L’Isagoge. Il prologo. — 7-9. Il primo commento di Boezio
al prologo dell’Isagoge. — 10-12. Il secondo commento di Boezio. — 13. Le
cinque voci. — 14. Il genere. 15. La specie. 16. La differenza. — 17. La
qualità. — 18. L’accidente. — 19. Quel che hanno di comune le cinque
voci. — 20. Comparazione del genere con le alti e quattro voci. —
21. Comparazione della differenza con le altre quattro voci. — 22.
Comparazione della specie con le altre quattro voci. — 23. Comparazione
della proprietà con le altre quattro voci. — 24. Comparazione
dell’accidente con le altre quattro voci. — 25. Il primo commento di
Boezio alla dottrina delle cinque voci. — 26. Il dialogo premesso
al primo commento di Boezio. — 27. Divisione della filosofia. — 28-33. Il
secondo commento di Boezio. — 34. Conclusione. (*) (*)
Queste esposizioni di antichi testi molto famosi ma poco letti co-
stituirono l’argomento del corso di Pedagogia da me professato
nell’Istituto Superiore di Magistero del Piemonte nell’anno accademico
1927-28. Volevo dare una conoscenza possibilmente precisa di quel che era
l’istruzione c la cultura nell’alto medioevo : ed esposi i testi che in
quei secoli erano più meditati lumeggiando, di scorcio, anche lo sfondo
d’idee su cui sorse più tardi, sui primi periodi déìVIsagoge, la disputa
degli universali. Testi di
1. — Porfirio, che è autore della celebre « Isagoge, o In- troduzione
alle Categorie di Aristotele » , è anche autore di un meno noto Commentario
alle medesime Categorie. Sarà utile studiare almeno la prima parte, cioè
la parte introduttiva di tale Commentario: forse si troverà in essa la
spiegazione del punto di vista dal quale si pone Porfirio nella « Isagoge
» . Questo Commentario ci è pervenuto mancante delPultima
parte - quella riguardante le ultime quattro categorie e i
post-predicamenti - e assai scorretto e guasto anche nella parte
precedente. Lo si trova in un codice modenese miniato del secolo XIII, in
un codice della Marciana del secolo XV, in uno delPEscuriale del secolo
XVI, in uno parigino dello stesso secolo XVI, in uno della Laurenziana
del secolo XV. E' però dimostrato che di tutti questi codici il primo, da
cui tutti gli altri dipendono direttamente, è quello modenese.
Di sul codice parigino il commento fu stampato a Parigi nel 1543 «
apud Jacobum Bogardum ». Su questa edizione, che è Pedizione principe,
del Commentario, fu condotta la versione latina di Feliciano, stampata in
Venezia « apud Hieronymum Scotum ». L’ « edizione critica » è del 1887, e
si deve alle cure logica che, ad esporli, si può tutt’al più
riescire chiari; ma avviciuarli alla comune cultura può forse essere
utile. Anche questo corso, che era rimasto inedito, va messo tra i lavori
da me preparati per l’Istituto Supe- riore di Magistero del Piemonte. Mi
sia permesso enumerarli : Apologia dell’idealismo (Discorso inaugurale
dell’anno accademico 1924 25), Torino, Paravia, 1925; Introduzione e
Commento al i^edone di Platone, Commento alla Repubblica di Platone,
Agostino: dai Contra Academicos al De Vera Religione^ Firenze, Vallecchi,
1925; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro- duzione, Commento e
Appendici, Firenze, Vallecchi, 1926; Tommaso d’Aquino, Il maestro,
Traduzione, Introduzione e Commento, Firenze, Vallecchi, 1927; Giudizio e
azione, Venezia, «La Nuova Italia», 1928; Agostino e il sistema della
grazia, Torino, «L’Erma», 1930 (1934®); Il concetto di individuazione e
il problema morale (Discorso inaugurale del- l’anno 1930-31), Torino, «
L’Erma », 1931; La « Summa contra Gentiles », Torino, « L’Erma », 1931 ;
I Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma », 1932. di Adolfo Busse, nell’edizione dei commenti
greci ad Aristotele, promossa dall’Accademia Prussiana (Voi. I, pars. I «
Porphyrii Isagoge et in Aristotelis Categorias commenta rium edidit
Adolfus Busse. — Berolini, Typis et impensis Georgii Reimer —
MDCCCLXXXVII »). Il Commento procede per yììx di domanda e
risposta. E’, in londo, un dialogo, ma in cui le persone degli
interlocutori non hanno alcun rilievo ; la « domanda » parte da uno che
non sa e chiede spiegazioni : la c Risposta » enuncia, evidentemente,
la soluzione che Porfirio crede si possa e si debba dare alle varie
questioni. Le quali se, da un certo momento in poi, riguardano il più giusto
significato da attribuire alla lettera del testo aristo- telico, prima
vertono su problemi che investono rimpianto stesso del piccolo scritto
aristotelico. 2. -- Prima questione. — « Categoria » in greco vuol
dire € accusa », « denunzia ». Come mai Aristotele chiamò
Categorie l'essenza, la quantità, la qualità, ecc.? La risposa è che il
filo- sofo, costretto talvolta a coniar parole nuove, tal’altra a
dare un significato nuovo a parole consuete, adoprò la parola «
Cate- goria » per indicare le « espressioni enunciative delle cose
» (tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv TUpaYixatcov xat-
YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice espi*essione
enunciativa, quando sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si
dice categoria. Per esempio: se la cosa che vien mostrata è questa
pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo: «questa è
pietra», l'espressione «pietra» è il categorèma, giacché indica la cosa e
vien detta di essa. 3. — Seconda questione. — Aristotele chiamò il
suo scritto « Categoi'ie » o, come altri, « Le dieci Categorie » ?
Porfirio risponde respingendo tanto questo titolo dello scritto
quanto gli altri : « Prima della Topica », « dei generi dell'essere »
« dei dieci generi > . Non « Prima della Topica » perché in tal
caso sarebbe stato più esatto dire «Prima degli Analitici», anzi « Prima
deU’interpretazione » : chè il libro delle Categorie è il più elementare
e introduttivo a tutte le parti della filosofìa, E piuttosto sarebbe <
Prima della parte fisica della filosofia » . anziché « Prima della Topica
» : chè è opera della natura « l’es- senza, il quale e simili » .
Nè lo scritto potrebbe in nessun caso intitolarsi « Dei generi
dell’essere » o « dei dieci generi » « perchè gli esseri e i loro generi
e le specie e le differenze sono cose e non voci » : e invece Aristotele,
enumerando le dieci categorie, l’essenza, il quale, il quanto e le
rimanenti, dice: «ciascuna delle dette si dice per sé stessa, non per
attribuzione, mentre l’attribuzione, 0 affermazione, avviene mediante
connessione di esse tra loro ». Or se è la connessione delle categorie
quella che dà luogo alle asserzioni, e se le asserzioni consistono in
voci indicative e discorsi dimostrativi (èv oyjaavrix-^ xai
àTio^avTixij)), lo scritto aristotelico non può riguardare i generi
dell’essere, nè in generale le cose: chè non la connessione delle cose
costi- tuisce asserzione, bensì la connessione delle voci
significative che indicano le cose. E Aristotele stesso dice:
« ciascuna delle categorie dette senza alcuna connessione significa o
l’essenza o il quanto », con quel che segue. Ora, se Aristotele parlasse
di cose, non direbbe « significa l’essenza », chè le cose non
significano, bensì sono significate. _ Ciò che significa è la
voce, la parola: di voci, di parole dunque, tratta Aristotele nelle
Categorie. Perchè, poi, debba essere questo il titolo dello
scritto, sarà chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il
contenuto proprio del libro. 4. — Terza questione. — Quale è
dunque il contenuto proprio delle Categorie? Porfirio
risponde rifacendosi di lontano. • L’uomo - egli scrive -
giunto a indicare e significare le cose circostanti, pervenne a nominarle
con la voce e a indicare con questo mezzo ciascuna di esse. Il primo uso
che egli fece delle parole fu rivolto a mostrare ciascuna cosa per mezzo
di voci e di parole; col quale riferimento delle voci alle cose
questo chiamò sedile, quello uomo, quell’altro cane e quell’altro
sole: e ancora questo colore chiamò bianco, quello nero; e questo
chiamò numero, quello grandezza ; questo due cubiti, quello tre cubiti; e
cosi per ciascuna cosa stabili parole e nomi signifi- cativi di esse e
indicativi mediante determinati suoni della voce. Stabilite dunque
per le cose, come contrassegno, talune parole, Tuomo, passando ad una
seconda impresa e riflettendo sulle parole stabilite, quelle che si
uniscono agli articoli chiamò nomi, e quelle come « io passeggio, tu
passeggi » chiamò verbi. Di modo che, se nella prima imposizione » di
nomi questo chiamò oro e quello sole, nella seconda la voce < oro »
chiamò nome e la voce < passeggio » verbo. Ora il
contenuto delle Categorìe d’Aristotele è precisamente il primo
stabilimento delle parole, quello che mostra le cose: giacché studia le
voci significative semplici, in quanto signifi- cative delle cose,
distinguendole non l’una dall’altra individual- mente, chè, di numero, le
voci sono infinite come le cose che significano, ma distinguendole secondo
il genere a cui appar- tengono. Ora l’infinità degli enti e delle parole
che li significano si lasciano ridurre a dieci generi: giacché dieci sono
le diffe- renze di genere degli enti, e dieci anche le voci che le
indicano. Ma questo fatto che le voci, simili a messaggere, prendano
le differenze dalle cose che annunziano, non toglie che la ricerca
principale sia, nelle Categorie^ intorno alle voci significative, e non
intorno alle differenze di genere degli enti. Dieci sono i generi
delle parole in quanto significative di cose: ché significano o l’essere
(la sostanza), ó la quantità, la qualità, la relazione, ecc. (i nove
accidenti della sostanza). Due, invece, sono le parole che significano il
tipo a cui appartengono ; giacché tutte le voci sono di due tipi: o
nomi o verbi. Alla quale seconda ricerca - grammaticale, non logica,
diremmo noi > appartiene anche distinguere la espressione propria
dalla metaforica e dagli altri tropi. Presentata cosi la
ricerca delle Categorie come una ricerca nè metafìsica, nè grammaticale,
nè retorica - non metafìsica perchè secondo Porfirio, è incidentale il
riferimento ai generi delPessere, essendo Pattenzione rivolta ai generi
delle parole significative, in quanto appunto significano questo o
quello; non grammaticale, perchè nelle « Categorie » non si
distinguono tra loro le varie parti del discorso, che è distinzione
tardiva rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò che
signifi- cano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. - Porfirio
osserva che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca delle
Categorie come una ricerca, noi diremmo, di filosofia del linguaggio, e
gli antichi dicevano di logica, comunemente iden- tificando col pensiero
la sua significazione verbale, si schieravano tanto quelli che ritenevano
oggetto principale delle Categorie la ricerca metafisica intorno ai
generi dell’essere, quanto quelli che. credendo oggetto delle Categorie
la ricerca retorica delle espressioni proprie e delle figurate, ritenevano
la distinzione aristotelica delle Categorie o insufficiente o
incomprensiva o, al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per
esempio, i seguaci di Atenodoro e di Cornuto, studiando le
espressioni proprie ed improprie, e volendo sapere a quali categorie esse
appartenessero, non trovando nello scritto aristotelico risposta a tale
domanda, ritennero manchevole e difettosa Penumerazione aristotelica,
come non comprensiva di tutte le voci significative. Invece, secondo
Porfirio, rettamente intesero lo scritto d’Ari- stotele Poeto nel suo
commento alle Categorie, e più brevemente Erminio. Il quale dice che la
ricerca non verte nè su quelli che in natura sono i primi e generalissimi
generi (che non sarebbe insegnamento adatto ai giovani), nè studia quali siano
le prime ed elementari differenze delle parole, come se la
trattazione riguardasse le parti del discorso; ma piuttosto verte sulla
spe- cie di parole che risulti appropriata a ciascun genere di
enti: onde fu necessario toccare in qualche modo dei generi, a cui
le parole si riferiscono : chè non si intenderebbe la significazione
propria di ciascun genere se qualcosa intorno ad esso non s’an-
ticipasse. Poiché dieci sono i generi, dieci sono le categorie. E
si potrebbe magari anche intitolare lo scritto aristotelico Dei
dieci generi » se con ciò si significasse solo un riferimento ai dieci
generi, giacché non di essi si occupa principalmente il libro. 5. —
Quarta Questione. — Perchè il libro verte su le « Cate- gorie > e
s’inizia con una trattazione su gli omonimi e i sinonimi?
Perchè queste sono distinzioni delle quali Aristotele deve fare uso
in tutto l’Organo: perciò le premette ad ogni altra considerazione.
Tralasciamo, ora, il seguito del Commento Porfiriano; ma ci gioverà
aver visto come Porfirio intendesse quelle Categorie alle quali s’assunse
lo storico compito di « introdurre » . 6. — La celebre « Isagoge »
di Porfirio tratta del genere, della differenza (che, entro ciascun
genere, distingue l’una dall’altra le specie), della specie, della
proprietà (che caratte- rizza ciascun genere e ciascuna specie) e
dell’accidente (che, senza essere intrinsecamente « proprio » d’una
sostanza, le si attaglia in talune circostanze). La
trattazione del genere è, però, preceduta da una famosa introduzione,
nella quale Porfirio si rivolge a Crisaorio, patrizio romano suo
discepolo, dicendo: « Poiché, 0 Crisaorio, è necessario anche per
la dottrina « aristotelica delle Categorie, sapere che sia genere e che
diffe- « renza, e che sia specie e che proprietà e che accidente; «
siccome e per assegnar le definizioni e in generale per quel « che
riguarda la divisione e la- dimostrazione è utile l’indagine « di tali
cose: io, facendo per te una compendiosa trattazione, < tenterò
brevemente, come a mo’ di introduzione, di spiegare « il pensiero degli
antichi, astenendomi dalle ricerche, più € profonde e investigando,
invece, opportunamente le più « semplici » . Le ricerche più
profonde, da cui Porfirio professa di astenersi, riguardano la realtà dei
generi e delle specie, in una parola degli universali. Difatti Porfirio
continua: « Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o
invece c stiano solo nel pensiero e, dato che esistano, se siano corpi
« 0 incorporei, e se separati o esistenti nei sensibili e non « fuori di
essi, io eviterò di dire, profondissima essendo questa « questione e
richiedendo essa altra maggiore ricerca » . Onde Porfirio conclude
dicendo che si limiterà a cercare d’esporre a Crisaorio ciò che gli
antichi meditarono intorno a questi argomenti, e tra essi specialmente i
Peripatetici. Porfirio, dunque, tratterà dei generi e delle specie
senza determinare se siano idee, cioè enti metafisici, o semplici
concetti, esistenti solo nella mente che li pensa. Ma, per conto suo, per
quale di queste dottrine propende? Grià si è visto che egli
considera generi, specie e differenze « cose, non voci » e che, in
generale, ritiene che le distinzioni logiche trovino la loro ragion
d’esseie in altrettante distinzioni metafisiche di cui si fanno
espressione. Per Porfirio dunque, generi e specie riguardano l’essere, e
se egli prelude alla Logica aristotelica trattando di essi, in fondo egli
ridà alla Logica d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica,
tutta diretta a distinguere generi e specie e valida, nel pensiero di
Platone, tanto oggettivamente, come metafisica, quanto
soggettivamente, come logica. Questo punto di vista
realistico da cui è scritta l’intera < Isagoge » non sfugge, nonostante
tutto, al commentatore Boezio, il quale torna sulla importante questione
cosi nel primo come nel secondo dei suoi commenti all’Isagoge. È
noto che i due commenti son diversi tra loro in quanto il primo si dirige
ai principianti e quindi evita le discussioni troppo complicate e
sottili, il secondo, invece, vuol indurre i discepoli già provetti a una
ginnastica mentale adatta alle loro ‘forze e alla loro preparazione. Non
è meraviglia, quindi, che la « questione degli universali » — giacché ormai
di essa si tratta — sia impostata diversamente nei due commenti, sebbene
la trattazione giunga a risultati assai affini. 7. — Il primo
commento di Boezio giunge a interpretare il prologo deirisagoge solo al
decimo capitolo, e mostra chiaro lo sforzo di ricorrere alle
argomentazioni e dimostrazioni più semplici, affinchè i principianti
possano intenderle ed afferrarle. In verità Porfirio pone e rinvia
tre questioni: 1) - se generi e specie esìstano davvero o stiano solo
neirintelletto e nella mente; 2) - se siano corporei o
incorporei; 3) - se siano separati o uniti con i sensibili.
Rispetto alla prima questione « se generi e specie esistano
davvero, o stiano solo nell’intelletto e nella mente », Boezio sembra
interpretarla in un modo che forse non coincide inte- ramente con ciò che
intendeva Porfirio. Questi, forse, intendeva domandarsi: generi e specie
sono idee platoniche, cioè enti, o invece concetti aristotelici, cioè
universali puramente mentali nati nel pensiero e dal pensiero? Se sono
idee platoniche, si intende che sono, non solo incorporee, ma separate.
Se invece sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella mente,
a forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili.
La questione, dunque, è : gli universali vanno concepiti plato-
nicamente, ante rem, o aristotelicamente, post rem, giacché in re essi
esistono, ma intimi alle stesse cose particolari ? Se questo è ciò
che intende domandarsi Porfirio, si capisce come egli preferisca
rimandare questa controversia prò Platone 0 prò Aristotele a un momento
in cui il suo discepolo Crisaorio sia già innanzi negli studi filosofici.
Ma Boezio intende la que- stione in maniera assai diversa. Egli non
intende i generi e le specie se non come universali mentali post rem,
come con- cetti aristotelici. La conoscenza si inizia con la
sensazione: per sensuum qualitatem res sensibus subiectas (animus)
intel- legit Dalla sensazione lo spirito parte per concepire le
specie ed i generi: et ex bis (le cose sensibili) quadam
speculatione concepta, viam sibi ad incorporalia intellegendapraemunit,,.
Così, quando vede i singoli individui umani, sa d’aver visto
uomini, sa che sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito
sale a discernere la stessa specie « uomo », incorporea perchè non
si concepisce che con la mente e rintelligenza. Ma, come movendo
dalla sensazione lo spirito giunge a comprendere le cose incor- poree,
così, movendo dalle stesse sensazioni, lo spirito arriva a immaginarsi,
per esempio, i Centauri, la cui fallace imma- gine si compone di elementi
della forma umana ed elementi della forma equina. Or si domanda: generi e
specie sono con- cepiti con verità, sicché comprendiamo la specie uomo
giusta- mente ricavandola dai singoli uomini coi'porei, o invece
sono immaginati con finzione mentale pari a quella di cui parla
Orazio nell’Arte Poetica, quando dice: « fiumano capiti cer- vicem pictor
equinam iungere si velit » ? Come si vede, Boezio non crede che la
domanda di Porfirio sia rivolta a sapere se gli universali siano reali o
puramente mentali, ma se siano concetti veri o pure finzioni
delPimma- ginazione. Il che significa porsi già su terreno
prettamente aristotelico, giacché tutto si riduce a domandare se gli
uni- versali post rem siano rettamente pensati o fallacemente imma-
ginati, o, con altre espressioni, se siano concetti o puri sogni e
chimere. La risposta che Boezio dà a questa domanda è, se non
er- riamo, singolarmente infelice. Per lui non è dubbio che i
generi e le specie « sono veramente»: «difatti, come tutte le cose
che veramente sono senza queste cinque: non possono essere, così non
si può dubitare che anche queste cinque son concepite con verità (vere
intellectas) » . Che è una strana maniera di presupporre gli universali
reali nelle cose sensibili, quando proprio la domanda è se gli universali
siano reali o fallaci- Per Boezio generi, specie, differenze, proprietà,
accidenti, queste cinque distinzioni nelle cose sono « conglutinatae et
quodam- modo coniunctae atque compactae ». Difatti, perchè
Aristotele parlerebbe delle prime dieci espressioni (sermonibus)
signifi- canti i generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro
diffe- renze e proprietà e toccherebbe degli accidenti, se non li
avesse visti nelle cose intrinsecati e in qualche modo riuniti ( <'
in rebus intima et quodammodo adunata » ) ? In base a questa
argomentazione Boezio conclude che « se è cosi, non c’è dubbio che siano
veramente e sian tenute (le cinque distinzioni) con giusta riflessione
(«certa animi consideratione >). Ma si vede chiarissimo che
Boezio dà per certa e dimo- strata la concezione aristotelica degli
univeisali come forme immanenti nelle cose particolari, onde conclude che
lo spirito, pensandoli, è nel vero e non neirerrore delle pure
finzioni immaginarie. Ma se la questione era per Porfirio se gli
uni- versali fossero reali o puramente mentali, e per Boezio se
fos- sero concetti veri o mere finzioni immaginarie, nè la
questione porfiriana, nè quella boeziana possono essere risolte con
Tappel- larsi alla concezione aristotelica di universali reali nei
parti- colari, e quindi veri, post rem, nello spirito umano. Questo
è un affermare il temperato realismo aristotelico, non un l isol-
vere la questione con un procedimento dimostrativo. Boezio presuppone
dimostrato Taristotelismo per decidere in senso aristotelico e su V
autorità di Aristotele la questione da lui posta. Senonchè
Boezio trova un’altra conferma realistica- della sua opinione nell’assenso,
per quanto tacito, dello stesso Porfirio. Giacché, egli dice, Porfirio,
come se già fosse risaputa e pro- vata la realtà degli universali,
domanda se siano corporei o incorporei. La quale domanda sarebbe troppo
frivola e assurda se non si fosse prima assodata, per gli universali,
quella realtà che ora si domanda se sia corporea o incorporea. Ma
anche qui forse Boezio, neirinterpretare Porfirio, va lontano da
quello che egli intendeva dire. Porfirio forse domandava: — generi e
specie sono reali o puramente mentali? Se reali, nel senso platonico,
sono enti incorporei; se meramente mentali, non si può ad essi attribuire
altra realtà che nei corpi stessi. Vale a dire, se reali, nel senso
platonico, sono separati: se meramente men- tali, non possono concepirsi
che immanenti nei corpi, congiunti con essi e da essi inseparabili,
tranne che per astrazione nel pensiero umano. Se questa che
qui proponiamo fosse una interpretazione plausibile del celebre prologo
porfiriano, le domande ivi contenute in realtà non sarebbero tre, ma una
sola: gli universali sono reali, o mentali? vale a dire, sono incorporei,
o esistono nei corpi? cioè, sono separati, o intrinsecati nei corpi e da
essi inseparabili ? Ma Boezio le intende come tre domande,
ciascuna delle quali presupponga già risolta in un determinalo senso le
precedenti. Difatti, egli dice: solo se alla prima domanda « se gli
universali siano reali » si risponde affermativamente, si può poi
domandare se esistano come corpi o come incorporei ; e parimenti, solo
se a questa domanda si risponda affermando Tincorporeità degli
universali, si può domandare se, essendo incorporei, esistano separati
dai corpi o siano da essi inseparabili. 8. — Rispetto alla seconda
questione « se gli universali siano corpi 0 incorporei » Boezio tratta
separatamente il genere dalla specie. Quanto al genere egli
dice, « quia incorporeorum prima natura est», può una cosa incorporea
essere madre di una corporea, ma non viceversa, giacché, la sostanza
essendo il genere, e corporale e incorporale le specie, il genere non
può essere corporale, chè, se fosse tale, la specie incorporea non
potrebbe subordinarglisi. Dal che discende che il genere non deve essere
nè corporeo nè incorporeo, si da poter avere per specie così il corporeo
come Tincorporeo. (E qui Boezio solleva una questione di
grandissima importanza. Se il genere non può avere nessuna delle
determinazioni che costituiscono le proprietà delle specie e le loro
reciproche differenze, donde nascono nelle specie queste differenze che
nel genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? - Non si
può pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della
ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse- dere in
sè due contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che, per poter dare
luogo cosi alBuna come alEaltra delle due specie, il genere non abbia nè
Buna nè Taltra delle due differenze specifiche: non sia nè Tuna nè
l’altra specie, pur contenendole entrambe « vi sua et potestate » .
Ed anche questa è, come si deve, una soluzione prettamente
aristotelica della questione: il genere è «in potenza» le sue specie,
senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui il caso di
saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile tentativo di
spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del nascere delle
differenze, le presuppone già esistenti, e tuttavia non ancora reali,
giacché sono potenziali, virtuali). Si è visto dunque che per Boezio
il genere non è nè corporeo, nè incorporeo : il che significa, su questo
punto, non rispondere alla domanda di Porfirio, ma sottrarsi ad essa. E
la ragione di tutto ciò è chiara. Porfirio è tutt’ altro che convinto che
gli universali siano puri concetti: ecco perchè egli tende ad
affer- marli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali sono
semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto con Platone
ed anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura, prima del
corporeo, pure è costretto, dalla sua concezione mera- mente logica e non
metafisica degli universali come concetti e non come idee, a pensare il
genere come privo delle determinazioni che saranno proprie delle specie:
a costo di non sapere più d donde derivino alle specie queste differenze,
che sono estrai alla sola fonte delle specie che è il genere.
Ma Boezio si illude che ammettere la potenziale presei delle
differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà: ( inoltra nella
considerazione meramente logica del genere co semplice concetto, adatto
esclusivamente alle classificazi scolastiche dei concetti secondo la loro
estensione, mentre, ] Platone, il genere era pregnanza di realtà o
idea. Quanto alle specie Boezio ne ammette di corporee e di
ine poree: specie corporea Puomo; incorporea: Dio. Parimenti
le differenze: «quadrupede» è differenza cor rea ; < ragionevole *
differenza incorporea. Cosi anche le proprietà: corporee di cose
corporee; ine poree di cose incorporee. E lo stesso è degli
accidenti: accidente incorporeo è nello s ritolascienza: accidente
corporeo èsul capo la capigliatura cres Insomma per Boezio, solo il
genere è neutro, nè corpor nè incorporeo: ma le specie, le differenze, le
proprietà e accidenti sono corporei se appartengono ai corpi, incorporei
appartengono allo spirito. Senonchè, in questa teoria, lo stesso
Boezio, che non potuto riconoscere incorporeo il genere per la sua
conside zione meramente logica di esso, ammettendo corporee le spe(
le differenze, le proprietà e gli accidenti delle cose corpor rinunzia a
considerare specie, differenze ecc. come distinzi meramente logiche, e
non solo le pensa metafisicamente intr secate nelle cose singole, ma
fatte una cosa sola con esse, da ricevere la loro stessa natura.
Torna, bensì, a una considerazione meramente logica de distinzioni
porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora espos una seconda teoria, che
peraltro egli presenta come una teo altrui. Secondo questa teoria il
genere va considerato coi genere, come pura determinazione logica o
concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere considerata come una
sostanza, ma come un genere, cioè come qualcosa che ha delle specie
sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo saranno specie
della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure specie, cioè come
concetti che stanno sotto un genere. Pari • menti le differenze: bipede e
quadrupede sono differenze in quanto Puno contrapposto all’altro : vanno,
dunque, considerati non come un bipede e un quadrupede, ma come pure differenze
logiche. Similmente le proprietà non vanno considerate nel loro
contenuto, ma come pure caratteristiche logiche della specie. Così
intesi, generi, specie, differenze e proprietà, come pure distinzioni
logiche, non possono essere, secondo la teoria che Boezio espone senza
aderii-vi, se non incorporei. Mentre gli accidenti avrebbero la natura
delle cose a cui accadono: sareb- bero quindi corporei o incorporei a
seconda delle sostanze. Sia qui notato subito che questa
affermazione metafìsica della incorporeità di quattro fra le cinque
distinzioni porfiriane proprio perchè distinzioni meramente logiche, è
una afferma- zione cosi male impostata da non poter resistere alla più
sem- plice critica. Come semplici distinzioni logiche esse non hanno
nessuna natura: il loro contenuto ha una determinata natura, non esse:
nella specie < uomo », l’uomo è corporeo e ragionevole, ma € la specie
» nè corporea nè ragionevole. Affermare quindi la incorporeità della
specie come distinzione logica, come con- cetto, è impossibile; per dirla
incorporea bisogna considerarla come idea, come ente metafìsico, non come
determinazione lo- gica. Ma dirla incorporea perchè logica è un abuso
inammis- sibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo oscillar
e tra logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella
ti'adizione aristotelica. Pensati gli universali come concetti, essi non
sareb- bero più suscettibili di nessuna considerazione metafìsica:
in- vece continuano a essere dichiarati, metafìsicamente,
incorporei, primi per natura, ecc., mentre, come puri concetti, essi non
sono che vuoti termini classifìcatorii. Ma Boezio continua a
esporre la teoria della incorporeità delle distinzioni logiche, dicendo
che coloro i quali sostengono tale teoria s’appoggiano all’autorità di
Porfirio stesso, il quale, come se fosse già dimostrata la incorporeità
dei generi, delle differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti
alle cose sensibili: chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo
domandare se siano disgiunti dalle cose sensibili o congiunti. Boezio,
in- vece, dà tutt’altra interpretazione a questa domanda
porfiriana, in quanto la intende come se suonasse: «gli universali sono
sempre separabili dai particolari sensibili, o a volte inseparabili?»,
e però non gli sembra che la domanda porfiriana presupponga, come
se già fosse risaputa e dimostrata, l’incorporeità di tutte le specie,
differenze, proprietà, ecc. in quanto pure determina- zioni
logiche. 9. — Egli passa perciò a interpretare direttamente la
terza domanda, lasciando da parte la teoria della incorporeità dei
concetti, ed ha l’aria di averla riferita a puro titolo di infor-
mazione, ma ritenendola infondata e insostenibile. Per lui, dunque, le
specie sono talune corporee, talune incorporee. Si domanda se siano
sempre congiunte alle cose particolari, o pos- sano a volte
disgiungersene. Boezio, per chiarire la domanda porfiriana,
distingue tre specie di cose incorporee: 1) — Cose incorporee
affatto insuscettive di corpo, come lo spirito e Dio; 2) —
Cose incorporee inconcepibili senza i corpi, come lo spazio vuoto che è
immediatamente oltre i termini di una figura geometrica ; 3)
— Cose incorporee che sono corpi e possono essere senza corpo, come
l’anima. Si domanda se generi, specie, differenze, ecc. siano di
quegli incorporei sempre separati da corpo, o di quegli altri che
mai non possono separarsene, o infine di quelli che a volte si uni-
scono, a volte si separano. La risposta di Boezio è che possono
congiungersi e possono separarsi: che nelle cose corpoi'ee son congiunti
a corpo, nelle incorporee disgiunti da corpo. Ma non bisogna
credere che tutte le specie, le differenze, le proprietà, ecc. siano
congiungibili o disgiungibili dai corpi; al contrario quelle delle cose
corporee sono inseparabili da tali cose corporee, come lo spazio è
inseparabile dai corpi che limita; e quelle delle cose incorporee, come
le proprietà dello spirito non si trovano che nello spirito, che è
perfettamente separato dal corpo. Boezio ribadisce la sua concezione : ci
sono due ordini di realtà: corporee ed incorporee; le incorporee
sono per natura e dignità anteriori alle corporee, e andrebbero
considerate come loro fonte: senonchè Boezio concepisce le corporee e le
incorporee come tra loro coordinate, e le subordina entrambe ad un genere
nè corporeo nè incorporeo, che avrà magari in sè la potenza delle une e
delle altre, ma che intanto, così astratto e sopraordinato ad esse, è il
vertice di una clas- sificazione logica da scuola, non la genesi del
reale. 10. — Nel secondo commento di Boezio le domande di
Porfirio sono presentate ed interpretate come nel primo: ma ne è
diversa la trattazione. Le questioni « et perutiles et secretae,
et temptatae quidem a doctis viris nec a pluribus dissolutae», non
trattate ancora da Porfirio per non ingenerare oscurità nel lettore
impreparato, ma tuttavia accennate affinchè il lettore, una volta
rafforzato dal sapere, sappia che domandare, sono da Boezio formulate
così : 1^. Lo spirito 0 , con Pintelletto, concepisce, afferra
quello che realmente esiste in natura e, con la ragione, lo copia
in sé stesso; oppure, con vuota immaginazione, dipinge a sé mede-
simo ciò che non esiste. Si domanda dunque come sia Pintendimento che noi
abbiamo del genere^ della specie, ecc. : se intendiamo generi e specie
come cose esistenti delle quali prendiamo vera comprensione, o se invece
noi stessi ci ingan- niamo immaginandoci con vano pensiero cose che non
sono. 2». Che se si ammette che dei generi, delle specie,
ecc. abbiamo un vero concetto, rimane da determinare se siano
corporei o incorporei: giacché tutto ciò che esiste deve essere corporeo
o incorporeo, e non si intenderà bene cosa siano i generi e le specie
finché non si sappia se porli tra le cose corporee o le incorporee.
3». Che, se si ammette che generi, specie, ecc. siano incorporei,
rimane ancora da stabilire se, pur essendo incorporei, esistano nei
corpi, o se invece sembrino essere sussistenze indipendenti anche senza
corpi. Giacché ci cono due specie di cose incorporee (qui Boezio sopprime
la terza specie da lui distinta nel primo commento: quella delle cose
incorporee che a volte si uniscono ai corpi, a volte se ne separano, e la
fonde senz’altro con la prima specie): ci son cose incorporee che
possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano nella loro
incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose incorporee, invece,
non possono esistere senza i corpi, come la linea, la superficie, il
numero e le varie qualità, che noi diciamo incorporee perchè non si
estendono nelle tre dimensioni, ma che esistono nei corpi siffattamente
da non poterne essere strappate o separate, o da svanire se separate dai
corpi. Come si vede, le questioni sono impostate come nel
primo commento. Ma qui Boezio si propone di trattarle altrimenti:
< primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate proponam, post vero
eundem dubitationis nodum absolvere atque explicare temptabo. »
Insomma, prima egli moverà un attacco, che vorrebbe essere a fondo,
contro ogni concezione platonica o aristotelica degli universali, sia
come reali, sia come concetti: poi giustifi- cherà la concezione
aristotelica tentando di dimostrare che son veri, nel pensiero, gli universali,
pur non essendo reali, in natura, se non nei particolari.
11. — Boezio scrive: i generi e le specie o sono e sussistono, o si
formano con Tintelletto ed esistono solo nel pensiero, ma non possono
essere generi e specie. Anzitutto, generi e specie possono essere
considerati reali? Una cosa che nello stesso tempo sia comune a più
altre, non può essere una: specialmente se sia tutta in molte
contempora- neamente. Ora il genere dovrebbe essere uno in tutte le
sue specie : e non nel senso che ogni singola specie prenda per sè
una parte del genere, ma nel senso che ogni singola specie ha in sè tutto
il genere. Or questo genere che è tutto in ciascuna delle sue specie
contemporaneamente, come può essere uno? giacché, se è tutto in più
specie, in sè non può essere uno di numero. E se non può essere uno, non
è nulla assolutamente, perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo
stesso va detto della specie. Che se si dice che la specie o il genere
esiste, ma molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo,
bensì avrà sopra di sè un altro genere, che includa quella
moltepli- cità nella propria unità. E, daccapo, se questo
nuovo genere sarà a sua volta molte- plice, non uno, rinvierà ancor esso
a un altro genere: e cosi di seguito, airinfinito, senza che sia dato
trovare un genere che sia uno di numero pur essendo comune a tutte le sue
specie. Che se si dice che il genere è uno di numero, non
potrà essere comune a molti. Giacché una cosa può essere comune a
molte, ma solo in uno di questi tre casi: 1) — che ciascuna sua
parte si applichi ad un particolare diverso: sicché il genere non stia
tutto in ciascuna specie, ma in ogni specie una sola parte del
genere; 2) — che più persone abbiano in comune l’uso di
alcunché, ma l’usino, beninteso, ciascuna in tempi diversi. (Esempio :
più persone hanno un solo servo o un solo cavallo: si capisce
che non possono servirsene tutte con temporaneamente, ma l’una
prima, Taltra dopo); 3) — che qualcosa sia comune a molte persone,
ma senza costituire la loro essenza. (Esempio : il teatro è luogo
comune a tutti gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e
comune ad essi tutti). Ma il genere non è comune alle specie
in nessuna delle tre forme ora dette : giacché deve essere tutto in
ciascuna specie, deve essere contemporaneamente in tutte le specie, e
deve costi- tuire Tessenza delle specie a cui è comune. Ora,
se il genere non è nè uno (giacché è comune), nè molte- plice (giacché,
se fosse tale, richiederebbe un genere ulteriore), il genere non è per
nulla. E lo stesso va detto delle specie, delle diiferenze, delle
proprietà e degli accidenti. Se genere, specie, ecc. non sono,
resta che siano còlti solo con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto
si torma da una realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente
da esso. Se conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo
nel pensiero, ma anche nella realtà, e risorge la domanda come possano
essere uni e molteplici ad un tempo, con la conclusione di pocanzi, che
cioè, genere, specie, ecc. non sono. Se difforme- mente, non possono
essere che vani e falsi dei concetti difformi dalla realtà nel suo vero
essere. Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono, nè, quando
son pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio
che si debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distin- zioni
porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè su qualcosa di
cui sia possibile farsi un vero concetto. 12. - A questa obiezione
che mirerebbe, come si vede, a scalzare tutta intera la dottrina
porfiriana delle cinque primis- sime distinzioni logiche, Boezio
risponde, appellandosi all’autoritàdi Alessandro di Afrodisia, di cui accetta e
riproduce Targo - montare. Non è vero — scrive Boezio — che
sia falso e vano ogni concetto che si scosti dalTessere reale delle cose.
Se la mente mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi
una immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si
inganna, come quando si immagina i Centauri, componendone mental-
mente la figura con elementi del corpo umano e delTequino. Ma quando la
mente procede non per composizione, ma per divisione ed astrazione, il
concetto non corrisponde a nulla di obbiettivo, e tuttavia non è
falso. Esempio: — la linea non è concepibile che in un corpo:
staccata da qualsiasi corpo, la linea non è nulla; e difatti chi potè mai
cogliere con un qualsiasi senso una linea separata da ogni corpo? Ma ciò
non esclude che possa separarla lo spirito e pensarla per sè sola, fuori
di qualsiasi corpo. Onde risulta, nel pensiero, incorporea e separata
quella linea che nella realtà è inseparabilmente unita al corpo e confusa
con esso. Ora, i generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti:
esistono nei corpi singoli, ma possono essere separati dai corpi,
come puri universali. E come nessuno può dir falso il concetto
della linea perchè si pensa separata da ogni corpo mentre essa
fuori dei corpi non sussiste, cosi non si deve ritenere falso il concetto
di genere, specie, ecc. perchè si isolano come puri universali
mentre essi non esistono che nei particolari. Gtli è che è
prerogativa delTintelletto cogliere la somiglianza dei vari particolari
sensi- bili, fissarla per sè sola e farne una specie; e poi ancora, cogliere
la somiglianza delle varie specie, fissarla e farne un genere. Sicché la
specie è un concetto ricavato dalla somiglianza d’es- senza di individui
diversi numericamente Tuno dalTaltio: e il genere è un concetto ricavato
dalla somiglianza delle specie. Ma questa somiglianza, quando è
nelle cose singole, è sensi- bile; quando nelle universali, è
intelligibile. 0, che è lo stesso, sentita, è nelle cose singole;
pensata, è universale. Sicché generi. specie, ecc. esistono nei
sensibili, son còlti e pensati fuori dei corpi; universali quando son
pensati, singolari quando son sentiti nei corpi in cui hanno
esistenza. Rimane cosi risolta Tintera questione: giacché generi
e specie esistono in un modo - nei particolari - e son pensati in
un altro - fuori dei particolari - come se esistessero per sé stessi e
non avessero nei particolari Tesser loro. Ma questa soluzione è
aristotelica, e Boezio Tavverte espli- citamente: giacché per Aristotele
generi e specie son pensati incorporei ed universali, mentre esistono nei
particolari sensi- bili. Platone invece - Boezio ama rammentarlo -
ritiene che generi e specie non solo siano pensati come universali,
ma anche siano tali ed esistano separati dai corpi. E Boezio
dichiara espressamente d^aver presentato la soluzione aristotelica
della questione non perché egli la approvi di più, ma perché un
lavoro, come il suo commento, destinato a servir di introdu- zione alle
Categorie aristoteliche, aveva il dovere di adottare, in questa
questione, preliminare importantissimo, il punto di vista
aristotelico. 13. — Dopo il prologo del quale si é ampiamente
discorso, T « Isagoge » - alla quale ci conviene ormai ritornare -
può intendersi divisa in due parti: la prima studia separatamente
il genere, la specie, la differenza, la proprietà e Taccidente; la
seconda paragona prima il genere alla differenza, alla specie, alla
proprietà e alTaccidente ; poi la differenza alla specie, alla proprietà
e alTaccidente; infine tra loro la proprietà e Taccidente. Cominciamo
ora lo studio delle cinque distinzioni logiche prese separatamente ad una
ad una. 14. — Porfirio osserva che la parola genere si usa
con significati diversi. Primo significato é quello per il
quale genere (o piuttosto gente) vuol dire stirpe. Esempi: « Oreste
è delle gente di Tantalo », cioè discende da Tantalo; < Pindaro è
della gente tebana », cioè è tebano di nascita. Nel primo caso è indicato
il progenitore, nel secondo la patria; in entrambi il termine da cui la
stirpe, o gente, o genere proviene. Secondo significato è
quello per il quale il genere (o gente, vuol dire quella collettività che
è stretta da un’origine comune Esempio: « Gli Eraclidi
costituiscono una gente (o genere) perchè discendono tutti da un comune
capostipite: Eracle». Terzo significato è quello per il quale si
dice genere quello a cui si subordinano le specie, la cui moltitudine
esso contiene sotto di sè. Questo terzo significato, che è quello che la
parola «genere » ha per i filosofi, è probabilmente imitato dai primi
due in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri casi
si dice piuttosto stirpe, cioè Torigine da cui le specie derivano, da
essa prendendo il nome e con tal nome distinguendosi da tutte la altre specie
che rientrano sotto altri generi. In questo terzo significato «
genere » è quel che si predica di più cose, differenti tra loro per la
specie, e indica cosa esse sono. La quale definizione ha bisogno di
essere chiarita punto per punto. « Quel che si predica di più cose » :
difatti, i predicati 0 si riferiscono ad una cosa singola o a più cose.
Ad una cosa sola si riferiscono gli individui, come quando si dice:
«questi è Socrate », e anche a una cosa sola si riferiscono: « questi
» e « questo ». Invece a più cose si riferiscono i generi, le
specie, le differenze e le proprietà e quegli accidenti che
risultano comuni, non propri di una cosa sola. Esempio di
genere : « animale » . Esempio di specie : « uomo » . Esempio di
differenza (che contraddistingue Tuomo dagli altri animali): «
ragionevole ». Esempio di proprietà (dell’uomo): « la capacità di ridere
» . Esempi di accidenti (dell’uomo) : « bianco, nero, muoversi » .
Ora il genere differisce dall’individuo perchè si predica di più
cose, non di una. Ma la definizione precisa è: « Genere è ciò che si
predica di più cose differenti tra loro per la specie », in quanto
anche la specie si predica di più cose, ma di cose differenti tra
loro per numero, non per specie. Esempio: - la specie «uomo»
si predica di Socrate e di Platone, che differiscono numericamente in
quanto Socrate e Platone sono due individui diversi, mentre il genere «
animale » si predica delPuomo, del bue, del cavallo, differenti tra
loro non solo numericamente, ma per specie. Inoltre: « genere
è ciò che si predica di più cose differenti tra loro per la specie, e
indica cosa esse sono. » Giacché anche le differenze si predicano di cose
differenti tra loro per la specie, ma indicano qitali esse sono, non cosa
sono. Esempio: — < se ci domandano che cosa è Puorao,
rispon- diamo indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: «
Puoino è animale > ; ma se ci domandano le qualità delPuomo,
rispon- diamo indicando i suoi caratteri differenziali, la ragionevolezza
e la mortalità. Com’è chiaro, il genere differisce dalla proprietà,
perchè questa si predica d’una sola specie e degli individui di
essa, mentre il genere si predica di più specie. E differisce
dagli accidenti comuni perchè, sebbene questi si predichino di più cose
differenti tra loro per specie, ne indicano la qualità, non Pessenza
(come, ad esempio, il color nero). Ricapitolando: il predicarsi di
più cose divide il genere dagli individui; il predicarsi di più cose
differenti di specie lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare
la quiddità 0 essenza lo divide dalle differenze e dagli accidenti
comuni che indicano la qualità. E questa trattazione del genere non
contiene nulla nè di superfluo, nè di manchevole. 15. — Anche « specie
» ha più significati : significa « forma » e significa, in logica, ciò
che rientra in un genere (« uomo » è specie compresa nel genere « animale
» ; « bianco » è specie del genere «colore*; «triangolo» è specie del
genere «figura»). Beninteso, come il genere è genere solo rispetto alle
sue specie, cosi le specie sono specie solo rispetto al loro genere.
Genere e specie cioè sono concetti correlativi. Cosi la specie vien
defi- nita: «ciò che è posto sotto il genere, e di cui il genere si
predica per indicarne l'essenza o quiddità » . Ma questa defi- nizione
conviene solo alle specie specialissime che sono sempre specie e non mai
generi, mentre le precedenti definizioni con- vengono anche alle specie
che non sono specialissime. Sono generi generalissimi quelli al di sopra
dei quali non esiste altro genere, come ad esempio « sostanza ». Sono
specie specialissime quelle al di sotto delle quali non esistono
altre specie, come, ad esempio, « uomo », che ha sotto di sè imme-
diatamente i vari individui umani. Tra i generi generalissimi e le
specie specialissime inter- corrono generi subalterni, come ad esempio «
sostanza animata », « sostanza animata sensibile » , « sostanza sensibile
ragionevole » . Ciascuno di questi concetti, intermedi tra «sostanza» e
«uomo », è specie rispetto al concetto più ampio nel quale rientra,
è genere rispetto al concetto più ristretto che in esso rientra.
Ad esempio: «sostanza animata» è specie rispetto a « so- stanza »,
è genere rispetto a « sostanza animata sensibile ». Ai due estremi della
scala c'è la « sostanza», genere generalissimo che non è mai specie, e
!'« uomo », specie specialissima che non è mai genere, mentre in mezzo i
generi subalterni sono a volte generi, a volte specie. Ora,
mentre le genealogie famigliari, risalendo di proge- nitore in
progenitore, raggiungono il comune capostipite di tuttele famiglie,
Giove, non è dato rinvenire un genere generalissimo unico, a cui tutti i
generi subalterni si lascino ridurre. Al con- trario, secondo Aristotele
sono dieci i generi generalissimi, asso- lutamente primi e irriducibili:
uno è la sostanza e nove gli acci- denti (qualità, quantità, luogo,
tempo, ecc.). Nè è valida obie- zione che se questi dieci predicamenti
sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo unico, Ve^%ere\
chè, dice Porfirio, Ve^senza si predica in senso assai diverso
della sostanza e dei vari accidenti, sicché Tunificazione delle dieci
cate- gorie neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il
significato essere dalPuno all’altro predicamento. Ora, se i generi
generalissimi sono dieci, i generi subal- terni sono di numero assai
grande, ma tuttavia finito : infiniti, invece, sono gli individui che
vengono dopo le specie specia- lissime, e di essi non si dà
scienza. Platone insegna a dividere, mediante le differenze
specifiche, ciascun genere in due, e poi ancora in due fino a
raggiungere le specie specialissime, che si dirompono negli individui.
Chi discende dai generi generalissimi alle specie specialissime
divide, cioè moltiplica l’unità. Chi, al contrario sale dalle specie
specialissime ai generi generalissimi, raccoglie la moltitudine in unità.
Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune aduna.
Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di esse.
Giacché i concetti più estesi si predicano dei meno estesi (il genere si
predica delle specie), i concetti equipollenti si pre- dicano l’uno
dell’altro e l’altro dell’uno (la proprietà di nitrire si predica del
cavallo nella proposizione: «Il cavallo è l’ani- male che nitrisce», e il
cavallo si predica del nitrire nella reciproca: < L’animale che
nitrisce è il cavallo »), ma non mai i concetti meno estesi si predicano
dei più estesi (la proposi- zione : « l’uomo è un animale » non può convertirsi
nella reci- proca: « l’animale è uomo »). Così i generi generalissimi si
pre- dicano di tutti i generi subalterni o specie, delle specie
specia- lissime e degli individui ad esse sottoposti; i generi
subalterni si predicano di tutte le specie ad essi inferiori, delle
specie specialissime e degli individui ; le specie specialissime si
pre- dicano degli individui, e gli individui d’un solo particolare.
Gli individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è tota-
lità, mentre rispetto al genere è parte. 16. — Si parla di
differenza nel significato comune della parola, in senso proprio, e in
senso rigoroso. Nel significato comune < differenza » esprime la
diversità d’una cosa da un’altra o da sè stessa. Socrate differisce
da Platone e differisce da sè stesso bambino. In senso
proprio, una cosa si dice differire da un’altra quando ne differisce per
un accidente inseparabile. (Accidente inseparabile è, per esempio, avere
il naso curvo, essere ciechi, avere una cicatrice causata da una
ferita). In senso rigoroso una cosa si dice differire da
un’altra quando se ne distingue per differenza di specie. Ad
esempio, un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a
specie diverse, l’uno essendo ragionevole, Taltro no. In generale
dunque, ogni differenza altera ciò a cui si in- nesta: ma le differenze
comuni e proprie si limitano a renderlo alterato, le rigorose lo rendono
addirittura altro. E queste dif- ferenze rigoi-ose che rendono altro ciò
a cui si applicano, si dicono < differenze specifiche » , le altre si
dicono semplice- mente « differenze » . Queste non producono che
un’alterazione o un mutamento di stato (per esempio, il muoversi
rispetto al giacere), quelle, invece, dal genere fanno le specie, le
quali si definiscono appunto col genere e le differenze.
Altra classificazione delle differenze è la seguente: differenze
separabili^ come il muoversi e lo star fermi, l’essere sani o malati, e
differenze inseparabili^ come l’avere un naso aquilino 0 camuso e l’essere
ragionevoli o irragionevoli. Le differenze separabili si dividono
ancora in differenze per se e differenze per accidens. Differenza per se
è, nell’uomo, la ragionevolezza, la mortalità, la capacità di apprendere.
Diffe- renza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso.
Le differenze per se entrano nel concetto della cosa e la rendono
altra (la mortalità entra nel concetto di uomo e lo differenzia
dall’altro essere animato sensibile e ragionevole, ma immortale che è
Dio); invece, le differenze accidens, anche se insensibili, non entrano
nel concetto della cosa e non la ren- dono altra, ma solo alterata (il
naso camuso non entra nel concetto di uomo, e altera un individuo, ma non
lo rende altro dai rimanenti uomini). Parimenti le differenze
per se non ammettono aumenti o dimi- nuzioni (tutti gli individui umani
sono uomini egualmente), invece, le differenze per accidens ammettono
aumento o dimi- nuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più o
meno curvo, ecc.). Fra le differenze inseparabili per se
talune servono a divi- dere i generi in specie, tali altre, invece, a
specificare i generi già divisi. Differenze inseparabili per se sono «
animato » e < inanimato » , « sensibile » e « insensibile » , «
ragionevole » e «irragionevole», «mortale» e «immortale». Di queste
dif- ferenze, « animato » e « sensibile » sono differenze
costitutive della sostanza « animale » ; « mortale » e « ragionevole »
sono, invece, divisive della sostanza < animale » in quanto per
esse si giunge dal concetto del genere « animale » al concetto
della specie « uomo » . Senonchè quelle differenze che son
divisive pei generi, sono costitutive per le specie: difatti, nelPesempio
ora addotto, le differenze « ragionevole » e « mortale » , introducendo
una di- visione nel genere «animale», costituiscono proprio cosi la
specie «uomo». Divisive e costitutive poi sono tutte le dif- ferenze
specifiche, utilissime per le divisioni dei generi e le definizioni delle
specie, mentre a ciò non giovano nè le dif- ferenze inseparabili per
accidens, nè, molto meno, le separa- bili (sarebbe ridicolo dividere gli
uomini secondo che abbiano il naso aquilino o camuso — differenze
inseparabili per accidens — 0, peggio ancora, secondo che stiano in piedi
o a sedere). La differenza viene anche determinata come quella che
la specie ha in più del genere. L’uomo, ad esempio, ha in più
delhanimale Tessere ragionevole e mortale, qualità che il con- cetto di
«animale» non include. (Or si domanda: se il genere non ha in sè le
differenze che caratterizzano le varie specie, queste donde le traggono?
— Giacché le specie non derivano che dai generi, e questi non posseggono
le differenze, nè pos- sono possederle, chè, se le possedessero, potrebbero
riunire in sè differenze opposte tra loro, come sono quelle che
contrad- distinguono runa dalbaltra le varie specie. La soluzione
di questa difficoltà è che non è necessario ammettere nè che le
differenze specifiche nascano dal nulla, nè che il genere aduni in sè differenze
contraddittorie, perchè il genere ha in potenza le differenze che da esso
nascono, senza averle in atto.) Altra definizione della differenza
è: «ciò che si predica di più cose differenti tra loro per specie, per
indicarne la qua- lità ». - Infatti, se uno ci domanda: « che cosa è
Tuomo? », noi rispondiamo indicando il genere a cui la specie umana
appar- tiene, e diciamo: « l’uomo è un animale » ; ma se uno ci
domanda la qualità delbuomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri
differenziali, e diciamo: «L’uomo è ragionevole e mortale».
Porfirio paragona così il genere alla materia e la differenza alla
forma, e dice che come la figura rende statua il bronzo, cosi la
differenza rende specie il genere. Altra determinazione della
differenza è : « ciò che è atto a dividere le cose che sono sotto il
medesimo genere » . Difatti, « ragionevole » e « irragionevole » sono
differenze atte a dividere l’uomo dal cavallo, entrambi compresi nel
genere animale. Altra definizione: « differenza è quella per la
quale differiscono fra loro le varie cose», giacché per il genere non
differiscono. Per esempio: siamo animali mortali noi e gli irragionevoli:
la differenza « ragionevoli » vale a separarci da essi. E ancora:
siamo ragionevoli noi e gli Dei : la differenza « mortali » ci separa da
essi. Definizione più profonda è la seguente: « Differenza non
è una qualsiasi di quelle determinazioni che valgono a dividere le
cose che sono sotto il medesimo genere ; ma quella determi- nazione che
riguarda l’essere ed è parte dell’essere d’una cosa. » Per esempio:
poter navigare, è particolarità esclusivamente umana, e tuttavia non è
differenza che costituisca la sostanza delPuomo. Differenze specifiche
sono quelle che fanno altra la specie e sono accolte nel concetto di essa
indicandone la qualità. 17. — Ci sono quattro sorte di
qualità: 1) - Proprietà che convengono ad una sola specie,
sebbene non intera, come per Tuomo essere medico o geometra. (Solo
gli uomini sono medici e geometri; ma non tutti gli uomini sono
tali). 2) Proprietà che convengono a tutta una specie,
sebbene non solo ad essa, come per Tuomo essere bipede (sono bipedi
anche gli uccelli). 3) Proprietà che convengono ad una sola specie
in tutta la sua estensione, ma solo in un determinato tempo, come
per Puomo imbiancare nella sua vecchiezza. 4) Proprietà che
convengono ad una sola specie in tutta la sua estensione e sempre, come
per Tuomo poter ridere. (Non importa che non rida sempre: importa che
abbia natura di poter ridere). Sono queste ultime le vere
proprietà giacché possono con- vertirsi con ciò di cui sono proprietà.
(Chi è cavallo, può nitrire ; chi può nitrire è cavallo). 18.
— Accidente è quello che può essere presente o assente senza che il
soggetto si corrompa. Ci sono intanto accidenti separabili e
accidenti insepara- bili. Separabile è dormire; inseparabile il color
nero. E tuttavia, per quanto inseparabile, rimane accidente perchè,
sebbene corvi e Etiopi siano neri, si può sempre pensare un corvo e un
Etiope bianchi. L'accidente è definito anche « ciò che può
contingentemente esserci e non esserci * ; oppure « ciò che senza essere
nè genere nè specie nè differenza nè proprietà, tuttavia sussiste in
un oggetto » . 19. — Determinate ormai tutte e cinque le
distinzioni logiche, bisogna paragonarle tra loro per vedere cosa hanno
di comune e cosa hanno di diverso. Di comune hanno il potersi
predicare di più cose ; ma il genere si predica delle specie e degli
individui ( « animale » si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo
cavallo e di questo bue); la differenza similmente delle specie e degli
individui ( « irragionevole > si predica dei cavalli e dei buoi, e di
questo cavallo e di questo bue); la specie degli individui che sono
sotto di essa ( « uomini » si predica solo degli individui umani) ;
la proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli
indi- vidui di tale specie ( « poter ridere » si predica tanto
deiruomo quanto dei singoli uomini); l’accidente cosi della specie
come degli individui (« nero » si predica cosi della specie dei
corvi come dei corvi particolari, ed è accidente inseparabile; «
muo- versi » si predica deH’uomo e del cavallo, ed è accidente
sepa- rabile), ma anzitutto si predica degli individui, e in
secondo luogo delle specie che contengono gli individui. Ma
conviene ora paragonare a due a due le cinque distin- zioni
logiche. 20. — Comparazione del genere con le altre quattro
roci. a) Genere e differenza Cosa hanno di comune: 1)
— Il genere e la differenza entrambi contengono specie. Bensì la
differenza non contiene tante specie quante ne contiene il genere.
Esempio: la differenza «ragionevole» contiene due specie: uomo e
Dio ; mentre il genere « animale * contiene e le due anzidetto e tutte le
altre specie animali. 2) — Quel che si predica del genere
come genere, si predica anche delle specie comprese in tale genere : e
quel che si predica della differenza come differenza, si predica
anche delle specie comprese in tale differenza. Esempi: del
genere « animale » si predica Tesser sostanza e Tessere animato: che si
predicano anche delle specie del genere « animale » e perfino degli
individui di tali specie. Della diffe- renza « ragionevole » si predica
Tesser provvisto di ragione : che si predica anche delle specie comprese
sotto tal differenza [uomo e Dio) e degli individui di tali specie (i
singoli uomini e gli Dei). 3) — Tolto il genere o la
differenza, son tolte contempo- raneamente le specie che sono sotto di
essi. Esempio : tolto il genere « animale > , è tolta anche la
specie « uomo » ; tolta la differenza « ragionevole », non ci sarà
più nessun animale provvisto di ragione. Cosa hanno di
diverso: 1) — E’ proprio del genere predicarsi di più cose che
non la differenza, la specie, la proprietà e l’accidente.
Esempio: il genere «animale» si predica egualmente del- l’uomo, del
cavallo, dell’uccello e del serpente, mentre la diffe- renza « quadrupede
» si predica solo degli animali di quattro piedi, la « specie > uomo
solo degli individui umani, mentre la proprietà del « nitrire » solo
della specie cavallo e dei cavalli particolari, e l’accidente « star in
piedi » ancora di più poche cose. 2) — Il genere contiene la
differenza in potenza. Esempio : il genere « animale » si divide in
specie animali « ragionevoli » e specie « irragionevoli » , «
ragionevole » e « ir- ragionevole » essendo le differenze che dividono il
genere « ani- male » in specie diverse. 3) — I generi sono
anteriori alle differenze poste sotto di essi: tolti i generi, son tolte
contemporaneamente anche le diffe- renze, ma non viceversa.
Esempio: tolto il genere « animale », son tolte tutte le diffe- renze («
ragionevole » e « irragionevole »); mentre, tolte tutte le differenze, si
può ancora pensare la sostnza animata sensibile, cioè Tanimale.
4) — Il genere riguarda Tessenza (o quiddità) d’unacosa: la
differenza la sua qualità. Esempio: Cos’è l’uomo? - un animale. Com’è
l’uomo? - ragio- nevole. 5) Ogni specie ha un sol genere, ma
moltissime diffe- renze. Esempio : il genere dell’uomo è «
animale » ; le differenze sono: ragionevole, mortale, suscettibile di
intendere e d’impa- rare. 6) — Il genere è come la materia,
la differenza è come la forma. Giacché è la differenza che
determina il genere, come la forma determina la materia. b)
Genere e specie Cosa hanno di comune: 1) — Tanto il
genere quanto la specie si predicano di più cose. 2) —
Entrambi sono anteriori a quelle cose delle quali si predicano.
3) — Cosi il genere come la specie costituiscono ciascuno un
tutto. Cosa hanno di diverso: 1) — Il genere contiene
la specie sotto di sè, le specie sono contenute, non contengono i
generi. Giacché sono i generi che, determinati da differenze
spe- cifiche, producono le specie: onde sono naturalmente ad esse
anteriori, e, tolti, tolgono anche le specie, ma non viceversa, chè,
posta la specie, è posto anche il genere, ma posto il ge- nere, non è
posta con ciò stesso la specie.
2) — 1 generi si predicano univocamente delle specie: non
cosi le specie dei generi. 3) — I generi sono superiori per le
specie che comprendono sotto di sè, le specie per le differenze che le
determinano. I generi possono anche essere contemporaneamente
specie, ma non specie specialissime ; e le specie possono essere
contem- poraneamente generi, ma non generi generalissimi. c)
Genere e proprietà Cosa hanno di comune: 1) — Tanto il
genere quanto le proprietà seguono le specie. Esempio: Se uno è
uomo quanto alla sua specie, è ani- male quanto al genere; e se di specie
è uomo, ha la pro- prietà di poter ridere. 2) — Egualmente si
predicano il genere della specie e la proprietà di quelli che ne
partecipano. Esempio: — L’uomo e il bue sono animali allo stesso
titolo; e cosi Catone e Cicerone hanno egualmente la proprietà di
poter ridere. 3) — Si predicano univocamente il genere delle sue
specie e la proprietà di quelle cose di cui è propria. Cosa
hanno di diverso: 1) — Il genere è anteriore; la proprietà
posteriore. Esempio: — Bisogna che ci sia il genere ahimale, poi
sia diviso dalle differenze e dalle proprietà. 1) — Il genere
si predica di più specie, la proprietà di una sola specie, di cui è
propria. 3) — La proprietà si predica di ciò di cui è propria,
cosi come ciò di cui è propria si predica di essa : mentre il
genere non si converte con nessun suo predicato. Esempio: La
proposizione « L’uomo è l’animale che ride » si converte: esanimale che
ride è l’uomo*. Ma la proposi- zione « l’uomo è animale * non si potrà
mai convertire: c l’ani- male è l’uomo * . 4)
— La proprietà è in tutta la specie di cui è propria, in essa sola, e
sempre: mentre il genere è in tutta la specie di cui è genere, e sempre, ma
non in essa sola. Esempio: la proprietà di ridere è di tutti gli
uomini, solo degli uomini, e sempre rimane in essi : il genere animale è
in tutta la specie umana, è costante in essa, ma si trova anche in
molte altre specie oltreché neirumana. 5) — Poiché la proprietà e
ciò di cui é proprietà si con- vertono, tolta la proprietà é tolto ciò di
cui é proprietà, tolto ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà.
Esempio: tolta la proprietà del ridere é tolto l’uomo: tolto Tuomo
é tolta la proprietà del ridere. Al contrario, tolte le specie non
sono tolti i generi. Esempio : tolta la specie umana non é tolto il
genere ani- male. d) Genere e accidente Cosa
hanno di comune: Si é già detto che ci sono accidenti separabili^
come il muo- versi, e accidenti inseparabili come, ad esempio, il color
nero: ora, cosi gli accidenti separabili come gli inseparabili
hanno di comune col genere il potersi predicare di più cose.
(Neri sono i corvi, ma anche gli Etiopi e talune cose ina-
nimate). Cosa hanno di diverso : 1) — Il genere é
avanti le specie, mentre gli accidenti sono posteriori ad esse, anche se
si tratti di accidenti inse- parabili, giacché prima è ciò a cui accade,
poi é Taccidente. 2) — Del genere tutte le specie che partecipano,
parte- cipano egualmente; mentre degli accidenti si partecipa più o
meno. 3) — Dii accidenti sussistono principalmente negli
individui, mentre generi e specie sono, di natura, anteriori alle
sostanze individuali. 4) — Il genere dice quel che è
una cosa. L’accidente quale è e come è. Esempio: - Come è
l’Etiope? Nero. 21. — Comparazione della differenza con le altre
quattro voci. a) - Differenza e genere
Furono già comparati quando si esaminarono insieme genere e
differenza. b) - Differenza e specie Cosa hanno di
comune: 1) — Della differenza e della specie si partecipa
egual- mente. Esempio: Gli uomini singoli partecipano
egualmente della specie « uomo » e della differenza < ragionevole »
. 2) — La differenza e la specie sono sempre presenti in ciò
che di esse partecipa. Esempio: Socrate è sempre ragionevole e
sempre uomo. Cosa hanno di diverso: 1) — La differenza
dice sempre la qualità delle cose, la specie la loro essenza o
quiddità. Esempio: - « Uomo » non è qualità, se non per le
differenze che, determinando il genere ♦ animale », costituiscono la
specie « uomo » . 2) — La differenza è in più specie.
Esempio : - la differenza « quadrupede » è in vari animali di specie
differente. La specie è solo negli individui che sono sotto di
essa. 3) — La differenza è altra cosa dalla specie a cui dà
luogo. Difatti, se si toglie la differenza « ragionevole » , si
toglie la specie « uomo » : ma se si toglie la specie « uomo », non si
toglie la differenza « ragionevole » , perchè vi è Dio. 4) —
Una differenza si combina con un’altra (« ragionevole » e «mortale»
compongono la sostanza deiruomo); mentre una specie non si combina con
un’altra per produrne una terza. (Un cavallo e un’asina generano un mulo;
ma non la specie < cavallo » con la specie « asino * generano la
specie « mulo *). c) - Differenza e proprietà. Cosa
hanno di comune: 1) — Della differenza e della proprietà le cose
partecipano egualmente. Esempio: gli esseri ragionevoli
partecipano della diffe-* renza « ragionevolezza » , quanto gli esseri
che possono ridere partecipano della proprietà di poter ridere.
2) — Differenze e proprietà sono sempre presenti nelle cose che le
hanno. Si potrebbe obiettare: se un bipede perde una gamba,
non ha più la sua differenza di essere bipede. Ma l’obiezione non é
giusta: l’amputazione non toglie la natura di bipede al monco. Del resto,
anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura' umana, senza che
gli uomini ridano sempre. Cosa hanno di diverso: 1) —
La differenza si predica di più specie (ragionevole si dice dell’uomo e
di Dio), la proprietà si predica di quella sola specie di cui è
propria. 2) — La proprietà e ciò di cui è proprietà si convertono.
(La proposizione « l’uomo è l’animale che ride » ammette la
reciproca: «l’animale che ride è l’uomo). Mentre la
differenza segue quella cosa di cui è differenza, e non si converte con
essa. (Posto l’uomo, è posta la ragionevolezza; ma, posta la
ragio- nevolezza, non è posto l'uomo, perchè ragionevole è anche
Dio). d) - Differenza e accidente Cosa hanno di
comune: 1) — Differenza ed accidente entrambi si predicano di
più cose. Esempio: Tanto la differenza della «ragionevolezza»
quanto l’accidente del « muoversi > si applicano a molte cose
diverse. 2) — Tanto la differenza quanto gli accidenti
insepa- rabili sono presenti sempre e in tutte le cose di cui si
predicano. Esempio: Tanto la differenza < bipede » quanto
l’accidente inseparabile « nero > riguardano tutti i corvi e li
riguardano sem'pre. Cosa hanno di diverso : 1) —
La differenza contiene, non è contenuta. (La ragionevolezza
contiene l’uomo perchè non è solo di lui). Gli accidenti, invece, per un verso,
contengono perchè sono in più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo) ;
per un altro sono contenuti, perchè il soggetto aduna in sè parecchi
accidenti (l’uomo, oltre al « muoversi », è anche « bianco », < alto
», ecc.) 2) — La differenza non ha aumento e diminuzione, gli
accidenti sì. (0 si è ragionevoli, o no; ma si è più o meno
alti). 3) — Le differenze contrarie non possono mescolarsi,
bensì si mescolano gli accidenti contrari. ( < Bipede » e «
quadrupede » si escludono ; ma « bianco > e . « nero » si mescolano a
produrre il < grigio » ). 22. — Comparazione della specie con le
altre quattro voci. a) Specie e genere Furono già
comparati quando si esaminarono insieme Genere e specie. b)
Specie e differenza Furono già comparati quando si esaminarono
insieme Diffe-^ renza e specie. c) Specie e proprietà Cosa hanno
di comune: Specie e proprietà si predicano Tuna deiraltra (se è
uomo, ha la proprietà di ridere ; se ha la proprietà di ridere, è uomo)
; giacché le cose partecipano egualmente delle specie a cui
appartengono e delle proprietà che le caratterizzano. Cosa hanno di
diverso: 1) — La specie può essere genere ad altre specie ;
la proprietà non può essere di altre specie oltre quella di cui è
propria. 2) — La specie sussiste prima della proprietà, poi
la proprietà ha luogo nella specie. Esempio: bisogna essere
uomo per avere la proprietà di ridere. 3) — La specie è
sempre presente in atto, nel soggetto; la proprietà, a volte, vi è
presente solo in potenza. Esempio: Socrate è sempre uomo in atto,
ma non sempre ride sebbene abbia natura di poter ridere. 4) —
La specie sempre è sotto il genere e si predica di più cose, differenti
tra loro numericamente, indicandone l’es- senza 0 quiddità; mentre la
proprietà è solo in ciò di cui è propria, e in esso è sempre, e inerisce
a tutta la sua estensione. Esempio: la proprietà del ridere è di
tutti gli uomini, solo negli uomini e sempre negli uomini. d)
Specie e accidente Cosa hanno di comune: Si predicano
di più cose. Cosa hanno di diverso: 1) — La specie dice
il « che > di una cosa, l’accidente il « quale > e il « come »
. 2) — Ogni sostanza può partecipare di una sola specie, ma
di più accidenti separabili ed inseparabili. 3) — La specie si
concepisce prima degli accidenti, anche se inseparabili (chè
bisogna ci sia il soggetto, perchè qualcosa gli accada); gli accidenti
invece sono posteriori e avventizi. 4) — Della specie si partecipa
sempre in egual misura, ma deiraccidente, anche inseparabile, in misure
diverse. Esempio: un Etiope è più nero di un altro. 23.
— Com/parazione della proprietà con le altre quattro voci.
a) — Proprietà e genere Furono già comparate quando si
esaminarono insieme Genere e proprietà. b) — Proprietà e
differenza Furono già comparate quando si esaminarono insieme
Diffe- renza e proprietà. c) — Proprietà e specie
Furono già comparate quando si esaminarono insieme Specie e
proprietà. d) — Proprietà e accidente Cosa hanno di
comune: 1) — Tanto la proprietà quanto Taccidente
inseparabile sono indispensabili a ciò in cui si osservano.
Esempio: Come senza la proprietà del ridere non esiste uomo, cosi
senza color nero non esiste Etiope. 2) — Tanto la proprietà quanto
Taccidente inseparabile sono sempre presenti a ciò che li possiede, e in
tutta la loro estensione. Esempio: Tutti gli Etiopi sono
neri, e sempre. Cosa hanno di diverso : 1) — La
proprietà è presente in una sola specie. Tacci- dente inseparabile in
molte. Esempio: La proprietà del ridere è solo delTuomo;
Tacci- l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO
43 dente inseparabile del color nero è deirEtiope, ma anche
del corvo, del carbone, deirebano, ecc. 2) — Sicché la
proprietà si converte con ciò di cui è proprietà, non cosi Taccidente con
ciò di cui è accidente. Esempio : c L'uomo ha la proprietà di
ridere > si converte in « Chi ride è l'uomo » ; ma « l'Etiope è nero »
non si converte in: «Chi è nero è l'Etiope», perchè anche il corvo, il
carbone, ecc. sono neri. 3) — Della proprietà si partecipa
sempre egualmente, degli accidenti in diversa misura. Si è
più 0 meno neri. 24. — Comparazione delV accidente con le altre
quattro voci. a) — Accidente e genere
Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere e accidente.
b) — Accidente e differenza Furono già comparati quando si
esaminarono Diffe- renza e accidente. c) — Accidente e
specie Furono già comparati quando si esaminarono insieme
Specie e accidente. d) — Accidente e proprietà Or
ora esaminati come Proprietà ed accidente. L'Isagoge si chiude con
Tosservazione che altri elementi comuni o diversi tra le cinque voci
oltre i già notati ci sono, ma quelli notati bastano a distinguerli e ad
intendere quel che hanno di comune. Tanto del primo quanto
del secondo commento boe- ziano abbiamo già esposto ciò che riguarda il
celebre prologo sulla realtà o meno degli universali. Ci
tocca ora dire qualche cosa sul complesso dei due com- menti, che tanta
autorità ebbero in tutto il Medio Evo, e tanto contribuirono a dare alla
mentalità delle nazioni di cultura latina quella struttura rigorosamente
logica che è rimasta loro caratteristica. Lo scopo da Boezio
assegnato al primo commento è assai semplice, giacché non va oltre la
illustrazione del testo. Boezio evita di accendere questioni, anche se il
testo vi si presti. Solo quando le obiezioni vengono cosi spontanee che
non risolverle vorrebbe dire non comprendere quel che dice Porfirio,
solo allora Boezio interviene per chiarire il pensiero delPautore,
giu- stificare le sue espressioni, e quindi, sgombrate le
difficoltà, tornare alla illustrazione del testo. Dove
Porfirio propone più classificazioni, Boezio cerca di connetterle tra
loro, in maniera da renderle più facilmente assi- milabili al lettore. E
dove Porfirio accenna appena a teorie assai note fra gli studiosi, ma
forse poco possedute dai princi- pianti, Boezio interviene a rammentare
tali teorie, e a trattarle, sebbene compendiosamente, in modo da fornire
al lettore princi- cipiante, al quale il primo commento è diretto, le
nozioni neces- sarie per intendere il testo di Porfirio. Così
Boezio torna due volte sulla teoria della definizione, la quale,
facendosi per genus et differentianij è possibile solo per gli individui
(definiti entro la loro specie), per le specie (definite entro il loro genere!,
e per i genej-i subalterni (definiti entro il genere immediatamente
superiore, fino ai generi gene- ralissimi), ma non per i generi
generalissimi, i quali, non avendo nessun concetto più elevato sopra di
sé, non possono essere definiti, cioè determinati entro Pambito di un
concetto più vasto. Onde, non potendosi definire, possono solo
descriversi, con Pin- dicarne le proprietà. Un accenno, abbastanza
ampio, è fatto da Boezio, come già da Porfirio, alla teoria platonica
della divisione, che da ciascun genere generalissimo, mediante dicotomia,
cioè divisione in due, giunge fino alle specie specialissime.
Abbiamo già detto che Boezio cerca di rendere più evidente il nesso
che stringe talune classificazioni che Porfirio presenta runa dopo
l’altra, senza unificarle in un solo quadro comprensivo. Questo avviene
specialmente per le classificazioni che riguar- dano le differenze.
Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze in
differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni, tutte le
differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi stessi (tu
cammini, io seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino); 'proprie le differenze
individuali (capelli crespi, occhio cieco, ecc.); rigorose^ le differenze
che riguardano tutta la specie (ra- gionevole, irragionevole, ecc.). Le
quali ultime differenze sono le differenze specifiche, con le quali si
procede a dividere i generi in specie. Ma questa prima classificazione
può semplifi- carsi quando si avverta che tanto le differenze comuni
quanto le proprie si limitano a rendere alterato il soggetto,
mentre solo le differenze specifiche lo rendono altro. Si può
dire dunque che le differenze si dividono in differenze che rendono
alterato il soggetto e differenze che lo rendono altro. A questa
prima classificazione Porfirio fa seguire la seconda; le differenze sono
o separabili o inseparabili. Questa seconda classificazione si può
collegare con la prima osservando che solo le differenze comuni sono
separabili (il sedere, il correre, ecc. sono diff'erenze che non
persistono, e sono quindi separabili dal loro soggetto), mentre le
differenze proprie e più proprie, cioè quelle che riguardano l’individuo
persistendo in lui e quelle che riguardano l’intera specie, sono
inseparabili (tanto un occhio cieco quanto la ragionevolezza sono
caratteri differenziali perma- nenti, e quindi inseparabili dal soggetto
che li possiede). Senon- chè, di queste differenze inseparabili, le
individuali o proprie alterano il soggetto, ma non lo rendono altro (la cecità
altera un uomo, ma lo lascia uomo), mentre le specifiche o più
proprie rendono altro il soggetto (la ragionevolezza rende Tuomo altro
dai bruti). E inoltre, delle differenze inseparabili, le
individuali sono partecipate in misura diseguale, le specifiche sempre
egualmente. Ad esempio, i capelli biondi son carattere differenziale di
indi- vidui che sono Tuno più biondo, Taltro meno biondo; mentre la
ragionevolezza è carattere differenziale della intera specie umana, i cui
individui, in quanto sono uomini, sono tutti egual- mente partecipi della
ragione. Terza classificazione è quella per la quale le differenze
si dividono in differenze divisive del genere e differenze
costitutive delle specie. Son le medesime differenze che, prese in
modo diverso, risultano una volta divisive del genere, un'altra
costi- tutive delle specie. Se prendiamo le differenze contrarie « ragio-
nevole e irragionevole > , esse dividono il genere «animale»; e se,
dopo, prendiamo le differenze contrarie « mortale e immor- tale », esse
dividono l'inferiore genere « animale ragionevole ». Ma se prendiamo le
differenze subalterne < ragionevole » (con- cetto più ampio) e «
mortale » (concetto restrittivo), queste differenze subalterne
costituiscono la specie dell'animale ragio- nevole mortale, cioè
dell'uomo. Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo
commento boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente
nel secondo commento. 26. — Ma forse più di queste particolari
delucidazioni, che tuttavia contribuiscono alla elaborazione della salda
logica medievale, riesce interessante il breve schizzo che del sapere
del tempo Boezio premette al suo commento. Nel dialogo filosofico
che egli immagina si fa chiedere dal giovane Fabio una illustrazione e
prima una introduzione al- l'Isagoge di Porfirio. L'introduzione
indicherà delPIsagoge VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa germano;
la ragione del titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca. Sei
punti, dunque, tratterà Boezio, sulle orme di quel che già aveva
fatto il greco Ammonio nel suo commento alllsagoge. \Jintenio
è trattare del genere, della specie, delle differenze, delle proprietà e
degli accidenti. futilità deirisagoge è anzitutto quella
d’introdurre alle Categorie di Aristotele, ma è anche più vasta.
Occorre, però, per intenderla, avere un chiaro concetto di che sia
la filosofia. Essa è amor di sapienza, che, non bisognosa di nulla, «
vivax mens et sola rerum primaeva ratio est >. E questo amore di
sapienza è illuminazione dello spirito che conosce da parte di quella
pura Sapienza, e in qualche modo è un richiamo che questa fa deU’animo
umano perchè torni ad essa, di maniera che il desiderio di sapienza è
desiderio e amore della divinità e amore della pura mente divina.
È questa sapienza che riconduce alla forza e purezza natu- rale le
anime umane. Da essa nasce la verità delle specula- zioni e dei pensieri
e la santa e pura castità delle azioni. Il che mena direttamente alla
divisione della filosofia, che è il ge- nere, in teoretica o speculativa,
e pratica^ o attiva. (0 e II sono le due lettere che spiccano su la veste
della Filosofia nel Be Conso- latione Philosophice). La teoretica, poi,
ha tante parti quanti sono gli oggetti che considera: si divide quindi
in: 1) — Teologia o dottrina di ciò che è sempre uno e me-
desimo, fermo sempre nella sua divinità, non accessibile ai sensi, ma
solo alla mente ed all’intelletto: la quale specula- zione studia Dio e
la incorporeità dello spirito; 2) — Dottrina che si occupa di tutte
le opere celesti del- la suprema divinità, di ciò che nel mondo sublunare
ha animo più beato e sostanza più pura, ed infine delle anime
umane: tutte cose che, fatte di sostanza intelligibile, al contatto
dei corpi, da intelligibili divennero soltanto intelligenti, in
maniera che possono ora divenire più beate per purezza ed
intelligenza quando si volgano ed applichino alle cose intelligibili
; 3) — Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura e
le passioni dei corpi. Di queste tre parti della filosofia
teoretica la seconda è meri- tamente collocata nel mezzo perchè ha da una
parte Tani- mazione e vivificazione dei corpi, dalFaltra la
considerazione e conoscenza delle cose intelligibili. 27. —
Anche la filosofia pratica si divide in tre parti: 1) — VEtica^ che
s’orna ed accresce di virtù, nulla am- mettendo nella vita di cui non
possa essere soddisfatta, e niente facendo di cui debba pentirsi;
2) — la Politica, che assumendosi la cura dello Stato prov- vede
alla salvezza di tutti con la saldezza della sua 'preveg- genza e
prudenza, con Tequilibrio della giustizia, con la sal- dezza della
fortezza e la pazienza della temperanza; 3) — V Economia, che si
occupa del buon andamento della vita famigliare. Alle quali
parti già descritte della filosofia si aggiunge da vicino queirarte che i
Greci chiamano Logica: parte della filo- sofia 0 suo strumento?
Boezio rimette la trattazione di questa questione ad una altra
opera, che è poi il secondo commento. Intanto osserva che questa disputa
sul genere, la specie, la differenza, la pro- prietà e l’accidente prepara
la via a tutto lo studio della filo- sofia. Col dire cosa sia genere e
cosa sia specie ci fa inten- dere che la filosofia è genere, e teoretica
e pratica sono specie. Col dire cosa sia differenza, ci rende possibile
di intendere se la logica sia una specie della filosofia, differente,
quindi, dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci spiega la
na- tura propria di ciascuna differenza della filosofia. Col dire
cosa sia accidente ci guarda dal mettere tra le cose principali ciò
che è secondario. Cosi la conoscenza di queste cinque voci spande i suoi
rami in tutte le parti della filosofia. Utile alla grammatica a cui
insegna che il discorso è il ge- nere e otto sono le sue parti o specie;
utile alla retorica, a cui permette di distinguere tre generi di causa,
ciascuno diviso in specie a seconda dei soggetti: utilissima alla logica,
che nulla potrebbe definire (per genere e differenza) se non
sapesse cos'è genere, cos’è specie, cos’è differenza, ecc. ; nulla
potrebbe dividere se non fosse guidata dalla conoscenza delle cose
che divide (i generi e le specie); e nulla potrebbe dimostrare
giacché la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si
divide o qualcos’altro mediante le cose che si son divise. E
l’Isagoge di Porfirio precede tutta la logica aristotelica, perchè senza
di essa non si intenderebbero la sostanza e i nove accidenti di cui è
parola nelle Categorie. Le quali voci signi- ficative sono quelle di cui
si compongono le proposizioni, di cui si tratta nel « De interpretatione
» . Le quali proposizioni sono quelle di cui si compone il sillogismo, il
cui ordine, la cui struttura e le cui figure sono studiati negli «
Analitici Primi », perchè sia poi possibile studiare il sillogismo
dialet- tico nella « Topica * e il sillogismo dimostrativo negli «
Ana- litici Secondi » . Cosi l’Isagoge di Porfirio è la base
prima di tutta la logica aristotelica. 28. — Come nel corso
del primo commento non sono rare le occasioni in cui Boezio è costretto a
notare le imperfezioni e le oscurità della versione di Mario Vittorino,
cosi nel seconc^o commento Boezio presenta una traduzione propria, che
indubbia- mente è assai più scorrevole e chiara dell’altra. La
versione è intercalata nella esposizione, che procede meno pedestr e che
nel primo commento, e che, specialmente nei primi fr a i cinque libri,
mostra un vigoroso proposito di rendere più robusta, più rigorosa ed
organica la trattazione porfiriana. Il secondo commento si inizia con
alcuni paragrafi dedicati alla filosofia in generale, alle sue parti,
alle sue utilità, ecc. Se la filosofia - dice Boezio - è il più
alto bene degli animi, converrà precisamente muovere dalle facoltà
delFanima. Una forza deH’anima è quella vegetativa, comune anche alle
piante, che non hanno sensi; un’altra è la sensitiva, che dove
sorge assume la prima come sua parte; una terza è la intellettiva,
che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche esplica e conferma,
con pieno atto di intelligenza, quel che Timmagi- nazione sopperisce. La
qual potenza della ragione si esercita a indagare, anzitutto, se una cosa
sia, poi che sia, poi quale sia, infine perchè sia. Ma,
perchè il pensiero sia preservato dal pericolo di cadere nel falso,
occorre anzitutto una disciplina che, studiando le maniere di disputare e
gli stessi ragionamenti, possa additare qual ragionamento risulti ora
falso, ora vero, quale sempre falso quale non mai falso. Della quale
scienza - la logica - è duplice l’uso nell’inventare e nel giudicare:
topica e dialettica, trattate entrambe da Aristotele, ma la prima
trascurata dagli Stoici. Ora, questa logica è una parte della
filosofia o è solo il suo strumento? - Quelli che la considerano parte
della filosofia ragionano così: delle proposizioni, dei sillogismi, ecc.
solo la filosofia si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma,
delle due grandi parti della filosofia, la speculativa che si
occupa delle cose naturali, e l’attiva che si occupa della morale,
nessuna tratta del discorso, dei giudizi, dei ragionamenti: dunque quella
disciplina filosofica che d’essi si occupa non può non essere considerata
una nuova parte della filosofia; donde la triparti- zione di questa in:
logica, fisica, etica. Coloro i quali invece so- stengono che la logica
sia strumento della filosofia, non sua parte, osservano che questa
scienza della ragione è diretta o a conoscere le cose (fisica) o a
trovare quei principi di morale che producono la beatitudine. Dunque,
essi, dicono la logica serve sempre o alla fisica o all’etica. Boezio è
del parere che le due teorie non si escludano a vicenda: niente vieta che
la logica sia ad un tempo parte e strumento della filosofia; parte in
quanto ha innegabilmente un fine proprio, distinto dalla fisica e
daH’etica; strumento in quanto, altrettanto innegabilmente, essa serve
così all’una come aH’altra. Del resto, nel nostro corpo, ciascun
organo è al tempo stesso parte e strumento : la mano rispetto
all’organismo intero è strumento; per sè, intanto, è parte. 29. —
Ma veniamo allo scopo di questa introduzione porfi- riana alle Categorie
di Aristotele. Queste sono i dieci generi di predicamenti: può intenderli
dunque chi sappia che sia il genere. Di ciascuno di essi si dànno varie
specie (varie specie di so- stanza, di qualità, ecc.): ed anche ciò presuppone
si sappia che sia specie, e che sia la differenza per la quale ciascuna
specie si allontana dall’altra e l’un genere dall’altro. Inoltre,
ogni genere ha le sue proprietà, mediante le quali può essere
descritto. E dei dieci predicamenti, nove sono accidenti. Donde la
neces- sità di saper bene che sia proprietà e che sia accidente per
intendere le Categorie aristoteliche. Ma Porfirio spesso indica
l’utilità della sua introduzione per le definizioni, le divisioni e le
dimostrazioni, oltreché, come già si è visto, per l’intendimento delle
Categorie aristoteliche. Per le definizioni, perchè bisogna ben
distinguere il genere prossimo e la differenza specifica per fare una
giusta definizione; per la divisione in tutte le varie sue specie, giacché
vanno distinte divisioni dei concetti presi in sè stessi e divisioni
accidentali. Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono di tre
ordini : 1 ) — divisione del genere nelle sue specie ;
2) — distinzione dei vari significati di una parola; 3) —
partizione d’un tutto nelle sue varie parti. ' Le divisioni
accidentali sono anche di tre ordini: 1) — divisione di un
accidente secondo i soggetti che lo ricettano ( c dei beni, alcuni sono
nell’anima, altri nel corpo » ) 2) — divisione di un
soggetto secondo gli accidenti (« dei corpi, taluni sono (bianchi, altri
sono neri » ) ; 3) — divisione di un accidente secondo altri
accidenti ( « delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide,
altre molli >). Per tutte queste divisioni occorre sapere
che sia genere e che sia differenza, quando luna parola abbia un
significato solo (univoca) e quando più significati (equivoca), e che sia
una parte e che una specie; occorre inoltre ben distinguere
sostanze ed accidenti. Infine, Tintroduzione porfiriana è
utile per le dimostrazioni, giacché queste si fanno o da cose già note, o
da cose conve- nienti, 0 dalle prime cose, o dalla causa, o dalle cose
connesse, 0 dalle cose inerenti. In ciascuno di questi casi bisogna
sapere che sia genere e che sia differenza, e che sia specie, giacché
sono 1 generi quelli che sono anteriori per natura alle specie,
e quindi di esse più noti, e sono i generi e le differenze le cause
delle specie. 30. — Il secondo libro .tratta del genere con un
manifesto desiderio di porre più rigore nella trattazione .porfiriana,
magari rifacendosi da teorie più vaste, che sembrano essere presup-
poste da ciò che dice Porfirio. (Cosi, per esempio, per illustrare i
significati, che Porfirio espone, della parola genere, che si riferisce a
volte al progenitore da cui una gente deriva, a volte al luogo da cui una
gente proviene, Boezio richiama la celebre dottrina aristotelica delle
quattro cause, efficiente, materiale, formale e finale, alle quali
aggiunge due principi accidentali, il luogo e il tempo. Quando si parla
del genere dei Romani, cioè dei discendenti da Romolo, si indica in
costui la causa efficiente della stirpe; quando invece si dice: «Pindaro
Tebano», si indica in Tebe il luogo da cui Pindaro i proviene).
Boezio insiste ancora sulla differenza tra descrizione e defini-
zione: 'il genere non può essere definito, chè, per essere defi-
l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO 53 nito,
dovrebbe avere un altro genere sopra di sè, e, quando avesse un genere
sopra di sè, sarebbe specie, non genere; sicché, non potendo essere
definito, il genere è descritto, cioè ne ven- gono indicate le proprietà,
che sono come i colori con i quali si dipinge un quadro. L’intera teoria
del genere, della differenza, della specie, della proprietà e
dell’accidente, è chiusa come in un prospetto nelle seguenti
classificazioni boeziane. Ciò che si Ciò che si predica
predica di di più cose una cosa sola | S ’o 'in
O ® og O ce 05 S ce p!
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rQ O .P O ■TP O O (D VP
ce ^ P. P P ce p sostanzialmente
accidentalmente l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO
55 Boezio prosegue, poi, illustrando via via i passi
poifìriani che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni speciali,
del resto assai utili. (Per esempio : in che senso si dice che gli
uomini differiscono tra loro numericamente? - Nel senso che si dice: «
Socrate è un uomo, Platone è un altro uomo »). 31 — Il terzo libro
tratta delle specie (e non prima della differenza nonostante che la
differenza, contenendo in sè più specie, sia ad essa anteriore, perchè la
specie è specie del genere, come il genere è genere della specie, epperò
vanno studiati in connessione Puno con l’altra). Le
illustrazioni, per solito, non aggiungono nulla di nuovo. Interessante
può essere Patteggiamento di osseqio ad Aristotele su le questioni delle
dieci Categorie ; atteggiamento che è di Porfirio e non viene mutato da
Boezio. Nè i dieci predicamenti possono ridursi tutti dXVente, perchè
ente ha significati diversi secondo che s’applichi alla sostanza, alla
qualità, alla quantità, ecc. Vale a dire è un nome di più significati, e
non un genere d’un significato solo. Del resto, come ogni
predicamento cosi ogni predicamento è un predicamento ; sicché se ente
fosse gen^ e, i dieci predi- camenti avrebbero due generi: ente e uno\ e
ciò è assurdo, perchè non si può appartenere a più di un genere.
32. — Il quarto libro tratta della differenza, ripetendo lo sforzo,
visibile già nel primo commento, di dare organicità ed unità alla
trattazione porfiriana dell’argomento col connettere insieme le varie
classificazioni, tutte svolte da una distinzione fondamentale, tra
differenze sostanziali e differenze accidentali, e col condannare più
risolutamente di Porfirio quelle defini- zioni che « idem per idem
definiunt » quando dicono che < dif- ferenza è ciò per cui una cosa
differisce da un’altra», e che non precisano davvero cosa sia differenza
quando la definiscono «ciò per cui una cosa dista da un’altra», potendosi
una cosa allontanare da un'altra per qualità del tutto accidentali
che non costituiscono diiferenze in senso proprio. Il
medesimo quarto libro tratta anche della proprietà, ri- spetto alla quale
osserva che, se Tessere di una cosa è espressa dal suo genere, dalla sua
differenza e dalla sua specie, le sue proprietà non costituiscono la sua
sostanza, ma qualcosa di ac- cidentale, sebbene si chiamino proprietà, e
che quando Porfirio distingue proprietà di quattro sorte, non intende
enumerare quattro specie del genere proprietà, ma indicare i quattro si-
gnificati diversi nei quali si parla di proprietà. Il quarto libro
tratta infine delTaccidente, condannando, più di Porfirio, la distinzione
puramente negativa, per la quale « ac- cidente è ciò che non è nè genere,
nè differenza, nè speqie, nè proprietà » . 33. — Il quinto
libro illustra la comparazione che Porfirio istituisce tra le cinque voci
senza alcuna particolare osserva- zione. Notevole è tuttavia
che Boezio non lascia passare la divi- sione porfiriana delTanimale
razionale in animale razionale mortale (Tuomo) e animale razionale
immortale (Dio) senza notare che ciò si poteva dire quando si ritenevano
il Sole e gli altri corpi celesti animati e divini. 34. — Su
questi testi si chinarono, per generazioni e generazioni, gli uomini del
medioevo, come su libri di profondis- sima sapienza. Se TEuropa uscì dal
medioevo cosi fortemente razionalistica, essa s'era fatta la sua potente
quadratura logica meditando su questi ultimi fra gli antichi, lungamente
vene- rati e studiati. Grice: “I like Guzzo. For one, he spent a
tutorial or two on the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s latinizing
Porphyry!” Augusto Guzzo. Guzzo. Keywords: pagine di filosfi per i giovani
italiani; il Vico di Guzzo, il Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile,
Gli hegeliani d’Italia, Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato,
Biblioteca Italiana di Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del
principio e del uno, dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova
per giovani italiani dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino. --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755357414/in/dateposted-public/
Grice e
Hösle – l’intersoggetivo di Vico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo. Grice: “I like Hösle – for one, he helped me understand Vico when
stating that what Vico is after is a ‘science of the inter-subjective world;’
since I’m also into that I suppose I am Vico!” – Figlio di Johannes Hösle,
direttore del Goethe Institut, e Carla Gronda –, vero «enfant prodige» della
filosofia, precoce e profondo conoscitore delle lingue antiche (greco, latino,
sanscrito, ma anche pali e avestico) e di numerose lingue occidentali (ne parla
sette ed è in grado di leggerne dodici). Si laura con la tesi “Verità e storia:
uno studio sulla struttura della storia della filosofia sulla base di
un'analisi paradigmatica dell'evoluzione da Parmenide di Velia a Platone” (Milano,
Guerini e Associati, A. Tassi, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
Hegeliana). Alla «scoperta» di Hösle contribuì in modo determinante l'Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, che lo chiamò a Napoli. Imposta in maniera
originale il problema dei rapporti tra dimensione sistematica (unita
latitudinale) e dimensione storica (unita longitudinale) della filosofia,
analizzando lo sviluppo da Parmenide di Velia a Platone. In “Il
compimento della tragedia nell'opera tarda di Sofocle: un’osservazione
storico-estetica” (A. Gargano, Napoli, Bibliopolis, Memorie dell’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici) combina l'approccio estetico con l'approccio
filosofico, cerca di individuare una logica di sviluppo nella storia della
tragedia e, in contrasto con l'approccio consueto, considera Sofocle come il
compimento sintetico di questa storia. Il pensiero fondamentale espresso
nell'opera tarda di Sofocle è sintesi dei principi che sono alla base dell'arte
di Eschilo e di Euripide, principi che vengono fatti valere insieme da Sofocle
e così portati alla loro verità". Alievo di Toth, si occupa anche
del problema della matematica in Platone (“ I fondamenti dell'aritmetica e
della geometria in Platone” – Milano, tr. E. Cattanei, Vita e pensiero). In “Interpretare
Platone” (Milano, Guerini e Associati, Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici), e in “Il dialogo filosofico.
Poetica di un genere” analizza il genere del dialogo mettendo in connessione il
punto di vista filosofico con il punto di vista letterario. Al problema della
tragedia è dedicato “La gerarchia dei tragici). A Napoli tenne una serie
di seminari sull'idealismo (“Lo Stato in Hegel”, La città del Sole). La
riflessione sull'idealimo si sviluppa in stretta connessione colla "fondazione
ultima riflessiva" e con la soluzione fornita a tale problema dalla
pragmatica trascendentale. L'unica alternativa consistente al relativismo
scettico, dominante nel panorama della filosofia contemporanea ed assurto oggi
ad una sorta di principio dell'opinione pubblica, consiste nell'impostazione
riflessiva presente negli idealisti, che è necessario sviluppare. Alla “pragmatica”
trascendentale va riconosciuto il merito di aver riproposto la "fondazione
ultima riflessiva". Tale fondazione va ripensata nella sua portata
ontologica, superando il formalismo nella direzione di una formulazione ri-elaborata
dell'idealismo (“La fondazione dell'idealismo” – Milano, Guerini e Associati,
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Hegeliana). Della pragmatica
trascendentale, in relazione al problema di questa “fondazione ultima
riflessiva” Hösle torna in “La crisi della contemporaneità e la responsabilità
della filosofia”. Apel viene analizzato all'interno delle più importanti
tendenze della filosofia contemporanea, viene esposta in modo dettagliato la
"prova" della fondazione ultima riflessiva ("prova
apagogica") e vengono discussi questioni relative al linguaggio privato,
alla controversia “spiegare-comprendere e alla fondazione dell'etica. Cura
“La Scienza nuova” di Vico, compito affidatogli dall'Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici. La cura è preceduta da “Introduzione a Vico:
l’inter-soggetivo” (Milano, Guerini, Istittuo Italiano per gli Studi Filosofici). -- una introduzione filologica e teoretica in
cui Hösle illustra il significato della concezione vichiana per una teoria
delle scienze della cultura filosoficamente fondata. La rilessione culmina nella
ri-formulazione dell'idealismo: “L’intersoggettivo” (Napoli, La Scuola di
Pitagora). Sostiene che l'aporia di Hegel consiste nell'aver tras-curato
l’inter-soggetivo nella logica, la parte fondativa del Sistema. Qesta lacuna
comporta un grave squilibrio nella struttura complessiva del sistema, in
particolare, nel concetto dello spirito oggettivo e nel concetto dello spirito
assoluto, che restano scoperte sul piano logico, senza un co-rispettivo
categoriale in grado di fondare la struttura inter-soggettiva di cui trattano.
Questa aporia è alla radice di sub-aporie come, ad esempio, l'appiattimento del
“dover-essere” sull'”essere” con la conseguente visione passatista e la
questione della conclusione del sistema. Cerca di mostrare come l'idea fondamentale
dell'idealismo sia indispensabile sia per fondare in modo rigoroso il“discorso”
sia per superare la scissione tra scienze della natura e scienze dello spirito
che caratterizza in modo aporetico il pensiero moderno e contemporaneo, promossa
dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e per "La scuola di
Pitagora", è uscita una Postfazione. Sposta la sua riflessione dalla
"filosofia prima" alla "filosofia seconda", occupandosi di
problemi morali e politici, tra cui ha un posto di rilievo la questione
dell'ecologia (“Filosofia della crisi ecologica” – Torino, Einaudi). I suoi
studi delle moderne scienze sociali, politologia ed economia soprattutto, sono
poi confluiti “Morale e politica. Fondamento di un'etica politica”. Vanno
ricordati, innanzi tutto, i lavori sul significato filosofico della teoria
dell'evoluzione (“Portata e limiti della teoria evoluzionistica della
conoscenza” – Napoli, La Città del Sole). Saggi: “Aristotele e il dinosauro”
(Torino, Einaudi); “Sulla comicità” a riprova del costante interesse nutrito per
le forme d'arte, come il teatro e il cinema, in cui l'inter-soggettività -- la categoria
centrale della sua riflessione -- gioca un ruolo determinante. “Il
concetto di filosofia della religione” (Napoli, La Scuola di Pitagora); “La
legittimità del politico” (Milano, Guerini, Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici); “Per una lettura non riduttiva di Platone” (Napoli, La scuola di
Pitagora). VITTORIO G. HÖSLE Personal Address 712 Forest Avenue South
Bend, Indiana 46616 574-288-3547 • Eberhard Karls Universität Tübingen;
Habilitation (accredited as an University Lecturer), January 1986; Philosophy.
Habilitationsschrift: „Subjektivität und Intersubjektivität. Untersuchungen zu
Hegels System“ • Eberhard Karls Universität Tübingen; Ph.D. summa cum laude,
May 1982; Major: Philosophy; First Minor: Indology; Second Minor: Greek; Dissertation:
“Wahrheit und Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter
paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Platon“ • Albert
Ludwigs Universität Freiburg, 1981 • Ruhr Universität Bochum, 1980 • Eberhard
Karls Universität Tübingen, 1978-1979 • Universität Regensburg, 1977-1978
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Address University of Notre Dame Department of German and Russian Languages and
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Romanischen Mittelalters in zweisprachigen Ausgaben), 128 p. 28.Objective
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(paperback)/ St. Augustine’s Press: South Bend 1998 (cloth), VIII+227 p.
(contains papers 103, 110, 114, 115, 116, 123, 132, 136, 140, 141) 29.Moral und
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K.Leisinger und V.Hösle, C.H.Beck Verlag: München 1995, 264 p. 33. Contro lo
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(=Hangil Great Books 88), 587 p. (=Korean translation of Ch. 1-4 of 43); Vol. 2
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hg. von Ch.Lohr, übs. von V.Hösle und W.Büchel, mit einer Einführung von
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(=Philosophische Bibliothek 379), XCIV+317 p. 45. Die Vollendung der Tragödie
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paradigmatica dell’evoluzione da Parmenide a Platone, Guerini e Associati:
Milano 1998 (=Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Hegeliana 24), 484 p.
(=Italian translation of 46, however, according to my desire, without part 3
and with paper 120) Books for a broader public 1. Mein Onkel, der Latinist und
Weltrevolutionär. Ein Nachruf auf Mario Geymonat, Allitera: München 2013, 88 p.
2. Nora K./V.Hösle: Das Café der toten Philosophen. Ein philosophischer
Briefwechsel für Kinder und Erwachsene, C.H.Beck Verlag: München 1996, 21996,
31997, Special edition 1998, 22001 (=Beck’sche Reihe 4017; 1448), 256 p. 2a.
Het meisje en de filosoof, Bert Bakker: Amsterdam 1997, Ooievaar: Amsterdam
1998, 221 p. (=Dutch translation of 2) 2b. Cholhagi algosipojo, Munhak Sasang:
Seoul 1997, 21998, 300 p. (=Korean translation of 2); Chugin Cholhakchadurui
khaphe, Woongjin: Seoul 2007, 320 p. (=revised Korean translation of 2) 2c. O
Café dos Filósofos Mortos, Círculo de Leitores: Lisboa 1997, Temas e Debates:
Lisboa 1997, 232 p. (=Portuguese translation of 2) 2d. El Café de los filósofos
muertos, Grupo Anaya: Madrid 1997, 21998, 31999, 42001, 269 p. (=Spanish
translation of 2) 2e. El Café dels filósofs morts, Editorial Barcanova:
Barcelona 1997, 267 p. (=Catalan translation of 2) 2f. Aristotele e il
dinosauro, Einaudi: Torino 1999, 225 p. (=Italian translation of 2) 2g. ...,
Kawade Shobo Sinsha: Tokyo 1999, 267 p. (=Japanese translation of 2) 2h. The
Dead Philosopher’s Café, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2000, 166
p. (=English translation of 2) 2i. Ölü filozoflar kahvesi, Arion Yayinevi:
Istanbul 2000, 224 p. (=Turkish translation of 2) 2j. ..., Athena Press: Taipeh
2001, 22001, 312 p. (=Taiwanese translation of 2) 2k. O Café dos Filosofos
Mortos, Editora Angra: São Paulo 2001, 268 p. (=Brazilian- Portuguese
translation of 2) 2l. ..., Shanghai Bertelsmann: Shanghai 2001, 302 p.
(=Chinese translation of 2) 2m. Das Café der toten Philosophen. Minum kopi
bersama Arwah Para Filosof dari Sokrates hongga al-Ghazali, Tannenbaum: Bekasi
2007, 278 p. (=Indonesian translation of 2) 2n. Mahfele filsoofane khamosh,
Hermes: Teheran 1387/2008, 31392/2013, 286 7-VH p. (=Persian translation
of 2) Articles 1. Principles of morals, 2. Neoplatonic Philosophy of
Mathematics, appears in: Handbook of Neoplatonism, ed. by Ch. Wildberg, Oxford
2018 3. Success Criteria for Different Forms of Dialogue, appears in: Neue
Zeitschrift für Systematische Theologie und Religionsphilosophie 60 (2018) 4.
Was sind und zu welchem Ende betreibt man Geisteswissenschaften?, appears in
den acts of the Vienna conference “Geisteswissenschaften,” Vienna 2017 5. The
Tübingen School, appears in: Brill’s Companion to German Platonism, ed. by A.
Kim, Leiden 2017 6. A confusion of ἐλάσσονα and μείζονα in our text of Proclus’
Commentary on the First Book of Euclid’s Elements, appears in: Rheinisches
Museum für Philologie 160 (2017) 7. How Should One Evaluate the Soviet
Revolution?, appears in Analyse und Kritik 2017 8. On Some Specific Traits of
Russian Culture. Changes and Continuites Between the pre-Soviet, the Soviet,
and the post-Soviet Phase, appears in: Zeitschrift für Medien- und
Kulturforschung 8 (2017), 61-77 9. Concluding thoughts. Toward a Typology of
Public Intellectuals, in: Public intellectuals in the global arena, ed. by M.
Desch, Notre Dame 2016, 373-396 10. Global partnership – A new leitmotif for an
interconnected world (together with Horst Köhler), in: The World in 2050.
Striving for a more just, prosperous, and harmonious global community, ed. by H.
Kohli, Oxford 2016, 383-393; Spanish translation in: El Mundo en el año 2050.
En busca de una sociedad más próspera, justa y armoniosa, ed. by. H. Kohli,
Washington 2016, 419-430 11. Einstieg in den objektiven Idealismus, in:
Idealismus heute, ed. by V. Hösle and F. Suarez Müller, Darmstadt 2015, 30-49
12. Macht und Expansion. Warum das heutige Russland gefährlicher ist als die
Sowjetunion der 70er Jahre, in: Blätter für deutsche und internationale Politik
6’ 2015, 101-110 13. Una poesia metafisica. Ludwig Steinherrs Lyrikband
“Nachtgeschichte für die Teetasse,” in: Stimmen der Zeit 233 (2015), 313-322
14. Der Wert des eigenen Glücks. Über Selbstliebe und Anforderungen an sich
selbst, in: Information Philosophie 4/2014, 8-20 as well as, under the title “Unbedingte
Verpflichtung und Eudämonismus. Idealität und Realität in der natural
law, and politics in dealing with refugees, appears in a volume edited by
J. Althammer 8-VH 8/9/17 Ethik,” in: Idealismus heute, ed. by V. Hösle
and F. Suarez-Müller, Wissenschaftliche Buchgesellschaft: Darmstadt 2015,
254-270. 15. How did Western culture subdivide its various forms of knowledge?
Historical reflections on the metamorphoses of the tree of knowledge, in: Forms
of Truth and the Unity of Knowledge, ed. by V. Hösle, Notre Dame 2014, 29-69;
German translation appears in: Objektiver und absoluter Geist nach Hegel, ed.
by A. Kok and T. Oehl, Leiden/Boston 2017. 16.Charismatiker, Genie, Prophet und
dynamischer Unternehmer. Zum inneren Zusammenhang der Elemente einer Begriffsfamilie,
in: Scheidewege 43 (2013/14), 388-403 17. Philosophie als Beruf, in:
Vereinigung der Schweizerischen Hochschuldozierenden Bulletin 39 (3/4),
November 2013, 21-28 18. The Search for the Orient in German Idealism, in:
Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft 163 (2013), 431-454 19.
Can a plausible story be told of the history of ethics? An alternative to
MacIntyre’s After Virtue, in: Dimensions of Goodness, ed. by V. Hösle,
Newcastle upon Tyne 2013, 113-148; Portuguese translation in: Síntese 39/125
(2012), 345-378; German translation in: Vermisste Tugend? Zur Aktualität der
Philosophie Alasdair MacIntyres, ed. by M. Kühnlein and M. Lutz- Bachmann,
Berlin 2015, 39-96 20. Historical evolution of aesthetic theories, in: The Many
Faces of Beauty, ed. by V. Hösle, Notre Dame 2013, 277-301 21.Why does the
environmental problem challenge ethics and political philosophy?, in: Selected
Papers from the XXII World Congress of Philosophy, ed. by M.-H. Lee (=Journal
of Philosophical Research, Special Supplement), Charlottesville 2012, 279-292
22.Neun Reduktionismen in der Hermeneutik als Vereinseitigungen der Momente des
Verstehensprozesses, in: Reduktionismen und Antworten der Philosophie, ed. by
W. Grießer, Würzburg 2012, 175-194; English translation in: Understanding
Fiction. Knowledge and Meaning in Literature, ed. by J. Daiber, E. Konrad, T.
Petraschka and H. Rott, Münster 2012, 220-237 23. Reversals in Clint Eastwood’s
Gran Torino (together with Mark Roche), in: Religion and the Arts 15 (2011),
648-679 24. Why teleological principles are inevitable for reason. Natural
theology after Darwin, in: Biological Evolution: Facts and Theories, ed. by G.
Auletta, M.Leclerc, and R.A. Martinez, Rome 2011, 433-460; German translation
in: Post-Physikalismus, ed. by M. Knaup, T.Müller and P. Spät, Freiburg/München
2011, 271-305 as well as in: Evolutionstheorie und Schöpfungsglaube, ed. by
H.Ph. Weber and R. Langthaler, Göttingen 2013, 249-280 25. Ethics and
Economics, or How Much Egoism Does Modern Capitalism Need? Machiavelli’s,
Mandeville’s, and Malthus’s New Insight and Its Challenge, in: Crisis in a
Global Economy. Re-planning the Journey, ed. J.T. Raga/M.A. Glendon, Vatican
City 2011, 491-513 as well as in: Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie 97 (2011),
425-440; German translation in: jus, ars, philosophia et historia. Festschrift
für Johannes Strangas, ed. by D. 9-VH 8/9/17 8/9/17 Charalambis and Ch.
Papacharalambous, Baden-Baden/Thessaloniki/Athen 2017, 21-43 26. Methodology,
in: The SAGE Handbook of Health Care Ethics: Core and Emerging Issues, ed. by
R. Chadwick, T. Ten Have, E.M. Meslin, Los Angeles 2011, 10-19 27. Dante’s
Commedia and Goethe’s Faust. Similarities and Differences, in: The European
Image of God and Man. A Contribution to the Debate on Human Rights, ed. by
H.-Ch. Günther and A.A. Robiglio, Leiden/ New York 2010, 313- 344 28. The Idea
of a Catholic Institute for Advanced Study, in: The Idea of a Catholic
Institute for Advanced Study, ed. by V. Hösle and D.L. Stelluto (Notre Dame 2010),
9-29 29. Poetische Poetiken in der Neuzeit: Boileau, Pope, Friedrich Schlegel
und Adorno, in: Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft 55
(2010), 25-47 30. The European Union and the USA: Two contemporary versions of
Western „empires“?, in: Transzendentale Konzepte in aktuellen Bezügen, ed. by
H.-D. Klein and R. Langthaler, Würzburg 2010, 81-104 and in: Symposium.
Canadian Journal of Continental Philosophy 14/1 (2010), 22-51; Italian
translation in: Hermeneutica 2013, 279-311 31. Inwieweit ist der Geistbegriff
des deutschen Idealismus ein legitimer Erbe des Pneumabegriffs des Neuen
Testaments?, in: Zeitschrift für Neues Testament 25/13 (2010), 56-65; English
translation in: Philotheos 11 (2011), 162-174; Italian translation in: Humanitas
67/4 (2012), 697-710 32. Poetische Poetiken in der Antike: Horaz‘ „Ars poetica“
und Pseudo-Longinos‘ Περι υψους, in: Poetica 41 (2009), 55-74 33.
Soziobiologie, in: Handbuch Anthropologie. Der Mensch zwischen Natur, Kultur
und Technik, ed. by E.Bohlken and Ch.Thies, Stuttgart/Weimar 2009, 242-249;
English translation in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy
16/1 (2012), 112-128 34. Ich kann immer noch nicht anders als kompatibilistisch
zu denken, in: Erwägen – Wissen – Ethik 20 (2009), 34-37 35. Inwieweit ist man
dafür verantwortlich, sich über sich selbst zu informieren? Moral- und
rechtsphilosophische Reflexionen im Zusammenhang mit der Aids- Pandemie, in:
HIV/AIDS – Ethische Perspektiven, ed. by S. Alkier and K. Dronsch, Berlin/New
York 2009, 13-35 36. Eine metaphysische Geschichte des Atheismus, in: Deutsche
Zeitschrift für Philosophie 57 (2009), 319-327; English translation in:
Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 14/1 (2010), 52-65;
Hungarian translation in: Mérleg 46 (2010), 216-228 37. Did the Greeks
deliberately use the Golden Ratio in an Artwork? A Hermeneutical Reflection,
in: La Parola del Passato 63 (2008), 415-426 38. The Lost Prodigal Son’s
Corporal Works of Mercy and the Bridegroom’s Wedding. The Religious Subtext of
Charles Dickens’ Great Expectations, in: 10-VH 8/9/17 Anglia 126 (2008),
477-502; enlarged German translation in: Habitus fidei – Die Überwindung der
eigenen Gottlosigkeit, hg. von J. Alberg und D. Köder, Paderborn 2016, 311-339
39. Variationen, Korollarien und Gegenaphorismen zum zweiten Band der “Escolios
a un texto implícito” von Nicolás Gómez Dávila, in: Kritische Theorie zur Zeit.
Für Christoph Türcke zum sechzigsten Geburtstag, ed. by O.Decker and T.Grave,
Springe 2008, 94-108; Italian translation in: Nicolás Gómez Dávila e la crisi
dell’Occidente, ed. by F.Meroi and S. Zucal, Pisa 2014, 67-84; Spanish
translation in: Eikasia 75 (Agosto 2017), (online) 40. Über den Vergleich von
Texten. Philosophische Reflexionen zu der grundlegenden Operation der
literaturwissenschaftlichen Komparatistik, in: Orbis Litterarum 63 (2008),
381-402 41. Wilhelm Meister and Mignon as models for Nicholas Nickleby and
Smike?, in: Neohelicon 35 (2008), 237-254; German translation in: Zwischen
Sprachen und Kulturen: Das kritische Wort. Festschrift für Italo Michele
Battafarano, ed. by Elmar Locher, Würzburg 2016, 145-164 42. Dickens als
Kritiker des Goetheschen Bildungsromans? Ein Strukturvergleich von Wilhelm
Meisters Lehrjahren und Great Expectations, in: Germanisch- Romanische
Monatsschrift 58 (2008), 149-167 43. Nach dem absoluten Wissen. Welche
Erfahrungen des nachhegelschen Bewußtseins muß die Philosophie begreifen, bevor
sie wieder absolutes Wissen einfordern kann?, in: Hegels Phänomenologie des
Geistes. Ein kooperativer Kommentar zu einem Schlüsselwerk der Moderne, ed. by
K.Vieweg und W.Welsch, Frankfurt 2008, 627-654 44. Der Geist als Nostalgiker
des Lebens. Was verbindet und was unterscheidet Grillparzers „Sappho“ und Manns
„Tonio Kröger“?, in: Zeitschrift für deutsche Philologie 127 (2008), 177-198
45. Scheitern angesichts der Umweltvergiftung. Ein Vergleich von Henrik Ibsens
En Folkefiende und Wilhelm Raabes Pfisters Mühle, in: Wirkendes Wort 58 (2008),
27-51 46. De eenheid van het weten en de werkelijkheid van de universiteit, in:
Nexus 50 (2008), 677-688; German original in: Scheidewege 39 (2009/10), 43-57
47. Cicero’s Plato, in: Wiener Studien 121 (2008), 145-170 48. Pre-established
harmony between parental and free choice of the partners. Masked encounters in
Ludvig Holberg’s Mascarade, Carlo Goldoni’s I Rusteghi, and Georg Büchner’s
Leonce und Lena, in: Komparatistik 2007, 145- 163 49. Apologie der Postmoderne,
in: Kritik der postmodernen Vernunft. Idealistische Perspektiven, ed. by
B.Goebel and F.Suárez Müller, Darmstadt 2007, 259-268; Spanish translation in:
Éticas convergentes en la encrucijada de la postmodernidad, ed. by R.Salas
Astraín, Santiago/Temuco 2010, 333-346, and in: Erasmus 13/1 (2011), 102-116
50. The Idea of a Rationalistic Philosophy of Religion and Its Challenges, in:
Jahrbuch für Religionsphilosophie 6 (2007), 159-181; German translation in:
11-VH 8/9/17 Wiener Jahrbuch für Philosophie 42 (2010), 33-57; Hungarian
translation in: Mérleg 50 (2014), 80-107 51. Kann die Systemtheorie eine Ethik
der Wissenschaft ersetzen?, in: Erwägen – Wissen – Ethik 18 (2007), 34-37 52.
Die Schönheit der Geometrie, in: Ein Buch, das mein Leben verändert hat. Liber
amicorum für Wolfgang Beck, ed. by D.Felken, München 2007, 204-206 53. Erste
und dritte Person bei Burchell und Goethe: Theorie und Performanz im zehnten
Buch von “Dichtung und Wahrheit“, in: Goethe-Jahrbuch 123 (2006), 115-134 54.
Religion of art, self-mythicization and the function of the church year in
Goethe’s Italienische Reise, in: Religion and Literature 38.4 (Winter 2006), 1-
25; German translation in: Autoinvenienz, ed. by. R. Breuninger and P.L.
Oesterreich, Würzburg 2012, 35-58 55. Was ist neohegelianisch an “Moral und
Politik”?, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 38 (2006), 99-112 56. Platonism
and Its Interpretations. The Three Paradigms and Their Place in the History of
Hermeneutics, in: Eriugena, Berkeley, and the Idealist Tradition, ed. by
St.Gersh and D. Moran , Notre Dame 2006, 54-80; already in: Videtur 14 (2002),
5- 24 57. Wissenschaftsentwicklung in den USA. Aus dem Archiv des Institute for
Advanced Study in Princeton, in: Stimmen der Zeit (2006), 303-316 58.
Encephalius. Ein Gespräch über das Leib-Seele-Problem, in: Das Leib-Seele-
Problem, ed. by Th. Buchheim und F.Hermanni, München 2006, 101-130; English
translation in: Mind and Matter 5.2 (2007), 135-165 59. Wie sollte eine
synthetische Platondarstellung aussehen? Einige Überlegungen angesichts von
Kutscheras neuer Platonmonographie, in: Philosophiegeschichte und Logische
Analyse 9 (2006), 175-211 60. Erwiderung auf die Replik Franz von Kutscheras in
„Philosophiegeschichte und Logische Analyse“ 9/2006 auf meine Rezension seines
Platonbuches, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 37 (2005), 272-276 61.
Religion, Religionsverlust und Erzählstrategien in einer neueren
Autobiographie. Zu Johannes Hösles “Vor aller Zeit. Geschichte einer Kindheit”
sowie “Und was wird jetzt? Geschichte einer Jugend”, in: Zur Sprache gebracht.
Philosophische Facetten. ... Festschrift für Peter Novak, ed by. N.Leißner und
R.Breuninger, Ulm 2005, 91-103 62. Psychologie des Spielers und Ethik des
Va-banque-Spiels. Zu Friedrich Schillers Die Verschwörung des Fiesko zu Genua,
in: Wege zur Politischen Philosophie und Politik. Festschrift für Martin
Sattler, ed. by G. von Sivers und U.Diehl, Würzburg 2006, 41-64 63. Philosophy
and its Languages. A Philosopher’s Reflections on the Rise of English as
Universal Academic Language, in: The Contest of Languages, ed. by M.Bloomer,
Notre Dame 2005, 245-262 64. Was kann man von Hegel objektiv-idealistischer
Theorie des Beriffs noch lernen, das über Sellars’, McDowells und Brandoms
Anknüpfungen 12-VH 8/9/17 hinausgeht?, in: Allgemeine Zeitschrift für
Philosophie 30 (2005), 139-158; English translation in: The Dimensions of Hegel’s
Dialectic, ed. by N.G. Limnatis, London 2010, 216-236 65. Reasons, emotions and
God’s presence in Anselm of Canterbury’s Dialogue Cur deus homo (together with
Bernd Goebel), in: Archiv für Geschichte der Philosophie 87 (2005), 189-210;
German translation in: Die Frage nach dem Unbedingten. Gott als genuines Thema
der Philosophie, ed F.Resch and M. Klinkosch, Dresden 2016, 351-383 66. Die
Philosophie und ihre literarischen Formen – Versuch einer Taxonomie, in: Das
Geistige und das Sinnliche in der Kunst, ed. by D.Wandschneider, Würzburg 2005,
41-55 67. Berufsethik der Geheimdienste und Krise der hohen Politik.
Philosophische Betrachtungen zum literarischen Universum von John Le Carrés
Spionageromanen im allgemeinen und zu Absolute Friends im besonderen, in:
Deutsche Vierteljahrsschrift 79 (2005), 131-159 68. Replik auf Ursula
Hoyningen-Süess’ Kommentar, in: Pädagogik und Ethik, ed. by D.Horster und
J.Oelkers, Wiesbaden 2005, 333-339 69. Platons “Protreptikos”.
Gesprächsgeschehen und Gesprächsgegenstand in Platons “Euthydemos”, in:
Rheinisches Museum für Philologie 147 (2004), 247- 275 70. „Great Books
Programs.“ Die Rolle der Klassiker im Bildungsprozeß, in: Kultur, Bildung oder
Geist?, ed. by R.Benedikter, Innsbruck 2004, 117-133 71. Interreligious Dialogues
during the Middle Ages and Early Modernity, in: Educating for Democracy:
Paideia in an Age of Uncertainty, ed. by A.M.Olson, D.M.Steiner, and I.S.Tuuli,
Lanham 2004, 59-83; German translation in: Dialog und Verstehen, ed. by
G.Damschen and A.G. Vigo, Berlin 2015, 59-88 72. Eine Form der
Selbsttranszendierung philosophischer Dialoge bei Cicero und Platon und ihre
Bedeutung für die Philologie, in: Hermes 132 (2004), 152-166; English
translation in: Graduate Faculty Philosophy Journal 26, No.1 (2005), 29-46 73.
Wie soll man Philosophiegeschichte betreiben? Kritische Bemerkungen zu Kurt
Flaschs philosophiehistorischer Methodologie, in: Philosophisches Jahrbuch 111
(2004), 140-147 74. Wahrheit und Verstehen. Davidson, Gadamer und das Desiderat
einer objektiv- idealistischen Hermeneutik, in: Logik, Mathematik und Natur im
objektiven Idealismus. Festschrift für Dieter Wandschneider, ed. by W.Neuser
und V.Hösle, Würzburg 2004, 265-283; English translation in: Metaphysik und
Hermeneutik. Festschrift für Hans-Georg Flickinger zum 60. Geburtstag, ed. by
H. Eidam/ F. Hermenau/ D. de Souza, Kassel 2004, 117-141 as well as in: Between
Description and Interpretation: The Hermeneutic Turn in Phenomenology, ed. by
A.Wierciński, Toronto 2005, 376-391; Italian translation in: Hermeneutica 2005,
321-346 75. Variationen, Korollarien und Gegenaphorismen zum ersten Band der
“Escolios a un texto implicito” von Nicolás Gómez Dávila, in: Die Ausnahme
denken. Festschrift zum 60. Geburtstag von K.-M.Kodalle, ed. by C.Dierksmeier,
2 Bde., 13-VH Würzburg 2003, II 149-163 76. Hans Jonas’ Stellung in der
Geschichte der deutschen Philosophie, in: Weiterwohnlichkeit der Welt. Zur
Aktualität von Hans Jonas, ed. by Ch. Wiese und E. Jacobson, Frankfurt 2003,
34-52 and 325-328 as well as in: Synthesis philosophica 35-36 (2003), 5-19;
enlarged version in: Weltinnenpolitik für das 21. Jahrhundert, ed. by
U.Bartosch, K.Gansczyk, Hamburg 2007, 139-157; Croatian translation in:
Filozofska Istraživanja 90/3 (2003), 539-552; English translation in: The
Legacy of Hans Jonas: Judaism and the Phenomenon of Life, ed. by H.Tirosh-
Samuelson and Ch.Wiese, Leiden/Boston 2008, 19-37 77. Globalisierung und
US-amerikanische Hegemonie, in: Ethik, Politik und Kulturen im
Globalisierungsprozess, ed. by R.Elm, Bochum 2003, 220-230. 78. Kritische
Anmerkungen zur Theorie des gerechten Krieges, in: Neue
Gesellschaft/Frankfurter Hefte 6/2003, 9-13; Portuguese translation in: Videtur
20 (2003), 7-10 79. Inferenzialismo in Brandom e olismo in Hegel. Una risposta
a Richard Rorty e alcune domande per Robert Brandom, in: Hegel contemporaneo, a
cura di L.Ruggiu e I.Testa. Milano 2003, 290-317; German translation in:
Diskurs und Reflexion, ed. by W. Kellerwessel, W. J. Cramm, D. Krause, H. C.
Kupfer, Würzburg 2005, 463-486; English original in: Graduate Faculty
Philosophy Journal 27, No. 1 (2006), 61-82 80. Is There Progress in the History
of Philosophy?, in: Hegel’s History of Philosophy, ed. by D.A.Duquette, Albany,
NY 2003, 185-204 81. Interpreting Philosophical Dialogues, in: Antike und
Abendland 48 (2002), 68-90 82. Zum Verhältnis von Metaphysik des Lebendigen und
allgemeiner Metaphysik. Betrachtungen in kritischem Anschluß an Schopenhauer,
in: Metaphysik. Herausforderungen und Möglichkeiten, ed. by V.Hösle,
Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, 59-97 83. Könnte die Europaische Union als
Bundesstaat funktionieren? Und kann sie ein Bundesstaat werden?, in:
Universitas 56 (2001), 1234-1244 84. Die Metaebene der bioethischen Diskussion.
Einige Bemerkungen zu Michael Neumanns Kirchentagsrede, in: Scheidewege
31(2001/2002), 95-102 85. Replik, in: Eine moralische Politik? Vittorio Hösles
Politische Ethik in der Diskussion, ed. by B.Goebel und M.Wetzel, Würzburg
2001, 291-314 86. Das Umweltproblem im 21. Jahrhundert. Dimensionen einer Krise,
in: Gedanken zur Nachhaltigkeit, ed. by L. di Blasi, B.Goebel und V.Hösle,
München 2001, 9-36 and 263-264; reprinted in: Handbuch
Generationengerechtigkeit, ed. by Stiftung für die Rechte zukünftiger
Generationen, München 2003, 125-150; Italian tranlation in: Una nuova etica per
l’ambiente, ed. by C.Quarta, Bari 2006, 71-94 87. Die Philosophie und ihre
Medien, in „Platonisches Philosophieren“. , Zehn Vorträge zu Ehren von Hans
Joachim Krämer, ed. by Th.A.Szlezák unter Mitwirkung von K.- H.Stanzel, Hildesheim/
Zürich/New York 2001, 1-17 88. Platonismus und Darwinismus, in: Freiburger
Institut fur Palaowissenschaftliche Studien, Kleine Schriftenreihe Nr. 6, 2001,
1-36; Spanish translation in: Universitas Philosophica 39 (2002), 11-48;
English original in: Darwinism and Philosophy, ed. 14-VH 8/9/17 by V.
Hösle and Ch. Illies, Notre Dame 2005, 216-242 89. Verfall der deutschen
Universitaten? Hochschulen in den USA und Deutschland, in: Stimmen der Zeit 219
(2001), 377-386, abbreviated version in: Die Tagespost vom 20.4.2002, Nr.48,
p.10 90. Ethik des Erwählten und Metaphysik des Geistes und des Lebens. Zu
Thomas Manns Philosophie, in: System der Philosophie? Festgabe für H.-D.Klein,
ed. by L.Nagl/R.Langthaler, Frankfurt a.M. 2000, 51-68; Portuguese translation
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Frankfurter Allgemeine Zeitung of 9.9.2004, Nr. 210, p. 42 12. Der Ethikrat.
Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Silvio Berlusconi, blendend schön,
in: DIE ZEIT of 5.2.2003, Nr. 7, p. 50 13. Der Ethikrat. Philosophische
Hilfestellungen. Diesmal für: Nackte Studenten, in: DIE ZEIT of 18.12.2003,
Nr.52, p.54 14. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für:
Norbert Blüm, Rentner und Philosoph, in: DIE ZEIT of 23.10.2003, Nr. 44, p.50
15. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Paul Wolfowitz,
plaudernder Stratege, in: DIE ZEIT of 12.6.2003, Nr. 25, p.48 16. Der Ethikrat.
Philosophische Hilfestellungen Wahlbetrugsuntersucher, in: DIE ZEIT of
6.2.2003, Nr. 7, p.48 17. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal
für Ludwig Stiegler, 22-VH 8/9/17 Deutsche Sozialdemokraten, in: DIE ZEIT
of 12.12.2002, Nr. 51, p. 56 18. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen
Diesmal für: UN-Delegierte, zwischen Austern und Austerität, in: DIE ZEIT of
5.9.2002, Nr. 37, p.56 19. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal
für: Grüne Pazifisten, Entscheidungsträger, in: DIE ZEIT of 22.11.2001, Nr. 48,
p.56 20. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal fur: Rudolf
Scharping und seine Kritiker, in: DIE ZEIT of 30.8.2001, Nr.36, p. 44 21. Die
Irrtümer der Denker, in: DER SPIEGEL of 16.7.2001, Nr. 29, p. 136-139;
reprinted in: SPIEGEL SPECIAL 1/2001: Die Gegenwart der Vergangenheit, 139- 141
22. Heilung um jeden Preis? Wer einem Kleinkind Grundrechte zuspricht, kann sie
einem Embryo nicht nehmen, in: DIE ZEIT of 1.3.2001, Nr. 10, p. 36; reprinted
in: ZEIT dokument 1/2002, 92-95 23. Wenn Berlin Berlin bleibt, muss Deutschland
Deutschland bleiben. Eine philosophische Analyse des Wahlspruchs der SPD, in:
Frankfurter Allgemeine Zeitung of 11.9.1999, Nr. 211, p. BS 3 24. Das Prinzip
der Moral. Über die Zukunft der praktischen Philosophie, in: Basler Zeitung as
well as in: Frankfurter Rundschau of 8.1.1999, Nr. 6, p. 10 25. Ist er nun zu
Hause oder nicht? Die Moderne atmet auf: Koreas Philosophen holen den Weltgeist
an seinen Ursprung zurück, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 19.7.1995, Nr.
165, p. N6 26. Zu Tode geheuchelt. Auf dem Weg zur Reue - Eine Tagung fragt
nach den sowjetischen Lektionen, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of
7.10.1992, Nr. 233, p. N5; English translation in: Religion, State and Society
21 (1993), 363-365 27.Verzweifelte Suche nach Sinn. Einblicke in die
sowjetische Philosophie der Gegenwart, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of
28.11.1990, Nr. 277, p. N4 28. Einstein filosofo, in: L’altra Campania
V/Juni-Juli 1989, 16- 17 IntInterviews and Contributions to Discussions 1. Weil
wir zur Wahrheit fähig sind. Ein Gespräch mit Ulf von Rauchhaupt, in:
Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung vom 29.1.2017, Nr. 4, 60-61 2.
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Hösle, in: Exagere 1 (2016) (online) 3. Colloquio con Vittoro Hösle, in:
L’Espresso 35 (LXII) of 28.8.2016, 72-74 23-VH 8/9/17 8/9/17 4. Interview
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L’etica ambientale e la Laudato sì di papa Francesco.Intervista con Vittorio
Hösle, in: Munera 3/2015, 29-35 6. Interview, in: Wenhui 2015/4/3, 6-7 7. A
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Universidad, Democracia 7-8 (2014), 182-196 (online) 8. Die hohe Kunst des
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Cogito 3 (1/2014), 28-33 10. Ich freue mich über päpstliche Nähe (interview),
in: Die Tagespost of 24.10.2013, Nr. 128, p. 9 11. Wenn die Moral Hobbes geht,
in: The European of 4/18/2013 (online) 12. Respecting Posterity, in: Notre Dame
Magazine 41/4 (2012-13), 21-22 13. Zur Lage der Philosophie, in: Zeitschrift
für Ideengeschichte VI/2 (2012), 58-72 14. Der Kapitalismus ist alternativlos
(interview), in: The European of 11/17/2011 (online) 15. Interview, in:
Shanghai review of Books of 7/17/2011, 2; longer version in: Duli Yuedu 9/2011,
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(2010), 3-21 19. Ein Gespräch mit Sven Drühl, in: Kunstforum 190/2008, 42-48
20. Platon heute, in: zur debatte 38/3 (2008), 27-30 21. The Idea of Justice
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30. Wider den Tod der Moral, in: Ethik-Letter LayReport 6/2 (2000), 2-4 31. (My
answer), in: Quo vadis, Philosophie? Antworten der Philosophen. Dokumentation
einer Weltumfrage, ed. by R.Fornet-Betancourt, Aachen 1999, 151-152 32. Zehn
Thesen zum Sinn der Arbeit, in: Vom Sinn der Arbeit, ed. by O.Franz, Köln 1999,
11-13 33. Gesundheit und Krankheit: Elementare Begriffe mit großen praktischen
Konsequenzen - Ein Kommentar zu Bernard Gert, in: Zukunftsentwürfe, ed. by
J.Rüsen, H.Leitgeb, N.Jegelka, Frankfurt/New York 1999, 270-274 34. Thesen zum
neuen Grundsatzprogramm für BÜNDNIS 90 / DIE GRÜNEN, in: Zur Politik zurück,
ed. by BÜNDNIS 90 / DIE GRÜNEN, Berlin 1999, 33-35 35. Versuch einer
politischen Ethik des 21. Jahrhunderts - Wem ist die Regierung verpflichtet?,
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Brockhaus-Redaktion, Leipzig/Mannheim 1999, 372-375 36. Keine Kriegserklärung,
in: Was die Republik bewegte, ed. by B.Hoffmeister/U.Naumann, Reinbek bei
Hamburg 1999, 80-81 37. Mensenrechten: objectief idealisme. Interview met
vooruitgangsdenker Vittorio Hösle, in: Filosofie Magazine 7/10 (1998/1999),
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Hösle, in: Krisis 73 (winter 1998), 38-48 39. „Das Café der toten Philosophen“.
Interview mit Nora K. und Vittorio Hösle, in: Ethik & Unterricht 3/98,
25-27 40. Podiumsdiskussion „Kultureller Wandel durch Wissen - Ethik und
Werte“, in: Zukunft Deutschlands in der Wissensgesellschaft, ed. by bmb+f, Bonn
1998, 92- 120 41.Podiumsdiskussion „Die Tatsache der „Globalisierung“ und die
Aufgabe der 25-VH 8/9/17 8/9/17 Philosophie“ zwischen K.-O.Apel, V.Hösle,
R.Simon- Schaefer, in: K.- O.Apel/V.Hösle/R.Simon-Schaefer, Globalisierung,
Bamberg 1998, 75-122 42. Interview in: Munhak Sasang 2 (1998), 266-277 43.
Norwegische Philosophie, in: Aletheia 11/12 (1997), 75-77 as well as in:
Information Philosophie 1 (1998), 90-92 44. SPIEGEL-Gespräch „Wir brauchen
moralische Energie“, in: DER SPIEGEL Nr. 46/10.11.97, 247-252 45. Podiumsdiskussion,
in: Grenzen-los?, ed. by E.U. von Weizsäcker, Berlin/Basel/Boston 1997, 376-400
(mein Text: 376- 380, 388-390, 396-397) 46. Letzte Gewißheit. Fundamentalismus
in der Philosophie. Eine Diskussion zwischen H.Brunkhorst, V.Hösle und Th.Kesselring,
moderiert von G.B.Achenbach, in: Philosophie heute, ed. vy U.Boehm, Frankfurt
1997, 33-51 47. Three Interviews with Paul K.Feyerabend (together with
R.Parascandolo), in: Telos 102 (1995), 115-148 48. Interview in: Science,
Philosophy and Culture 13 (1995), 134-144 49. Interview in: Munhak Sasang 5
(1995), 255-287 50. Podiumsdiskussion: Wieviel Gentechnik, Tierexperimente,
Umweltschutz brauchen wir?, in: Forschung in Chemie, Biochemie und Molekularer
Medizin - Zukunftschancen oder Verzicht, ed. by Gesellschaft Deutscher Chemiker
und Gesellschaft für Biologische Chemie, Frankfurt 1994, 37-56 (my text: 46-48,
55-56) 51. Absoljutnyi racionalism i sovremennyi krizis, in: Voprosy filosofii
11 (1990), 107- 113 52. E giusta la ricerca sugli embrioni? Un’intervista a
V.Hösle, in: Figli della scienza, a cura di V.Lanfranchi e S.Favi, introduzioni
di G.Berlinguer e L.Violante, Roma 1988, 189-194 PrPrefaces to the Works of
Other Persons 1. Preface to: Maxim Kantor, Das neue Bestiarium/Le nouveau
bestiaire, Köln 2016, 14-17 and 168-170 (German, French, and English) 2.
Postscript to: Ludwig Steinherr, Flüstergalerie, München 2013, 131-137 3.
Preface to: Ludwig Steinherr, Das Mädchen Der Maler Ich, München 2012, 5-10 4.
Preface to: Maxim Kantor, Saint Petersburg 2012, 39-45 5. Preface to: I.Tóth,
Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei 26-VH Aristoteles,
Berlin 2010, XVII-XXIV 6. Preface to: J.Hösle, Al bivio.Gli anni milanesi,
Milano 2009, 9-12 7. Preface to: D.Wandschneider, Naturphilosophie, Bamberg 2008,
7-8 8. Überlegungen zur Reihe „Faszination Philosophie“, in: W.V.O.Quine,
Philosophie der Logik, Bamberg 2005, 3-9 9. Preface to: G.Scherer,
Philosophische Anthropologie, Bamberg 2005, 5-7 10. Preface to: F.Suárez
Müller, Skepsis und Geschichte. Das Werk Michel Foucaults im Lichte des
absoluten Idealismus, Würzburg 2004, 15-17 11. Postscript to: M.Kantor, New
Empire, Bramsche 2004, 97-100; English translation, 111-113; French
translation, 124-127; Russian translation, 141-144 12. Preface to: D.Wandschneider,
Philosophie der Technik, Bamberg 2004, 7-9 13. Preface to: P.L.Oesterreich,
Philosophie der Rhetorik, Bamberg 2003, 7-10 14. Preface to: G.Münnix,
Anderwelten, Weinheim 2001, 9-10 15. Postscript to: M.Kantor. Ödland. Atlas,
Ostfildern-Ruit 2001, 145-148, English translation, M. Kantor, Atlas,
Ostfildern-Ruit 2001, 145-148 16. Preface to: A.Weston, Einladung zu ethischem
Denken, Freiburg 1999, 9-16 (and 124-126) 17. Preface to: D.Nikulin,
Wissenschaft und Ethik, München 1996, 7-9 18. Preface to: G. Stelli, La ricerca
del fondamento, Milano 1995, 13-15 Dissertations, books, and articles dealing
with my work (selection) 1. Mattia Coser, Macht und Moral im Ausgang von
Vittorio Hösle, in: Disputatio philosophica. International Journal on
Philosophy and Religion 1/1 (2017), 73-83 2. Michael Hackl, An den Grenzen von
G. W. F. Hegels System. Die ökologische Bedrohung im Anschluss an C. L.
Michelet, K. Rosenkranz und V. Hösle, in: Hegel-Jahrbuch 2015, 397-404 3. Dalja
Matijević, Hösleovo povećalo: Modeliranje ekološke budućnosti ljudskoga
društva, in: Društvena Istraživanja 24 (2015), 111-131 4. Mathias Schneider,
Vittorio Hösles Umweltphilosophie im Kontext der Nachhaltigkeitsidee, Berlin
2015 (dissertation Freiburg 2014) 5. Charlotte Luyckx, Crise cosmologique et
crise des valeurs: la réponse höslienne 27-VH 8/9/17 8/9/17 au double
défi de la philosophie de l’écologie, in: Klesis – revue philosophique 25
(2013), 144-175 6. Ernst-Otto Onnasch, Vittorio Hösle, in: De nieuwe Duitse
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DavidEngels,VittorioHöslesEinschätzungderVoreleatenalsVorlaufzum klassischen
Zyklus griechischer Philosophie. Überlegungen zu einer kritischen Neubewertung,
in: Revue de philosophie ancienne XXIX/2 (2011), 5-39 8. Wellistony C. Viana,
Das “Prinzip Verantwortung” von Hans Jonas aus der Perspektive des objektiven
Idealismus der Intersubjektivität von Vittorio Hösle, Würzburg 2010
(dissertation Munich 2010) 9.
LuisCarlosSilvadeSousa,Ametafísicaenquantoteoriatranscendentalabsoluta em
Joseph Maréchal e Vittorio Hösle, in: Síntese 33/107 (2006), 393-412 10.
Manfredo Araujo de Oliveira, Filosofia política enquanto teoria
normativo-material das instituições em Vittorio Hösle, in: Filosofia política
contemporânea, ed, by M. A. De Oliveira et al., Petrópolis 2003, 333-363
11.Erling Skjei, Kritikk av den sistebegrunnende fornuft: et forsøk på å tolke
og å vurdere Descartes’, Apels of Hösles gjendrivelser av skeptisismen,
dissertation Trondheim 2003 12.Bernd Goebel/Manfred Wetzel (Eds.), Eine
moralische Politik? Vittorio Hösles Politische Ethik in der Diskussion,
Würzburg 2001 13. Manfredo Araujo de Oliveira, Ética
intencionalista-teleológica em Vittorio Hösle, in: Correntes fundamentais da
ética contemporânea, ed. by M. A. De Oliveira, Rio de Janeiro 2000, 235-255 14.
Alexander Klier, Umweltethik: wider die ökologische Krise. Ein kritischer
Vergleich der Positionen von Vittorio Hösle und Hans Jonas, Marburg 2000 15.
Jürgen Sikora, Mit-Verantwortung: Hans Jonas, Vittorio Hösle und die Grundlagen
normativer Pädagogik, Eitorf 1999 16.Gertrude Hirsch-Hadorn, Umwelt, Natur und
Moral: eine Kritik an Hans Jonas, Vittorio Hösle und Georg Picht,
Freiburg/Munich 1998 (habilitationsschrift Konstanz 1998) 17. Annette von
Werder, Philosophie und Geschichte: das historische Selbstverständnis des
objektiven Idealismus bei Hegel und bei Hösle, dissertation Aachen 1993 18.
Неллн B. Moтрoшилова, Bитторио Хёсле: наброски к философскому портрету, in:
Bитторио Хёсле, Генин философии нового времени, Moskau 1992, 172-218 19.Sergio
Dellavalle, Soggetto morale o sostanza etica. Riflessioni sui recenti
contributi di Vittorio Hösle alla fondazione di un’etica della società
tecnologica e del 28-VH rischio ecologico, in: Teoria politica VII/3
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HansSteinbichler,DerMoralist–VittorioHösleentdecktAmerika,2003(BR) 2.
UlrichBoehm,“EinganzgewöhnlichesGenie.”JungphilosophVittorioHösle,1988 (WDR)
Papers 1. “On the conection between form and content in the philosophical
dialogue” (at the 2. “On the Neoplatonic Philosophy of Novum in Frascati in
April 2017) 3. “The study of language as tool of the reconstruction of values.
Paul Thieme’s linguistic methododology and implicit philosophy of language” (at
the conference “ 4. “Principles of morals, natural law, and politics in dealing
with refugees” (at the conference “Solidarity in global societies” in Munich in
October 2016; repeated at the Plenary Session of the Pontifical Academy of the
Social Sciences in April/May 2017) 5. “How much is the interpreter of an
artwork bound by the author’s intentions?” (at the 20th International Congress
of Aesthetics in Seoul in July 2016) 6. “The Special Nature of the Soviet
Revolution: An Evaluation from the Point of View of the Philosophy of History” (at
the Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law and
at the University of Passau in May 2016; repeated at the University of Bamberg
in February 2017) 7. “Objective idealism as an alternative to both naturalism
and constructivism” (at the University of Heidelberg in June 2015) 8. Five
lectures on “Morals and Politics” (at Fudan university in Shanghai in December
2014) 9. “Vocation between self-love and demands regarding oneself” (at the
Meckatzer Philosophy Award ceremony in Bad Hindelang in May 2014) 10. “What are
and why does one study humanities?” (at the conference “Humanities” in Vienna
in February 2014, repeated at the Gadamer conference in Santiago de Chile in
April 2015, at the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in Naples (in the
following: IISFN) in April 2015, and at the Albertus Magnus Forum in Regensburg
in February 2016) 11. “Order and disorder in intercultural dialogue “ (at the
conference “Order and Disorder in the Age of Globalization(s)” in Johannesburg
in November 2013, repeated at the Goethe Institute Munich in April 2014) 12.
“On the relation between Dante’s Commedia and Goethe’s Faust” (at the
conference “Philosophia transalpina” at the University of Munich in August
2013) Academy Vivarium Novum in Frascati in April 2017) 8/9/17
Mathematics” (at the Academy Vivarium “Indology Nowadays: A
Winter School on the Legacy of Paul Thieme” at the university Tübingen in
February 2017) 29-VH 8/9/17 13. “What remains of Hegel’s theory of the
social world?” (at the University of Jena in May 2012) 14. “How did 20th
century philosophy contribute to the current crisis?” (at the conference
“Volcano” at the University of Oxford in May 2012) 15. “How did Western culture
subdivide its various forms of knowledge? Historical reflections on the
metamorphoses of the tree of knowledge” (at the conference “Conceptions of
Truth and the Unity of Knowledge” at the University of Notre Dame in April
2012) 16. “Reductionisms in hermeneutics” (at the workshop “Knowledge and
Meaning in Literature” at the University of Regensburg in June 2011; repeated
at the University of Vienna in July 2011, at Purdue University in October 2012,
at Duke University in March 2014, at the University of Nebraska in Omaha in
March 2015) 17. “Innovation and creative destruction” (at the Heidelberg
conference “Genius and Charisma” in June 2011) 18. “Can a plausible story be
told of the history of ethics? An alternative to MacIntyre’s After Virtue“ (at
the conference “Dimensions of Goodness” at the University of Notre Dame in
April 2011) 19. “Sociobiology” (at King’s University College in London, Ontario
in February 2011) 20. “Ethics and Economics, or How Much Egoism Does Modern
Capitalism Need? Machiavelli’s, Mandeville’s, and Malthus’s New Insight and Its
Challenge” (in the XVI Plenary Session of the Pontifical Academy of Social
Sciences in May 2010; repeated at the University of Regensburg in July 2011, at
the Lumen Christi Institute at the University of Chicago in May 2012, at
Michigan State University in January 2013, at the University of Munich in July
2013, at Yale University in November 2013, at Ulm University in May 2015) 21.
“In which sense is the concept of spirit of German Idealism a legitimate
successor of the concept of pneuma of the New Testament?” (at the
Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in March 2010) 22. “Interests,
values, and recognition as different dimensions in the efforts on nuclear
disarmament and non-proliferation” (at the conference “Nuclear disarmament,
non- proliferation, and development” in the Vatican in February 2010) 23. “What
are the main steps in the historical evolution of aesthetic theories from
ancient civilizations to the present and the driving forces behind this
evolution?” (at the conference “Beauty” at the University of Notre Dame in
January 2010) 24. “A metaphysical history of atheism” (at the University
Bamberg in April 2009) 25. “On the rank order of the three Greek tragedians”
(at the University of Jena in April 2009; repeated in Castelen near Basel in
April 2009) 26. “Why teleological principles are inevitable for reason” (at the
Evolution Conference of the Gregoriana in Rome in March 2009; repeated at the
University of Vienna in February 2010, at Duke University in March 2014) 27.
“The USA and the European Union as two modern forms of empire” (at the
University of Bielefeld in February 2009; repeated at the University of Notre
Dame 30-VH in March 2009 and at the University of Uppsala in May 2009)
28. “Why does the environmental problem challenge ethics and political
philosophy?” (at the World Conference for Philosophy in Seoul in August 2008)
29. “On the philosophy of history of the philosophy of history” (at the
conference “Pneumatologia politica” in Trento in May 2008) 30. “Did Goethe
influence Dickens?” (at Cambridge University in May 2008) 31. “Why do we
laugh?” (at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008) 32. “Ethics and
dialogue” (at the University of Urbino in April 2008) 33. “Childhood and
philosophy” (at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008) 34. “The Idea of a
Rationalist Philosophy of Religion” (at the Catholic Academy Berlin in March
2008; repeated at the University of Trento in May 2008, at the Antonianum in
Rome in June 2008 and at the Divinity School of Yale University in November
2013) 35.“Expectations and Grace. On Charles Dickens’ Great Expectations” (at
the Catholic Academy Berlin in March 2008) 36. “Gómez Dávila” (at the
Karl-Rahner-Akademie in Köln in March 2008) 37. “Plato today” (at the Catholic
Academy in Munich in February 2008) 38. “Dickens as a critic of Goethe?” (at
the University of Bamberg in May 2007) 39. “Religion of art, self-mythicization
and the function of the church year in Goethe’s Italienische Reise” (at the
Theologische Fakultät Fulda in Mai 2007) 40.“Pre-established harmony between
parental and free choice of the partners. Masked encounters in Ludvig Holberg’s
Mascarade, Carlo Goldoni’s I Rusteghi, and Georg Büchner’s Leonce und Lena” (at
the Goldoni conference of Saint Mary’s College and the University of Notre Dame
in April 2007) 41. “Cicero’s Plato” (at the Cicero conference of the University
of Notre Dame in October 2006; repeated at the MPSA in Chicago in April 2007)
42. “Politics of science and of immigration in the USA” (at the DAI Heidelberg
in April 2006) 43. “Space and Time of the philosophical dialogue” (at the
Theological Faculty Fulda in May 2005) 44. “On the forms of the philosophical
dialogue” (at the University of Bamberg in May 2005; repeated at the University
of Beijing in January 2015) 45. “On the history of the philosophical dialogue”
(at the University of Halle in May 2005) 31-VH 8/9/17 8/9/17 46.“The role
of the classics in education” (for the 500-year-anniversary of the
Allbertus-Magnus-Gymnasiums in Regensburg in May 2005) 47. “Friedrich Schiller’s
“The Conspiracy of Fiasco in Genua”” (at the University of Wisconsin in April
2005; repeated at the University of Bielefeld in February 2009) 48. “What can
one learn from Hegel’s objective-idealist doctrine of the concept?” (at the
University of Munich in January 2005, repeated at the University Valencia in
April 2016) 49. “What are philosophical dialogues, and why do people write
them?” (at the Institute for Advanced Study in December 2004; repeated at the
University of Rome in June 2007) 50. “A form of self-transcendence of
philosophical dialogues in Cicero and Plato” (at the New School University in
October 2004) 51. “Intersubjectivity and subjectivity in Hegel” (at the
University of Venice in April 2004) 52. Four lectures on “Interpreting Plato”
at the IISFN in March 2004 53. “Plato’s Protrepticus” (at the Scuola di
Heidelberg of the IISFN in March 2004) 54. “The superiority of the American
university system” (at the DAI Heidelberg in March 2004) 55. “Philosophy and
Its Literary Forms” (at the conference “Das Geistige und das Sinnliche in der
Kunst” in Aachen in February 2004) 56. “Philosophy and its Languages. A
Philosopher’s Reflections on the Rise of English as Universal Academic
Language” (at Circolo Italo-Britannico in Venedig in January 2004; repeated at
Ehwa University in Seoul in July 2008) 57. “Reasons, emotions and God’s
presence in Anselm’s “Cur deus homo”“ (at the University of Notre Dame in
November 2003) 58. “Hans Jonas’ position in the history of German philosophy”
(at the Northern Institute of Technology in Hamburg in June 2003; repeated in
Italian at the University of Venice in February 2004 and in German at the
Evangelische Akademie Tutzing in May 2007) 59. “What can we learn from the
interreligious dialogues of the Middle Ages and early Modernity?” (at the
conference “Paideia and Religion” in Boston in March 2003; repeated in Italian
at the IISFN in June 2003) 60. “The function of the classics in the process of
education” (at the University of Vienna in December 2002) 61. “Davidson, Gadamer
and the necessity of an objective-idealististic hermeneutics” (at the
university of Vienna in December 2002; repeated at the Scuola di Heidelberg of
the IISFN in January 2003 and at the University of Notre Dame in 32-VH
September 2005) 62. ”Globalization and US-American hegemony” (at the DAI
Heidelberg in January 2003; repeated at the IISFN in June 2003, at the
University of Urbino in March 2004 and in Imperia in May 2004) 63. “Platonism
and Its Interpretations. The Three Paradigms and Their Place in the History of
Hermeneutics” (in German at the RWTH Aachen in February 2002; repeated at the
University of Heidelberg in January 2003 und in English at the conference
“Eriugena, Berkeley and the Idealist Tradition” in Dublin im March 2002) 64.
“Philosophy and the Interpretation of the Bible” (at Clemson University in
South Carolina in February 2002; repeated at Holy Cross College, Worcester in
September 2006 and at the University of Trento in April 2008) 65. “Hegel’s and
Brandom’s inferentialism” (at the conference “Hegel contemporaneo” in Venice in
May 2001) 66. “Platonism and Darwinism” (at the conference “The metaphysical
implications of Darwinism” in Notre Dame in March 2001; repeated at the
University of Vienna in April 2009) 67. "Is There Progress in the History
of Philosophy?" (at the conference on "Hegel’s History of
Philosophy" in New York in October 2000) 68. "Why Do We Laugh at and
with Woody Allen?” (at New York University in October 2000; repeated at Ohio
University in Athens in April 2002) 69. "Interpreting Philosophical
Dialogues" (at the conference on Hermeneutics as Basic Discipline" at
Notre Dame in September 2000; repeated at the New School for Social Research in
October 2000) 70. "On the relation between metaphysics of life and general
metaphysics. Reflections on Schopenhauer" (at the conference on
metaphysics in Hildesheim in June 2000) 71. "The environmental problem in
the twenty-first century" (at the lecture series "Gedanken zur
Nachhaltigkeit" of the Forschungsinstitut für Philosophie in May 2000;
repeated at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008 and at the university of
Louvaine in May 2016) 72. "Llulls “Desconhort”" (at the University of
Regensburg in December 1998; repeated at the Medieval Conference in Kalamazoo
in May 2000) 73. ."On the philosophy of history of the social
sciences" (at the University of Essen in October 1998; repeated at the
University of Regensburg in February 1999) 74. "What constitutes the
extraordinary value of the Russian literature of the 19th century?" (at
the Freie Akademie der Künste in Hamburg in October 1998) 75. "Hegel’s
Esthetics" (at National Seoul University in September 1998) 33-VH
8/9/17 8/9/17 76. "Darwinism as Metaphysics" (at Sogang
University in Seoul in September 1998; repeated in English at the University of
Stanford in April 1999) 77. "Religion, Theology, Philosophy" (at the
University of Hannover in June 1998) 78. "Present and future tasks of a
moral economy" (at the University of Hannover in June 1998) 79. "Chances
and dangers of talent" (at the 50 years celebration of the Evangelische
Studienwerk Villigst in May 1998 in Villigst) 80. "Theodicy strategies in
Leibniz, Hegel, Jonas" (in Italian at the conference on monotheism in
April 1998 in Jerusalem; repeated in Hannover in October 1998) 81.
"Rationalism, determinism and freedom" (at the Forschungsinstitut für
Philosophie Hannover in January 1998; repeated at the University of Mainz in
October 1998, in English at the University of Notre Dame in March 1999) 82.
"Universal ethics and natural law" (at the second conference of the
Universal Ethics Project of the UNESCO in Naples in December 1997; repeated at
the Bucerius Law School in Hamburg in June 2003) 83. Five lectures on "The
state and its history" [at the IISFN in February 1997 in Italian] 84.
"Conditions of multicultural societies and states" (at the University
of Bielefeld in January 1997, repeated at the Königsteiner Forum in September
1997) 85. "Philosophical foundations of a future humanism" (in Basel
in January 1997; repeated in English at the University of Notre Dame in
February 1997 and at the University of Oslo in September 1997, at the Tübinger
Stift in July 1997, at the University of Erfurt in October 1997 and at the
University of Essen in January 1998) 86. "Politics and morality facing
global challenges" (at the Hochschule für Philosophie in München in
November 1996; short version during the presentation of my book "Moral und
Politik" in the European Parliament in Brussels in March 1998; repeated at
the University of Essen in April 1998, at the Musikhochschule Hannover in July
1998, at the Korean Hegel Society in Seoul in September 1998, at the University
of Greifswald in October 1998 as well as, in English, at the American
Philosophical Association in Boston in December 1999, at the University of
Urbino in March 2004, at the University of Bamberg in June 2011) 87. "Who
has right?" (at the Hochschule für Wirtschaft und Politik in Hamburg in
November 1996) 88. "Just wars" (at the University of Hamburg in November
1996; repeated in English at Loyola University in Chicago im Februar 2003) 89.
"Ethics and history" (at the University of Nijmegen in May 1996)
34-VH 90. "Hegel and Spinoza" (at the University of Tübingen in
April 1996) 91. "Biological presuppositions of moral behavior of humans"
(at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in January 1996) 92.
"On the concept of cratology" (at the Kulturwissenschaftliche
Institut Essen in December 1995) 93. "Rationalism, intersubjectivity and
loneliness: Heraclitus, Lullus, and Nietzsche" (at the Ohio State
University in October 1995) 94. "Philosophy in an age of
overinformation" (at the Philosophy conference of the UNESCO in March 1995
in Paris, repeated at the Ohio State University in April 1996, at the Goethe
Institute Ankara in September 1996, at the University of Leipzig in December
1996) 95. "What are presuppositions of a rational ethics?" (at the
University of Essen in November 1994) 96. "Vico’s sources" (at the
Naples conference in October 1994 in Bielefeld) 97. Five lectures on
"Morality and politics" (at the IISFN in October 1994 in Italian) 98.
"Ramón Llull’s rationalism" (in Spanish at the Lull conference in
September 1994 in Trujillo; repeated in April 2002 at the University of São
Paulo) 99. "On the indispensability of republican virtues" (at the
European Colloquium in Regensburg in June 1994) 100. "Ought developing
countries to develop? And if yes, how?" (at the University of Marburg and
the University of Jena in June 1994) 101. "The intellectual background of
Reiner Schürmann's Heidegger interpretation" (at the Reiner Schürmann
Memorial Symposium in April 1994 in New York) 102. "Moral ends and means
of global demographic policy" (at the symposium "Weltbevölkerung und
Welternährung" of the Deutsche Welthungerhilfe in March 1994 in Bonn;
repeated in English at the World Conference for Sociology in Bielefeld in July
1994 and at the University of Münster in November 1994) 103. "Sociobiology
and ethics" (at the University of Essen in December 1993; repeated at the
University of Mainz in January 1994, at the University of Witten- Herdecke in
December 1994, at the ETH Zürich and at the University of Innsbruck in November
1995, at the University of Ulm in December 1995, in the Forschungszentrum
Jülich in October 1996, in English at the Ohio State University in April 1996,
at the University of Oslo in September 1997 and at the State University of
Florida in Jacksonville in February 2002, in Italian at the University of
Trento in March 2009) 35-VH 8/9/17 8/9/17 104. "How much genetic
engineering, protection of animals and of the environment do we need?"
(discussion at the Tagung der Gesellschaft Deutscher Chemiker in Bonn in
October 1993) 105. "Philosophy and its media" (in English at the 19th
World Congress of Philosophy in Moscow in August 1993; repeated at the Tübinger
Symposium "Platonisches Philosophieren" in April 1994, in Hannover in
November 1998 and in English at the University of Sankt Gallen in May 2001)
106. "Power and morality" (at the University of Zürich in June 1993;
repeated in English at the University of Oslo in September 1993 and at the
University of Bergen in September 1997; at the University of Hamburg in October
1993, at the University of Ulm in December 1995) 107. "Ethics and ontology
in Hans Jonas" (at the University of Konstanz in January 1993; repeated at
the Hofgeismarer conference on Hans Jonas in June 1993, in Italian at the
Lateran University in Rom in January 1996, before the Wissenschaftlicher Verein
Mönchengladbach in January 1997) 108. "Ethics and system theory"
(discussion with Niklas Luhmann at the ETH Zürich in November 1992) 109. Four
lectures on Socrates, Plato and "The essential differences between ancient
and modern philosophy" (in English and Norwegian at the University of Oslo
in October 1992; the last lecture was repeated at the University of München in
November 1992, one of the lectures on Plato in French at the University of
Tours in April 1997) 110. "Ethical principles of peace politics"
(public lecture during the award of the price "The Glass of Reason"
to C-F. von Weizsäcker in Kassel in October 1992; repeated at the Salzburger
Humanismusgespräche in March 1993, at the University Witten-Herdecke in June
1993, in English at the University of Trondheim in September 1993) 111.
"Individual and collective identity crises" (at the conference
"Trauma and Tragedy" in June 1992 in Amsterdam; repeated at the
Philosophisch-Theologische Hochschule Walberberg in October 1993, at Carleton
College and at the Ohio State University in April 1994, at the World Conference
"Medicine and Philosophy" in Paris in June 1994, at the University of
Ulm in December 1995, at the University of Notre Dame in March 1996, in French
at the Ecole Normale in Paris in May 1997) 112. "Ultimate foundation and
categories" (at the conference "Letztbegründung als System?" in
June 1992 in Prague) 113. "The idea of the university in face of the
challenges of the 21st century" (lecture at the conference of the
presidents of German universities in Rostock in May 1992; repeated in January 1993
at the University of Kiel, in May 1993 at the University of Kaiserslautern, in
May 1996 at the University of Nimwegen, in English in September 1993 at the
University of Trondheim) 36-VH 8/9/17 114. "Can Abraham be saved?
And: Can Søren Kierkegaard be saved?" (in Norwegian at the University Oslo
in November 1991; repeated in German before the Leibniz-Society in Hannover in
July 1992, at the University of Köln in June 1994, in English at the University
of Notre Dame in November 2007) 115. Five lectures on "Descartes and
Spinoza" (in English and Norwegian at the University Trondheim in October
1991) 116. "Being and subjectivity. On the metaphysics of the ecological
crisis" (at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen in June 1991; repeated
at the University of Vienna in June 1991, at the ETH Zürich in November 1991,
in English at the eleventh Internordic Conference in Odense in August 1995, in
French at the University Laval in Québec in April 2011) 117. "On the
dialectic of strategical and communicative rationality" (at the Dubrovnik
Workshop "Diskurs und Rationalität" in April 1991) 118. "The
Third World as a philosophical problem" (at the Ohio State University in
February 1991; repeated at the conference "Transcendental Pragmatics and
North-South Ethical Problems" in Mexico City in March 1991, at the
University of Tromsrin September 1991 and in Spanish at the Javeriana in Bogotá
and at the University of Fortaleza in April 2002) 119. "Ethical aspects of
capitalism” (at the conference "Wirtschaftsethik" in November 1990 in
Ulm; repeated at the Technische Hochschule Aachen in June 1991, at the
Technische Hogeschool Twente in Enschede in June 1992 and in Spanish at the
Javeriana in Bogotá and at the University of Fortaleza in April 2002) 120.
Eight lectures on "Vico’s philosophy of culture" (at the Moscow State
University MGU in March through May 1990) 121. Five lectures on "The
philosophy of the ecological crisis" as well as five lectures on "The
Essence of Modern Metaphysics (Descartes, Spinoza, Kant, Fichte, Hegel)"
(at the Institute of Philosophy of the Academy of Sciences in Moscow during a
visiting professorship from April till June 1990; two lectures each were
repeated at the University of Rostov at Don in May 1990 as well as at the
University of Minsk and at the University of Novosibirsk in June 1990; one of
the ecological lectures was repeated at the New School for Social Research in
New York in December 1990, at the IISFN in May 1991, at the University of
Tromsö and of Trondheim in September and October 1991, at the Center for the
Study of Developing Societies in Delhi in April 1992, at the Technische
Hogeschool Twente in Enschede in June 1992, at the Wuppertalinstitut in March
1994, at the National Seoul University, the Yonsei and the Myongji Universität
in Seoul, the Hannam University in Taejong and the Keimyung University in Taegu
in March and April 1995, at the University Essen in October 1995; the lecture
on Descartes was repeated at the University Essen in October 1990, the lecture
on Spinoza at the Technische Hochschule Aachen in June 1992) 122.
"Intersubjectivity and freedom of the will in Fichte’s System of
Ethics"" (at the conference "Fichtes Rechtsphilosophie: Die
ersten drei Lehrsätze der "Grundlage 37-VH des Naturrechts""
in March 1990 in Frankfurt) 123. ."Heidegger’s philosophy of
technology" (at the conference for the 100th birthday of Martin Heidegger
in October 1989 in Moscow) 124. "Why has technology become a philosophical
problem?" (at the University of Ulm in September 1989; repeated at the
Technische Hochschule Aachen in February 1990 and at the ETH Zürich in December
1991) 125. Three lectures "Hegel’s System", "Morality and
politics: Machiavelli’s problem", "Transcendental pragmatics" at
the Goethe Institute in Porto Alegre in June 1989 (in Spanish; the first
lecture was repeated at the University of Campinas, the third at the Goethe
Institute in Sâo Paulo) 126. A three weeks seminar (12 hours a week) "From
Kant to Hegel" as well as a three week seminar (4 hours a week) "Antinomies
and dialectic" (together with Prof.Dr. C.Cirne-Lima and Dr.Th.Kesselring)
(at the Universidade Federal de Rio Grande do Sul in Porto Alegre/Brasilien
during a visiting professorship in June 1989; in Italian) 127. "Vico’s
idea of the science of culture" (at the University of Vienna in April
1989; repeated in Italian at the IISFN in May 1989 and in French at the
University of Tours in April 1997; short version at the presentation of the
German and Spanish translations of Vicos "Scienza nuova" in the European
Parliament in Strasbourg in November 1991) 128. "Nature and natural
sciences in Vico’s new science of the spirit" (at the II. Colloquium
"Natur in den Geisteswissenschaften" in April 1989 in Blaubeuren)
129. "The greatness and limits of Kant's practical philosophy" (at
the conference for the 200th anniversary of "The Critique of Practical
Reason" in December 1988 at the New School for Social Research in New
York; repeated in German at the Technische Hochschule Aachen in January 1989
and at the Universität Ulm in February 1990, in English at the School of
Architecture in London in March 1990, at the University of Louisville in
January 1991 and at the University of Tromsö in September 1991 as well as
before the Hegel Society of Korea in Seoul in April 1995, in Spanish at the
Javeriana in Bogotá, the Centro de Extensno Universitaria in São Paulo and the
University Fortaleza in April 2002) 130. "The philosophy of mathematics of
Nicolaus Cusanus" (at the conference of the American Cusanus Society in
October 1988 in Gettysburg) 131. "On the impossibility of a naturalistic
foundation of ethics: Idealism and Materialism" (at the conference
"Die ethische und politische Verantwortung des Wissenschaftlers" in
April 1988 in Köln) 132. "Morality and politics: Machiavelli’s problem"
(at the University of Saarbrücken in January 1988; repeated in English at the
New School for Social Research in April 1988, at Pennsylvania State University
in October 1988, at the New York State University in Purchase in November 1988;
in Italian at the IISFN in May 1989; in German at the University of Regensburg
in November 1989; in English at the 38-VH 8/9/17 University Trondheim in
August 1991) 133. Four lectures on "Hegel’s Logic" (at the IISFN in
March 1987 in Italian) 134. "Law and history in G.Vico" (at the
University of Mannheim in January 1987) 135. "The figurative arts in the
esthetics of German idealism" (at the Hochschule für bildende Künste in
Braunschweig in December 1986) 136. "Hegel's idea of right" (at the
New School for Social Research in December 1986) 137. "On the dialectic of
enlightenment in Vico’s philosophy of history" (at the University of
Frankfurt in November 1986; repeated in Italian at the Circolo George Sadoul in
Ischia in May 1987) 138. "An attempt to locate the historical
Socrates" (at Williams College in October 1986) 139. Sixteen lectures on
"The development of German idealism" (at the IISFN on January through
June 1986 in Italian) 140. "Foundational questions of objective
idealism" (at the conference "Philosophie und Begründung" in Bad
Homburg in May 1986, repeated in English at the University of Bergen in
September 1997) 141. "Moral reflection and decay of institutions. On the
dialectic of enlightenment and counter enlightenment" (at the conference of
the International Hegel-Gesellschaft in March 1986 in Zürich; repeated at
Princeton University in November 1986) 142. "What may and what must the
state punish? Reflections based on Fichte’s and Hegel’s theories of
punishment" (at the conference "Moralität und Sittlichkeit" in
March 1986 in Hamburg) 143. Five lectures on "Hegel’s lectures on the
philosophy of religion" (at the IISFN in December 1985 in Italian) 144.
"Carl Schmitts critisism of the self-cancelation of a valuefree
constitution in "Legalität und Legitimität"" (at the conference
"Il pensiero politico di Carl Schmitt" in December 1985 in Naples in
Italian) 145. "Tasks of philosophy between relativism and dogmatism"
(at the conference "Per un pluralismo non relativistico in filosofia"
in October 1985 in Napels) 146. "An immoral ethical life. Hegel’s
interpretation of Indian culture" (at the conference "Moralität und
Sittlichkeit" in March 1985 in Frankfurt) 147. Seven lectures on "The
development of Greek philosophy from Parmenides till Platon", two lectures
on "Principle of contradiction and dialectic" and one lecture on
"The so-called Münchhausentrilemma" (at the Technische Hogeschool
Twente in Enschede/Netherlands in January 1985) 39-VH 8/9/17 Q1 8/9/17
148. "Anthropology in Fichte" (at the II European-Latin American
symposium for philosophical anthropology in October 1984 in Tübingen) 149.
"The position of Hegel’s philosophy of objective spirit in the system and
its aporia"; "Abstract Right"; "The State" (at the
conference "Anspruch und Leistung von Hegels "Rechtsphilosophie"
in March 1984 in Naples) 150. "Space, time, movement"; "Plant
and animal" (at the conference "Hegel und die
Naturwissenschaften" in October 1983 in Tübingen) 151. Four lectures on
„The esthetics of Greek tragedy" (at the IISFN in March 1983 in Italian)
152. "Theories of the history of philosophy" (at the IISFN in
December 1982 in Italian) At the University of Notre Dame: 1. Nietzsche 2.
Political and Constitutional Theory: Ancient and Modern (Aristotle, Locke, The
Federalist Papers) 3. Schopenhauer,TheWorldasWillandRepresentation 4.
ThePhilosophicalImportanceofDarwin 5. ThomasMann 6. Philosophical Dialogues
(Plato, Abelard, Ficino, Hume, Fichte, Kierkegaard, Feyerabend) 7.
TheoryofComedy 8. PhilosophyofPower 9. Kant’sPoliticalPhilosophy 10. Core
Course on Ecology and Ethics Heidegger, Jonas, Ibsen, Callenbach) (Brown,
Malthus, Bacon, Descartes, 11.Philosophical Dialogues (Plato, Cicero, Anselm of
Canterbury, Bodin, Diderot, Schelling, Murdoch) 12. Hume’s Practical Philosophy
13. Dramas on Political Conflicts (Aeschylus, Sophocles, Euripides, Goethe,
Schiller, Büchner, Grillparzer, Hebbel, Dürrenmatt) 14. Plato before the
“Republic” 40-VH 15. Goethe’s Lives 16. Aristotle’s “Nicomachean Ethics”,
“Politics”, “Rhetorics” 17. Philosophy of mind in the twentieth century (James,
Freud, Husserl, Ryle, McGinn, Kim, Chalmers, Searle, Dennett) 18. Ethics and
Politics in Italian Renaissance 19. The German Quest for God from Goethe to
Nietzsche and Kafka 20. Philosophical Autobiographies (Plato, Isocrates, Augustine,
Abelard, Petrarca, Vico, Rousseau, Hume, Mill, Newman, Nietzsche, Feyerabend)
21. Faust (Marlowe, Goethe, Grabbe, Klaus Mann) 22. Hegel’s Political
Philosophy 23. The Birth of the Humanities from the Spirit of German Idealism
(Friedrich Schlegel, August Wilhelm Schlegel, Schleiermacher, Schelling, Hegel)
24. Vico (Autobiography, On the Method of Studies of Our Time, New Science) 25.
Literary Criticism from Aristotle to Jakobson (Aristotle, Horace, Longinus,
Dante, Boileau, Pope, Schiller, Hegel, Nietzsche, Adorno, Jakobson) 26. Kant’s
Three Critiques 27. Faith, Hope, and Love: Thomas Aquinas and Kierkegaard on
Christian Ethics 28. Plato, “Republic” and “Statesman” 29. German Philosophy in
the 20th century (Husserl, Reichenbach, Gehlen, Habermas) 30. Thomas Aquinas on
the Cardinal Virtues 31. Humanities in the 20th century (Dilthey, Freud,
Ingarden, Panofsky, Strauss, von Wright, Foucault, Dworkin, Sontag) 32. The
late Plato (“Cratylus,” “Theaetetus,” “Sophist,” “Philebus”) 33. The essay
(Montaigne, Bacon, Hume, Kant, Schiller, Nietzsche, Th.S. Eliot, Hans Jonas)
34.The German Quest for God (Hartmann von Aue, Meister Eckhart, Luther,
Grimmelshausen, Lessing, Hegel, Mann, Steinherr) 35.History of Hermeneutics
(Philo of Alexandria, Origen, Augustine, Maimonides, Spinoza, Schleiermacher,
Droysen, Ricœur, Grice, Auerbach) 36. Neo-Platonism: Plotinus and Proclus 41-VH
8/9/17 37. Plato, Laws 38. Making Sense of a Life: Biography and
Autobiography (Plutarch, Tacitus, Hildegard of Bingen, Vasari, Boswell, Rousseau,
Bismarck, Tolstoy, Henry Adams) 39. The late Husserl 40. Greek Drama
(Aeschylus, Sophocles, Euripides, Aristophanes) 41. Ancient Drama (Aeschylus,
Sophocles, Euripides, Aristophanes, Menander, Plautus, Terence, Seneca) At
Heidelberg University in 2015 1. Hermeneutics 2. Hegel, Phenomenology of Spirit
3. Plato, Parmenides (together with Jens Halfwassen) At the University of
Trento in 2008: 1. Morals and Politics At the Northern Institute of Technology
in Hamburg since 2003 every year (with the exception of 2006 and 2009): 1.
BusinessEthicsinaGlobalizedWorld At the Hamburg School of Logistics in 2005,
2007 and 2008: 1. EthicsofPower At Kampala International University in 2006: 1.
Ethics of Development At the Research Institute for Philosophy in Hannover: 1.
Classicsofthephilosophyofbiology(Aristotle,Leibniz,Kant,Darwin, Bergson,
Portmann, Mayr) Driesch, 42-VH 8/9/17 At Ohio State University: 1.
Hegel'sPhilosophyofRight At the Universität Essen: 1. MoralsandPolitics 2.
Descartes,Meditations 3. H.Jonas'philosophyoflifeandethics 4. Aristotle,Physics
5. J.Rawls,Atheoryofjustice 6. Hermeneutics 7. Plato,ApologyofSocrates 8.
L.Wittgenstein,PhilosophicalInvestigations 9. Kierkegaard, Either – Or 10.
Ancient Philosophy 11. The fragments of Parmenides 12. Augustine, The City of
God 13. Plato, The Republic 14. Sextus Empiricus 15. Epistemology 16. Locke, An
essay concerning human understanding 17. Leibniz, Discourse on Metaphysics
18.Rationalism and negative anthropology: Descartes' "Les passions de
l'âme," Pascal's "Pensées," La Rochefoucauld's
"Maximes" (together with Prof. Dr. R.Galle) 19. H.G.Gadamer, Truth
and Method 20. Montesquieu, The Spirit of the Laws 21. Concept and function of
the beautiful in Schiller (together with Prof. Dr. R.Galle) 43-VH 8/9/17
8/9/17 22. Hegel, Philosophy of Right 23. Philosophy of history 24. Burckhardt,
Considerations on World History 25. M.Heidegger, Being and Time 26. Early
modern utopias (together with Prof. Dr. P.Münch) 27. V.Hösle, Morals and
Politics 28. New texts on determinism (Austin, Chisholm, van Inwagen, Planck,
Strawson) 29. Evolution, Knowledge, Ethics (together with Prof.Dr. F.Wuketits
and Dr. G.Klauer) 30. K.R.Popper/J.C.Eccles, The Self and its Brain 31.
Interreligious Dialogues in the Middle Ages (Abelard, Llull) 32. Philosophy of
Religion of the Renaissance At the ETH Zürich: 1.
EthicsandPoliticsfacingtheecologicalcrisis At the University Ulm: 1.
TranscendentalPragmaticsandcontemporaryphilosophy 2.
Aristotle,NicomacheanEthics 3. PhilosophyofTechnology:Heidegger,Gehlen,Habermas,Jonas
At the New School for Social Research: 1. Plato'sUnwrittenDoctrine 2.
FromKanttoHegel 3. Vico,NewScience 4. MoralPhilosophysinceKant 5.
Machiavelli,Discourses;Prince 6. NicolausCusanus 44-VH Honors and Grants
As Tutor: 1. Horkheimer/Adorno,DialecticsofEnlightenment 2. Plato,Latedialogues
3. Theoriesofthehistoryofphilosophyinthe19thand20thcentury 4.
Hegel,Encyclopediaofthephilosophicalsciences 5.
Hegel,EncyclopediaofphilosophicalsciencesII 6. Fichte,Foundationsofnaturallaw
7. Schelling,Philosophyofart 8. Structural problems of objective idealism (2
Semester) After my Accreditation as University Lecturer: 1.
Schopenhauer’sworkonfreedomasanintroductiontothedebateondeterminism 2.
Vico,Onthemethodofstudiesofourtime 3. TranscendentalPragmatics 4.
Lucretius,Onthenatureofthings 5. Aristotle,Politics 6. Spinoza,Ethics 7.
Hobbes,Leviathan 8. Scheler,Essenceandformsofsympathy 9.
Locke,TwoTreatisesofGovernment 10. Leibniz, Theodicy 11. Tocqueville, On the
democracy in America !Member of “Ethics in Action,” founded, among others, by
the Pontifical Academies of Sciences and of Social Sciences as well as by the
UN Sustainable Development Solutions Network 7. Kant'sMoralThought 45-VH
8/9/17 !Visiting Professorship at the University of Heidelberg, 2015 !Meckatzer
Philosophy Award 2014 !Appointed by Pope Francis as Ordinary Academician to the
Pontifical Academy of Social Sciences 2013 !Taught Master Course at the
University of Munich and Research Workshop at the University Duisburg-Essen,
2013 !Acquired together with Associate Director Don Stelluto 1,58 million
dollars from the Templeton Foundation for fellowships at the Notre Dame
Institute for Advanced Study 2012 !Offer to become Director of the Centro di
Scienze Religiose of the Bruno Kessler Foundation in Trent/Italy 2011
(declined) !Offer to become member of the Strategic Committee of the
Wissenschaftsrat for the second part of the German “Exzellenzinitiative”, 2010
(declined) !Best Teacher Award of the Northern Institute of Technology, 2008
!Research Achievement Award of 10, 000 USD from the University of Notre Dame,
2008 ! Rosmini Chair at the University of Trent/Italy, 2008 !Taught Master
Course at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover, 2006 !Member at the
Historical School of the Institute for Advanced Study, Princeton, 2004/05 !Key
Professor at the Northern Institute of Technology in Hamburg, 2002 ff. !
Fellowship at the Erasmus Institute of the University of Notre Dame, 2001-2002
!Offer of a chair position in Political Science from the University of
Regensburg, 2000 (declined) !Offer of a Fellowship at the
Kulturwissenschaftliches Institut Essen, 1999 (declined) !Max Kade
Distinguished Visiting Professor, Department of Philosophy and 46-VH
8/9/17 Service !Humboldt Professor at the University of Ulm, 1995
!Visiting Professor at South Korean universities, 1995, financed by DAAD
!Fellow at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen, 1995-1996 !Fritz Winter
Award for outstanding academic achievements ( 50, 000 DM), 1994 !Visiting
Professor at the Department of Ecology, Eidgenössische Technische Hochschule
Zürich, 1992-1993 !Affiliation with the Sociology Department of the University
of Delhi, 1992 !Affiliation with the Philosophy Department of the University of
Trondheim, 1991 !Affiliation with the German Department of Ohio State
University, 1990-1991 !Visiting Professor at the Academy of Sciences and at the
Lomonossov University in Moscow, 1990 (financed by DAAD) !Visiting Professor in
Ulm, 1989-1990 !Visiting Professor at the University of Porto Alegre, Brazil
1989 (financed by DAAD) !Heisenberg Fellowship, 1987-1993 !Fellow at the
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1985-1986 !Visiting Lecturer at the
Technische Hogeschool Twente in Enschede, 1985 !Research fellowship of the
Deutsche Forschungsgemeinschaft, 1982-1984 !Fellowship of the Studienstiftung
des deutschen Volks, 1978-1982 !Fellowship of the Bavarian Begabtenförderung,
1977-1982 !2014 Member of the Commissione giudicatrice della valutazione
comparativa of the University Trento !2008-2013 Director of the new Notre Dame
Institute for Advanced Study !2007 and 2009 Member of the two Strategic
Academic Planning Committees of the University of Notre Dame !2004-2005—Member
of the UNESCO/COMEST group on the precautionary Department of German, Ohio
State University, 1996 47-VH 8/9/17 8/9/17 principle !2002-2003–Member of
the Norwegian commission to promote candidates for full professorship in
philosophy !2001 -- Organized with Christian Illies a conference on “The
Metaphysical implications of Darwinism” at the University of Notre Dame !2000 –
present -- Editor of the series “Faszination Philosophie” with the publisher
C.C. Buchner !2000 – Organized a conference on hermeneutics at the University
of Notre Dame !2000 – Organized lecture series on sustainability in Hannover in
connection with EXPO 2000 !2000 – Organized conference on metaphysics in
Hildesheim !1999 – 2002 -- Member of the Board of Trustees of the European
College of Liberal Arts in Berlin !1999 – present -- Service in many committees
at the University of Notre Dame (both departmental, college and university
level, among which in the Strategic Academic Planning Committee) !1998 –
Organized lecture series on Leibniz in Hannover !1998 – present -- Member of
the Kuratorium of the Jakob-Kaiser-Stiftung !1998 – Responsible Director of the
Forschungsinstitut für Philosophie Hannover !1997 – 2000 -- Member of the
Kuratorium of the Stiftung fur die Rechte zukünftiger Generationen !1997 – 2000
-- Member of the Stiftungsrat of the Petra Kelly-Stiftung !1997 – 1999 – Member
of the group “Coherence” of the Common Conference Church and Development !1993
– 1997 – Member of the Kuratorium of the Akademie Gesellschaft und Wissenschaft
!1993 – 1996 – Member of the group “Economy and Ecology” of the state minister
of ecology of Baden-Württemberg !1990 – 1997 – Member of the Fachbereichsrat
and the Konvent at the University of Essen; Chair of the
Magisterprüfungsasschuss des Fachbereichs !1990 -- present --Member of the
Wissenschaftlicher Beirat and corresponding member of the
Humboldt-Studienzentrum of the University of Ulm !1990 – 2001 – Editor of the
monograph series “Ethik im technischen Zeitalter” with C.H. Beck publishing
house, Munich !1988 – 2000 -- Advisor for several dissertations and master’s
theses at the New School for Social Research, the University of Tübingen, the
University of Essen !1991 – 1998 – Member of the DAAD-Kommission for Southern
Europe 48-VH Languages Employment History 8/9/17 !1990 – Member of the
Commission on the Ethical Evaluation of the abortion pill (RU 486), Hoechst
!1989 –2000 – Offered several seminars on the Ethics of Business to Top
Executives and Managers of Beiersdorff, Hoechst, Bosch and other larger German
firms !1987 – 1990 – Elaborated the general plan for the Multimedia
Encyclopedia of Philosophy for the Italian State Television (RAI); directed
interviews with leading philosophers such as Apel, Feyerabend, Føllesdal,
Rorty, Thieme, Goodman, Hintikka, Jonas, gave myself many interviews on the
history of philosophy and on systematic issues !1986 – 1990 – Participation in
the administrative work of the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
including the review of manuscripts and the planning of conferences !1986 –
1989 – Wrote four papers for the Office of the Chancellor, Federal Republic of
Germany !1988 – Organized a Kant conference at the New School for Social
Research Active knowledge of German, Italian, English, Spanish, Russian,
Norwegian, and French; passive knowledge of Latin, Greek, Sanskrit, Pali,
Avestan, Portuguese, Catalan, Modern Greek, Swedish, and Danish !2008 – present
– Director of the Notre Dame Institute for Advanced Study !1999 – present –
Paul Kimball Professor of Arts and Letters at the University of Notre Dame (in
the Departments of German, Philosophy, and Political Science); Fellow of the
Nanovic Institute for European Studies and of the Kroc Institute for
International Peace Studies !1997 – 2000 – Director of the Research Institute
of Philosophy in Hannover !1993 – 1997 – Full Professor, University of Essen
!1987 – 1993 – Heisenberg Fellow, Deutsche Forschungsgemeinschaft !1989 –1990 –
Visiting Professor, University of Ulm !1988 – 1989 – Associate Professor with
tenure, New School for Social Research !1986 – Visiting Assistant Professor,
New School for Social Research Birthdate: June 25, 1960 Personal 49-VH
Married, three children German and American citizenVittorio Gronda Hösle.
Hösle. Keywords: “L’inter-soggetivo di Vico” “filosofia prima” “filosofia
seconda”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Hösle: l’implicatura di Vico” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753865907/in/dateposted-public/
Iacono (Girgenti). Filosofo. Grice:
“I love Iacono; for one, he has taken Marx’s chapter on cooperation in Das
Kapital seriously; but as he notes, Marx subverts the order, the symbolic
interaction becomes a super-structure! Iacono recognises the perplexities of
shared intentionality, and finds ways to deal with them conceptually –Insegna a
Pisa. Fra i filosofi che si sono interessati ai rapporti storici e teorici
della filosofia con l’antropologia e la politica. Si occupa di epistemologia
della complessità (“L'evento e l'osservatore”, Bergamo). Fonda “Ichnos,” Laboratorio
filosofico sulla complessità. La sua ricerca mostra un costante confronto con
la filosofia antica: al riguardo, si dedica all’analisi di nozioni quali
feticismo, paura e meraviglia, e all'indagine epistemologica sul tema
dell'osservatore. Tali ricerche gravitano attorno ad una riflessione sul tema
dell'”altro” nelle relazioni storico-sociali e politiche: da qui i saggi sulle
triadi concettuali autonomia, potere, minorità e storia, verità,
finzione. Ne “Il borghese e il selvaggio” analizza l'influenza la figura
di Robinson Crusoe nei paradigmi filosofico-economici di Turgot e Adam Smith
rilevando gli elementi di antropologia occidentalista là dove la
rappresentazione teorica della società e della storia si mostrava nei suoi
aspetti apparentemente semplici, ovvi e trasparenti tali da nascondere con
l'evidenza i presupposti del punto di vista coloniale. In “Il feticismo” (Milano)
studia la genealogia del concetto dalla sua origine nell'illuminista Charles de
Brosses fino a Marx, a Freud e al pensiero contemporaneo, ha contribuito, sul
piano metodologico, all'idea di una storia della filosofia interpretata
attraverso concetti e, sul piano interpretativo, alla messa in evidenza dei mutamenti
semantici del concetto di “fetice”, di origine coloniale che si è trasformato
con Marx e con Freud in due modi di operare, rispettivamente sul mondo
storico-sociale e sul mondo della psiche, basati sulla pratica teorica di
un'antropologia dall'interno. Le fétichisme. In “Paura e meraviglia: storie
filosofiche” (Catanzaro) i temi storiografici dell'illuminismo e del fetice vengono
ripresi e ridiscussi alla luce del pensiero contemporaneo. Il problema
filosofico e politico dell'antropologia dall'interno è stato sviluppato
attraverso la questione epistemologica dell'osservatore. Influenzato da Marx,
ma anche da Foucault e da Bateson, analizza le teorie della storia di Bossuet,
Vico e Droysen attraverso il tema del ruolo dell'osservatore che interpreta gli
eventi sociali e naturali nella loro storicità. Interessato alle teorie
contemporanee dell'”auto-organizzazione” biologica (Atlan, Maturana, Varela), cercato
di reinterpretare il senso epistemologico della storia, la parzialità dei punti
di vista impliciti dell'osservatore e delle sue visioni del mondo, la questione
dell'altro, il rapporto tra scienze storico-sociali e scienze naturali, alla
luce del concetto di complessità. In questa chiave, in “Tra individui e cose”
(Roma) raccoglie i risultati di ricerche che, all'interno dei rapporti fra
filosofia, antropologia e politica, si interrogava attraverso Bateson sull'idea
del ‘pensare per storie' come momento metodologico e critico di un'antropologia
dall'interno in una società come quella occidentale moderna dove le cose si
sostituiscono feticisticamente agli uomini e il conformismo si mostra
incessantemente e paradossalmente come l'irrompere del nuovo. Il problema
della critica sociale e dell'autonomia individuale come decisivo in una società
occidentale che domina il mondo dichiarandosi libera e democratica è al centro
di “Autonomia, potere, minorità” (Milano). Partendo dallo scritto di Kant “Che
cos'è l'Illuminismo?, Iacono si chiede perché in una società istituzionalmente
‘libera' e ‘democratica', all'indomani della fine dei regimi socialisti, il
desiderio di uscire dallo stato di minorità non riesce a vincere il
contrastante desiderio di rimanere nello stato di minorità, perché in sostanza
è così forte la paura di essere autonomi. La questione dell'autonomia lo
ha portato a interessarsi ai temi della verità, dell'illusione e dell'inganno.
Per un'antropologia dall'interno occorre vedere con altri occhi e per vedere
con altri occhi è necessario acquisire uno sguardo d'altrove. I temi
dell'universalismo e della questione dell'altro sono discussi in quest'ottica
in “Storia, verità, finzione” (Roma). La meraviglia che connota il tono emotivo
della conoscenza filosofica deve passare attraverso lo straniamento: essere
straniero a te stesso affinché l'altro non sia straniero a te. L'autonomia può
realizzarsi soltanto nella relazione con l'altro e non, come se l'è immaginato
il pensiero moderno, recidendo ogni legame per poi andarlo a costituire da
padroni. Ma un'antropologia dall'interno è continuamente in tensione con un
senso comune che, conservando le verità condivise ovvero i pregiudizi, tende a
mostrarle come ovvie, naturali, eterne, uniche, a renderle dunque salde e
indiscutibili. Ci si dimentica allora che viviamo in molti mondi, in mondi
intermedi (“Mondi intermedi e complessità” -- Pisa), e che siamo capaci, con la
coda dell'occhio, di percepire sempre un mondo altro da quello in cui siamo
immersi. Perdendo questa percezione perdiamo la nostra capacità di uscire da
noi stessi e dunque la facoltà di essere autonomi. L'illusione, attraverso cui
ci si approssima alla verità, che è consapevolezza critica di un'illusione
stessa (Nietzsche, Pirandello), si trasforma in inganno e in auto-inganno,
sulle cui basi si produce il rischio della costituzione delle regole del
consenso, in una società libera ma senza autonomia. Un'altra direzione di studi
riguarda le genealogie dell'immagine della finestra e del concetto
di illusione nella storia del pensiero occidentale. In quest'ambito di
riflessione Iacono realizza Con altri occhi. Iacono dirige il bimestrale
di politica e cultura Il Grandevetro. Ha collaborato per anni al quotidiano il
manifesto. Fa parte del Comitato scientifico della Scuola di formazione e
ricerca sui conflitti Polemos. Fa parte del comitato scientifico della
Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Ha laureato molti studenti al
polo universitario universitario penitenziario della casa circondariale Don
Bosco di Pisa e tuttora collabora a progetti e iniziative per un'effettiva
opera di recupero del detenuto che sconta la pena. Saggi: “L'illusione e
il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare” (Mondadori, Milano); “Il
sogno di una copia. Del doppio, del dubbio, della malinconia” (Guerini,
Milano); “Storie di mondi intermedi” (ETS, Pisa); “Marx. La cooperazione,
l'individuo sociale, le merci” (ETS, Pisa); Filosofia alle elementari”; “Le
domande sono ciliegie, Manifestolibri, Roma, Per mari aperti. Viaggi tra
filosofia e poesia nelle scuole elementary (Roma); Filosofia alle scuole
superiori”; “La giustizia è l'utile del più forte? Incontro con gli studenti
del Liceo classico «Empedocle» di Agrigento, Pisa; Ra Racconti L'accelerato, in
Favolare Antonia Casini e Giovanni Vannozzi, MdS editore, Pisa, La scelta, in Gabbie, Michele Bulzomì,
Antonia Casini, Giovanni Vannozzi, MdS editore, Pisa PSYCHOMEDIA JOURNAL OF EUROPEAN
PSYCHOANALYSIS. Alfonso Maurizio Iacono Studi su Karl Marx La
cooperazione, l’individuo sociale e le merci vai alla scheda del libro su
www.edizioniets.com Edizioni ETS www.edizioniets.com ©
Copyright 2018 Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA
Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL
via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884675158-4 ISSN
2420-9198 PREFAZIONE La notizia dei braccialetti che l’ingegner Cohn ha
brevettato per il controllo dei lavoratori di Amazon (più educatamente e
ipocritamen- te, per migliorare l’efficienza del lavoro) merita, al di là delle
polemi- che contingenti, qualche riflessione su un mondo nascosto e dimenti-
cato che tuttavia esiste su questo pianeta e non si vede: il mondo dello
sfruttamento sul lavoro e la lesione della dignità di chi lavora. Mi serve un
libro, vado su Amazon, lo cerco, lo trovo. C’è anche la versione ebook. Non è
la stessa cosa del libro fisico, ma ha due vantaggi. Costa molto meno e, cosa
importantissima, dopo avere pagato, lo ottieni in Kindle con un semplice click.
Non è la stessa cosa del libro fisico per un’altra ragione. L’impaginazione è
diversa e non corrisponde affatto a quella del libro. Questo complica le cose
non tanto al lettore di un romanzo giallo, per esempio, o di racconti in
generale, quanto allo studioso o, più in generale, a colui che ha bisogno del
documento ori- ginale. Mettiamo comunque che voglia e trovi il libro fisico e
lo ordini, magari con un sistema veloce che pago in sovrapprezzo. Devo supe-
rare una frustrazione. Non posso averlo subito. Non ce l’ho lì davanti sullo
scaffale di una libreria. Vedo la copertina online. Devo aspettare uno o
qualche giorno. Peggio se lo acquisto nel week end. Una piccola frustrazione,
senza dubbio, ma nel nostro pianeta, che è un’immensa raccolta di merci fisiche
e virtuali, siamo ormai abituati ad avere tutto e subito, e aspettare non è
facile. Ogni nostro desiderio è un ordine che il mercato può eseguire per
soddisfarlo, e poter girare fra le merci, libri o divani o qualunque altra
cosa, in modo virtuale, da un lato ti dà un senso di straordinaria, gioiosa
potenza, dall’altro però ti produce una sensazione di mancanza. Vuoi mettere
andare al negozio e provare la giacca, anzi peggio ancora le scarpe o i
pantaloni per vedere se ti stanno? Certo, online risparmi. Inoltre, a ovviare a
quella sensazione di mancanza derivata dal fatto che il desiderio
dell’acquirente non si può soddisfare immediatamente, vi è la precisione
rigorosa nella con- segna. Tutto sembra perfetto, ma a quale prezzo? Al prezzo
dello sfruttamento di chi la merce la deve impacchettare, spostare, consegnare.
Un prezzo che il cliente non vede. Non è una novità. Il braccialetto
dell’ingegner Cohn è l’ultimo ritrovato di una lunga storia del lavoro. Karl
Marx aveva fatto vedere bene come stavano realmente le cose nei processi di
produzione delle merci. Quel genio che era Charlot aveva rappresentato una
straordinaria parodia del sistema di sfruttamento del lavoro dell’operaio nel
famoso film Tempi moderni, dove il lavorato- re doveva adattarsi alla velocità
del sistema automatico di produzione. In epoca più recente ricordo che perfino
zio Paperone cercò di usare le scimmie per il lavoro a catena, ma fallì perché
perfino esse non riusci- vano ad adattarsi. Negli anni ’70 Michel Foucault
scrisse Sorvegliare e punire, un’analisi cruda dell’organizzazione di un
carcere, il cui sistema di controllo era simile a quello elettronico
rappresentato dai braccia- letti. Lo sfruttamento del lavoro e la lesione della
dignità dei lavoratori, checché se ne dica, non sono diminuiti negli anni,
anzi, nonostante le leggi, sono probabilmente aumentati. Dietro la concorrenza
e la libertà di mercato, dietro le luci dei supermercati reali o virtuali,
dentro quelle nuove caverne di Platone che sono i centri commerciali di Los
Angeles, Dubai, Shanghai, Milano e al di là della finestra dei nostri computer
o tablet da cui acquistiamo online, vi è ancora il lato oscuro, materiale e
psicologico, del dispotismo sul lavoro che oggi nessuno vuol vedere, talvolta
nemmeno chi lo subisce. Fino a quando qualcuno di sabato sera, nel suo tempo
libero, si siede al bar e chiede di bere, vi sarà sem- pre qualcun altro che
dovrà preparare il cocktail e un altro ancora, magari extracomunitario, che lo
porterà con un vassoio. Il tempo li- bero di uno è il tempo di lavoro di altri.
L’idea che il lavoro sparisca e in particolare sparisca il lavoro manuale mi
pare sinceramente, questa sì, una bubbola neoliberista. Meno si vede il lavoro
sfruttato e meglio è per il neoliberismo. La tecnologia espelle il lavoro e
toglie l’occupa- zione, ma non lo fa sparire. Lo disloca altrove e non lo
concentra più in grandi spazi chiusi. Ed è questo che ha messo in totale
confusione la sinistra nel mondo. Accade con il lavoro quello che accade con la
merce. La compri ma non ti accorgi della quantità di lavoro sociale che ci è
voluto per produrla e poi metterla sul mercato. Ti bevi il cocktail ma non vedi
nemmeno in faccia il cameriere che te lo porta e che sta lavorando mentre tu ti
riposi e a cui forse lascerai una mancia. Il primato del tempo libero è un buon
modo per soggiacere al neoliberismo. Potremmo davvero vivere in ozio permanente
nel tempo libero? È questo a cui aspiriamo? E perché allora, occupati,
disoccupati, precari, siamo tutti depressi? Certo il lavoro troppo spesso è
odioso, ma allora il problema è l’odiosità del lavoro, il suo
sfruttamento, non la sua fine. Dietro l’ordine online che facciamo su Amazon vi
sono la- voratori che con la testa e con le mani portano, impacchettano, spedi-
scono, trasportano e ai quali si vuole mettere il braccialetto elettronico di
controllo. Non credo che con tutta la tecnologia li si possa sostituire con dei
robot, ma credo che con tutta la tecnologia li si possa usare schiavisticamente
come dei robot. Una cosa è lottare per riappropriarsi del lavoro e della sua
qualità, altra cosa è rifiutarlo. È nella chiave della riappropriazione del
lavoro che è ancora valido, a mio parere, il vecchio slogan “lavorare meno,
lavorare tutti”, così come la gratuità della forma- zione scolastica e
universitaria. In uno scritto recentissimamente pubblicato in Italia, Realismo
capitalista (Nero, Roma 2018), ma uscito in lingua inglese nel 2009, nel bel
mezzo dell’esplodere della crisi economica, Mark Fisher, scrittore, filosofo,
critico musicale britannico, morto suicida lo scorso anno, ha cercato di
rispondere alla famosa affermazione della Signora Marga- ret Thatcher secondo
cui al sistema in cui viviamo non c’è alternativa. Un’affermazione vincente
che, togliendo al futuro ogni possibilità di accompagnare la politica, lo fece
a suon di licenziamenti e ristruttu- razioni aziendali che sarebbero diventati
un modello per tutto il capi- talismo occidentale. A sinistra cominciarono i
laburisti con il pentito Blair a fare propria la visione thatcheriana, e il
modello neoliberista si diffuse quasi ovunque con l’accentuarsi vistoso e
potente delle di- seguaglianze e attraverso l’ideologia oggi ancora dominante
secondo cui tutto il mondo deve essere modellato come un’azienda. Ideologia che
oggi paradossalmente trova quasi più critiche a destra che non a sinistra.
Avere tolto ogni alternativa futura ha di fatto azzerato le si- nistre. Il loro
ruolo è spesso diventato quello un po’ servile di tampo- nare più o meno
malamente gli effetti collaterali del neoliberismo, del dominio della
privatizzazione, dello sperpero del bene comune, della devastazione ambientale,
senza neanche riuscirci. Scrive Mark Fisher: “Qualsiasi posizione ideologica
non può affermare di avere raggiunto il suo traguardo finché non viene per così
dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita
in termini di principio anziché come fatto compiuto”. Le sinistre non
potrebbero accettare il neoliberismo come principio, ma se viene naturalizzato
come un fatto compiuto allora è diverso. In fondo i dirigenti politici sono
tutto som- mato abbastanza ben pagati e sufficientemente fragili culturalmente
per scomodarsi a mettere in discussione ciò che è dato come naturale e
scontato. “Nel corso di più di trent’anni, continua Fisher, il
realismo capitalista ha imposto con successo una specie di ontologia
imprendi- toriale per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute
all’e- ducazione, andrebbe gestito come un’azienda”. Oggi l’aziendalismo è un
vero delirio ideologico. I lavoratori sono imprenditori di se stessi, così
costano meno alle aziende e possono essere meglio sfruttati, le scuole e le
università e gli ospedali invece di pensare alle loro rispettive missioni,
affogano penosamente nell’ansia generalizzata della competi- tion, versione
metropolitana e neoliberista della giungla. Benvenuti nel realismo capitalista!
Questo libro raccoglie studi su Marx che ho portavo avanti a par- tire dagli
anni ’70 sui temi della cooperazione e della sua ambivalenza, sul suo metodo,
sulle sue concezioni antropologiche. Nonostante siano accadute molte cose nel
corso del tempo, dalla fine dell’era industriale alla caduta del muro di
Berlino, dalla crisi irreversibile dei partiti operai al trionfo del
neoliberismo, alcuni punti, che molti, troppo spesso ab- bacinati dal mantra conservatore
del nuovo e del cambiamento, hanno abbandonato, a mio parere, restano fermi.
Primo fra tutti il lavoro e in particolare il lavoro cooperativo, grazie a cui,
come sostiene Marx, gli uomini si spogliano dei loro limiti individuali e
sviluppano la facoltà della loro specie e a causa del quale, nello stesso
tempo, essi, dopo aver subito il dispotismo e il disciplinamento di fabbrica,
introiettano oggi il dispotismo e il controllo della produzione. E ciò mentre
vivono la condizione illusoria di essere imprenditori di se stessi, dopo che
dal comprensibile desiderio della flessibilità si ritrovano nella miseria mate-
riale e psicologica della precarietà del lavoro. Non hanno più né tempo né
possibilità di progettare il futuro e, del resto, è proprio il futuro che è
stato tolto, perché esso oggi si mostra al massimo e quasi soltanto come
mantenimento dell’esistente, quando non come una devastazione catastrofica del
presente. Nessuno ha il coraggio di guardare altrove, là oltre l’orizzonte,
dove poter immaginare una vita diversa dalla libera, depressiva solitudine
degli iperconnessi che convive con naturalezza insieme alla schiavitù del
lavoro nella gran parte del mondo. Eppure è proprio quello che serve. In un
libro di alcuni anni fa1 avevo cercato di affrontare il tema dell’autonomia
individuale consapevole della lacuna che vi era e cioè del fatto che il tema
dell’autonomia si deve porre dentro le condizioni della natura dell’uomo in
quanto animale sociale e dunque all’interno delle relazioni sociali. Non vi può
essere autonomia in senso proprio (1 A.M. Iacono, Autonomia, potere, minorità,
Feltrinelli, Milano) senza eguaglianza delle relazioni sociali. Forse,
riprendendo l’argomen- to della facoltà cooperativa degli uomini e del fatto
che essi devono riappropriarsene a partire dal lavoro, si potrebbe ripercorrere
una stra- da che nel corso tempo ha cambiato il suo tracciato e il cui manto è
attualmente pieno di buche. Desidero ringraziare Silvia Baglini, Giacomo
Brucciani, Enrico Campo, Francesco Marchesi, Luca Mori, Giovanni Paoletti.
Dedico questo libro alla memoria di Nicola Badaloni, Marco, che mi introdusse
agli studi su Marx. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Versione largamente rivista
di Divisione del lavoro e sviluppo della facoltà della specie umana in Marx,
originariamente pubblicato in «Critica marxista», n. 3, 1977, pp. 109-114.
Capitolo Secondo Sull’ambivalenza della cooperazione, in Ecologia, Esistenza,
Lavoro, (Officine Filosofiche), a cura di M. Iofrida, Mucchi, Bologna 2015, pp.
33-50. Capitolo Terzo Versione modificata del saggio apparso originariamente
con il titolo Sul concet- to di ‘trasparenza’. Un’immagine di asssociazione di
uomini liberi nel ‘Capitale’ di Marx, in «Metamorfosi», n. 4, 1981, pp.
126-139. Capitolo Quarto Versione largamente modificata di un saggio apparso
originariamente con il titolo Rapporti economici e rapporti sociali in Marx, in
«Prassi e teoria», n. 6, 1980, pp. 137-156. Capitolo Quinto Versione modificata
del saggio originariamente pubblicato in «Annali della Scuola Normale
Superiore», vol. XVIII, 2, 1988, pp. 549-766 (relazione al semi- nario dedicato
a Bachofen tenuto alla Scuola Normale Superiore e coordinato da Arnaldo
Momigliano). Capitolo Sesto Versione modificata di Sul concetto di feticismo,
in «Studi Storici», n. 3⁄4, 1983, pp. 429-436. Capitolo Settimo Versione
modificata di Concezione antropologica e concezione storica in Marx. Il caso
particolare del ‘feticcio della merce’, in aa.VV., Antropologia, prassi, eman-
cipazione. Problemi del marxismo, a cura di G. Labica, D. Losurdo, J. Texier,
Quattroventi, Urbino 1990. DIVISIONE DEL LAVORO E SVILUPPO DELLA FACOLTÀ
DELLA SPECIE UMANA IN MARX 1. In un luogo del capitolo sulla cooperazione, Marx
afferma: “Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi
limiti individuali e sviluppa la facoltà della specie”1. La facoltà della
specie umana consiste nella capacità che hanno gli operai riuniti insie- me e
combinati secondo le figure della cooperazione di produrre una quantità di
oggetti superiore a quella che lo stesso numero di operai sarebbe in grado di
produrre se ciascuno di essi lavorasse isolatamente. Questa idea è già in Adam
Smith, attraverso il famoso esempio del- la fabbrica di spilli, come ragione di
superiorità del modo capitalistico di produzione, basato essenzialmente sulla
manifattura, sui precedenti modi di produzione2. Sappiamo che, per Marx, la
cooperazione è “la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico”3 e
precisa- mente è la forma che attraverso le sue figure tende a svuotare le
facoltà individuali degli operai e a trasferirle ai mezzi di lavoro. Nella
figura più complessa di cooperazione capitalistica, quella del macchinismo,
questo trasferimento si realizza completamente. La storia del passaggio dalla
cooperazione semplice, alla manifattura, alle macchine, può essere letta come
la storia della perdita delle facoltà individuali lavorative degli operai
singoli in ragione dello sfruttamento derivante dallo sviluppo tecnico del
processo capitalistico di produzione. Già in A. Smith, nel Libro V della
Indagine ecc., si ritrova la descrizione della perdita delle facoltà degli
operai sottoposti alla divisione del lavoro nella manifattu- ra. Questa perdita
di facoltà è posta come ragione di inferiorità della classe operaia nei confronti
dei popoli selvaggi, dove non sussiste la divi- sione del lavoro: rispetto ai
selvaggi, lo sviluppo delle facoltà individuali degli operai appare in ragione
inversa della crescita della quantità di 1 K. Marx, Il capitale, I, trad. D.
Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 371. 2 Cfr. A. SMIth, Indagine sulla
natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano 1973, Libro I,
cap. I e A. SMIth, La ricchezza delle nazioni. Abbozzo, trad. V. Parlato,
Editori Riuniti, Roma 1969. 3 K. Marx, Il capitale, cit., p.
377. AMBIVALENZA DELLA COOPERAZIONE Il ritorno dell’uomo come animale
sociale Dopo anni di elogio dell’individualismo nel bel mezzo della glo-
balizzazione, mentre ritornava in un modo piuttosto primitivo l’abusa- ta
metafora della mano invisibile, qualcosa è cambiato. Dopo l’euforia degli anni
’80, un po’ di attenzione si è spostata da una filosofia inge- nua (ma
estremamente vantaggiosa per alcuni) dell’individuo verso la facoltà
collaborativa e cooperativa degli uomini. In un certo senso è tornata, se non
proprio al centro, almeno lateralmente, l’immagine ari- stotelica dell’uomo
come zòon politikón, dell’uomo cioè, come ebbero a tradurre Seneca e Tommaso
d’Aquino, come animale sociale. L’elemen- to sociale è tornato a essere considerato
come costitutivo della forma- zione dell’individuo sul piano etico, politico e
cognitivo. Recentemente il sociologo Richard Sennett ha pubblicato un libro che
significativa- mente ha per titolo Insieme ed è un’indagine sulla facoltà
cooperativa degli uomini esplicitamente influenzata dalle teorie di Amartya Sen
e Martha Nussbaum. “Le idee di Amartya Sen e Martha Nussbaum, egli scrive, sono
state per me fonte di ispirazione e costituiscono il tema di fondo che orienta
questo libro: le capacità di collaborazione delle per- sone sono di gran lunga
maggiori e più complesse di quanto la società non dia loro spazio di
esprimere”1. In sostanza la facoltà cooperativa degli uomini, nel nostro
sistema sociale, non riesce ad esprimersi ap- pieno e in particolare non
assicura la piena realizzazione delle capacità emotive e cognitive umane. Lo
scenario che emerge da questa tesi è dunque in primo luogo che la società non
riesce a realizzare la facoltà cooperativa umana e in secondo luogo che tale
facoltà si realizza grazie alle capacità emotive e cognitive e viceversa, nel
senso che, queste, a loro volta, si realizzano appieno soprattutto nella
collaborazione e nella cooperazione. 1 R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri e
politiche della collaborazione, Feltrinel- li, Milano 2012, p. 41. DIETRO
C’È SEMPRE QUALCOS’ALTRO Un’immagine di associazione di uomini liberi e l’idea
di trasparenza La trasparenza nasconde sempre qualcosa. Più precisamente na-
sconde ciò che viene tolto per far sì che l’immagine renda trasparenti i rapporti
che si vogliono rappresentare. Nell’economia politica, quel- le che Marx
chiamava “robinsonate”avevano un importante significato epistemologico:
semplificare e rendere per l’appunto trasparenti i rap- porti economici
complessi del modo di produzione capitalistico. Que- sto processo di
semplificazione presupponeva sempre una scelta in ciò che si voleva
rappresentare o, in altri termini, un taglio nel quadro rap- presentativo che
presupponeva un privilegiamento di una determinata struttura visiva invece di
un’altra. Nell’immagine di Robinson ciò che Defoe vuol far vedere è il rap-
porto tra il protagonista del suo romanzo e lo spazio naturale che egli deve
trasformare per renderlo utile alla sua sopravvivenza. Il comporta- mento di
Robinson è il comportamento del borghese nel suo rapporto con la natura
attraverso il lavoro. Ed in effetti, da questo punto di vista, il rapporto tra
Crusoe e le cose è chiaro e trasparente: “Il suo inventario dice Marx contiene
un elenco degli oggetti d’uso che possiede, delle diverse operazioni richieste
per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media
determinate quantità di questi diversi prodotti”1. L’effetto di trasparenza
appare dato da alcune condizioni complesse che già decidono i contorni
dell’immagine e dunque la par- zialità di una rappresentazione semplificata del
comportamento di un individuo alle prese col proprio lavoro. Baudrillard ha
osservato che la trasparenza della relazione di Robinson con le cose è
truccata2, ma la chiave del trucco è rintracciabile già nella stessa immagine
descritta da 1 K. Marx, Il capitale, cit., p. 109. 2 L. baudrIllard, Per una
critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974, p.
148. IL METODO DI MARX E L’USO DELL’ASTRAZIONE 1. A più riprese Marx ha
sottolineato che il porre l’uomo isola- to all’origine dello sviluppo sociale e
del processo storico è un assur- do. Nelle Forme che precedono la produzione
capitalistica, egli osserva come sia semplice raffigurarsi che un uomo potente
possa servirsi di un altro uomo “come di una condizione naturale preesistente
della sua riproduzione”1, e fare dell’esercizio del dominio il suo specifico
lavoro allo scopo di far lavorare altri uomini per lui; presupporre cioè una
divisione del lavoro tra signore e servo prima che siano state poste le
condizioni originarie, comunitarie per la riproduzione della vita de- gli
uomini. “Ma una simile idea è assurda – per quanto possa essere giusta dal
punto di vista di certe organizzazioni tribali o collettività – in quanto essa
parte dallo sviluppo di uomini isolati. L’uomo si isola soltanto attraverso il
processo storico”2. La questione posta da Marx non è, ovviamente, nuova.
Ferguson, per esempio, aveva già sostenuto la necessità di considerare la
specie umana in gruppi e di condurre l’indagine storico-sociale avendo come
oggetto la società intera e non gli uomini separatamente presi3. In generale
tutta la cosiddetta “scuola storica scozzese” aveva posto il problema di uno
studio della storia umana a partire dagli uomini riuniti in società ed aveva
sottolineato che il fattore chiave per comprendere lo sviluppo delle diverse
società era il “modo di sussistenza”4, da cui si potevano spiegare costumi,
leg- gi, forme di governo. È stato sostenuto, a questo proposito, che Marx 1 2
3 Bari 1999, 4 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica, II, cit., p. 123. Ibidem. A. FerguSon, Saggio sulla storia della
società civile (1767), Laterza, Roma- p. 6. Cfr. W. robertSon, History of
America (1777), in Works, Hill, Edinburgh V, p. 111; e J. MIllar, The Origin of
the Ranks (1771), ristampato in W.C. 1818, vol. lehMann, John Millar of
Glasgow, Cambridge University Press, Cambridge 1960, p. 175 (trad. it. J.
MIllar, Osservazioni sull’origine delle distinzioni di rango nella società,
Fran- coAngeli, Milano 1989). BACHOFEN, ENGELS, MARX La pubblicazione ad
opera di Krader degli estratti etnologici, l’ultimo lavoro di Marx, rimasto
incompiuto, impone di discutere del ruolo di Bachofen nell’Origine della famiglia
di Engels, che segnò la fortuna del Mutterrecht nel marxismo, tenendo conto di
questo labora- torio. La ragione è semplice: il libro di Engels è basato su
tali appunti, e certamente, comparando lo scritto di Marx con quello di Engels,
balza subito agli occhi il ben diverso peso che Bachofen ha nei due casi.
D’altra parte la frammentarietà degli appunti marxiani non rende sem- plice il
lavoro, ma non ci si può accontentare di segnalare le differenze di Marx e di
Engels su Bachofen senza fare almeno un tentativo di interpretare il senso
della ricerca di Marx al momento della sua morte. Si tratta di provare a
capire, se è possibile, quale significato abbia la grande presenza di Bachofen
nell’opera di Engels, laddove la cosa non è affatto riscontrabile nel Marx che
sta lavorando su quel Morgan che, a sua volta, sarà la base dell’Origine della
famiglia. Ma, data appunto la frammentarietà del testo di Marx, l’unica via
praticabile sembra quella di considerare in primo luogo il contesto teorico
entro cui Marx stava operando e riflettendo. 1. Il laboratorio di Marx
L’Origine della famiglia, la cui prima edizione è del 1884, fu pre- sentata da
Engels come l’“esecuzione di un lascito”1. Marx, morto un anno prima, aveva
lasciato ad uno stadio rudimentale il suo lavoro su Morgan, Phear, Maine,
Lubbock, Kovalevskij2. Si trattava in gran parte 1 F. engelS, L’origine della
famiglia, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 33. 2 The Ethnological Notebooks of
Karl Marx (Studies of Morgan, Phear, Maine, Lubbock), cit.; L. krader, The Asiatic
Mode of Production. Sources, Development and Critique in the Writings of Karl
Marx, Van Gorcum, Assen 1975 pp. 343-412: K. Marx, Excerpts from M.M.
Kovalevslcij. Sugli appunti di Marx; cfr. inoltre, L. achenza, Sui Taccuini
etnologici di Marx, in «ASNP», S. III, XIV, 1984, pp. 1385-1416; P.
greMIgnI, SUL CONCETTO DI «FETICISMO» IN MARX Il concetto marxiano di
feticismo delle merci è stato analizzato da due punti di vista: quello del suo
rapporto con il concetto di alienazione e l’altro della sua connessione con la
teoria del valore. È possibile tut- tavia affrontare il problema in modo
diverso, forse più ovvio: a partire cioè dalla fonte usata da Marx per la
formazione di questo concetto. Si tratta dell’opera di Charles de Brosses, Du
Culte des Dieux fétiches, pub- blicata anonima a Parigi nel 1760, che Marx
aveva studiato a Bonn nel 1842 in una traduzione tedesca di Pistorius del 1785,
e di cui aveva fatto degli estratti1, come del resto di altri testi, tra i
quali quello di Meiners sulle religioni2 che riprende il tema brossiano.
Considerato il problema da questo angolo visuale, si potrà vedere che il
concetto marxiano di feticismo, che diventerà successivamente il concetto di
feticismo delle merci, è carico di implicazioni che forse consentono di precisare
alcune questioni teoriche ad esso connesse. 1. Il concetto di feticismo
ripropone, come è noto, il problema delle apparenze, cioè dello scarto
esistente tra l’essere sociale e le im- magini “nebulose e fantastiche”
attraverso cui l’essere sociale è visto e concepito dagli uomini. Un tema che
percorre la riflessione di Marx nel corso di tutta la sua biografia
intellettuale, ma che nel feticismo delle merci assume un valore specifico. Ed
è proprio per questo che appa- re necessario percorrere specificamente la
strada dello sviluppo di tale concetto, anche perché, inoltre, in esso si
possono rilevare due momen- ti importanti del procedimento teorico di Marx,
certamente carichi di 1 K. Marx, Fetischismus, MEGA 2, vol. IV/1, Dietz, Berlin
1976. 2 C. MeInerS, Allgemeine kritische Geschichte der Religionen, 2 voll.,
Hannover 1806-1807. Su Meiners come volgarizzatore di de Brosses, cfr. M.
daVId, La notion de fétichisme chez Auguste Comte et l’oeuvre du présidente de
Brosses ‘Du culte des dieux fétiches’, in «Revue de l’Histoire des Religions»,
t. CLXXI (1967), n. 2, e S. landuccI, I filosofi e i selvaggi, Einaudi, Torino
2014. ANTROPOLOGIA E STORIA IN MARX. IL CASO PARTICOLARE DEL «FETICCIO DELLA
MERCE» La nozione di carattere di feticcio della merce costituisce un momen- to
particolare e privilegiato per un’analisi del rapporto fra concezione
antropologica e concezione storica in Marx. Le ragioni di questa parti-
colarità e di tale privilegio risiedono principalmente nei seguenti fatto- ri:
a) nell’uso stesso del concetto di «feticcio» mutuato dalla tradizione
etnologica e storico-religiosa a partire dal colonialismo; b) nella torsione
teorica che il concetto di feticcio e la nozione di «feticismo» giocano nel
corso dello sviluppo del pensiero di Marx; c) nel fatto che il «carattere di
feticcio della merce» costituisce un aspetto molto specifico e comples- so
dell’idea di rovesciamento provocato dalla coscienza ideologica nei confronti
della realtà; d) nel fatto, infine, che la nozione di «feticcio» ap- plicata alla
merce viene a definite la funzione simbolica dell’oggetto eco- nomico-sociale
e, all’inverso, la funzione economico-sociale dell’oggetto simbolico. Di questi
quattro fattori, lo svolgimento dei primi due con- sente di capire come
l’applicazione del concetto di «feticcio» alla merce capitalistica significhi,
almeno per quel che riguarda questo punto, un radicale mutamento strategico e
teorico del concetto stesso rispetto alla sua storia e all’accezione fino ad
allora comune e dominante in campo filosofico, etnologico e storico-religioso.
E lo sviluppo del pensiero di Marx conferma, a mio parere, il senso di tale
mutamento. I secondi due fattori aprono molte questioni interpretative, in
particolare riguardo al rapporto fra condizioni reali della forma di vita
sociale e forme della coscienza e dell’ideologia, alla specificità ed
eccezionalità storica del si- stema capitalistico, al problema dell’osservatore
che si trova ad operare e interpretare in quel groviglio che è il sopraddetto
rapporto fra condizioni della vita sociale e ordine simbolico e culturale. Ma,
soprattutto, possono forse aiutare a comprendere il senso della separazione fra
la struttura ca- pitalistica delle relazioni fra gli uomini e gli individui in
quanto tali; cioè del modo particolare in cui le relazioni si autonomizzano
dagli individui, e la «comunità», originariamente concreta, deposita i rapporti
nelle cose, andando a costituire un astratto sistema di vincoli
sociali. INDICE Prefazione 5 Riferimenti bibliografici 11 1. Divisione del
lavoro e sviluppo della facoltà della specie umana in Marx 13 2. Ambivalenza
della cooperazione 35 3. Dietro c’è sempre qualcos’altro 55 4. Il metodo di
Marx e l’uso dell’astrazione 67 5. Bachofen, Engels, Marx 85 6. Sul concetto di
«feticismo» in Marx 101 7. Antropologia e storia in Marx. Il caso particolare
del «feticcio della merce» 111 Indice dei nomi 119 philosophica L’elenco
completo delle pubblicazioni è consultabile sul sito www.edizioniets.com alla
pagina http://www.edizioniets.com/view-Collana.asp?Col=philosophica
Pubblicazioni recenti 208. Alfonso Maurizio Iacono, Studi su Karl Marx. La
cooperazione, l’individuo sociale e le merci, 2018, pp. 124. 207. Imre Toth, Le
sorgenti speculative dell’irrazionale matematico nei dialoghi di Platone, a
cura di Romano Romani e Paolo Pagli, prefazione di Romano Romani. In
preparazione. 206. Alessandra Fussi, Per una teoria della vergogna, 2018, pp.
164, ill. 205. Alberto Pirni, La sfida della convivenza. Per un’etica
interculturale, 2018, pp. 308. 204. Matteo Galletti, Reciprocamente
responsabili. La responsabilità morale tra naturalismo e normativismo, 2018,
pp. 296. 203. Linda Bertelli, L’utopia nell’estetico. Tempo e narrazione in
Ernst Bloch, 2018, pp. 152. 202. Andrei Pleșu, Pittoresco e malinconia.
Un’analisi del sentimento della natura nella cultu- ra europea, traduzione e
cura di Anita Paolicchi, prefazione di Victor I. Stoichita, 2018, pp. XII-216.
201. Danilo Manca, La disputa su ispirazione e composizione. Valéry fra Poe e
Borges, 2018, pp. 176. 200. Russo Maria Teresa, Esperienza ed esemplarità
morale. Rileggere Le due fonti della mora- le e della religione di Henri
Bergson, 2017, pp. 100. 199. Filieri Luigi, Vero Marta [a cura di], L’estetica
tedesca da Kant a Hegel, Prefazione di Leonardo Amoroso, 2017, pp. 176. 198.
Flamigni Gabriele, Presi per incantamento. Teoria della persuasione socratica,
Prefazione di Maria Michela Sassi, 2017, pp. 144. Edizioni ETS Piazza
Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com - www.edizioniets.com Finito
di stampare nel mese di maggio 2018. Di consequenza, e la cooperazione, cosi
come di dispiega nella conversazione, a determinare que moni intermedi che
presuppongon non un io ma un noi. Alfonso Maurizio Iacono. Iacono. Keyword:
feticismo conversazionale. Il Vico di Iacono. Il Pirandello di Iacono, la
cooperazione. Imitare, imago, imaginario collettivo di Jung -- Luigi Speranza, “Grice ed Iacono:
l’implicatura dell’intermezzo” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Illuminati –
il filosofo all’opera – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Illuminati, especially
his essay on Rousseau, between solipsism and conversation!” -- La città e il
desiderio. Viene meno un modo di fare in cui la soggettività potente si
appropria il mondo subordinando le altre potenze soggettive e realizza la sua
essenza destinale mediante adeguati meccanismi di rappresentazione e
manipolazione tecnica. (108-109) Come utilizzare regole pubblicamente valide
senza colpevolizzare e controllare dall'altro le forme di vita degli uomini è
precisamente l'antinomia della cittadinanza. La politicizzazione di sfere
inabituali va insieme alla diserzione di istituzioni sclerotiche. Una ricaduta
pratica ne è l'integrazione delle strutture rappresentative con nuove lobbies o
la richiesta di quote per minoranze Nel lasciar-essere che si contrappone alla
tracotanza istituzionale convivono cosi l'ancora-non-rappresentato che cerca
lobbisticamente rappresentazione, e rifiuto radicare di rappresentazione. Professore
associato di storia della filosofia politica, dall'anno accademico ha assunto
la cattedra di storia della filosofia, dove è stato chiamato come
straordinario. Insegna a Urbino. Fa parte anche del Collegio dei docenti del
Dottorato di ricerca in antropologia filosofica e fondamenti delle scienze e
del Collegio dei docenti del Dottorato di Ricerca in Filosofia Moderna e
contemporanea (Bari-Ferrara-Urbino). E' inoltre presidente del Corso di laurea
in filosofia. Ha scritto: Sociologia e classi sociali, ed. Einaudi,
Torino); “Kant politico, ed. La Nuova Italia, Firenze); Società e progresso
nell'illuminismo francese, ed. Argalia, Urbino); Jean-Jacques Rousseau, ed. La
Nuova Italia, Firenze); J.-J. Rousseau e
la fondazione dei valori borghesi, ed. il Saggiatore, Milano); Antologia con
introduzione (pp. V-XXX) e note) di J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, ed.
La Nuova Italia, Firenze); Gli inganni di Sarastro, ed. Einaudi, Torino); Il potere "disseminato", in Aa.Vv.,
Lavoro Scienza Potere, ed. Feltrinelli, Milano); Winterreise, ed. Dedalo,
Bari); Racconti morali, ed. Liguori, Napoli); Sentimenti dell'aldiqua (in
collaborazione con Aa.Vv.), ed. Theoria, Roma-Napoli); La città e il desiderio,
ed. manifestolibri, Roma); Aa.Vv., Democrazia difficile, Roma, ed. il
Passaggio); Nuove servitù (in
collaborazione con Aa.Vv.), ed. manifestolibri, Roma); Introduzione a P. Nizan,
Aden Arabia, ed. Fahrenheit, Rom); Esercizi
politici —quattro sguardi su Hannah Arendt, ed. manifestolibri, Roma); Averroè
e l'intelletto pubblico –antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima,
introduzione (e cura, ed. manifestolibri, Roma); Il teatro dell'amicizia
–metafore dell'agire politico, ed. manifestolibri, Roma); Quasi una fantasia. Funzioni cognitive dell'immaginazione
nei commentatori di Aristotele in Aa.Vv., Imago in phantasia depicta. Studi
sulla teoria dell’immaginazione, a cura di Lia Formigari, Giorgio Casertano,
Italo Cubeddu, ed. Carocci, Roma, Quasi una fantasia. Funzioni cognitive
dell'immaginazione nei commentatori di Aristotele, in Materiali per una storia
e teoria dell’immaginazione, “Quaderni dell’Istituto di Filosofia-Urbino” Il
filosofo all'Opera, -- Bellini, Verdi -- ed. manifestolibri, Roma); Completa
beatitudo: l'intelletto felice. Tre opuscoli sulla. congiunzione con
l'Intelligenza Agente. Ed. l'Orecchio di van Gogh, Chiaravalle); Del
comune -cronache del general intellect, Roma, manifestolibri, Bandiere.
Dalla militanza all'attivismo, Roma, DeriveApprodi. Grice: “I enjoyed
Illuminati’s treatment of Rousseau’s myth of the social contract, since I made
use of it!” – ‘Imagine is a good thing, but is there such a thing as
co-imagine?” -- Augusto
Illuminati. Illuminati. Keywords: il filosofo all’opera. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Illuminati” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752902177/in/dateposted-public/
Grice ed Incardona –
Questo è l’uomo – filosofia italiana – filosofia siciliana – gl’inferi del
principio -- Luigi Speranza (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Incardona; for
one, he gave seminars on ‘la costanza dell’io,’ as I did! Second, he used Greek
freely, as I do! Third, he is slightly incomprehensible, as I am SAID to be!”
Insegna a Palermo. Studia nel Liceo classico Ruggero Settimo. Direttore del
Giornale di Metafisica, fondato da Sciacca. La tematica fondamentale di
Incardona è la "filosofia del principio", un percorso nella storia
della filosofia sul volto all'interrogazione riguardo al fondamento e
all'archè. Le due categorie concettuali attraverso cui legge la storia della
filosofia sono l'arcaicità, identificata con Aristotele, e l'arcaismo,
identificato con Hegel. Aristotele ed Hegel sono infatti nella filosofia del
principio le due porte, l'inizio e la fine, l'elemento e il compimento della
filosofia. Il percorso della filosofia e un percorso aporetico, in cui la
dialettica assume l'aspetto di un dialogo senza soluzione fra tensione naturale
alla conoscenza e fallimento destinale dell'impresa conoscitiva. Ha influenza
che nel campo dell'ermeneutica. Il suo contributo determinante è stata la sua
riflessione non scettica ma aporetica sull'archè. La questione aristotelica del
‘principio’ (ontologico ed epistemologico, di non contraddizione e teologico
come Dio) viene colta ed elevata da questione logica a questione esistenziale.
Compagni di strada naturali, sebbene fortemente criticati da Incardona, sono,
in questa sorta di teologia negativa, Derrida e Heidegger. In essi è infatti
rintracciabile la tematica privativa e mistico-antirazionale del rapporto con
l'assoluto. L'unica cosa che si può dire dell'assoluto è che esso non è alla
nostra portata, esso nasconde al filosofo il volto come all'esule è nascosta la
patria. Sebbene veda nella filosofia post-hegeliana una sorta di
"pleonasmo" che non ha più alcuna utilità nella società contemporanea
(antifilosofia), sembra che le sue intuizioni più originali e più feconde
nascano proprio da una rielaborazione personale delle tematiche ermeneutiche di
Heidegger. Saggi: “Idealismo della filosofia ed esperienza storica” (Epos,
Palermo); “Idealismo tedesco ed italiano” (Epos, Palermo); “Gl’inferi del
principio. Interrogazione e invocazione” (Epos, Palermo); “Karpòs” (Epos,
Palermo); “Meditatio in curriculo mortis”
(Epos, Palermo); “Kéntron” (Epos, Palermo); "L'inclusione dell’altro.
Profilo di Giuseppe Nicolaci", Epekeina. International Journal of
Ontology, History and Critics. Grice: “I used to use ‘principle’ very freely
until I met Incardona. My conversational principle of cooperativeness became an
‘imperative’ – the conversational imperative – ‘let’s cooperate!’ – under which
the different conversational maxims fall. Incardona says that talk of
‘principle’ usually leads you to an aporia, or to hell! “l’inferi del
principio’!” Nunzio Incardona. Incardona.
Keyword: Questo è l’uomo, principio,
principio conversazionale, arcaismo, arcaico, arcaita – principium – imperative
– Kant – Hegel – Aristotle -. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Incardona” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752880912/in/datetaken/
Grice ed Infantino –
diada conversazionale – il rischio dei solidali -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Gioia
Tauro). Filosofo. Grice:
“I like Infantino: for one, he prefaced an essay on ‘the perils of solidarity,’
which is all my conversational pragmatics is about!” Insegna a Roma. La sua
filosofia si svolge infatti nel solco tracciato da Hayek che coniuga le acquisizioni di
Mandeville e dei moralisti scozzesi con quelle della Scuola Austriaca di
Economia. Cura Menger, Boehm-Bawerk, Mises e Hayek. Pubblica “L’ordine
senza piano: le ragioni dell’individualismo metodologico” (Roma, NIS) “Ignoranza
e libertà” (Soveria Manneli, Rubbetino); “Individualismo, mercato e storia
delle idee”; “Potere. La dimensione politica dell’azione umana” (Soveria
Manneli, Rubbettino). Vede nelle conseguenze inintenzionali delle azioni umane
intenzionali l’oggetto delle scienze sociali, che vengono in tal modo
affrancate da qualsiasi psicologismo. È il tema sollevato da Mandeville e dai
moralisti scozzesi, ripreso poi con forza da Menger e Hayek. Non sono le
intenzioni dei singoli (o quelli che sono stati infelicemente chiamati “spiriti
animali”) a spiegare i fenomeni sociali. Occorre piuttosto individuare le
condizioni che rendono possibile o impossibile un dato evento. Tale tradizione
di ricerca ha come suo presupposto il riconoscimento dell’ignoranza e della
fallibilità umane. Da cui discende l’abbattimento del mito del “Grande
Legislatore”, il cui posto viene occupato dal processo sociale, cioè dalla co-operazione
volontaria. Questa costituisce un procedimento di esplorazione dell’ignoto e di
correzione degli errori. Ed è su tale teoria della società che Infantino si
muove per spiegare il fenomeno del potere, da lui studiato come potere infra-sociale,
derivante cioè dall’inter-azione, e il potere pubblico, ossia il potere
d’intervento dello Stato nella vita sociale. La competizione minimizza il
potere infra-sociale, perché non c’è un unico agente che offre o un unico
agente che richiede. Il potere pubblico si minimizza o si limita, attribuendo
allo Stato un’esclusiva funzione di servizio nei confronti della cooperazione
sociale volontaria. Pubblicato “Cercatori di Libertà” (Soveria Mannelli, Rubbettino,
), in cui è ospitato un suo scritto che ha fatto da introduzione a “A proposito
di Rousseau”, dedicato da Hume alla rottura dei suoi rapporti con Rousseau. Gli
altri saggi della raccolta si occupano di Constant, Mises, Hayek (Luigi
Einaudi). Cubeddu e Reichlin hanno
curato “Individuo, liberta, e potere: studi in onore di Infantino” (Rubbettino
Editore) di scritti in suo onore, a cui hanno contribuito numerosi studiosi di
ispirazione liberale. Altre opera: Sociologia dell'imperialismo:
interpretazioni liberali, Milano, FrancoAngeli); “Dall'utopia al totalitarismo:
Marx, Dio e l'impossibile, Roma, Borla); “La societa aperta, Roma, Quaderni del
Centro di metodologia delle scienze socialiLUISS Guido Carli; “Metodo e
mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Destra: una parola ormai inutile” Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Scuola austriaca di economia: album di famiglia, Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Le ragioni degli sconfitti: nella lotta per la scuola
libera, Roma, Armando); “Le scienze sociali” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Individualismo,
mercato e storia delle idee, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee di libertà.
Economia, diritto, società” (Soveria Mannelli, Rubbettino); Cercatori di
libertà, Soveria Mannelli, Rubbettino);Potere: la dimensione politica
dell'azione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli.Grice: “Pure il nostgro piu
spontaneo desiderio di aiutare gli altri “esige un patto anticipato fra almeno
due persone”, chi propone e chi accetta. Come avviene in ogni altro rapport
intersoggetivo, amicia e amore compresi, c’e nella solidarieta uno ‘scambio,’
in cui devono essere presenti la disponibilita a dare e la disponsibilita a
ricevere. Étymol. et Hist. 1. 1584 dr. obligation solidaire (J. Duret,
Commentaire aux coustumes du duché de Bourbonnois, § 35, p. 274); 2. id. « se
dit des personnes liées par un acte solidaire » (Id., ibid.); 3. 1739-47 « se
dit des personnes qui ont une communauté d'intérêts ou de responsabilités »
(Caylus, Œuvres badines, X, 41); 4. 1834 « se dit des choses qui dépendent
l'une de l'autre » (Béranger, Acad. et Cav. ds Littré); 5.1861 mécan. « se dit
des pièces d'un engrenage dont le fonctionnement est lié » (M. Cournot, Traité
de l'enchaînement des idées fondamentales dans les sc. et dans l'hist., t. 1,
p. 80). Dér. de solide*; suff. -aire1*, pour rendre compte du lat. jur. in
solidum « pour le tout », « solidairement ». Fréq. abs. littér.: 436.
Fréq. rel. littér.:xixes.: a) 358, b) 277; xxes.: a) 947, b) 829. Società di
mutuo soccorso associazioni di lavoratori sorte per sopperire alle carenze
dello stato sociale Lingua Segui Modifica Le Società operaie di mutuo
soccorso (SOMS) sono associazioni, nate in Italia intorno alla seconda metà
dell'XIX secolo.[1] Cesare Pozzo (1835 - 1898), pioniere del
mutualismo italiano Targa della SOMS sull'esterno della sede ad Arquata
Scrivia Le forme originarie videro la luce per sopperire alle carenze dello
stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa,
trasferendo il rischio di eventi dannosi (come gli incidenti sul lavoro, la
malattia o la perdita del posto di lavoro). StoriaModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia dello stato sociale
in Italia: l'età liberale (1861-1921). Le SOMS nacquero come esperienze di
associazionismo e mutualità, coeve alla protoindustria, per rispondere alla
necessità di forme di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo l'ondata
rivoluzionaria del 1848 la loro diffusione subisce un notevole incremento
grazie alla concessione di costituzioni liberali negli antichi Stati italiani.
Prima di tale data la libertà di associazione era fortemente limitata ed
ostacolata dagli ordinamenti nati nel clima poliziesco della Restaurazione.[1]
Il funzionamento delle SOMS venne regolato con la legge 15 aprile 1886, nº
3818. Giuseppe Moricci, L'artigiano cieco e la sua famiglia,
1851[2] All'epoca della I Internazionale (1864), erano già sorte le prime
Società di Mutuo Soccorso o di mutuo appoggio, nate con lo scopo di darsi
solidarietà e/o chiedere aiuto ad altri ceti sociali. L'"età d'oro"
delle società di mutuo soccorso è nei due decenni tra il 1860 e il 1880. In
particolare, nel periodo dal 1871 al 1893, le Società si unirono tra loro nel
Patto di fratellanza, di ispirazione mazziniana e saffiana.
Successivamente a questo tipo di esperienza che alcuni (tra i quali Bakunin)
consideravano paternalistica, si affiancarono altri tipi di organizzazione di
lavoratori che sostituirono alla concezione mutualistica e solidaristica quella
sindacale e partitica. Le società di mutuo soccorso continuarono tuttavia ad
espandersi sia come numero di associazioni (che toccò il picco di 6722 nel
1894)[3]che di associati (il culmine è nel 1904 con 926.000 soci)[4]. Le
società di mutuo soccorso svolgono un grande ruolo agli esordi delle prime
organizzazioni sindacali. Nel 1891 saranno le SOMS a creare la Camera del
Lavoro di Torino[5][6]. A Milano il 2 e il 3 agosto 1891, si radunarono i
delegati di 450 Società Operaie di Mutuo Soccorso che decisero di costituire
sindacati di categoria riuniti in Camere del Lavoro.[7] Il biennio 1898-99Modifica
Il 1898 fu in Italia l'anno di una grave crisi politica sfociata in una
sommossa in molte città d'Italia, in particolare Milano. La reazione
governativa fu particolarmente pesante, furono sciolte molte organizzazioni
socialiste[8] e quelle cattoliche facenti capo all'Opera dei congressi[9][10]
Il clima di diffidenza investì anche le società operaie, accusate di svolgere
attività sindacale. Gli ambienti più aperti reagirono al clima di pesante
controllo da parte del governo presieduto da Luigi Pelloux (che ricopriva anche
l'incarico di ministro degli interni) sulle associazioni di carattere sindacale
e politico,[11] fondando nuove associazioni che svolgevano compiti di aiuto
economico ai piccoli imprenditori. In questo clima nella frazione Ronchi San
Bernardo fondarono una Società Agricola operaia. Per ribadire il valore
dell'associazionismo ripiegarono su attività sociali che non potevano essere
accusate di avere valenza politica. Le società agricole-operaieModifica
Il 1898 era anche un anno caratterizzato dalla grande crisi agraria: le zone
vinicole erano state devastate dalla fillossera e dalla peronospora. La formula
trovata dai settori più progressisti ed illuminati fu quella del rilancio di
strutture che assicurassero agli agricoltori la fornitura dei mezzi di
produzione (sementi, concimi, macchine agricole) a prezzi calmierati e di buona
qualità. Il governo, che non prendeva nessun altro provvedimento a favore del
mondo agricolo, dovette tollerare che iniziativa come quella dei piccoli proprietari
di Courgnè avevano intrapreso, sotto il modello di fratellanza delle
"società operaie" dopo aver chiarito che l'oggetto sarebbe stato il
sostegno alla produzione e non attività politica. Pertanto fu chiarito che per
essere ammesso come socio, occorreva dimostrare di essere proprietario sia pure
di un piccolo appezzamento di terreno agricolo.[12] L'autorità di polizia
aveva provveduto nel maggio 1898 allo scioglimento di molte società di mutuo
soccorso, al sequestro del loro patrimonio, e da una interrogazione
parlamentare dell'onorevole Bertesi, sappiamo che nel dicembre successivo non
era stato dissequestrato.[13] L'eccezionalità della costituzione della
Società Agricola Operaia Ronchi San Bernardo di Courgnè è dato che persino
nell'anno seguente il giornale La Stampa segnalava che le Società operaie
venivano chiuse senza che avessero dato alcun pretesto[14] Di altro esempio di
costituzione di Società Agricola Operaia c'è l'anno successivo a
Trapani[15] Al fiorire delle iniziative sparse a livello locale
corrispose, poi, uno sforzo unificante. Il ruolo di acquisire i mezzi di
produzione agricola si spostò a livello provinciale nei Consorzi agrari,
coordinati a livello nazionale dalla Federconsorzi Le iniziative locali, quando
sopravvissero, ebbero solo la valenza di meri circoli che gestivano il massimo
centro di aggregazione delle piccole località rurali: l'osteria, ma salvando a
volte una valenza associativa.[16][17] La società di Cuorgnè riuscì così a
raggiungere i 120 anni, continuando a svolgere attività di carattere sociale e
filantropico[18][19] Il NovecentoModifica Il 5 settembre 1900 nasce la
Federazione italiana delle società di mutuo soccorso. L’articolo 1 dello
Statuto di allora recitava così: “È costituita la Federazione Italiana delle
Società di Mutuo Soccorso al fine di provvedere alla tutela degli interessi
delle Società federate e contribuire a migliorare moralmente e materialmente la
condizione delle classi lavoratrici a mezzo della previdenza". Fin dalle
origini la Federazione fu al fianco del movimento cooperativo e del movimento
sindacale, formando un’alleanza allora fondamentale per l’affermazione dei
diritti dei lavoratori e della legislazione sociale. Con decreto
prefettizio, la Federazione italiana delle società di mutuo soccorso fu sciolta
nel periodo fascista insieme alle SOMS, anch'esse sciolte o incorporate in
organizzazioni fasciste. Nel 1948 la Federazione fu ricostituita e assunse la
denominazione di Federazione italiana della mutualità (Fim). La
sede della SOMS di Villa del Foro (Alessandria) durante il periodo fascista
Verso la fine degli anni cinquanta, quando le SOMS ripresero ad espandersi, la
società italiana era profondamente cambiata: i lavoratori avevano ottenuto
maggiori tutele, erano state introdotte le pensioni ed era stata estesa la
protezione nel campo sanitario(almeno per il lavoro dipendente), mentre scarsa
era la "copertura" per professionisti e lavoratori autonomi; nei loro
confronti si spostò quindi la maggior parte del lavoro svolto dalle SOMS.
A seguito della rinnovata attenzione alle forme di mutualità integrativa al
welfare pubblico, dopo il congresso del 1984, la Fim diventò Federazione
italiana della mutualità integrativa volontaria (Fimiv).[20] A partire dagli
anni 2000 le SOMS hanno poi rivolto la loro attenzione soprattutto verso
l'assistenza sanitaria integrativa. Alla fine del 2007 viene costituita la
Società Generale di Mutuo Soccorso Basis Assistance che nel 2012 incorpora per
fusione prima Mutua 1886 e poi Mutua Sarda, diventando la più grande mutua
sanitaria italiana per numero di assistiti. Il 25 ottobre del 2011 prende
forma l'Associazione Nazionale Sanità Integrativa (ANSI) nuova realtà capace di
tutelare, aggregare e sostenere le diverse forme mutualistiche operanti in
Italia. L'ANSI è frutto dell'unione di 8 tra fondi sanitari e società di mutuo
soccorso, tra cui Mutua Basis Assistance, fondo C.A.S.P.I.E., Cassa di
Assistenza Basis Assistance, Mutua Unica e Mutua Sarda. Nel 2015, il
Fondo FASV – Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa di Assolombarda – ha
approvato il progetto di fusione per incorporazione nella Società Generale di
Mutuo Soccorso, Mutua Basis Assistance che diviene effettivo il 1º gennaio del
2016. Nell'aprile del 2017 l'Associazione Nazionale di Sanità Integrativa
cambia denominazione sociale, trasformandosi in Associazione Nazionale Sanità
Integrativa e Welfare, con l'intento di dare voce a tutte quelle realtà che si
affacciano al mondo del welfare aziendale. Sono oltre 500 le società di
mutuo soccorso attualmente aderenti alla Fimiv, collegate direttamente o
attraverso i coordinamenti territoriali associati, per complessivi 953.000 tra
soci e assistiti, questi ultimi intesi come familiari dei soci e iscritti ai
fondi sanitari gestiti in mutualità mediata. Nel 2016 le società di mutuo
soccorso della Federazione hanno partecipato all’integrazione dell’assistenza
sanitaria pubblica mediante prestazioni e sussidi erogati ai soci e assistiti
per un valore di 95 milioni di euro, pari a oltre il 78% dei contributi raccolti.
A garanzia della capacità di copertura delle prestazioni, gli accantonamenti
complessivamente destinati dalle società di mutuo soccorso a riserva
indivisibile ammontano a oltre 100 milioni di euro.[21] La Fimiv svolge
il ruolo di rappresentanza, promozione, sviluppo e difesa delle società di
mutuo soccorso e degli enti mutualistici che vi aderiscono, fornendo loro
assistenza e servizi di sostegno e organizzando convegni ed eventi pubblici
come la Giornata nazionale della Mutualità giunta alla sua IX edizione. Si
adopera per la diffusione e la tutela dei principi della mutualità ed esige il
rispetto del Codice identitario della mutualità da parte delle sue
associate.[22] La Fimiv Aderisce alla Lega nazionale delle cooperative e
mutue, al Forum nazionale del Terzo Settore e all’Associazione internazionale
della mutualità (Aim). Nel 2001 è stata riconosciuta dal Ministero dell’interno
quale Ente nazionale con finalità assistenziali, ai sensi della legge n.
287/1991 e dei decreti del Presidente della Repubblica n. 235/2001 e n.
640/1972. Lorenzo Infantino. Keyword: co-operazione. Il diadismo metodologico,
diadismo conversazionale, statalismo, tottalitarismo, liberalism, partito
liberale italiano, collettivismo, cooperazione, competizione, solidale, solidario,
solidarii, solidali, le code francais, obligatio in solidum, oligatio in
solidum and solidarity, obbligazione in solidum e solidarieta, J.Vincent,
L’extension en jurisprudence de solidarite passive. I. Mazeaud, Obligation in
solidum et solidarite entre codebiteurs delictuels.’ Infantino. Keywords: diada
conversazionale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Infantino: il diadismo
conversazionale” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754325374/in/dateposted-public/
Grice ed Iorio – torna
a Sorrento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seravezza). Filosofo. Grice: “The line and the circle is what
Chomsky would call a NP, but there’s two books on it by Italian philosophers!
Oddly, I visited Sorrento on my way to Greece!” Si laurea a Pisa con Campioni.
Studia filosofia antica. Opere: La linea e il circolo” (Genova, Pantograf). Genesi,
critica, edizione; D'Iorio e N. Ferrand, Pisa. ffetto da numerosi
problemi di salute e da un disturbo agli occhi, nel suo viaggio verso il Sud
dell’Italia, da Napoli raggiunge Sorrento via mare, alloggiando nella pensione
Allemande-Villa Rubinacci, ospite di Malwida von Meisenburg, una ricca mecenate
delle arti. Ne rimase subito folgorato, tanto da restare per più di sei mesi. A
suo dire, questo soggiorno fu uno dei più felici della sua tormentata vita. The
influence of philosophical irrationalism upon Mussolini’s fascism is evident
from his readings and studies. Mussolini read avidly from the works of
Schopenhauer, Nietzsche, and Sorel. The works of Marx were also an influence on
Mussolini. One must remember from the outset that all of Mussolini's readings
serve only to enhance his own pragmatic theories, and that Mussolini values action
and experience more than doctrine; nevertheless, the trend of Mussolini's
thoughts and actions clearly shows that the greater part of whatever influence previous
philosophers had upon him falls within the realm of irrationalism. Christopher
Hibbert, II Duce (Boston, Toronto); Chester C. Maxey, Political Philosophies
(New York); Herman Finer, Mussolini's Italy (London)’ Benito Mussolini, My
Autobiography, translated by Richard Washburn Child (New York). Mussolini
derived from the pessimistic philosophy of Schopenhauer and the irrational
theories of Nietzsche and Sorel the basic idea that a human life as such has no
sacred value. This evaluation of human existence is expressed by the Fascist
theorist Giovanni Gentile, and Mussolini heartily concurred with his
spokesman.'* With this general attitude toward humanity, the more complex
doctrines of Fascism attained greater palatability for Mussolini and his
generation of Italians. The influence of Nietzsche on Mussolini is quite
obvious. Certain passages from the two men's writings are almost
interchangeable. Nietzsche's ideas are perverted by Mussolini, and the Italian
dictator uses Nietzsche's terminology more than he used the true essence of
Nietzsche's thoughts. However, the general influence of Nietzsche on Fascism
remains apparent. In general, Nietzsche's concepts of the transvaluation of
values, the eternal struggle for power, the moral value of violence, elitism,
and the supremacy of the super-man are the most important aspects of
Nietzsche's philosophy that influence Mussolini. William K. Stewert, "The
Mentors of Mussolini," American Political Science Review, XXII. In
general, Mussolini's thinking was greatly influenced by the wave of
irrationalism which had swept the European intelligentsia of the nineteenth and
early twentieth centuries. This fact is important in two respects. Primarily,
an understanding of philosophical irrationalism provides an opportunity for an
insight into Mussolini's thoughts. Many of the irrational concepts were
incorporated in toto into the Fascist ideology. In addition to this,
philosophical irrationalism in its several manifestations had imbued the post-World
War generation with a detestation of the values of the current European order,
and had originated new possibilities for trans-forming these values into
something more worthwhile. This gives Mussolini a whole generation of
dissatisfied and disillusioned Italians to mold into Fascists, and it also
affords him the advantage of speaking to this culture in terms which it already
understood and held faith in. The development of philosophical, irrationalism
in Continental Europe permeated philosophy and political thought in Italy.
Responsible Hegelianism represented in Italy by Croce is a polemical anathema
to any philosophy espousing myths and the blind struggle for power as
determinents in the course of history.^ Mussolini and his spokesmen used
Hegelian terminology as an ad hoc rationalization for totalitarian terror. The
irrational theories of action, elitism, and instinctual knowledge are more
philosophically congruent with Fascist thought, and that part of Italy's
intelligentsia which acknowledged this symmetry were at least on firmer ground
philosophically than the Fascist Hegelians. The segment of Italy's scholarly
community which contributes to the irrational doctrines of Fascism was
in-exorably linked in both thought and action to the politics of Benito
Mussolini. Several Italian men of letters owed a debt to philosophical
irrationalism, and some of these scholars' theories were woven into the
attitudes of Mussolini. This connection between the irrationalism of part of
Italy's intelligentsia and the career of II Duce represents yet another link in
the chain of thought reaching from philosophical irrationalism in Continental
Europe to the dictatorial terror of Italian Fascism. Reactionary
authoritarianism had been promoted by many Italian intellectuals around the
turn of the century. The Nationalist Party was founded by intellectuals of this
political posture. The Nationalist Party favored imperialism and opposed
democratic representative government. Among the members of this party were the
philosopher Alfredo Rocco and Annunzio. Rocco later became a prominent Fascist
spokesman. Annunzio was the most renowned literary figure in Italy. This
reactionary philosopher fed the Fascist myth with exaggerated expressions of
the glories of ancient Rome and incorrect racial doctrines concerning the
origin of the Italian people. in the growth of Italian extremism, and he was
joined by Mussolini in the loosely-knit Nationalistic movement which solidified
into the Fascist Party. Prior to his active participation in the Fascist drive
to power, Mussolini travels and studies in Switzerland. He attends lectures
given at Lausanne by the respected social economist Vilfredo Pareto. Pareto's
social theories had strong overtones of irrationalism, and his primary emphasis
is on the preponderance of irrational human behaviour within the political
process. This irrational conduct, according to Pareto, manifests itself in
various "residues" such as traditional mores, folkways, political
ideologies, and established social values. 13 ^S. William Halperin, Mussolini
and Italian Fascism (Princeton), William Bolitho, Italy under Mussolini {New
York). Annunzio became a popular
rabble-rouser . The course of events in any society is characterized by
constant conflict, and order is achieved only when an elite governing class
exercises control over the irresponsible masses. The elite gains control and
exercises power through a combination of force and the use of the
"residues," which adopt a mythological character. These theories of
Pareto were a strong influence on Mussolini. He was especially impressed by
Pareto's emphasis on the elite as the only body capable of restoring and
preserving the social order that incompetent administrators had allowed to
disintegrate. Pareto and Sorel shared the ideas of elitism, myths, and 19 the
use of force as integral parts of social existence. Mussolini's admitted
respect for Sorel as a teacher correlates with the avid interest of Mussolini
in the lectures of Pareto. The common irrational theories, especially those of
Pareto con- cerning the use of force for political purposes, made a lasting *0
impression on Mussolini. Pareto and Mussolini came to respect each other's
ideas in a reciprocal manner. Less than ten years after Mussolini attended
Pareto's lectures, the renowned social economist was writing articles which
lauded Fascism. Mussolini returned this common ideological admiration by
appointing Pareto to a seat in the Fascist Senate in 1923- active participant
in the totalitarian regime of Mussolini. Rocco's involvement in reactionary and
extremist political movements culminated in his role as an important Fascist
governmental official and spokesman. Rocco helps found the nationalistic
journal Politica. which published. The respected academician ended his days as
an serious scholarly articles by Nationalistic theorists. was named
Under-Secretary of the Treasury by Mussolini in the first Fascist government, '
and he eventually became the Fascist Minister of Justice. address expressing
the basic statement of doctrine formed Fascism. It was later reiterated and
expanded by II Duce and his other Fascist spokesmen. Rocco delivers an tenets
of Fascism. This initial the basis of the philosophy of Rocco's Fascist
Manifesto, entitled The Political Doctrine of Fascism, incorporates the
arbitrary ideas of the movement (Herbert W. Schneider and Shepard B. Clough.
Making Fascists (Chicago)» Roy MacGregor-Hastle, The Day of the Lion (New
York), Rocco into a single body of thought. This document contains
numerous reverberations of philosophical irrationalism, and interwoven with
these reverberations are most of the concepts of Italian Fascism. The
relationship is so close that the two schools of thought are, in most cases,
indistinguishable from each other. Rocco proclaims the value of emotional and
instinctual action which is so reminiscent of Schopenhauer, Nietzsche, Bergson,
and Sorel. Fascism is, above all else, action and sentiment. Were it otherwise,
it could not keep up that immense driving force, that renovating power which it
now possesses. Only because it is feeling and sentiment, only because it is the
unconscious reawakening of our profound racial instinct, has,.it the force to
stir the soul of the people. The biological nature of man's participation in society,
a concept emphasized by Nietzsche, Bergson, and Sorel, is used by Rocco as a
justification for the subordination of human beings to the growth of the
Fascist state. He says that individual men and groups of men are given life by
the organic nation, and that the development of the nation results in a greater
collective life and growth that transcends the existence of mere individuals.
The individual existence has Rocco, excerpts from The Political Doctrine of
Fascism, reprinted in Communism. Fascism, and Democracy, edited by Carl Cbhen
(New York) value only in the contribution which it makes to the life of the
organic state. The valuation of man as an element that must contribute to the
growth of the state culminates in the justification and glorification of war.
The survival and improvement of the organic nation require a sacrifice which
may be inimical to the interests of an individual. The sacrifice and
destruction of individuals in war are necessary for the sustenance of the
nation. The negation of an individual's worth necessitates the existence of an
elite force to govern society. The masses are too involved in their own selfish
interests to be trusted with the reins of government. Only a chosen few are
capable of ignoring their own interests and devoting their lives to the greater
needs of the whole society. There exists in each culture a natural elite which,
because of its superior intelligence and cultural background, is capable of
administering the governmental functions of a nation. The most important gift
of this elite is its ability to decide matters of state through instinct and
intuition. almost identical to that found in the philosophies of Sorel and This
theory of elitism is Pareto, and the members of the theoretical elite bear a
striking resemblance to Nietzsche's superman and Schopenhauer's creative
genius. The collective life of the individual, according to Rocco, makes him an
active participant in the panorama of Italian history. The individual is
sustained by the myth of Imperial Rome. The authority of the state and the
primacy of its ends constitute the legacy of Rome. Rome is the greatest and
most powerful state in the history of the world, and it maintained its eminence
through the sacrifice of its citizens' blood and its citizens' lives. The myth
of Imperial Rome is rejuvenated and sustained by Fascism; Rocco admonished the
Italian people to honor their heritage. Fascism restores Italian thought in the
sphere of political doctrine to its own traditions which are the traditions of
Rome after the hour of sacrifice comes the hour of unyielding efforts. To our
work, then, fellow countrymen, for the glory of Italy. Rocco obviously took
heed of the theories of Sorel and Pareto on the necessity of a myth to inspire
a people. Rocco's The Political Doctrine of Fascism reflects the obvious
influence of philosophical irrationalism. In this Fascist document are echoes
of Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, Sorel and Pareto. The concepts of blind,
struggling will as a sustainer of life, the biological nature of man, the value
of instinct over the intellect, elitism, and the myth are the same in
irrational theory and in Rocco's statement. The Political Doctrine of Fascism
is an excellent illustration of the debt which Fascist thought owes to philosophical
irrationalism and its primary spokesmen. The Fascist movement had no dearth of
gifted spokesmen for its doctrines. Gentile contributed to the theory and
practice of Mussolini's totalitarian ideology. Educated at the University of
Pisa, he taught at the universities of Palermo, Pisa, Naples, and.iRome.
Gentile served in several capacities within the Fascist regime, and he was
eventually appointed as Minister of Education. irrationalists, and his writings
reflect the use of these two philosophies for Fascist propaganda. His
Philosophic Basis of Fascism reflects the influence of philosophical
irrationalism on the Fascist ideology. In the Philosophic Basis of Fascism.
Gentile elaborates the Fascist concept of the relativity of values. Despite the
fact that a given Fascist program might be based on a specific idea or concept,
that idea would be abandoned as soon as the -- David Cooperman and E. V.
Walter, Power and Civilization (New York) -- Gentile was influenced by both
Hegel and the -- need arose. No idea is of lasting significance, and its value
is measured only by the degree to which it furthers the Fascist program. the
needs of the Fascist state demand it, according to Gentile. The value of
instinct is greater than that of reason, and this necessarily makes Fascism
anti-intellectual. Gentile expresses this anti-intellectualism by saying that
Fascism is hostile to all science and all philosophy which remain matters of
mere fancy or intelligence. By virtue of its repugnance for intellectualism,
Fascism prefers not to waste time constructing abstract theories about itself.
There is scant need for intellectualism in a system in which the dictator makes
all the decisions for the state on impulse. This is the function of II Duce. His
ideals consist of whatever arbitrary decision he makes at any given moment, and
his decisions made instinctively are the supreme law of the nation. The myth of
the nation's supremacy causes the individual to be of no value except in his
function as an appendage of the Fascist state. He realizes his existence only
through -- Gentile, excerpts from The Philosophic Basis of Fascism, reprinted
in Power and Civilization, edited by David Cooperman and E. V. Walter (New
York) -- The "transvaluation of values" is exercised when
the state, and he is only a consequence of the life and growth of the
state. The state controls him and decides for hirn the course of his life. The
individual has no freedom except in his role in the organic state. The state
binds him to this position, and in it he lives and dies. Gentile's Philosophic
Basis of Fascism contains the same irrational overtones found in other Fascist
documents. It seems, however, to express more fully the negation of the
individual. This negation of the individual became more pronounced as the
Fascist government entrenched itself in power, and the irrational base of its
ideology was expressed with increasing authority over the individual. Perhaps
the deepest exploration into Fascist ideology was attempted by the Italian
philosopher Mario Palmieri in The Philosophy of Fascism. This work, completed
when Italian Fascism had reached a certain degree of maturity, involves a
deeper insight into Fascism than most of the other works of Mussolini's
spokesmen. It contains, however, the same basic doctrines which bear the stamp
of philosophic irrationalism. Palmieri elaborates the values of the Roman
Empire in eloquent language. He says that the legacy of Rome is authority, law,
and order, and that Rome must again be the center of civilization which dispenses
morality and virtue to the rest of the world. This is th® historic aissioe @f
lapsrial Home, and it aust be fulfilled.3^ The masses, states Palmier!, are not
capable of governing themselves, this being due to the fact that they cannot
understand the ultimate reality of the universe which does not reveal itself
indiscriminately. This ultimate reality may only be understood by a superior
leader. Palmieri describes the leader in colorful language. The divine essence of
the hero, of the soul, is in a more direct, a more immediate relationship with
the fountain-head of all knowledge, all wisdom, all love. Man has wandered
astray for many centuries, and civilisation has seta darkness due to the lack
of authority, law, and order. Despite this disorientation of mankind, the ideas
and moral values of Rome have continued to exist. It is through dictatorial
Fascism that Imperial Rome will be reborn and end the woes of humanity; in
fact, Fascism may finally furnish man with the long sought solution to the riddle
of life (Mario Palmieri, excerpts from The Philosophy of Fascism, reprinted in
Communism. Fascism and Democracy. editeH~"by Carl Cohen (New York),
Palraieri carries the Roman myth to an extreme, ana within his romantic ideal
of Fascism the ideas which originated in Continental European irrationalism
take on the colour of a holy- crusade; however, Palroieri's work is merely
another contribution to the Fascist attempt to cloak violence with an aura of
respectability. The Philosophy of Fascism, extolling the same values which
wreaked havoc on a generation of Europeans, is a vivid documentation of the
influence of philosophical irrationalism upon Italian Fascism. While Italian
Fascism had numerous gifted spokesmen, the preponderance of responsibility for
the creation of its doctrines belongs necessarily to Benito Mussolini. History
points to II Duce as the most important individual man in the era of Italian
Fascism. Mussolini, as an agent of history, islargely responsible for the
propagation and ascendency to power of the Fascist movement. Throughout the
course of this ascent, Mussolini's political pronouncements, political
speeches, and his autobiography document his intellectual debt to Schopenhauer,
Nietzsche, Bergson, Sorel, Pareto, and the entire body of European
philosophical irrationalism. The expressions of the dictator's thoughts are
living proof of his debt to philosophical irrationalism. The influence of the
philosophies of eternal cosmic conflict is overtly evident in the writings and
speeches of Mussolini. The following passage is taken from a speech made while
Mussolini was still involved in the struggle for political power. The
words of this speech could almost be mistaken for an excerpt from Nietzsche's “Will
to Power”. Struggle is at the bottom of everything. Struggle will always be at
the root of human nature. It is a good thing that it is so. The day in which
all struggle will cease will be a day of melancholy, will mean the end of all
things, will mean ruin. Struggle and conflict, in the opinion of Mussolini, are
integral parts of human existence. The endless struggle for survival and power
is reflected in the vital biological nature of man's social and political
actions, according to Nietzsche, Bergson, and Sorel. This concept echoes
through the words of Mussolini, and is used to justify the individual's role as
biological necessity for the nation. In The Doctrine of Fascism, which is
Mussolini's written program of the aims of the Fascist movement, one of the
stated goals is to "make the people organically one with the nation so
that the state may use them to achieve its ends. Mussolini is constant in his
belief that the people must be used to nourish the state. They are, says
Mussolini in his autobiography, "the vital food needed to reach greatness. Individuals are the food and -- Benito
Mussolini, "The Tasks of Fascismo." Mussolini as Revealed in his
Political Speeches. translated and edited by Bernardo Q. di San Severino
(London and Toronto), Benito Mussolini, The Doctrine of Fascism (Firenze),Mussolini,
Autobiography -- blood of the body politic, and as such are entirely
dispensable to the process of the growth and sustenance of the organic state.
The organic state, which is nourished by the sacrifice of individuals, is
susceptible to infection like any living body. In the Fascist state controlled
by Mussolini, infection consists of any political dissent. II Duce had a cure
for this type of illness. Speaking of Fascist violence in his regime, Mussolini
said: It is necessary to cauterize the virulent wounds to have strength. It was
necessary to curb political dissent. The health of the organic state depended
on the constant vigilence of Fascism against political opposition. Fascism, writes
Mussolini, has to perform surgery—and major operation against succession”. Thus
Mussolini corrupts the theories of man's biological nature in order to justify
totalitarian terror. Nietzsche *s theory of the transvaluation of values which
he based in part on the nature of man within the eternal biological struggle in
a turbulent cosmos, influences Mussolini. This influence is evident throughout
Mussolini's writings and speeches. He constantly emphasized the need to abolish
traditional morality and replace it with the arbitrary values of his refine.
The Fascist state is endowed with a supreme will, and is therefore ethical unto
itself. The state must not clinc to traditional values lest its progress be
impaired. Brotherly love, humanitarianism, and symphatetic kindness are
inferior to other values of a higher nature. The higher values espoused by
Mussolini resemble the hearty, pagan values that Nietzsche advocated. These
values involve conflict, the shedding of blood, and dying, and they are morally
justifiable when done in the service of the Fascist nation. The concept of the
transvaluation of values contributes to Mussolini's doctrine the idea that
violence and bloodshed are not only morally justifiable but are the highest
virtues to which a people may aspire. The influence of the theories of Sorel
and Pareto in regard to the use of violence for political purposes is reflected
in the writings aid speeches of Mussolini. The -- Mussolini, Doctrine of
Fascism, Mussolini, "Either War or the End of Italy's Name as a Great
Power," Speeches, Mussolini, Autobiography -- Italian despot had found in
Nietzsche a moral justification for the use of violence. This enabled Mussolini
to claim that "violence has a deep moral significance.” In addition to
this moral justification, Mussolini also rationalizesthe use of violence as a
legitimate and even desirable expedient within the political process. His
mentors Sorel and Pareto had ascribed this role to violence in politics and
society. The excesses of Fascist terror were excused as being morally valuable
and of logical political necessity. In a speech a Milan Mussolini described the
relationship between his party and its political opponents. The Fascisti have
gone forth to destroy with fire and sword the haunts of the cowardly Social-
Communist delinquents . This is violence of which I approve and uphold. It is necessary, when the moment
comes, to strike with the utmost decision and without pity. War is the ultimate
expression of bloodshed and violence, and Mussolini accordingly placed the
highest esteem upon war. It enabled him to gain "I an understanding of the essences «51 of
mankind."-^ n Duce's adoration of war became an integral part of the
theories of Fascism, and in the official Doctrine ^Mussolini, "The Fascisti Dawning of New
Italy," Speeches, Mussolini, Autobiography, p. T Fascism, Mussolini
expressed the hi/rh regard which Fascism has for war: war alone keys up all
human energies to their maximum tension and sets seal of nobility upon those-
peoples who have the courage to face it. All doctrines which postulate peace at
all costs are incompatible with Fascism. The conflagration v/hich visited
tragedy upon millions of Europeans was made more acceptable by Fascism's theory
of war, a theory which is the logical outcome of placing a moral and political
value on the shedding of human blood. The question comes to mind as to who may
decide the time and degree of the use of violence, and Mussolini's speech to
the citizens of Bologna in the spring of 1921 provides an answer. The moral and
politically expedient violence of the state, said Mussolini, "must have a
character and style of its own, definitely aristocratic. The
"aristocratic" bloodletting of the Mussolini regime was administered
by a group of "aristocrats" well suited to the task—"the
Fascist!, whom I considered and considerthe aristocracy of Italy. The Fascist
Party that Mussolini considered to be his own aristocracy (or elite) owed much
to the terrorist squads that 'Mussolini, Doctrine of Fascism, Mussolini,
"How Fascismo was Created," Speeches, Mussolini, Autobiography.aided
the party in its rise to power. Mussolini held these crude street fighters, the
"Black Shirts," in especially high esteem. After he had gained total
power in Italy, Mussolini refused to consider suggestions to the effect that he
disband his elite brawlers who had, as he stated, “a deep, blind, c, and
absolute devotion. Their intrinsic merit sprung from the fact that these
brawling hooligans through intuition and in r. . . their instinct were led not
only by strength 56 and courage, but by a sense of political virtue. . first
elite to be inspired by philosophical irrationalism were the Black Shirts of
Fascist Italy. Mussolini's elite possessed the hearty pagan values of
Nietzsche, and true to the theories of Pareto and Sorel, they used violence as
a political expedient to raise their party to power. Mussolini was brutally
frank in expressing the function of his elite. Their task, he wrote, was . that
of ruling 57 II Duce's elite began by using violence as a means to attain
power, and they continued to use it"to maintain themselves in power. This
development was not out of keeping with the concept of values which
characterizes the irrational doc- trines of Fascism. the nation by violence,
for the conquest of power." The The elite which rules by force
must have a sense of di- rection, even though its action is arbitrarily guided
to the attainment of divergent goals. Mussolini traced the pattern of this
guidance in describing how victory was achieved by the Fascisti. The group
intuitively realizes the necessity of violent action, and it readies itself to
strike. When the moment to attack has come, the instinct of the leader has al-
ready made victory inevitable. He has organized his men for battle and his
intuition has provided him with the proper strategy by which his forces may
emerge triumphant. Success through violence is achieved when the elite forces,
led by the instinct of their duce, crush the opposition. At this particular
juncture in the description of Mussolini's thought, a combination of several ideas
originat- ing in philosophical irrationalism may be observed. The superiority
of the instinct over the intellect, the effective- ness of the elite, the value
of the forceful pagan virtues, such as heroism and bloodshed, the use of force,
and the power of the leader are all component tenets of Mussolini's doctrine.
They culminate and are fused together in Mussolini's attitude toward himself as
the embodiment of the principles of power. Mussolini firmly believed in his own
indispensability to Fascism. In regard to the Party's debt to its leader,
Mussolini wrote: the party could not have existed and lived and could not be
triumphant except under my command, my guidance, my support and my spurs.59
Mussolini felt that the Party and the State were inexorably bound to him. He
believed himself to be the vessel of the 60 moral and spiritual powers of the
state. Mussolini's image of himself was developed under the influence of the
elitist theories and Nietzsche's concept of the superman. Mussolini shared with
Nietzsche a contempt for the European bourgeoisie, and Mussolini blamed the
philistine middle-class for all of the social problems which plagued European
society. Italy's deliverance from this situation had been contingent upon her
willingness to shed her blood, and the prospects for this occurring were
hampered by the cowardice of the middle-class bourgeoisie.^" Mussolini's
instinct told him that "Italy would be saved by one historic agency
righteous force . . The one in- dividual capable of guiding the nation in its
historic quest for power was, Mussolini knew, himself. The victory of his party
and the regeneration of Italy had been achieved, ac- Mussolini, Doctrine of
Fascism, Mussolini, Autobiography, cording to Mussolini, because "Violence
. . . had been controlled by my will." Mussolini solidified the
totalitarian Fascist regime by actualizing his irrational theories of
instinctive action, elitism, and violence. II Duce blended these various themes
together to create, true to his mentor Sorel, the myth of Imperial Rome. This
myth held that a violent reformation of civilization would be achieved through
the rebirth of Imperial Rome. In a speech in Trieste, Mussolini laid the
groundwork for his myth. He spoke of Rome's illustrious history as the leader
of world civilization, and stated that the task of Fascism must be to recreate
this Empire to fulfill the Italian destiny of world leadershipFascism alone
could fuse the values of ancient Rone with the reality of current political
trends, for "it is a-faith. It is one of those spiritual forces which
renovates the history of great and 6s enduring peoples." ' Mussolini
continued to dwell on the theme of Imperial restoration throughout the years in
which he held power. The creation of this Roman myth, a tactic reminiscent of
the theories of Sorel and Pareto, was used to sustain a people who were
suffering from the actualization of other less glorius irrational theories.
Mussolini, "The tasks of Fascismo," Speeches, Mussolini.Autobiography.
While the Imperial myth was an abstract and Romantic ideal, the concepts of
syndicalism and the corporate state bore some resemblance to Mussolini*s
economic dictatorship. II Duce acknowledged Sorel's ideas of the syndicalist
myth as a source of Italian syndicalism. In a statement made at the founding of
the Fasci di Combattimento. Mussolini ex- pressed the necessity of corporate
syndicalism as opposed to representative government. Democratic representation,
he stated, is less acceptable and effective than direct repre- 67 sentation of
economic interests before the Government. The idea of Italian syndicalism,
while closer to reality than the chauvinistic Imperial myth, was nevertheless
another means for perpetuating authoritarianism. Based on Sorel*s philosophy of
the irrational myth, it served as a facade for the dictatorial control of
Italy*s industries and unions. In retrospect, the influence of philosophical
irrational- sim on Italian Fascism in general and upon Mussolini in particular
is undeniably and overwhelmingly significant. A question exists as to what
extent Mussolini followed the doc- trines from which he drew, and to what
degree he used them for ad hoc rationalizations for totalitarian violence. An
answer may lie in the juxtaposition of two of the dictator's pro- nouncements
within the same year. On June 8th, 1923, Mussolini ^^Mussolini, Doctrine of
Fascism, made the following statement before the Italian Senate: The more I
know the Italian people, the more I bow before it. The more I come into deeper
touch with the Italian masses, the more I feel that they are really worthy of
the respect of all the representatives of the nation it would not matter if I
lost my life, and I should not consider it a greater sacrifice than is due. My
ambition isthis: IwishtomaketheItalianpeoplestrong, prosperous, great and free.
Eight months before this speech, Mussolini had said: The masses are a herd, and
as a herd they are at the mercy of primordial instincts and impulses. The
masses are without continuity. .They are, in short, matter, not spirit. We must
pull down his Holiness the Mob from the altars erected by the demos. "
Using the conduct of the Fascist Government as a yard- stick by which to
measure the sincerity of the public state- ments made by Mussolini, it is
feasible to conclude that the Italian Senate was treated to an enactment of
Mussolini's belief in the relativity of values in relation to the political
gain to be derived thereof. The second statement is quite in keeping with
Mussolini's adherence to elitism. Neither of his statements is out of keeping
with the doctrines which he promulgated. The fact that this paradoxical
situation is possible does not speak well for the theories upon which,
misinterpretations and rationalizations notwithstanding, Laura Fermi, Mussolini
(Chicago. 1961), p. 68 Mussolini, "The Internal Policy," Speeches,
Mussolini based his doctrines. Fascism is not far removed from philosophical
irrationalism, one of the dominant philos- ophies of the period. Mussolini may
be looked upon as an oppressor of the Italian people. II Duce's foreign and
domestic policies cer- tainly visited bloodshed and death to the masses of
Italy and other nations as well. One must remember, however, that Mussolini's
speeches advocating violence, elitism, and sub- servience to the state were
cheered by millions of Italians during his regime. Members of all the various
classes within Italy supported Mussolini's drive to power. This support is
quite understandable in view of the fact that their leader spoke to them in
terms which had permeated their intellectual milieu for almost a century.Iorio. Keywords: torna
a Sorrento, Villa Rubinacci, Malwida von Meisenburg. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Iorio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753667201/in/datetaken/
Grice e Jaja –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Conversano). Filosofo. Grice: “I like Jaja – of course you
cannot understand Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and
Gentile! The quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a
sensualist, like me.” –Grice: “My favourit essential Italian philosopher.
Figlio di Florenzo Jaja (a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano). Si trasferì
a Napoli, dove studiò sotto la guida di Fiorentino. Si sposta a Bologna, dove si
laurea per seguire il suo maestro. Il
suo incontro filosofico principale fu con Spaventa. Col trasferimento di Jaja a
Napoli i rapporti con Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa. Jaja non è stato mai considerato un filosofo
particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre Gentile
allo studio di Spaventa, merito che l'allievo riconoscerà sempre. Opere: “Origine storica ed esposizione della
Critica della ragion pura” “Studio critico sulle categorie e forme dell'essere”;
“Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza,” “ L'unità
sintetica e l'esigenza positivista,” “Sentire e pensare,” “Identita e
Semiglianza ed identità”’“ Sentire, pensare, conoscere,” “ L'intuito nella
coscienza.” Cesare Preti, Jaja filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca.repubblica,.
treccani. Jaja: neoidealismo italiano, su orthotes.com. Jaja, Giovanni Gentile, Memoria su Donato
Jaja, su sba.unipi, Bertrando Spaventa Giovanni Gentile Idealismo italiano,
Jaja, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Giovanni Gentile,
Memoria su Donato Jaja, su sba.unipi. Donato Jaja. Grice on “Sentire” e
Pensare. Rupert Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is
a, is a LIKE a” – a knife is not like a knife, but something that is not a knife can be like a knife.”
Implicature!” JAJA, Donato. - Nacque a Conversano da Florenzo e da Elisabetta
Pinto. Comincia gli studi al seminario in vista di una futura carriera
ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli, dove studia sotto
la guida del filosofo neokantiano F. Fiorentino, e a Bologna, per seguire il
maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna al liceo di
Caltanissetta, quindi a Chieti. Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta A.C.
De Meis e per suo tramite B. Spaventa che, oltre a influenzare lo stesso
Fiorentino, divenne in seguito una figura chiave per la formazione
intellettuale dello Jaja. Con Spaventa i rapporti dello J. divennero regolari
quando egli si trasferì a Napoli per insegnare al liceo Genovesi. Conseguì la
libera docenza ottenne la cattedra di
filosofia teoretica a Pisa, dove rimase per il resto della sua vita. Tra i suoi
allievi ebbe G. Gentile, che gli successe poi sulla cattedra, e G. Lombardo
Radice. Nella dissertazione di laurea, data alle stampe con il titolo
Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura di E. Kant
(Bologna), colloca Kant all'origine di una nuova scena del pensiero che
raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli articola la storia
della filosofia moderna successiva a Cartesio: da una parte il filone
filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e della
necessità (Malebranche, Spinoza, Leibniz); dall'altra la tradizione francese,
ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica (Locke e Hume). Kant pone il
problema, ritenuto centrale dallo J., del debito che il pensiero ha nei
confronti sia dell'esperienza, sia dell'universale. Tuttavia lo J. ritiene che
Kant non abbia dato una soluzione adeguata e definitiva ed è anzi incline a
sostenere che la soluzione vada trovata nei continuatori dell'opera kantiana.
Emerge già qui chiaramente la tendenza a leggere la tradizione idealistica alla
luce degli interrogativi kantiani, in una prospettiva che egli derivava da
Fiorentino. Secondo lo J., Kant pone il problema della conciliazione di questi
due elementi, di senso e intelletto, ma non lo risolve: "La
manchevolezza", sostiene, "è nell'intima natura del sistema kantiano:
in quest'ultimo lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto,
recettività e spontaneità, entrambi irriducibili", mentre la soluzione
consiste nel mettere in luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano
sia non esclusivamente soggettivo ma oggettivo e pertanto corrisponda alla
realtà. Compare qui un interesse dello J. per il modo in cui l'intelletto
proviene dal senso (cfr. Plebe, in Guzzo - Plebe), che mostra anche una
sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze empiriche e che
in seguito lo portò a confrontarsi con il positivismo e l'evoluzionismo.
Pesavano in questo probabilmente sia gli interessi positivistici di Fiorentino,
cui egli dedicava questo volume, sia l'ambiente intellettuale bolognese, in cui
spiccavano figure quali quella di De Meis. Ha modo di sviluppare e
precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e forme dell'essere
di Serbati. Qui critica Serbati della
Teosofia in quanto non dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo
rapporto con l'essere, mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato
dalla mente: "È necessario studiare la mente nella serie non interrotta
dei suoi fenomeni, attraverso cui passa nel formarsi". Kant ha colto
questo punto in quanto ha mostrato che prima di poter parlare dell'essere si
deve indagare la natura della mente, e tuttavia ha finito con il postulare una
irriducibile alterità della cosa rispetto alla mente. Fichte, e quindi Hegel,
hanno invece compiuto il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è
fuori della mente è il risultato di ciò che la mente e il pensiero hanno
rivelato. Gentile ha modo di considerare a questo proposito che la
lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse inadeguata sul
piano interpretativo: e uno Hegel mediato in primo luogo da Spaventa, che ne
aveva sottolineato l'aspetto soggettivistico, e che lo J. aveva letto in modo
ancora più immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero
umano. Temi e ispirazioni filosofiche - in cui si mescolavano influssi
hegeliani, fichtiani, e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del
pensiero - spinsero lo J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer.
In una prima memoria, “Dell'apriori nella formazione dell'anima e della
coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La somiglianza nella scuola positivista
e l'identità nella metafisica nuova” -- J. nell'esaminare e nel correggere il
Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione,
rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di
articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La
sensazione non è solo stimolo che proviene dall'esterno ma è anche
modificazione. E interna all'atto del sentire e alla sfera spirituale. In
questo da una parte valorizza l'importanza dello studio scientifico dei modi in
cui la conoscenza sorge e ha luogo, ma dall'altra mette in luce l'inadeguatezza
di un punto di vista esclusivamente empirico. Tornato su questi temi in “L'unità
sintetica kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare l'esigenza
positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata a
ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana, che
vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale conciliazione
ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più evolute di
coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si appropria
dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca nell'immagine
idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai gradi più
semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La trattazione di
questi temi prelude al “Sentire e pensare”. Scrive lo nella prefazione: "È
mio fermo convincimento, che il problema speculativo, in tutta la sua ampiezza,
resterà un labirinto senza uscita […] finché non solo non sarà studiato sul
terreno indicatogli dalla filosofia moderna in genere e dalla critica kantiana
in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per esso della coscienza, ma
più ancora finché nello studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel
giusto punto, dove il senso finisce e la coscienza incomincia, o dove il senso
non è più solamente senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di
esso i suoi primi germogli". Lo J. è interessato a individuare il
momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono. Da una parte è
desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degli evoluzionisti,
fino a spingersi ad affermare che "il principio assunto oggi a base delle
scienze naturali, l'evoluzione" è vero e fecondo, un'affermazione non
priva di interesse in un autore che eserciterà il suo influsso nella formazione
di una filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in
particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella
sensazione degli elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità
propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione
di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di
un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini è interessato a
conciliare una comprensione scientifica della natura, che prescinde da una
descrizione in termini intenzionali, e che l'evoluzionismo ha esteso anche agli
organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in termini
concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica anziché come
prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica, chiude quasi
subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in termini evolutivi
del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare che non vi sono
passaggi categorici ma solo di grado. "La sensazione è foriera della
coscienza, e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio, non
salto. Gli elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.La
vita della coscienza è due cose; è la continuazione della vita del senso, e per
esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme" L'immagine evolutiva è impiegata per
significare questo passaggio dalle diverse forme della vita, che intende come una "forza" che si
dispiega. "Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che nel sentire si
raccoglie tutto il mondo naturale sottostante, e che questo mondo naturale è
qualche cosa di vivo, viva essendo e perenne e senza limiti la produzione
degl'individui diversi, che si succedono e s'incalzano in tutti i diversi
ordini della natura. Questo mondo naturale che si raccoglie nel sentire è la
forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza sottostante, compiute tutte le
condizioni, sale al grado di sentire, produce ancora. E non intendiamo dei soli
individui, che compongono il grande regno animale. Il sentire è per sé solo
forza, perché per esso gl'individui senzienti (forniti delle capacità, della
forza di sentire) non vivono soltanto, assimilandosi e trasformando gli
elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente della vita trasformano
in una superiore esistenza, nell'esistenza rappresentativa. Nella rappresentazione
la forza naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di
ritorno sopra di sé, nel cui compimento è il suo possesso, e la sua
integrazione”. Puo già leggere in H. Spencer una concezione dell'evoluzione
come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana
dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si liberò mai. Ma egli chiude
subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine
evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a
invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il
modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza: "Non resta dunque,
che sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte
diverse. I fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione,
così come era e poteva esser dato nella logica formale […] potranno trovare
dura questa conclusione" (ibid., p. 76). L'evoluzione è immagine della
forza che dal regno della natura ritrova se stessa, cioè si rende consapevole
nel mondo dello spirito. In questo senso, J. può essere ascritto alla schiera
di quanti hanno usato l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della
storia. Una conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo
dello J. L'intuito nella coscienza. È
qui affrontata la questione se l'intuito abbia una parte nella ricerca
scientifica. J. risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto
in primo piano solo "quando il pensiero indagatore ha sentito il bisogno
di ricorrere alla conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore" e cioè quando vi è perplessità sull'evidenza
del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la conoscenza non sia solo
accumulo e accostamento di fatti, J.
afferma, di nuovo contro i positivisti, che "i fatti e la storia, se sono
la realtà, non sono tutta la realtà" . "La realtà storica, oltre ad
essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior modo nell'universale
e per l'universale". I fatti e la storia sono testimoni cioè di un
universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo Ricerca
speculativa. Teoria del conoscere (I, Pisa), insiste sul concetto del pensiero
che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli ritiene che la
filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico di studio che
non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Come egli scrive, "si tratta di
salire nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per
costruire l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni
interpreti hanno ritenuto che in quest'opera
traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di
Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto
scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto,
una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato
all'idealismo italiano. Come notò, a tal proposito, lo J. "qui non muove
più dal senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è dato dalla
coscienza, per spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello
scetticismo. Si mette innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni
rapporto di esso con la verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come
principio unico ed assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro
possibile pensiero" (Gentile). Oltre agli scritti menzionati, si
segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica nella quale principalmente
si discorre dell'articolo 73 dello Statuto in rapporto a' poteri supremi dello
Stato, Bologna); Saggi filosofici, Napoli
(raccoglie scritti già pubblicati e l'inedito La virtù e i suoi elementi
costitutivi); la prefazione alla raccolta di Scritti filosofici di B. Spaventa,
a cura di G. Gentile, Napoli; Enigma della coscienza, in Rivista filosofica;
L'insegnamento filosofico universitario ed il regolamento nuovo, Pisa. Fu membro della Società reale di Napoli e
cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia. Fonti e Bibl.: Necr. in Il
Messaggero toscano, (C. Sgroi); Corriere
toscano, (G. Tarantino); G. Gentile,
Lettera a D. J., in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della
Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici,
(lettera di Gentile giovane laureato al maestro); F. Battaglia, Lettere
di A.C. De Meis a D. J., in Memorie dell'Accademia di scienze dell'Istituto di
Bologna, cl. di scienze morali; G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M.
Sandirocco, I-II, Firenze; S. Miccolis, Dieci lettere inedite di D. J., Firenze
s.d.; G. Gentile, D. J., Pisa Id., Le origini della filosofia contemporanea in
Italia, III, Messina G. Alliney, I
pensatori della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; B. Croce,
Conversazioni critiche, s. 2, Bari pp. 30 s.; A. Guzzo - A. Plebe, Gli
hegeliani d'Italia, Torino; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica
in Italia, Padova G. Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi
storici, VA. Cristallini, Il pensiero filosofico di D. J., Padova (con bibliogr. degli scritti dello e sullo
J.); V. Carcuro, Polemiche filosofiche antirosminiane: Terenzio Mamiani e D.
J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei,
Firenze , s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc. filosofica, IV, s.v.; F. Abba
Luzzato, Diz. generale degli autori italiani contemporanei, I, sub voce. Grice:
“Jaja is especially important for the fact that he tutored Gentile. He wrote on
the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian at heart, as a
collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani d’Italia: Tocco,
Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds that the Hegelian
absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as Jaja calls them,
is the maximum!” Donato
Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords: implicatura, I potere supremo dello stato,
la virtu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689402446/in/photolist-2mLyVqx-2mKw3hq-2mKBGvU
Grice e Javelli – filosofia italiana – semantica del segnare,
segnante e segnato -- Luigi Speranza (S. Giorgio di Canavese).
Filosofo. Grice: “I love Javelli – he is, like me, an Aristotelian; being a
northern Italian, he is a Thomstic Aristotelian, which I’m not sure I am!”
Grice: “One good thing about Javelli is that he commented on MOST works by
Aristotle!” -- Essential Italian philosopher. Studia a Bologna. Fu esegeta.
Argomenta contro Lutero. Opera omnia” (Lione, Giunta). Partecipa al dibattito
sul Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi, di cui scrisse, su
richiesta di Pomponazzi stesso una confutazione. Partecipa al dibattito sul
divorzio di Enrico VIII, esponendosi a favore della scelta del sovrano. M.
Tavuzzi, in "Angelicum", DBI. Casale Monferrato -- modum
definiendi, dividend et demonstrandi, Tu tamen aduerce licet fiteadem realiter,
ratione tamen diftingui turinquantu doccn$, &inquantu utens. Namin quantu
docenscofideratur in (e, in quantu utens relpicit alias scientia. Tertia
divisio est hoc. Logica docens fufficienter diuiditur in tres
partes. Prima est jn qua tradatur de terminis incomplexis, &
hxc ditiiditur in duas. In prima
confidc- ratur de terminis secundx iutentionis,
& ifte eft liber prardicabilium.ln
fecunda confideraturdc terminis primx intetionis, &
ifte eft liber prxdicamentorum , & post praedicamentorum.
Secunda est in qua tradatur de terminis complexis, id
est de oratione et propositione et hic est liber “Peri Hermenias”.
Tertia est in qua tradatur de argumentatione et hoc dividitur in quatuor. In
prima agitur de argumentatione syllogistica absoluta etsimplici, idefi noh
applicata alicui materiae & hic est liber
pnorunviln secunda agitur de syllogifmo
demonftratiuo,& hic cft liber pofterio Tum.
In tertia agitur de fyllogifmo topico,ideft
probabili, flthic cft liber topicorum. In quarta agitur
de syllogifmo fallaci, quem dicimus fophifticum,co q*
per ipfum folum gc iteratur deceptio, & hic
eft liber clcnchorum. Hoc eft funtma librorum,
quos tradidit nobis Aristoteles inuenror logicae.
Reliquos autem minores tradarus quos
appellamus parua logicalia, non habemus formaliter ab
Aristotele. Sed posteriores traxerunt virtualiter ex
praedictis libris Aristotelis, ita <y eorum
principia iam habuimus ab Aristotele, ut tibi declarabitur,
quando agemus de consequentiis et suppositionibus &c. Et aduerte q?
(ufficientia praedictae divisionis fumitur hinc, Argumentatio (ut
dictum est supra Jeft pn cipalc confideratum a logico ueluccius finis, non enim
logicam quaerimus nifl ut acquiramus habitum faciliter & ra de argumentandi
ad quancuncp conclusionem. Argumentatio aut est quoddam
totum conflans ex propofitionibus, ut tibi
declarabitur loco (uo, propofitio vero confiant
ex tcrminis. Cum igitur eadem (cientia fit
confidcrariua totius & partium, necefle efi logicum
uerfantem circa argumenta tionem, confiderare de
argumetatione & partibus eius, partes autem cius
fune duplices.f. propinquae & remotae propinquae sunt
propofitiones remote autem termini in complexi, nam
propofitiones componunt immediate argumentarionem. Tcrmini
aurem incomplexino componut eam, nifi quia
ingrediuntur propofitionem. Ex quibus conflat, pars
prima, in qua confiderantur termini in complexi,
ordinatur ad fecundam, in qua confideratur
propositio et secunda ad tertia, in qua
confidet atur argumentatio, & in ca completur
intentio logicj. Conftar igitur quomodo dinl
denda fit logica, & quae fint cius
partes fufticienrcr ipsam di nidcntcs. Hoc de praesenti
cap. dicta fint. A quo fit incipiendum in logica et quis ordo
prosequendus ne confundatur ingenium nouicii. In septimo capite
investigandum est a quo primo incipiendum fit tractare in logica, et quis ordo
m tractandis lcr- uandus fit, ne nouicii ingenium confundatur. Quantum
ad primum aduerte q* nonulli confidcrant
logicam inquantum est dialectica, id est disputativa,
alii autem inquantum uersatur circa argumentationem, quae non
lolu poteft fieri uoce fed& mente &
feripto « Primi confiderantes difputationcm non fieri
fine fcrmonc, nec fermonem fi- ne uoce, nec
uoccm fine Tono, ideo a sono tanquam a priori
& communiori dcfinitiuc & diuifiuc dicunt
inchoandum. secundo loco a ovce dcfinitiuc &
divisive. tcrtio loco a nomine et uerbo ut habent
c(Tc in voce & componut orationem et propofitjoncm vocalem,
ex quibus componitur syllogifmus siue argumetatio uocalis, qua sit
dispuratio inter duos. Hunc ordinem lcruat Petrus Hispanus et ratio ad hoc
movens cum fuit, quia considerauit Aristoteles in suo libro “Peri
Hermenias” acturus dc propositione definit nomen et
verbum utfunr cius partes intcgrales per vocem, quafiq? non confideret de
nomine et verbo et oratione et propositione et argumentatione, nifi ut
deferuiunt disputationi, cui non deferuiunt nisi ut sunt in voce reliquit ergo
omnia praedicta ut sunt in mente et in scripto et intendit de modo magis famoso
ac notiori ad sensum, qui est modus in voce. Alii autem
aduertentes <f licet modus ific famofior
& uulgarior fit, tamen experientes q* omnia praedicta habene
efle in anima, in voce et in scripto, nec unquam
proferuntur uoce, nec feribuntur nifi prius mente
concipiantur, unde et dixit Aristoteles in primo “Peri
Hermenias” , q' ea quae sunt in voce, sunt earu quae sunt in anima
PASSIONUM id est conceptuum notae i signa, ideo arbitrati non sunt incipiendum
a uoce nec a sono, sed a termino, id est
dictione. Nans terminus ut est in
mente componit propositionem mentalem et ut est
in voce, componit propositionem vocalem et ut est in scripto,
componit propositionem in scripto, & quo niam nomen
erbum et oratio poliunt ede in mente et in
voce et in scripto, ideo dicunt melius elfe q>
definiantur p er. Ti terminum utpote magis
communem § per vocem. Hancjg! cur viam uc universaliorcm
sequemur et prateipue quia no concrariacur priori sententiae. Nam
sicut est verum dicefe'. Socrates est homo
ergo Socrates est animal, sic est verum dicere , nomen estvox
significatiua, ergo est terminus significatiuus. In plus enim
fc habet terminus q vox, qm vox non evrificacur de nomine nifi ut eft in voce.
Terminus autem uerificatur de nomine, in mente voce et
scripto. lncipiemus ef go a termino definitiue
&diuifiue. Quantum ad iccundum aduerte tp
cum termini in complexi fxnc priores fit simpliciores
oratione et propositione in via compositionis et propositiones fine
priores syllogismo, qm componunt syllogifmum, & non cconucrfo,
ordo foientix requireret q* prius tradaremus de praedicabilibus et
praedicamentis, & fecudo loco de propositionibus
utrra dat Ariftoteles in libro “ Peri Hermenias” et
tcrtioloco de syllogismis formalibus & topicis
& sophifticis & demonftratiuis eo ordine
quo de eis tradat Ariftoteles in tota
arte noua. Verum quia nouus logicae
auditor tranftt immediate ab arte
grammatica: ad logicam, & logicus accipit a
grammatico nomen et uerbum et aliquas alias partes orationis
uc dicemus prout componunt propofitionem, & propofitio componit
syllogifmum, ideo ne nouicii ingenium inuolua^ tur, expedit
f>us tradare de gtib9oronis, deinde de oratide
& cmltiatione, ficut etiam tradat grammaticus
modo grammatico et focundo loco tradabimus de
fyllogilmo formali & tertio loco de praedicabilibus, &
quarto loco de praedicamentis. Nam abfqj notitia
propofitionis et syllogifmi,n<» pollet nouitius i illis erudiri
modo logico , ut tibi tinanifeftu erir.
Deinde procedemus ad alios tradatus eo
ordine que tibi nianifeftabimus loco fuo.
Conftat igitur tibi a quo incipere intendimus, &
quem ordinem foruare, ne nouitii inge
nium inuoluatur.Hxc de praefenti cap.dida
fint* Explicit trac.primusqui Tuit de
praecognofcendis ordinatus per authorcm,& reuifus
per eundem secundus qui eft de partibus
propositionis. N rradatu iecudo agendu cft de
par t;bus, pp6nis,quae apud Logicu praecipue (une nomen,
& uerbuin & qtr» fcire non poteris
quid & quotuplex fit nomen apud logicu,
fifr & uerbu nifi prius noueris qd fit
terminus, & quotuplex fit. Et qd dico de
termino intellige de voce. Primu.n.qd poni£ in
definitione nomini et uerbi cM terminus apud
coitcr tradatores de logicalib apud aut
Aristotele vox, ut tibi declarauim9 i tradaru pcedeti, c.7. io huc
tradatu diuidem° i.4.capita.. Primum, Quid et quotuplex sit
terminus. Secundum, Quid « quotuplex sit nomen et uerburn. Tertium, Quid &
quotuplex sit oratio. Quartum. Si logico sufficiunt duae partes
orationis, (ciliccC nomen rectum et verburn rectum. Quid & quotuplex
fit terminus. IN pino cap. inueftigadii est qud sit TERMINUS et quot fine
vitares divisiones cius. Hic igitur duo ageda sunt pmo definiemus trerminu
dcclarates singulas definitionis particulas secundo asfignabimus coes, &
vies divisiones termini. Quatu ad prnii
aduertc,q? hic no intedimus loqui de
oi significato in quo fumit terminus in doctrina
Aristotelis. Sumii at eribus modis, Prlo funii! maiori, &
minori extremitate^ medio, & dnr tres termini ex
qbus coponi! oisve rus syllogifiruis & de hoc
ino loquemur I trac de fyllogifmo formali, &
abfoluto. Secundo iiimitur pro definitioc rei,
quae dicitur apud Ariftotcle terminus qm
in fe claudit , 8C terminat totam rei
definitae cflentiam & de hoc modo lo-
quemur in trac. de syllogifmo topico et demoftratiuo. Tcr tio
fumitur pro omni co ex quo propincp
conftituitur ora- tio, & propofitio, & in q
uod refoluitur. Et dico propinque quoniam
ficuc apud gramaticum dictio componitur ex
ali- quibus remote, & c x aliquibus propinqj. sic
apud Logicum oratio & propoficio ex
aliquibus coponitur utrocj) modo. Nam apud
grammaticum dictio componitur propincp cx
fyllabis, quoniam fcipfis & non mediante alio,
comfonitur aurem remote ex literis, quoniam
non ex fcipfis fed medii te
fyllaba.Sic in propofito apud logicum
oratio & propofitio componutur propinqj ex terminis, qm ex
fcipfis & non mediante alio, componuntur autem remore ex
syllabis 5C literis, liter enim componut fyllabas,
& fyllabc terminos, & termini orationcm. Ec in
hoc tertio fcnfu folum intendimusin hoc trac.
Ioqui ac definire terminum. Sed aduerte <jf in tertio sensu adhuc
tripliciter fumi p6t.f. communitcr, ftrl de & ftrictisfimc.
Comuniter fumitur pro omni didionc p pinqj
componente orationem, &fic non folum
nomen dC uerbum,fcd etiam alis orationis
partes, ut pronome, prx politio, aduerbium &c.
dicuntur termini. Stride fumitur p omni eo quod eft uel
poteftefle fubiedum et praedicatum & copula in propofitione. In quo
fcnfu nec figna uniuerfalia nec particularia, nec adverbia funt termini, qm no
sunt nec poffunt e(Tc per se ipsa praedicatum aut fubiedum, sed modi Huc
dererminatioes eorum, fifr aduerbia sunt determinationes verbi ut “bene
currit”, hodie ucnit &c. Srridisfime autem fumitur pro omni eo
quod eft uel poteft efle extremum propofitionis, extremum autem dico
subiedum & praedicatum, &*n hoc sensu copula non est
terminus, quia non est extremum, sed unitiuum cxtrcmoru, unit et copulat
praedicatum et subiedum et in hoc fcnfu definiuir eum
Aristoteles in libro priorum diccns, (? terminus eft in quem rcfolujf
propofitio ut in subiedum et praedicatum. His praepofitis adrerte qr hic
habemus diffinire terminfl non ftridc nec ftritisfime fumptum, sed
comunircr, aliter non potiemus ipfum diuidere ut diuidemus infra. Nam una ex
diuifionibus erit haec, terminorum unus est PER SE SIGNIFICATIVUS, alius non
per se significatiuus. Constat autem ex prxdidis quod terminus non per se
significatiuus, non cil tf terminus ftricte nec ftrictisfimc fumptus.
Definientes igitur terminum coicer & abfolute fumptfl dicimus quod
eft pars propinqua conftitutiua ofonis et propofitionis. Dicitur pars
propinqua immediata ofonis & politionis ad differentiam literarum et
syllabarum, qu* non nifi mediante termino componunt oronem. undeaduerte
sicut fe habent lapides et ligna et fundamentum, &p aries ad
compofitioncm domus, fic liter ac et syllabae et termini ad
constitutionem orationis, nam lapides & ligna non componunt
immediate domum, sed componunt imediate fundamentum parietem et tectum,
hacc aurem imme diate dotnumrideo illae
rcmotac,hae autem propinquae nucupantur. Sic in
propofito, literae wt syllabae non componut
immediate ofoncm, sed terminum, tcrmiifos autem
immediate oroncm. patet ergo terminum cfle
immediatam & p ximam partem ofonis ad
differentiam literarum et syllaba rum. Df
conftitutiua ofonis, quonia hic procedimus ex po-
ri:ad differentiam relolutionis quae fupponit
conffitutum ex partibus. Df ergo conftitutiua
ofonis, quoniam hicinte- dimus praeparare
materiam fyllogifmi, quae eft propofitio ideo
inueftigamus in primis, ex quibus conftituitpr immediate
propofitio, & in tractato de syllogifmo aperiemus ex
quibus propinque et immediate conftituitur syllogismus. Haec
autem definitio conucnit termino, in mente, in
uocc,in feri F to:quoniam terminus in mente,
eft pars propinqua oratio nis mentalis, &
in uoce, eft pars propinqua orationis uoca- iis
& in scripto ,eft pars propinqua orationis
feriptx. Vifo quid sit terminus apud
logicum cSmunitcr & absolute fumptus, asfignandae
funt generales diuifiones eius, uc Idamus
iuxta ouod membrum ponendus eft in
definitione Hominis et uerbi et orationis. Prima diuisio.
Terminorum, aliquis est PER SE SIGNIFICATIVUS, aliquis nihil per se, id
eft per se fumptus significativus. Terminus per se significativus est
ille qui ultra se ipsum aliquid intellectui re-presentat, ut “homo”,
“animal”, “lapis”: representat enim homo itellectui animal
rationale et “animal” re-praesentat animatum sensitivum et per se motiuum, et
lapis corpus terreum durum offendens pedem. Nam signifcare est aliquid
intellestui re-praesentare. Vnde idem eft terminum esse per se
significatiuum et esse per se re-praefentati uum alicuius
apud intellectum. Dicitur ultra feipfum, qm
repraefentarc feipfum intelleftui eft commune omni
terrni no, cum fit intelligibilis ab Itelletfu, cuius
obieftum est ens communisfitnum ut seextendit ad ens reale et ens
rationis ut dicemus alias. Terminus nihil per se
significativus eft ille qui per se sumptus ultra se ipsum nihil intellectui
re-praesenrat, ut “buf” et “baf” et “biltris”. Dicoper fc
fumptus, ut excipia quando proferuntur ex
intentione irridendi. Tuc enim ex propofito irridentis
fumunrur ut per se significativi, sed id non
est ordinarium. Nam pleruncp proferuntur aut exeunt ex ore fine
propofito aliquid ultra feit fum fignificandi. Ad
hoc autem q* fit per se significatiuus, oportet ut
naturaliter uel AD PLACITUM in aliquo idiomate ordinarie et consuetudine
firmata, sic vel sic ultra se ipsum significct. Secunda divisio eft haec.
Dimisfo termino nihil per se significativ, utpote inutili propofito noftro,
quando non componit orationem ordinarie ut subiectum & praedicatu,
nec est pars nec determinatio eorum
ad differentiam signorum uniuerfalium et particularium, diuidendus
est terminus per se fignificatiuus. Et prima
diuifione diuiditurin terminum per se significatiuum
naturaliter et in terminum PER SE SIGNIFICATIVUM AD PLACITUM.
Terminus per se significatiuus naturaliter est ille, qui apud omnes
homines idem uitra se ipsum re-praesentat intellectui, ut “homo” et “animal” in
mente. sft autem homo in mente species, sive similitudo, sive conceptus
hominis. Se habet enim huiuf modi similitude sive conceptus ut vera imago, puta
Caesari , quae apud omnes ex sui natura re-praesentat
Caesarem. Sed adverte quod non solum terminus in mente est
significatiuus NATURALITER sed et quidam termini dum
proferuntur, etquaedam animalium signa, ut dum infirmus
GEMIT, apud omnes repraesentatur DOLOR, & dum canis latrat
apud oes re-praefentatur IRA. Terminus autem PER SE SIGNIFICATIVUS AD
PLACITUM, est ille qui non apud omnes idem, sed in diverso idiomate diversa
re-praesentat, vel tatum in uno idiomate aliquid detet; minate
teprzlentat, in alio autem nihil. Et causa huius est, quia huiul modi
termini non significant ex inftindu naturae sicut
interiediones quae non sunt bene trasferibiles ex uno idiomate in aliud, sed
impositi sunt ad sic significandum EX DECRETO ET AUTHORITATE primorum
instituentium, quibus sic placuit rationabiliter tamen, in
uno quoqj idiomate res lingulas sic uel fic
nominare. Et aduerte quod ultra hoc q* terminus ad
placitum differt a significativo naturaliter in hoc q^
non apud omnes idcin repraefentat, dum profertur,
nec significat ex instintu naturae, sed decreto primi
authori: in duobus aliis diffcrt. f. in modo proferendi et in
significato. Nam terminus ad placitum perfede & diftinde profertur,
modo non adiit ineptitudo linguae exparte proferentis. Termini autem
naturaliter significatiui propter impetum passionis, amoris, aut
timoris, aut gaudii, aut irae, ut in pluribus truncate proferuntur,
etiam remota ineptitudine Iin guae. Differunt etiam ex parte
significati, quoniam termini ad placitum significant conceptum
intellectus: illi autem magis indicant affedum appetitus, quam conceptum
intellectus. Sed ne novitius inuoluatur, hic fifto, donec fiat capaxfolidioris
dodrinae. Tertia divisio est haec. Dimiflo termino per se significati — non
naturaliter pro nunc TERMINUS SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM multas
sub se continet divisiones, quarum frequens est udis
in doctrina peripatetica, ex quibus una eft
q? quida eft categorematicus, quida syncategorematicus.
Categorematicus est ille qui tam g se sumprus quam cum alio,
tam in ppone quam extra, aliquid ultra se ipsum
intclleduircpftntat, ut homo, lapis, curro, amo. na homo g le
folutn significat animal rationale, lapis tale corpus,
curro adum currendi, amo aduin amandu
syncategorcmaticus est ille qui per se solum sumptus nihil extra seipsum apud
intelledum significat. Si autem sumatur cum alio, puta cum nomine substantivo
c ucl cum ucrbo, simul significat, inquantum determinat nomen aut
verbum. Et sic signa univerfalia et particularia et prepofinoncs et aduerbia,
& coniundiones funt termini syncategorematici.i.cofigmfieatiui.
Nam signa uniuerfalia determinant nomen substantivum politum in
fubiedo ad ft a dum pro omnibus, aut pro nullo, ut omnis homo currit,
nullus homo currit. Signa autem particularia determinant fubicduin
particulariter, ut quidam homo currit, quida homo non currit.
Praepositioncs aurem determinant nomen ad conrrftrudioncm pro cerro
cafu, puta ablatiqo ucl accusative. Aduerbia
determinant uerbum f>ro determinato Io co, ut
aduerbia localia, ucl pro determinaro tepore, ut adverbia
temporis , uel pro determinato modo quatiratis ucl
qualitatis tut aduerbia quantitatis & qualitatis.
Coniundiones autem determinant terminos et orationes,
secundum, modum copulariuum, ucldifuindjuum ucl
illatiuum. exeplum primi, & ,arcp exemplum
secundi, uel, aut , exemplu tertii, ergo, igitur, iracp.
Inter syncategorematicos termi- nos non comprehenduntur
intcricdioncs:quoniam ut docuimus figmficant naturaliter, nec
pronomina primitiua, quoniam fumuntur loco proprii nominis & certam
significant personam. De denuatiuis autem uidetur quod fic, qm funt
ut determinationes nominum fubftantiuuoif, ut meus
liber, tuus pater, nostra patria &c»Similirer participium
ji5 cft terminus syncategorematicus ,compleditur enim
no- men subftantiuum et verbum, ut legens loquiTUni»
homo qui legit loquitur. Ex his omnibus
fequitur, quod cum line odo partes orationis,
tantum nomen et uerbum fumendo cum nomine
pronomen primitiuum, & cum verbo partici pium,
funt termini categorcmatici, alix autem
partes fune termni syncaregorematici apud logicum,
& caulam huius dicemus poftq definierimus
nomen et uerbum. Quarta diuiflo. Terminorum categorematicorum
qui dam cft primat intentionis, quidam lecundae. Prima
intentio apud vueros peripateticos eft primus
conceptus fundatus immediate in re, quz eft cnsrcale ,
ut primo apprathenditur prxhenditur ab
intcllc&u, ut animal rationale est prima
in tcntio quam format intelleftus, &
immediate fundatur, iit natura hominis. Secunda
aurem intentio eft fecundus con ccprus
formamus ab intelledu, fundatus in re non
immedia ce fcd mediante primo conceptu, ut
efle praedicabile de pluribus differentibus
numero in quid, est fecundus conceptus quem
format inrellc&us de homine.Nam poftquam
apprae hendit cp homo eft animal rationale,
aduertit ut eft ani- mal rationale, conuenit
omni contento fub homine, &fic eft
praedicabilis de quolibet luo indiuiduo in
quid, & tunc format fecundum conceptum,
dicens q natura hominis e eo q* eft animal
rationale eft praedicabilis de pluribus
diffe- rentibus numero in quid & quod dico de homine
incellige de qualibet natura specifica cotenta sub animali. Terminus igitur
primz intentionis eft terminus significans pmum conceptum,
fundatum immediate in eftentia rei, ut homo,
ca-pra, leo. Terminus autem secunda: intentionis eft terminus
significans seccundu coceptum fundatu in natura
rei median re pmo conceptu, ut genus, fpccics,
differetia, fingulare, &c; Et ne cofundatur
itellcdus nouitii hicfifto. In tradaru autc
de uniuerfalibus siue pdicabilibus diffufius &
altius de terminis pmx, & feciidx INTENTIONIS loquemur. Et
aduerte q* diuifio termini in terminos pmz impofitionis,
& fecundx pofitionis apud nos, qui
fcquimur uiam realium non differt a praecedenti.
Nam homo in mente excogitatus, et uoce probatus,
& in feripto poli tus, significat (>mum
conceptum ideo est terminus pmz intentionis in mente,
in voce, in feri pto. Et ifte terminus species ex cogitatus
in mente et in voce et in scripto et secundae intentionis, quia
significat lecun dum conceptum modo quo
diximus. Non ergo eft neccfle ultra diuifionem faftam inter terminos f>mx,
8( secundae in rentionis, af!ignare eam quae dicitur' pmz,
& secundx impe» fitionis ut penitus diftinftam aprxcedenti, qux fuit
inter m x , & fecundx intcntionis.Hxc enim continetur
in illa. Quinta diuifio. Terminorum quidam cfimunis,
quidam fingularis.Cdmunis eft q de pluribus
pradicatur, ut homo, animal, lapis, & apud grammaticum
dicitur nomen appellatiuum,qm pluribus conuenit.
Terminus fingularis eft qui de uno
folo praedicatur, ut piato, & fortes, & apud
grammaticum dicitur nomen proprium, qmuui foli
conuenk, & ad «erte <y terminus singularis
apud logicum pot fieri quatuor modis, primo
per nomen indiuidui, ut plato'ftudet, secundo
per nomen coe adiun&o pro nomine
demonftratiuo, ut hic homo ftudec, tertio per
nomen circtinlocutum.i«miil- tas circunftantias
fingularizatum, ut Sophronifciprimogc nitus filius
feribit, quarto per ly,quod apud logicum, &
philofophu est signutn demonftratiiiu, ur ly
homo,ly alal &c. Sexta iiuifio. Terminorum
quidam magis uniuerfalis, quidam minus
uniuerfalis , & utrunq; membrum contine-^ tur
fub termino communi. Magis uniuerfalis eft
qui praedicatur de pluribus q minus uniuerfalis,
nam magis uniucrfiilis praedicatur de
omnibus de quibus praedicatur minus uniuerfalis ,
&1n hac diuifione continetur animal &
homo,na animal praedicatur de omnibus de quibus
praedicatur homo et de aliis pluribus ut de omni
animalium fpecie, homo autem tantum de contentis fub
homine indiuiduis, & iuxta hane diuifionem
asfignabimus ordinationem conten Corum io
quolibet praedicamento, procedendo a generali!
Cmoadfpcdalisfimum. Septima divisio. Terminorfim tam
singularium q communium quidam eft finitus, quidam
infinitus, finitus eft determinati & certi significati:
qui scilicet fignificat unam ccr tam ac
determinatam naruram, & de nulla alia verificatur,
ut homo significat solam naturam rationalem, animal foli
naturam fenfitiuam,&c .Infinitus est qui
negat unam natu- ram,eam, scilicer quam
fignificat terminus finitus , & ucrifi catur
de quacuncp alia, ideo dicitur infinitus, id est indeterminatus
in significando, & terminus finitus fit infinitus per
appofitionem non, ut non horno, non lapis, non
animal. Nam non homo negat naturam hois, $(
verificatur de qua-t Cunc$alia«Vndc lapis
eft non homo, leo eft non homo
&c. Et aduerte q' quando terminus
finitus, infinitatur per non. iS fit tota
una diftio,ut non homo, fi autem ftet non,
per se, & homo per se, dicitur terminus
non infinitatus fcd negatus t ut non
homo currit, & per terminum negatum fit
propofitio negatiua haec enim cft negatiua
non homo currit, haec autem eft
affirmatiua,non homo puta leo currit-
Oftauadiuifio. Terminorum quidam eft pofitiuus,quid
priuatiuus .Pofitiuus eft qui fignificat aliquam
formam fiuc habitum perficientem fuum
fubiedum,ut uifus perficit ocu lum «Lux aerem,
iuftitia animum &c«Priuatiuus eft qui
(i- i gnificat negationem talis formae,
relinquens taroe aptitudj k ne in fubiedo,
eo q* cft aptum hre talem forma ut
caecitas, » tenebra, iniuftitia, mores furditas &c.
Caecitas enim significat negationem uifus in
oculo apto here uifum, modo, & te *
porc quo cft aptus uidere. Dicitur notanter
quod eft aptum habere talem formam, qm
fi non eft aptum , no uerificacur ii
de eo terminus priuatiuus , fed terminus
pofitiuus negatu? aut non uidcns,non
lucens, non audiens* V nde de lapide haec est
falsa. “Lapis est caecus,” vel surdus, uel tenebrosus,
haec autem est vera. Lapis est non uidens,
non audiens, non lucens. Nona diuifio. Terminorum
quidam abftradus, quidam a concretus.
Abstractus eft qui significat formatu per
fe fine f- connotatione (ubiedi,ut
color, fapori,albcdo, dulcedo, anima, iuftitia, &c.
Concretus eft qui fignificat formam conno
i- tado subiedum,uc colorat\im,album,nigrum^animatumt
iuftum,&c .Et aduerte q* haec diuifio
coincidit cum illa, dc :t qua erit fermo
in ante praedicamentis,fcilicet Terminorum r,
quidam est denominans, ut grammarica, hic cft idem q»
ab li ftradus, quidam denominatiuus, ut grammaticus
hiccR idem q» concretus. Decima dinifio. Terminoit quidam in
complexus, quidam complexus. Incomplexus eft ille,
qui est terminus simplex, er vel
copoficus, uel uniens in fe plure? terminos
per fc fignifi il, catiuos ad
placitum, ita tamen q» habent uim unius
exem- ,a« pium primi homo, capra, leo, exemplum
secundi. Scuti- K. fer, armiger exemplum
tertii paterfamilias , primo geni- n, tus Sanftus
Georgius, summus pontifex. Comple-Jtu« eft ille, qui
in fc aggregat plures terminos per se
significatiuos ad placitum, qui non habent
uim unius, sed fiue aggragati, fiue separati recinet
fuum proprium fignificatum. Et nccerminus complexus
semper eft orario, aliquado sine verbo, ut homo albus, animal
uolatilc, in qua secunda pars determinat, & limitat
primam, aliquando cum verbo, ut homo eft albus. Vnde
logici uniuerfaliter dicunt q» terminus
incomplexus eft ut di&io. Complexus autem
ut oratio. Tuta men aduerte q> terminus ceplexus coitcr nominatur per
orationem infinitiuam, ut deum ede trinum hominem efle rifibilem, quae oratio
dicitur e(Te quid coplexum, & enunciabile, ut ibi manifeftabitur, cum
loquemur de modalibus. Vndedma diuisio. Terminorum
quidam significant fine tempore quidam cum tempore.
Significare sine tempore est significare rem
abfolurc fumpram non mensuratam aliqua differentia
temporis, cuius differentis sive partes funrprz- fens,
praeteritum, & futurum, & hoc modo fignificar
nome & pronomen fumptum loco nominis. Nam dum
dico ho- itio, aut animal, homo significar rem
quae eft homo abfolutc, & non inquantum
praefert tem, aut praeteritam, aut futu-iram. Tu tamen
aduerte q> licet nomen significet fine
tempore, nihil tamen prohibet aliquod nomen fignificare tem- pus,
aut partem temporis, ut haec nomia, tepui, hora, dies
ebdomada, mcnfis, annus. Nain licet fignificet tempus, non tamen
aliquid diftinftum a tempore, & menfuratum tepott. Per
oppofitum autem fignificare cum tempore eft
figni ficare rem adiunda aliqua differentia
remporis.Et hoc mo- do uerbum, & participium fignificar
cum tempore. Verbi gratia curro et currens,
significant curtum pro tempore prae lenti, &
non aliter, cucurri pro praeterito &c. Unde
significare sine tempore, ut dicemus infra, proprie
conuenit nomini, oppofitum autem conuenit
uerbo. Duodecima diuifio. Terminorum quidam univocus, quidam
aequivocus, quidam analogus. Univocus est qui fubvna definitione naturam unam
significat, siue sit una specie, sive ana geacre, ut homo sub hac
definitione, est animal rationale, significat natura humanamquae eft una
spe, &aul fub hac definitione, est corpus animatum
sensitivum, significac naturam animalis quae eft una genere. Aequivocus est qui
sub distindis ronibus, & abfqj ordine, & immediate plures
naturas fignificat diftindas fpe, ut canis
fignificat im mediare canem coeleftcm fub
hac definitione q* cft fydus in ore
figui leonis, & canem latrabilem fub hac definitione qs cft animal
iracundum et canem marinum fub hac definitio ne q* eft animal
aquaticum simile cani tcrreftri. Analogus est qui sub diffindis
ronibus ucl sub una inaequaliter participata plures naturas quodam ordine
prioris, & pofterioris fignificat. Excmplum primi. Sanum
sub hac rone q? est esse adaequatum in
humoribus fignificat animal fanum, fub hac
f one q' eft e(Tc caufatiuum (imitatis
fignificat medicinam Isi nam, sub hac rone quod
cft ede indicat iuum faniratis, significat urinam sanam. Prius
tamen dr de animali, pofterrus autem de medicina,
& urina: quoniam nonnifiin ordine ad animal sanum. Exemplum (ccundi.
Ens fub hac rone q» cft cui debetur eflfc, significat primo substantiam,
deinde acens quoniam substantia est ens fimpfr, & accidens eft ens
secundum quid, et solum in ordine ad substantiam.
Hic termini cur uniucrfaliorcs diuifiones quae
in dodrina peripatetica frequenter funt in
ufu,ta i libris termino logices, q pbiae. pr aepofirae
aut funt, ut nouiti9paulatim a(Tucfcat, & nc
fim coadi frequeter fingulas repetcre. Haec dc. i
.cap. dida fint. Quid & quotuplex est nomen et verbum apud logicum.
In secundo capite inueftigandum est quid & quotupleg fit nomen et verbum
apud logicum, funt enim principales partes propofitionis, ut tibi manifeftum
erit, primo igitur agendum cft de nomine secundo de uerbo. Et
quonia hic intendimus agere dc partibus
propofitioni£us,& de g>- pofirione, & de
syllogifmo, non folum in uoce, fed & in
me rc, & in feripto, ideo definiemus ca
non per uoccm, fcd ter* minum qui cft
communis nomini & uerbo in mente, in voce,
in feripto. in reliquis autem no recedemus a uia,
& me* do dcfinitiuo fcruato a Petro Hispano, qui logicam Cui formauic ut
compendium logicae totius traditae nobis ab Aristotele , excepro
libro poftcriorum. Non.n. Petrus hilpano formauit
tra&atum aliquem correfpondentcm libris poste
riorum, hac forte rone, qmcxiftimauit nouitium
penitus incapacem fyllogifmi demonftratiui, Nos autem
faciliori modo quo poterimus particularem
tra&atum formabim ut paulatimalluefcat nouitii
ingenium, & ne fubito auditu libri
pofteriorum confufus retroccdat. Licct autcm Aristoteles
in libro “Peri Hermenias”, et Petrus cius
imitator definiant no nien & uerbum
per uoccm,& nos per terminum, tn no eri
mus oppofiti,nifi in hoc,q? nos magis
ample, illi autem magis ftriftc definierunt,*
Cofidcrarunt.mpartes oronis folurti ut
(untuocales,nos autem ut poflunteife mentales,
& uo-cales, & fcriptx. Vndeficut dicit Aristoteles &
Petrus cf nomen cft uox,fifr & uerbum,
dicemus nos i terminus, fiib quo continetur terminus
uocalis qui dicitur vox &c. Primo igit
agentes de nomine definiemus quid sit apud logicum,
& fi multiplex eft. Quantum ad primum
aduerte cp nomen ad mente Ari-
ftotelisinuoce, in scripta est TERMINUS PER SE SIGNIFICATIVUS
AD PLACITUM sine tempore, cuius nulla pars separata
aliquid fignificat finita & reda. Primo dr
q» est terminus, qm nomen eft pars propinqua ofonis
& proponis,u t patet. Et qm terminus eft quid magis commune qfit
nomen, ut patet ex op.praecedenti. Nam & uerbum
eft terminus, non tamen cft nome, ideo
in haedefi nitide ponif terminus ut
genus.Na ut declarabimus trac de syllogifino dialc£lico,pmus
terminus in de finitione pofi tus, eft
loco generis, qm eoior eft ipfo definitor,
reliqui aqte ponuntur loco differentiae ut
declarabimus Secundo dr p (e aisnificaticus, ut excipiantur
termini no perfc significatiui, ut “buf” et “baf” et terrmni
syncatcgorema Cici ut figna uniucrfalia &
particularia, uc omnis, nullus, ali- quis,quae licet
apud grammaticum fint nola:, non tamen
apud logicum, quoniam g (e fumptanon polfunt
efle praedicarum ncc fubic&u proponis,
fcd tm determinant fubic- . Au aur pdicatu uc
docuimus in rertia diuillonc tcrminoif. Tertio dr ad placitum
ad driam termini fignificatis nata
ralitcr.ut intericdiones,quz condant non clfe
noia qm no declinantur per calus, nec fune fubicdumaut
przdicacutn proponis nifi in suppofitionc materiali,
ut heu e interie&io, heu eft
bifyllabum,& ad driam termini J.conccp cus in mente,
qui naturaliter fignificat ut declaratur
in.i periher* t Quarto dr fmc tempore
ad driam uerbi , quod significae cum ege,
quid fit fignificarc fine rge,& cum
tge iam docuimus in undecima diuifione
terminorum , & diximus q? no «nconucnit
aliquod nomen fignificarc tempus, ucl partem
tgis,ut dies, hora non th cum tgc.Vidc
tu illic» Quihto dr cuius nulla pars
separata aliquid lighat.idi no men diuidaf
in partes fiias, quz (int fyllabz ut
pr, & omne nomen nmplex,ucl quz fint
didioncs,ut in noic compofi- 10, ut eft pr
familias, uel Icutiferus , & fumant g fe.i.
extra totum nomen nihil fignificant. Quod
fic intclliges,aut nihil orno fignificant
ut marc.Na nec tnamee re, g fe fumpta
ali quid fignificant.Vel fi aliqd fignificant ,
non th habent illuti lignatu, quod hnt
in toto noic.V.G. Hoc nomen dhs fignac
|»ncipem. Si ante refoluat in do & in
minus,do uciqj fignat: ;f*aftum dandi, &
minus signat oppositum magis, sed ut co ponunt
ly dhs nihil fignificant.f.dc fignificato ly dhs.
Idem intclligc de nomine compofito , cuius
partes feparatz & (i aliquid fignat, non tn
illud quod fignat totum nomen ccm pofitum,
ut pr familias significat re&orcm familiz. Pater
autem per fc fumptus significat genitorem et familia
familiam, ica q in toto significant ur.um, fcparatz
autem signiS eant duo. Ethzc expofitio cft
communis apud ueros logi- cos* Vndc Avicenna
recitat in logica fua aliq uos dixifle, q*
verbum incomplcxum est cuius nulla pars
feparata aliqd significar. fi quod fic de
intellc&u et significato totius qm nl hil
,phibct aliqd aliud fighare,ut magifter nam
magis aliqd fignificat:& ter, fcd
non tetinent significatum quod fignificat magifter nec in
totum nec in partem .Er fic paret q* hzc
definitio conucnic nomini cam timplici,
quam compotito, tam primiriuo, qua deriuatiuo,dum
ntodo intdligatur, uc cxpo luimus. Sexto dr
finitus ad differentiam nominis infiniti, quod
& fi apud grammaticum fit nomen, non
came apud logicum, quoniam apud ipfum
nomen cft illud, quod poteft elie fub-
icdum & przdicatum in propotitioc. Subiectum autem et praedicatum
oportet, ut determinate aliquid significent, afr propotitio effec
inutilis, nec deferuirct syllogismo formado ab intellcdu pro inquirenda
ucritatc.Vndc & terminus acq liocus inntilcm
facit proponem, niti fumatur determinate. Verbi gratia
canis coeleftis lucet. Sed uc
docuimus in divisione septima terminorum, terminus
infinitus nihil determinate tignat,ideo cum non
postit effc fubicdum & praedi catum
proponis non cft nomen apud logicum
niti fecundi! quid, ut dicatur nomen non fimptf r sed
nomen infinitum, sicuc solemus dicere quod “chimera” non est nomen reale sed
nomen fidum, quia nihil significat sed imaginarie. Sed dices, apud logicum hzc
cft propotitio. Non homo currit, ergo poteft effc fubicdum,
& per confequcns nome. Refpondccur. Tales propoticiones
sunt inutiles ti teneatur nomen infinitum in sua infinitate &
in deccrminationc. Si autem determinetur
ticdiccndo.Nonhomo.i.afinus currit tunc propotitio
erit utilis,fcd nomen infinitum non rema-
net infinitum, fed zquiualet finito. Septimo
dicitur redus ad differentiam obliquorum , qui non fune nomina
apud logicum. Nomen enim est apud ip- Ium quod f m
fe aliquid significat, 8( f m fe poteft effc
fubic- dum propotitionis. Sed obliqui neutrum
habent ex fe. No primum, quia tigni ficatum
trahunt, a redo ticur,& deriuan tur ab co. Redus autem ticut non
deriuatur ab alio tic non accipit tignificatum ab alio cafu sed habet
afe. Non secundum, quia ti apud logicum formatur propotitio perucrbif
impcrfonaIe, ut Platonis intereft legere: ly Platonis no eft subiectum, niti
refoluatur in redum tic. Ille cuius eft legere eft Plato. Sic
intclUgc de aliis. Prztcrca solus redus fufficit 1 t1 1 K Ir O \t.
i115 s io i ur Si rii a fr-
io mn. A re 3t n ad formandam prop6ncm pcrfedann &maxime de
secundo adiaccntc, ad quam non sufficit nomen obliquum. Haec
enim cQ perfcda. Deus cft, homo eft, hacc
aurem imperfe* da. Dei eft, hominis est. Non ergo obliqui
moerentur dici nomina sed fmc cafus nominum. Hoc de
definitione nomi* nis apud logicum rcalem &
peripateticum dida fint. Quantum ad secundum. f* quotuplex
fit apud logicum, Ideft inquantum poreft
c(Tc fubiedum & praedicatum, ppo fitionis,
conftat,ex didis quod non eft multiplex, quoniam
solum nomen rectum et finitum poreft clic secundum le
subiedum et praedicatum in propone modo quo
expofuumus.Vnde logicus a grammatico sumit fibi redum
ut nc« cellarium ad fomandum abfolutam
proponem significativam veri & falsi Reliquos auccm cafus lumir
adbencclfc, & magis propter feruandam congruitatcm quam ucritate sermonis,
ne uideatur logicus delpicere regulas grammatices. Haec de nomine
dida finr.
Quantum aduerbum aduerte quod ad mentem Arifstotele
verbum cam in voce quam in scripto sic
definiendum est verbum est terminus per se significatiuus ad placitum cum tempore,
cuius nulla pars separata aliquid significat,
finitus & rectus extremorum
unitiuus. Terminus ponif loco generis ficutin
definitione nols, quia eft eoior uerbo.
Nam omne verbum eft rerminus:fcd non
cconuerfo p fe fignariuus ponitur eadem
rone ficut in definitione nols fifr
ad placitum ad driam interiedionuni, & uerbi
mentalis, qrh significat naruralV, ut diximus in definitione
nois, Cum tempore ponitur ad differentiam
nois, & pronominis, & conuenit in hoc cum participio
quod uc- nit a uerbo. Quid fit significarecum tempore, 8c quare
uorbu et participium signifi.ar cum tempore, uidc in diuifione
undecima rerminoru. Cuius nulla pars separata aliquid sfignificar,
intelligcndum est de verbo tam simplici quam composito, sicut expofuimus
in definitione nominis, in hoc enim uerbum conuenit
cum nomine, finirus ponitur ad differentiam uerbi infiniti.
Infinitatur aute uerbum sicut et nomen per
appofitioncm negationis, ut non curro non laboro.
Quod quidem apud logicum no eft verbum, qm nihil determinate significac^ficur
nec nomen infinitum. Undefacc rct proponem inutilem:
nili determinetur licut diximus de nomine infinito,
sic dicendo, fortes, non currit» I « feribie» Re cius ponitur ad differetiam uerbiobliqu^cft autem uerbum obliquum apud logicum uerbum prztcriti &
futuri temporis, & verbum cuiuslibet modi przter
modum indicativum.Vnde quaedam fune uerba
obliqua ex tempore ra tum,ficut uerba praeteriti
temporis, & futuri indicativi modi, ut “amavi”, “amabo”.
Quaedam autem ex modo rantum uti imperativa tempore przlenri.
Quzdam ex modo, & tem- pore, ut uerba
optatiua, et subiunctiua et infinitiva temporis praeteriti et futuri. Ideo autem
apud logicum non fune verba, quoniam non faciunt primo et perfcipfa
propofitionem veram aut falsam, sed per redudionem ad verbum indicatiui modi &
temporis przfcntis. Nam hzc non cft uera
Czfar fuit,nifi quia aliqii fuit uerum
dicere Czfar cft» Sifr* hzc non cft
uera.Eclipfis crir,nifi quia aliqh erit
uerum dicc rcrcclipfis eft. Quoniam igitur
folum uerbu redum,»i»mo- di indicatiui
przlenns temporis facit per se ipfum
propofitionem ueram & falfam,& fola
propofitio indicatiua pinis temporis facit syllogifmum dcmonftrariuum
.i.fcicntialcm ut tibi declarabitur in rrac. De syllogifmo demonftratiuo,i®
dignatur logicus recipere a grammatico solum verbum indicatiuum praesentis temporis,
& przcipucfum, es, cft:quo niaminipfum ut dicemus
refoluuntur omnia uerba dida adiediua.Excremoru
uilitiuus ut in hoc diftinguatur a nomine & pronomine fumpto
loco nominis, nam illa funt ucl
poffunt elTc extrema in propofirione,ideft
fiibiedum & pdf catum, verbum autem non, fed
habet unire extrema. Unde dicitur apud
logicum copula, qm copulat przdicatum cum
fubiedo. Item in hoc diftinguitur a participio,
q» licec significet cum tempore ut uerbum
tn non poteft effe copula, nec facit g
feipfum oronem perfedam, dicendo fortes Ic gens,
sed cft necefle fubintelligerc uerbum»
Verbi gratia foftcs eft legens, ucl
fortes leges eft ftudiofus. Conftac igiC quid
fic uerbum apud logicum, & quare folum
uerbum i e- dum. i. quod no deriuai ab
aliquo priori: quale est uerbum lotum indicatriui
modi tgis prxfcntis,vnocrctur dici abfolu-te uerbum.
Reliqua aut tga; & modi dicantur
obliqui fiue cafus uerbi refti, quoniam
defcendunr, & deriuatur ab eo. Quotuplex auc
fit verbum apud logicfi,non cft immora dum
ex quo folum ucrbu rciftum moeref
apud ipfum dici nierbum ex rone ia
di&a.Sed apud gramaticu ideo eft mul
tiplex uerbum, ut patet in coniugationibus
uerborum, & I regulis fiiis, quoniam non attendit
ad formadum propone veram aut falsam sed congruam, et uitare
incongruam et quoniam per oes tgis drias, &
oes modos uerborum for mari por,& alio
modo g uerbum aftiuum,aIio modo g paf fiuum
&c.ideo apudgramaticum uerbum mulcipfr
diuidic. Nam gramaticus concedit
iftaurpocecongruazho eafinus f| negat logicus, ut
falfam. Hxc de.2.cap dida fmt, Quid fit &
quotuplex fic oro apud logicu. IN
tertio cap. poftqua a&um eft de
partibus oronis age» dum eft de ipfa
orone ut de toto conftitutot cuius praecognitio ideo
nccciraria eft quoniam feire non possumus qd fit enunciatio & propo,
ut tibi manifeftabitur infra, nifi pus notum fuerit quid, & quotuplex
fit oro. Hic igitur tria age da funt, primo quid fit, secundo quotuplex
fit ^ tertio qua’ orationis species fit propofitio.
Quantum ad primum aducrtcip ad mentem
Ariftotelis oratio in voce & in feripto, fic
definiri debet, Oratio cft ter_ minus per
fe fignificatiuus complexus ad placitum ,
cuius partes feparatx aliquid fignificant.
' Primo dicitur eft ter g le significa
rone, qua didum eft de nole &
uerbo & ponitur loco generis, quoniam
eoior e. Nam ols oro cft terminus
per fe fignificatiuus : fed non ccd uerfo .
Difhim eft enim cp nomen & uerbum
funt termini per,fe fignificatini,non tamen funt
oratio. Secundo dicitur complexas ad
differentiam hominis & uerbi, quo* nullum
fiuc fimplcx,fiuc copoficil , e termiiim complexus. Quid
autem fit terminus complexus nide indi
uifione decima {terminorum , & illic inucnics
quomodo proprie conuenic orationi» Tertio
dicitur ad placirum, ad differentiam ofonis
men talis,qux fignificat conceptum mentalem
complexum, qui conceptus lignificat naturalr,
ficut diximus de nomine ^ & uerbo
mentali. Praeterea, oro in uoce,& in feripto
fignificet ad placitum, probatur fic.Partcs
fux.f. nomen, & uer bum fignificat ad
placitum, ut docuimus in cap.prxccdentJ ergo
& ipfum totum confoturum ex eis, quod
cft oratio. Quarto di cuius partes
feparatx aliquid fignificat, id po- nitur ad
differentiam nominis & uerbi, quorum partes, uc docuimus in
eorum definitionibus, non fignificat aliquid fc parate, modo quo illic
expofuimus, partes aute ofonis fune termini caregorematici,
intclligendo de partibus principalibus ficut intendit Arift. Si non
de partibus fccundariis, quae polfiint
eife propones aduerbia &c. Termini autem
catcgo rematici tam in oronc , q extra
retinent fuum lignatum, ut docuimus in
diuifione tertia terminorum. Vn fi fiat
hxc oro, homo albus currit , ho extra hanc
oronem fignat aial ronale, ficut & in oronc,
& albus fignificat habens albedine.
Tu tamen aduerte cp licet fit commune omni orationi haberepartes qux separatx aliquid significant,
non tamen id fit uno modo i omni oronc,
nam fi oro fit fine uerbo, ut ho
nio albus, partes fux aliquid fignificant
modo, quo fignificat diftio. Si afit fiat
oro fimplex per uerbum, uc homo cft animal,
partes fux separatx eodem modo significant. fut
didio. Si aurem fiat oro subiuctiva, ut si veneris
ad me dabo tibi equum, partes lux funt dux ofones ut patet.
Unde si separentur, fignificabunt non ut diftio, sed ut ofo.
Vcrura quia refoluitur m duas orationes, & dux orationes in
terminos componentes, ur ego dabo, tibi equum, ideo commune est
omni orationi quod partes fux separatx aliquid significent, aut ut dictio, aut
ut oratio. Sed dices. Quare in hac definitione non apponitur finitus et rectus,
sicut in definitione nominis et verbi, prxeipue a quia dictum
eft q nomen infinitum nori poteft efle
fubiecti! nec praedicatum, nec uerbuni
infinitum poteft cflc copula, fimiliccr nec
nomen obliquum nec uerbuni obliquum.
Reipondetur q* ideo non opponitur,
quia in definitione non debent poni
nili quae conucniunt omni contento fub
definito, non omnis autem oratio formatur ex nominee et verbo finito, &
redo. Nam haec eft oratio, non homo currit & haec,
Catonis est legere, & haec, homo currct.
Qn aut diximus q> nomen infinitum et obliquum
non poflimt ee subicdum, no fumus locuti
de orone sed de propositione, qm sola
oratio indicatiua praetentis teporis ut
dicemus eft propofitio. Qm igitur aliqua
orario poteft coponi ex nomine iufinito,
& obliquo, fitr ex uerbo, & aliqua non,
puta propo firio,idco non dicitur redus
neque finitus , fed abftrahit ab utroque. Conftat
igitur quid fit orario apud logicum,
Quantum ad fecundum aduerte, q* apud
logicum oratio prima diuifione diuiditur in
orationem perfedam & imper fe&ani, deinde
utruncp diuifionis membrum fubdiuiditur, nidebis
infra. Oratio perfeda eft illa quae
perfedum fenfum gencraf in animo audietis ,
ideft qu* audita quietat,quo ad fignifi-
catum intentum a proferente uel feribente,
animum auditoris, Verbi gratia. Sortes intendit
notificarc Platoni ftatfl regis, & dicit. Rex
ualet fortis in bello contra hoftes, Hac
ratione audita quiefeir animus audientis.
Quod fi dicar. Rex contra inimicos, &
non ultra procedat , imperfedum fenfum generat
in animo audientis, ideft non quierat ipfum
ideo dicitur oratio imperfeda. Nam audiens
rex contra inimicos, ultra non proceditur,
dubitare incipit uti£ prae ualeat,an
fuccumbat contra inimicos fuos, patet
igitur ora tionis prima diuifio apud
logicum. Oratio perfefta continet quinque
(pecies,quae funt indi* catiua temporis
praetentis, & omnium temporum modi in
dicatiui,ut “Petrus amat”, amabat amauit, amaucrat, amabit
imperatiua , ut fac ignem deprecatiua , ut ora
deum pro me.optatiua, ut utinam te uideam
doftum. coniunftiua. ut fi ucncris ad mc,
honorabo te. Omnes ifte dicuntur pcrfic auditae quierant animum audientis
quo ad earum significatum, nec ipfum fufpenfum
tenent. Tu tamen aduertc,q? imperantia, &
dcprccatiua non dit fefunt penes modum nec
tps uerbi, sed penes appofitos re- fpeftus.Nam
utracp fit per modu imperatiuum, fed deprecatiua
fir proprie ad fuperiorcm, imperatiua aOt ad
inferio rem. Item aduerte q* coniunftitia ad hoc q» fit oro perfecta
oportet, ur coplcfiatur duas orones, aliter no quierat animfi audientis, ut
parer, reliquae uero spes per unicam ofonem quictant audientem,
ideo per feipfasfunt perfe&x. Oratio
autem imperfeda tres cotiner fpecies
fecunduqs tribus modis poteft formari. Nam
formatur per nome fub ftatiuum cum
adie<fiiuo, ut homo albus animal rifibile.
uel per duo fobftantiua per appoficione,
ut animal homo, deus pater, Deus filius. Et
hacc eft prima species & formatur per
foliim infiniriun, ut fortem currere. Si autem
apponatur fum, es, eft, cum termino modali cricpcrfectarut
forte currere eft posfibile.i t haec eft fecunda
fpecies*, & formatur per verbum Jcipir, & definit, ut
fortes incipit, fortes definit.
Siautem apponatur ifinfriuum efficitur perfecta,
ut fortes incipit conualefcere, fortes definit
fcriberc, & hoc est ter tia species.
Item aduerte <y oratio perfecta poteft
fieri per unicum nomen, tielunicum ucfbum,&
maxime quando fic refponfiua inrcrrogariuc
Vt fi qtiis a te petat. Quis uenit do
rnum?& refpondeas, Pctus,Vel fic, nunquid fortes
uenit?& rcfpondeas: uenit. Confiat igitur
quo diuidenda fit oratio apud logicum.
Quantum ad tertium aduerte q* sola
orario indicatiua eft pmo & per (e
propofitio. Dico pmo & per (e qm alie
(pe cies non fiunt propofitio, nifi
reducantur ad indicatiuam. Vnde ifta, fi homo
uolaret, haberet alas, non eft propofirio, nifi
reducatur in iftam,fi homo uolat habet
alas. Et indicari u • prxreriti aut futuri
temporis, non eft propolitio nifi re- ducatur
ad indicatiuam praefenris temporis.Nam ifta, Ad a
fuit, ideo eft^iera,quia Aquando fuit uerum dicere.
Adam eft fciliccc quando Adam cxiftcbar. Ratio autem propter quam
apud logicum sola oratio indicatiua eft primo & per se propositio, eft,
quia intentum logici eft uti oratione ad investigandum verum etfalsum, ergo cam
proprie recipit, quae secundum fe significat verum et falsum,
&hxc est indicativa. Nam alis potius deferuiunt affectui mentis qua quod
sint ordinatae ad enunciandum verum et falsum conceptum animi aut intellectus.
Quod pacet hinc. Imperativa indicat voluntatem superioris per imperium,
optativa indicat desiderium sive affectum optantis. Praedicatiuc indicat
affectum inferioris erga fuperiorem per supplicationcm. Coninndiua autem
licet uideatur exprimere uerum aut falsum conceptum mentis, non tamen
determinate, fed fufpc fuic, eft enim conditionalis quae ut dicemus
in cap.de hypotheticis nihil ponit in ede.
Indicativa autem dcterm.nate di cic verum aut falsum. Nam hxc
eft determinate vera, homo est animal, &haec determinate falsa homo est
lapis, ideo. sola'm ceretur dici japofitio. Proponicur enim
imelledui ut per eam formet syllogifmum, &
per syllogifmum deueniat in ucram conclufionis nociciam.
Conflat igitur quae orationis perfeda species mcerctur logice dicipropofitio.
Unde aduerte, q? logicus non tantum magni facit oronem con»
gruam &ornaram, quantum veram, ita etiam fi eflfct
incongruam & inornata, modo uerii & falfum cnuncict,
accepta eft apud logicum,,ppterea logicus
acceptat iftam, deus feruitur ab hole licet cam
reprober grammaticus negans feruior inueniri
pasfiuum.Hxc de prxfcnti cap.dida fine. OlnUli/
Si logico fufficiunt dux orationis partes scilicet
nomen re» verbnm redum. Caput quartum.
IN cap. quarto inueftigadum eft fi dux
orationis partes fciliccc nomen & uerbum
redum fufficiunt logico. Tu igitur aduerte , quod
logicus rationabiliter reripjt tan- tum duas, ut
fibi neccflarias,grammaricus, autem odo* Ratio
uero djfferenrix eft hxc. Logicus et grammaticus
dififerunt fine. Intendit enim logicus fcire,
difcerocrc ucrum a falfo, grammaticus autem intendit
fcire difccrncre congruum sermonem ab incongruo. Ad
confequendum pri- mum fufficiunt nomen &
uerbum , quoniam fufticiuncad componendum .ppofirfone,
quae eft significans verum uel falfum,ut
tibi manifeftabiturin trac. lequeti ad
formandi! congruum sermonem, & diftinguendum ab incongruo
no (iiHiciunt nomen & uerbum, (ed oportet
uti praepoficiqnibus, & aduerbiis &
coniunftionibns,S(c. Et ideo ut gram- maticus
habeat omnem modum formandi fermonem con
gruum, nccc(Tarix funt fibi plures partes
orariois, quam nomen rectum et verbum rectum. Et qm
ifte dux fibi sufficiunt, ideo appellat eas categorcmaricas, id est per se
significatiavs, alias autem syncategorcmaticas, id est simul significativas.
Quis autem fit terminus categoricus et syncategoricus diximus in
divisone tertia terminorum. Sed dices.
Logicus indiget pronomine demonftratiuo, ut quando dcfcendic
sub (ubic&o propofitionis uniuerfalisaf* firmatiue
uel negatiue dicendo, omnis homo cft
animal, cf 50 & hic homo est
animal, & hic eft animal &c. Item
in- iget participio, ut dicemus in trac.fequenti,
quando rcfol- uit propofitioncm fa&am de
uerbo adicdiuo in fuum parti cipiurn &
Ium es eft, ut fortes currit, fortes eft
currens, ergo faltem quatuor partes orationis
funt ei ncccftariae.f.nomcn & pronomcn,uerbum,&
participium. Refponderur nomen & pronome
apud logicum funt, uC una pars, qm utitur pronomine
loco nominis, & participii! ftar cum nominee et uerbo. Cum
nomine quide, qm poteft efte fubiedum
propofitionis ficut & nomen, ut legens cur-
rit,& ftat cum uerbo, qm fignificat cG tepore, ut
docuirmrt fupra,& ideo apud logicum identificanrur
nomini & uerbo licet apud grammaticum remaneant diftinfte.
Conflat igitur cp fint partes orationis
necclfariae dialc&i co ad formanda propofitioncm et
ex propofitionibus syllogifmum. Hoc dc prxfcnti cap.dida
fint. Explicit rradatus secundus copcndii logices peripateticat ordinatus
per authorem et fuit de partibus propofitionis. Incipit QVT eft de propofitione
et speciebm cius. Nhoc tertio tracta, agendum est de propofitione, gratia cuius
praemifimus tradatum praecederem, in quo a&uin est de partibus eius, et de
genere per quod definienda eft, et hoc eft oro ut tibi manifcftabitur.
Diuidemus autem ipfumin fex capita. Primo agendum eft de propofitione
definitiue & diuifiuc prima diuifione. Secundo agendum est de categorica
simplici et de olbus eius diuifionibus. Tertio agendum eft de, pp6ne
hypothetica & eius spebus. Quarto agendum eft de propone categorica modali.
Quinto agendum eft de aequipollentiis propofitionum categoricarum
fimplicjuni, qux funt oppofitx contrarix, fubcontrariae, conrradiftoriae,
&fubaltcrnx. Sefto agendum eft de
aequipollentiis modalium oppofitaif. De ppone, quid
fit & cius prima diuifione. In primo
capitulo agendum eft de propofitione quid
fit & quotuplex in genere sive prima diuifione. QuStum ad definitionem
aduerte, <y sic definitur de me te Ariftotelis. Propofitio
eft oratio uerum uel falfum fignifi
cans indicando. Primo dicitur oratio, loco generis, eft
enim in plus oratio quam propofitio: di&um eft
enim in tract. praecedenri, oratio perfcfta
diftinguitur in quinque (pccics, ex quibus sola
indicatiui modi eft propofitio, ergo omnis propofitio eft oratio perfecta, sed
non econuerso, ex consequenti est genus propositionis, propofitio autem est
species orationis jjcrfe&c. Sicut animal est genus hominis, homo autem est
species animalis. Nam omnis homo est animal, sed non econuerfo. Secundo dicitur
verum vel falsum fignificans, pro cuius notitia aducrte, cp cum proponum
alia iit affirmatiua, alia negatiua, ut declarabimus infra. Significare ucr u
in affirmatiua est significarc rem sicut est.
Verbi Gratia haec cft ucra, homo eft
ronaiis,quia fic eft ex parte rei.
Vnde hoicm e(fe fonalem cft ucrum Significare uerumin
negatiua eft fignificare rem ficut non eft. Verbi
Gratia haec eft ucra, homo non cft
afinus,quia fic eft in re. Vnde hominem non esse
assimum est verum. Significare falfum in propone atfirmatiua eft
figni. 6carc rem aliter q fic.V.G.hzc est falsa,
homo est lapis, qih significat hominem esse lapidem, & tamen aliter
eft. Significare falsum in propone negatiua, eft non
fignificarc rem sicut cft.V.G.hatc eft
fal(a,homo non cft animal, quia non
figni fjcac ficut eft.Nam homo eft animal,
ergo fallinn eft ipluin non efte animal.
Dicitur ergo in diffone, uerum uel falfum.
fignificans ad differentiam oronum imperfeCtarum,
ut ho- mo albus, afinus rudibilis, & oratio
infinitiua,ut fortem cur rcrc,& oratio
famularis, ut Sortes incipir, nifi. n.aliudadda tur,non
folum non quierant animum audientis, fed
nec di- cut aliquid devero aur falfo
nifi copleantur per aliud. V.G* Si ly
homo albus addatur homo eft albus.Si
ly fortem cur rerc addatur , eft uerum uel
posfibile uel contingens. Si ly fortes
incipit addatur, e(Te bonus. Conftat ergo g fc funi
ptz nihil dicunt de uero aut
fallo. T ertio dicitur indicando quod
dupliciter exponitur, pri- mo fic, indicando, id eft
cft oratio modi indicatiui ucru uel
faUbm fignificans. Vnde alii definiunt propofitionem dicen te$,quod propofitio
cft oratio indicatiua uerum uel falfum fignificans. Et id ponitur ad
differentiam orationum perfe- rarum quae fiunt
per alios modos, per itnpcratiuu, optati- «um,
&c.Nam ifte ut docuimus in trac
przcedcnti in capi trrtio potius dclcniiunt
nobis ad manifcftandum affectum mentis, quam
uerum aut falfum coceptum intellectus
Orationes etiam modi indicatiui temporis
prztcriti & futuri % non fignificat
primo & per se verum etfalsum, nifi reducantur ad unam temporis przfentis
indicatiui ut in eode loco docuimus. Sola ergo oro indicatiua temporis
praelcntis moe-retur dici propo, quia fola lufficit ad formidum
syllogitmu aliae autem non, iuli reducantur ad illam:
ut tibi mamfcftii erit in trac. de
slyllogifmo formali: iccudo ab aliquibus
ex-ponitur ly indicando.i.aflercndo.V erum id non
vf convenire omni propofitioniilcd tantum propolicioni
in materis naturali, quae neceflario cft uera, &
in materia remota, quae de necessitate
est falsa. In materia autem contingenti
cum posfit elle ucra & falia, non
pot dici afiertiue fea opinatiuc quod fignificct
uerum aut falfum, ideo melius eft
ftarc in p ma expone, quae etiam eft
de mente Aristotele in.i.perihcr. Quid aut
fit & quo fiat propo in materia
naturali $( contingente & remota dicemus
infra in hoc met.tradtatu. Con^ itat
igitur quid fit propofitio apud logicum.
Quantum ad primam diuilioncm proponis
aduerteqj ad metem Ariftotelis in primo
periher. diuiditur primo in categorica & hypothctica,
dicilcategorica gratee pr^dica» tiua latine,
categorizo enim graccc & praedico latine.
Df hypothetica graece, suppositiva latine, est
enim graECe hyp. fub latine, & thefis graecc,
positio latine. Ratio autem divifionis est haec,
quia omnis propofitio significat verum aut
falsum, & eft quid compofitum & omne
compofitum cft refolubi Ic in lua
immediate componentia. V el ergo propofitio
com ponitur ex terminis immediate, & in
cos relolujtur imme- diate^ non in
aliud immediate. Et fic eft categorica ,
quae coponitur immediate ex fubiefto &
praedicato & copula , modo, quo dicemus
infra.V el coponit I mediate ex duabus oronibus
per aliq coiudione puta ergo, fi, & uel, 3t
imedia- te in eas rcfoluit, & ille
imediate i terminos, & fic eft hypo thctica,
ut dicemus in ca.tertio huius tradatus.
Catcgorica pero diuiditur in fimplicem &
modalem. Simplex eft in qua praedicatum fimpfir dicitur dc fubiedo, ut
homo eft ani mal. Modalis eft in qua
pdicatum dr de fubiecto non fimpflr
fed cum modo & determinatione, ut homo
eft aial ncccfla rio, homo cft albus
contingenter. Et de modali agemus in
cap.quarto huius trac.Hsc deprimo cap.difta fint.
Dcpropofitionc carcgorica & omnibus cius
diuifiombus. IN secundo cap.inueftigandum eft,
quid fir propofitio ea tegorica & quot
fint cius diuifioncs,& de fingulis
agen.. du eft excepta modali,de qua
agemus loco luo, primo igitur definiemus eam,
deiiide accedemus ad diuifioncs. Quantum
ad definitionem aduerte , q* ad mentem Aristoteles
sic definitur Propofitio categorica eft
propofitio j qux habet fubiedum praedicatum &
copulam taquam principia es partes fui. Ponitur propofitio loco generis. Omnis
enim popofitio categorica, est propofitio, led non econ- uerfo. Nam &
hypothetica eft propofitio, & tame non eft
categorica.Dicitur quae habet fubiedum &c.
hoc totum po nitur ad differentiam
hypotheticae, cuius partes principales funt
dux orationes , in quas immediate refoluiturtut
patet in jfta. Si tu curris, tu tnoucris,
principales partes & imme- oiarxnon sunt termini, sed
iftx dux orationes: tu curris, &
tu moueris.prim autem & niediatx funt termini
ex quibus hxc orario componitur , tu curris , &
hxc tu moueris* Dicitur igitur q*
principales partes categoricx non funr ora
tiones,(cd termini, ex quibus immediate
componitur, quo - rum unum eft fubiedum,
alterum prxdicatum, alterum co pulatut homo
eft animal, homo eft fubiedum, animal praedicatum,
eft copula, coniungit enim prxdicatum cum
fub» iedo. Sed aduerre:ut fcias quomodo in
omni categorica eft fubiedum copula &
prxdicatum, quod fit tribus modis, p„ mo
per uerbum fum, es, eft, de tertio
adiacente .Eft autem categorica de tertio
adjacente quando poft fum, apponitur alius
terminus: ut fortes eft animal. In hac
conftat de fubie- do & prxdicato &
copula, fecundo fit per uerbum adiedi- uum
. Eft autem apud logicum omne uerbum
adiediuum, prxter lum, es, eft, in quod
relbluitur omne uerbum adie- diuum & in litum
participiumtut fortes currit fic reloluit. Sortes eft currcns. Socrates
est subiedum, currens praedicatu est copula, tertio fit
per verbum fum, es, eft, de fecundo adiacente.Eft autem
categorica de fecundo adjacente, qn poftum, es, eft,
alius ccrminus no fcquit,ut deus eft,
coelu eft & in hac eft allignarc
tubum praedicatu & copula, alio mo q in
praedicis, afljgnat auceduplV ,pmofic, deus eft.i. deus
cft habes cire, deus cft fubum, habes etTe
cft pdicatu, eft copula, fc cudo fic Deus
cftd.deus cft exiftes. Dens cft fubieiftum
exi- ftens pdicacum,eft copula. Nonulli dicunt
tp in caregorica de fccudo adiaccntc,eft
gerit uicem copulat & prxdicaci, &
id uidetur innuere Ariftoccles in pmo perihcr.ubi definient
uerbum inquit &cft iemper eorum qux de altero praedica tur
nota, ideft uerbum semper (e tenet a gte
prxdicati. Con fta: igitur quid fit
propofitio categorica iimplex. Sed dices quare magis
dicitur categorica, ideft prxdicatiua quam
fubicdiua, cum tam fubiettumq praedicatu fmc
partes cns. Prxtcrca quare terminus praecedens
uerbu fum cs,eft, dicitur fubie&um,fubfcqucns autem
dicitur prxdica tum, & ipfum uerbum
fubftanciuum dicitur copula» Refpondetur ad pmum,
cp oe copofitum denominandu eft a parte
fua digniori, V ndc homo dicitur rationalis
& intellectualis ab anima intellectuali, qux dignior cft in eo
qui sensitiva et vegetatiua. Prxditatu aute dignius eft fubicfto qm
cftficut forma, fubiectu vero sicut materia, & dicemus
intra cp talia funt fubiefta, qualia, permittutur a
praedicatis. Cogrucigicdicn categorica.i.prxdicatiua &no fubieftina
Ad lecundu dfp ideo terminus praecedens
uerbum df fu bic<ftum,quia de eo
df prxdicacum ira cp fubiicitur prxdica to,
V ndc & gramarfeus appellat ipm fuppofitu.
Terminus uero fubfeques uerbu df prxdicacum,
quia prxdicatur & df de altero. i.dc
fubie&o. Vnde apud gramaticum df appofi tum.
Et aduerte q? totale subieftum est
ois terminus prxee dens copulam, fiue unus
fiue plures fint.V «G.homo eft ani-
mal,homo eft fubm,homo magnus & honoratus e
pneeps in ciuitarc, fubieftu funt oes illi
termini prxcedetes, pars au tem liibicCti
quilibet eorii. Ide intcllige ex parte prxdicati.
Sed dices.Quarc fubieftu & pdicatum per fe
inuice notifi eant fiuc definiunt, cu
definitio circularis uideatur. inutilis* *
Refpondetur quia hntrefpedum ad inuice, fubiedtum.
rtfpicit praedicatu & praedicatum rcfpicit
(ubic£tum,ficut ft lius rcCpicic patrem, &
pater filium.Refpediua aute conue- nienter
per fe inuicem norificantur & definiuntur, qm
mutuam habent dcpcndentiam. Sed de hoc alrius
loqucmur in trac. de praedicabilibus, p
nunc fuftine tu iuuenis ne inuolua ris.
Conftat igitur tibi quid (it propofirio
catcgorica. Quantum ad cius diuifiones aduertc,ut
habeas plenam de cis notitiam, fic difponendae
funt. Prima diuifio. Propofitionum categoricarum, alia affirmativa, alia
negatiav. Secunda. Alia uera, alia falfa. Tertia. Alia cuius
quantitatis, alia nullius. Quarta. Alicuius
quantitatis alia uniuersalis, alia particularis, alia
indefinita alia singularis. QuIta.Alix gticipacvrrocp rermio,
aliae altero,aliae nullo. Sexta. Participantium
urroqj termino, aliae participant qtroqj termino
eodem ordine, aliae ordine conucrfo. Septima.
Participantium utrocp termino siue eode ordine (iuc
couerfo quxda formantur in materia naturali,
quaedam in materia contingenti, quaedam in materia
remota. Odaua. Participanrium utroqj termino
eodem ordine tam in materia naturali q in
materia contingenti & in materia remota quaedam sunt contrariae quaedam
subcotrariae, quaedam contradiftorix, quxdam fubalternx. Nona.
Participantiu utrocg termino ordine couerfo &I n triplici materia (iuc
naturali fiue contingenti fiuc remota quxdam conuertuntur conuerfione fimplici,
quxdam converfione per accidens quxda couerfioneg contrapositione Omnes iftx
diuifiones dantur de, ppofitione catcgorica fimplici qux dicitur de inefle.i.in
qua prxdicatu simplicicci4 & fine determinatione facta g alique fex modo^.(
ucrfi falsum nccefTariil cotingens, posfibile imposfibile, dicit de subiefto
Quae aut ex his diuifionibus coueniat et categoricati modali dicemus in cap.
quarto huius trac. De singulis aut divisionibus agedu
c(t in fpe &ordine, quo prxpofitx funt. Verum antedcfcedamus in
(pe^nl aliqua prxdi&artMi diuiltonu datur de substantia, pponis,
aliqua de qualitate, aliqua dc qtitatc ut cibi declarabit infra, ideo ad viem
notitia diuifionu, quae fiet toto hoc noftro opere, ne funus coadi idem faepius
repetere, praeponendi fune omnes vfes modi, quibus folct
fieri diuifio. Tu igitur aduerte <y
indodrina Ariftotelis diuifio fit quatuor
modis generalibus. Primo generis in Ipccics.
Secundo totius in partes. Tertio vocis significata.
Quarto diuisio secundum accidens. Diuifio gnis in fpes,
fit duobu modis pmo gnis^n (pes
(ut> alternas, ut qndiuiditeorpus p alata &
inaiatu, &aiatu per fenfitiuu St no
(cnfitiuu, fecundo gnis in (pes fpalisfimas, uc
qii diuiditur color per albedinem &
nigrcdinem. Et hac di- uifionem cognofces
in trac.de praedicabilibus. Diuifio totius
in gtes fkqncp modis, pmo qntotu diuidif
in ptes fubicdiuas indiuiduales,ut qn
diuidit ho in forte Pia* Ioanne.
Pecru,&c.Scdo qn totu diu.ditur in
partes eflcntia lcs, uc ens naturale
copofitu diuidif in materia & forma,
fi- cut diuidit ho in alam & corpus,
tertio qn diuiditur totu co tinuu in partes fuas
intcgralcs,uc domus in fundametu,tc» dii, &
pariete, & corpus animalis in partes, qufe
funt mebra fua,cx qbus integrat corpus,
quarto qn diuiditur totu dito tinuu
in partes fiias, inter quas & fi no
fit cotinuitaseft rame ordo & .pportio.Hoc
rao diuidif exercitus in mtlitcs,cqtcs peditcs,
8(c.quinto qn diuidif totu poretialc fiue poteftariufi in partes
fuas poreftatiuas qn diuiditur anima per
potentias fuas & virtutes fuas, ut tibi
manifeftabitur i libro dc anima, & ifra mani
fcftabi mus tibi in libro de fyllogifino
Thopico* Diuifio uo cis in fua fignificata
fit tribus modis primo uo cis uniuoce
in fignificata uniuoce,ut qn diuidif ho
in fortem & platone &c, secundo uocis
aequiuoce in fignificata &qui- uocata,ut
qn diuiditur cancer in ftclla fiue
fignum ccelefte, & aquaticum aial,& morbum,
tertio uocis analogicae in significata
analogata,ut qti diuiditur fanu,iu alal (anu ,
urina lana, medicinam fanam, cibum fanum,aercm fanum,
excr- D (HI V-. ritii5Tanu, &c. Et
hancdiuifionecognofccsin trac.de pntis.; Diuifio fccudu
accidens fic tribus modis , primo fubiefti
in accidentia, ut holum alius paruus, alitis
magnus1 alius albus,alius niger, alius
medio colore coloratus, (c3o acciden tis!in
fubie£ta,ut accidentifi,qux funt m hoie, aliud in
aia,ut (eia, aliud in corpore, ut agilitas
&c.tertio accidentis in acci dentia, ut
accidcntiu,quarda dura, quaedam liquida , qnada lucida,
quaedam tenebrofa , & hxc diuifio manife ftabit
tibi in philoiophia naturali & praecipue
in libro de generatione* Ifti igitur
funt iqodi uniuerfales famofiores apud
Arido tilem, quibus fieri confutuit diuifio»
Quantum ad pmam diuifionem,quac eft
per affirmatiua & negatiuam aduerre,q*
affirmatiua dupfr definitur , pmo fic,Categorica
affirmatiua eft .ppofirio in qua
praedicatum affirmatur de fubiefto, ut homo eft albus.
Sed aduerte cj» tuc praedicatu affirmatur
de fubie&c quando negatio no p
cedit copula, q? fi praecedit negatio, negatur
pdicatum de lu biefto,& efficitur
negariua,ut hic Sortes non eft albus. Si
au tem fiibfequitur no efficitur negatiua,
fed permanet affirma tiua , ut homo eft
no albus. Ire aduerte «p alio modo
affirma! pdicatum de fubiecto in affirmatiua uera
& in falfa, na in uera affirmatur
re & uoce quia fic eft in
re,ficut dr , ut homo re &uoce eft rifibilis. In falfa atite
affirmatur uoce tm & non rc. Nam licet dicam q» homo est
afinus tarhenonfic eft in re, secundo definitur fic. Affirmatiua eft in
qua verbum pncipale affirmatur de fubiedo, ut homo est aial. Dr in qua
nerbum principale affirmatur ad differentiam uerbi secundarii qtiod fi
negattiruel affirmatur, propter ipfum non fit
propofitio affirmatiua nec negatiua. Vnde
ifta non eft nega tiua. Socrates qui
non currit , mouetur,nec ifta eft
affirmatiua* Sortes qui currit , non monetur.
Nam In prima licet uer- bum fecundarium,
quod eft, currit, negetur, tamen princi- pale
quod eft mouetur, affirmatur, ideo permanet
affirmatiua. In IccQda autem fit oppofito
modo, ideo permanet negatiava. Et ratio
huius eft, quia ticrbii fecundarium fe tenet a
parte fubicfti, q3 paret refoluedo in fuu
participiu fiuc afti- uum fiue pasfiuu,ut
hic. Sortes qui non currit,ideft. Socrates a9
non carrcns mouccur, (ortes qui currit, id eft
(ortes curreni non mouerur: Subie&um autem
coniunctum participio at- firmatiuo negatiuo
no facit propofitionem dic affirmatius ucl ncgariuam,
tcd negatio cadens fuper uerbum principale
fiue immediate, ut quando lubfequitur fubiedum,ut
hotno non eft afinus,fiue mediate, ut non
homo cft animal , dum modo fumatur negatio
negans, & no infinitam terminum, cui opponitur, nam
fi infinitarer, non faceret negatiuam. Vnde
lixc non clt negatiua» Non homo currit,
qm ly non homo clt nomen infinitum, &c. Vnde non
homo curru, xquippollet ifti, afinus qui ft
no homo currit. Coftat aut hanc elfe affirmatiua Patet igitur quid
fit categorica aftirmatiua. Categorica negatiua
dupliciter definitur. Primo lic, categorica negatiua
eft propofitio in qua praedicatum negatur
de luolubicfto,auc ho non eft lapis.
Secundo fic,eft pro- pofirio in qua uerbum
principale negatur . Dicitur uerbum principale
ad differentiam uerbi fccundarii, quod ut
docuimus fiue affirmetur fiuc negetur, non facit
propofirionem affir.aut nega. Et aduertc,quod
propofitio poreft fieri afflr. uel nega.
dupliciter lcilicet explicitc & implicite. Si
explicite, fit per nomen et uerbum indicariui modi,
ut hotno eft ri fibilis. Si implicite
poteft fieri per unicum terminu,ut quan
do dicimus, homo cft rifibilis ,& econucrlo,
ly econuerlo aequippollet uni propofitioni,qux
elf hxc,& rifibile eft homo.Item
aduerte quod diuifio per afflrmatiuam et
negativam non foium conuenit categoricae sed
etiam hyporheti cac & moduli, quomodo autem fiat
hypothetica affirmative et ne gar. similirer
modal s, dicemus agentes de eis. Nunc
autem fuftine, ne confundaris ut nouus auditor. Hxc de prima
diuifioncdi&afint» Quantum ad fecundam diiiifionetn
categorica: fciliccc perneram & fallam , aduerte
quod cartgorica ucra , tam affirmatiua quam negatiua dupliciter
definitur. Primo fic, uera eft, qua: significat uerum , id eft significar
rem sicut eft, si est affirmatiua, vel significat rem sicut non
est, si est negatiua. Sed de hac latis diximus in ca.
pr scedenti in dedaran- «lo
definitionem propofkionis secundo autem fir defiintur. Vera
cft illa, cuius fignificatum primarium est verum. Significatum autem primarium
cft illud quod exprimitur p oro nem infinitiuam. Verbi gratia hxc eft ucra Deus
eft bonus qm deum clfc bonum, est verum. Sic.n. eft in re. Dico cuius primarium
significatum est uerum ad differentiam secunda rii. sccundarium
autem eft quod continetur in primario 8c fcquitur ad illud. Verbi gracia
primarium huius, homo est rationalis, eft eftc rationalem ad hoc autem
fcquitur cfte ani mal, clfe animatum, ede
corpus efie fubie&am. luxta igitur
significatum primarium & fccundarium indicanda eft
pro- pofirio uera,qm cft ucra primo &
per fe ex eo, ex fccunda- rio autem
eft tantum confequenrcr. Nam bene fcquitur
qcf fi fortes eft homo,for.cft animal. fcd
non ceonuerfb, ut de- clarabimus in trac. dc
confequentiis. Similiter falsa dupliciter definitur. Primo sic, falfi eft
qux aliter significat quam fit in re, ut hxc cft
falsa, homo est ansinus, quia significat hominem esseasinum,
& tamen aliter eft rn re, quia in re
no est asinus, sed homo siue rationalis, &
de hac definitione iam di ximus in
cap. prxccdentiin definitione propofitionis. Sccun do
fic, falsa cft illa cuius primarum significatum est
falsum. Verbi gratia hxc est falsa homo
est afinus, quia holem esse asinum est falsum, cu
fic ronalis,& afinus irratroalis. Quodfi fiereciudicium
fecundu fccundarium fignificatum, quod eft dfe animal,
effet uera-Nam hxc cft, ucra homo est animal v
non tamen fcquitur, ergo cft afinns, ut declarabitur
tibi in trac. De consequentiis Hxc de fecunda diuifioncdiftafint,
Quantum ad tertiam diuifionem fcilicet quod aliqua eft alicuius
qiiamicari$, aIiquanulliu$.Alicuius quantitatis eft illa, cuius fubieftum ftat
pro aliquo ucl pro aliquibus uel pro omnibus uel pro nullo, ut declarabitur in
diuifione sequenti. Nullius quantitatis cft illa cuius fubicftum fufpcnditur a
propria denoiationc, ronc, pbationis termini prxcedetis ip Ium quails eft
exclufiua cxceciua reduplicatiua, de quaif ,p-
Satiqne a<fturi fumus in trac.de
probationibus ter tuc.n.ap arebit tibi qflo
ifte probatur no rone fubicfti,uc , pbaf
universalis particularis &c.fcd ronc figni
fiuc fyncategdfcma* ris,ut exclufiua g
tm,reduplicatiua g inqtum cxccpriua p p ter, &c. T uigr fuftine
donec exercitat0 magis fueris, & ad ji di&u erae*
dcuencrim9. H*c de tertia diui., p niic dida fint. Quantum
ad quarta diui.f.q* proponum alicuius qtitatis
alia eft vPis, alja particula .alia indefi.alia
fmg duo ageda fut primo declarandum eft qflo
hxc diuifio eft (ufficiens, fecun do
pertradadum eft de quolibet eius membro. Quantum ad
pmum aduerte q» qtitas proponis atteditur*
penes fubm prout ftat,p pluribus aut
uno lolo.Pot igituf cofiderari fubin dupTr. Primo fi
ftat pro uno folo. Secundo fi pro pluribus fi
pro uno (olo, {ira cp uni (oli couenit
facie ponem fingu.fi pro pluribus, hoc
dupfV,quia uel pro pluri- pus indeterminate
uel determinate, fi indeterminate fic fam
cit ,pp6nem indefi.fi determinare duplr
quia hacc determi* natio fubti uel
fit per fignum vle affirmatiuu uel
negatiuu, ut ois nullus, & fic eft
propo ul’is,uel fit per fignum parti*
pulare affir-uel nega & fic eft propo
particularis* Coftat igit hxc diuifio eft
liifficiens.Et fi quxras quid fic qtiras ,
pp6* nis.Hkiideo q* ficut Qtiras fubx
proprie accipit iuxta mensuram longitudinis,
& latitudinis & , pfundicaris, fic quantitas ,
pp6nis (umit iuxta menfuram fubiedii, prout
uerificatur p« dicatiue de uno uel plunbus.
Conftat igitur quo hxc diuifio eft sufficiens, & quid fit
& unde fumitur qtitas propofitiois. Quartum ad
secundum aduerte, q* propofitio uniucrfalis dupliciter definiriH-.
Primo fic, propositio viis tam affirmativa quam negativa est illa,
in qua fubiicitur ter. communis figno
uniucrfali determinatus. Prinio dicitur in qua
fubiicitur ter*c6is.i*ponitur in fubie fto
ter.cois.i.q por coucnire & pdicari de pluribus,
& apud gramaticum dr nomen appellatiuum,ut
homo, capra, leo» Secundo dicitur figno uniucrfali
dctertninatus figna uni uer Talia (untquxdam affirmatiuaut omnis quilibet
quifcp’, negatiua (unt, nullus, nihil, neuter , dicunt uniucrfalia quia
faciunt ftarc fubicdum pro olbus aut pro
fnullo ut ifta rft uniucrfalis
affir.omnis.homo eft animal. Vcrificatur enim
fubiedum pro quolibet homine in fingulari.
Nam fi omni homo est ammal ergo & ifte, & iftc,
& ifte , & fic de omnibus alii eft animal.
Tertio dicitur determinatus. i. modificatus fiue limitatus ad
standum non ablolure ,lcd pro omnibus aut (p
nullo-diximus.n in tertia diuifionc
tci minor u, quod signa ufia fune termini lyncatcgorcmatici,
qm fumpticum alio, id eft cum nomine lubftantiuo
determinant ipliim in propofitione ad
dandum pro omnibus aut \ ro nullo» Sed
aduerte, quod signum uniucrfale ad hoc quod
faciat propofitionem uniucrialem fimplicirer &
proprie debet ap poni fubiedo in redo & explicite
Nam fi apponitur iiibic- do in obliquo,
non facit eam uniuerfalem (impliciter, sed
secundum quid.Vndc
ifta eu uflibet hominis afinus, currit, noneft
uniucrlalis abfolute, quoniam signum non apponitur
ly afinus, quodest principale lubiedum, lcd
ly hominis, quod quoniam est obliquus eft
secundarium fiue parrialc‘fu bicdum. V ndc pratdida
propofitio abfolute eft indefinita, ut tibi
dcclarabitur.Dicitur explicire, quoniam fi ponitur
i- plicire uel uirtualiter ucl cum
diftindione,non facit propositionem uniuerfalem forma)itcr,
sed tantum interpraetati- ue»Sicut funr
iftar, totus fortes est minor forte, totum est in mundo
est in oculo meo. Non homo currir, &c.
Quomodo autem fint uniuerfales interpracatiuc
declarabitur tibi i trac. de probationibus terminorum, ubi diftinguemus
de toto, & quo ifta aequipoleat uniuerfali nega citi ac non homo
currit declarabitur tibi in cap. de acqujpolenriis catcgoricarum.
Nuncautem fifio nete inuoluam. Similiter aduerte, <y uniuerfalis
affirniatiua poteft fieri duplici ter, fex—
licet collcdiue ut omnes apostoli sunt duodecim,
& diftributiue, ut omnis homo eft rissibilis.
Et iterum diftributiue poteft fieri dupliciter,
fcilicct abfolute et accommode. Verum quomodo fiant & quo
verificentur,dcdarabitur{tibi in rrac.de fuppofirionibus,
pro nunc fuftinc Haec de propofitione uniueriali
dida fint. Propofitio particularis eft illa, in
qua fubiicitur ter mi- communis
signo particulari determinatus. Dicitur in qua tubiicitur ter communis,
ea ratione qua & in propofitionc uniuerfali.
De signo parti. determinatus, ad differentiam proponis uniuerfaliszcft
autem signum particulare determinatio termini cois qui
cft fubicdum in hac propone, per quod
defignatur fubiednm accipi non pro oibus
fub eo corcntis, fed pro aliquibus ucl pro
aliquo: ut quidam homo currit ergo uel
ifte uel ille, ucl ille currit: &
fufficit quod uerificctur ,p aliquo pofito
quod tantum unus currat. Er aduerte,
quod propofirio particularis poteft fieri mul Cis modis.
Primo quando fubie&um eft ter. cois
cum ligno particulari tam affirmatiue quam
negatiue : ut quidam ho- mo currrir, quidam homo
non currit. Secundo per ly aliqd
fumptum adie<ftiuc:ur aliquid eft I manu
tua. Haec eft parti- cularis uirtualiter, quoniam
ly aliquid fic exponitur aliqua res
eft I manu tua. Dico
fumptum adjeftiue quoniam sumptum subftantiue facit
propofitionem indefinitam ut dicemus. Tertio
quando fubiicitur ter. cois cum figno uniuerfa
li, fcd figno pratponitur ncgario:ut no
omnis homo currit haec enim aequipollet
huic: quidani homo non currit. Quarto quando fubiicitur
termi.cois cum figno uniuerfali affir-
mariuo,fcd praeponitur negatio & poft ponitur:ur
hic, non omnis homo non currit, arquipollet enim huic,
quidam homo cnrrir. Sed tertium & quartum modum
declarabimus fic effein cap. de aequipollentiis
categoricarum. Haec de propositione particulari diffa finr.
Propofirio indefinita eft illa in qua fubiicitur terminus communis, nullo signo
uniuerfali uel particulari determina rus: uc homo currit. primo
dicitur in qua fubiicitur termi. communis eadem ratione, qua diifhim est in
definition propofirionis universalis et particularis. Secundo
dicitur nullo signo ad differentiam propofirio* nis nniuerfalis &
particularis. Tertio dicitur nullo figno uniuerfali
uel particulari ad differentiam cxdufiue,in qua
ponitur signum: cantum, & in reduplicatiua, inquantum,
qua: ligna quoniam non tunc uniuersalia, ncc
particularia, ideo non faciunt propofitione alicuius
quantitates. Sed dices, quare dr indefinita, cum
aequipollcat particula ri* Na ide fenlus eft dicere, aliqs homo
currit, & ho currit. Rndetur, dr indefinita.i. indctcrminata, quia
acceptio fu? fubicdi non determinatur ad certam
quantitatem fecundu modum enuntiandi per fignum
uniuerfalc ucl particulare: licet fupponat fubicdum
determinatciut dicemus in traft* de
fupptofitionibus: & quando dicitur idem
fenlus eft di- cere: quidam homo currit
& homo currit, conceditur quo ad luppoticioncm &
uerificacioncm, fcd non coceditur quo ad
modum enunciandi,& fic intendimus ipfam
effeindefini tam & non quo ad
ucrificationem &i luppoficionem.Scd,p nunc
liiftinc, donec trademus de fuppofitionibus. Haec
de propofitione indefinita difta fine propofirio
singularis eft illa in qua fubiicitur terminus ai fcrccus vel termi.
communis cum pronomine demonftrati 110 primiriuc speciei, ut Plato
currit. Iftc homo comedit. U le homo
dormit. Primo dicitur in qua fubiicitur ter . dilcretus, ad
differens Ciani propoficionis uniuerlalis &
particula* & indefinitae, in quibus
fubiicitur ter. cois opponitur aute ter*
dilcretus ter. .coi , quoniam di fererus
deunofolo eft aptus pr*dicarioC grammaticus
appellat nomen proprium q? uni loli
conue-r nit,ut piato. Cois autem eft aptus
de pluribus praedicari, ut homo & animal, &
grammaticus uocatipfum nomen appellatiuum, quod pluribus conuenit. Secundo
vel termi communis cum pronomine demon ftratiuo.
Nam licet termi. communis de feftet pro
pluribus camenper pronomen demonstratiuum reftringitur ad ftan dum pro
uno folo indiuiduo, ideo atquipollet ter.
difcretcL Vnde iftapropofitio: hic homo currit ,
dcmonftrato (orte; scquipollct ifti. Socrates currit.
Tertio dicitur pri mitius fpecic, ad differentiam
pronominum deriuatiux fpccici. Sunc aucem pronomina
dcmoi) ftratiua primitiux fpeciei ergo, tu, liii, ille,
ipfe,ifte,hic, & is. Deriuatiux autem lunc meus,
cuus, luus,noftcr,. uciltr, no» ftras,ucftras. ldeo
autem e a, quae iiint primatiux (peciei
co flituunt propofitioncm Cingulare qm
trahunt lubictf uni ad fajpponcndum pro uno solo,
ut ifte homo dcmoftrato forte currit, & ego. f
Petrus curro, & tu. i Piato curris. Ea uero qua
funt deriuatiux lpei,ut meus,tuus,non confticuunr
,p- pofuioncm Cingularem, non n.rcftringunt fubm,
cui apponutur ad statum uno io lo, fed
pot ucrifkari de pluribus. Verbi
gratia Petrus het dece afinos, & dicit
meus aiinuscur rit, ly alinus no stat
pro ifto tm, ucl pro illo tm fcd #
oibus difiuftiux. Nam fi meus afuius currit, &
habeo decem, ergo uclifte, ueljfte qui cft
meus currit. Pronomina auc demon ftratiua
primitiux fpei reftringur tcr.coem ad ftadu
, p uno solo demonftrato, ut ego.f.Petrus
lcribo,Tuuero.l. Plato dormis. Conftat igitur quid fit
propositio sngularis. Tu tame aducrte,quod no
Loluni pot fieri per ter. dilcre tum,
& per tcr.coem cum pronomine demonftratiuo primi tiux
Ipeciei, fcd & per tcr.r clariuum , ut pofito
quod lo phronifcus habet tantu unum
filium, cuius nomen ignore tur, ftdico
Sophronifci filius ftudet Papix, cft
fingularis,p- pofitio fimiliter fi dico. Pater Calix
uenir,e lingularis, quo uiam ifti ter.relatiui xquipollcnt termini
dilcretis.Irem potcft fieri per rer dilcrctum
circunlocutum,ut fi dico. Vir cri Ipus
rubeus, & claudus cantat in platea. Iftc enim
circunfta tix mani feliant talem hominem
& non alium, ideo reddut propofitioncm
fingularcm.patet igitur quid fit propofitio
lingularis & quot modis fieri contingit»
Item aducrte, quod fi quis te
intrrogat de substantia fitie natura
propofitionis,dicendo. Qux propofitio eftifta. Sor
C<s eft homo,refpondcre habes, catcgorica, &
qux eft ifta. Si tu curris, tu moveris,
refpoderc habes hypothetica. Si au ecm quis te
interrogat dc qualitate, propofitionis dicendo.
Qualis eft ifta fortes currit refpondere
habet affirmatiua,& Qualis eft ifta, homo
non cft afinus, relpondendum est, negatiua. Si
ucro quis te interrogat de quantitate
proponis di Ccndo. Quanra cft ifta; ois
homo currit, refpondendum eft, uniuerfalis, &
fic de aliis. Vnde logici pro hoc
triplici quaefi- to formaucrunr hunc
ucrfum.Quac.ca.uel ip. qualis. ne. uel
af.v.quanta.par.in fin i. Quae categorica, uel
hyporetica. Qualis, negatiua, uel affirmatiua. V «quanta.
i.uniucrfalis uel particularis indefinita uel
fingularis. Sed dices. Quae est subftantia propofitionis, &
quae cius quantitas, & quz eius qualitas. Refpodetur
fuba cft cius natura sive edentia, puta
qft fit quid coinpofitum ex talibus partibus.
f. cx fubiedo praedi- cato & copula ut
catcgorica:ucl ex duabus oronibus p ali- quam
coniundionem coniundis:ut fi tu curris, tu
moueris ut hypothcrica. QuStitaseius est extenfio
fubicdi ad ftandu pro uno vel aliquibus uel
omnibus uel nullis. Qualitas eius est
secundum quam dicitur qualismt affirmatio, negatio,
veritas, falfitas, necesfitas, contingentia, posfibilitas, imposfibilitas.
Nam omnia ifta qualificant propofitionem. Unde interroganti
qualis fit ifta, homo est animal, respondcre
debemus, quod rft affirmatiua ucramon solum possibilis sed etia necessaria.
Quarum ad quintam divisionem, quae eft hac, proponu categoricarum, quaedam
participant utroqj termino, quaedam altero, quaedam nullo, aduerte,
quod cum termini componcnrcs categoricam fint fubiednm
& praedicatum: quae Ctjam dicuntur extrema propofitionis,
parridparc termino uel terminis, eft conuenirc in subiedo uel
in praedicato, uel in utroque. Non
participare autem eft non conuenirc. His
prxnv.sfis aduerte, quod duas catcgoricas participare utro-
que termino, eft eas conuenire in subicdo &
praedicato, ita subiednm prima est subiedum secundae et
praedicatum primae est praedicatum secundae, nec in alio differunt nili
quod una eft affirmatiua, altera negatiua, ut sunt iftae duae, homo
eft animal, homo non eft animal, participare in alte
ro termino tantum fcilicct uel folum
in fubiedo, ut hic: homo cft animal, homo eft
rationalis, uel in praedicaroratum ut hic: homo eft animal, asinus est
animal. Participare nullo termino, est non conuenirc io
subiecto nec in praedicato, ut hic, homo est rifibilis, afinus eft
rudibilis. Et aduerte quod hic loquimur de participatione formali virtuali,
quod dico, quoniam licet iftae duae coueniant uir rualitcr: homo est animal,
risibile est animah non tamen for malitcr, quoniam formaliter non lunt idem
homo et risibile, dato quod eflent idem re, quod
tamen non conceditur in via thomistica. Iterum aduerte,
quod haec diuisio data eft, ut cognoscatur oppositio
contraria, subcontraria, contradidoria, subalterna propositionu categoricarum
de quibus aduri lumus infra. Namilla fupponit participationem, ppofitionum
oppofitarum urroqj termino formaliter & non solum uirtualircr ut tibi
declarabitur in diuifioneodaua. Quantum ad diuifionem lextarn, quae cft
q*, ppofition5' categoricarum participantium utrocg termino formaliter,
quaedam participant utroq? termino eodem ordine,
quaeda ordine conucrfo. Aduerte igitur quod
duas categoricas par ticipare eodem ordine
utrocp termino, eft fic, quod est subiedum in prima est subiedum in
secunda et quod est praedicatum in prima est praedicatum in secunda,
ut hic. Socrates est homo. Socrates non est homo, et semper
intelligedum est formaliter et non virtualiter tantuin.
Duas autem categoricas participare
utrocp termino ordine coucrfo, est sic,
quod est subiedum in prima est
praedicatum in fecunda, & quod est praedicatum in prima eft
subiedum insecunda, ut hic, homo est animal rationale,
animal rationale eft homo. Et haec diufio deferuiet quando loquemur de couucrfionibus propofitionum categoricarum,
ut tibi manifeftabitur. Quantum ad
feptimam diuifionem, quae eft haec.
Propositionum participantiumvtrocg termino fiue eodem
ordine fiue conucrfo quaedam fiunt in materia
naturali, quardam contingenti, quaedam in remota, aduerte,
qnllat fiunt in ma reria naturali in
quibus^raedicatum femper & infcpai abii:ter
conucnit fubiedo, & id fit multis modis , primo
quando genus, aut differentia, aut definitio, aut, pprictas,
aut quali, eas naturalis praedicatur de
re. Exemplum primi, homo est animal, fecundi, homo
cft rationalis. Tertii, homo eft animal rationale,
quarti homo cft rifibilis quinti Ignis
cft cali. «Ius, mei eft dulce, nix eft
alba, Item quando idem praedicatur de
lcipfo:ut fortes est fortes. Ille aut fiunt
in materia contingentium quibus praedicatum
poteft aduenire & remoucri a subiecto, abfqj
hoc <y corruni. patur fubiedum ,& gg
hoc diftinguuntur a ,ppofitionibus i , materia
naturali, quoniam in illis li auferatur pdicatum,
no pmanet fubiedum. Nam fi homo cedat ede animal, aut
rationalis, aut risibilis et fi ignis cedat ede calidus
&c. nec ha-, mo nec ignis permanent, led
corrumpuntur et definunt ce» Tu igitur aduerte, c?
omnis jjpofifio, in qua pdicatum eft accidens
commune & fcparabile,& etiam infeparabile,
mo do non fluat a principiis fpccici, fit in
materia contingenti, utiftae, homo eft albus, ethiops est niger,
aqua est calida &c. Dico rnodo non fluat a principiis fpeciei: ut pferuem
rerum. j>prietates: ut eft rifibilitas in homine, par et impar in numero,
curvum et rectum in linea, fumum calorem in igne* lite nancg faciunt
ppofirionem in materia naturali. Quid ne. ro fit fluere apneipiis specjci
declarabitur tibi in trac. de praedicabilibus in cap. de proprio etaccidente.
Illae vero fiunt in materia remota, in quibus praedicatum non potest
verificari de subiedo, Imo id inuicero repugnant. Iftae autem funt
in quibus fubicdum & praedicatum sunt opposita contraria vel
contradidoria vel prfuatiue ucl relative opposita.
Exemplum primi. Album est nigrum. Secundi homo est non homo.
Tertii. Caecus est uidens. Quarti, pater est filius.
Et aducrte , q? dicuntur fieri i|i materia
remota, scilicet repugnanti, qm natur fubiedi&i pdjcatiin oibus
p didis repugnant adinuioem, nec fc compatiuntur. Inde eft q1 omnis affirmatiua
in materia remota ferng & de neccsfiUtate eft falfa, negaciua autem
femg & immutabiliter ucra. In materia uero naturali cft oppofifomodo.
Nam affirmariua femg est vera, negatiua fepig falfcM Jn
nuter» cotingeti ?4 est medio m6, qm tam affirma, q nega,
aliqn e vera aliqn falsa, nam qn praedicatum incft liibiedio, affirmatiua
est uera, negatiua falsa, qn praedicatum remouctur,
affirmatiua eft falsa, ncgariua eft uera. Hoc de septima diuifione difta fint.
Quantum ad oAauam diuifioncm, quae fuit haec, Propofitionum
carcgoricarum participatium utroqj termino eodem ordine triplici materia.
Cnaturali contingenti et remota aduerte, q* inter eas sit quatruplex oppofitio.
f. contraria subcontraria, contradicloria, subalterna. Oppositio contraria sit
inter eas quarum una eft universalis affirmatiua & altera uninerfalis
negatiua, de eifdcm fubieflis & prodicatis univoce &aeque ample &
aeque strictca cceptis. Primodf quarum una est uniuerfalis
&c. Nam ut diftinguantur a contradictoriis, debent efle eiufdem quantitatis &
diuerfae qualitatis. Si eiufdem quatitatis, ergo
utraqj eft uni ucrialis uel particularis , non
secundum quia noneffient contrariae sed subcontrariae: ut dicetur infra ergo
primum. Si, diversae qualitatis, ergo i&fca eft
affirmativa et altera negativa. Secundo dr de ei (dem subiectis et
praedicatis: uc ois homol albus, nullus homo est albus, & dcfeftu
huius iftaeduae non funt contrariae ois homo eft albus, nullum rifibilc eft
albu^ Tu tn aduerte q* subiectum et praedicatum pnt
effe idem tripliciter, pmo fm vocem tm &
non fm signatum, secundo t m. signatum tm &
non fm vocem, tertio fm vocem et secundumsignificatum. Exemplum
primi omnis canis latrat: nullus canis latrat. Secundi. Omnis
homo currit, nullum ronale currit. Tertii. Omnis homo
eft alal nullus homo eft alaU Prima identitas non
fufficit adeontrarietatem, ideo dicitur in
definitione, acceptis univoce, conftat aut q* canis
eft ter. aequiuocus , fecunda aut fufficit ad contrarietatem
virtuale leu aequiualente, sed no ad formalem,
tertia vero sufficit ad contratietate proprie diCta & formale, unde
licet iftx duae, omnis homo currit, nullu rationale currit,
fint cotrariae uir rualiter eo q* secudum significatum
homo et rationale fune idem non tamen forma\itct, qm
formalitcr non participat E ii utroqj termino secundum uoccm et secundum
significatu. Tertio dicitur aeque ample &aeque ftrufie acccptis. Dcfe* du
huius apud multos iflae dux non sunt contrarix. Omnis homo est animal, nullus
homo est animal, quoniam in prima poteft teneri tam pro mafculis quam pro
fccminis,in secunda solum pro masculis. Tu tn aduerte, q'
secundum usum i utracp accipi confucuit pro mafculis
ideo acceptantur:ut ue rz contrariZj Item
defedu huius iflae dux non lunt
contra riae. Omnis homo cft albus, nullus
homo fuit albus, quia in prima
reftringitur adprxfentcs , in fecunda autem ampliatur ad
przfentcs uel prxreritos. Scd pronunc fuftinc, donec pertrademus de
ampliationibus & appellationibus. Tu tn aduerte, q* prxdldx non sunt
contrariae non solum ronc di da, sed quia copula non tenetur eodem modo in
prima set secunda. Nam in prima eft ly eft, in fecunda cft
ly fuit. Unde in definitione intelligendum eftq'
contrarix debent c(Te de ctfdem fubicdis
& prxdicatis & copulis. Hzc de contrariis
dida fint. Oppofitio contradidoria eft
inter eas, quarum una cft viis affirmatiua,
altera particularis negativa , ut omnis homo est
animal, quidam homo non eft animal, uei
altera cft vfis negatiua, & altera particularis affirmatiua, ut
nullus homo currit, quida homo currit, dccifdcm fubicdis &pdicatis
& copulis, uniuocc & zque ample, & xque ftride
acceptis. Omnia debent intclligi ficut expofitum
eft dc contrariis. Ut autem habeas
maiorem noticiamdccontradidione aduerte ex
dodrina Ariftotclis, quatuor condidioncs requirit, & defedu
cuiullibct carum enitatur contradidoria oppofitio. Prima eft q» fit affirmatio
eiufdem de eodem & negatio, dummodo fumatur idem
secundum rem et vocem, ut Socrates currit. Socrates non currit. Defedu
cuius ifta apud logicu non sunt contradidoria formaliter sed virtualiter sive
equipollenter tantum ex parte rei. Cicero currit. Marcus no currit, pofito enim
q» fint sinonima ex parte significati quia ide homo didus cft
Marcus et Cicero, tame diftinguuntur uocc icas
isb ffffi futc: ctu OOP*
uiJ' ipl> lo« Taa jnci
u$ yra (Tei. t& il* ra^
jsi» iC30 is. io» srt-
t& itio, Sa ? t<p , cof
jii UOC *f sive termino, qm duo fune
termini, Marcus et Cicero, ideo non funt
contradictoria formaliterfcd xquipolleter.
Aequipollenter quidem, qm idem indiuiduum intclligitur
pcrMar cum & Ciceronem, formaliter autem non,
qm logicus obseruat oppofitionem de virtute sermonis,
philosophus aute qui est artifex rcalis, dc
uirtute rei & fignificati. Vnde apud
phyficum ifta contradicunt. Materia prima est ens in poten tia.
Primum fubic Ctum non eft ens in
potentia. Pro eodem enim accipit materiam
primam & primum fubiectum. Secunda eft
q» duae propofitioncs contradictoriae refe- rantur
ad idem ut fecundum idem , & propter
huius defe- flum, illae no contradicunt, Ethiops estalb us
detes. Ethiops non eft albus pedes, non enim sit
praedicatio secundum eandem partem» Tertia est. Quod
teneatur fimilirer, ideo ifte dux non contradicunt,
nullum animal est genus, animal est genus. Nam In
negatiua stat animal pro suppofitis , in affirmatiua ftat
p natura communi. Sed id non intelliges donec
in traCta. suppositionum exercitatus fueris, ideo fuftine.
Quarta eft q* referantur ad idem tempus. Et defeCtu huius, iftx dux non
contradicunt, fortes uenit hodie, fortes no ucnit heri. Et aduerte q* omnes
iftx conditiones exprimuntur in diffinitione contradictionis, quae
extrahitur ex doctrina Ariftotelisprxcipuc in quarto metaphyficae, & eft
hxc. Contradictio eft affirmatio et negatio, id eft propofitio affirmatiua
& negatiua eiufdem prxdicari de eodem
subieCto, ad idem secundum idem, fimiliter & pro eodem
tempore Hxc de contradiCtoriis diCta fint. Oppofitio subcontraria eft inter
eas, quarum una eft particularis affirmatiua vel indefinita, altera autem est
particularis negatiua vel indefinita de eisdem prsrdicatis et subiectis
& copulis uniuocc acceptis, & eodem modo supponentibus.
Primo dicitur propofitio affirmatiua negatiua
particularesaut indefinitx, ut excludamus duas singulars. Nam
Illxfunt contradictorix secundum rem et significatum licec. Eiii
TRACTATVS tertivs non in figura, quoniam in figura uc declarabitur
tibi infra. oportet unam c(Tc uniuerfalem affirmativam vel negativan alteram
autc particularem affirmativam uel negativam ut patebit in figuris quas in ira
deferibemus. Quare autem duae singulares non sunt subcontrariae ratio est haec,
quia due subcontrariz poliunt ede fimul verae, ut quidam homo currit, quidam
homo non currit. Due autem singulares non poliunt ede simul uerae nec fimul
falfz, sed una vera et altera falsa in omni materia, uc fi hzc est vera fortes
non eft afinus, hzc neccesario est falsa Socrates est ansinus. Ergo sunt contradictori.
Secundo dr de cildcm subieftis &c. inrclligendum est eodem modo sicut
diftum eft in oppofitionc contraria. Tertio dicitur univoc e tentis,
defectu cuiu» iftz no fune subcontrariz. Quoddam sanum est
animal. Quoddam fa- num non est animal. Quarto dicitur eodem
modo supponentibus, dcfeftu cuius iftz, non sunt subcontrariz homo est speties,
homo non est species, nam in prima homo supponit pro natura communi, in secunda
pro natura partita in suppositis. Sic quide dicimus pro nunc. In
trac.autem fuppolitionum manifefta bimus quomodo
ifta non eft indefinita homo eft fpecies,
sed singularis, & ideo manifeftius tibi erit, <y no
sunt subcontra riz, non solum quia non supponit homo in prima et secunda eodem
modo, fed quoniam sunt singulares quas ncccdc est ut diximus c(Tc oppofitas
contradictori secundum rem et s significatum. Oppositio subalrerna
est inter eas, quarum una est vflis affirmariua et altera particularis aut
indefinita aut singularis affirmatiua. Vel una est viis negatiua et
altera est parti «auc inde. aut fingularis
negativa de cifdem fubie&is & przdicatis
8c copulis &c.ut diftum eft in
aliis oppofirionibus. Hic Htofunt declaranda,
primo quare dicuntur (iibalrer- ne,fecudo
quare du* singulares aftirmativa et negatiua fune
liibalternz & non fubcontrariz. Ad prim Utn
dicituny ideo uniuer falis affir.& particula-
ris affirma tiua dicuntur fubalternz-quia una fub
altera ponimr.i4particu.rub uniucrfali.Vndc uniucrfalis
fe habet, ut an$ particu ut pns. Nam
bene fcquitur.Omnis homo eft ani mal
ergo quidam homo eft animal, & homo eft
animal, 8t ifte homo cft animal, ut tibi
manifeftum erit in fuppofitioni bus. Non
autem fcquicur cconuerfo, quia ab inferiori
diftributiuc ad fuperius affir.non valet consequentia,
non enim iequitur, aliquis homo est stultus ergo omnis homo
esst tultus. Et aduerte ficut dicuntur
rubaltcrnae per rcfpedum suppositionibus, quem habet particulares
ad universales, fic dici pollent fuperaltcrnx, pcr relpe&um super
pofitionis, que habet uniuerfales ad particulares. Scd primis placuit fic
denominare ab*infcrioribus, quorum eft subiici et supponi superioribus. Ad
secundum dicitor q? ideo dux fingu.affir. &ncg.fune fubalternx
qm ficut ualet confequentia abuniuerfali affir,
uclnega. ad particu. & inde affir. & nega. fic
valet adfingu. Affir .& nega. Nam fi hxc
consequentia valet ols homo currit, ergo aliquis
homo, & homo currit, fic ualet, ergo ifte
& ifte currit, quoniam, ut declarabitur tibi
in trac. fuppofitio- num, signum univerfale affirmatiuum 8
(negatiuu diftribuit terminum immediate fcquentem & licet
dcfccndere ad fua singularia diuifiuc. Sed pro
nunc fuftine ne confundaris, do nec habebis
de luppofitionibus notitiam. Et ideo funt fubal ternx
ficut particu.& indcfi.Non autem sunt subcontrari
ratione iam difta, quoniam subcontraries contingitellc simul
veras, dux autem singularis negativa et affirmatiua, in omni materia ita fe
habent y fi una eft vera altera est falli, & non poliunt efie fimul
uerxnccTimul falfx, & ideo, ut dt ximus non fiint fubcontrarix cd
contradiflorix. Conftae Igitur tibi quo
propofitiones categoricx participantes utro que termino
& eodem ordine, conftituunt quatuor geifepa
oppofitionum.Et quoniam possunt formari in materia
natu rali & remota & cotingenti,idco
figurabimus tibi tres figu ras. Prima erit
de oppoficis in materia naturali, secunda
de oppofitisin marcria remota, tertia de
oppoficis in materia contingenti, ut patet infra. LOGICAE
compendium. Peripatetica ordinatum per Reuerendum Maglftrum Chiifoftornum
Iauellutn .anapicium ordimsprxdica, nunc tandem 8C d'U“°P“Pro' ditin lucem» A
Continet aute undecim tractatus uidelicet* Primus eft de prarcognofcendis.
Secundusde patribuspropofitionis. Terrius de propofirione. Quartus de quinque
uniuerfalibus. Quintus de praedicamentis. Sextus dc fyllogifrnis formalibus.
Seprimus de fuppofirionibus. c OcAta^unuKs ampliationibus& V’-> V
V^lArii* « ' * Jj; ii .I' d appdlationibusJ IN/onus dc conicquentiis. Dccirnus
dc probationibus terminorum. Vndeamusdefyllogifinodacmonfitrraarniuo,.in quo
quo continetur Ariftorelis dodrina in lib.pofter. QjiaE Gmma recenti hac noftra
editione uiligentifsime, expolita fiint, atque elaborata*Grice: “For all their
subtleties I lizii, or peripatetic logicians never cared about formulation.
Consider Javelli: the dog barks, anger is represented, ‘canis latrat
raepresentatur ira, gemitus infirums raepresentatur dolor. No care is taken to
represent the proper signification. It is still the ‘anima’ if the vegetative
one, it is still the dog’s spirit. If the dog barks, he means that he is angry.
If the infirm moans he means he is in pain, and so on.” Grice: “Javelli is one
of the most careful Italian philosophers. He had a fascination for two little
tracts by Aristotle towards which I also felt an attraction: De Interpretatione
and Categories. His comments on De Interpretatione are brilliant in that he
reduces all to ‘re-presentare’. The infirmus who groans or moans represents
‘dolor’. The dog that barks represents ‘anger’. These are ‘signs’ of the
natural kind – and rather than dark clouds meaning rain he is into ‘phone’ –
vox – here it is vox signifying that p or q naturaliter. (my example of
groaning of pain). From there he jumps to the institutional meaning, ad
placitum, ex decreto et authoritate – e consuetudine, -- a system which
superseds the previous one. Giovanni Crisostomo Javelli. Iavelli. Giavelli.
Javelli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Javelli” – The
Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753886743/in/dateposted-public/
Grice e Jerocades –
filosofia della massoneria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo. Grice:
“I would consider Jerocades more of a poet than a philosopher, but then he was
a priest and a Mason!” Essential Italian philosopher. Scrisse il saggio
“Dell'umano sapere”, di stampo illuministico, che verrà successivamente
pubblicato a Napoli, e “La partenza delle Muse”, edito na Messina. Si trasferì a Napoli. Dietro raccomandazione
di Genovesi, col quale era entrato in corrispondenza, venne assunto al
"Collegio Tuziano" di Sora come maestro d' “ideologia”. Frequenta gli
ambienti massonici. Secondo il clero sorano, tuttavia, quelle opere non si
attagliavano ai giovani del collegio, tant'è che prima della rappresentazione
di “Il ritorno di Ulisse” -- che conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di
stampo anticlericale, in particolare il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise
un editto di censura: ne seguì un processo per eresia e sedizione, con la
reclusione di Jerocades nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò
Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore. Fu
in Calabria: qui si dedicò alla composizione delle raccolte Quaresimale poetico
e La lira focense, testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a
Napoli. Fonda la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali
esponenti del giacobinismo e dell'antigiurisdizionalismo partenopeo (ovvero che
miravano a costituire una repubblica), cosa che determinò la sua incarcerazione
a Castel dell'Ovo e il processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà,
avendo deciso di ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una
siffatta scelta, sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in
seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono
nuovamente il carcere, e quindi l'esilio a Marsiglia. Ritornato a Napoli razie all'amnistia
prevista dalla pace di Firenze compose l'elogio di suo padre e di suo fratello,
motivo che indusse a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini di Tropea. Saggi:
“Esercizii spirituali in compendio ossia il filosofo in solitudine” Napoli); “Il
Paolo, o sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso Giuseppe Maria Porcelli,
Inni di Orfeo esposti in versi volgari, Napoli, La gigantomachia, ovvero La
disfatta de' giganti, Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da Gennaro Fonzo,
strada Forcella, Olinto e Sofronia, dedic. Orazione per l'apertura della Scuola
di Economia e Commercio, Napoli, Orazione recitata ne' funerali solenni di
Marcello Accorinti morto in Messina nel terremoto. Napoli, Fedro, “Esopo alla
moda, ovvero delle favole di Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli: Porsile, Orazio);
“Le odi di Orazi esposte in versi volgari” (Napoli); “Le odi di Pindaro
tradotte ed esposte in versi volgari” (Napoli: Russo); Biografia degli uomini
illustri del regno di Napoli, D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B. Croce, La rivoluzione
napoletana Biografie, storie, racconti, Laterza, Bari L. Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in
Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, Sora, A.
Piromalli, Illuminismo massonico, La letteratura calabrese, I, Pellegrino editore, Cosenza, B. Croce, D.
Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e reazione, in A. Cestaro A. Lerra,
Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il Decennio francese, Atti
del Convegno, Maratea, I, Venosa, B. Croce, La rivoluzione napoletana, Biografie,
Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano sapere, D. Scafoglio, Vibo
Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese,A. Jerocades, La lira focenseː un
abate poeta in loggia, A. Piromalli e G. Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1.
T) Indaro , figliuolo di Diifanto,e di Mirto, J» nacque in Tebe , città
capitale della Beozia. Mono il padre , eh’ era sonator di tibie , la ma- dre ,
eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino , e , quindi , dopo la morte di lui ,
sposò Pagonida , ambi professori di musica. Di qui è,ché al no- stro Poeta si
danno tre padri , de' quali due nel vero sono patrigni . Or questa sua sorte
fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e morì tra le Muse, le quali a
quel t&mpo erano e ric- che, e nobili ,ed onorate. I suoi primi studj fu-
rono la musica, e la poesia, che apprese da Laso Ermìoneo, e che peifezionò
sotto Simonide , ed Eschilo i quali' fiorivano in quella età. Indi , , dato
l'animo allo studio delle scienze, seguì la , tutta la sua v»ta al modello della
pietà . Tra gii altri numi venerava spezialmente Pane, Rea, e Febo e siccome la
sua casetta era vicina al tempio ; , propagata per la Beozia , e non la scuola
Italica J mica ; onde fu scolare di Pittagora , e non di Talete. La sua
dottrina dunque divenne sacra, e tnis ica in modo , che pieno di queste idee,
formò di Rea , egli era o uno de' sacerdoti , o almeno il compagno e il
partecipe de' sacri misteri. , a. La sua dotta e saggia pietà fu P ornaménto,
e'1 retaggio della sua industre e faticosa famiglia. Imperciocché , ricevuti da
Timossena , sua consor- te , un maschio , chiamato Diofanto', e due fem- mine,
per nome Protomache , e Polimeri trasfu- , se col sangue la sua virtù per modo
ne’ figli che gli mandava il giorno e la notte al tempio dej padre, e della
madre de’ numi. La sua casetr A9 me • #- , § Digitized by Google a
medesima era un tempietto dtvoto, in cui con vi- cenda soave si passava dai
coro alla mensa , e dalla cetra atta tazza , cioè dal travaglio al riposo, e
dal - ripeso al travaglio. Non senza ragione gli Spartani prima, e qnndi i
Macedoni, liberarono dall'in- cendio comune l'albergo di lui riguardato qual ,,
saero asilo delle Muse , e di Febo . Di fatti la faina di Pindaro era sparsa
per tutta la Grecia , e al di là della Europa; già che Serse nella sua famosa
spedizione n' ebbe ancor del rispetto , co- me dipoi n’ ebbe Alessandro gloria
del re della Persia» 3. Or qual si fu la vita civile di Pindaro? Ap* plicato
alla poesia , e alla musica , non cantava , che numi , ed eroi . L'antichità
vide e lodò i suoi carmi , Inni , Ditirambi , Treni , Peani , ed altri Lirici,e
Melici componimenti, rapportati da Sm- ela , che non vinsero la forza vorace
dell' igno- ranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali so- lo si mostrano
alcuni frammenti, da Stefano va- riamente, e con diligenza raccolti , Restano
dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj , Pizj , Ne- mei , ed
istmici , de' quali Aristofane . grammatico di gran nome , ne fece una raccolta
, ordinata a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi , che tra
le opere di Esiodo si è serbata la Teogonia , e si è perduta 1’ Erogonia ; ma
tra quellf di Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi , e gl*
Inni degli Dei si sono perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del nostro
Poeta, siccome le guerre, e i viaggi fanno la vita d’A- chille^ d' Uhsse. Ma
benché Pindaro per forma- re i suoi carmi divini dovea menar i giorni nella
pace , nel silenzio , e nell’ozio, e vivere con se stesso , col mondo , e co’
numi ; non potea di- spensarsi dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci- ,1
, quasi emulando la Dìgitized by Google 5 pi del suo tempo, e dal
conoscimento di varj po- poli , e di varj costumi senza i quali so'corsi ; non
si può essere, nè si può fare il Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e quanto il
mediterra- neo (eh* eia il viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide Coma ,
Siracusa , e Cirene , e familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza trattò
nelle Corti. , Nelle giostre festive fu più volte e spettatore, e spettacolo ,
e sceso al paragone con Corinna , pian- se la v.irtù della Musa vinta dalla
beltà del- la Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore visse la
sua vita dividendo le ore fra , lo s'adio,ei! teatro, le due scuole dell’antica
vir- tù : e così finalmente morì , cadendo nelle brac- cia di Teosseno
giovanetto di Tenedo, dopo , avere ascoltato con sommo piacere una festa
teatra- le, ed armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp.36. di anni
84.,bìochè altri narrino altri- menti e la vita, e la morte di lui. La vita de*
saggi , sempre disputata , non è il corso di peri- gliose avventure gravi di
speciosi e nobili avve- 1 nimenti. Ella si legge ne loro libri , e tutti i qua-
dri d’ un Poeta formano il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede
a’ suoi carmi di qua- , dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagi- ne ,
simulacro , o per la varia sorte de’ versi Li- tici ; o perchè tal è la poesia,
cioè pittura, e ri- tratto o perchè siccome ad ogni vincitore si al- $, zava
una statua col nome dell'eroe, della pa- tria, e del giuoco $ e’ gliene voleva
alzar un’altra di versi , di quella più perenne ed eterna . E' fece u- so del
dialetto Dorico che più confassi con lo sti- , le sublime. Ma quello, che più
distingue Pinda- ro dag i altri Poeti si è P uso smoderato degli , Episodj
imitato non sempre felicemente , da ,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à
Lirico-tragico, A3 e tal % e tal volta Lirico-comico; imperciocché ,
siccome in Omero ci ha favole, e favolette , co>l in Pindaro ci ha canzoni,
e canzonette. Per questa ragione nel tradurle , ed esporle si è tenuta una
maniera diversa, secondo che oggi è fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è
in pregio solamente la poe- sia , e la musica Lirica , e questa è o tragica
detta altrimenti Pindarica , e Alcaica ; o comica , altrimenti detta
Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce l'uno e l’altro stile Lirico ,
onde so- no i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma l’Epica, e la
Drammatica , tanto tragica quanto , comica , è poesia disgiunta oggidì dalla
musica , ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del seco- li . Ecco la
ragione, onde ho tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all' uso del Guidi ; e
tal volta , ma di raro , all’ uso delle cantate da sce- na. Nèmisi parlidistrofe,
d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni , e quinternioni ,j che oggi
sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le usanze antiche , si ha
dato una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col prezzo di tante gloriose
fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari , e Gauter ? E pochi sono , che
apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno errato per necessità di
consiglio . Or la- sciando a tutti e traduttori , e cementatori di Pindaro la
gloria immortale del nome; io ho ardito d’ incominciare ad uso mio questo
faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a mio mo- do. Se questa è una
lode , io la confesso ; poiché mi è grato un onore, che mi venga dal merito.
Sog- giungo ancora d'aver letta, a quest’ uopo , Plutar- co , Eliano , Pausania
, Clemente , Stobeo , Euse- bio Quintiliano, Orazio, fra gli antichi ; Suida, ,
GiraJdi , Motóri , ">• Baile , Fabbiicio , Schmid io , A\ Be, , 6
Digitized by Google 1 Pindaro, il quale, quando è gustato, è conosciu- to
• |o confesso ancora di aver vinto la causa , di cui la questione si fu: Se
gl’inni Cristiani so- no da più , o da meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi,
son già molti anni passati, che sono da più ; e per dimostrarne l'assunto col
fatto, tra- dussi ed esposi gl’inni Cristiani , e gl'inni Paga- ni, e lasciai
la causa alla fede, e alla ragione de* - giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e
di altri e ,, quindi le Odi d’ Orazio, non restavano, che gli Inni di Pindaro
al compimento dell’opera. Ecco la iuta fede legata già sciolta. Chi legge , se
ha sénno vegga e conosca la 4; ,, verità . A non voler dir altro , basta il
dire che , negl'inni Pagani o manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è la
virtù., E se dicesi, che ap- presso i Pagani tal era la persona reale , e tale
il soggetto dell* inno; io dico che cangiate le idee, , dubbiamo venerare le
nostre. Ma le Liturgie, per una sorte comune sono ignorate da chi le , adora, e
conosciute da chi le disprezza. Quindi è , che questa causa spetta al giudi ciò
de’ posteri come accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poe- ta. Nel resto non
può negarsi, essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra
età, in cui quel che si legge, si vede, e quel che si vede , s’ intende . Per
me m’inebbrio di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare
un inno Pagano , sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di
dolce pietà. £ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campio- ni» -gli atleti r ,
gli atlanti, gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f , e Ja lotta, sono le
virtù del- Benedetti, Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di
averne tratto profitto ma , di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso
.*** A4 . la , ; , , Digitized by Google la Chiesa . Si legga
solo F inno di Venanzio gio- , vanetto, e santo deli’ Umbria, e si vegga, quai
sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti Pindaro vi sono le più
belle sentenze e mo- , lali, e politiche che il suo stile spesso è orien- ;
tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e di Ossian; ma
queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’ nostri sono e
profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su i Giuochi, che formano F
argomento dell’ opera • I Giuochi , dette ancora feste giostre certami agojii ,
con- (,,, trasti ) erano o ginnici , o musici . I musici eran prode del conto,
del suono, della poesia, della storia, e della eloquenza; e tal volta erano
dispu- te circolari da scuoia. Questi si davano d' ordina- rio neU’Odèo, nel
Musèo, nel Licèo, nel Tea- trone di rado assai nello Stadio, infra il romor
delia turba, il vincitore avea la corona, la sta- tua, e il soldo pubblico,e
forse Finno della vit- toria. Mi questi giuochi non eran molto famosi. I
Giuochi ginnici erano o sacri , o profani . £ profanieranolascherma,ei!
bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’ rei., I sacri &
solenni eran cinque, la corsa , la lotta, la pugna , la danza , la palla ,
detti in generale Pentatlo da' Greci , da* Latini Qoinquerzio , e tal volta
Pan- crazio , benché il Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la lotta*
La corsa era a piedi, a nudo', o armato a cavallo , o frenato , o senza ; freno
; e col carro , tirato da due.> o da quattro cavalli £ Il premio della
,virtù eia kt stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro , d’ apio ,
di rame , o di ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un
inno di lode, ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria* 11
Digitized by , 1 luogo di questi Giuochi era lo Stadio , in tre
par-* t» diviso, e distinto con tre colonnette. Vi prese* devanoi
pubblicimagistrati cometestimoni egiu- ,, dici delle contese. Tali feste,
instituite da Ercole, da Pelope , da Enomao da Ifito e p;ù volte tralasciare ,
e più volte riprese si celebravano , nel principio d' ogni cinque anni piade
non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli antichi Romani. Questa
città, eh’ è stata sempre la madre degl randó altre insegne e divise , onde
vivano ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi fra * morti , e mprti fra
i vivi , passano in pace la vira e fanno il lor nome risonare nel silenzio ,
della virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano Ancora Napoletano
giovane d’ alti ta- ,, lenti , e di aurei costumi . E’ rubando agli alti ,
affari politici, e al vigor giovanile, e alle ombre notturne poche ore del
tempo le consacra a quel ,, profondo studio , che da' primi anni coltivò , d*
una maschia e robusta Letteratura, Ebrea Greca, , e Latina , e va di quando in
quando esponendo una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro delia età
vetusta si serba come un sacro depost- , ,, <5.
Molte,evarienotiziesisonodamericavate 11 da Pausania , da Natale de Conti , e
da saggi scrittori delle Greche antichità , Ma disperando di poterne qui dare
un Saggio compiuto che ser- , visse di scorta alla legione di Pindaro, ho
prega- to il mio doke amico, e maestro Gaetano Anco- ra y il quale, tra le
gravi cure della Corte, cori va . con applauso universale i più severi studj
della Letteratura, oggimai quasi moribonda e spirante.- 1 ingegni , e la scuola
di tutte le Muse non ar- , 1 disce più di onorare il nome de suoi gran figli
col titolo di saggi e di dotti e va lor proccu- ,, , onde T Olim- JO to
della umani , e divina ragione . Quindi la Re- pubblica delle lettere gode di
tante dissertazioni dilui, chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento , e che
raccolte si daranno a. suo tem- po al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente
al- , le mie premurose preghiere, ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di
Grecia, il quale, stampa- to alla fine del libro la erudizione comune , ,
pagina 227. , serve al- e al rischiaramento delle ©ni di Pindaro. Perciò son io
contento delle mie fatiche , le quali con questo lume compariranno , come spero
, meno oscure , e meno importune $ e la Musa Dircèa sarà più sacra, e più
venerata. A vero dire non deve un Poeta ri sublime , e sì sacro , come colui ,
che canta da eroe le virtù degli eroi giacersi nell' ingrato obblìo d' una fa-
, cile indifferenza , o d' una criminosa ignoranza? eseiohofattosì, cheil
suonomesiatranoi p ù conosciuto , ed imitato almeno nelle sentenze, * se non si
può-nello stile, ^Sublimi feriam sidera Tropea. Palazzo Sant'Anna.
odierna sede del Municipio ed ex Collegio dei Gesuiti L'ULTIMA
PRIGIONIA DI ANTONIO JEROCADES di Pasquale Russo
PREMESSA L'abate Jerocades visse da cristiano inquieto una esistenza
drammatica. Pur affascinato dalle idee di libertà di cui si è fatto assertore e
promotore, non smise mai di produrre opere di natura religiosa e devozionale,
anche pervase di amore e tenerezza, soprattutto verso la Vergine Maria. E' un
ecclesiastico che non sovrappone il livello della politica a quello della fede,
ma tenta piuttosto un equilibrio che apparirà fortemente precario e non
convincerà nè il potere politico nè il potere religioso. Dall'una e dall'altra
parte fu perseguitato per tutta la vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede
cristiana, nè resistette fermamente al tiranno fino alla morte.
Quest'uomo che le istituzioni hanno più volte punito secondo i loro statuti con
il carcere e con l'esilio fu un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al
martirio. Io mi fermerò a considerare l'ultima prigionia dell'abate
Jerocades. Fu la conclusione di una vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel collegio
dei Padri Redentoristi, il 19 novembre 1803, non si chiudeva solamente una
vita, si spegneva il tentativo di conciliazione di un credente massone e
giacobino con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA L'abate Jerocades non
aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta
nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una tuonante
avversione al mondo clericale. Il terremoto del Capo, questa operetta
indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti fossero i
suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola per
colpire, offendere, insultare. La parola fu la grande arma che Jerocades
usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi lo
contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici. Dotato di grande
facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle
stampe i suoi scritti senza rileggerli. L'ultima prigionia a Tropea,
nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma
l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie
religiose e politiche: penso a Gioacchino da Fiore, a Tommaso Campanella,
profeti perseguitati per i loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente
diverso, ma con un'ansia di fondo che ha una matrice comune nella natura
rivoluzionaria del cristianesimo. Credo sia opportuna una riflessione
sulla condizione ecclesiastica di Antonio Jerocades e sulla sua formazione,
perchè ci consente di cogliere elementi di approfondimento in lui come anche
nelle figure più rilevanti del giansenismo, del protestantesimo, del
giacobinismo, della massoneria: tutti più o meno di provenienza culturale e
ambientale non solo cattolica, ma specificamente ecclesiastica (si pensi a
Salvi, Aracri, Serrao, Padula, Angherà, Nudi o altri meno noti). Il
valore culturale, etico, sociale di queste personalità e della loro opera in
Calabria e fuori, osserva Maria Mariotti, e stato messo in rilievo da studi
seri ed accurati, "che tuttavia non sempre superano del tutto la tendenza
ad interpretare illuministicamente l'aspetto contestativo soprattutto in chiave
di apertura alle novità, al progresso contro l'ignoranza, l'arretratezza, il
bigottismo degli am bienti ecclesiastici. Pare sia più maturo un ripensamento,
almeno su alcune complesse personalità: anche per capire meglio il dramma
umano, religioso, morale di questi uomini, spesso condizionati dal disagio di
una vocazione non autentica, talora esasperati da situazioni realmente
invivibili; e per cogliere, al di qua dell'asprezza delle manifestazioni, la
radice autenticamente cristiana e cattolica di certe esigenze e critiche, nello
spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di
Ludovico Antonio Muratori sulla Regolata devozione dei cristiani, di Antonio
Rosmini su Le cinque piaghe della chiesa." Penso che, leggendo
l'ancora inedita Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio
nell'Università di Napoli, detta da Antonio Jerocades, questa riflessione si
riveli quanto mai opportuna. Egli, rievocando gli anni della giovinezza,
ricorda: "... Nato in un ignoto villaggio dell'estrema Calabria da parenti
oscurissimi, applicati alla pesca, alla navigazione, al commercio, respirai le
prime aure di vita, tra i remi e le reti, nè mi sentia fremer d'intorno di
altro il linguaggio che del dolore, dell'opera, della fatica, i tre compagni
primieri de' dolenti, operosi e travagliati mortali, nè di altre immagini la
mia mente bambina poteva ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà
bisognosa... piacque a mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà
cominciai pur io, e ben per tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni,
imparando, ed insegnando ogni giorno le Christiane dottrine... Chiuso il
Seminario vidi e conobbi i primi elementi dell'umano e divino sapere, e mosso
dalla fama del Martorelli e del Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due
valenti e in filologia e in filosofia, e con essi loro mi strinsi in familiare
e soave amicizia." E' altrettanto importante annotare che la
preoccupazione per il seminario rappresenta per i vescovi calabresi nella
seconda metà del '700 la volenterosa disponibilità di attuare una delle poche
veramente innovative prescrizioni tridentine. Ma in realtà molti seminari furono
semplici convitti, che potevano influire su una percentuale ristretta del
clero, in quanto spesso surrogavano i collegi per i laici, mentre i chierici in
genere erano formati con un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci
di campagna. Una circolare del 3.XI.1802 per la diocesi di Tropea ritiene
validi 10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione sacerdotale di
coloro che erano stati presentati dai parroci. Si trattava di una preparazione
intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva dai seminari
invece si qualificò più per gli aspetti culturali che per quelli
pastorali. Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava soltanto una
carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il notabile,
circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto nella linea
delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di ogni quadro
pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i
commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti. I sinodi
sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti ideali,
dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli
spettacoli, al cicisbeismo. Del resto va notato che il Concilio di Trento
aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i candidati agli ordini ad
entrarvi. La cura animarum suprema lex era molto disattesa, pur essendo
un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto come capisaldi della
vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi
nel '700 diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato
di Ibanez nel 1702: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del
settecento e fino al vescovo Vaccari nel 1883. La preoccupazione per il
seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi ossessiva in un vescovo
latitante come Gerardo Gregorio Mele nella corrispondenza col suo vicario don
A. Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima della
sua unione con Nicotera nel 1818. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni
che hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il
solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato
morì a Tropea Antonio Jerocades. Sugli anni compresi tra il 1799 e il
1803 sembra prevalere un grande silenzio su Jerocades nei documenti vescovili o
comunque tropeani. Mentre il Martuscelli, primo biografo del Jerocades,
ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo periodo di vita
dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria, vol. III, p. 181 e
ss, Cosenza, 1877), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono
molto scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia
della santa chiesa tropeana, Napoli, 1852; Michele Paladini, Notizie storiche
sulla città di Tropea, Catania 1930 - ed. anastatica a cura di S. Di Bella).
Quasi irreperibili nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia
interdetti è la mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi
contemporanei o quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o
Melograni... Gli archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli
privati, sono molto avari di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è
assente il suo nome, se si eccettua un documento di dispensa dall'età canonica
per l'ordinazione sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia
nelle visite pastorali: 20.03.1784 - Visita Paù: nell'elenco dei preti di
Parghelia manca Jerocades; 17.03.1794 - Visita Monteforte: adsunt extra
patriam... D. A. Jerocadi; 09.09.1795 - Visita Monforte: absens...: A.
Jerocadi; 05.05.1799 - Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens.
Negli archivi privati si è trovata qualche piccola traccia del suo passaggio
nell'archivio Meligrana di Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata
Monteleone 8 Nov. 1837 a Don Giuseppe Meligrana ricorda che "le cose di
Jerocades [per lui trascritte] non sono che ordinarissime composizioni, ma di
un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più avanti ricorda ancora
di aver avuto in regalo dal nipote di Jerocades (Raffaele) "un autografo
in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia, attraverso don G.
Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di Jerocades, che dice di
conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.). L'archivio più
fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale
risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani
Sava nel 1977, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo
bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco
Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E. Meridionale,
1981, pp. 635-713). Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che
corrisponde agli ultimi anni di vita di Jerocades sta ad indicare la sua
emarginazione, dovuta a una avversione profonda, soprattutto da parte del clero
tropeano, che, nel Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di
gravi accuse di immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le
idee giacobine dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o
che, come dice Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea,
in molti avevano dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli
accademici degli Affaticati. Jerocades viene ignorato, sia perchè è scomodo,
sia perchè è ostile e pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la
parola come arma che ha colpito duramente. Forse non e esagerato pensare
che si aspettava il momento giusto per presentargli il conto. LA
SOLITUDINE DELLA MORTE Il Martuscelli racconta con dovizia di particolari
gli ultimi anni della vita di Antonio Jerocades e la sua morte. "Nel 1799
fu mandato in Francia", egli scrive: in realtà, più precisamente, fu
esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli erano stati uccisi. Il
Jerocades figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti del 1799 e,
nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una
descrizione fisica dell'abate. A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione
funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di
Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si
ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia il 4
Novembre 1801. Dopo dieci mesi (settembre 1802) "fu mandato nella casa del
PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò fu per correggerlo di quanto avea
scritto nell'elogio funebre di suo fratello Vincenzo", denunziato da
Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella detta orazione aveva parlato
male del cardinale Ruffo. L'ordine era di tenerlo segregato. E all'inizio
l'abate "viveva nella quiete", scrive il Paladini, che fu testimone
oculare della sua prigionia; il quale aggiunge che, cominciando (il Jerocades)
al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei religiosi". In
realtà la situazione appare più complessa, come risulta dalla lettera del P.
Giacomo Migliaccio, successore del Pappaona, inviata al vescovo Gerardo
Gregorio Mele il 3 agosto 1803, e conservata a Tropea nell'archivio Toraldo Di
Francia: Ecc. Rev.ma con ven.ta carta del dì 21 del passato giugno
V. E. Rev.ma partecipò al mio antecessore che il sig. Preside della Provincia,
col parere del sig. Av.to F.te D. Luigi Calenda le avea scritto che il
superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità,
potrà far uscire a camminare il sac. D. Antonio Jerocadi di Reale ordine qui
detenuto, in compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio
antecessore subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che
avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo
nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa
Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era
mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e
vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un
poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un
par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o
il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una noia
uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è poco.
I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire, nè
trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un
obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i
medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo,
ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del
superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi.
Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della
propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore
passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano
nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni
successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni
trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che
non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia
degl'individui di casa. All'incontro il Jerocadi fa delle premure presso di me,
rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara
decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se
il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli
della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti
a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto
all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna
benedizione. Collegio di Tropea 3 Agosto 1803 U.mo e obblg.mo
servitor vero e suddito Giacomo Migliaccio del S.mo Red.re Di
V.E.Rev.ma Mons. Mele Vescovo di Tropea "In quel soggiorno -
scrive ancora il Martuscelli - molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno
scrisse molte cantate, sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi,
tradusse il salterio. Finalmente logoro dai disagi e dalla improba applicazione
allo studio munito dei santi sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima
a Dio... Da colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella
sepoltura dei sacerdoti". Muore il 19 Nov. 1803 e non il 18 nov.
1805 come scrive il Martuscelli e dopo di lui tutti gli studiosi di
Jerocades. L'atto di morte si conserva nel registro della parrocchia di
S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della parrocchia di
Parghelia. Li riporto entrambi, oltre che per precisare e definire la
data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle
differenze: Anno 1803 - Parghelia - Parrocchia di S. Andrea
Apostolo Atto di morte Rev. Sacerdos D. Antonius Jerocades, annum
sextum ac sexagesimum cum attigisset, sacramentis opportunis rite munitus, die
decima nona dicti novembris obiit Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris;
cuius cadaver in hoc casale delatum in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae
Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum fuit. A. arch. Taccone
TROPEA - Parrocchia di S. Demetrio - Anno 1803 Atto di morte
Sacerdos Antonius Jerocades casalis Pargheliae hujus Diocesis utriusque juris
atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in Universitate Neapolis,
sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis poenitentiae et
Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit, eiusque cadaver
in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum fuit.
Franciscus Antonius Grillo Vito Capialbi, precisando che Jerocades fu
sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche vicissitudini,
involuto nelle tristissime vicende dal 1793 al 1799, e fino al 1802 andonne
ramingo in Francia, ed in altri Regni d'Europa; e già era rientrato nella
patria in seguito del trattato di Firenze del 1802. Finalmente, stando nella
casa de' PP del SS. Redentore di Tropea, morissi ai 18 novembre
1805". Per concludere che "più copiose notizie di questo vasto,
e stravagante ingegno si riferiranno nelle nostre Centurie degli scrittori
calabresi". Di questo periodo della vita esausta dell'abate
Jerocades sono state dette certamente delle esagerazioni (il tetro carcere - la
cella - le punizioni - le torture... il veleno - cfr Didier), non suffragate da
alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e dicerie, ma tante altre cose
sono state taciute. Stupisce però che il vescovo Mele, nella visita ad
limina del 1804, presenti una visione idilliaca del clero e della diocesi,
mentre nella visita pastorale del 1808 e in altri documenti conservati
nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e
l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota
abbiamo potuto rintracciare relativa al caso Jerocades, tranne tracce indirette
nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo
Mele... Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero
possa essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere il
P. Giuseppe Orlandi, storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum
CSSR-A.XLII.1994.FI "I Redentoristi napoletani tra ricoluzione e
restaurazione" dedica pagine interessanti all'abate Jerocades. Era
comune che le autorità inviassero dei condannati al soggiorno abbligato a
scontare la loro pena in qualcuna delle case della Congregazione. "Per
quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava di un compito assegnatogli dal
dispaccio regio del 22 marzo 1790: 'Qualora i vescovi diocesani o vicini
per correzione volessero mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi
spirituali nelle loro case, dovranno sempre riceverli, con esigere anche per
compensare del loro incommodo quell'oblazione che non venga eccedere il tarino
al giorno, pel tempo della dimora che da quei preti o chierici si sia fatta
presso di loro' "". L'ordine reale veniva poi eseguito dai
vescoli. Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di
sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era
sempre immune da rischi, come nel caso Jerocades." Nella lettera del
P. Migliaccio si afferma con forza: " Il superiore passato non dovea pure
firmare quell'obbligo, ch'egli non era fatto castellano, o
carceriero". Il Padre Giuseppe Orlandi, storico dei Redentoristi,
riporta un passo di Giuseppe Capasso (Un abate massone del secolo XVIII, Parma,
1884). "Che in questa nuova relegazione il Jerocades abbia
continuato a mostrarsi secondo i casi massone e rivoluzionario, si può
facilmente ammettere, anche perchè è certo che non cessò mai dallo scrivere ed
improvvisare al modo antico. Ma l'esilio, quantunque raddolcito dalle cure di
chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo cervello, di già a bastanza
indebolito". Naturalmente, se a Jerocades era sgradito soggiornare a
Tropea, ai Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare: "Durava
da un anno quello stato di cose, quando il Ierocades ottenne di poter
passeggiare fuori clausura, accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il
giorno in cui cominciava a fruire di tale concessione, intavolato col compagno
una discussione di teologia, non essendo contento delle risposte dell'altro,
passò dagli argomenti alle impertinenze, e poi "usando dell'estro
poetico", sepellì il frate sotto una valanga di contumelie. Ricorse
perfino al bastone, e buon per il frate che riuscì a scansarlo". La lettera
del padre Migliaccio sopra riportata conferma quanto scrive il Capasso.
Il padre Orlandi conclude che "invano i Redentoristi ricorsero
ripetutamente alla corte per essere liberati dalla sgradita presenza di
Jerocades che rimase a Tropea fino alla morte". Il teologo Raffaele
Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un giudizio fortemente
negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del vescovo Monforte] D.
Antonio Jerocades di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti e
cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa;
volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi
sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta,
la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte
di Jerocades: "Morì ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio
Jerocades. Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio dopo
il 1799, fu denunziato da Giuseppe Costanzo, da Parghelia quale autore di autore
di una orazione funebre di un suo fratello, dove parlava male del Cardinale
Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal Ministro Pirrotta tra
i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il rettore Pappaona. Ivi
sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al suo solito a satirizzare,
perdé la confidenza de' religiosi. Caduto infine in delirio malinconico,
e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre membri del Capitolo, cioè
l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e il Teologo Paladini a ricevere la
sua professione di fede. Egli, invitato a ciò, diè segno di approvazione,
come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a
sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed
n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il
padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli
altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo
disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in
retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con
pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre
il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito
poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in
Parghelia." Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le
preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e
quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva
fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo. Sul versante
laico il racconto di Charles Didier (1805-1864) in L'Italie pittoresque,
Pigoreau, Paris, 1835, appare assai ricco di anticlericalismo e di spirito
romantico: Jerocades, autore della Lira focense "fu crudelmente
perseguitato. Relagato nella sua città natale nel 1815 (sic!), ebbe per
prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e
giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei
Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono
con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi
non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui
che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei
bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella
prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del
martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un
solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana. La terra sia
loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!" La fonte
del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di
creare i martiri. Questo spiega anche la data errata del 1815 e il riferimento
alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a
Parghelia. Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza nel 1812,
Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle
calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette
farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la
malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa
di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano
che l'oprimeva chiuse i suoi giorni". A parte i comprensibili toni
romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi
giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà.
Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non
trovava più motivi al suo canto. La sua voce, un tempo bellissima e ammirata,
adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi senza
rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo colse
dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha trovato un
uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha trovato l'ultimo
motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del cuore. UN
DIGNITOSO CONGEDO Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella sua
inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori, non soccorse
l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale apparteneva.
Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che
formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una
spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai
abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di
fiducia. O Regina, il Ciel ti salvi. Di Dio madre, e sposa, e
figlia, Volgi, ah volgi a noi le ciglia, Bella madre di
pietà. Mostra vita, e nostro bene, Nostra speme, e nostro
amore, Volgi a noi quel tuo bel core, Ch'è la stessa carità.
Figli di Eva, abbandonati, Dell'esiglio a' lunghi affanni, Dal
furor dei rei tiranni Chi ci salvi, oh Dio! non c'è. Senti il
grido, ascolta il pianto Di chi giace in ree catene, Bella Madre,
in tante pene Ci volgiamo afflitti a te. Dunque o nostra
Protettrice, Volgi a noi quel tuo bel ciglio; Mostra a noi quel tuo
bel figlio, Quando ha fine il lungo error. Tu sei madre assai
pietosa, Bella Vergine Maria; Tu sei dolce, e tu sei pia,
Tutta pace, e tutta amor. E mi appare persino commovente la
Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo
nipote, figlio del fratello Vincenzo: "Nel Castello dell'Ovo, villa
un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio
e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle
nie cure e delle mie preci che la Madre di Dio. Serbando fede alla patria,
l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo conveniva
ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle battaglie
si cerca un asilo, impaziente di altra dimora: "Ch'io son vivo al
desir, morto alla spema". Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto
questa Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual
debito. Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei
miei talenti. Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta
anche a voi quando non disdegnaste di dirvi mio nipote". A me
quest'ultima frase appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è
dell'altro che Antonio Jerocades dice ancora come credente e come
sacerdote: "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io, che
vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo donarvi
della religione e fede di Cristo? A te, Raffaele, e all'eredità del padre
e dell'avo aggiungerete la mia. A te, e nella Chiesa di Porto Salvo fra i
suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora s'è degna
questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da noi venerata
sotto il nome di Madonna di Porto Salvo". Il senso di verecondia che
traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo, di un
credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita tormentata fa
un bilancio coraggioso e definitivo? "Dopo Dio non ho altro obietto
delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio"
Antonio
Jerocades. Jerocades. Keywords: filosofia della massoneria, Esopo in Italia,
lira focense, giaccobinismo, ‘repubblica
romana” “repubblica partenopea”le odi di pindaro – Grice on Plato’s Republic. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754276139/in/dateposted-public/
Grice e Jervolino –
ermeneutica del dialogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo. Grice: “I like Jervolino, but then I like any
philosopher of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential
Italian philosopher. Allievo di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con
diverse riviste specialistiche di filosofia (Filosofia e Teologia, Studium).
Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur, tra cui:
la ricerca di un filo conduttore unitario all'interno della sterminata
ermeneutica (“Il cogito e l'ermeneutica: La questione del soggetto e la
inte-azione” (Procaccini, Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato
e auto-trasparente. Ricoeur appare nei
suoi studi come caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito
che, ferito e spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso
attraverso un lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della trans-ductio,
trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla co-ospitalità
conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre saggi:“Il
cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui interazione” (Procaccini,
Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena, Napoli) – cfr. H. P. Grice,
“Absolutes” --; “Logica del concreto,
logica dell’astratto” -- “Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel,
Piovani, Morano, Napoli); “L'amore” (Studium, Roma); “Il segno della prassi.
Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura”
(Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica ed implicatura” (Guerini, Milano); La
traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana, Brescia, “Etica e morale,
Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli, Milano); Quei ragazzi di nome Fausto Bertinotti Boys – Archivio
Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino. You see, Calvino, a rather
unimaginative writer, wrote a collection of things he titled, in the whole
thing and in the first part, “Glia mori difficili” – People would have
forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who brilliantly played the
‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’, sic in the singular but
indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective film. Jervolino is
having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and himself as the
soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which he stupidly
agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the stupidity of
seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin – who could
have checked with the etymology of ‘difficilis’!” Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords:
ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two
cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”.
“Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753615386/in/dateposted-public/
Grice e Jommelli –
musicista filosofo – filosofia italiana – muovere l’aria – l’azione
melodrammatica -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo. Essential Italian philosopher. Mattei riporta il seguente
aneddoto sul suo soggiorno in questa città. Andato in visita a Martini (già
considerato come uno dei più sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a
lui come allievo, chiedendo di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede
un soggetto di fuga che egli trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese
Martini, «volete burlarvi di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il
mio nome è Jommelli, sono io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro
di questa città» - «È un grande onore per questo teatro avere un musicista
filosofo come voi, ma vi auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia
corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like Jommelli. Like Speranza, I play
the piano. My avant-garde compositions are thought to be too avant-garde, too.
I especially recall with affection how I would trio with my father on the
violin and my younger brother Dereck on the cello. Dereck became a professional
cellist with Hampshire. My obituary might well read, “Professional philosopher
and amateur cricketer” – well, Dereck is a professional cellist. With Jommelli
we never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco
Affektenlehre) può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco
Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli
affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione che la musica potesse
suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti
dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime
cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità
civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere della musica sulla
psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi propagandistici.
Durante il '400 Marsilio Ficinoapprezzava di più le forme semplici e
comunicative rispetto alla polifonia poiché la prima era maggiormente capace di
muovere gli affetti, suscitare o placare le passioni umane rispetto alla
seconda, che era vista come artificiosa e innaturale. Dello stesso parere era
Vincenzo Galilei, che preferiva la musica greca per le sue capacità
affettive. Tra il '500 ed il '600 la teoria musicale identificava ogni
affetto con un diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia)
identificati da specifiche figure musicali definite figurae o licentiae (licenze).
La loro particolarità era contraddistinta da anomalie nel contrappunto, negli
intervalli e nell'andamento armonico, appositamente inserite per suscitare una
particolare suggestione. Athanasius Kircher – gesuita matematico, musicologo ed
occultista tedesco – nel suo Musurgia universalis (1650) afferma: «La
retorica [...] ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo incita all'ira,
poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle passioni
violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta infine
l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo stesso
modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove l'animo con
vario esito.» (Athanasius Kircher, Musurgia universalis, Cap II, 1650)
Questo trattato, conosciuto durante tutto il secolo XVIII, fu stampato anche a
Roma nel 1650 e tradotto dal tedesco nel 1662. Tra le classificazioni e
distinzioni degli affetti umani compilate nel Seicento, è da menzionare quella
di Cartesio che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649, ne distingueva
sei ritenuti principali, quali meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia e
tristezza. Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi, ovvero Delle
imperfettioni della moderna musica (Venezia, 1600), attacca questa nuova forma
musicale che utilizzava intervalli "così assoluti et scoperti",
poiché trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio le dissonanze
non sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di un'altra).
Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica nell'Avvertimento
del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e devono essere viste
in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione musicale di Gioseffo
Zarlino. Già dal Libro Terzo di madrigali infatti Monteverdi con le dissonanze
intensifica e rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal testo.
Il Vologeso was written in 1766, using a wordy libretto by Mattia Verazi,
itself an extensive reworking of Apostolo Zeno's Lucio Vero (1700). The plot deals
with the constancy of love in the face of great obstacles, in this case the
love of Vologeso, king of the Parthians, and his wife Berenice. The Roman
general Lucio Vero has defeated and captured Vologeso, fallen in love with
Berenice, and spends most of Acts I and II seducing and bullying her into
abandoning her husband. When Lucilla, daughter of the Roman emperor and Lucio's
fiancee, turns up, she and the Roman emissary Flavio are disgusted by his
behavior; Flavio, assisted by Vologeso, leads a revolt that results in Lucio's
capitulation and the restoration of their freedom and their kingdom to Vologeso
and Berenice. The plot allows ample opportunity for dramatic movement and
spectacle, e.g., in Lucio's importunities and their rejection by Berenice, Vologeso's
confrontation with lions in an arena, and the revolt that ends the opera.
The music is conventional in its use of recitative followed by arias, but
forward-looking in that many of the recitatives in Acts II and II are
accompanied by the orchestra rather than the traditional basso continuo - the
arias are often in abbreviated da capo form so that they do not slow up the
action, and the chorus and orchestra play a more considerable part in the
proceedings than is usual in Baroque operas. Jommelli had no great gift for
melody and the opera offers few memorable tunes, but he had a talent for
brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The total effect is
imaginative, lively, and attractive. The casting is odd; with only one
male voice and five sopranos it's hard to tell the characters apart. Odinius,
Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are comfortable with
Baroque style and ornamentation and expressive in their characterizations.
Waschinski and Taylor are as good as most falsettists, though as usual their
uneven voice production and unfocused tones set my teeth on edge, and
Waschinski sounds much too feminine to make plausible the heroic figure of
Vologeso. (I really do not understand why conductors and producers nowadays insist
on using these voices in Baroque opera, a practice that has neither historical
nor aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber Orchestra is alert and
responsive, Frieder Bernius keeps everything moving along briskly, and the
sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too well compared to the
Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own terms and as presented
here, it is thoroughly enjoyable While Mozart may have claimed
Jommelli’s musical style to be passé by the 1770s, Vologeso itself is a
reworking of an already antiquated libretto by Apostolo Zeno, originally called
Lucio Vero and first set by Carlo Pollarolo for Venice in 1700. Moreover, the
version set by Jommelli and performed here by Classical opera is in fact a
modification of a modified libretto. The new librettist Mattia Verazi had
revised the by then popular version produced by Guido Lucarelli for Rinaldo di
Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s original. The story is a familiar
one, mingling political intrigue with love both unrequited and true. In the
eastern provinces of the Roman Empire, Lucio Vero (Stuart Jackson) is
victorious in battle and captures Berenice (Gemma Summerfield), wife of the
Parthian king Vologeso (Rachel Kelly). Captivated by her beauty, Lucio Vero
makes every effort to win her with the assistance of his minister Aniceto (Tom
Verney). Meanwhile, Vologeso attempts to assassinate Lucio Vero but is
recognised by Berenice, causing him too to be taken prisoner. Further
complicating matters, Lucio Vero’s betrothed, Lucilla (Angela Simkin), has
arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France), an ambassador from Lucio
Vero’s co-emperor, Marcus Aurelius. After many separations of the faithful
Vologeso and Berenice, increasingly cruel plots on Lucio Vero’s part to attain
the latter, and the threat of civil war from Marcus Aurelius, all is resolved
and the various couples are reunited without any blood being shed.
Although Zeno’s libretto is not remotely like those produced by later poets and
composers interested in reforming operatic conventions, the play’s enduring
appeal might well be attributed to its strong sense of spectacle, which
coincided neatly with the objectives for reform. Indeed, the play contains
on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted assassination, Vologeso’s fight
with a lion in the arena, and at least one ‘mad scene’ for Berenice in addition
to traditional opera seria ingredients of triumphal marches, grand armies, and
the obligatory chorus announcing a lieto fine. Sometimes I felt that this
element of spectacle was lost in the context of a concert performance. Though
that is of course an unavoidable casualty of this mode of presentation, it was
further compounded by Jommelli’s own reluctance to capitalise on these aspects
of the play as did other contemporaries. Furthermore, artistic director Ian
Page writes in the introduction to the programme that besides the expected
editing of the recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their
entirety, but also some arias’ middle-sections and their reprises in the
interests of ‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of
these, one was the opening chorus, which might have helped to restore some of
this sense of grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of
‘[experiencing] what a typical eighteenth-century opera was like’.
Jommelli’s musical style in this opera has clearly moved on from the grand and
expansive show pieces we find in his earlier operas, such as Didone abbandonata
of 1747 (performed in London in 2014 and also reviewed here). With the
exception of one or two numbers which might be said to respond to a more
traditional heroic opera seria style, such Crede sol che a nuovi ardori,
Flavio’s only aria, the focus in Vologeso is instead on creating a more
declamatory mode and ‘realistic’ rendering of the dramatic and emotional
content of the text. As such, the use of coloratura is generally much reduced
and arias very often feel more like ariosos, often to the point that it feels
like accompanied recitative intrudes upon melodic lines. The music is
nevertheless still imbued with grace and lyricism, and is marked by sometimes
fussy, yet fine, delicate and lace-like accompaniments. And there are some
really good and interesting numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio
Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s first aria Tutti di speme al core, the already
mentioned Crede sol, as well as some very effective and attractive
accompagnatos. In spite of the title, this version (or at least as it has
been presented to us with the cuts) nevertheless still focuses greatly on the
character of Lucio Vero and his relationship with Berenice. Stuart Jackson’s
performance came across as something of a slow burning affair, only really
coming fully into the character after interval and reaching the apogee of
dramatic intensity in his final aria. And yet it felt largely like Lucio Vero
was being interpreted as being the youthful hero, the primo uomo role usually
reserved for a castrato. This may well be due to Verazi’s redaction of the
opera, which seems to me to result in a somewhat schizophrenic character,
vacillating between tyrannical, or rather psychopathic, conqueror and lovelorn
hero. This is effectively underlined by the kind of music with which Jommelli
furnishes the character: languid arias with long, plangent melodic lines, such
as his opening Luci belle and the cavatina Che farò? in Act 2, and a handful of
arias which verge on aria di furia territory. To my mind, Lucio Vero’s actions
are not driven by real love for Berenice but rather an overwhelming desire for
power: not only in and of itself, but also power over others. To this end, his
rejection of Lucilla is not merely an amorous choice, but a rejection of the
power of Rome and the authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether.
So too the psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to
his will. Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous
lead did not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant
execution. The performance otherwise had much working in its favour. I
very much enjoyed Gemma Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some
excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer
France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that
the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom
Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was
decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for
Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of
course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to
expect from Classical Opera. My overall impression from the programme
notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat
unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes
further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly
great composers, to be sure…’. While undoubtedly there are countless flops
littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best
left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And
Jommelli’s legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that ‘…much
of the music of contemporaneous composers… sounds quite like Mozart for much of
the time’ should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness
notwithstanding, who is effectively a product of his time! A final note:
a future Classical Opera concert this year is to feature some arias from
Semiramide by Josef Mysliveček, another figure well known to the Mozart family
and whose work has occasionally been misattributed to the young Wolfgang in the
past. A full opera of his at some point, further showing how Mozart was fully
integrated into the existing musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli. Keywords:
musicista filosofo, Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jommelli” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754140329/in/dateposted-public/
Grice e Julia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acri). Filosofo. Grice: “Julia was more of a poet
than a philosopher; but then for Heidegger, philosophy IS poetry and vice versa!”
-- essential Italian philosopher. Figlio di Antonio e da Maria Giuseppa Balsàno.
Studia a Cosenza sotto Focaracci. Direttore del Telesio, periodico. Strinse
grande amicizia Padula. La temperie culturale in ambito locale vede la
difficoltà della Calabria a integrarsi nella nuova entità politica. Area
essenzialmente contadina, la regione ha una classe dirigente che preferisce
assoggettarla al clientelismo e alla sua arretratezza piuttosto che metterla al
passo con zone del Paese più avanzate e progredite; perciò il mondo
intellettuale d'avanguardia, deluso dalle speranze del 1848 e conscio del
sottosviluppo, si volge verso il positivismo e il socialismo. Vive tra il tardo
romanticismo e l'affermarsi delle innovative correnti costituite dal
naturalismo e dal verismo, nella scia di Carducci e Verga. Le contraddizioni
della sua epoca lo formano come un intellettuale spiritualista che rifiutail
materialismo e in parte il mondo contemporaneo, e d'altra parte un sostenitore
degli ideali socialisti, del riscatto delle masse disagiate e della
glorificazione del passato della Calabria a partire dall'assedio degli
Aragonesi e dei suoi conterranei coevi illustri, fra i quali Miraglia, VPadula,
Quattromani, Tocco, oltre a Campanella. Accostatosi in un primo tempo al
misticismo di Gioberti, si converte al verismo, alla ricerca del pragmatismo e
di un modello di poesia di alto civismo che lo stesso Julia proclama nei suoi
Sonetti e liriche. Parte dai miti popolari e dalle ballate della tradizione
romantica per marcare orgogliosamente la storia della sua terra. Considerato il
padre della letteratura calabrese, si interessa alle origini della cultura
letteraria della regione analizzando anche alcune opere a lui precedenti. Il
suo impegno regionalistico si concretizza in uno studio su Selvaggi, nel quale
si individua un collegamento fra Galeazzo di Tarsia e le produzioni romantiche.
Vi fu poi un saggio su Padula e un esame delle liriche riferibili all'Accademia
Cosentina. Sa però spaziare oltre i confini delle sue terre, fino a richiamare Milton
nel suo scritto dedicato a Padula. Oltre a uno studio su Monti, produce dei
lavori anche su Mazzini, Poerio, Correnti, legati dall'attenzione alle
tematiche relative al Risorgimento e perciò in convergenza con il proprio
pensiero, che dal punto di vista della poetica si richiama ai modelli che il
letterato individua in Leopardi, Berchet e Giusti, oltre che in Prati. A.
Piromalli, La letteratura calabrese” (Pellegrini, Cosenza); Monografia su
calabriaonline, su calabriaonline.com. Digital Storytelling su Vincenzo Julia a
cura degli studenti del Liceo V. Julia di Acri, CS. Ovvero delle Famiglie
Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d'Oro
Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate
chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle
vicende del Sud Italia. Famiglia Julia A cura del Dott.
Francesco Paolo Dodaro Socio Corrispondente dell’Accademia
Cosentina Arma: d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata nel capo da un
destrocherio di carnagione tenente un uccello di nero e in punta da un albero
radicato al naturale(1). Titolo: Nobile di Acri. Arma Famiglia La
famiglia Julia, in origine nota come de Giulia (2), figura fra le antiche e
nobili casate di Acri (3) (Cosenza), città dove risulta presente sin dal XVI
secolo. I Julia godettero sempre nella locale società di un buon livello di
prestigio sociale come testimoniato dalle alleanze matrimoniali contratte con
diverse famiglie patrizie fra le quali ricordiamo le seguenti: Benincasa,
Candia, Capalbo, de Simone, Dodaro, Falcone, Fusari. Simbolo della condizione
privilegiata della famiglia è il grande palazzo sito tra il rione Casalicchio
ed il quartiere Piazza. Tale edificio, al cui interno si conserva la ricca
biblioteca di famiglia, è abbellito da un portale lapideo sul quale spicca un
mascherone sormontato da un’antica riproduzione in pietra dello stemma del
casato. Il suddetto blasone è timbrato dalla classica corona a cinque punte che
identifica i Julia come nobili. Acri, Palazzo Julia, portale Nel
1506, con atto del notaio Gaudinieri, il sacerdote Nicola Maria Julia fonda una
cappella privata sotto il titolo dell’Immacolata Concezione all’interno della
chiesa di San Nicola di Bari in Acri (4) (situata nel rione Casalicchio). Nel
1706, Fabrizio Julia vende a Giuseppe Leopoldo Sanseverino un terreno dove e
edificato l’imponente complesso del palazzo acrese dei principi di Bisignano,
permutandolo con la casa e il fondo Macchia(5). Dal matrimonio fra il dott.
Raffaele e la N.D. Giuseppina Capalbo nacquero Salvatore ed Antonio dei quali
il primo (deceduto nel 1851) fu rinomato avvocato mentre Antonio viene
ricordato come “Medico illustre” che “in età provetta, in pochi mesi, studiò
leggi presso il Focaracci e ne apprese quanto ne anno i più maturi; onde
s’incentrarono in lui il medico e l’avvocato” (6). Fra i personaggi celebri di
questa famiglia ricordiamo il citato Raffaele, Governatore di S. Giorgio e
Vaccarizzo. La figura cui si lega maggiormente la fama del casato è quella di
Vincenzo Julia, filosofo, letterato e poeta. Allo stesso è intitolato il Liceo
Classico e Scientifico di Acri. Nacque da Antonio e Maria Giuseppa Balsano (7),
svolse gli studi presso l’istituto Molinari di Acri ed il seminario di S. Marco
Argentano (8). Frequenta il seminario di Bisignano dove ebbe come insegnante il
Canonico acrese Francesco Saverio Benvenuto, quest’ultimo colto latinista
nonché teologo, filosofo e parroco maggiore di Santa Maria in Acri (9).
Intraprese gli studi giuridici e per alcuni anni esercita la professione di
avvocato poi accantonata a favore dell’insegnamento di materie letterarie,
filosofiche e giuridiche (10). Quanto alla sua produzione filosofica
questa fu “quella del poligrafo (letteratura, filosofia, storia, cultura
calabrese)” inoltre “Nei suoi studi predilesse la valorizzazione e la
riscoperta di figure regionali poiché gli pareva che la Calabria fosse
dimenticata e poco apprezzata dopo la raggiunta Unità”(11). Fra le sue opere
ricordiamo: Saggio sulla vita e le opere di G.V. Gravina, Saggio di studi
critici su Vincenzo Selvaggi e la Calabra poesia, Terenzio Mamiani e i suoi
dialoghi di scienza prima, Francesco Fiorentino filosofo, Lettere al figlio
Antonio su Cesare, De Sanctis in Calabria, Vincenzo Monti. Nel 1864 sposò
Gabriella Fusari(12) e da tale matrimonio nacquero: Antonio, Francesco,
Mariannina e Giulietta(13). Si spense il 4 maggio del 1894 in Acri. “Telesio,”
rivista codiretta da Vincenzo Julia Antonio Julia, figlio di
Vincenzo, fu avvocato e raffinato poeta sposa, in prime nozze (14), Mariantonia Dodaro,
figlia dell’avv. Giovanbattista e di Cristina Benvenuto. Il loro fu un
matrimonio felice e allietato dalla nascita di Maria Gabriella(15), Vincenzo
(1896† 1924) e Antonietta(16) (1897 † 1978). Antonio Julia e sua moglie
Mariantonia Dodaro Antonio Julia fu legato da sincero amore a sua moglie
e quando questa prematuramente scomparve, riversò il suo dolore in alcuni
toccanti componimenti poetici che rappresentano una struggente testimonianza
del suo dramma interiore e assieme della sua spiccata sensibilità
d’animo. AL CROCIFISSO DEL SUO LETTO Non più le sue lucenti Pupille a te
si volgeran la sera; non più per le dolenti mie stanze echeggerà la sua
preghiera… O tu, che pendi ancora, mistico Iddio, sul vedovo mio letto,
volgi le luci ognora sovra i miei figli e sul paterno tetto! Dimmi che
ancor le rose Olezzano per te, vigile Iddio, le parole amorose che a te
rivolse, ne l’estremo addio… Dimmi che ancor tu senti La voce sua, ne
l’ombre de la sera, e che, in soavi accenti, mormora pe’ suoi figli una
preghiera!..(17) Note: (1) - Gli smalti dello stemma Julia sono noti
grazie ad una raffigurazione del blasone in oggetto riportata dallo storico
acrese Raffaele Capalbo (1843-1921) in un suo lavoro inedito sull’araldica
delle famiglie nobili di Acri. Nella riproduzione del blasone dei Julia,
visibile ancora oggi sul portale del loro palazzo in Acri, il destrocherio
appare vestito. (2) - Per approfondimenti si rimanda a M. G. CHIODO, L’Archivio
Privato della famiglia Iulia di Acri - Inventario sommario, in “Archivio
Storico per le Province Napoletane” (3) - Per un elenco completo delle famiglie
patrizie di Acri si veda R. CAPALBO, Memorie storiche di Acri, S. Giovanni in
Persiceto (BO), Edizioni Brenner, (4) - R. CAPALBO, op. cit., p. 88. (5) -
Ibidem (6) - Ibidem (7) - Quest’ultima, appartenente a una famiglia originaria
di Rogiano Gravina, era sorella di Ferdinando Balsan, letterato e deputato del regno d’Italia nonché
preside del liceo Telesio di Cosenza. Lo stesso figura tra i maestri del nipote
Vincenzo Julia. A. PIROMALLI, La Letteratura Calabrese, vol. I, Cosenza,
Pellegrini Editore, (8) Ibidem (9) - Ibidem (10) - Ibidem (11) - Ibidem
(12) - Per approfondimenti su alcune vicende storiche che interessarono la
famiglia Fusari si rimanda a R. CAPALBO, op.cit., (13) -
https://juliavincenzo.atavist.com (14) - Alcuni anni dopo il decesso
della prima moglie, si unirà in matrimonio con Maria Beatrice Antonietta Romano
di Acri. (15) - Poi sposatasi con Carlo Giannice (1887 † 1966). (16) - Andata
successivamente in sposa a Giuseppe dell’Armi (1877 † 1962). (17) - A. Iulia,
Momenti, S. Maria Capua a Vetere, Casa ed. Della Gioventù, p. 36. Si veda anche
il componimento intitolato “Alla Vergine della Sua Stanza”, Ivi p.37. VINCENZO
JULIA Questoegregio giovane,sucuifondiamo, abuondritto,non pic cola speranza,
per le diverse prove del suo nobile ingegno fin'ora dateci, coltiva con forte,
inteso amore le filosofiche discipline,tutto solo rannicchiato in piccol
paesuccio delle Calabrie, Acri. Egli, da quello n'è sembrato, predilige la
filosofia di quel sommo Torinese filosofo, che col suo Primato Civile e Mormale
D'Italia fanatizzò tutti isuoi connazionali per la dupla autonomia del
loroPaese,Libertà ed Indipendenza;econl'Introduzioneallostudio dellaFilosofia,
la Pro tologicaed altre opere speculative ispirò nei cultori di questa no
bilissima scienza l'amore delle nazionali dottrine. Vincenzo Julia a dunque è
un giobertiano , un ontologo , e per lui quindi sta che l'Ente, il Primo
Essere, Colui che dà l'essere a tutte cose, non però spezzandosi, non diffondendosi,
nè emanandole dal suo seno, c o m e ilragnoilragnatelo;ma liberamente
creandole;per luidico sta, che l'Ente, l'Assolutoreale, non astratto,quale il
pose,il procla mò Giorgio Hegel, è il Primo Filosofico, cioè a dire è non solo
il Primo Essere o Primo Ontologico ; ma anche la Prima Idea o Pria mo
Psicologico. Sicchè non solo anno le cose tutte da Dio l'essere loro, ma anche
la loro intelligibilità. Verità già insegnatadal fon datore dell'Accademia , il
divino Platone , il quale disse che l'Idea di Dio è pelmondo intelligibile
quello che il sole è pel mondo visibi le,e che l'essere assoluto dà alle menti
nostre l'esistenza e spande su loro e sugli obbietti della scienza illume della
verità« detí v 8.& Tlothuns oùoxv xai adnocías» come il sole, che non
solamente rende vi sibili le cose , m a dona loro eziandio il nascimento ,
l'accrescimento e la maturita « τον ήλιον τοϊς ορωμένοις ου μόνον , οίμαι τήν
του οράσθαι δυναμιν παρέχειν φήσεις , αλλά και την γένεσιν αυτών όντα ». Quindi
pel'Julia sta quel metodo detto deduttivo,osillogistico, che dai principii va
alle conseguenze,ma noncome pretendeva ilfondatoredelPeripato,ilqua le facea il
sillogismo posteriore all'induzione, ed il cui scopo non c o n sisteva in altro
che in applicare i principii alle cose particolari a meglio rifermarle. Il
Julia ha capito bene , che l'induzione non può darci punto tanto iprincipii
proprii a ciascuna scienza, quanto iprincipii co muni ed assolutamente
universali.I principii sono ontologici edori ginalmente presenti alla intelligenza,
secondo diceva ildivino Pla tone,e nongià puramente logicied astratti,secondo
diceva Aristo tile, che livoleva prodotti la merce dell'intelligenza con gli
elementi fornitici della sensazione. Nè debbe dirsi che il Julia neghi l'indu
zione : ei l'ammette, e nel senso di venir essa provocata, sostenuta e guidata
in noi dal lume di certe idee generali sempre presenti al l'anima
nostra,essendoun impossibile elevarsi da qualche fatto in dividuale e variabile
all'idea della legge generale e permanente, sen za averci di già nella mente,
almeno in una maniera vaga e con fusa, l'idea di ordine, di
generalità e di stabilità. Laonde dice La foret nella sua Storia dellaFilosofia
Antica,in parlando di Aristo tile « Comment s'élever de la perception de faet contingents
et relatif à l'idée de principes nécessaires et absolus, si le necessaire et
l'abso lu sont entieremant étrangers à l'intelligence? ». Dunque pel Julia ,
come per ogni giobertiano, si deve partire di Dio per costruire la scienza
filosofica « ossia dalla idea somma ed improdotta , perché è quel principio
supremo che illumina e rende conoscibili gli altri principiimeno generali e
senza di cui non potrebbe aversi quella
sintesiobbiettiva,cheargomentadinecessitànelsuomoto organico la gerarchia dei principii
scientifici ; e deve radicarsi in un prin cipio
assoluto,supremo,universale,immutabile, ilquale, reggendo colla sua virtù ogni
singolar passo del procedimento razionale, ac corda ed unifica tutti imomenti
del discorso ideale, e tutta insieme 1.umana enciclopedia. Laonde diceva
saviamente nel suo dotto di scorso intorno alPanteismo il Prof. Enciro
Attanasio, direttore del Periodico La Carità diNapoli« Sintesi senza gerarchia
di priucipii io non intendo nell'ordine dell'idee, come non vedo nell'ordine u
mano sociale e nell'ordine fisico di natura. E ingradamento di ge rarchie che
ponga in atto una sintesi universale torna impossibile a concepire pur col
pensiero senza un principio supremo, essenzial mente uno ed immutabile, che sia
il centro immoto che governi i moti del multiplo e del diverso e tragga a sè ed
accordi il multi ploedildiverso».Laonde,lasciandochel'induzionenon condu ca ai
principii , a ciò che è universale , sia che dessa fosse posi tivistao come la
intende ilPositivismo moderno, siache fosse anche nel senso di Aristotile, ci
facciamo a lodare il Julia per avere ei scelto quel sistema, che parte
dall'idea dell'Assoluto reale per co struirela scienza,non
sipotendo,pertanteetanteragionidettee ridette,porsi per primo conoscibileciò
che non è prima cosa; per chè sarebbe, seguendo questa via, un turbare
l'armonia della scien za filosofica; giusta che vien fatto dai psicologi, i
quali partono dal contingente, ed oșano spiegare l'assioma degli assiomi, la
verità pri ma con la verità seconda, e separare l'ordine di esistenza da quel
lodiconoscenza, ilprimopsicologicodalprimoontologico,dando que
stoperprimofilosofico.Diquinonpotremmo essererimproveratiche
atorto,sedicessimo,che iseguacidelpsicologismo diAristotile,(non però di quelle
di S. Tommaso ch'è ben altro, siccome dimostrammo in un'articolo riguardante
questo S. Dottore, già publicato nell'Ate neo di Torino ) siam lontani da una
vera scienza; perché, come dicem mo di sopra, la scienza è con la sintesi, e la
sintesi co'principii,e la gerarchia dei principii scienziali nel principio
sommo, Dio, radica ta.Siechèscienzasull'analesiè
scienzaeffimera,èscienzadinome, essendo disgregazione, e tale è la filosofia di
Aristotile,siccome è conto da quei due principii ammessi da lui « Nihilest in
intellectu,quod prius non fuerit in sensu » e che l'anima nostra si rassomiglia
ed una tavolarasa« Δείδ'ούτωςώσπερενγραμματειωώμηθένυπάρχειεντελεχεία
γεγραμένον. 82 È quantunque fosse vero,che Aristotile ammettesse
l'intelletto at tivo profondamente distinto dalla sensibilità, essendo quello
che opera 83 $¢%su ciò che ci vien porto dalla sensazione, per
tirarne od indurne avec lemonde intelligible;sun intervention n'apportedonerien
de now eri veau à ce qui est déposé dans l'àme par suite de la perception des
0C sens, il nepeut qu'exercer son activité et travaillier sur ce qui est racu
dans l'intellect paseif. L'intellect actif d'Aristote nous semble jouer ,
redans la formation de la connaessance,un rôle exactement samblable à
1021"celui que joue la reflexion de Locke; ni l'un ni l'autre n'ajoutent
ta rien à l'objet fourni par la sensation, toute leur action seborné à éla:
)doaborer cet objet» Dunque nonpuò farsi ammeno di ammettere col ret.Julia e la
scuola giobertiana l'apprensione diretta ed immediata , din cioè l'intuito
dell'Assoluto, e ritenere essere questi la prima idea, la
l'oprimaconoscenza,che,perla viadiun primo guardare,vieneal. into:l'intelletto
umano nello stato d'intenebramento, che la riflessione di in poi, la quale èun
secondo intuito od un ripiegamento dello spirito e sopra il primo intuito,
chiarifica e fissa, e non già che la si acqui isti e conosca in forza del
raziocinio, passandosi dalla cognizione a iilistratta, ottenuta per la via
dell'induzione, a quella concreta del V e on& ro Assoluto, avendo ben
dimosorato altrove, che i psicologi si tro fost vino in grande errore, credendo
ed insegnando, che Dio siccome ve
fosesritàassiomatica,essendouniversale,necersariaed immutabile,debba 18 essere
astratta,e che vi bisogna di forza indispensabilmente il ra ley ziocinio per
ascendere, mediante essa verità astratta, al vero primo buik ed assoluto,
mentre, siccome facemmo notare in proposito del P. M i lone
Insomma,senzamenarla piùinlungo,dellainsignescuola on anda tologica è il Julia,
siccome l'ha mostrato co'suoi vari scritti di ar veratgomento
filosoficoeconquello, veramentestupendo,Discorsointorno
allavitaedalleoperediFernandoBalsano,incui,prendendoa consi ost: d e r a r e q
u e s t o d i s g r a z i a t o d o t t o C a l a b r e s e , d i v e n u t o v
i t t i m a d e l p u g n a ledi un assino, e,considerandolo non solo quale
oratore egregio ed acutocritico,ma anche qualeillustre cultore
dellescienzefilosofi cinc c h e , e f o r t e a m a t o r e d e l s i s t e m a
o n t o l o g i c o , p a l e s a a c h i a r e n o t e i s u o i O. * p e n s
a m e n t i i n f a t t o d i f i l o s o f i a , c h e s o n o i n d u b i t a
t a m e n t e q u e l l i d e l P l a diotonismo, cristianizzato da
S.Agostino,ammirato da S.Tommaso e på Dante, divulgato neitempi modernidalGioberti,
ed abbracciatodalla th, maggior parte de'pensatori nostrani. Questo libro del
Julia , che ci avemmo in dono da lui medesi i mo , palesa ad evidenza non solo
la scuola filosofica cui appartie ne; non solo la lucentezza delle idee , ond'è
corredata sua mente ; e
nonsolol'affettoperlapatriagrandezzaquantoapolitica,governo e
civile,scienze,lettereedarti;ma dàancheprovadellaperiziache l'universale ed
elevarci sino alla concezione dei principii; pure non to bisogna dimenticarci
che nella teoria dello Stagirita è desso affatto & vuoto, senza alcun
rapporto diretto col mondo intelligibile,da potersi pelo d i r e c h e n e l l
a c o n o s c e n z a e s e r c i t i l ' u f f i c i o n è p i ù n è m e n o d
e l l a r i ostruflessionediLocke.Edice bene ilLaforet «Danz latheorieduSta ta,
girite l'intellect actif est tout a fait vide et n'a nul rapport direct
«Profilo Bibliografico pubb. nella Rivista Itoliana di Palerino ela:Anno IV,N.
11,nonci ha cosa più chiara, che essa verità assio -artormatica primitiva è
obbiettiva in sommo grado,appunto per le sue veritacaratteristiche di
universalità, necessità ed iminutabilità. COSS me adal tile. // ne
84 ha ei nell'idioma nazionale. Sicchè è a rallegrarci con lui dei buoni
studi,dell'amoredellenazionalidottrine dell'eccellenzadelsiste ma che ha
adottatonelle scienze speculative,anteponendo (fra idue sistemi che veramente
possono dirsi i più perfetti, essendo ambo sin tesisti, cioè a dire
razionalo-empirici od empirico-razionali ) l'onto logismo alpsicologismo,e,fuggendo,
quelloche èpiù, gli eccessi del razionalismo e dell'empirismo,e quei tali
sistemi erronei, idea lismo epositivismo,pei qualidelira lagioventù moderna,da
cui cam minandosidiquestopasso,noncipossiamoattendere,senon un ar
veniresventurato. ProsegvailgiovaneJuliaisuoistudii filosofici, e ci offra
lavori speculativi di maggior lena, per poterlo vie meglio ammirarlo, e
rallegrarcene con lui. Delle dottrine filosofiche e civili di G. V.
Gravina per Fer dinando Balsano, con saggio sulla vita e sulle opere del
Gravinapelprof.VincenzoJulia.— Cosenza,Tip.Mi gliaccio, 1880 (un vol.di
pag.CIV-410). G. V. Gravina di Rogiano (1664-1718) è considerato dai più come
poeta e letterato segnatamente pel suo trattato della Ragione poetica,e come
insigne giureconsulto, specie per lasua opera De ortuetprogressujuriscivilis.Ma
eglime rita,sotto un certo rispetto,d'essere altresi considerato come filosofo
e per le dottrine speculative che professava e per quei sommi principii a cui
s'informano i suoi scritti di G i u risprudenza e di Filosofia civile, dovendo
le scienze partico lari e d'applicazione, quali sono appunto le discipline
giuri diche e pratiche.esser precedute ed illuminate da una scienza speculativa
più alta ed universale,cioè dalla Filosofia pro priamente detta. A nostri
giorni il calabrese Ferdinando Balsano si pro pose di far meglio conoscere le
dottrine filosofiche e civili del Gravina, studiando accuratamente e con
intelletto d'amore le opere del suo grande concittadino.Ma ilBalsano,non che
pubblicarlo,non potècompiereilsuolavoro,perchè trafitto dal
pugnaledell'assassino!Ilprof. Vincenzo Juliaha raccolto la sacra eredità del
suo venerato maestro,dettando un'eru dita ed ampia monografia sulla vita del
Gravina, e pubbli candola insieme al lavoro inedito del Balsano. In questa
vita e troviamo uno specchio breve ma fedele dei tempi del
Gra vina, specie riguardo agli studii; la pittura del carattere morale del
pensatore rogianese,un cenno de'suoi numerosi scritti e de'suoi meriti
letterarii. L'opera del Balsano,dettata in una forma quanto castigata
altrettanto elegante ed elevata,contiene una larga esposizione dei pensamenti
del Gravina diretti a coordinare tutte le sue meditazioni di filosofia
speculativa e di morale , di religione edidiritto,diesteticaed'insegnamento,dipolitica
edi civiltà.È divisainduelibri.Nelprimosiragionadelledot trine civili. Quanto
alla filosofia, dal Balsamo si cerca dimo strare che il Gravina, studioso delle
tradizioni dell'antica filosofiaitalo-greca,siattenne specialmente alla dottrinepla
toniche(comeapparisceanchedall'OrazionesuaDe instaura tione
studiorum),armoneggiandole col progresso della civiltà cristiana,delle scienze
particolari e massime del Diritto,egli cheavevameditatoleoperedeisommi
giureconsultiromani, e che aveva piena la mente ed il petto della grandezza di
Roma antica. Le dottrine platoniche da lui professate gli fecero innalzare la
mente ai principii sommi del Diritto, a meditare la riforma delle dottrine
civili,ed a comprendere la sintesi el'armonia delle parti principalidel
sapere.Difatti, il Gravina vedeva la scienza umana come un'armonia e ricordava
la piramide in cui egli dice espressamente avere gli antichi savi simboleggiato
la scienza umana e la natura delle cose : il che significa che per lui l'ordine
della scienza risponde a quello della natura, l'idealità alla realità; e come
il primo vero è l'idea divina nota da principio all'intelletto creato, così il
primo essere è Dio creatore della scienza e dellanatura.Tutto
l'ordinedeicontingentirealihasuacausa efficiente nell'Assolutoche
licrea;tuttol'ordinedelle cono scenze empiriche ha sua origine nell'idea
eterna, presente sempre all'intelletto umano e norma o tipo a cui si riscon
trano le cose finiteapprese per esperienza sensibile(pag.162). E sotto questo
aspetto può dirsi che ilGravina precorresse al Gioberti,che in cima del sapere
e dell'essere doveva porre Diocreatore.Adunqueilcontemporaneo delViconon segui
le dottrine del Locke, ma invece quelle più elevate di Pla Vol. XXII. 225
Disp. 2. 15 tone e del Cartesio, quantunque non și mostrasse sempre
giusto verso Aristotile. Ma se al Gravina non può negarsi un certo valore filo
sofico, i suoi veri meriti risguardano, più che la Filossfia
elaLetteratura,laGiurisprudenza.Preceduto daAlberico Gentile, da Francesco Bacone
e dal Grozio, il Gravina non solo ricercava l'origine del Diritto e ne indagava
iprogressi (De ortu et progressu juris civilis), ma sapeva altresi elevarsi
alle idealità o ai principii supremi del Diritto. Quindi è che a lui debbono
molto la Storia del Diritto, specie,diquelloromanocheinsegnavainRomastessa,ela
Filosofia del Diritto. Il Gravina, esaminando l'origine e la natura del
Diritto, non lo separava dalla Morale come oggi fanno taluni, perchè nella
legge morale,da cui scaturiscono tutti i doveri umani, trova pure il suo primo
e vero fon damento il Diritto. Egli precorse al Savigny da un lato, al Vico e
Montesquieu dall'altro, interpretando con larghezza di veduta la storia civile
e giuridica di Roma. Il Balsano si era proposto di ritarrre ilGravina non solo
qual eminente giureconsulto, sì ancora qual filosofo civile, mostrando com'egli
additasse le norme eterne d'ogni società umana (che ammetteva come un portato
della natura) nella vita privata e pubblica, nell'ordine privato e politico. Ma
ripetiamo,ilBalsano non potè compiere l'opera sua;la quale delresto,merita di
essere conosciuta e studiatadai cultori della Filosofia e delle scienze
giuridiche, benchè ci sembri scritta con entusiasmo soverchio verso ilproprio
concittadino risguardato come filosofo. DISCORSO Recitato nella sala
dell' Accademia Cosentina ). Piansi,o Signori,nella mia pensosa solitudine,la
morte immatura del caro Fiorentino, che mi fu amico e fratello !; vengo ora a
glorificarne l'ingegno nel tempio della scienza, innanzi al simulacro del
vecchio Telesio, al cospetto di dotti Accademici,di fervidigiovani,dieletti
ingegni,di distinti Professori, che meglio di m e , nato e cresciuto nelle m o
n tagne, potrebbero valutarne i forti studi e la vasta intelli genza. Parlerò
con franchezza, senza adulazioni rettoriche, senza intemperanze di lodi;
dinanzi ad uomini gravi ed a u steri le apoteosi e la rettorica sono un
fuordopera. La pa rola mendace sarebbe un insulto alle ceneri di Fiorentino,
uomo sovero ed aperto, che disdegnò il lenocinio e le bel lezze oratorie, seppe
dire con schiettezza di calabrese la v e rità ad amici e nemici, e fu audace
demolitore del vecchio m o n d o ; inesorabile agl'ipocriti ed ai ciarlatani.
Nella rioca personalità del Fiorentino grandeggia il filosofo ed il pensa
tore;lascio,per ora,ad altri di me più competenti, esami nare il letterato, lo
scrittore, ed il cittadino; io vi parlerò soltanto dell'Autore del Giordano
Bruno;del Saggio Storico sulla Filosofia Greca ; del Pomponazzi e del Telesio;
quat tro titoli di gloria , che basteranno a rendere immortale il nome di
Francesco Fiorentino. 1 Vedi il mio articolo sul Fiorentino pubblicato
nell'Avanguardia n u meri 101-102, riprodotto dalla Gazzetta Calabrese e dal
Calabro in Catan zaro; dal Corriere del Mattino e dall'Ateneo, in Napoli.
74 GIORNALE NAPOLETANO FRANCESCO FIORENTINO 75 L'Italia , o
Signori, fu scossa nei principi del secolo, dopo la grande Rivoluzione
dell'ottantanove , dalla parola del nostro Galluppi, che il Gioberti chiamò il
Nestore della sapienza italiana. Senza mistiche intemperanze , senza voli
metafisici, ei richiamò, nuovo Socrate, la mente degli Ita- liani ad indagare
il m e e la coscienza ; a scrutare profon - damente ilsubbietto
umano;e,rigettando lequiddità scola- stiche ed il sensismo di Condillac e di
Tracy, contribui à rinnovare presso di noi il metodo naturale , e fu salutare
reazione all'esorbitanze speculative del secolo decimottavo , Conscio della
esigenza storioa del secolo decimonono,il Gal luppi iniziò presso di noi lo
studio della storia della filoso. fia ; indovino , pur combattendola fieramente
, l'importanza speculativa della sintesi a priori, che in parte accetto ; e,
benchè avesse trascurata la Rinascenza,Telesio,Bruno, Cam . panella, può dirsi
, il vero educatore dello spirito filosofico in Italia. La Calabria, terra
delle grandi iniziative e delle magnanime audacie, si elevò col Galluppi
all'altezza del pensiero moderno, e fu, sarei per dire, la squilla settimon
tana del Campanella, che risvegliò in Italia il pensiero lai caleedumano,ilpensieropuro
eduniversale.IlFiorentino, nella sua prima gioventù , studiò il Galluppi, ne
comprese l'indirizzo storico, o gli piacque la nuova e socratica spe culazione,
che un modesto filosofo iniziava nella estrema Calabria, sulle rive di quei
mari, che ripetono ancor l'eco delle armonie pitagoriche. Il Galluppi, con le
sue serene e casalinghe meditazioni, non bastava ad appagare il libero ed
irrequieto ingegno del Fiorentino , aquila delle montagne , che volea spezzare
le pastoie del vecchio mondo e della speculazione galluppiana. In mezzo a
queste ansie intellet. tive sopravvenne il Gioberti a scuotere le menti dei
Meri. dionali con la magica parola ; ed il Fiorentino, assetato di ideale e di
patria, come tutti i forti ingegni di Calabria, accettò anch'egli la mistica
speculazione giobertiana , o fu idealista platonico ed ortodosso. E chi potea,
pria del ses santa, resistere al fascino del Gioberti? Chi
rinnegare la p a tria, ch'egli glorificò nelle pagine immortali del Primato ?
Il Guerrazzi chiamò il Gioberti scintilla piovuta dal Vesu vio sulla cima delle
Alpi : veramente ci è in lui l'audacia, la fiamma profetica, la divinazione
geniale del Mezzogiorno; ci è Vico e Campanella , S. Tommaso o G. Bruno ; ci è
la fede dei credenti, lo spirito ribelle dei tempi nuovi, l'ome rica fantasia
di Platone , l'austero sillogismo di Aristotile. Nei dolori dell'esilio,egli
scrisse la Teorica del Sopranna turale, ch'è l'apoteosi della vecchia
ortodossia ; riassunge nella Introduzione tutto il passato teologico e
tradizionale, rinnovò il realismo del Medio -Evo , sposandolo al pensiero
moderno; risuscitò nel Primato, con l'entusiasmo del pro feta, i titoli della
nostra grandezza, e lanciandosi col volo dell'Aquila alpigiana nel grembo
dell'Essere , credette di averne interrogate le profondità, ringiovanito il
vecchio Dio della Scolastica , e sciolti tutti i problemi con la formola ideale
e con l'Ente creatore. Gioberti non arrestossi a metà; e,ringagliardito da
nuovi studî, ingegno audace e progres · sivo, com'era, accettò gran parte della
speculazione moder na, e, spastoiandosi dal vecchio teologismo, dalle utopie
del Primato , inaugurò la nuova Italia col Rinnovamento ; la nuova Scienza con
la Protologia, e la nuova Chiesa con la Riforma Cattolica , e con la Filosofia
della Rivelazione ; sebbene non interamente emancipato dalla vecchia ortodos
sia. Ai tempi che il Gioberti pubblicò il Rinnovamento, ed il Massari le Opere
postume del suo grande amico, le C a labrie erano chiuse dalla muraglia
cinese,ed ilnuovo pen siero laicale del Gioberti non potè penetrare nei nostri
b o schi. La gioventù era ancora innamorata del misticismo e della formola
ideale; i vecchi eroi della Rinascenza non erano ancora conosciuti tra noi ; o
B. Spaventa , esule a Torino, dove pubblicò dal 54 al 56 i suoi stupendi Saggi
Critici su Bruno e Campanella, era quasi ignorato in Calabria. Il Fiorentino,
non bisogna nasconderlo,avea subito an. 1 FRANCESCO FIORENTINO 77 Scrisse
allora a Napoli il Giordano Bruno , un Saggio giovanile, come schiettamente
confessa l'Autore ; composto nel 1861 in tutta fretta nelle vacanze , e disteso
in soli v e n totto giorni.Quel Saggio, benchè imperfetto, segna ilprimo
momento della critica evoluzione del Nostro in filosofia, il passaggio , cioè ,
dal vecchio dommatismo giobertiano alla speculazione libera e laicale dei tempi
moderni. Nello studio del passato il Fiorentino trovò la spiegazione dei
posteriori sistemi;e,poichè non poteva valutare le teoriche del Bruno, senza
risalire alle origini,guardò la Dialettica nelle scuole di Crotona , di Elea e
di Alessandria , e ne rilevò con sa gace giudizio l'importanza speculativa nel
gran dramma del greco pensiero.Si occupò,egli ilprimo,presso di noi,della
stupenda Dialettica del Cardinale di Cusa, e ne indagò i le gami col sistema
del Nolano , dove causa e principio sono una medesima cosa , e la esteriorità
della causa e la inte 1 Leggeva i SS. Padri in una cella di monaci: ne
trascrisse molto ; e ne pubblicò alcune opere nel 1858, a Messina, voltandole
in italiano. 2 Stefano Cusani; G. B. Aiello; Giuseppe del Re; E. Salvetti; S.
Gatti; i Fratelli Spaventa; P. E. Imbriani; De Meis; Tari; Savarese; Perez; M a
n cini;De Sanctis;Marselli;Trinchera;Turchiarulo;Floriano Del Zio;F. Quer cia
ed altri. pen siero germanico, diffuso nel Mezzogiorno dal 40 al 60 dai
più forti ingegni del Napolitano ?; indovinò la grandezza spe - culativa della
Rinascenza , e si sentì attratto dall'eroica fi gura del Nolano. ch'egli
l'influsso dei Santi Padri ',e,principalmente, come dicemmo, del filosofo
Torinese, che da lui studiato profon damente in gioventù, non fu dimenticato
nella età matura, in mezzo ai più splendidi trionfi del suo ingegno. Venne però
il sessanta, con le sue titaniche audacie, e con le sue immortali demolizioni a
svegliare il Fiorentino dalla sua fede dommatica e dal suo sonno
ortodosso;e,benchè non ancora emancipato dal vecchio Gioberti,si volse a
studiare il riorità del principio
si ricongiungono nell'Uno ,ch'è insie me causa e principio. L 'Uno nel sistema
del Nolano, è to talità assoluta; vale a dire che come principio della forma
zione dello cose è minimo,come totalità perfetta ó massimo; come identità
delprincipioedellafinepigliailnome diUno, ove tutto si assorbe, come in vasto
ricettacolo; ove il pensiero e la realtà si confonde in una identità suprema.
In ciò con . siste il Panteismo di G. Bruno , che il Fiorentino rigetta,
soggiogato dal vecchio Gioberti , confutando l' eccletismo poco omogeneo , gli
ondeggiamenti e le contraddizioni del Nolano , che fonde insieme la Causa dei
Pitagorici, l'Uno degli Eleatici , ed il Principio degli Alessandrini. E pure ,
ad onta delle prevenzioni ortodosse e giobertiane , il F i o rentino non
disconosce le novità laicali, di cui è ricco il sistema del Bruno; la
maggioranza del pensiero, la menta lità, che splende come intelletto divino,
mondano , partico lare,ed ilconcetto direlazione,ch'è tanta parte dellaPro
tologia del Gioberti , e costituisce il verace assoluto ; l'asso luto , cioè ,
della moderna speculazione. Dallo oscillare del Bruno tra la Scolastica e la
Rinascenza deriva che il finito ora è una vana parvenza, ora la massima realtà;
ed il N o lano ondeggia tra Eraclito e Parmenide , tra il flusso c o n tinuo e
la rigida immobilità. Il Fiorentino mette Giordano Bruno in relazione con
Spinoza e Schelling , ne nota col solito acume le differenze e le somiglianze,
o conclude che i tre filosofi si rassomigliano nella prospettiva generale del
sistema, hanno il medesimo intendimento di unificare la scienza e
d'immedesimarla col mondo ; cercano fuori del pensiero il centro della loro
unità , e costituiscono quella serie di Panteisti, che si dicono obbiettivi;
l'Uno, la Sostan za,l'Assoluto sono tre creazioni parallele.Il Fiorentino ana
lizza del pari la Dialettica di Hegel e di Gioberti , m o n u menti immortali
della moderna speculazione, e nota che in Hegel e Gioberti contrastano due
tradizioni, due filosofie, e due nazioni; la filosofia della creazione e la
filosofia della identità, il cattolicismo ed il razionalismo,
l’Italia, patria di S. Tommaso o di Dante,e la Germania, patria di Lutero e di
Göthe. Fiorentino, senza sconoscere la importanza della filosofia tedesca,
glorifica la vecchia formola giobertiana, il cattolicismo e la rivelazione;
rigetta quasi il pensiero m o derno, desidera il rinnovamento della antica
filosofia italia, na,e,collocandosuglialtariilGiobertidella Teoricaedella
Introduzione, chiude il Saggio con queste parole: «Giova « netto ancora,sognava
che il nome di V. Gioberti suone « rebbe terribile sui campi di battaglia, e
venerando tra le « arcale della Università. Quel mio sogno giovanile si è av «
verato in gran parte e la indipendenza e l'unità della « mia patria,propugnata
da quel grande statista, è presso « a compiersi ; mi sarebbe ora assai dolce il
vedere una « scuola ed un'accademia iniziarsi, diffondersi , giganteg « giare
in quel nome si caro ad ogni italiano, con quella « formola,che assomma la
scienza e la fede dei nostripa. « dri. Da esse soltanto noi potremo sperare
giovani, c o m « pagni di quelli che combatterono a Curtatone, e cacciarono «
gli Austriaci da Varese e da Como.» Giordano Bruno portò il Fiorentino ad uno
studio più accurato della greca filosofia, di cui è anche specchio e ri
produzione,inbuona parte,laRinascenza italiana,dellaquale il Nolano è l'eroe ed
il martire. Professore straordinario di Storia di filosofia a Bologna nel 1862,
il Fiorentino si diede a studiare alacremente e con tenacità di calabrese
Aristotile e Platone.Si fatti studii, come racconta egli stesso,gli apri rono nuovi
orizzonti, gli allargarono la vista intellettiva, o gli fecero scorgere
ildifetto fondamentale della filosofia gio bertiana. Fiorentino si allontano
dal vecchio Gioberti, non colcuore,sibeneconlamente,ch:ifortiamori deigiovani
anni non possono dimenticarsi.Rude e franco calabrese,intel
lettoaustero,ilFiorentinosiemancipò dalla scuola filosofica ortodossa,quando si
convinse che il mito e la leggenda pre valevano sulla pura speculazione, sul
pensiero libero o lai FRANCESCO FIORENTINO 79 cale. La
critica, che Aristotile fa di Platone,a cui Gioberti si rassomiglia,fece schivo
il Nostro dal mescolare immagini ad idee, e lo inimicò con le metafore
filosofiche la severa, m a ineluttabile critica di Aristotile; non i Tedeschi
lo c o n vertirono alla nuova filosofia , degna dei tempi moderni, si bene il
rigido, inesorabile Aristotile !...' Cosi il Fiorentino scese, calabro atleta,
nella arena della greca filosofia, e gio vine ardente fu trasportato lungo le
sponde dell' Ilisso , tra gli alberi fragranti, che ne ombreggiano il margine ;
sotto il bel cielo di Omero , tra le dispute di Socrate, i simposî platonici ,
e le austere meditazioni dell'Accademia. Sapeva egli fondere ed accordare
insieme l'idea greca all'idea ca labra, rappresentata nei tempi antichi da Pitagora,
e tutte e due al nuovo pensiero laicale del Rinascimento , rappre sentato
presso di noi da Telesio e Campanella. Ringiovani così il pensiero , irrigidito
nelle ferree strette della Scola stica e del vecchio Gioberti ; e farfalla ,
ch'esce a poco a poco dal suo involucro ; montanaro calabrese, che si trasfi
guraman mano sottoilsoffiodeinuovi tempi,sisentìumano ed universale nei
Dialoghi di Platone e nella Metafisica di Aristotile.La Grecia fu infatti la
terra dove sbocciò ilfiore dell'Arte , e germogliò il seme dell'umana ragione ;
fu la patria del pensioro speculativo, della Dialettica, e della C a tegoria, a
cui metton capo ipiù vasti sistemi dell'antica e dellamoderna filosofia.Fu
lapatriadiPlatone,cheperge nialità e divinazione speculativa, per universalità
di pensa menti , per movimento drammatico , per colorito artistico e finezza di
dialogo, grandeggia su tutti i filosofi; egli fonde in sè l'eloquio facile e
maraviglioso di O m e r o e l'attica b e l lezza di Sofocle. La vecchia Grecia
s'idealizza e si trasfigura nel gran discepolo di Socrate;la speculazione
diviene arte e d r a m m a , e d il p e n s i e r o , c h i u s o n e i c a n c
e l l i d i T a l e t e e d i Eraclito, abbraccia ilmondo, si fa universale ed
umano,a n 80 GIORNALE NAPOLETANO 1 Vedi Filosofia Contemporanea in
Italia, p. 152, 153, Napoli, 1876. FRANCESCO FIORENTINO 81 ticipa
ilCristianesimo e preludia all'età moderna Egli fonde, come disse bene il
Ferrai, in una grande unità isofisti e i politici, gli artefici e i guerrieri ;
uomini , donne , vecchi, fanciulli, schiavi e liberi, e in questo mondo in
azione ti si fa duca e maestro, innalzandoti, migliorandoti, affinando le tue
facoltà, spesso spirandoti nell'anima un sacro entusiasmo per il buono , per il
vero ; quell'entusiasmo , aggiungo io , che crea i grandi fatti della storia, e
quei capolavori del l'arte, che si chiamano Convito ed il Fedro, ove si spec
chiatuttoilsorriso dell'Ionio mare,l'apollinea bellezzadei Greci , il fascino
di Diotima e di Aspasia ; la morbida poesia dell'Attica e l'arguta ironia di
Socrate ; divina bellezza , m u . sica arcana , che rende unica la Grecia tra
le nazioni più civili e più artistiche del mondo . N o n volendo abusare della
vostra bontà , o Signori , io m i restringo per ora a Platone ; che ci
porterebbe assai lungi il voler discorrere completamente del Saggio Storico
sulla filosofia Greca ; discutere ed esaminare Aristotele e quanto altro
riguarda le Categorie ed i problemi della filosofia m o derna , di cui si
occupa il Nostro nel suo stupendo lavoro. Il Fiorentino scrutò con animo libero
e spassionato la vec chia speculazione ellenica;laGrecia anteriore a
Socrate,ove campeggiano le grandiose figure di Talete, di Senofane, di
Eraclito, di Parmenide , di Anassagora ; o dove si elabora a poco a poco l'idea
platonica e la categoria aristotelica . È un quadro ricco di pensiero, ed anche
di poesia,che con vivi colori ci tratteggia ilFiorentino con quella sua ge
nialità, con quella lucida esposizione, che tanta grazia a g giunge ai suoi
lavori speculativi; incantevole lucidezza, che ritrae i limpidi Soli diffusi
sui patrî vigneti e sulle marine di Cotrone ... Il Saggio Storico sulla
filosofia Greca sarà s e m pre, secondo il nostro debole parere, l'opera più
bella, più geniale del Fiorentino ; ci è il profumo e l'entusiasmo della
gioventù, ci è la vita artistica, anche in mezzo alle severe meditazioni del
pensatore ; quella vita, che solo può dare la Giorn.Napol,Vol.I.- Gennaio 1885
(Nuovissima Serie). 6 gioventù , nella sua più rigogliosa
fioritura ed espansione. Ciò nonostante,spassionati estimatori dell'ingegno del
nostro amico , riconosciamo in quel saggio lacune ed imperfezioni, che l'autore
medesimo, uomo schietto e leale,vi riconobbe, ricco di nuovi studi sulla
lingua, sulla filosofia, sulla lette ratura greca ; dotto nel tedesco e
conoscitore profondo dei moderni lavori alemanni su Platone ed Aristotile.
Intanto facciamo notare che il cardine fondamentale della critica del
Fiorentino furono le idee platoniche e le categorie aristo teliche , che sono e
saranno sempre le colonne e le pietre granitiche dell'umano pensiero. La
critica platonica (come nota il Chiappelli nel dottissimo studio sulla
interpetrazione panteistica della dottrina platonica) si è a giorni nostri ri
fatta da capo ; e la quistione si aggira sui fondamenti di
tuttoilplatonismo,valeadire,sulgenuino valoredelladot trina delle idee, che
forma il centro del sistema platonico. Dalla interpetrazione di codesta
dottrina dipende quella di tutto il resto del sistema ; è il presupposto , da
cui , come tanti corollarii, scendono tutte le altre parti di questo m o
numento immortale del genio greco,che scosso dalla potente critica di
Aristotile , travisato dal Neo -platonismo , rivive anche oggi , dopo le
vicende di tanti secoli. Varie e con traddittorie in ogni tempo furono le
interpetrazioni delle idee platoniche;furono scambiate,ora con gl’ideali
estetici,che vagheggia l'artista, ora ritenuti come generi logici e c o n cetti
intellettivi,ed ora come gli eterni paradimmi del divino artefice,modelli
esemplari delle cose, e quindi esistenti per sė;laquale interpetrazione,che
sitrova diffusatraiNeo platonici,traiPadridella Chiesa,ed in tuttoilMedio-Evo,
anche oggi è sostenuta da valorosi critici. È certo poi che le idee in Platone
sono trascendenti , immobili e separate dalla materia,e che carattere
principale del Platonismo è la irreconciliabilità tra l'idea e la materia, tra
l'intelligibile ed ilsensibile:Le piùingegnose interpetrazionideicriticimo.
derni,e massime del Teicmuller,che fa di Platone un Pan. 82 GIORNALE
NAPOLETANO FRANCESCO FIORENTINO 83 teista,non han potuto colmare
l'abisso,che nel greco filosofo separa l'idea dal cosmo, l'elemento
intelligibile dall'elemento materiale. Relegate, come sono, le idee in un mondo
inac cessibile, non possono esercitare nessuna influenza, nè sul l'essere, nè
sul divenire delle cose sensibili, nė spiegare il formarsi delle cose
medesime.Anche la relazione delle ideo con Dio, osserva il Fiorentino ', rimane
indefinita; le idee non hanno causalità, perciò la causa efficiente deve
trovarsi accanto a loro , o concorrere con loro alla formazione dei mondo ...
Platone non tenta neppure di conciliare Iddio con le idee ; perciò accanto alla
speculazione tu trovi ancora il mito, non come semplice ornamento,ma come
elemento in tegrale del sistema... Solo è certo che l'altissima idea è per
Platone quella del Bene ; la quale ora s'immedesima con la ragione divina, ora
è quella, a cui guardando il Demiurgo dà forma al mondo ; se non che non si può
risolutamente affermare che il Bene s’immedesimi con Dio,ch'è un dato della
tradizione piuttosto che della filosofia , ed in Piatone non essendo chiara
quella immedesimazione , non riesce perfetto il collegamento tra le idee e la
mente divina, ed il sistema delle idee riesce poco coerente , e sempre o n
deggiante ed incerto.Il Fiorentino nel Saggio slorico rigettò la
interpetrazionedelle idee platoniche come riminiscenze di una vita anteriore,
come modelli e paradimmi del mondo, come pensieri divini ; e ritenne che Platone
non è sempre lo stesso ne'suoi Dialoghi ; giovane filosofo da poeta,m a turo
senti bisogno di spiegare la scienza,e ricorse alle idee ; negli ultimi anni
adottò il linguaggio pitagorico a proposito delle idee , e le considerò come
numeri. La dottrina delle idee platoniche , trattata davvero scientificamente ,
consiste pel Fiorentino nei Dialoghi il Teeteto , il Sofista, ed il P a r .
menide. Il Sofista prepara il Parmenide, a cui dà il fonda mento ed
ilprincipio;ed ilParmenide sostituisceallame. 1 Manuale di Storia della
Filosofia, Parte I, p. 61-65, Napoli, 1879. 1 84 GIORNALE
NAPOLETANO tessi ed ai simulacri la relazione, ch'è la vera natura e la vera
condizione di tutte le idee ; è la loro vita e fecondità . IlFiorentino,austero
intellettoelibero pensatore,preferiva alla lirica del Fedro e del Simposio ,
alla epica narrazione del Timeo ildramma ideale del Parmenide.Fiorentino scrutò
profondamente i tre dialoghi platonici , o ne rilevò il vero significato. La
scienza, egli disse , non è sola sensazione e sola opinione, come vogliono
iJonici, ed ecco ilsignificato del Teeteto; la scienza non è la sola cognizione
dell'Uno,come pretende Parmenide,e neanco dell'essenze immobili ed ir relative
dei Megarici;ed ecco ilsignificato del Sofista.La scienza è l'una e l'altra
opinione e cognizione, relazione di entrambe ; ed ecco il risultato ultimo del
Parmenide ; tanto vero che, senza la relatività delle idee, il Parmenide
rimarra sempre un enimma, il sistema di Platone un leggiadro tes suto di
favole, di reminiscenze oltremondane ed assurde, e di sperticate idealità.
Scrutando meglio il Sofista ed il Par . menide, Fiorentino asserisce che il
principio da cni muove Platone nel Sofista , ossia l'Ente , e quello da cui m u
o v e nelParmenide,ossial'Uno,sonolostesso principio;senon che l'ento è rigido,
immobile, indeterminato, e l'Uno è d e t e r m i n a t o , e p r o d u c e i M
o l t i . L ' u n o è il m e d e s i m o e d il d i . verso del Molli; come
viceversa il Molti si può dire mede. simo ed altro dell'Uno; tanto che, a
parere del Fiorentino, abbiamo nel Parmenido esplicito ildiverso e l'altro;
sebbene rimanga in Platone nell'ombra la causa della estrinsecazione della
idea, e l'apparire della materia. Platone non colse la vera natura
dell'altro,che non può essere nè un'essenza,nė un'idea;sìbene una
relazione;egliperciò oscillò dall'uno all'altro di questi due termini,per
trovarvi la materia, ed, irresoluto, la fè credere una volta essenza,ed
un'altra idea. Pare che in tutte queste sottili ed ingegnose interpetrazioni
del Fiorentino entrasse un po ' il sistema e la critica moderna dell’Hegel ,
sempre caro al Nostro , come quegli che fu la sintesi più stupenda del pensiero
laicale tedesco,da Lutero FRANCESCO FIORENTINO 85 a Kant. Felice
Tocco, di cui tanto si onorano le Calabrie, nelle sue dotte Ricerche
Platoniche, esplicitamente osserva che il Fiorentino interpetra il Parmenide di
Platone alla maniera di Hegel , e che , ad onta delle argute considera zioni
sulle stonature della Dialettica platonica, nou tenne iu conto il fare negativo
di tutto il dialogo. Il trapasso, dalla teorica della metessi e degl’influssi a
quello della dialettica assoluta,èun
saltocosìsmisurato,chedifficilmentepotrebbe farsida un uomo,per vastissimo
ingegno ch'egli abbia,sopra tutto nel tempo,in cui la speculazione è ancora sul
nascere, ed i sistemi filosofici sono appena abbozzati.E ingiusto per ciò,
conchiude ilTocco,ilraccostamento della dialettica pla tonica all’egheliana, e
non bisogna interpetrare con Hegel Platone,etrasportare ilmondo antico nel
mondo moderno!! Alla origine e natura delle idee è intimamente legata la
Dialettica platonica ; essa non è altro , se non che la legge dell'intreccio
ideale, il modo come si forma il Logo , o la Ragione universale ed assoluta. Il
ritmo della Dialettica vera di Platone, secondo la interpetrazione del
Fiorentino,è nel Parmenide ; il contenuto del quale si risolve in una trilo
gia,di cui la prima parte presenta la idea solitaria dell'Uno, e
l'annulla;la2.lamedesima idea appaiata con quella del l'essere, e con essa in
contraddizione ; la 3. risolve la con traddizione nel momento, ch'è il
diventare; momento e di venire,che sono mutuati dalla dialettica Hegeliana,e
rendono infide e soverchiamente moderne le interpetrazioni del Fio rentino.
Egli era convinto, quando scrivea il Saggio Storico, che la dialettica
Hegeliana è modellata sulla platonica, e che le prime tre categorie del
filosofo alemanno, l'essere,ilnon essere,ed ildivenire ricordano l'uno, l'ente,
ed ilmomento del Parmenide. La Dialettica platonica , monumento gran dioso
dell'umano pensiero, ispirò in ogni tempo gli Artisti ed i Filosofi; ed
ilFiorentino conchiude che Goethe v'im 1 Op. Cit.pag. 132-133,Catanzaro,
1876. Lo studio della filosofia greca fece rientrare il Fiorentino
nel mondo moderno,ch'egli avea sfiorato col lavoro giova- nile del G. Bruno ;
il greco pensiero, che più degli altri è pensiero umano ed universale,
ricondusse il nostro alla R i nascenza,la quale, se inizia l'epoca moderna con
le ribel lioni speculative del Bruno, del Telesio e del Pomponazzi , usufrutta
con Telesio e con Bruno la parte viva ed immor . tale della greca
filosofia,ilconcetto della natura,autonoma od assoluta, e l'idea dell'Infinito
generante.Il Fiorentino,in gegno fecondo e progressivo,accettò i pronunziati,
gli ardi menti , o ,le ribellioni della Rinascenza ; nelle fresche c o r renti
della natura ei sentì ringiovanirsi, ed il suo 'pensiero divenne più ampio ed
umano . L'epoca della Rinascenza è, o Signori , un'epoca gloriosa , battagliera
, o titanica ; la Scolastica è assottigliata ; la cavalleria ed il feudalismo
se ne vanno;la Teocrazia perde ilsuo prestigio,e la sua uni versalità ; la
poesia si emancipa dai terrori mistici ; alle fo. sche pitture del trecento
succedono i freschi colori del T i ziano e del Correggio ; nasce lo Stato
laicale, e Machiavelli crea la storia moderna. I filosofi rappresentarono in
questo gran dramma una parte gloriosa,e specialmente ilmantovano Pomponazzi,che
per audacia speculativa,per energia di ca rattere è uno degli eroi più spiccati
del Rinascimento ita liano. Il Fiorentino, che come fiero calabrese e libero
pen satore,era naturalmente attratto verso i grandi precursori ed apostoli, si
mise a studiarlo con coscienza di filosofo e p a zienza di critico; sgobbò sui polverosi
volumi in folio, si chiuse come un vecchio anacoreta nella sua cella di
Bologna; ed affrontó con leonino coraggio l'intolleranza e lo scherno
degl'insipienti , le beffe dei gaudenti, che senza forti stu lii, 86
GIORNALE NAPOLETANO parò la movenza del Dialogo ; Hegel il severo ragionamento
; il Vico vi attinse lo schema della Scienza Nuova ; Rosmini il principio del
Nuovo Saggio ; ed a quell'opera immortale bisognerà ricorrere ogni volta,che si
vorranno scandagliare davvero le origini dell'umano pensiero.
FRANCESCO FIORENTINO senza accurato lavoro vogliono , con la veduta corta
di una spanna,giudicare gli uomini serî ed austeri,gli uomini che sacrificano
tutto sull'ara del pensiero e della scienza ; i n domiti o tetragoni nei loro
propositi ; Capanei,che muoiono e non si arrendono... Il Pomponazzi insorse
fieramente contro la Scolastica, e contro la greca filosofia; e nello spiegare
la natura dell'a nima, ed il processo del conoscere non ha esitato punto,nè
riprodotte, come altri fecero, le incertezze aristoteliche. Sgombrate tali
perplessità, il filosofo mantovano si liberò dall' intelletto separato di
Averroè , dell'intelletto agente dello Afrodisio , senza però emanciparsi del
tutto dagl’in flussi e dalle intelligenze superiori; ondeggiante ancora , c o m
e tutti gli uomini della Rinascenza , tra la Scolastica ed il mondo moderno
;tra S. Tommaso e Giordano Bruno. Stre mò , è vero, il Pomponazzi la
trascendenza in filosofia; con siderò l'intelletto umano come sviluppato dalla
potenza della materia ; ma non volle attribuire all'intelletto dell'uomo la
concezione dell'universale ; e disconobbe la vera m e diazione,che l'uomo fa
tra lecose eterne e caduche.Egli scruta insistente i più ardui problemi
metafisici, religiosi e m o r a l i , la P r o v v i d e n z a , il F a t o ,
la L i b e r t à , la P r e d e s t i n a z i o n e e la Grazia ; e porta in
tutte queste discussioni la novità e l'audacia,proprie dei filosofi del
Rinascimento ;piega più dalla parte della determinazione fatale degli Stoici
che da quella della vuota determinabilità dell’Afrodisio; che l'arbitrio non
può essere primo movente;e l'aver compreso il difettodella dottrina della
libertà , come è in Alessandro ed in Aristo tile; l'aver intravveduto nel fato
stoico maggior ragione volezza costituisce uno dei massimi pregi della critica
del Pom ponazzi . Disconobbe inoltre il valore assoluto delle R e ligioni; ne
spiegò con ragioni naturali l'origine, il fiorire, la decadenza ; le riconobbe
portato dello spirito, eterno ed irrequieto viaggiatore, che tutto rinnova e
distrugge. Con questa divinazione il Pomponazzi fu anche precursore dei 1
87 4 1 1 4 88 GIORNALE NAPOLETANO nuovi tempi, e della scuola
moderna ;se non che mancogli la perfetta coerenza nelle dottrine,e non si sollevò
al con cetto profondo dello spirito, come lo intendono i moderni. L'ingegno del
Pomponazzi , benchè novatore e ribelle, non si era completamente spastoiato dal
vecchio mondo scola stico ed aristotelico ;ei non poteva ai suoi tempi
cancellare del tutto il Dio di S. Agostino e di S. Anselmo; non po teva
scartare intieramente la Provvidenza oltremondana , von poteva combattere a
viso aperto le tradizioni della fede o r todossa. Ei però aveva intravveduto
che al Dio estramon dano , collocato fuori la coscienza , dovea fra poco
succedere il Dio intimo e vivente; che la vecchia forma religiosa do vea
ringiovanirsi e al Motore immobile di Aristotile dovea succedere l'Infinito di
G. Bruno. È questo il merito pre cipuo del Pomponazzi , che a buon dritto deve
chiamarsi il precursore della Riforma e del mondo laicale moderno ; e l'averlo
saputo rilevare con sagacia di critico coscienza di storico è gloria del
Fiorentino. Ciò segna un altro m o mento importante nella evoluzione critica e
speculativa del Nostro ; la quale avrà il suo compimento ed il suo massi - mo
splendore nel Telesio,e negli studii sulla idea della N a tura nel Risorgimento
italiano. Il Telesio infatti costituisce l'ultimo e più splendido momento
speculativo e storico del Fiorentino, il quale rap presenta perciò in Calabria
il più alto grado , la più alta manifestazione
dellacriticastorica,edilcompletosvegliarsi presso di noi della coscienza
laicale ed u m a n a ; rappresenta la continuazione della
Rinascenza,ingrandita, però,trasfor mata e divenuta pensiero europeo ed
universale coi Saggi critici di B. Spaventa. Fu primo lo Spaventa in Italia a
dare la debita importanza a Bruno ed a Campanella , ed a tutta la filosofia del
Rinascimento , rivendicando gli eroi del nostro pensiero, ed i martiri obbliati
della ragione. « L ’ I talia, disse B. Spaventa , apre le porte della civiltà m
o « derna con una falange di eroi del pensiero. Pomponazzi ,
FRANCESCO FIORENTINO 89 « Telesio,Bruno,Vanini, Campanella,Cesalpino paiono
figli « di più nazioni. Essi preludiano più o meno a tutti gl'in « dirizzi
posteriori , che costituiscono il periodo della filo « sofia da Cartesio a Kant
... Vico è il vero precursore di « tutta l'Alemagna... » (Prolusione alle
Lez.di fil. nap.62). Le austere parole e i forti ragionamenti del filosofo
abruzzese eccitarono il potente ingegno di Fiorentino,e co.. ine il nostro
schiettamente confessa , lo fecero orientare in quell' arruffio, ch'è la
speculazione della Rinascenza , e lo innamorarono di quel periodo filosofico,
che prima si con tentava di ammirare, senza averne perfetta e matura cono
scenza,piuttosto,perseguire ifacili lodatori che per veder ne realmente
l'importanza coi proprii occhi. Educato dalla critica nuova e poderosa dello
Spaventa , Fiorentino percorso da padrone e da maestro il campo glorioso della
Rinascenza italiana, e v'impresse orme da gigante.Gli uomini nuovi od
audaci;imartiri dell'idea piacquero tanto a Fiorentino,ed eis'immedesimò
loro,aspirandone l'immortale profumo,ed il soffio della giovinezza. La
Calabria, che, senza conoscersi , spesso si vilipende e si schernisce,non era
per lui barbara c selvaggia, covo di briganti, e nido di cannibali; era in vece
terra di filosofi, di critici, di poeti ; culla di martiri e di eroi, terra
artistica ed originale,a cui,ultimo tra gl’in gegni calabresi,consacrai tutto
me stesso,e per la quale non cesserò di combattere, finché avrò forze, finchè
in Italia vi saranno uomini senza coscienza storica e senza carità di patria.
La Calabria (e perdonate questo amore indomabile alla mia patria nativa , alle
mie care montagne ) seppe a n ch'essa indovinare e comprendere i tempi nuovi ,
uscire dal fondo de'suoi burroni,e mettersi a paro coi più grandi eroi della
Rinascenzaitaliana.La Calabriaseppe anch'essa com battere con la sua selvaggia
vigoria lo impero , la scuola , edilpotereteocratico.Ilcalabropensiero,che
ancorasiac cusadiangustiaemunicipalità,è,com’iodimostrai,un pensie ro,non solo
nuovo ed originale,ma eziandio italiano,europeo 90 GIORNALE
NATOLETANO ed umano . Universale in filosofia, inizid con Telesio lo stu
dio dellanatura,sconosciutaaipadrinostri,velatapertanto tempo dalle ombre del
Medio-Evo;nel tetro carcere della Vicaria creò col Serra la scienza economica ;
con Galeazzo usci dal cerchio della poesia provinciale , e fuse nel calabro
Sonetto la vigoria di Dante e la musica del Petrarca ; pre corse col Campanella
a Descartes ; e con Gravina anticipo Vico e Montesquieu, o creò la nuova
critica italiana. Fiorentino , che , com'egli stesso canto , avea Saldo il
voler ne le virili imprese, E indomita la tempra calabrese, innamorato della
vecchia Calabria, fa rivivere con magiche tinte le belle ed eroiche figure dei
padri nostri, il P a r r a sio, A. Telesio, il Martirano, il Quattromani, il
Tarsia, T. Cornelio,M. A. Severino,loSchettiniecc.;filologi,poeti e critici
precursori , che usciti dal fondo dei nostri boschi illustrarono le prime
Università, e diedero un potente i m pulso al Rinascimento italiano, col
fondare e promuovere quella stupenda Accademia Cosentina, segno in tutti i
tempi di odio inestinguibile e di amore indomato,la quale è tanta parte del
dramma grandioso della Rinascenza;diede all'Ita lia grandi latinisti da emulare
il Poliziano , il Sannazaro , il Fracastoro , e sorpassarne altri con Coriolano
Martirano; porta scolpito il fatidico motto : Donec totum impleat orbem ;
decrescit numquam ,nec fulmine laeditur;e servi di modello a tutta Europa col
Telesio per la scoverta del vero metodo naturale. Sotto questo doppio aspetto
la vide l'occhio sagace del Fiorentino, e stupendamente la illustrò ,
sollevandola a quel posto, che merita, e meriterà sempre, finchè le tradi zioni
del pensiero laicale ed umano rimarranno vive in C a labria,e ne trasformeranno
lavita,l'arte,elaspeculazione; finchè vi saranno uomini insigni come il Presidente
Sca glione,ed ilSegretario Greco,che ne accresceranno le glorie e l'importanza
, continuando l'esempio dei loro illustri a n tenati, che noi, gaudenti e
borghesi , abbiamo dimenticati, sconosciuti , e fino scherniti.... Il
Fiorentino , che il dotto FRANCESCO FIORENTINO 91 Canonico
Scaglione avea precorso con lo studio sul Telesio, pubblicato negli atti
dell'Accademia fin dal 1843, studiando a fondo, al lume della nuova Critica, le
opere del filosofo cosentino, proclama che il Telesio inaugura i tempi moderni
, r i t i e n e l a N a t u r a , c o m e il p r i n c i p i o u n i v e r s a
l e d e l l e c o s e , il ricettacoloditutteleforme,e,come schietto
naturalista,ri. getta Aristotile e la Scolastica, la Teosofia, e la Magia . Il
Telesio, evitando la contraddizione aristotelica , che rompe l'unità della
natura,parte da una materia primitiva ed uni ca,e da una contrarietà
universalissima, ilcaldo ed ilfred do , nature agenti , dalla cui azione sulla
materia nasce la generazione e la corruzione. Telesio , pur ritenendo la
necessità di un'opposizione universale e di un'unica materia, il che era anche
ammesso d'Aristotile , ne ha profondamente modificato il valore. La forma
aristotelica, ch'era sempre assoluta ed estranaturale, non gli parve principio
naturale , e la sbandì , e la rigettò dalla sua filosofia, con la rude
franchezza del calabrese . In una parola , la natura non ha mestieri per essere
spiegata di principi, che non siano naturali; e così fu vinto e sor passato il
Medio -Evo, e la Filosofia delle Scuole. Il soffio giovine e fresco delle
nostre montagne spazzò lo nebbie sco. lastiche , e Telesio , meditando gli
arcani della natura nel suo ameno podere, sito sulle rive pittoresche del fiume
Co. r a c i , f u v e r a m e n t e il p r e c u r s o r e d i B r u n o e d i
G a l i l e i , l ' u o . mo nuovo ed audace, che scrolla il vecchio mondo
medie vale, ed inaugura l'epoca moderna. Telesio, rigettando l'entelechia
aristotelica, vi sostitui una sostanza sottile , mobile , lucida, che per lui
costituiva il principio della vita;semplificò inoltre ilsistema del natu
ralismo,tolse ildissidioimmenso,che funel Medio-Evo tra la natura esterna e
l'organismo vitale , e fuse insieme nel suo novello sistema la Fisica e la
Biologia . Fiero ed i n e sorabilo calabrsse, rovescio tutto, non diè quartiere
ad Ari stotile ed alla Scolastica , o combattė senza ipocrisia , ed a
fronte scoverta; diede una nuova teorica dell'anima, sorpas. sando il
Fedone platonico, e l'intelletto universale di Ari stotile; fondò sul senso la
conoscenza, ed ammise il mondo etico come un effetto e risultato naturale. Nel
vasto dramma telesiano, che il Fiorentino stupen damente tratteggia, brilla di
nuova luce il martire di Nola , il q u a l e , e b b r o d e l n u o v o D i o
, d e l l ' I n f i n i t o g e n e r a n t e , e d e l l a Natura,allarga
efeconda iconcetti delfilosofocosentino,éd accetta pienamente il naturalismo .
Il vero assoluto rimane però in lui un punto oscuro,dove i contrarii si
affondano e spariscono; il Nolano, più che cogliere con l'atto intellet tivo
l'assoluto, vuole trasformarsi in lui, e divenire Iddio. E leroico furore, che
lo trasporta in grembo dell'Infinito, non il sillogismo speculativo , e la
serena meditazione ; • l'ebbrezza dell'amante, che lo trasfigura in grembo alla
di vina Anfitrite.Bruno,uomo del Mezzogiorno, nato presso il Vesuvio,ha scosso
in ogni tempo la mente dei pensatori, ed il cuore dei poeti... Eroe leggendario
del pensiere, ca valiere errante della scienza , mistico 'o ribelle ,
inesorabile flagellatore dei cucullati pedanti , egli che avea vestita la
bianca tunica di S. Domenico, ilBruno percorse,si può dire, da un capo
all'altro l'Europa disputando, combattendo,af. frontando ilvecchio
Aristotile,laciarlataneria delleScuole, e l'infallibilità dei dottori. Vilipeso
e adorato, schernito glorificato , ora debole innanzi a'suoi carnefici, ed ora
su - blime ; tradito a Venezia dal Mocenigo , suo discepolo ed ospite, è
consegnato al Sant'Uffizio, dissacrato e condan . nato a morte. Quando in Roma
gli fu letta la sentenza , G. Bruno,con calma eroica e tremenda ironia, ha
ilcorag. gio di profferire innanzi ai giudici queste memorande parole: «
Maggior timore provate voi nel pronunciar la sentenza contro di me,che non io
nel riceverla .»Il 17 Febbraio 1600, l'eroe della verità, e del pensiero laico
fu legato come un volgare malfattore ad un'antenna,e,bruciato vivo in Campo di
Fiore, imperterrito il Bruno non mandò nè un sospiro, 92 GIORNALE
NAPOLETANO . FRANCESCO FIORENTINO 93 nè un lamento; le fiamme furono
la sua apoteosi;e benchè le sue ceneri fossero state disperse al vento, corsero
l'Eu ropa come polline fecondatore , e vi propagarono i semi del libero
pensiero, e della filosofia moderna.... F. Fioren tino, pensatore e poeta,che
dopo più maturi studî avea ac cettata in tutta la sua pienezza la Rinascenza ,
ritorna su G. Bruno , e lo vede nel Telesio sotto un nuovo punto di vista; e se
prima,nel suo lavoro giovanile, lo avea rigettato, come panteista ed
antimistico, ora lo guarda , e lo ammira come ilveroeroe
delpensiero,l'araldoeilmartire della nuova e liberafilosofia;degno, come disse
B. Spaventa,di avere un posto accanto a Prometeo ed a Socrate. Quel che
Fiorentino scrisse di B. Spaventa , permettete , o Signori, che io lo riferisca
al nostro fiero concittadino : « Il grande « ideale del filosofo per Fiorentino
era il Bruno ; pari forse « avrebbero avuto il fato, se fossero vissuti nella
stessa età. « Fiorentino avrebbe guardato il rogo con lo stesso corag . « gio;
Giordano avrebb » disprezzato con la stessa serenità, « non il rogo, ma
qualcosa di peggio,quella rete sottilissi. « ma di cabale, onde la turba ignara
circonda gli animi al « teri;che tentano slacciarsi da maltesi agguati:non
ilrogo, «ma lacalunnia divota:dopo ilTorquemada ilTartufo: < siamo ben
progrediti noi. » Il vecchio Dio della Scolastica si assottiglia in G. Bru .
no; in lui si fondono Dio e l'Universo; la creazione è svi luppo di Dio stesso,
processo necessario , che rende cono scibile e reale l'attività di Dio : in una
parola, il Dio del Nolano non vive se non per la natura,e nella natura:fuori e
senza di lei sarebbe un'astrazione ed un fossile. La n e cessità della
creazione, che il Bruno insegna a viso aperto, lo mette di accordo col futuro
naturalismo spinoziano , e lo fa precursore della moderna filosofia alemanna.
La filosofia del Rinascimento , incarnata in Telesio ed in Bruno , per avere
considerato l'assoluto , come natura , ha preparato il grande avvenimento dello
Spirito, la cui speculaziane inco 1 2 1 mincia con la coscienza
cartesiana. L'infinita natura , ini ziata da un Sofo di Calabria,è la gran
parola della R i n a scenza e dei tempi moderni !... Telegio e Bruno preparano
inoltre la vasta speculazione di Tommaso Campanella,indo mito Frate, che
sopporta,con la fiera costanza del Calabrese 26 anni di carcere,ed un giorno
intero di torture. Permet tete,o Signori,ch'io m’inchini al martirio di
Campanella, ed al rogo di G. Bruno ; martirio e rogo , che sono la gloria del
Mezzogiorno,e del libero pensiero;la condanna più elo. quente dei feroci
persecutori dell'umana ragione !... C a m p a nella, che sublimò alla dignità
di principio speculativo la divinità latente del Bruno , è il vero tipo
dell'uomo cala bro, ricco d'ingegno e di cuore, intemperante, battagliero,
audace , iniziatore. È uomo originale e contraddittorio ; fa l'apoteosi della
Teocrazia e della Spagna,della Scolastica , del Medio-Evo,e poi scrive laCittà
delSole, e vagheggia la democrazia ed il socialismo, la sovranità del libero
pen siero, e lo Stato laico moderno . Ei fonde in sè due età di verso , la età
della fede , e l'età della ragione ; Platone ed Aristotile , Telesio ed il
Cusano ; l'austero sillogismo del pensatore,e le vaporosità dell’Astrologo;le
apocalittiche vi. sioni dell’Abate Gioacchino , o la fredda sottigliezza del M
a chiavelli ; l'ossequio alle somme chiavi , e l'audace ribel l i o n e d i L u
t e r o .... C a m p a n e l l a , s t u p e n d a m e n t e t r a t t e g g i
a t o da Fiorentino , ritorna , come metafisico , a Platone , ed al Medio-Evo;come
sensista e psicologo, anticipa,nella teorica del senso e della cognizione,
Cartesio, ed il mondo moder no . Ei proclama la identità del pensiero e
dell'essere ; se non che sì fatta unità non acquista la forza di vero prin
cipio,e Campanella,ad onta delle sue stupende divinazioni, ondeggia ancora tra
lo schietto naturalismo ed il sistema delle cause finali. Alla filosofia
naturale , che tolse in p r e stito ed usufruttuò dal nostro Telesio,Campanella
aggiunse una metafisica, che ne rimase staccata; mettendo ogni sforzo per
levarsi alle categorie supreme della natura e dell'essere, 94 GIORNALE
NAPOLETANO : > FRANCESCO FIORENTINO 95 non seppe applicarle alla
natura, e con tutta l'energia p o derosa di assurgere all'Unità, restò nella
opposizione , ch'è il carattere principale del naturalismo. Il solo
naturalismo, chiarendosi col Campanella impotente a spiegare la genesi della
Natura,non potė, esso solo, sciogliere il gran proble. ma del mondo moderno,e
conciliare l'universale col parti- colar :; ricomprendere il senso in una forma
di pensiero più larga, dove l'opposizione riapparisse trasformata ed unificata
in una sintesi suprema e dialettica. Tale fu il progresso a p portato nel
naturalismo,o nella filosofia moderna da Galileo e Descartes; tali sono le
glorie del nuovo pensiero, antimi stico e laicale , iniziato da due filosofi ,
nati tra i selvaggi burroni delle nostre Calabrie... Fiorentino,dopo aver
richia mato alla memoria degli Italiani Tommaso Cornelio , e M. A. Severino ,
glorie dell'Università Napoletana , e filosofi telesiani; dopo aver valutato la
importanza del Galilei e del Bacone , si arresta col Descartes alla soglia
della filosofia moderna, lieto che la speculazione filosofica si stacchi dalle
scienze naturali,preliminare,per altro,necessario nella evo luzione del
pensiero moderno,e siposi nel Cogito cartesia no.La natura si emancipa, il
pensiero si scioglie, e diviene più libero e più snello; lo Spirito , che tutto
ringiovanisce e trasforma , fondo ed armonizza Telesio e Bruno , C a m p a
nella e Galileo , Bacone e Descartes , e la silvosa Calabria entra co'suoi
filosofi, e coi suoi profeti, co’suoi martiri, e co'suoi precursori nel dramma
glorioso del mondo moder no... Vi rientra sotto l'impulso del Fiorentino , che,
nato presso Stilo, tocca di nuovo la squilla dimenticata del C a m panella ,
annunzia ai giovani calabresi l'aurora di nuovi giorni, la completa
emancipazione dalla Scolastica e dal Me . dio-Evo;larisurrezione
delpensierodellaMagna-Grecia, fuso, ingrandito,trasformato nel pensiero
moderno...La Ca labria e l'Accademia Cosentina non potranno dimenticarlo ; non
potranno disconoscere l'austero filosofo, che ne illustrò stupendamente le
glorie, e con magico pennello ne ritrasse 96 GIORNALE NAPULETANO
gli apostoli , e gli eroi , rivendicando i padri nostri al c o spetto di un
secolo banchiere eborghese ... La morte lo colse ancor giovine sulla soglia del
tempio del Rinascimento; glo. ria al virile sacerdote della scienza,che
muore,adempiendo il suo dovere , mentre si folleggia , deridendo gli eroi del
pensiero,imodesti operai del mondo moderno,e sigittalo scherno sulle ossa dei
grandi precursori della nuova Filoso fia e della nuova Critica.... Io ho fede
che la gioventù ca labrese,così ricca d'ingegno e di cuore, cosi amante delle patrie
glorie,avrà un culto per gli uomini,che muoiono sulla breccia , martiri della
scienza e della patria ; per le anime generose,che non curano le amarezze della
vita, l'esilio,la povertà, la carcere,ed accettano, fino le torture di Campa
nella,finoilrogodiG.Bruno.....Ho fedechelaCalabria si rinnovi nel lavacro della
Rinascenza e negli studii virili delpassato,elagentileedottaCosenza,riccaperme
di care e dolorose memorie,prodiga di tanto sangue alla patria, di tanto
contributo d'ingegno alla storia del pensiero ita- liano, s'ispiri nell'austera
figura del più grande dei suoi figli, il cui busto parla tra il verde degli
alberi la gran p a rola del Risorgimento alla nostra gioventù... Ho fede che
l'austera parola del filosofo di Sambiase non suoni più nel deserto, e la sua
tomba, su cui piansero amici e nemici,sia un'ara dove le novelle generazioni
attingano iforti propo siti, e, quel che più ci preme,la serietà della vita,
l'abne gazione,ilsacrifizio,ed illibero pensiero....Così,o gio vani, non sarò
costretto a ripetere gli amari versi dell’au - stero poeta di Recanati : Oggi è
nefando stile Di schiatta ignava e finta Virtù viva sprezzar lodare
estinta!....Vincenzo Julia. Julia. Keywords: implicatura, filosofia calabrese,
Campanella, Telesio, Sanctis, Leopardi, Mazzini, Garibaldi, Gioberti, Spaventa,
Hegel, Aligheri, Serra, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Julia” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688613097/in/photolist-2mPVkio-2mPysn2-2mKxDSr-2mJ4GHU-2mDUFSN-RkfqJ3-Bq5Z5y-CkaHMd-i7brtE
Grice e Juvalta – implicatura – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo. Grice: “At Harvard, I said I was ‘enough of a
rationalist,’ but perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” – Grice:
“Juvalta has explored the limits of rationalism, in connection with value and
reason: if value is irrational, how can co-operation be rational in terms of an
accord to follow conversational maxims?” essential Italian philosopher. Ogni
sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già
riconosciuto il valore morale è dunque vano e illusorio. O non dà quel che si
cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare.» I genitori sono il
barone Corrado Juvalta, cancelliere della locale pretura originario di Villa di
Tirano, e Teresa Zanetti di Tirano. Dopo gli studi liceali trascorsi tra Como e
Sondrio, si iscrisse a Pavia dove si laureò con una tesi su Spinoza, sotto la
guida di Cantoni. Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza, Spoleto. Vinse
il concorso per la cattedra di filosofia a Torino. Le tematiche accademiche
prevalentemente trattate riguardarono soprattutto i valori di “libertà” e di
“giustizia” con ampie riflessioni etiche. Convinto della loro generalità e
universalità, arriva ad auspicarne una loro applicazione anche nello studio
delle categorie politiche ed economiche. La filosofia di Juvalta è una profonda riflessione sull'etica portata
avanti con il metodo dell'analisi. Anche se, come risulta dalla sua, non
troviamo nei suoi scritti importanti contributi sul piano gnoseologico ed
epistemologico, dal momento che il suo principale campo d'indagine fu
prevalentemente il Sistema morale, possiamo affermare senza dubbio che sia il kantismo
che il Positivismo costituirono il nucleo di fondo della sua posizione, da cui
sviluppò la sua impostazione metodologica. Il positivismo, in particolare,
è stato il primo grande sistema filosofico con cui si è misurato nella prima
fase della sua elaborazione concettuale. Tuttavia Juvalta sarà costretto a
prendere presto le distanze da una siffatta visione della morale. I motivi di
questa rottura sono da imputare principalmente al suo fermo rifiuto di
accogliere come sostenibile la pretesa positivistica di fondare l'etica sulla
scienza. Il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso
e non deducibile dal giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità
o la connessione modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le
cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta
nella costruzione di una teoria ed in particolare di un sistema coerente di
valori morali, il giudizio che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica
deve configurarsi come “un giudizio originario” che ha una natura eminentemente
etica, quindi non scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica
scientifica appare insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un
giudizio di valore, di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura
fattuale, è indubbio che la costruzione di un sistema morale debba essere
condotta con criteri di scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su
criteri logico-deduttivi e viene definita dalle relazioni logiche che
intrattengono in essa i propri elementi costitutivi, così anche la costruzione
di un sistema etico deve seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente
l'identica costruzione formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di
mantenere al loro interno un imprescindibile grado di coerenza, se vogliono
risultare sostenibili ed essere così accettati dalla ragione (pratica). Quando
parla di ‘teoria’ dell’etica lo fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo
dei valori all'interno di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza
di un sistema morale nella misura in cui un coerente insieme di valori viene
rigorosamente derivato (volitativamente) da un postulato, imperativo
categorica, o assioma, di valore morale capace di fungere da premessa
all'intero sistema (allora come insieme di massime universalisabili). Una volta
prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente al Kantismo; in
particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte delle posizioni
assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero che ha come
obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg riadattando i
contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della
contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che
meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso
dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di
natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto
si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto
ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in
generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore
morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e
affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha
il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di
indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità”
per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto
il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale
significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non
può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su
ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come
un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un
contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica.
Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale
costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o
imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora
metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che
impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio
principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece
abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse. Una volta
riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che
può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si
creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso
un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a
partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento
al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una
filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout
court la filosofia morale di Kant. L'ambito della giustificazione e
l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia,
l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta Juvalta a distinguere l'ambito della
giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di ragioni
che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore morale,
dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale dell'azione
ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al momento storico,
inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad agire. Con un
atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità dell'esistenza di una
pluralità di fini morali sia sul piano teorico che pratico, e con la stessa
energia cerca di trovare una soluzione per definire le precondizioni teoriche
che rendano possibile una compatibilità tra i diversi valori. La
modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel campo della
filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e coerente
visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada l'idea
del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e di
diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro precisa
dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine
filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a
prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo,
asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il
fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una
giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni
coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come
possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo
accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione
morale? La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico
Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il
cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il
principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente
giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire
relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che
sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La
razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato,
ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la
razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di
valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la
ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e
i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le
valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni
sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per
sé…” I valori ultimi di Libertà e Giustizia Tuttavia il messaggio di
Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non secondario. Anche se esiste
una pluralità di valori che la coscienza può scegliere come fini, i quali si
costituiscono come le linee guida della nostra condotta individuale, una volta
adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’ del valore è possibile
intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che la ragione può
immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa arbitrarietà
della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti debbano essere
visti come i fini supremi su cui improntare la nostra vita e organizzare
le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale della libertà; secondo
il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia costituiscono le pre-condizioni
della vita morale e gli unici due valori morali, tra quelli possibili, che
risultano “universalizzabili”. Essi sono le sole precondizioni che permettono
ad ogni essere umano di realizzare il proprio fine e di raggiungere i propri
beni (valori), in vista di una totale e piena realizzazione della natura umana,
senza limitare la ricerca della moralità dell’altro. Libertà e giustizia
rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema morale con i quali poter
impostare se non un vero e proprio ripensamento di ogni pratica umana almeno
una profonda critica ai modelli di società dominanti quali l'individualismo
liberale, l'autoritarismo o la proposta socialista. La libertà esprime
l'esigenza delle condizioni inter-soggettive necessarie a fare dell'uomo una
persona padrona di sé di fronte a sé e di fronte ad ogni altro. La giustizia
esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggetive necessarie all'esercizio
universalmente efficace di questa libertà. Non fu un pensatore sistematico e
non cercò mai di definire un sistema filosofico che rendesse ragione
dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente contrario a ingabbiare la
riflessione filosofica in grandi narrazioni o in arbitrari sistemi, dal momento
che era fermamente convinto che il pensiero soprattutto etico sfuggisse per
così dire all'idea di sistematicità e organicità che aveva così profondamente
caratterizzato la maggior parte del lavoro filosofico ottocentesco. D'altra parte questo non significa che non
esiste un'evoluzione all'interno della sua riflessione, o che la sua proposta
nel campo della filosofia morale non trovi una sua coerenza e una struttura di fondo
ben definita. Saggi: “I due limiti del razionalismo etico: liberta e giustizia”
(Einuadi, Torino). Contiene:“ Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia”
(Bizzoni, Pavia); “Le dottrine delle due etiche” in «Rivista filosofica», “Per
una scienza normativa morale”; in «Rivista filosofica», “Il fondamento
intrinseco del diritto”; “Su i limiti della morale” (Bocca, Torino); “Il metodo
dell'ECONOMIA pura nell'etica, in «Rivista filosofica»); “Postulati etici e
postulati metafisici”; in «Rivista di filosofia»: “Postulati etici e imperativo
categorico,” «Atti congresso di filosofia» (Bologna)(Formiggini, Genova); “Sula
pluralità dei postulati di valutazione morale” in «Atti del congresso della
società filosofica» (Genova) (Formiggini, Genova); “l vecchio e il nuovo
problema della morale” (Zanichelli, Bologna); “In cerca di chiarezza”; “Questioni
di morale”; “I limiti del razionalismo etico” (Lattes, Torino); “Il con-flitto
morale”; in «Rivista di filosofia»; “La dottrina morale di Spinoza”; in «Rivista
di filosofia», “D. Basciani, L’etica della giustizia” (Desclèe, Roma); F.
Picardi, La morale in Juvalta” (Filosofia, Marzorati, Milano); M. Viroli, “L'etica
laica” (Angeli, Milano); Juvalta, «Rivista di storia della filosofia», Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli
Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini,
Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that
I had I been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they
doubt as to how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s
little book, “Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a
baron, from the ‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool
they wore --. ‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL
VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta PARTE PRIMA IL FONDAMENTO DELLA MORALE
4 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta
CAPITOLO PRIMO IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE SUE FORME Se la saldezza di un giudizio
dovesse giudicarsi dall'accordo delle dottrine che cercano di stabilirne il
fondamento, nessuna specie di giudizi sarebbe piú incerta dei giudizi morali.
Se così non è, se i giudizi, o almeno alcuni, sono, nonostante l'incertezza del
fondamento, riconosciuti e ac- colti come validi incontestabilmente, può
apparire legittimo il dubbio, o che il «vero» fondamento non sia ancora
trovato, o che non si possa trovare: cioè che il problema sia insolubile. E in
questo caso: se sia insolubile per difetto di mezzi, ossia per radicale nostra
incapacità a risolverlo; o perché è un problema mal posto, cioè nella forma con
la quale si presenta, illusorio e fittizio. Dichiarando subito che a mio
credere il problema è insolubile, ed è insolubile perché fittizio, m'è appena
necessario di soggiungere che ciò non equivale in nessun modo (come potrebbe
parere a prima vista) a ritenere prive di significato ed infeconde le indagini
e le discussioni delle quali fu lie- vito, né tanto meno ad ammettere che,
rimosso il problema fittizio, nessun problema gli sottentri, anzi non ne
rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare come e perché un problema sia mal
posto, non è altro in effetto che la preparazione necessaria a sostituirgliene
degli altri. ** * Il problema del fondamento è ispirato primamente e dominato,
si può dire, in tutte le sue forme da una preoccupazione pratica e apologetica:
Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel che essa suggerisce o
prescrive è veramente bene che la sua autorità è legittima e deve es- sere
rispettata. Ora un tal modo di porre il problema presuppone manifestamente che
su ciò che la coscienza morale prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio
sorge nasca non da incoerenza o opposizione di criteri diversi o contrastanti,
ma da errore e confusione di interpretazioni e di giudi- zio nelle applicazioni
concrete. Il che si accorda con la osservazione di fatto che fino a quando il
presupposto è legittimo, cioè nei limiti nei quali corrisponde a una
convinzione universale salda- mente stabilita, non è questa o quella dottrina
sul fondamento della morale che fa accettare o re- spingere i dettami della
coscienza morale, secondo che si accordano o no con la dottrina, ma sono le
convinzioni morali che fanno accettare e respingere una dottrina secondo che è
o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro certezza, a mostrarne la
validità. Questa preoccupazione pratica spiega l'insistenza e la pertinacia
degli sforzi volti a risolvere un problema radicalmente insolubile: di
giustificare ciò che è presupposto in ogni giustificazione; di derivare da
delle idee una volontà; di creare con dei ragionamenti un potere; illusione che
si rivela nelle forme piú svariate e negli indirizzi piú diversi, e per la
quale accade, cosa notissima, che a cia- scun sistema riesce assai piú facile
dimostrare l'insufficienza degli altri, che provare la sufficienza propria. Il
problema fu infatti inteso in modi diversi, e la soluzione cercata in direzioni
corrisponden- ti, distinte e chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte
variamente intrecciate e sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo
di pensiero e anche in uno stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo
noi fare, cioè volere ciò che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú
larga e indifferenziata in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te-
si o tipi di soluzione diversi: I. Considerare i principi e le norme morali
come «verità» di cui si cerca il fondamento in una realtà obbiettivamente data
alla coscienza. II. Dimostrare la bontà di ciò che la morale prescrive, cioè
derivarne le norme da un fine ossia da un bene o ordine di beni (qualunque ne
sia poi la natura) che ne giustifichi l'osservanza. 5 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta III. Provarne l'autorità; e
cercare di questa autorità il fondamento: a) sia nella storia; b) sia in una
volontà distinta dal volere personale e che si impone ad esso. Ciascuno di
questi tipi di soluzione deve essere esaminato piú brevemente che sia
possibile, ma esaurientemente. 6 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO IL FONDAMENTO CERCATO NELLA
REALTÀ La persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme
della condotta, non so- lo possano ma debbano avere il loro fondamento in un
ordine di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti
o leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse ap- pare piú
chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se
la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli
argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte. Perché la
«scienza» si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la
metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed
incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente
valido; e la «metafisica» insisteva nel porre in evidenza la relativi- tà, la
contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di
attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una
qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di do- veri. Ora l'uno e l'altro
tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di
questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa
d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia
riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè
dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore,
smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non
negabile per la sua massiccia eviden- za: che si trovano degli uomini di
sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine.
Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci
siano delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano
logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa
ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una
tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto
perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una
connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non
possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto
del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di
principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico
A; se trovia- mo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che
quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono
illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconosce- re
semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra
connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A?
Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi
con prin- cipi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né
sull'uno né sull'altro, cioè che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma
il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza
a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa
che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se
si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica,
una certezza che non ci dovrebbe essere. «Tu qui! Ma è impossibi- le!» dice la
metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo
rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché
dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con
lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto
l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto
apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia
inattendibile, perché dove si avvera, manca la 7 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ma se questa
fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di
che si alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le
esigenze della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che
si tratta di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a
tali esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli «leggi»
scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo
fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il
valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo
di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una
parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza,
qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono
bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza
condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione,
diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato,
posto, riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio
assiologico su ciò che ha relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú
delicate meraviglie della vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se
non si riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai
quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano
di questo valore finale. Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla
barbarie e all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia
ammesso o sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di
dignità o di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che
certe altre, cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione.
Pare a prima vista una pedanteria. — Non si riconosce infatti da tutti che la
vita valga la pe- na di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole,
non sentono nell'istinto profondo smenti- re la loro negazione? Ammettiamo
senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità
del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo
apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è
posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di
vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di
sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di
miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo
giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi
della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so-
ciologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se
fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce2. competenza richiesta.
Un libriccino pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa (Précis raisonné de Morale
pratique, Alcan, 1907) si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori
(qui non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostan- za
caratteristica: che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato
sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e
autorevoli moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La
testimonianza dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello
che è un luogo comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che
sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché
tutti siamo d'accor- do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra
condotta o l'altrui: Tutti «quali che siano le convinzioni filosofiche e
religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO,
Massimi e problemi, Nota VI: Metafi- sica e morale. E il Varisco, come è noto,
è persuaso che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»). Quanto
all'accordo sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú largo di
quel che in realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi alla
«Metafisica... definitiva» si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica
adatta a fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito
dall'accordo con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data
prima e fuori della Metafisica? 2 Neanche è da credere che tutto si riduca a
questo salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e
dalla conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale
di valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia
allontanata. 8 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta ** * Quel che non può dare una conoscenza empirica non può dare una
conoscenza metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza
metafisica la conoscenza non di una realtà «intelligibi- le» e in quanto è
intelligibile, ma di una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la
conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando il Rosmini si sforza con
grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere è conoscenza del
grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose, e che perciò la
stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e deve diventare
modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro volere), egli assume
già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione,
cioè di valore; e non deriva il secondo termine dal primo se non perché lo ha
surrettiziamente già identificato con esso. La sua «stima speculativa» in
quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è già pratica, perché non ha
luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in quanto è speculativa cioè
conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non implica nessun
apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in quanto è
speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada che
l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un
ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto
esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in qualunque
entità esso sia riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la realtà è
graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta
realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro
appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda e costante
tendenza del platonismo, il concetto di perfe- zione come sintesi dei due
concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten- za
e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un
modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità
implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla
sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale
dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o
induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà
data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera
co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con
il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal
giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possi- bilità o la
connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose
sono, è tut- t'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali
come leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni
utili a una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad
ogni nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la
valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è
espressa, e sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione
del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale
fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della
«concezione immaginaria di un ideale» (La Morale et la Scienze des mœurs, Cap.
V). Questa «conquista metodica» della realtà sarà pur guidata, — e non può
essere altrimenti — se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso,
dall'idea di qualche cosa che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma
quale è il cri- terio di questo meglio? di quella amélioration che, come dice
poche righe piú sotto delle parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi?
Questo criterio non può essere il reale stesso che bisogna modificare e
migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce.
«L'ombra sua torna ch'era dipartita». 3 Il pragmatismo, anche per chi è
pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo che anche la
nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da un interesse
(l'interesse teorico) e come tale sia, anzi è senz'altro, un valore
(intellettuale): ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata. 9
Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ora la
conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di
fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li
interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non
preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú
conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del
disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di
valutazione che essa non trova nelle cose se non per- ché ve l'ha già posto, e
ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co,
ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi
del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta
non soltanto la molla che spinge a ricer- care e a trovare le distinzioni tra gli
oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si
intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi
di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi
parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli
uni dagli altri, di pretendere che un giudi- zio di ciò che è, possa servir di
fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú
manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso
e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò
si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e
scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. ** * In breve (e
trascurando le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive): La realtà si
può interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si
interpreta come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente
intelligibile, cono- scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché
estranea ad ogni valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia
metafisica, empirica o a priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se
queste forze si giudicano cioè si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o
operante per esse, un ordine, o un conflitto, o un processo di attuazione di
fini, allora la conoscenza della realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini
della natura o della Provvidenza diventano il modello o il cri- terio del giudicare
morale; e il fondamento della morale si troverà nella conoscenza di questa
realtà; si consideri essa come scienza o come metafisica. Ma perché quelle
forze siano apprezzate come valori occorre che siano dati i valori a cui si
ragguagliano tali forze; e perché i fini della natura siano i fini di una
Provvidenza è necessario che il processo della natura sia riferito ad uno scopo
il cui valore di bontà è già dato e riconosciuto. Così il criterio della
valutazione non si ricava dalla conoscenza della realtà se non perché la realtà
era già stata valutata secondo il principio che si pretende di ricavarne; e non
si trova in essa il fondamento della morale se non perché la coscienza morale
ha spirato nell'intimo della realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne
come suo principio e fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli
assertori della fondazione metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e
piú vivaci nell'attacco. La scienza interdicendosi — nel programma se non
nell'attuazione — ogni interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione
della realtà, si trovava piú manifestamente a disagio quando pretendeva di
derivare dai suoi rapporti obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente
escluso. E quando voleva trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente
rendeva palese la propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a
considerare e a spiegare la moralità come un prodotto na- turale o un risultato
meccanico di un giuoco di forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la
tenden- Senza volontà di conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o
almeno possiamo qui lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di
conoscere le cose come sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte-
resse che quello del conoscere; e il valutare è giudicare le cose così
conosciute (cioè costruite in conformità all'interesse teoretico) rispetto a
finalità distinte da quelle del conoscere, cioè a interessi di altro genere,
edonistico, estetico, morale, e via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa
fresco e altro dire che amano il fresco quei che vi passano l'estate. 10
Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta za
costante dell'«etica scientifica» a identificare il problema nel fondamento col
problema dell'ori- gine, la valutazione con la spiegazione; e a considerare una
reale o pretesa naturalità come criterio di moralità. E la metafisica poteva
tanto piú trionfalmente mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza
assiologica della scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma
legittima, ma implicita nella propria costruzione della realtà, una
interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la morale come sua
pupilla perché... ne amministrava il patrimonio. ** * Ma se il problema della
fondazione teorica, nella forma classica, e, direi (nel senso piú bello della
parola), ingenua, di derivazione dei valori da una realtà, è insolubile, perché
o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a una petizione di
principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto dietro di sé il
problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso Kant si è ve- nuto
via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare nella conoscenza della
realtà la prova che le nostre valutazioni sono «vere», poiché le valutazioni
sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé;
ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una conoscenza
oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe condizioni e
di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento del valore,
ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre
in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano
un si- gnificato morale, se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che
la coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti
durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni co- scienza riprende
faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a
cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso.
L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella riflessio- ne consapevole e
nella costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella
filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo
riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore. Il momento che
nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della
assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella
filosofia dei valori diventa chia- ro e consapevole e si allarga nel tentativo
di tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un
sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato
iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o
metafisica, progressiva o regressiva, a- scendente o discendente: la certezza
diretta e intuitiva dei valori morali. 11 Su la pluralità dei postulati
di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO IL FONDAMENTO CERCATO IN
UNA GIUSTIFICAZIONE FINALE Illusione poco meno antica accompagnata da sforzi
parimenti tenaci, e forse piú multiformi di tradurla in dottrina rigorosa, è
quella di credere che si possa ricavare la valutazione morale da qualche bene
indiscutibilmente supremo, del quale essa esprima le esigenze e formuli le
condizioni necessarie. Questo sommo bene, questo fine supremo, questo valore,
sorgente prima, termine ultimo di tutti i valori si credette di trovare: o in
un dato della coscienza empirica, un fine inerente alla vita e subordinante di
fatto tutte le tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che
domina ben- sì, ma trascende la vita e la natura umana, e subordina di diritto
ogni altra forma di bene e ogni cri- terio di valutazione. Alle due diverse
concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine morali, dei
quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla
fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la corrispondenza non
è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa di derivare la
valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto;
qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si suppone che debba
essere ammesso inconte- stabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore
ad ogni altro. Ora l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore
morale non è morale se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta
la superiorità, la preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale
consiste (con ciò non si escludono gli altri caratteri) in questa sua
supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo
giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa alternativa: o
di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora- le che si crede
di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche
per altri rispetti; cioè sarebbe un valore (di altro genere) anche se non fosse
valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo (fine: la
felicità, o il piacere) riescono di solito (quando e nella misura che possono)
a quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino,
l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre
quel che credono di derivare. ** * Dell'utilitarismo in generale e delle sue
diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la
centesima volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu
notato e che piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le
insufficienze e le incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che
fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio dell'utilità, e di
mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali e il contenuto
delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la derivazione è
impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una petizione di
principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo manifestamente
arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente vuoto nel quale
ciascuno versa il liquido preferito (e che non è sempre neppure per la stessa
persona il medesimo) ma abbia un contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il
possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria, simpatia, cultura,
ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra questi beni sia
possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa dimo- strare
davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú sicuro, ma il
solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia l'osservanza
costante delle norme morali. 12 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta Con ciò non si sarebbe dimostrato che ciò
che fa il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida
della felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono-
logici; che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione
utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel
suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione (s'intende e deve esser
quasi superfluo avvertirlo) la considerazione dell'efficacia pratica o
esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra
valutazio- ne. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che
sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o
si identifichi con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a
un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera,
potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma
nessuno sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far
carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è
determinato, né determinabile se non ad arbitrio4; e solo significato comune e
costante del termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri, di
soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover- si
trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge
nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non
basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico
fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una
riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella
storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in
effetto sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come
possa avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello
della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali,
e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra
i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è
troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità
alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come
supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso
stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della
felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza
morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver
risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano
dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove
erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie.
Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio
della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio
morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò
che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto
ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una
valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica)
del valore morale5. ** * Porre come bene supremo la santità (il divino in
quanto è sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un
ideale di santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito
come principio e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un
elemento; o 4 Ne ho parlato altrove (La dottrina delle due etiche di H. Spencer
e la morale come scienza, pp. e 120-121) e non occorre insistervi qui. 5
Sebbene il parlare della soddisfazione della propria coscienza come di un bene
desiderabilissimo sia legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla verità
psicologica, considerarlo come il fine della condotta morale. Il fine è
l'attuazione di quel valore che la coscienza riconosce come morale; e non è
l'altezza della soddisfazio- ne che se ne possa attendere, che costituisce il
pregio dell'azione, ma è il pregio dell'azione che misura l'altezza della
soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che non se ne faccia lo scopo
dell'operare. 13 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una
condizione, o un momento dell'attuazione, di quel- lo. E qui giova premettere
due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza: 1° Che questo valore
supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il valo- re
religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo
conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle
proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i
dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice
con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro
ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive.
Fondare la valutazione morale sui valori reli- giosi è dunque presupporre che
siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori
religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non
siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può
crearli6 o sostituirli. 2° Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun
ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da
quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale
egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe
diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i
valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade
sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una
categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e
raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è
quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma
fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna
valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se
non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto
che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui
validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione
per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a
persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore
religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della
religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene,
soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re
ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale
credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della
conservazione quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro
esser sentiti, il loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione.
Di che ho già det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. ** * Se
invece si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del
valore religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e
caratteristico del sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento
del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il
nostro essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne
penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso,
l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore
religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in
questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare
all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la
ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo
aggiungere che non penso neppur per sogno di negare una possibile efficacia
all'insegna- mento religioso in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai
(salvo forse agli occhi di chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione
di notizie o di idee, ma è vigore di convinzione, calore di affetti, opera di
formazione; insom- ma, educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni
dell'educabilità. E si suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto
grano di sale. 7 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici, p. 199.
14 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta
stico riesce impossibile di concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto
anzitutto e soprattutto mo- ralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non
un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la perfezione che vede in lui, a quale
stregua è giudicata tale? L'ideale che trova realizza- to in quello non è
foggiato secondo un criterio di valutazione morale la cui validità è accettata
e ri- conosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso della devozione a
Dio? Anzi non è quella perfe- zione morale che lo fa degno di adorazione? Un
mistico a cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora
per- ché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda
scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la
devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che
è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non
li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori di
altro genere. Questa priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé,
questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle
discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú
consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica
manife- stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per
sé. E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle
controversie di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo)
mostra che la validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza
che è data e riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa.
Quanto all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa,
sebbene ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che
non sia possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o
cattivo se non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire
invece che non è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè
una sicura conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione
morale non è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla
connessione dei valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare
i valori morali come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e
quindi i pre- cetti morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa;
importantissima dal punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma
estranea alla questione presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel
che si è accennato sopra della possibile importanza pratica di una valutazione
edonistica. Dire che l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una
propaggine dell'olmo, e nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia
anche vero che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar
l'olmo anche a chi ami soltanto la vite. ** * Quel che si è detto dei tentativi
di una fondazione edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere
di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un
inte- resse diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico
(notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle forme miste e
intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti,
hanno però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni.
Di queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú significative, le due
forme, nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione
qui sopra brevemente analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a
prima vista i piú lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una
interpretazione edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita-
rismo teologico) e un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria
(altruismo comtiano, mi- sticismo umanitario). ** * Da quanto si è discorso
pare si debba concludere che queste indagini (spesso nei particolari
ingegnosissime e suggestive) nelle quali si cerca la ragione del valore morale
nella sua connessione 15 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta o congruenza con altri valori, abbiano importanza
solamente nel rispetto strettamente pratico o ese- cutivo; in altre parole una
importanza parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione con- forta,
sorregge o surroga con motivi di altra natura e sgorganti da interessi diversi
il motivo specifi- camente morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini
preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato che si propongano fini
morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano, di costituire il
fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché radicalmente viziate
dal falso supposto che la ragione della supremazia dei valori morali si possa
cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé valore morale. Ma questa
conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è fuor di questione che,
no- nostante il carattere di artificiosità che si trova piú o meno largamente
diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei sonetti a rime obbligate,
vi è in tutte una parte notevole di verità; verità s'intende non in quel che
credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle concordanze e nelle diffe- renze
rilevate, e che dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità
ha radice nel fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di
illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è
giudizio sul valore morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale
non si possa trovare la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o
di esigenza che gli dà questo carattere specifico di valore morale, anche in un
interesse diretto o indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia
bene anche per altri ri- spetti; come d'altra parte non vi è bene di altro
genere che non sia o non possa diventare, diretta- mente o indirettamente, un
bene morale. I valori delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si
complicano fra loro in mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un
valore (e analogamente si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è,
come s'è visto, il suo coincidere o il suo essere connesso sia pure per un
rapporto di condizionalità costante, con un valore — per quanto grande — di
altro genere, o anche con piú altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò
che nessuna sottigliezza di logica può estrarre un valore morale se non di là
dove esso si sia già posto o insinuato; e che credere di poter trovare un
valore morale tra valori che non siano già morali è fare a un dipresso come chi
vada frugando fra le idee degli altri con la speranza di trovarvi le proprie.
Ma è pur vero che sussistono altri valori, e sussistono le relazioni fra i
valori; e ciò che è og- getto di valutazione morale, poniamo la sincerità, può
essere apprezzato dal punto di vista dell'inte- resse conoscitivo od artistico
o economico; e, per converso, ciò che è oggetto di valutazione edoni- stica o
estetica o d'altro genere, la ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere
valutato anche come bene di ordine morale. Ora: È possibile una conciliazione
dei valori morali con gli altri valori e di questi fra di loro? E se non è
possibile, quale è il criterio della loro graduazione e subordinazione? Vi è,
per rispetto alla natura delle relazioni o connessioni tra valori di diversa
specie, qual- che differenza caratteristica che distingue i valori morali dai
valori non morali anche per il contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera
delle relazioni condizionali o strumentali con valori di altro genere, una
differenza che distingue, rispetto al contenuto, gli stessi valori morali fra
di loro? E non potrebbe questa considerazione giovare a intendere le incoerenze
e i contrasti tra valu- tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano
col medesimo carattere di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi
illusori di cercare fuori e al di là dei valori morali il fondamento della
valutazione morale e la ragione decisiva che ne giustifichi la supremazia,
restano i problemi: della valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o
strumentale, di una graduazione delle diverse categorie di valori; e della
possibilità della loro conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e
felicità non è che un aspetto particolare, e forse non il piú importante. 16
Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO
QUARTO IL FONDAMENTO CERCATO NELL'AUTORITÀ Il carattere di autorevolezza col
quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi approviamo bensì
come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente piú
alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si traduce,
tendono a far derivare questi ca- ratteri, e, quando siano considerati
essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta
dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il
fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione,
consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno
contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere
individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o
decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale.
L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra
minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o
nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a)
Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e
apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare
l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva
operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo
storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura,
degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione
logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle
dottrine e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla
dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento
dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale
sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che
non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della
dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare
quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta
morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione
progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso
dell'evoluzione. Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva
piuttosto che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee
e dei sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta
la validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il
prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci
fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il «progresso»
del senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi
condanniamo la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo
nella sua abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se
si obbietta derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e
corrispon- denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più
elevati» dei quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un
criterio — quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o
inferiori, tipi derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre,
necessariamen- te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto
ciò è vero, che il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo
Spencer, fu condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico
dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio
edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. ** *
17 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Se
a una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e
non attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale
la coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue
norme le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età
ad età e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che
l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti
e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i
fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste
— la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú
adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di
prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori
morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori). Lasciamo
pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche
unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua dogmata
quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione
legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa
induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e
regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone
essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere
la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la
meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia
— in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di valori umani — sempre e
inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio
valutativo, sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si
rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e
l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale. E se il
criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra
avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna
ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal
punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista
storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa
difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è
conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di-
ciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo
l'altra. ** * Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero
riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la
continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è,
nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà
perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come
siano pos- sibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e
dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i
problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le
quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di
superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma
la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da
questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente
coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando
una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla
riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di
sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una
concezione unitaria della realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor
di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni,
dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le
indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si
annoda e si intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica,
sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la
fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di
contrasto 18 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse,
svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità
alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro
genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di
importanza capita- le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei
criteri di valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica
strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si
svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza
morale; assume co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono
gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata
la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi
morali, e certamente si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o
meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o
sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale
comune, e segnano la crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una
regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale
di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma
questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o
soprattutto, orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come
il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme:
anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si ac-
compagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione
ostinata. Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché
novità di intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati
estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto
che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo
morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando
secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa
affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale
concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la
conclusione di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un
irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non
li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento
cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce
l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità
come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbe- dienza a un'autorità
inconcussa e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la
tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in
quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere)
immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi
morali espri- mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia
l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo
dei suoi precetti. Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che
nascono dal trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi
ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un
processo psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una
caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo
genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla
valu- tazione. 8 È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi
immediati e diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi,
ogni incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa
derivazione e dedu- zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e
immediati, che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti-
fica le premesse minori dei suoi sillogismi valutativi. 19 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta La valutazione
morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e
non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la
ratio cognoscendi di quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una
riflessione un po' attenta. ** * La valutazione morale è preferenza, scelta,
opzione fra qualità o proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire,
tra i quali non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz-
zarsi l'uno senza che sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme
porre l'altro come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza,
l'alacrità come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la
pigri- zia. Il valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro
l'altro di due soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di
importanza decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non
possono attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono
voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne
dipendono, anzi consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí
non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare
l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza
che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza
approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la
volontà nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere
commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro
qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconosci-
mento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere
smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni
altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non
atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà. Ne
segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come
dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale,
l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante,
cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non
si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e
che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di
quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita
nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato
nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la
sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e
momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio
volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento
della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa
di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per
essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in
quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e
non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui
si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si
manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle
volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in
contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia
attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la possibilità
di impulsi contrastanti. 9 Di qui nasce la tendenza incoercibile, manifesta nei
maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che esprime
l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il «vero»
volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non
dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa;
non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù.
20 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Da
quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora
chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione
morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non
sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di
riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni
valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro
valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú
di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e
che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi
non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un
uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o
non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non
ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol
affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire
che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che
non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che
al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché si-
gnifica non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un
altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se
fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. ** * Ma dunque i «sordi
morali», se ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono
sentire l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non
fanno, di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. — Ma hanno
tuttavia e possono avere degli obbli- ghi. L'obbligo di operare come se
riconoscessero, se non tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú grossolani e
massicci e coercibili esteriormente, cioè suscettivi di esser presentati come
motivi ap- prezzabili anche da una coscienza non morale. È questo obbligo,
quello del quale si è tessuta con grande abbondanza di passaggi e di fasi la
genesi psicologica e l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso
a perdifiato se bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere (ed
evidentemente non basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne la
formazione); e questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un
potere superiore e distinto dal volere individuale. E come questo Potere si impone
in vista di un fine e in conformità a certe norme, è concepito come potere di
una Volontà che comanda l'osservanza di quelle norme. Senonché anche
quest'obbligo può prendere forma e significato morale; come può non avere altro
valore che di costrizione subita: appunto come le pene del codice per i
galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un po' di pazienza. ** *
Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta nella valutazione
stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come norma e si esprime
nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle singole volizioni il
volere costante implicito nella valutazione morale) si accompagna, come si è
pure accennato, alla consapevolezza — data nell'esperienza e suggerita dalla forma
stessa antitetica della valutazione normale — della possibilità di volizioni,
cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo) della esistenza di
tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale. Il volere morale si
manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono a contrastar- ne
l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di questi motivi,
come appello a una forza coercitrice che li soverchi, sovrapponendo ad essi
altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone per tal modo il
valore. 21 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta Questa disposizione di spirito fa che si approvi l'obbligo e si approvi
il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che esista; se ne ponga la
necessità e se ne invochi la presenza dove e quando manchi; cioè fa che si
riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere
che lo pone. In questa disposizione per la quale l'obbligo e la sanzione sono
interiormente approvati e vo- luti come garanzia di moralità, e il Potere
obbligante è invocato e idealmente posto in nome della esigenza morale, sta la
caratteristica differenza che dà all'obbligo valore morale, e lo distingue dal-
l'obbligo sentito come pura costrizione esterna; che distingue il potere che
merita rispetto dalla for- za che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia
che il comando di questa autorità si consideri limita- to a una certa sfera di
valori morali, sia che si faccia coincidere collo stesso valore morale e si
iden- tifichi con esso. Ma cosí nell'uno come nell'altro caso resta la
medesima, di fronte all'obbligo e al Potere ob- bligante, la differenza di
atteggiamento tra la coscienza che valuta moralmente e la coscienza che sia
chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale. Per la prima è la valutazione
morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo
che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono non perché sono morali, ma
perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come valori
strumentali di altri valori, co- me condizione imposta e inevitabile di quei
beni che soli la coscienza amorale desidera e apprezza. L'osservanza
dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a certi
comandi che valgono quel che vale la sanzione che li accompagna. La valutazione
propriamente e specificamente morale manca, ed è surrogata da una valutazione
del tutto diversa. Il suono dei valori morali non può farsi sentire, per questa
sordità morale, se non diventa il rumore di un interesse diverso. ** *
Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne segue. Il dovere
esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la
volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di
apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione
morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e causa dell'azione,
potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni
possibili opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e
di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa delle volizioni
attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla volontà che pone i
valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza
dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere esecutivo
al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i valori morali nelle
contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha posti e li fa
sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza, l'incostanza, la
debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e di tendenze
opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza morale la necessità
di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non soltanto di diritto dei
valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore morale di questo Potere e
delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi, viene manifestamente
dall'essere questo Potere pensato come conforme all'esigenza morale, come
proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in parte, con quel che si è
detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che tende all'attuazione dei
valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà
perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella
del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare
e per la quale la attuazione dei valori morali adegua la posizione di essi
valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà pensata non solo
come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita, un'obbedienza
incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente cosí il comando
che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazio- ne morale
che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio
stesso della valutazione. 22 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta Ma lasciando ogni questione sulla legittimità delle
postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla possibilità della
loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e
presupposta nel concetto dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica
il comando, che dà autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un
Volere onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella
coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e
non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto,
derivato o subordinato. Cosí se il teologo ammonisce di non biasimare come
ingiusto o cattivo ciò che la Provviden- za dispone o permette, non contrappone
alla valutazione morale una valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone
alla «veduta corta d'una spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini
remo- ti di quell'ordine che a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è
bene quel che fuori di quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il
criterio di questa bontà è il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i
fini apparenti con l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di
fini ulteriori che si accordino con essa. ** * Dopo quanto s'è detto riuscirà
piú chiara l'analisi delle forme principali nelle quali si presen- ta, e si è
presentata storicamente, la dottrina del fondamento autoritativo della morale.
Se la distinzione tra il potere e l'esigenza morale che lo legittima non è
superata, come s'è vi- sto, neppure quando si unificano i due termini nel
concetto di un'autorità che sia insieme irresisti- bilmente potente e
indefettibilmente morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme in cui
l'unifi- cazione non è posta, o l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno
all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla coscienza morale come
tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o
trasferire il criterio della valutazione morale dalla coscienza personale a
un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui autorità viene da qualche
cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o parziale con la coscien- za
della persona. a) Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo: Che essa o
non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non è dire
donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per
riconoscere soltanto il pote- re che la impone, ma che potrebbe imporre il
contrario. O non toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso a
qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene.
E quando il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti
ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non
contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio
morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a
distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da
quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e
che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che
costituisce la giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale l'Hobbes
riconduce ogni criterio di morale e di di- ritto, esclude solo in prima
istanza, cioè in apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno,
l'arbitrio di questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa
per cui si suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e
un governo tirannico che nessun governo. ** * b) La seconda delle vie indicate
conduce a far riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività
concepita come aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore
alle 23 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta persone: sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i
fini individuali, sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le
volontà particolari. Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire,
significato e valore diverso. I) Se la collettività è intesa come semplice
aggregato e somma di singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza,
cioè in ultimo della forza. Un giudizio morale che non è valido se cor-
risponde alla valutazione di n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia
parere. È il criterio della democrazia politica; di cui non si discute ora il
valore come criterio politico (cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi,
non di giustizia tra i fini); ma del quale nessuno riconosce sul serio il
valore di criterio morale supremo; per la stessa o analoga ragione per cui il
buon senso non è il sen- so comune, e il discorrere concludente di un solo vale
piú che il chiacchierare sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza
dei votanti può bastare a fare una legge ma non a farne ricono- scere l'equità.
Ché se l'autorità morale della valutazione collettiva vale in quanto essa
esprime l'unanimità dei singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o
meno ampia di valutazioni in cui tutte le co- scienze concordano, da quelle
sulle quali l'accordo sparisce, si riconoscono due cose: 1° che per cia- scuna
persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della propria
coscienza; 2° che la distinzione la quale può essere di importanza capitale per
i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non
ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una
distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come)
dalla coscien- za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque sempre
il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi
l'autorità della coscienza collettiva. ** * II) Quando si parla di fini della
società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla
coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come
separati, o, peg- gio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini
correlativi; e si dimentica o si trascura di tener pre- sente che i fini della
società non sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li
fan propri; e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle
coscienze individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello
stesso tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo
grado di distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correla-
tivo a un grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare
il fattore sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si
parla di individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio;
è esso, e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza
personale sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del
tutto: ed è cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a
quelle della società, come dire che esprime quelle della società di fronte a
quelle dell'io. Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria
per la discussione presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori
sociali non sono morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come
tali dalla coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società
che dà valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno
valore alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può
essere ed è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la
valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa
il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se
ne vuol trarre. Di che si può trovare la prova in due considerazioni non
difficili. La prima è questa: che il giudizio sulla maggiore o minore
eccellenza e dignità dei fini designati come sociali e delle istitu- zioni,
delle leggi, dei tipi di società, ammette o sottintende postulati morali; e che
non v'è riforma sociale piccola o grande che non invochi e non debba affrontare
il giudizio della coscienza morale. 24 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa dottrina sociale (il marxismo)
che formulò piú apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per
fondarsi su un rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio
scientifico, e star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali
professava in vista il piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato
l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che
appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è
sostanza di cose sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel
fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e
alimentato da un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la
unità personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa,
voluta come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a
far veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la
condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per
essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta
analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione
sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni
dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione
morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista
coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo,
e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta
da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta
in ultimo che di un «punto di vista diverso»; e che, se dal punto di vista
dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista
della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali,
e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza
sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale. ** *
Più breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú
sottile e compli- cata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale
nello stato e fa dello stato l'organo dell'Etici- tà. Perché in quanto la
volontà dello stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere
morale, non c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito
dell'identificazione del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa
essere lo stato arbitro della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi
criterio supremo dei valori morali, è questa affermata identità del Volere
dello stato col Volere morale che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà
che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato
com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire storico
come momenti di attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale,
rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore
etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel
Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la
coscienza personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e
qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza
morale, sempre si trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà,
inevitabilmente da- to o presupposto, quel valore morale che legittima il primo
e dà autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non
vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della
sua cambiale un valore. ** * Ma se l'autorità della valutazione morale non è
derivabile da nessun'altra autorità superiore diversa da quella della coscienza
personale, bisogna ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse
coscienze coincidano totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che
copie o e- 25 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta semplari di una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci
uguali di tono e di conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa
dei valori morali, posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad
alcuni, quella della differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E
in questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione
consensuale della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali
sono i valori morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e
l'autorità del consenso universale coincidono con quella della co- scienza
personale? E in che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale
accordo? È legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che
in ogni caso non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi
all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni
esteriori) dei secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento
del dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il
conformare la condotta alla valuta- zione; e suppone il rapporto tra due
volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presen- te e
momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere
dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io
momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e
il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e
svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e
l'io non è che ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze
accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il
problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà
che nasco- no, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col
Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal
concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà
come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un
Potere so- prapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella
coscienza individuale. 26 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO LA INVERSIONE DEI PROBLEMI RELATIVI AL
FONDAMENTO DELLA MORALE Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da
qualche cosa di cui non sia già ricono- sciuto il valore morale è dunque vano o
illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di
fondare. In realtà i valori morali o valgono per sé o sono tali in grazia di
altri valori che valgono essi come morali per sé. Epperò ogni ragionamento col
quale si dimostri per esempio che un'azione è buona o giusta, si risolve o nel
ricondurre quell'azione a una classe di azioni, a un modo di operare già
riconosciuto come morale, o nel dimostrare che questa azione fu od è voluta
come condizione o mezzo di attua- zione di un valore morale. I valori morali
diretti e immediati, apprezzati e voluti per sé, sono dunque dati di una espe-
rienza morale non riducibile ad altre forme di esperienza e i giudizi nei quali
questa validità diretta e immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di
valutazione morale (postulati etici in pro- prio senso). E una dottrina morale
in quanto è sistema di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici,
espressi o sottintesi, di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che
siano dati immediati del- la coscienza morale. Quando sia chiaramente
riconosciuta questa indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei
postulati etici, le costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale
un fondamento che essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove,
prendono un carattere e un significato diverso se non opposto; e forse
considerate da questo aspetto rivelano meglio la tendenza profonda che muove e
avviva in forme sempre risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione
morale esaminati nei capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo
morale di cercare il fondamento morale in una realtà ob- biettivamente data, e,
in una conoscenza di questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione,
il criterio della valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto,
un'espressione della tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il
senso e la ragion d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della
sua interpretazione; di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come
esistente veramente soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il
solo vero reale, e del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale.
Dietro il pensiero che muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque
forma si presenti (non soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario,
religioso) di trovare la ragione del valore morale in un bene supremo o
maggiore o piú alto di ogni altro, che ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi
l'autorità, appare la convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della
felicità (per l'uomo patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente
bene se non ciò che è morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò
che ha valore, in quanto ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda,
de- ve accordarsi coi valori morali, consistere in questi, o essere — in ultimo
— condizionato da questi. E quando si tormenta la storia (storia esterna e
storia interna della civiltà) per trovare nel processo di svolgimento, nella
selezione subita o nel trionfo conquistato, i titoli di nobiltà che spie- ghino
e legittimino l'autorità della morale, della nostra morale, si agita dietro
l'acume e la sotti- gliezza delle indagini e sotto gli accorgimenti
dell'induzione storica, il bisogno di trovare nella sto- ria l'attuazione di un
disegno etico, di fare dell'accadere storico un divenire morale, di confermare
con l'esperienza morale del passato l'esperienza del presente, la nostra
esperienza morale, la mia. 27 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta Come l'appello al consenso universale degli uomini,
meglio che allo scopo di fondare su questo consenso la mia certezza morale,
risponde alla esigenza che realmente abbiano valore per ogni coscienza quei
valori che sono posti come universali dalla mia, e costituiscono non il mio
sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di ogni uomo, dell'uomo. E
finalmente, quando dell'Autorità si cerca il fondamento in una Volontà
superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a questa e ha il
potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella stessa di cui si
alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú alto e il piú
degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali, sia nello stesso
tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú forte10; sia, come il
vero volere, cosí il supremo potere. ** * La forma generale, con la quale si
presentano da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella
quale sono posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il
fondamento della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e
d'esser tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella
realtà che conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle
tradizioni e negli esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel
comando di un Volere onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia
legittimo costruire una realtà, graduare dei valori, interpretare la storia,
pretendere il consenso, postulare una Volontà in cui si a- degui il potere al
volere, sul fondamento della certezza e validità immediata e diretta dei valori
mo- rali, e delle esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei
problemi dal punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento:
Quali sono i valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posi-
zione; se e quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare
queste esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche
fondate sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle
loro soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane
stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la in- dipendenza,
la autoassiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali
non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione
morale. 10 L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di
volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa. Dove si
ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume
una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che
ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto
più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che
questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce
in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi
sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza
più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il
martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò
che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il
senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la
direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a
fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? 28 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta PARTE SECONDA LA PLURALITÀ
DEI CRITERI MORALI 29 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta CAPITOLO PRIMO IL CRITERIO FORMALE DI VALUTAZIONE DEL KANT
L'indipendenza e l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi
speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella
forma piú esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni
riassunte nell'ultimo capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla
soluzione data da lui al problema che l'analisi precedente pone come il
problema veramente centrale dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati
indeducibili della morale; o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o
quali i criteri) a cui si riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque
cercare prima di tutto se questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova
intanto avvertire subito, per evitare le facili confusioni e gli equivoci
indotti da connessioni abituali di idee e di dottrine, che la indeducibilità
dei valori morali, come non implica necessaria- mente i principi e i
procedimenti tenuti dal Kant nel riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam
visto, anche per altra via), cosí non richiede, per sé, né che si accettino né
che si ricusino le conclu- sioni alle quali si arriva. La connessione fra le
diverse tesi che si raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere,
anzi veramente è, nel suo pensiero una connessione necessaria, ma non è
necessaria fuori di esso e fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí
il «primato della ragione pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non
è una conseguenza logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé
dei valori morali; benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi
riconosce questa indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza
di questo riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze
della speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual
problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via
per la quale il Kant l'ha cercata. ** * Ma veniamo al punto che ci interessa.
Il concetto fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto,
quello del volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per
un oggetto, qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole
(motivo «patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge
perché è legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle
conseguenze che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge
in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto
di ciò che la fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è
la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio-
ne stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se
l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile
soggetto a ten- denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo,
e non si potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è
l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della
sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e
quegli impulsi — di qua- lunque specie siano — si determina per la legge, cioè
per l'universalità, che è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo
della moralità è perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo
categorico, di cui si dice piú sotto. ** * 30 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Come si deve intendere quella
universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratte- ristica della
valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale?
Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella
massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale»,
— questa possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser
presa in due significati diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita
universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o
limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la
possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida;
o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima
sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore,
che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si
possa volere l'universale validità della massima senza disvo- lere
l'universalità di una massima piú generale che la comprende, e si suppone che
già sia o debba essere ammessa come legge. I due significati sono profondamente
diversi, sebbene possa parere a prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi
che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche
volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non
parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il
secondo e non il primo. 1. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna
riconoscere che: a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che
sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il
valore morale; come per converso: b) può darsi che di una massima di condotta
non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca
l'immoralità. a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti
dallo stesso Kant (il 3° della Fondazione) in sostegno del criterio
dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre- ferisce il darsi buon
tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è
chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella
medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun riconoscimento di valore
morale); e quello (addotto dallo Schopen- hauer contro il Kant) della ragione
del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è
un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la
subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni- versalmente come
legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. b) Per converso, tra le
massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen- za
contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali,
per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come
l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se
non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammi- ratori non metteranno
in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare
universalmente praticate cosí la seconda come la prima. 2. Ben diverso è il
secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di univer-
salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità
di questa u- niversalizzazione della massima con la volontà che la pone.
Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla
forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie diverse
di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima si viene a
togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo
stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che
già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge
universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire
facilmente con esempi. 2'. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di
fronte a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia
prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se
il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico,
accadrà che in 31 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima
quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi.
Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò
la possibili- tà che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in
grazia del quale l'ho accolta. 2''. Se si suppone invece che io riconosca
essere nella forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio
incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza
che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata —
anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e
l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si
accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di
valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta
dal mio volere come legge universale11. Il significato nel quale è preso dal
Kant il criterio della universalizzazione, è, come si è det- to, il secondo; e
propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora
esami- nati (2"). Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la
considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non
potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato,
dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza
dubbio una natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora
sussistere, anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse
arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso
l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il
godimen- to; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge
universale della natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale.
Perché come essere ragionevole egli vuole necessaria- mente che tutte le
facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione, Parte II). La medesima considerazione
è ripetuta a proposito dall'altro esempio (il 4°) in cui si fa l'ipo- tesi del
brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto
all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per
tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura
conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale princi- pio
valga come legge della natura»12. ** * Per il Kant dunque l'universalità della
massima non è criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi
si conforma, se non perché essa è una prova dell'accordarsi della mas- sima
seguita nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta
dalla Ragione, che è la legge stessa morale13. Soltanto intesa cosí la formula
(la 3a della Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che
istituisce per mezzo delle sue massime una legislazione universale, o nei
termini della Critica della ragion pratica (op. cit., p. 30): «Opera in modo
che la massima del 11 Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si
accorda il fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può
assumere nel nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi
vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se
contrario al nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e
personale; a seconda che ci appare una massima accettata veramente da chi opera
come norma, o un comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che
vi si trova o no quella condizione necessaria, se non sufficiente, del ca-
rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi
giudizi. 12 La ragione di natura egoistica che Kant fa seguire può valere
tutt'al più come un tentativo poco felice di giu- stificare la simpatia dal
punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo
a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a patto di
identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come essere
ragionevole» col volere del «caro Io». (Il corsivo delle parole sottolineate in
questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola volere spa-
zieggiata). Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la bella
traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni e C., 1910); per la Critica della
ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R.
Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, vol. V, G. Reimer, Berlin,
1908). 13 Kritik der praktischen Vernunft, I, 1, 1, §. 7, Folg. p. 31 32
Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta tuo
volere possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e
coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri
conformi ad esse (op. cit., p. 33). E soltan- to cosí si può intendere come
egli creda di derivare dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma
feconda in quanto dà un contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente
ne riceve la forma): «Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua
persona sia in quella di ogni altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai
soltanto come mezzo». Ma intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una
doppia esigenza: dell'universale con- formità delle massime alla ragione, alla
legge morale, al volere puro come principio di una legisla- zione universale,
vale a dire, alla legge morale; e della universale validità delle massime come
co- mandi, cioè dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale
imperatività delle massime, né dalla universale loro conformità alla legge
morale è possibile ricavare quali sono i modi di operare che le massime
impongono, quale sia la legge universale che la volontà per mezzo delle sue
massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e possiamo ormai farlo
legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e servirci dei termini usati
nella parte precedente, possiamo raccogliere e completare l'analisi del
criterio kantiano in una forma forse piú chiara. ** * I valori morali sono
valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono la volontà
dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica sentita
profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei ad ogni
interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da ogni
considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come
potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi
sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in
rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di
ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione
pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto si
faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teo- rica: dei
giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle
valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni direttamente date o
postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni,
sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'uf- ficio
di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è
meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne
estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà
con se stessa; esigenza necessa- ria e caratteristica di ogni uomo che sia
persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la smentiamo,
ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi
della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma
essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui
quali si fonda e ai quali deve far capo l'esi- genza unificatrice della
coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i
riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori
fondamentali sono dati dalla vo- lontà; né si può derivarne la natura dalla
natura della trama; né dal disegno della tela. ** * Né maggior luce può venire
dalla Volontà come il Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da
quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio
come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile, e capace di volere i valori morali
per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragio- ne, la ragione
stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa
medesi- ma universalità. 33 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta Quanto al concetto del Volere buono, esso aggiunge bensì
alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota
dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma
questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il
rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere
puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità,
non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia
dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che
consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità
della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo
empirico, la ratio cognoscendi della leg- ge, sta però nella legge la ragion
d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che
i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né
sapere perché meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la
iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche
essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle
altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale
maiuscola che li fa essere e diventare so- stantivi. ** * Resta da esaminare la
forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella
in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della
legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come
fine in sé. Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima
formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di
piú di quella onde è dedotta; o assume dav- vero un contenuto, e questo
costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da
cui si pretende dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della
valutazione morale ma richiede un riferi- mento agli oggetti della valutazione;
ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso
cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che
media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il
rispetto della natura ragionevole. — Poiché la legge è la ragione, il rispetto
della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole,
come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale
si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla
legittimità di passare dal rispetto della ragione al ri- spetto di una natura
ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo il Kant la
sua forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui
si realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come
puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il
passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma
quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere
ragionevo- le, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto
della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto nella
persona si rivela una coscienza uno spirito (che la com- prende sí, ma è ben
lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto è
essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di
medesimo in tutti gli uomini, di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un
bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già;
dall'assumere come fine questa persona- ragione vuota di ogni altro contenuto
non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come
tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla
persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con ogni
altra persona e non anche per quel che vi è di 34 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta proprio originale, individuale
e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio
telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso risuona.
Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce
dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina
e fonde nella unità inscindibile del mede- simo e del diverso, del comune e del
proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito
umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni
persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un
contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo evidente che inteso
cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e
alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana, essa non è piú
l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente
di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale validità e
la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le esigenze,
determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali
esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri ordini di
valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali che il
«Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma di
doveri. ** * Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la
pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere
e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore
morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conserva- zione
l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare
in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con
l'esempio (il 3° della Fondazione) a cui si riferi- sce: «Come essere
ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi-
luppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di
fini possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il
volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole «necessariamente» lo
sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che
il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contesta-
zione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare
manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio
puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini
dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i
doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione del- l'operare è
veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali
sono le azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i
fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella
cui attuazione fatta con purità di volere consiste la morali- tà? 14 E che
veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato
all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto
fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le
quali si prova — non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di
universalizzare — ma l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale.
Infatti la ragione per la quale non si può erigere a massima universale il
principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio) non è già
l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono
stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e
adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui
valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li
riconosciamo come morali, af- fermiamo e vogliamo il contrario. Così nel
secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia
lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità
sottintesa della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la con-
seguente impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta
universalmente quella superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si
è detto, e si è accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso
manifestamente il valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo
ammettere sia subordinato al valore della propria quiete o dei propri
comodi. 35 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta Alla quale domanda si presume dunque che la risposta sia già
data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e non può esser
data, che da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due
coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o
non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due
leggi il sapere che il volere è buono quando si determina per rispetto alla
legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere?
36 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta
CAPITOLO SECONDO LA DIVERSITÀ DEI CRITERI MORALI Non vi è una coscienza morale,
ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le coscienze
personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e validi
indipen- dentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni
transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è riconosciuta l'esigenza che il
criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo come norma
costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma costante del
giudica- re e del volere altrui; ossia come norma universale del giudicare e
del volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei certi valori
siano per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della coscienza morale,
come una ed identica non solo di forma, ma anche di contenuto; se si ammette il
contrario, si deve riconoscere una pluralità di coscienze morali piú o meno
discor- danti e una pluralità di criteri di valutazione che si presentano alle
diverse coscienze con la medesi- ma autorità di valutazioni morali, cioè con la
medesima forma. Il fascino singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant
viene non dal suo formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e
purifica la moralità da ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni
considerazione soggettiva, la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia
salda e in- crollabile che si debba riconoscere o si possa dimostrare che
dentro quella forma cape, e non può capire che un solo contenuto; dietro quella
legge si debbano trovare infallibilmente i fini che la co- scienza morale
riconosce come buoni, e quelli soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non
poteva non essere, vano. Il criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un
solo e unico contenuto, a certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette
già che la coscienza morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in
ogni coscienza con lo stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il
criterio formale non esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è
leg- ge se non è valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se
non a patto che ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di
valutazione non è piú un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore
non si accordano costantemente con quello; se io non riconosco legittimo —
fatto da qualsiasi altro — il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel
medesimo caso. Ma è un'illusione credere che possa bastare la razionalità per
sé a distinguere i valori dai non valori; i valori morali dai valori non
morali, a farci riconoscere — senza appello diretto o indi- retto a qualche
dato o postulato non razionale — il valore di un oggetto qualsiasi (di un
contenuto), ideale o reale. Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando
giudica ed opera in ogni caso come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il
supremo bene, purché riconosca legittimo che ogni altro giudichi e operi allo
stesso modo, di quel che faccia l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un
ideale di bel- lezza, o l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno
alla vita che la ricerca della verità. E quando si dice o si crede di
dimostrare che è «contrario alla ragione» non un giudizio apprezzativo che
contraddice al criterio accettato, ma il criterio stesso come tale, non si può
affermare o dimo- strare questa contrarietà se non perché si sottintende che vi
sono — cioè sono riconosciuti e deside- rati — altri valori diversi, superiori
o non subordinabili a quello dal quale è tratto il criterio in que- stione; e
si trova contrario alla ragione che non si tenga conto di quest'altri valori,
che si giudichi e si operi come se questi non esistessero, o fossero inferiori
mentre sono superiori, o incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa
l'ipotesi che questi altri valori non siano tali per un Tizio che li ignora,
qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi
sarebbe essa irragionevole. ** * 37 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta Adunque il criterio del Kant non supera,
dato che ci siano, le differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della
mia coscienza morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria
coscienza morale un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime che
rispondono alle due va- lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso
una soluzione del conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter
dimostrare che una delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza
massima nella quale è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso
inconte- stabilmente come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia
possibile eluderla, la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti
discordanti nella valutazione morale? C'è. ** * Si è osservato piú sopra (Parte
I, Cap. 3°) che ogni oggetto ideale o contenuto di valutazione morale ha o può
avere nello stesso tempo valore per altri rispetti, cioè può essere considerato
come un valore di altra specie. Anzi è per questa relazione dei valori morali
con valori di ordine diverso che si è cercato e si è creduto di poter trovare
il fondamento della valutazione, la ragione d'essere del valore morale in una
finalità di natura edonistica (egoistica o altruistica) o noetica o estetica o
religiosa. Se si considera una tale rivalutazione eterogenea come pretesa di
far valere — con questa e per questa ragione — per morale, un valore che non
sia già sentito come morale, il tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio.
Ma se si considera, al contrario, come espressione di una finalità che può
assumere in questa o quella coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe
— all'infuori del carattere specifico di eticità per il quale è posto da quella
stessa coscienza come valore morale — essere sentita come su- periore in pregio
ai fini di ogni altro ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la
ragione capitale della diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che
pretendono di valere ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto
proprio dei valori morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza
per il quale i valori si ordinano da sé in una scala determinata dalle
connessioni di inerenza e di condizionalità degli altri valori, con i valori e-
stetici; e il mistico un ideale di santità, al quale subordina gli altri
valori, accogliendoli e graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto
disconvengono; e cosí lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la
verità, e cosí l'egoista calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per
essere morali, hanno già una validità e un'autorità intrinseca che li distingue
dagli altri valori, si vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del
mistico e cosí degli altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e
riconoscere rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via
dicendo; e se continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il
contenu- to — soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il
dominante. Basta per convin- cersene badare alle differenze caratteristiche
della motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto
giustifica a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza,
o alla forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo
coincidere e fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore
dell'ordi- ne che esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche
quando non è in giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla
transvalutazione notata, ma tende a indurre insieme un pro- cesso di
transvalutazione inversa; cioè a dar colore e calore di convinzione e di
apprezzamento mo- rale ai valori di quell'ordine, a riconoscerli come morali e
a pretendere che siano riconosciuti per tali anche dalle persone, nelle quali
non si afferma il medesimo orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli
umoristi) il calore col quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli
interessi sacrosanti della giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo
piccolo cal- colo ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel
Codice penale; e quello (sia pure 38 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta di dignità fuor di paragone diversa)
dell'artista, che grida allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a
reprimerla, se offenda il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di
colonna di- menticato. E si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente,
per gli altri. Cosí ciascuno degli orientamenti valutativi tende ad allargare
nella direzione corrispondente la sfera dei valori morali, includendovi un
contenuto proprio diverso, e non coestensivo al contenuto di ciascun altro. E
perciò accade che i diversi sistemi di valutazione — animati come sono e
pervasi da un interesse tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune
soltanto una parte di quei valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria,
riconosce come morali; abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono
nello stesso tempo valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al-
meno non contrastano e non negano quella propria specifica esigenza. I diversi
sistemi assomigliano cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si
intersechino fra di loro; dei quali è minima la superfi- cie comune a tutti, ed
è sempre piú grande la parte d'estensione rispettivamente comune a un nume- ro
di cerchi minore; e in misura variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici
fra di loro. ** * D'altra parte, anche la coscienza nella quale l'orientamento
tipico è dato dall'interesse stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si
trova a dover considerare nei valori estetici religiosi intel- lettuali
economici il valore morale diretto o indiretto che assumono o possono assumere
in grazia di relazioni analoghe a quelle considerate sopra (il valore p. es.
che l'attività scientifica e l'estetica e le doti richieste e promosse da
questa attività possono avere per la cultura morale). E non solo: ma per la
considerazione felicemente messa in evidenza dal Moore sul valore organico (il
«quanto» per il quale il valore di un tutto eccede il valore di uno dei suoi
fattori non è necessariamente eguale a quello del fattore che rimane: ethics,
Cap. VII: Intrinsic value), si trova a dovere apprezzare diversamente l'oggetto
ideale della valutazione morale, quando esso è nello stes- so tempo oggetto di
una valutazione diversa, intellettuale, per es., od estetica. (Non è senza
signifi- cato anche per questo rispetto che il Sommo Bene sia stato
identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il «finalmente» chiude
ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il carattere di
interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato quanto piú la
coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice autonoma dei valori,
tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus, il valore morale
dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla valutazione, per
riconoscere un pregio preminente alle note interiori di spontaneità, di
libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità intrinseca dei
valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali splende un
raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori morali da
altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore e
spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si traducono.
** * Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e
trasmutabile per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri
valori spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal
trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per
le diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune
determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale
cadeva il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a
partire dalla «Dichiarazione dei diritti» della Rivoluzione francese, si
delinea e si allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore
differenza di contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e
piú profondo il contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti
come supremi. E i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un
criterio intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o
filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono
piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire,
paralleli di giustifica- 39 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto;
essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una
diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune,
che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda.
Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di
contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé
autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la
coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio
criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado, tra
quella e que- ste. 40 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO LA CONDIZIONALITÀ NEI VALORI MORALI Se si
suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito filantropico, lo
speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano rispettivamente altri
valori all'infuori di quelli che si possono commisurare al criterio di
valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che certe doti spiri-
tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé, l'ardimento, sono e
debbono essere considerate come valori da tutti indistintamente i tipi
supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che siano in- telligenti)
debbono riconoscere che quelle doti personali sono condizioni o indispensabili
o som- mamente utili alle forme di attività corrispondenti, cioè all'attuazione
di quell'ordine di valori che ciascuno ha posto a sé come tali. Per la medesima
ragione si troverà (la deduzione è troppo ovvia perché occorra piú che l'ac-
cenno) che debbono essere riconosciuti come valori il rispetto della integrità
e della libertà persona- le, l'osservanza dei patti, lo scambio dei servizi e
via dicendo, e con essi i costumi, le istituzioni, le leggi che assicurano la
conservazione e l'incremento di queste condizioni sociali; e le disposizioni di
spirito (lealtà, imparzialità, simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella
coscienza personale. Adunque tutti i tipi suddetti, e gli altri che si
potrebbero analogamente supporre, saranno portati a riconoscere e ad apprezzare
in sé e negli altri — astrazion fatta da ogni valutazione morale — dei valori,
sia propriamente personali (doti della persona che possono sussistere nel
soggetto in- dipendentemente dal suo atteggiarsi rispetto ad altre persone);
sia sociali (doti che riguardano questi atteggiamenti); valori che nascono dal
rapporto di condizionalità costante che li stringe a ciascuno degli ordini
supposti. Di piú: il rapporto di condizionalità dal quale viene ai valori
citati in esempio il carattere di strumentalità, è diverso, come è facile
vedere, da quella strumentalità esterna accidentale e variabile che lega il
blocco di marmo all'opera dello scultore, o la conferenza di propaganda al
disegno del- l'altruista, o un libro agiografico all'interesse del mistico, o
la scala dell'Osservatorio agli studi del- l'astronomo: appunto perché là si
tratta di condizioni preliminari indispensabili e permanenti, il cui valore non
solo non si esaurisce nell'atto singolo che ne dipende, ma non è sostituibile
da alcun altro strumento o condizione. È dunque una condizionalità necessaria,
permanente e insurrogabile, in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà
riconoscere a siffatti valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio
intrinseco, di precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali che ne
dipendono. ** * Non occorre lungo discorso per intendere come per effetto del
medesimo rapporto il filan- tropo potrà essere condotto a riconoscere i detti
caratteri di condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle
quali o non potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di
o- stacolo, ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come
perciò sarà possibile una di- stinzione tra i valori propri esclusivamente di
ciascun tipo di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi
ordine, dato (come gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di
co- siffatti. Questi valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già
notati, anche quello di essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio
di valutazione che sia posto come normativo; cioè a- vranno una condizionalità
universalmente necessaria permanente e insurrogabile. ** * 41 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Aggiungiamo ora
un nuovo elemento all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo
speculativo e il mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei
valori morali, quell'or- dine di valori che risponde alla direzione tipica
della propria coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà
quanto al contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per
quei valori nei quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre
ciascuno interiormen- te riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di
tutti i valori posti e dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali,
dovrà riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me
normativo un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti
questi medesimi va- lori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale
è universalmente necessaria. Cioè dovrà ri- conoscere che, esteriormente alla
propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú
ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come
criterio morale e co- mune se non un criterio di valutazione che assuma, come
universalmente validi e costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei
valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che
insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza
in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra
e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. ** *
Si delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i
valori la cui at- tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e
costante per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui
attuazione è un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come
morali; tra i valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una
legislazione esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una
legislazione esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori
che possono essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na,
e i valori che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. **
* Gli esempi addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto
di un contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una
determinazione rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di
opportunità. Se ora cerchiamo di fissare con precisione quali sono propria-
mente i valori che lo costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano
in due condizioni riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti)
come valori primari fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la
giustizia. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie
a fare dell'uomo una per- sona padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni
altra persona; la giustizia esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive
necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. L'attuare
in sé e in ogni altra persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i
valori impli- citi in questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere
universalmente valido, anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri)
veramente universale. Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà
non è una condizione di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò
fervi- damente il Fichte, una conquista da fare, una idealità che si viene
realizzando e che richiede sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E
il medesimo è da dire della giustizia che è lo spec- chio sociale della
libertà. Ora se il valore della libertà e della giustizia (e la validità dei
doveri che ne derivano) consi- ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane
qui, soltanto nel loro essere condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è
continua ed inevitabile la possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in-
tellettuale, dell'esteta, dell'altruista, tra l'interesse sempre presente,
diretto della conoscenza o della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e
indiretti della libertà e della giustizia; o, in termini ge- 42 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nerali, tra i
valori diretti e per la coscienza individuale supremi, e i valori che per lei
appaiono sol- tanto indiretti e strumentali. ** * Cosí obbiettivamente
nell'ordine di una possibile legislazione esterna, sarebbero doveri pri- mari,
soli veri doveri, quelli appunto che soggettivamente per la legislazione
interna di molte se non di tutte le coscienze individuali, valgono come doveri
derivati, cioè tali soltanto in grazia di doveri d'altro ordine, dei quali
l'obbligatorietà esterna tutela subordinatamente, ma non impone l'osservan- za.
E resta in ogni caso la questione: Quei valori che una coscienza riconosce come
valori in sé, e a cui commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio?
43 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta
CAPITOLO QUARTO IL PRESUPPOSTO DI OGNI VALUTAZIONE MORALE E L'OPPOSIZIONE
FONDAMENTALE DEI CRITERI La distinzione stabilita nel capitolo precedente
implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e normativa per ogni
coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé e ricono- sce come
tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e riconosciuti come valori
morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori di libertà e di giustizia
che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui sopra, come valori morali
universali soltanto in grazia del rapporto necessario di preceden- za
condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la distinzione stessa
non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette quella tesi, e non si
dà ragione di questo fatto. ** * C'è, sottinteso, nella tesi del resto inevitabile
— che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei valori che essa pone a
sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual è questo presupposto?
Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori, diciamo per comodità di
espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una coscienza come suprema e
normativa si richiedono due condizioni imprescindibilmente: 1° che la detta
idealità possa costituire un criterio di valutazione atto a subordinare ogni
altro valore, a dare unità coerente alle valutazioni e a segnare una direzione
costante alla volontà; 2° che essa sia in effetto posta dalla volontà come
suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e perciò che l'attuazione di
quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia sentita come un esigenza
incondizionata (esigenza di non smentire con la volizione la volontà, con
l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto idealmente come dovere il
subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare ogni interesse che
contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le condizioni stesse che
fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una unità, cioè una Volontà
consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono in una parola le
condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di ciò che
costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma ed
esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del
valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto,
della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa
volontà. Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il
presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale;
perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o
idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori
della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed
è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità.
Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e
postulare come dato e fuori di ogni contesta- zione, qualche valore intrinseco,
al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il valore
in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto e
di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di
ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si
discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimedia-
bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa di
perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando si
discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone neces-
sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa. 44 Su
la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Bisogna
dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o respin-
gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo
possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire
riconoscere valore morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è
essenziale, e che la fa essere non la personalità astratta e comune che non
sussiste per sé e non basta a costituire questa o quella persona, la mia
persona; ma la persona individuata viva e concreta, in quel che ha di
universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di individuale;
l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo.
In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà,
come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto. L'uomo-volontà
pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me
che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come suprema,
che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze
sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola,
di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è ancor tutto.
Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità
al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di
essere perso- na, è posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è
posta da lei. Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la
coerenza della ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a me di essere
persona è quella medesima esigenza che la volon- tà di ciascun altro (capace di
moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto
della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo
contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori,
nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per
tutte la medesima idealità. La mia volontà deve — per far di me una persona —
uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di
ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare
l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si
misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità
che le sia norma; ma non può usci- re di sé per diventare una volontà diversa,
non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona
umana in generale, ma la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di
quello spirito di cui è la volontà. ** * Ma quale è la prova che questa
idealità non è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente
legge delle mie valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e non può essere
data se non a me stesso, da me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è
perciò che la legittimità dei valori posti da me non è contestabile da altri né
control- labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta
normalmente valida nel giudizio comune; e che è veramente necessaria, anche se
non è sempre sufficiente; e questa prova è il sacrificio. Ap- punto perché il
sacrificio attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si
appunta nella volontà di attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da
me ciò che mi costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il valore della vita si
misura dal valore di ciò a cui si è disposti a sacrificarla; e che, per
converso, l'esser pronti alla morte apparisce l'affermazione piú decisiva del
valore di ciò a cui si è devoti. ** * 45 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta Le esigenze costitutive della personalità si
attuano dunque informando di sé un contenuto spirituale che è sempre in qualche
parte proprio e caratteristico di ciascuna coscienza individuale; come raggi di
una medesima luce che tralucono per cristalli diversi; e ciò fa di quel
particolare con- tenuto la condizione o il mezzo per il quale la personalità si
pone e si realizza nell'io individuale e concreto; la materia che si suggella
di quella forma. E il valore morale di questo contenuto nasce da questo suo
essere lo strumento il tramite, per il quale si esprime nella coscienza
individuale il valore assoluto della personalità umana. Per tal modo
l'idealità, nella quale si concreta per la coscienza delle persone singole il
crite- rio o la legge della valutazione morale, costituisce per ciascuno
l'affermazione della unità spirituale della sua volontà di essere persona,
della sua libertà. Cosí la libertà, che nella deduzione esteriore ed empirica
del capitolo precedente acquista valore solo strumentalmente universale e
necessario, in quanto l'attuazione dei valori di libertà ap- pare la condizione
comune e imprescindibile della attuazione di ogni ordine di valori, è invece
qui valore per sé immediatamente universale; e sorgente di quegli stessi valori
che valgono per le co- scienze singole come supremi soltanto perché sono lo
strumento del realizzarsi di essa libertà in cia- scheduna. È, quindi, la
sorgente cosí dei valori costitutivi della personalità in astratto, come dei
va- lori costitutivi delle diverse personalità in concreto; cosí dei valori
universali della persona ideale come dei valori propri della persona reale. Nel
presupposto stesso di ogni valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza
dell'uni- versale come l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una
valutazione comune e l'esigenza di una valutazione singolare e propria; ossia
l'esigenza che la volontà personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento
dell'una e dell'altra, o, meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della
libertà è ad un tempo: sii persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii
quel che tu devi essere per essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te
e in ogni altro l'espres- sione individuale e concreta dell'umanità. ** * A
nessuno verrà in mente di credere che si intenda di stabilire cosí il dovere di
creare nuovi valori, di affermare nuove intuizioni morali; e porre accanto al
dovere di essere giusti, quello di es- sere originali. Sarebbe come voler
obbligare uno scienziato a fare delle scoperte, almeno nel senso che si suol
dare comunemente alla parola. Le intuizioni morali nuove, come le scoperte
scientifiche, come le nuove forme di arte, si presentano a chi... le trova.
Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in un certo senso piú modesto, come nella
ricerca scientifica le piccole continue scoperte di indagatori e di studiosi
mediocri ma coscienziosi, che cavano e puliscono la selce e tem- prano
l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà sprizzare la scintilla, cosí nella
vita morale le picco- le nuove intuizioni e nuove interpretazioni, e
connessioni, ed elevazioni di valori morali, che prepa- rano il solco alla
semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino nell'apparente applicazione
mo- notona di una medesima massima alla medesima classe di azioni, un'impronta,
un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela l'originalità morale della
persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di abnegazione, di
calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse di valori noti,
combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio di una persona
anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una
proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è
novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale si
raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori
elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche
qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una
«idiosincrasia». ** * 46 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta Queste minori e, nella loro infinita varietà
inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però, come accade, attorno
a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere, conforme a quel che si è
accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal che possono derivare non
solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E qui sta appunto la
sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte ai quali la
critica non può fare che opera di constatazione e di sistemazione. Come possa
adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è qui il
luogo di esaminare. Qui importa solo notare come questa indagine e sistemazione
critica non potrà che presenta- re, nella forma tipica piú compiuta e recisa e
col massimo rilievo, i contrasti che sorgono natural- mente dal prevalere,
nella unificazione morale della coscienza personale, di uno piuttostoché di un
altro ordine di valori, e dalla misura di questa prevalenza. Ma la forma
fondamentale sarà data dal contrasto tra i valori universali morali — i valori
di libertà e di giustizia — e quelli che valgono come supremi (cioè che
pretendono, come i morali, la direzione suprema della valutazione), nella
coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella germana, la giustizia,
fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve essere, una conquista
faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli, il problema non
esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione di quei valori
spirituali che non si presentano come necessariamente e universalmente morali.
Problema formidabile anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di
criteri non conci- liabili; antitesi che rende necessaria la subordinazione
dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti- mare nella coscienza personale
cosí l'una come l'altra soluzione. Questa antitesi è, in breve, tra i valori di
giustizia e i valori di cultura; tra l'esigenza che ogni uomo sia o possa
diventare persona, cioè volontà libera consapevole e coerente, e l'esigenza che
si accresca e si arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è
già, se non l'uomo libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e
del suo poter farsi libero, e che vi tende come al suo supremo valore. È, in
termini forse meno precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la
qualità, tra l'esten- sione e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi
(di porre la possibilità che si facciano partecipi) dei valori di libertà —
accessibili soltanto ad alcuni —, quelli che non ne sono partecipi, e il dovere
di accrescere in quelli che già li possiedono i valori di cultura, che sono
pure, almeno mediatamen- te, incremento dei valori di libertà. L'umanità (la
persona umana) si rispetta elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva
cosí nell'uno come nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti?
Speriamo che siano; ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una
cultura, dalla quale sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento
necessario, e la possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è
l'esigenza morale prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente
elevazione di tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente
incremento della cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro
verso le vecchie coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire
non basta a porre in es- sere quel che si dice. 47 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO15 L'ATTUAZIONE
DEI VALORI MORALI E I RAPPORTI DELLA MORALE CON LA POLITICA E LA RELIGIONE 1. -
Alla distinzione fondamentale che ha origine nel presupposto stesso di ogni
valutazione morale (il valore assoluto della persona umana), tra valori morali
universali e valori morali pro- priamente personali, corrisponde naturalmente
una distinzione nel carattere di obbligatorietà che as- sume rispettivamente
nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri. Ai primi
corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una obbligatorietà
ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una obbligazione interna.
In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere politico è posto come
potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne della moralità, l'ideale
politico è una derivazione necessaria e un elemento dell'idealità morale; e
rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere formale di Potere giusto,
cioè di Potere la cui esistenza e validità è affermata e voluta in grazia
dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume tutta- via per ciascuno un
contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo il modo nel quale è
concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva; cioè la giustizia come
posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne necessarie alla libertà di
tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo punto, che qui si
disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in alcuni, se non tutti i
postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche corrispondenti, tra le
quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono: l'indirizzo che prende
norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la garan- zia della
libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e quello che prende
impropria- mente nome dal socialismo16: — la giustizia è la costituzione di
condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima possibilità
esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre- tazione piú
universalmente radicale della famosa seconda formula della Fondazione di Kant).
Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una forma del
conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di intendere la
conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive della
personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale. Senonché, appunto
perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in rela-
zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste giuridica
e quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o posizione
nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una legislazione esterna
il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzio- ne della
ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non
solamente e non tanto all'abbas- samento inevitabile che ogni idealità subisce
nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità
intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua
vali- dità. ** * 15 Questo capitolo presenta soltanto nei suoi lineamenti più generali
una materia che deve essere trattata diste- samente a parte 16 Il quale dal
punto di vista etico trova, e non potrebbe essere altrimenti, (come si è notato
sopra, P. I, Cap. IV, B) la sua giustificazione in una finalità di contenuto
individuale. È individualismo; universalistico si, ma individuali- smo. Una
prova di ciò assai significativa è appunto la deduzione che il Fichte fa dal
dovere che ciascuno ha di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla
formazione ed educazione morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla
cultura, al lavoro. Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che
là... sono detti in modo diverso. 48 Su la pluralità dei postulati
di valutazione morale Erminio Juvalta Nell'esemplificazione introdotta qui sopra
(Parte II, Cap. III) si è supposto che l'idealità normatrice potesse avere per
contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi o edonistico-
altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che l'ordine
normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso,
nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a veri- tà, non presenta
quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali
può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto
costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche
l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché,
si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che
valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di
valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza
al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico
razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente
strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i-
dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia
pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo
oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma
edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato —
s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul
liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la
tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come
valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili
del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il
piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì
sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in
pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista —
considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni
spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono
considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione
e di godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di
ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il
sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo,
possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per
con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come
un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua
giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della
coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un
ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore
primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota
essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvi- sare nell'ordine
giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di
condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che
sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome
il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo
sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si
riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in
molte delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche
l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte-
nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e
non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista;
subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe
pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce
la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al
contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto
devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente
l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena)
ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico
dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. ** * 49
Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Di qui
seguono due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra
morale e po- litica. Il primo è questo: che il Potere politico, in quanto è
forza di coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni
quali si siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé,
direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto
interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i
mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi),
sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine
egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto
an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo
del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti
esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né
morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla
coscienza dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter
essere giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il
Potere politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo,
comune col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare
orga- no promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il
contenuto di queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il
medesimo, o come elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle
soddisfazioni egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel-
lettuali, estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori
piú desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni
essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria
e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i
mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e
morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e
apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori
spirituali. La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i
mezzi o le condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed
elevazione spirituale di ciascuno. ** * Fin qui si è considerato il Potere
politico soltanto come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli
soci, dalla cui volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione
dello stesso potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati.
Ma se si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e
funzione di Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e
fonde in un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I
quali per rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono
sostituite nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa
nello stesso tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la
coscienza di ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto
e sorgente di idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare
distesamente le conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore
che lo stato assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è
difficile vedere l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo
stato, secondoché lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua
condotta esterna. Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista
etico, mezzo, e la persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e
il singolo è mezzo. Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il
Potere politico, se non in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una
condizione necessaria alla tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non
ha diritti di fronte alle stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti
sia una condizione necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai
suoi rapporti col Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno
idealmente) ogni esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale
esigenza è necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di
concetti nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione
degli stati ed eticamente incondizionata la sovranità di cia- 50 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta scuno; e la
tendenza opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e
condizionata etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni.
** * Si è avuto occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione
stessa per la quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di
ciascuno come normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione
di ogni interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé
individuo all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova
viva e continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della
conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo
col volere valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e
voluto come valido per sé all'infuori di ogni inte- resse puramente soggettivo
e accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità;
nota che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel
linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un
oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a
sacrificare ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia
piena, effettiva e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le
condizioni soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede
da noi, in noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale
morale come un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui
attingiamo il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono
attin- gere i partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella
virtualità è sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé
come Dio, la nostra devozione è religione. ** * Vi è dunque per questo rispetto
una certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la
Religione. Il Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità,
la Virtù divina rea- lizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del
valore morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e spirituale,
e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla prima; cosí il
Po- tere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come mezzo e
strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa considera
le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e giustificate
soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili fuori di quella.
Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza stessa religiosa
deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione non è neppure per
essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua giustificazione in
quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della quale essa coscienza
riconosce il valore supremo della propria idealità, e l'autorità divina del
Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della persona umana come
sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della inviolabilità della fede
che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed implica quella libertà che
essa non può negare in altra persona senza negarne il valore per sé: che ogni
altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la propria; che è il principio
da cui muove e il termine a cui riesce ogni elevazione dello spirito. Inoltre:
Ogni sforzo che si faccia per tradurre un dovere religioso in obbligo giuridico
e dar- gli una sanzione materiale esterna, contraddice, nel momento stesso che
sembra affermarla, l'esi- genza della religiosità. Perché tende a sostituire al
motivo religioso — del tutto interiore — della devozione e della adorazione, un
motivo esteriore e di necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale
si trova cosí invocato a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione
interiore dello spirito, e la purità delle intenzioni. 51 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ed è poi, questa
distinzione e indipendenza del Potere politico e della legislazione esterna da
ogni particolare fede religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile
non meno che la indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale.
Perché ciò che fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa
è insieme ciò che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che
la «esperienza religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le
intuizioni alle quali essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova,
certe di una certezza diretta, cioè an- teriore a ogni prova, non meno delle
«sensazioni». Ma al pari di queste non sono comunicabili ad una coscienza che
non le prova e non le vive. Potrebbe parere materia di discussione
l'interpretazione che il mistico fa di questi dati, il momento (che l'analisi
obbiettiva può distinguere dal momento dell'intuizione) per il quale la co-
scienza trapassa dalla intuizione sua, dall'esperienza propria diretta,
all'affermazione del divino in sé, come oggetto dell'intuizione. Ma anche
questo processo sfugge alla discussione perché non è logico ma psicologico:
anzi non è per la coscienza del mistico un passaggio, una argomentazione, ma
una integrazione che si pone coll'atto stesso dell'intuizione e che è vissuta
con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sotto- porre dal di fuori questo
processo ad analisi critica, analizza in realtà qualche cosa di diverso. Ana-
lizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per provare la validità della
sua conclusione, una co- scienza che non senta già la certezza di questa
conclusione; o, piú esattamente, che consideri come conclusione di un passaggio
logico, quel che per il mistico non è conclusione logica, ma è evidenza
psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo medesimo carattere di
evidenza immediata che rende la certezza del mistico invulnerabile ad ogni
attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni pos- sibilità di
dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non
sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la individualità e la
incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è accettata come tale
per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale
è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e presuppone quella
certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì un contenuto
dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se la mia
coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali, per le
quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine divina, le
prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi che vi si
riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma sono prove
che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel divino, di cui
ho la certezza. ** * Ma il riconoscere questo carattere interiore personale e
insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle diverse credenze
religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò che costituisce
la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo, ciò che
costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra), non è la
medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione
non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni
fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che
per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e
molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni in-
cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci
è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire.
Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i
limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si
arricchisce della potenzialità di sempre nuo- 52 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta vi valori nella esperienza
dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume
di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua
dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho
cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire,
dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una
pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il
presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo
categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a
un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della
dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno
tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la
medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma
per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò
che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non
anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a mutar
senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma consueta,
considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica: quello
del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel modo di
porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto di ciò
che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come morale,
sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene e del
male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si de- ve
veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel
criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia
ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea,
arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la
verità, o la bel- lezza, o la giustizia, o la carità, o la forza;
l'affermazione di sé o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o
l'indipendenza non tutte le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa
coscienza di una persona non volgare e non ignara dei problemi morali, né
estranea alla consuetudine di una sin- cera e severa meditazione, si
presentino, tra questi valori diversi, contrasti e opposizioni non sempre e non
facilmente superabili, è ciò che nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni
caso una realtà che non cesserebbe di sussistere e di imporsi all'attenzione,
anche se fosse negata. Lo stesso apparire nelle discussioni dottrinali e nelle
storie generali e particolari dell'Etica di teorie dette immoralistiche,
dimostra che le differenze ci sono e che giungono a tale da dar luogo non solo
a contrasti ma ad opposizioni contraddittorie. E qualunque sia il giudizio
anche sommario che si voglia portare su di esse bisogna ricono- scere che non
avrebbe senso qualificare immorale una dottrina, se il contenuto suo non si
opponesse appunto a quello delle dottrine morali come specie a specie nel
medesimo genere; cioè se non pre- tendesse di valutare e regolare — in modo
diverso — la medesima materia3. Ciò basta a confermare, se di conferma vi è
bisogno, che il problema di una pluralità di con- tenuti della morale, ossia di
una pluralità di criteri di valutazione, non è un problema di semplice
possibilità astratta, cioè una curiosità scientifica e filosofica, ma è un
problema d'attualità concreta e viva; è, veramente, a mio giudizio, il problema
per eccellenza della coscienza morale contempora- nea. 1 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale; Il Vecchio ed il nuovo Problema della morale
(Parte II, capitoli 2—4). 2 Questo modo di vedere è favorito, se non
conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una
dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da
cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la
condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di
chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la
spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano.
3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come
amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza
assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione
contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una
sentenza di condanna. Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta ** * Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui
dà luogo — quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri,
non è nuova questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi
domini potente lo sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità,
apparentemente raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e
profonda pluralità o almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con
Aristotele la duplicità di felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per
lasciare l'antica e non mai del tutto superata dualità di vita attiva e di vita
contemplativa, l'unità reale di criteri nella valutazione della condotta non è
raggiunta se non in apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la
quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana
anche nel rispetto della vita terrena finita, si sforza poi invano di
ricondurre i precetti che re- golano questa al medesimo criterio di valutazione
che è suggerito o imposto dal contenuto sopran- naturale del fine che la
giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine invocato a
giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è dissimulato ma non
superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione religiosa. Perfino
nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e l'identità di doveri
e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo di consenso e di
calore, indipendentemente da ogni par- ticolare dogmatismo confessionale,
l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto perché se ne
restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico, e si
trascura o si la- scia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che
tocca gli aspetti e le forme della vita inte- riore. E quell'unità parziale di
contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo cri- terio di
valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che
dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la possibilità di
determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la condotta etica che
sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della
persona, e le forme della vita interiore. ** * Ma il romanticismo e lo
storicismo, per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il
razionalismo aveva lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando,
illustrando ed esaltando la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo,
superiore della vita spirituale e della attività interio- re, originale,
spontanea; l'altro cercando nella realtà storica la ragione e la
giustificazione delle for- me di vita sociale, religiosa, politica che in nome
della natura e della ragione erano state condanna- te, avevano condotto a
questo doppio risultato: per un verso, ad allargare smisuratamente l'ambito
della vita interiore, raccogliendo e quasi contraendo in essa tutte le attività
spirituali, facendone il campo piú degno, e, se non esclusivo, certo dominante
della condotta morale, e comprendendovi della vita sociale, al più, quel che in
essa si dispiega di spontaneo e d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta
tendenza a distinguerlo non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate
come esteriori, della vita politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare,
non solo ogni realtà ed ogni fon- damento storico, ma ogni valore, alle
costruzioni politiche e giuridiche del giusnaturalismo; alle dottrine dello
stato di natura, del contratto sociale, dei diritti innati; e a considerare
come un prodot- to storico le forme politiche e giuridiche; le quali trovano,
nelle condizioni che le hanno generate e che le rendono adatte rispettivamente
alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e tempi diversi, la loro
giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a fare il diritto estraneo
all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione morale, lasciando aperto
il campo alle piú svariate forme di relativismo: biologico, sociologico,
storico. Cosí quel che per il razionalismo del secolo XVIII era il contenuto
comune della coscienza morale, finiva per essere considerato quasi estraneo
alla morale. E mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco tra
interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i valori
morali e i valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e
prendeva colore e calore di va- 4 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta lutazione morale una molteplicità sempre piú
varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini di- versi. Per tal modo
penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma
in quella che si chiama piú propriamente letteratura, quella molteplicità di
indirizzi, di opinioni, di ere- sie morali che è la caratteristica del secolo
XIX, e che esprime, per dir cosí, la maturità storica del problema, prima
dissimulato e trascurato. ** * Non si vuol dire, né sarebbe a priori probabile,
che ad ogni novità di intuizione particolare, geniale o no, su questa o quella
forma di vita e di attività individuale, su nuovi aspetti della cultura
speculativa o religiosa o sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul
valore dei tipi di istituti, familiari, politici, economici (reali o
immaginati) corrisponda una diversità di criteri morali; né tan- to meno che
ciascuno esprima una orientazione di coscienza morale radicalmente diversa
dalle al- tre; ma neppure è possibile dissimulare che questa molteplicità è
altra cosa dalla «dualità» notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza
comune e nella dottrina piú largamente diffusa, raccoglie- va e, direi,
polarizzava attorno a due termini contrari i valori della vita, opponendo i
beni razionali ai beni sensibili, e negando a questi ogni valore morale.
Perché, lasciando pur fuori di questione ciò che tocca i beni detti sensibili
(per semplicità di discorso, non perché anche su questo punto le que- stioni
sieno escluse di fatto, o siano da escludere a priori), la caratteristica nuova
e piú rilevante di tale molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso
dei beni razionali, che la diversità delle tendenze si è venuta delineando
sempre piú spiccata. E i contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano
anche, anzi soprattutto, nel campo di quei valori che era pacifico considerare
come patrimonio, se non uno e indivisibile, almeno indiviso, e non costituito
di parti discordanti. E mentre si venivan disegnando, cosí, conflitti di
primato, se non contrasti irreducibili, tra i valori stessi tenuti
tradizionalmente come superiori, si presentavano: di là, idealizzate, e sotto
veste di valori razionali — o giustificate in nome di esigenze razionali —
tendenze e forme di vita spon- tanee, passionali, o istintive, considerate già
come estranee se non contrarie alla vita morale: e di qua si esaltavano come
centro e culmine dei valori morali le forme religiose, intuitive, sentimentali
e mistiche, avverse, almeno in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento
razionale, e che ad ogni modo si affermavano in atti di aperta sfida contro la
ragione. E insieme si negava ogni significato etico — anche nella loro forma di
idealità sociali e politiche — a quei principî razionali del diritto, nei quali
il secolo precedente aveva visto ad un tempo il segno piú alto della dignità
umana e il maggior trionfo della ragione. ** * Di fronte a cosí grande e cosí
varia pluralità di contrasti tra criteri di valutazione, o tra «scale di valori»
diverse, può bastare a risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia
necessaria — l'unità del contenuto, e l'universalità del consenso, affermare
che la morale è universale perché è ra- zionale, o è razionale perché è
universale? Né è possibile fare appello alla ragione come autorità morale
suprema quando i moralisti che se ne fanno interpreti non riescono, pur
affilandone tutte le armi, né a convincere né a vincere i de- trattori, se non
argomentando ad hominem cioè facendo appello a qualche principio o criterio da
quelli stessi assunto od ammesso. E i detrattori non riescono a formulare
neppure una sentenza di condanna che abbia, non si dice un valore, ma un
significato quale si sia, senza servirsi di quella ra- gione che coprono di
contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con divina larghezza, anche a
chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover ragionevolmente concludere che
della ragione non si può fare a meno, in materia di morale piú che in qualsiasi
altro campo; ma che non si può trovare in essa la sorgente delle valutazioni
morali. 5 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta E tuttavia non solo fu — nell'età aurea del razionalismo — ma è tuttora
largamente sostenuta ed accolta, non senza che la tenacia degli sforzi abbia un
profondo significato, l'idea di cercare nella ragione anche ciò che la ragione
non può dare; e di riferire a lei non soltanto l'esigenza della coe- renza,
dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime, ma anche di certe leggi e
di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri diversi. Ma l'idea è
illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel credere che la ragione
obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato che se ne accettano
certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe premesse; ma obblighi
senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi stessi che fanno da
premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto osservare le leggi
della lo- gica, rispettare quei principi logici senza dei quali non è possibile
nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma voglia dire essere
obbligati a riconoscere "certe verità", ad ammettere certi principî;
principî non logici o formali, ma materiali; dati o postulati che facciano da sostegno
al ra- gionamento, e comunichino la loro certezza ai giudizi che se ne
ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché non è necessario qui, il campo
dei giudizi propriamente teoretici e la distinzione che sa- rebbe necessaria
tra giudizi condizionali e giudizi di esistenza; e mi restringo al campo
«pratico». In questo adunque la ragione sarebbe essa che pone ad un tempo
l'esigenza della legge e la legge; cioè, non solo l'esigenza dell'unità e le
norme da osservare per realizzarla, ma anche i criteri attorno a cui si deve
raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che non si giustificano, ma che
servono di fon- damento alla giustificazione. 6 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO LA RAGIONE E I
GIUDIZI DI VALORE Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere in
tre modi diversi: — O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno
a fondamento dei giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o
dimostrare o porre con la stessa necessità od evidenza con la quale si impone
la validità delle forme logiche. — Oppure — se il dato o principio che sia a
fondamento delle valutazioni è diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla
ragione, non posto da lei ma offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha
che da scoprirlo, da formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo
ragionevole per- ché ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e
indiscutibile la validità. — O finalmente è la ragione stessa che pone la
legge, ed è l'esigenza razionale che basta a determinarla, senza che a
costituire la validità della legge e del contenuto che essa incorpora in con-
formità della sua esigenza, sia necessario riconoscere la validità di alcun
dato o principio materiale estraneo alla forma stessa della legge. Non vi sono
che queste tre vie possibili; e sono le vie che anche storicamente il
Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di argomentazioni e
varietà e ricchezza di gradazioni particolari. ** * La prima via, la piú
antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta il
problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a dire
uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il
contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema
della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente
in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura
delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È
l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste
nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare
quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che
concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa,
espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata
nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú
il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4
Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa
distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè
riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la
condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che
rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra
di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o
la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in
discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il
contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello
propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le-
gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione
speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica
che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si
riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion
pratica». 5 La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: 1°che il bene
e il male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si
conoscono le altre cose. 2°che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo,
ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa
perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta in- dipendentemente dalla
seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di
Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di
quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso
giustamente, a merito di lui. 6 Vecchio e nuovo Problema, Parte I, Cap. II.
7 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta qualsiasi vale piú di un qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero,
ivi c'è una dignità incomparabile con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in
questo caso la contraddizione è tra un mio giudizio e un altro mio giudizio;
che si suppone pure ammesso da me e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga
ad ammettere questo valore del pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo
negassi? Forse perché con ciò diminuisco o nego un valore che è anche mio?
Sarebbe dunque il rispetto e la stima di sé un principio logico? E la despectio
sui del Geulinx contiene dunque una contraddizione in termini? ** * Se si
incalza che il giudizio sulla inerenza all'uomo di proprietà o doti che mancano
al cane è di evidenza oggettiva e che riconoscere un maggior valore all'uomo
che al cane è la stessa cosa che riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè
una maggior perfezione, è facile avvertire che in que- sta identificazione si
assume appunto ciò che è in questione: che la perfezione o il pregio delle cose
e delle proprietà delle cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la
loro esistenza e appar- tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per
accorgersi che il giudizio sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione»
di qualsiasi ente o proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un
ordine, a un disegno, cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato
o da attuarsi. E, che possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non
è un giudizio in realtà; tanto che il negar- gli questo valore non implica
negare sia la realtà, sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'en-
te; cosí come negare alla sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici,
non implicava per Galileo la negazione né della costruibilità della sfera, né
di alcuna qualesivoglia delle sue pro- prietà geometriche. La sfera rimane la
sfera. Si potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle
proprietà, un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla
ge- ometria; e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il
concetto della sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le
proprietà che ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non
rinunzio né all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del
cubo o della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato
del cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il
caso è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre
io non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga
piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il
cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della
«contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato (non per nulla nella
scelta il Rosmini ebbe la mano felice) la repu- gnanza ci sia, è innegabile —
sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della univer- salità
del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza morale, non una
incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura in cui è
comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre: negando
questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna delle
differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego nessuno
dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi sia il
giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di quelle doti
e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia maggior
conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato
dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la
ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del
riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E
il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi
potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione
che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la
verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del cane,
e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse
davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la
differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non
cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da
quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due
enti, prova, 8 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta nel caso, che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza
morale in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il
giudizio di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia,
comunque, riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da
questa. ** * La verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di
valutazione) paiono della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella
massima parte, e con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e
possono presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono
considerati, sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una
costruzione diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è
ricondotta alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto)
con un processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne
governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si
prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con
questa circostanza, per dir cosí, aggravan- te: che, come s'è accennato, accade
di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un
processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono
comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che
riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i
giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le
costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore
(e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di
circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei
giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come
primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle
costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e
conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio7. Sfuggendo cosí
all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a
volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in
cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla
validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta
meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la
natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile,
dai giudizi teo- retici. ** * La quale diversità può sfuggire anche piú
facilmente o essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra
circostanza che ha a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circo-
stanza è questa: che una parte considerevole dei giudizi valutativi che
assumono piú frequentemente valore di primari, o sono abitualmente sottintesi
(tanto sono o si suppongono incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti
nei giudizi teoretici, senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine
congiunto all'idea dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto
possibile, sia formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia
espresso piú nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle
(aggettivi, avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di
una valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del
sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o
lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature
suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è
indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli
una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè
si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio
teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui
una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse-
guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze
deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni
didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di
invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e
inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione
reciproca di due proprietà fra di loro. 9 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta te assunto insieme un giudizio
di valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla
o per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa
evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú
gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale,
falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione
della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li
accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E
non per nulla la diffamazione è puni- ta piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio
valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto,
ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì
l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in
nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso
e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui
l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo
sentono e tutti lo sottintendono. ** * Ora i giudizi di valore a cui si dà
ufficio di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui
validità si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i
giudizi il cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice,
pacifico, è appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una
persona intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro
discorso per persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso,
o me- glio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un
giudizio sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la
vita non valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che
qui è sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i
precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso
derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non
primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del
sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o
della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti.
Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto
della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per
sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il
sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o
l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente,
come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad
essi, dei valori derivati. ** * È adunque chiaro che i giudizi di valore si
legano fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del
quale non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttu- ra;
e che per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di
loro, si può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di
valore che figura come derivato in un si- stema diverso. Ma in qualsiasi
processo di giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o
sottinteso ci deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni
morali — non se spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da
che cosa nasca l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del
valore diretto un valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile,
nessuno dubita che sia un processo razionale); ma, se ci sia un principio di
valutazione, una affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in
sé, e che si distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non
siano in sé razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione
impedisca di ammettere. 10 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO RAGIONE ED EGOISMO Se si tien conto di
quanto s'è avvertito sopra, la questione della razionalità o irrazionalità
dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista, accettando il principio
assiologico che assume come primario quando giustifica il suo sistema di
valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri- spondenti, rinneghi la
ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in contraddizione con se
stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando da egoista non
raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera8. O perché il criterio
egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista non può
fare a meno di accettare e di ammettere. ** * È certo che l'egoista spesso
sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la
questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza
che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o
l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi
e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso;
e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo
dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo.
Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che
non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di
configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi
forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì
di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo
interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha
l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come
faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? — Naturalmente quando si è
foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non
è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che
vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si
dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se,
essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la
tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo.
Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato
dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che
procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di
danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può
considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso frequentissimo
e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella circostanza
egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre sente dentro di
sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme da quel modo di
operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel modo di operare
che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che egli stesso
seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe fare così e
sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio; il sacrifizio
di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente qui (ed è il
caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello scontento
interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata dalla
ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la costanza dei
criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo razionale che
rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta qui. Il contrasto
segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo e deve riconoscere
il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha operato bensí da
egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia. Egli è in con-
traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta tra i motivi,
seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di valutazione che
egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio sulle azioni altrui
e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria anche a se stesso.
E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio di valutazione che
egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se dato che non fosse
sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un processo razionale farlo
sorgere. 11 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta per gli altri, ma ammette e trova naturale e legittimo nello
stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È pronto a
sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se altri,
potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? ** * Si dirà che cosí
facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione
reci- proca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda
compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»;
o al riconoscimento del valore supremo, della for- za come criterio ultimo
della condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo;
l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi
contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa
sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può
essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la
coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo
sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio
della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi,
occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori
della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è
legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato
precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la
propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi
è, se si guarda spassionatamente, concludente. ** * Cominciamo dal secondo. È
bensì vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si
possono contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della
forza non si nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per
tutti9, che la mia volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge
la volontà degli altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita
appunto, quando valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú
forte è un al- tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può
riservare delle sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma
non si può dire che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per
un giocatore accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse,
anche se queste sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza
intrinseca del criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no
di farne la sua legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden-
za, forse non sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle
speranze. ** * 9 Se si trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio
fra gli individui, non c'è che da pensare al principio che ha regolato in
ultima istanza, fino a ieri, se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e
che dovrebbe regolarli sempre secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o
storico, che passò e passa tuttora - agli occhi di molti - come il solo impe-
rativo «seriamente» politico. In questa concezione dei rapporti fra gli stati
non domina forse nella sua forma rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner
formulò per i singoli individui - e che parve ad alcuni per il suo stesso
rigore una caricatura ironica dell'a- narchismo di una società di egoisti, che
vale fin che mi giova e dura finché mi piace? O si vorrebbe dire che non sono
«ragionevoli» i politici, filosofi o no, che accettano e difendono questo
crite- rio, non solo come l'unico criterio possibile, - in determinate
circostanze storiche, - ma come il solo «razionale?» Se- nonché anche la
razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata su un
presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato abbia un
valore incondizionatamente supremo. 12 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ed ecco l'altra alternativa:
l'egoismo che si limita e si fa diritto10. Ma qui è ancora piú facile scorgere
l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta
il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua
li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa
perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per
lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto
cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu-
stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che
questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà
storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun
modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge
che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno,
l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici
e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme
giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a
contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la
limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno
sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata
dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú
grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo
puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima)
ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono
nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se faccia
piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con questo
nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal punto
di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza di
conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e- sigenza
si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della società,
il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da un punto
di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso sforzo di
giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività anche piú
elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione
intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il
contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello
sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica,
di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare
che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un
intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la
pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di
condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre
sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il
quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri
contrari. Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per
sé. Ma è soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non
accettarlo, di ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. 10 Chiedo
scusa al lettore se adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad
effetti stilistici che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo.
Non bisogna dimenticare che in queste espressioni «l'egoismo che si nega»,
«l'arbitrio che limita se stesso» e molte altre somiglianti, il senso voluto
significare è reso possibile perché e in quanto il termine in questione
(egoismo o altro) è preso a indicare in una due significazioni diverse:
nell'una è l'astratto (la connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il
collettivo (l'insieme degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si
contrastano). 11 Il quale è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano
veramente utili soltanto le azioni che servono a certi fini e a certe
soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah
questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a
cui sono dirette, economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc.
Che siano dette utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che
abbiano vera importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si
dimostra con molti discorsi che sono meno nobili degli altri. 13 Su
la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO
QUARTO LA RICERCA DEL FINE SUPREMO Con ciò la tesi egoistica cerca di porsi su
quella medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle scuole la via
piú comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú semplice, si di-
rebbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di ricondurre le norme a
un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto o si debba
riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da principio della
dimostrazione da «assioma medio» o proprio della costru- zione morale, è il
giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema del fine. Posto
che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come supremo e che si
dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro legittimità è
dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla ragione di
trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine supremo è dato e
si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità di supremo; — di
giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che non basti un ri-
conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di diritto; che
spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è, un tal fine,
ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il valore del
fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume, e sul
quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente dato
alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare
praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è
supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u-
mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li
concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico
delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si
riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione
o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena
necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí naturale,
cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il fine per
eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e
incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine
apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e
concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può
dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli
si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è
necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale
contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si
riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità (o
Perfezio- ne, o altro Bene) della quale quel contenuto assume la veste, il
titolo e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine.
E cosí accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice:
uno è il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé
non potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma
che reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua
sovranità: ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere);
l'altro è il fine realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla
deduzione, che regge la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale
si riconduce logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi
che se ne ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che
viene determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a
costruire, l'altro a dar valore alla costruzione. ** * Ora finché si ammette
che la felicità o quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste
veramente in quel contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo
sulle deduzioni favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il
dato della costruzione e il supposto che lo investe del 14 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta valore di fine,
non ha luogo, o apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come
pacifi- co, che il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato
dell'altro. Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le
differenze di contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e,
unificati in quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e
un ordine o specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od
escludendo gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú
specie di "Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non
può essere fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si
presentano come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della
natura; oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra
natura e natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve
a distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che
consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra
semenza...» ** * E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di
diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far
capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono
indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non
vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere
riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per
subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono
inconciliabili con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo
il processo di deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il
riconoscimento del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è
difficile scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al
quale la ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la
subordinazione e la esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in
ultimo da quelle stesse valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a
giustificare. In realtà il giudizio della ragione è il frutto di un processo
che è bensì esso ra- zionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il
processo reale, palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale
dice all'uomo quale è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua,
che deve seguire. La ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto
rigorosa e univoca, ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente
e incontestabilmente suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi
effetti, raggiunge un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e
giustificativo dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il
Bene morale; e poi- ché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo
Bene deve essere riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la
ragione lo giudica supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso
deve valere come fine morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità
logica del si- stema, che la ragione gli riconosce questo valore di fine
supremo. Il che viene a dire che il titolo sul quale il giudizio della ragione
è fondato, il criterio seguito nella scelta è il carattere che esso assu- me, o
è capace di assumere, di fine morale. Riconoscergli questa attitudine, questa
capacità a dar ragione dei giudizi morali, a servire ad essi di principio di
giustificazione, cioè di dato dal quale razionalmente si ricavano le norme,
equi- vale a riconoscerlo come fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad
assumerlo come supremo. Adunque è bensì la ragione che giudica questa
attitudine o questa capacità che ha il fine di servire di giustificazione dei
giudizi morali. Ma il valore morale di queste valutazioni è dato, deve essere
ammesso o presupposto. La ragione porta il suggello di questo valore su quel
fine del quale essa mostra la congruenza con le valutazioni morali. 15 Su
la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Se in
questo proposito di ricondurre le valutazioni della coscienza morale a un fine
unico, possa riuscire o no, e, dato che possa, entro quali limiti e con quali
frutti, è una questione che qui può essere lasciata in disparte. Ciò che
importa notare è che quel «Fine» ha valore supremo per l'uomo dotato di
coscienza morale; per una natura umana per la quale valga l'esigenza morale e
valgano le valutazioni che essa richiede e che la esprimono. È supremo dunque
nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di certe aspirazioni su certe
altre, di certe attività su certe altre, di una «natura» su l'altra. Per far
riconoscere il valore supremo di questo fine noi dobbiamo dunque supporre
ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali dimostreremo poi
razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono questi giudizi, di
cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o i dati primi della
costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è che lo sforzo
logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un unico criterio;
di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità logica, la coerenza
necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma la validità
assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o postulata
16 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta
CAPITOLO QUINTO «MASSIME RAGIONEVOLI» E «PRINCIPÎ RAZIONALI» Se i giudizi
primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si raccolgono e ai quali si
subor- dinano le valutazioni, sono assunti e non posti dalla ragione, come si
può parlare — e manifesta- mente se ne parla con fondamento — di massime di
condotta sulle quali tutte le persone «ragione- voli» vanno d'accordo, e il
dissentire delle quali è tenuto come segno patente di irragionevolezza? Che
significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per riconoscere la bontà
di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che basta la ragione a
giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può anche entro certi
limiti accettare dall'uso questa for- ma di espressione senza inconvenienti; ma
ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'os- servazione notissima
e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai notevole, e a cui si
collega una considerazione d'importanza capitale per il modo d'intendere i
rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le massime delle quali
si discorre, esprimono o valutazioni primarie e- lementari, di cui è superflua,
perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valu- tazioni
nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste
valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a
ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo
strade di origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel
raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei,
edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in
vista di fini diversi e anche opposti tra di lo- ro; e nel raccomandare
l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano pie-
namente d'accordo12; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono
comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta, deve
ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque sia,
tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve
riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di
operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora
riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta
un principio bisogna accettare le conseguenze, que- sto è appunto, essere
ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato,
se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica
conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione,
ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per
mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la connessione
necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente assunti
per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per
ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che
se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse- guenze valutative non
coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo
di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale, finché sono considerati
come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa irragionevole se chi usa
pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma- zione del superuomo e che a
formare il superuomo è necessario essere spietati. Questo esempio può parere
poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità di essere riconosciuto
e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe probativo anche se
fosse del tutto ipotetico13, è da os- 12 Anzi su questa circostanza si fonda la
considerazione, a cui ho accennato, di importanza capitale per l'etica e di cui
ho trattato di proposito altrove (confronta Vecchio e nuovo problema, Parte I,
Cap. II, Parte II, Cap. II): cioè che una qualità, una virtù, un modo di
operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri rispetti
diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore di
utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: 1° come avvenga che la
giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di
natura diversa; 2° co- me sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima
del problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto
morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una
rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro
genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale. 13 E non è, come
tutti sanno. 17 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta servare che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí
recisi, sull'accordo tra le persone ragio- nevoli sono da fare assai piú
riserve che non paia a prima vista; appunto perché, dove il consenso abituale
del costume e l'accordo delle opinioni accettate senza critica non sopraffà o
non nasconde le divergenze, e soprattutto nel campo della vita interiore,
queste sono assai maggiori che non si creda. Anzi si può dire che su certi
campi l'accordo tra persone di tendenze e di indirizzi morali di- versi è
raggiunto, non in grazia della ragione, ma nonostante la ragione, la quale se
fosse rigorosa- mente applicata, richiederebbe un modo diverso di valutare e di
giudicare l'azione. Il che viene a di- re che qui l'accordo c'è, non perché
tutti sono ragionevoli, ma perché alcuni si dimenticano di esse- re, o credono
di essere mentre non sono. ** * Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di
un giudizio di valore tenuto come contrario alla ragione, che appare conforme a
ragione quando muti il criterio al quale si riconduce. Non meno, anzi piú
significativo è il caso inverso, di principî tenuti come razionali che ces-
sano di essere riconosciuti tali, se cessano di essere ammessi certi dati o
postulati dei quali si sottin- tendeva che non potessero essere ragionevolmente
negati. Di che l'esempio storico piú insigne e piú istruttivo è offerto da quei
principî etico-giuridici che passano come il modello caratteristico di una
costruzione puramente razionale. Anzi, su questa idea che la costruzione
giuridica del secolo XVIII — della quale l'espressio- ne piú nota è la
Dichiarazione dei diritti dell'8914 — sia una pura astrazione razionale, è
fondata la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico;
mentre nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua
parte, e la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione
che ne pone la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della
costruzione razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo
dell'uomo storico (qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche
storica, non può fare a me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a
fondamento della propria costruzione un astratto (l'uomo- ragione)
insufficiente a reggere l'edificio che si voleva fondare su di esso. Infatti
l'uomo-ragione supposto dal razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e
impre- scindibilmente, nel concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi
principî, espressi o sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno
nell'opinione comune, surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di
uomo-ragione. Non si capisce la razionalità dei diritti dell'uomo e del
cittadino, se non supponendo che sia un dato razionale ammettere che nessun
uomo debba essere trattato come strumento della volontà altrui; cioè senza
supporre il valore assoluto dell'uomo come tale, e il postulato giuridico
corrispon- dente, dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto
per questo soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di
fronte allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare
Marx e sorridere l'ho- mo historicus. Né si dica che il Nietzsche è finito al
manicomio; ciò non proverebbe nulla: l° perché non è teoria solo del Nie-
tzsche ma di molti: e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una
razza; 2° perché quando il Nietzsche la pensò non era pazzo; 3° perché anche se
fosse stato pazzo, la teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria
pazza; 4° perché in ogni caso sarebbe da dire non che è irragionevole la
massima, la quale, poste quelle premesse, è ragionevo- lissima, ma che è
inumano, o ripugnante, o indegno, accettare una o l'altra delle premesse, o
ambedue. 14 Ma è tutt'altro che l'unica perché fu preceduta, come è noto, non
solo delle dottrine del liberalismo inglese, ma anche dai Bills of Rights dei
diversi stati dell'Unione Americana. E quanto al luogo comune delle «Ideologie
france- si» ha ragione il Janet, di rilevare che in un testo scolastico
universitario inglese, «Philosophiae moralis institutio com- pendiaria»,
stampato a Glasgow nel 1742, di un autore tutt'altro che ignoto, l'Hutcheson,
si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del Rousseau, del patto
primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro governo. 15 Un altro
luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in disparte, è quello che
vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema dell'individualismo e la tesi
dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre il riconoscimento di quei
diritti esprime a parte singuli la garanzia della libertà individuale, ma
esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di ogni stato: la tutela
della giustizia. E combattere le violazioni della libertà e della giustizia,
fatte in nome 18 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta Mentre, se si esclude quel supposto e si ammette che lo
stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o se si ammette
che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po- sizione
sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti «naturali» non
hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti. Ma il principio
che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare la persona come
mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di valore il
principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga quanto
qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere negati
senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto dell'accettarli o
negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non era. Perciò non è
da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in quella
costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la costruzione
debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e non è, per
chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di ragione non
solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la coscienza mo-
rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può dedurre da essi.
** * Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che fossero
impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo
ragionevole» volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di
valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che avesse torto
nell'accettarli e nell'as- sumerli come degni di essere accettati). Ma se si
ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione razionale che se ne
ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che governerebbero
qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come criteri supremi
della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei
cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di loro —, non
solo non è ille- gittima, ma è la sola legittima. E il suo valore etico, giova affermarlo,
sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza che si osserva o si
immagina intercedere fra uno stato conforme a quella esigenza ideale, e questa
o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per chi assume
quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri corrispon- denti
all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i doveri fondamentali
precedenti in au- torità e in obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i
diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e politici supremi
indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità delle forme
ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per converso, chi
respinge questo postulato, non solo può, ma deve, ragionevolmente, nega- re
ogni valore alla costruzione razionale corrispondente (sebbene avrebbe
l'obbligo — in sede di di un preteso interesse della collettività e dello
stato, non è negare l'interesse della Società, ma piuttosto difenderlo. Anzi
l'homo ethicus del secolo XVIII è povero di contenuto appunto perché si
esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va- lori giuridici e politici, e
dimentica o trascura i valori propri della vita personale interiore. Il che
prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini propri dello stato (uffici
positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli; appunto perché domina e vince
ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni universali e fonda- mentali -
così per la vita individuale come per la vita sociale - della libertà e della
giustizia. 16 Chiamare la concezione ideale di una forma di diritto una
astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e non è giusto se
non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle condizioni necessarie
a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo dire che il diritto
ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e
parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che sarebbero
richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú astratto che un
diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni storiche. Salvo che
nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono reali, nel primo sono
possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle condizioni che ne fanno o
ne hanno fatto un diritto positivo, trova corrispondenza nella realtà, e nel
concetto dell'altro l'idea delle con- dizioni che farebbero del diritto ideale
un diritto positivo, non ha trovato o non trova più, in una forma storica di
realtà, la sua corrispondenza. 19 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta morale — di chiarire quale postulato assuma
al posto di quello che respinge, e quale sarebbe il si- stema etico-giuridico
che ne discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi, quando pretende
di confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in nome della
realtà o della storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la stregua della
attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma non del
valore di questi rapporti. ** * Cosí il razionalismo assume erroneamente come
dati razionali dei postulati di valore e si il- lude di poter imporre in nome
della ragione dei principi che non valgono se non supponendo accet- tati quei
postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni
valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà
storica è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini
non hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è
fondata sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto
diritti positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei
diritti; e che non possa essere apprezzata e apprezza- bile una società
ordinata in modo tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse
costituita per contratto volontario di tutti i cittadini; o non possa essere
piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e valga come tale un ordine di
rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere
queste questioni, il sapere storico non è competente. D'altra parte lo storico
non potrebbe risolverle senza cessare di essere storico e diventare «moralista»
o «ideologo», «reaziona- rio» o «rivoluzionario», «conservatore» o «riformatore».
Perché non vi è altra via: O ricusa certi postulati di valore per assumerne
altri diversi, pure di valore. O rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a
qualunque intervento della volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione
degli eventi umani. Perché ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria,
implica una direzione verso un risultato che si giudica preferibile tra i
possibili, cioè implica una scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel
«razionalismo» quanto nel «realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione
pos- sono bensí essere ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato
non è posto dalla ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo,
ammetterlo o respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione,
né riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il
che è la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di
valore a cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto
razionale, come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui
si riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. ** *
Resta da osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo
etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione
volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi
incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse
ba- 17 A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è
da ricondurre, a mio giudizio, la que- stione del rapporto tra Spirito
rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente il
Mondolfo in un ar- ticolo del «Nuova rivista storica» (anno I, fasc. III). Il
rivoluzionario (come del resto ogni innovatore di grandi o anche di piccole
cose, anzi ogni uomo di iniziati- ve) è, o si pone, fuori della storia in
quanto valuta, cioè giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è un
pro- dotto storico, non è perché è un prodotto della storia che è stimato
desiderabile, preferito e voluto). È nella storia e deve aver senso storico in
quanto è uomo politico, cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella
direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie tra diverse direzioni concepite
come possibili (cioè come tali da potere essere favo- rite e contrastate dalle
nostre azioni), non è nelle storia, se non in quanto sono nella storia e della
storia le sue stesse ide- alità morali. In quanto si rende conto della realtà
sulla quale vuole agire e del modo col quale la sua azione può inserirsi
efficacemente su tale realtà, è nella storia. 20 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stare per fare accettare
questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i pregiudizi», ragionare;
come è nata per contrasto l'illusione inversa che per respingere le
applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi postulati e dei
criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far tacere la ragione o
screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle conseguenze, che essa secondo
l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in sistema coerente, ma degli
errori e delle violenze commesse da quelli che smentivano con l'opera i
principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso senza cono- scenza degli
uomini e delle cose, cioè senza tener conto della realtà concreta e della
storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto di meriti non suoi, a
una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la ragione è al di là di
quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un compito inestimabile;
necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito mai; di costruire
incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo teoretico, l'unità
del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare, come miravano gli
antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un ufficio di continua
eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi- rituale della persona
analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la circolazione del sangue.
Ma non si può pretendere di ricavare da essa il principio dell'esistenza, ossia
il dato o i dati attorno ai quali si possa affermare la realtà obbiettiva di
ciò che è oggetto del sapere; né si possono trovare in essa, o ricavare da essa
i criteri sui quali si fonda la valutazione e attorno ai quali la ragione
unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la certezza dell'esistenza, cosí
non dà essa la coscienza del valore. 21 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SESTO RAGIONE E LEGGE Resta
un'ultima via, la terza (vedi Cap. II); la piú audace e radicale. È la ragione
che pone la legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a
nessun dato o principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine
teoretico o dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa
ricondursi il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come
legge, senza che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche
oggetto o risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le
che venga assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da
quello che gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede,
la tesi di Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri-
gorosa del razionalismo morale. La prima delle vie indicate (Cap. II), quella
del platonismo, e in modo particolare quella dei platonici della scuola di
Cambridge, riconduce la morale alla ragione perché la riconduce a principi
teoretici di cui si crede che la ragione dimostri la verità o faccia rico-
noscere l'evidenza: la certezza morale è razionale perché è razionale (o è
assunta come tale) la cer- tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo
morale. Per Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati
teoretici; ma è soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti
del fenomeno, e affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della
morale, ciò che la ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati
pratici sono veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati
sul fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è
esigenza formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di
quella legge che è essa la sola razionalmente necessaria. ** * Ma essendo
incontrastato per Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e
della legge col contenuto tre soluzioni: I. O si può intendere che la legge
morale è una forma senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore
morale alla legge e il criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra
una qualsiasi determinazione del contenuto. II. O si può pensare che occorre
bensì un contenuto che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di
assumerla o di esserne investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto
che diverso. Insomma: è necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso
sia, purché possa essere contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a
priori che possano essere piú, fra di loro diversi. III. Si può pensare che la
forma razionale, la forma della legge morale conviene a un solo contenuto, quel
contenuto che si concreta appunto in relazione con quella forma. Ossia, che
l'esi- genza razionale basti a determinare univocamente il contenuto della
legge18. La prima interpretazione che sembra la piú semplice e sulla quale s'è
fatto un gran discutere, è insostenibile, perché si risolve in un circolo
vizioso, dal quale non è possibile uscire in nessun modo. 18 Forse a queste tre
interpretazioni, teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le
tre formule note dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che
ciascuna delle tre si avvicina di più rispettivamente a una delle
interpretazioni possibili che alle altre due. Così la prima formula
(dell'universalità) sembra rendere possibile la prima interpretazione. La
formula (terza) dell'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali
e dei doveri conformi ad esse, pare che possa convenire alla seconda
interpretazione. E finalmente la seconda formula (tratta la per- sona umana
come fine, ecc.) pare che risponda meglio alla terza interpretazione di un
contenuto determinato inequivo- cabile. 22 Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa illustrazione
kantiana che sembra legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa
spesso e trattata come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter (la
possibilità di concepire la massima come legge universale dell'operare), ma
che, nei termini precisi in cui è e- spressa, implica di necessità il
riferimento a un qualche contenuto senza del quale mancherebbe o- gni
possibilità di adoperarla come norma di quell'operare del quale vuole esprimere
l'obbligatorietà. Secondo quella formula, il criterio per giudicare della bontà
della massima è che io possa volere che valga come legge universale. Ma io
posso volere che una massima valga universalmente, soltanto quando, o meglio,
se, la massima cosí universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla
Ragione, cioè (che è tutt'uno) al Volere morale; alla legge, dunque, che fa
morale il mio volere; il che viene a dire che una massima è morale quando è conforme
alla legge del volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il
valore morale dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia
voluta come legge, ma questa possibilità di essere voluta come legge, si
riconosce dall'accordo della massima con quel- la legge morale della quale non
è dato altro carattere che l'universalità, e altra applicazione che cer- care
se il modo di operare corrispondente si possa universalizzare in massima. Che
il riferimento a un contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente
implicito nel criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma
da una chiosa che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo
espresso o sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il bra-
v'uomo che non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro)
chiosa il Kant in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una
legge universale della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere
che un tale principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile?
Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è
incompatibile con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale
tuttavia è pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole
qualchecosa che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente.
Insomma, il criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile
confrontare la legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente,
con una certa legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto.
Senza questo riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile
sapere se la massima dell'azione19 abbia o non abbia i requisiti necessari,
perché si possa volere che valga come legge universale. ** * Con ciò il
pensiero di Kant sembra escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda
in- terpretazione (che la forma razionale possa convenire a piú di un
contenuto, cioè che possano pre- sentarsi come leggi morali, modi di valutare o
sistemi di norme fra di loro diversi); e ammettere che a dare all'esigenza
razionale sussistenza effettiva di legge, determinazione di oggetto che la
renda applicabile, non sia adatto che un solo ed unico contenuto; e che la
legge voluta dall'essere ragione- vole, non possa essere che quella certa
legge. Che questo sia veramente il pensiero di Kant credo sia indubitabile, né
importa insistervi qui. Piuttosto è necessario rilevare come questa pretesa di
deter- minare la legge, quella legge soltanto in funzione della forma, possa
parere possibile e legittima finché è sottinteso o ammesso che la legge morale
deve essere universale non soltanto nella forma, ma anche nel contenuto; e che
perciò le massime in discorso sono soltanto le massime di quel certo operare
che ne resta quindi determinato in modo univoco. E cosí il criterio
dell'universalizzabilità coincide praticamente con quel contenuto di cui si sa
già e si ammette riconosciuto universalmente 19 E va da sé che anche l'azione,
di cui si vuole saggiare a questa stregua la massima, deve avere un contenuto
che la fa essere quella azione, conforme o disforme da una massima. Se no, non
si può parlare di massime dell'operare, anzi neanche di un'azione
qualsiasi. 23 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta il valore, di cui quindi si sa che è impossibile volere che
valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque questa impossibilità non
sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa e- sigenza si trova
essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una volontà che vuole
cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità non emerge
necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere ragionevole; la
quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di cui la ragione
formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga come assoluti e
supremi quei valori, cessa o- gni ragione di volere quella legge piuttosto che
un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga come legge
una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un volere non
voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere il Volere
di un essere ragione- vole? Cessa di essere un Volere ragionevole quello che
riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e unifica le
massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso riconosce
come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza razionale? ** *
Questa ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea prova, come
s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che l'analisi
della formula rivela inoppugnabil- mente: che il dato iniziale, originario o
primario della legge morale è presupposto dalla ragione, non posto; presupposto
come oggetto o contenuto di una Volontà la quale è bensì razionale in quanto
pone a sé come legge la norma dell'operare corrispondente; ma non è né
razionale né irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei valori
primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'o- perare, l'oggetto della
volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in unità
coe- rente di legge. ** * A una conclusione del medesimo genere riesce per
altra via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua
memoria densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il carattere
formale della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva
facendone la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto
soprasensibile. Ma questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla
concezione di questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è
l'oggetto proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che
di questo mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto
questo: che esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale,
il mondo nel quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne
diano altre de- terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre
determinazioni, attua un certo ordine di rapporti, 20 Mi sia lecito riferirmi
per la chiarezza a uno degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può
volere erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita
può uccidersi (1° esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita
una tal massima universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel
pensare che tutti quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche
che non sia possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia
indifferente per ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il
piacere o la liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così
possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse
anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la
superiorità dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge,
non da un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità
di sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo
contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali)
sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una
massima che smentisce questa superio- rità. 21 Sul formalismo della morale
kantiana estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario
del- la R. Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e
Discorsi, Libreria Editrice lombarda, Milano, 1929. 24 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta che non possiamo
conoscere speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere certi e
affermare e riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si ammette la
prima tesi, l'affermare una realtà soprasensibile di cui non possiamo dir al-
tro se non che è il contenuto della forma morale, non ci dice in che consiste
questo contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi è un mondo
conforme alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto questo mondo.
Non ci illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a far capire
quali sono le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge sia
perfettamente os- servata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo
vizioso di un mondo di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge
morale, e di una legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo,
bisogna dunque attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti,
e come io credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra
punto per punto nelle stret- toie della sua esposizione, come risponde
all'intento fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione
pratica e piú chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui
nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura22. In
realtà «l'uso pratico» della ragione consiste nello spalancare all'esigenza
morale quelle porte della metafisica che sono chiuse alla speculazione
teoretica; nel lasciar libero alla fede il cam- po del soprasensibile vietato
alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare espressioni corren- ti, piú
che il diritto la necessità di credere, la necessità «razionale» di ammettere
quel che la ragione, in quanto è garanzia di certezza teoretica, non può né
dimostrare né affermare; di oltrepassare — per rendersi conto della possibilità
del dovere — il campo dell'esperienza sensibile e postulare l'esi- stenza di
una realtà che trascende l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza
frutto23, se una certezza diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse
valicare quelle porte del soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi-
genza morale, ma apre per lei e in nome suo. Sulla soglia del soprasensibile la
ragione sembra dire all'esigenza morale quel che Virgilio a Dante all'entrata
del Paradiso terrestre: «...Se' venuto in parte Ov'io per me piú oltre non
discerno». Ma la fede fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in
questo mondo, dinanzi al quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno
ogni luce dal di fuori, questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza
morale accende in sé e sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è
il suo regno. È questo mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la
realtà di cui la legge morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel
mondo dell'esperienza si applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in
quanto partecipa di questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua-
le la realtà inferiore deve essere subordinata. ** * 22 Il concetto dominante
di questa prefazione (che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono
che la soluzione dei problemi morali sia un corollario di dottrine speculative)
si può considerare riassunto in questa, che direi confessione caratteristica:
«Ich musste also das Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um
zum Glau- ben Platz zu bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur
zweiten Auflage, ed. Cassirer, vol. III p. 25). 23 Nella prefazione citata, a
proposito della limitazione che la critica della ragion pura porta alla ragione
specu- lativa negandole la possibilità di una conoscenza del soprasensibile,
Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica così purificata» non è soltanto
negativo ma anche positivo perché permette l'uso pratico della ragione. E
osserva con un pa- ragone assai significativo che negare «a questo servizio
della critica il vantaggio positivo sarebbe come dire che la poli- zia non dà
nessun vantaggio positivo perché il suo compito principale è soltanto di tenere
in freno la violenza; affinché ciascuno possa attendere ai suoi affari
tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è mio). 25 Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta In questa
interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un
oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un
contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la
legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione
valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato
dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un
dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di
quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da
questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la legittimità
della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta come
incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi-
denza razionale. ** * Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge
morale implica accanto alla esi- genza razionale un oggetto della Volontà, un
ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che
trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare
u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa
attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una
esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è
forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e
suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà
obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè
azione in vista di un risultato, è il fondamento irredu- cibile dei giudizi
primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà,
delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del
sentimento. 24 Non è il caso di cercare qui se e che cosa il Martinetti abbia
messo di suo e di postkantiano nella sua inter- pretazione, né di vedere se e
fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la
dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la
difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere.
La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile
che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure
assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale,
quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui
ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due
l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma,
differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale
si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro ge- nere. E
allora vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria,
intrinseca tra questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso
si riconosce che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore
proprio che sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale.
O si ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è
per sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto
a questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo
riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un
modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le
intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure
«profano» la stra- nezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del
problema e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza
di una osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore
intrinseco a ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità
incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie
ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità
di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta
valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che
dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a
costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel
mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale
consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare
commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale
rigorosamente mistica: forza, in quanto è intui- zione, atto di fede, certezza
interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata
di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire
logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la
condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo
soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un
distacco logico del genere di quello accennato sopra [Cap. I § 3°] tra il
crite- rio usato a determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori
invocato a giustificarle. 26 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta L'intento di Kant di liberare la legge
morale da ogni mescolanza e contaminazione «patolo- gica» di sentimenti, di
inclinazioni, di tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis-
simi ma vani — forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se
il Kant, meno preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine
eudemonistiche del tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di
fini, sia inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di-
sposto a riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione
intrinseca, cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento. JVALTA,
ERMINIO JL M -jf, É..^ M...^ • IL
METODO DELL'ECONOMIA PLACE:
BIZZONI DATE: 1907
COLUMBIA UNIVERSITY LIBRARIES PRESERVATION DEPARTMENT
RTRTìOnRAPHIC MICROFORM TARGET Master Negative #
Originai Material as Filmed - Exisling Bibliographic Record
r .170 hi V.2
■ I l ■! ■ ■' I < I» ■■ ■<■ '
» ■ " ' > t mm'mm'^^mmt^i^n
<9 I tli i n Juvalla, ]]r]iiiìio
Il netoilo doll'econonia pura noli 'etica. Pavia. Dizioni, 1907.
• ?:ì p. 24 cn in ZG}: cn. At head of title: E.
Juvalta. Estratto dalla Rivista filonofica, novcnbre-di-
cenbre 1907 • VoluiTio of poinplilets
Restrictions on Use: FILM SIZE: ZS^I^
TECHNICAL MICROFORM DATA REDUCTION RATIO:
//x IMAGE PLACEMENT: lA fllM IB IIB
DATE FILMED: J^mAj-_ INITIALS_?5_ HLMEDBY: RESEARCH f
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Avenue, Suite 1100 Silver Spring, Maryland 20910
301/587-8202 Centimeter 1 2 3
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Ximtti bella /Iftorale come Sciensa I.
— II. III. La Dottrina delle due
Etiche di H. Spencer e la Morale come Scienza. - Per una
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PREMIATO STABILIMENTO TIPOGRAFICO SUCC. BIZZONI Corso Vittorio
Emaniu'e — Telefono 92 1907. ')
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«"iJi! hypotheses fingo.
;i ì I. L'Economia Pura assume,
come è noto, l'ipotesi che gli xwmiìii nel produrrCy consiunare, distribuirsi
e far circola-re la -ricchezza siano 7nossi esclusivameìiie dal
desiderio di coyisegiiire la maggior possibile soddisfa- zione dei loro
bisogni mediante il minore possibile sa- crifizio individuale. Alla
costi-uzione deduttiva, che se ne ricava, dei teoremi economici, ossia
delle leggi della condotta àeW Jiomo oeconoìnicus, è indiffei-ente la
questione se il postulato edonistico esprima vei'amente una condizione
di fatto; ossia se l'ipotesi — da cui si deduce ogni verità
economica — coincida o diverga ed in quale misui-a dai motivi che
effettivamente determinano le azioni umane '^2); come è indifferente
qualsiasi valutazione che e del postulato assunto, e della condotta óeìV
uomo econo77iico, e degli ef- fetti di questa condotta, si possa fare da
un punto di vista morale. In effetto il giudizio sul valoi-e
di giustizia o di bontà del motivo economico e delle leggi che ne
discendono, variò, (1) Fa parte degli Atti del Congresso Filosofico
di Parma, al quale do- veva essere presentato coi titolo più generale : €
Condizioni e limiti di una trattazione scientifica dell' Etica ».
(2 Cfr. Pantaleoni. — Principii di Economia Pura. - Capo I e li.
^■ -il \-
f V l\ \-
IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA come
tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo piir radicale; e il
giudizio sulla coii'ispondenza delTipotesi colla realtà varia del pari,
da quelli che riconoscono nel motivo assunto l'unico motivo di tutta
quanta l'attività umana, a quelli che lo considerano come uno dei
fattori, non l'unico, nel campo stesso dell'economia; i quali, appunto
perchè l'economia cosi intesa studia soltanto l'azione di un fat-
toi'e, isolato per asti-azione dal complesso degli altri la cui efficacia
si esercita in realtà simultaneamente, non ricono- scono alle sue leggi
che un valore ipotetico, correlativo al cai'attere ipotetico dell' uomo
economico e dello Stato eco- nomico. Ma qualunque sia cosi
l'uno come l'alti'O giudizio, il carattere scientifico della costruzione
deduttiva rimane in- contestabile. Nella misura che la corrispondenza
colla realtà psicologica è inadeguata, si dovrà riconoscere
l'arbitrarietà del postulato, e della costruzione che ne dipetide, in
quanto pretenda di porsi come scienza della realtà ; e a secoruìa
che si ammette o si nega che il postulato abbia valore morale, si
ammetterà o si negherà valore morale alla di- sciplina precettiva che se
ne volesse ricavare. Ma in ogni caso restano incontestati questi due punti:
1.* che la ri- cerca intorno alla corrispondenza colla realtà
psicologica e storica del motivo economico e delle condizioni nelle
quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla co- struzione
deduttiva dei teoremi economici ; la quale è va- lida, 7iei limiti dell'
ipotesi, sempre, qualunque sia il grado di questa corrispondenza. 2° Che
qualsiasi indagine valu- tativa del postulato, e delle leggi, e degli
effetti sia pros- simi sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è
pa- rimenti distinta, ed estranea alla costruzione scientifica
il metodo dell'economia pura nell'etica 6
<iometale; la quale rimane la medesima tanto se il motivo
economico è considerato come morale quanto se è tenuto come immorale, o
amorale, e quali che siano le ragioni di questa valutazioue.
Supponiamo ora che il postulato edonistico sia ricono-
sciuto universalmente e accettato come postulato morale. E chiaro che la
disciplina precettiva derivata o derivabile dall'economia pura avrebbe
valore e carattere di precet- tistica morale; sia che il valore morale
del motivo econo- mico fosse accettato per se come un dato primo e
imme- diato, sia che venisse derivato, ossia giustificato alla sua
volta, da un fine o da una esigenza ulteriore; e qualunque fosse questa
ulteriore giustificazione. E opportuno su questo punto un breve
chiarimento. Nella supposizione ora fatta che il valoi'e morale
<iel motivo economico sia universalmente riconosciuto, non è in
alcun modo implicita l'aff'ermazione che sia riconosciuto da tutti per la
medesima, o per le medesime ragioni. Si po- trebbe ammettei'e che esso si
fondi per alcuni sulla legitti- mità, senz'altro ammessa dell' « egoismo
individuale » o del- l' < egoismo di specie )>'come regola di
condotta; da altri sul cai-attere atti-ibuito alle leggi economiche di
leggi na- turali e necessarie e non modificabili dalla volontà del-
l'uomo; da altri sopra una interpretazione ottimistica delle leggi stesse
o degli effetti o risultati che l'osservanza piena ed universale di esse
produce o tende a produrre. E si pò- irebbe del pari ammettere che V
ordine di relazioni con- forme al principio economico sia considerato
come provvi- denziale o divino e si riversi su di esso il prestigio e
l'au- torità di sentimenti e di credenze religiose o metafìsiche.
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METODO dell'economia PURA XELl'eTICA A
Anzi si può affermare a priori che questa ulteriore giu-
stificazione o valutazione, dato che si faccia, sarà diversa per le
diverse coscienze a seconda delle opinioni religiose o filosofiche
diverse sulla «latura e sul fondamento della moralità.
E tuttavia il valore morale della massima conforme al motivo
economico e delle norme che ne dei'ivano potrebbe, nella disciplina
precettiva supposta, essere legittimamente assunto come un dato di fatto
e trovare in questo la sua giustificazione immediata, astrazion fatta
dalla diversità delle ulteriori valutazioni. E in questo caso
si avvererebbero le seguenti condi- zioni : 1.0 Rimane fuori
di discussione il carattere scien- tifico della costruzione e della
disciplina precettiva che se ne ricava, il quale è dato dalla validità
logica delle con- clusioni, cioè dal rigore col quale sono dedotte dal
po- stulato. 2.° Rimane del pari fuori di discussione la
elettiva va- lidità inorale del postulato il quale è, per ipotesi,
ricono- sciuto universalmente conforme all'esigenza morale.
3.° Questa validità morale del postulato (e del sistema di norme
che ne dipende) sussiste così se il detto ricono- scimento sia concepito
indipendente, come se sia concepito dipendente da un' ulteriore
motivazione, e in questo caso, qualunque sia il fondamento ultimo di
questa valutazione ulteriore. E resterebbe perciò
distinto dal campo della costruzione deduttiva il campo delle indagini
intorno alla natura e al fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle
condizioni soggettive della sua validità e della sua efficacia : ossia
il campo «Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica e
IL METODO DELl'eCOXOMLV PURA XELl'eTICA 7 quello della
ricerca propriamente psicologica e, nelle sue applicazioni, pedagogica.
Ma, (,ui' avverandosi queste condizioni, anzi appunto per il
loro avverarsi, la costruzione scientifica in discorso non potrebbe
tuttavia sfuggii-e alle due limitazioni seguenti : a) Non poti-ebbe
dirsi la scienza della condotta morale, ma la scienza della
condotta richiesta da an ceì'to motivo inorale (quello di cui si è
;H)stulata come un dato di fatto la conformità all'esigenza
morale). Perchè rimai'rebbe sempre da risolvere la questione; se
quel motivo esaurisca tutto il contenuto dell'esigenza morale, o
questa non comprenda altri motivi irreducibili ìì (|uello ; e
quindi se le norme contemplino tutta la condotta morale nella sua
estensione e nella sua complessità o ne contemplino solo una parte
od un aspetto. h) Essa non esprimerebbe le norme di una
condotta attuabile sic et simpliciter in una forma reale
storicamente data di società; m:. di una condotta la cui piena
attuazione non è possibile se non nelle condizioni astrattamente
sup- poste ; cioè la condotta delT uomo morale ipotetico in una
società morale ipotetica. II. Oi'a il
concetto che ho sostenuto e sostengo intorno alla possibilità, al
cai-attere e ai limiti della morale come scienza (1) coincide, nei suoi
lineamenti formali, con quello che risulta dall'ipotesi qui sopra
abbozzata, lo penso che sia (1) Mi permetto di riferirmi qui e nel
seguito di questo articolo ad altri scritti precedenti: Prolegomeni a una
Morale distinta dalla Metafìsica. Pavia, Bizzoai, 1901 ; e Su la
possibilità e i limiti della morale come Scienza. Torino. Bocca,
1907. fm'mmme'9mmm>é'>f A
s IL METODO DELLPXONOMIA PURA NELL ETICA
* 7 ^-i^^7> essenziale
cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teo- rica (ìi una trattazione
morale, il costiruii'si di una scienza Etica, nella forma e con un
procedimento analoghi a quelli dell' economia pura (1); e colla })ieiia
consapevolezza che la validità normativa e la applicabilità della
disciplina pre- cettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e
dentro i limiti che si sono oi- ora accennati. Ma una
costruzione etica analoga a quella dell'economia pui'a presenta una
difficoltà preliminare, che non si è su- perata, ma soltanto lasciata in
disparte, supponendo, corno si è fatto arlificiosamente, riconosciuto
valore morale al motivo economico. CI) Se qualche critico
osservasse che é fuor di proposito voler traspor- tare neir Etica un
metodo e un procedimento che neir economia stessa é « oramai superato », o
almeno r ripudiato, dalla scuola storica in nome della realtà, e dalle
varie tendenze moralistiche in nome delle esigenze etiche, potrei
accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione si dovrà tener conto
quando i moralisti avranno fatto nel fondare una trattazione scientifica
deir Etica tanto cammino, quanto ne lece nel campo dell'economia la
Scuola Classica ; e che a mettere in canzone le ipotesi e le «
Robinsonate » degli economisti si cominciò dopo che le ipotesi avevano
già reso i più importanti servigi e perchè si era preteso di scambiare
senz' altro le astrazioni con la realtà. iMa si può anche aggiungere che
il metodo e il procedimento della scuola deduttiva, accompagnati da una
chiara coscienza delle condizioni e dei limiti della validità delle loro
conclusioni, sono i)iù vivi che mai nei cultori né pochi né oscuri
dell'economia pura; e che la scuola storica, se ha il merito di cercare e
mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle categorie e delle
pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i quadri posti dalla
Scuola deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi. Gen. V) e ne
presuppone le leggi determinandone le deviazioni e le limita- zioni nelle
diverse (orme storiche. I.e scuole moralistiche poi, in quanto si
rivolgono a criticare e correggere i concetti e i precetti dell'economia
classica non ne negano il valore scien- tifico nei limiti deiripotesi, ma
ne negano il preteso valore morale : negano cioè il carattere di
giustizia e di inviolat)ilità attril)UÌto arbitrariamente alle leo-i/i
economiche. Ed é facile avvertire che gli economisti di queste scuole
(con qualunque nome si chiamino) in realtà sono moralisti che cercano di
'il IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA
9 La difficoltà l'iguai'da la scelta e la determinazione del
postulato; il quale deve soddisfai-e a due condizioni : Tuna comune
all'etica e all'economia, F altra esclusiva dell'etica. La condizione
comune è l'applicabilità universale del po- stulato come principici
informatore di tutta la condotta; la condizione propria dell'etica è che
il motivo, di cui si po- stula questa universale e incontrastata
efficacia, abbia va- lore morale. Ora, VI è un motivo, del
quale si possa legittimamente presumere che sia riconosciuto
universalmente il valore morale, e del quale sia insieme possibile
Tapplicazione uni- versale e simultanea a tutta quanta la condotta
individuale e collettiva ? A questa domanda ho già cercato
altrove di trovare una l'isposta; esaminando prima in che consista
l'esigenza caratteristica di una norma morale ; e poi se vi sia e
quale volgere a uno scopo pratico (nella scelta del quale sono
guidati da un criterio etico) delle conoscenze fornite dalle dottrine e
dalle indagini economiche : e la forma-limite di questa tendenza é una
intera ricostruzione su basi etiche dei rapporti eeonomici. Fanno dunque
quello che da un pezzo avrebbero dovuto fare i moralisti; cioè sentono la
necessità di considerare l'esigenza etica estesa alla stessa struttura,
non soltanto politica, ma anche economica della società. Ma
ciò che più ini])orta di osservare a questo proposito é che una cri- tica
radicale — da un punto di vista etico — della realtà dei rapporti eco-
nomici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare all'economia pura non un
eccesso ma un difetto di astrazione. E il difetto di astrazione si rivela
in ciò: che mentre l'economia pura si propone di studiare l'azione
isolata del motivo economico, e perciò suppone ridotta l'azione dello
Stato ada tu- tela dell'uguale libertà per tutti, assume nello stesso
tempo — come condi- zioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p. es. la
proprietà fondiaria, il capitalismo e il salariato) che limitano o
alterano T universalità o l'eflicacia del motivo. Cioè o considera, per
questo rispetto arbitrariamente, come ca- tegorie necessarie^deWe
categorie 5ioric/ie, o considera, pure arbitrariamente, come eonforrni
all'ipotesi delle condizioni disformi. *-> -f
V " ■*'**i 10 IL METODO
1)P:LLE('ONOMIA FURA NKLL ETRA IL METODO DELL'ECONOMIA Pl'RA
XELL'eTICA 11 poss.'i essere il fine che
abbia il carattei'e <ìi uiìivei'sale e pi'einiiif'iite desiderabilità
richiesto a «^nustificai'e il valore normativo del motivo corrispondente.
La conclusione di questa analisi era la seguente^ : — La
desidei'al)ilità di un ordine di effetti, che si as- suma come fine non
viene tanto dalla desiderabilità che gli si l'iconosca come bene, cioè
come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto dalla
desidei-abilità degli effetti, lei (juali esso apjiarisca la condizione
necessaria. E perciò, inenti-e è vano andar cercando quale sia il
fine ultimo, il quale non si trov.a mai, o si risolve in una pura
espressione verbale, il fine che può valei'e come su premo si deve cercai'e
non nelT uno o nell'altro de: fini a cui si riconosca valore per sé, ma
in un ordiiM^ di effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia
assegna- bih*, nel quale si possa l'iconoscere questo carattere ap-
[)unt() di condizione necessaria non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai
quali si attril)uisce valore per se. E quimii il fine che può avei'e
universalmente una desiderabilità superioi'e a ogni altro, non juiò
consistere se non m un ordine genei'ale e, si potrebbe dire, preliminare
di condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perchè sia
possiì)ile universalmente la ricerca ulteriore <li ([uei beni. Non può
essei'e cioè supremo nel senso di una gerar- chia, della quale segni il
culmine, nò nel senso di una grandezza o quantità, di cui sia il massimo,
ma nel senso (iella precedenza necessaria o della indispensabilità;
per la (juale venga a l'accogliersi su di esso come in un unico
foco la luce e il calore di desidei-abilità che irraggia dai fini ai
quali apre universalmente la via. E perciò, ammesso che
qualsivoglia fìne lancino abbia, come ha in l'ealtà, per condizione la
convivenza e la coo- perazione sociale, il fine che può
avere questo valore di precedenza necessaria sugli altri deve essere di
necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni
di convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche forma di
società. Ma perchè a.] una forma di società possa essere riconosciuto
questo carattere universalmente, occorre che le condizioni della sua
esistenza abbiano per tutti un valore potenzialmente uguale; ossia che
nessuno dei fini dei quali quella forma di cooperazione pone la
possibilità e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto
delle esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno dei
componenti la società. in altri termini che tutti i .socn trovino nelle
condizioni di esistenza della società la mede- sima equivalente
possibilità esteriore d\ rivolgere la loro attività alla ricerca di
qualsivoglia dei fini, dei quali la convivenza e cooperazione sociale è
condizione — (Su la possibilità ecc. L Gap. VII, 8). Ora se
si riconosce come esigenza della giustizia, questa esigenza alla quale
deve soddisfare una forma sociale perchè abbia universalmente valore di
fine prossimamente supremo, determinare questo fine equivale a
determinare un tipo di società nel quale siano attuate le condizioni
richieste d^lla giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale - conforme a
questa esigenza - di homo iustus e di socielas insta. E ciò
equivale a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe
effettuato neU: ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia
in- dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o di
in/Iuenza che si eserciti cosi dalla società come da ciascuno dei
singoli, subordinassero universabne^ite e costantemente qualsiasi altro
motivo o desiderio al de- siderio della giustizia. E se
supponiamo che con un procedimento analogo a Ou
\ i m ,_.J. IH (
Afa 12 IL METODO r)?:LlV
ECONOMIA PURA NELL ETICA r ■ ■■'■'
J quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema
Hi l'elazioni che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, fosse già detet-niinato,
noi avremmo una Scienza pura della Giustizia, una « Diceo- logia »
piD'a, alla quale sarebbei-o totalmente applicabili le considerazioni
fatte sopra (v. pag. 6-7) circa i cai'atteri e le limitazioni che
pi'esenta una costi'uzione siffatta. Ili,
Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza pura della
giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole sulle limitazioni
notate, tre obbiezioni capitali : di essere una costruzione aì'bitraria,
oziosa, e, in ogni cas(ì, monca. Di queste obbiezioni occoi're
chiaiMre la portata. 1. — L'aid)itrarietà della costruzione
supposta pU(') es- sei'e intesa in due sensi : nel senso che la validità
delle norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postu-
lato, il cui valore è bensì assunto come un dato di fatto, ma senza una
ragione perentoria che obblighi ad accettarlo; oppure nel senso che è
difjbrrne dalla realtà e insussistente r ipotesi di una condotta
subordinata universalmente e co- stantemente all'esigenza della
giustizia. a) Se si intende 1' arbitrarietà nel primo senso,
qua- lunque dottrina etica è aidjitraria ; perchè il valore del
postulato fondamentale (ossia del motivo, o del tine, o del (1)
L'economia dà al postulato edonistico un contenuto materiale deter-
minato considerando come « soddisfazioni » le soddisfazioni di certi
biso<'-ni. e come « sacrifìci » certe privazioni e certe pene; mentre
al postulato della giustizia il contenuto materiale, al quale se ne deve
fare l'applicazione, é dato (la tutte le specie d'attivuà o da tutte le
categorie di fini (esclusi sol- tanto quelli la cui ricerca o
proseguimento importano la negazione del prin- cipio regolatort^
supposto) che in una società data sono possibili. ili
IL METODO dell'economia PURA NELL'etICA 13 criterio di
valutazione) quale si sia, è sempre ammesso assunto, ossia si suppone o
si ammette che sia ricono- scinto come tale; e nessuna dottrina etica può
compiere il miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione
pe- rentoria - se è una ragione, - non può consistei-e che nel
ricondurre il valore del postulato a quello di un altro fine o di
un'altra esigenza ulteriore, della quale si ammette o SI suppone ancora
che la validità sia riconosciuta. E se si dice che è prop.-io del fine o
dell'esigenza morale il pre- sentarsi alla coscienza come un valore che
non si può di- sconoscere, si auìmette che questo carattere è già dato
nel fatto stesso che l'esigenza è i-iconosciuta come morale; anzi
che il motivo vale assolutamente, appunto perchè vale come morale; il che
vuol dire che impone il proprio va- lore solamente in quanto la coscienza
lo accetta, e che è sempre in ultima analisi il valore morale
dell'esigenza che é preso come un dato primo o come un postulato.
Se si intende dunque in questo senso, qualsivoglia dottrina etica è,
perchè etica, arbitraria. Se poi si pone come caratteristica del
valore morale la possibile validità universale della 7nassima
corrispondente, nessuna esigenza è piti radicalmente universale di
quella che esprime la condizione stessa di questa possibilità.
h) Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto in effetto valore
morale, ossia che il postulato corrisponda o non corrisponda e più o meno
adeguatamente a un dato della realtà psicologica rivelato dall'analisi
della coscienza moi-ale, è una questione diversa. E se l'arbitrarietà
s'in- tende in questo secondo senso, come difetto totale o par-
ziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro, non nel
considerare come morale l'esigenza della giustizia, ma neir assumere
questo motivo come il motivo morale. fi
JH^ffriaililfffiìliilì" l'^Srftt'^i'-
!£? |^iftU>&t-M»'^**'*>'*^'*WlWiiw3».W'.ifc^
4 14 IL METODO DELI/FXONOMrA PURA NELL
ETICA IL METODO dell'economia PUKA XELl'eTICA
15 menti'e la realtà empirica ne pi*esenta anche altri
; e nel considerai'lo isolato da questi, mentre nella realtà sono
più o meno strettamente connessi e coopei'anti o contra- stanti con q
ìlei lo. Non ho nessuna ditlicoltà a riconoscere che la
costru- zione supposta è, anche per questo ris[)etto, arbitraria ;
al modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario qualunque
sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un' arbi- trarietà di
questo genere non implica nessuna fallacia finché non si pretende che essa
espi'ima la i*ealtà del mondo mt)- l'ale dato ; e la costruzione si dà
per quel che è, cioè per una scienza che sai-ebbe la « vei'a scienza »
della morale com' è , se le condizioni dell' ipotesi rispecchiassero
la realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè supporre che il
motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\ poniamo il motivo
altruistico? 0, meglio, perchè non as- sumere come motivi morali, o
l'ispondenti all'esigenza mo- rale, tutti i motivi che la realtà
psicologica l'ivela valere in effetto come tali? La l'isposta all'una e
all'altra domanda non è diffìcile. L'assumere come
rispondenti all'esigenza morale i cri- tei'i molte[)lici che si i-ivelano
nelle norme empiricamente date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad
assumere l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a
co- sti'uire non una scienza, ma una veste da Arlecchino. Perchè la
morale empii'icamente data rivela criteri non di rado opposti, e del
medesimo ci'iterio le applicazioni più artifi- ciose e vai-iabili (1).
Ora, che l'esigenza morale possa U) Tralasciando pure di insistere,
come lio già osservato altrove, perchè è cosa troppo nota, sull'antitesi
fondamentale esistente tra le norme di con- dotta che valgono come morali
rispettivamente nelle condizioni di pace e di guerra, e sui contrasti,
tragici talvolta, tra i « doveri » famigliari e i « do-
co„,poru,.e criter, ,ì,ver.i e anche opposti ,fi val,„az,one senza
cessare di essere morale, s, potrà aocl.e ammettere (purché s, s.a
disposti ad accettarne le conseguenze;; ma che si possa, assumendo
criteri contraddittori!, costruire una <iotti'ina coerente, non si può
sostenere. Bisogna dunque scegliere; e la scelta ,iel motivo
della giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella ,U uno fra più
"on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della scelt.. Poiché è
facile rilevare che il motivo delia giustizia e 'I solo al quale si possa
supporre che risponda in effetto universalmente e costantemente tutta la
condotta senza che l osservanza da parte degli uni richieda o
presup. ponga l inosservanza da parte degli altri. L'altruismo come
fu già notato, non potrebbe essere oss.Tvato univer' salmente, se non a
patto che fosse subordinato alla sua voka a mia norma di giustizia. Infatti,
affinché sia possibile I abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé
agli altri, veri ,, sociali, bisogna osservare che le „or,„e date e
accettate come morali o.o,.o contemplare e contemplano realn.ente, almeno
,„ parte, de„e rela- wL ; T ' ,•'" ' ^^■■»'°"» — P-"^i"
"> S-iadi relazioni pr.ma,,e e fondan.entah, che le „orn,e
non contemplano e che sono la ne- gazione del crueno applicato in qne.le
norme. Mi sia lecito spiegarmi e „ ruiieTau: r"'T, '"^'
t"'- '- ^ ^"""""^ ^'- "- ■-- - -'-
I iano i In ""'.T""" '"""
''"""■^"••^ '"■• '"" "-^-'^ cercare
,,uale a qu le concila la minima fatica del primo col minimo
disagio del secondo crueno seguito qu, é un criterio d, equità; si
riconosce ciocche non sa- omodi;T'"'.° ""'°"° °
"'"^ '" ■-^^""° "«' "-■ " P--''-e tutte
le comodità per se senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se
questo crueno (seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata ,,uella
conLol <i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one
t,-a i due p,Jl Z^JT'"" '■'■^''-'™-"- P~« e portato,
questa .:J^::Z TorT "T"" '»™"'--'>^^ colle
p,.opr,e gambe. Ossia la norma nor. le regola nel caso supposto un
rapporto che non esis,e,.ebbe, o sai-ebbe tutto d,verso, se essa fosse applicata
al sorgere di quel .-apporto NH itì'i^tli^'^'iiÉi'Tiiii^i
«ì.»lA:.m.iLlMiì-. Hif ^••s«ì»?T<P7**
*3«iaw*»*jsf^wsw«/ tì-^ Ifi
IL METODO dell'economia PURA NELl'eTICA
/ fttTi--' bisogna chf^ gli nni si
.saci'ifichii)0 e gli altri o qualche alti-o accattino il sacnfi/io ;
cioè bisogna che gli uni os^or- vino la massima (lell'altruismo, e gli
altri o qualche altro quella dell'egoismo. Se poi si ammette che nessuno
debba poter saci'ifìcarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di
osservare che in tal caso praticamente i sacrifici si eli<le-
rebber.)) fiisogna che la condottta altruistica di ciascuno non impedisca
una pari condotta altruistica degli altri ; cioè bisogna che fattività
altruistica alla sua \olta sia governata da una norma di giustizia.
Ciò viene a dire che la famosa formula Kantiana, se si considera
nella possibilità della sua applicazione simultanea per tutti a tutta la
coìidotia e.sterna non è suscettiva d'altra inter[)retazi()ne che di
massima univeisale di giustizia nel senso sopra chiarito (1).
(1) In un Saggio originale e sucrgestivo, che vale bene più di
qualche grosso volume inconcludente, Mario Calderoni illustrò
recentemente una concezione economica della morale (che non tocca in
nulla, benché a prima vista sembri antitetica, il concetto qui esposto)
nella quale egli osserva giu- stamente come la maggior parte delle azioni
« virtuose » non siano considerate come tali se non perchè «sono prodotte
in quantità inferiore alla domanda»; e son per noi un « dovere » appunto
perché gli altri uomini non le lanno,' e rimangono tali a condizione che
non siano troppi gli uomini capaci e vo- lonterosi di imitarle. E trae da
questa considerazione la conseguenza che la formula di Kant è del tutto
inapplicabile. Ora è certo che il Kant intendeva di parlare di
validità universale del motivo a cui si informa Ta/ione. che può essere
quindi variabile secondo le circostanze, pur rimanendo il medesimo il
motivo che la detta; e che non può richiedere uniformità di condotta
esterna se non nel caso che si tratti della medesima attività esercitata
nelle medesime condizioni esterne. Ma (juando m supponga avverato
questo caso, si troverà che T unico mo- tivo, il quale comporti
uniformità universale di condotta è il motivo della giustizia; e che
intesa così, la formula di Kant resisterebbe alla critica anche dal punto
di vista del Calderoni. {Disarmonie Economiche e Disar- monie morali -
Firenze, Lumachi. 1906. V.» Cap. Ili: La marginalità nella Morale).
tt-"K ^tkiìAtmm l i aiAl iì i
ilfiW i r^Mftm i r m
\^^A>m»mtm\ì^iMu\,ìiimàai>im.'^ÌM<-ii^uéM'n^'^
■■ -r I irr-* uriii^iiii H. METODO dell'economia PURA
XELl'etICA 17 2 - Assumetelo
dunque, se cosi vi piace, codesto vostro postulato, e costru.tevi la vostra
. Scenza pura della giustizia ». Cile ne farete poi? — A che
c<,sa propriamente potrebbe servire costruita elle fosse, non si può
con esattezza determinare ,n prece- 'lenza. Si potrà vedere, nel caso,
quando sia fatta o pi ut- "«to, a mano a mano elle si venga facendo.
Troppe ricerche . el resto non si farebbero se si aspettasse di averne
diino- strato 1 utilità; e ,li troppe altre , risultati portarono
frutti <lel tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che
riu- scisse inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é la prima „ó
u'iica ,n questo genere, specialmente nel campo della morale. E t,.a le
molte curiosità, perchè non dovrebbe trovar posto anche questa : ,ii
sapere come andrebbero le faccende di questo mondo se gli uomini si
decidessero ad essere tutti e sempre e in ogni contingenza della vita
so- liratutto e prima di tutto giusti? M.-i è pur naturale
d'altra parte che debba intravederne almeno qualche possibilità ,li
applicazione eh, la propone e che ne debba dire qualche cosa.
Le applicazioni possono essere principalmente due: come mezzo di
interpretazione o di sistemazione scientifica della realta morale ,lata;
e come fondamento di una disciplina precettiva, ossia di un'Etica
applicata della giustizia. a) Se 1 osservazione psicologica
dimostra che è arbi- traria, nel senso che s'è detto, l'assunzione del
motivo della giustizia come unico motivo morale, dimostra pure
<die quel valore gli è però realmente riconosciuto: e che se non
., riconduce ad esso effettivamente ogni valutazione
18 IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA
^nica, esso entra però come elemento o fattore di valuta-
zione in qualunque giudizio morale. Può essere dunque opportuno, a uno
scopo di sistemazione coerente delle norme effettivamente vigenti,
conoscere quali sarebbero se questa esigenza operasse isolatamente, cioè
se tutte si ispirassero unicamente ad essa; e considerai-e, con un
artifizio di cui tutte le scienze offrono innumerevoli esempi, come
devia- zioni limitazioni risultanti dalla presenza di alti'i
motivi, le norme che non coincidono con quelle astrattamente
dedotce. Sarebbero, per un vei'so, da considerare come tali
le norme della condotta politica interna ed esterna ispii-ate dall'interesse
dello Stato, o del maggioi- numero, o di una classe, in quanto al
rispetto di queste esigenze sia atti-ibuito valoi'e morale (1).
E sarebbe, pei- un altro vei'so, possibile interpi'etare le norme
della beneficenza come espressioni della stessa esi- genza della
giustizia, in quanto si considerano rivolte a sanare o a lenire gli
effetti che ne accompagnano 1' inos- sei'vanza, e le deviazioni o le
limitazioni. h) Ma l'applicazione più rilevante riguarderebbe
l'Etica propriamente intesa come disciplina normativa. La
< scienza pui'a della Giustizia » appunto perchè considera già
raggiunte e attuate tutte le condizioni richieste dalla esigenza che essa
postula, ossia, in termini equivalenti, fa astrazione da ogni circostanza
interna od esterna che ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia, configura
un sistema di relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula
fi) Sarebbe possibile per questa via togliere — dico nella trattazione
teo- rica — certe contraddizioni o antinomie davanti alle quali si
arrestano solitamente i filosofi del diritto quando ne determinano le «
esigenze razio- nali ». ••■<
IL METODO DELl'kCOXOSIIA PURA NELl'eTICA 19
•delle leggi, le quali possono valere come tali soltanto
nelle condizioni contemplate dall' ipotesi ,- vale a Hn^e non sono
suscettive ,li applicazione, sic et simpliciler, a condizioni iliverse.
Ma se si ammette che T onime di relazioni ipote- ticamente costruito
abbia valore di fine, cioè se si ammette come normativa l'esigenza della
giustizia, vi sarà luo-^o a cercare e a .leterminare (bencbè questa
determinazlne debba riuscire, come è facile prevedere, assai difficile
e complicata) quale sia in condizioni reali storicamente date la
condotta, die nei limiti imposti da queste, è ini, atta a favorirne la
trasformazione nella direzione segnala dalle condizioni ideali
contemplate nell'ipotesi. Ossia si potrà ricavarne un'Etica
applicata della Giu- stizia, alla quale la realtà storica fornirà la
conoscenza delle condizioni tra le quali si deve spiegare e dei
mezzi ai quali deve ad.-guarsi, per essere praticamente efficace la
condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come darà la conoscenza 'Ielle varie
specie di attività che l'esigenza .iella giustizia e chiamata a regolare;
cioè darà, volta a volta, alla forma <lella giustizia il contenuto
materiale. E le norme, cosi ricavate da questa applicazione a
una realtà data delle leggi .Idia Giustizia pura, saranno valide,
se SI accetta come fine morale prossimamente supremo, cioè precedente a
ogni altro fine generale e speciale, l'attuazione del sistema di
relazioni contemplato da quella, e come mo- rale la condotta
corrispomlente. IV. 3. Cosi questa Etica
applicata, come la Scienza Pura dalla quale essa si ricava, è
indipendente da qualsiasi dot- trina metafisica, ma non pretende di
sostituirla. Ignora i jl '4i*f
••ti«3g-#^Bt 'mws--**smmm»pmmmmmmm.<mK^^''mm-Mmà 20
IL METODO DELl'fXONOMIA PURA NKIJ/ ETICA
problemi metafìsici ; ma nel senso che non no richiede e non ne assume
una certa soluzione piuttosto che un'alti*a; non nel senso che ne neghi
l'esistenza o ne escluda la trat- tazione. Ilimane di fronte ad ossa
iinpi'ogiudicata, e da essa distinta, ogni questione sulla natura e sul
fondamento ukinìo delTesigenza stessa morale; così come rimane
impi'egiudicato il pi'oblema pratico, o pi'opriamente psicologico e
pedagogico, intorno al valoi-e e all' efficacia delle credenze religiose
o metafìsiche come condizioni o fattori sof^^-jcttivi dolla moralità.
Ma, ciò nonostante, o forse appunto pei'ciò, è verisimile che sia
giudicata, specialmente alla stregua delle tendenze più apei'tamente
dominanti nel p(insiei*o contcmpoi'aneo, doppiamente monca ; monca
considerata come dotti'ina ; monca considerata rispetto alla efficacia
pratica. a) Cei'tamente può parere strana se non ingenua
Tnlea di segnai'e una divisione di competetjza tra T indagine
scien- tifìca e rin(iagine proprianifMite filosofìca e metafìsica,
men- ti'e pai'e di assistere a una specie di «atto di coiitrizion<'
» delle stesse scienze speciali già formate ; le quali, dopo es-
sersi staccate e aver pi'oclamato la loro indipendenza dalla filosofìa,
sentono il bisogno di ritornare ad essa e di rin- tracciare in lei le
origini della loi'o vita e la ragione del loro valore. Tuttavia una
considerazione un po' più attenta può mosti-are die il contrasto è
soltanto a})parente e che la tendenza delle scienze speciali all'
inter|)retazione e alla integrazione filosofìca dei loro presupposti e
dei loro risultati non esclude, ma piuttosto include, la legittimità di
una di- stinzione anche nel campo delia morale. Perche essa })re-
suppone appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati , i loro metodi
i Ioì'O risultati, e che i sistemi speciali di dottrine cosi edifìcati
sussistano ed abbiano una validità propria, sia pure limitata e
provvisoria, all'infuori dell'in- i,*~'
;«*\ltj IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA
21 terpretazione e della valutazione che ne debba o ne possa
■ fare la metafìsica. In questa specie di Conferenza perma- nente dell'
Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è la mutua collaborazione
delle diverse discipline alla critica e alla integrazione del sapere e
del valere umano, sono gli Stati che hanno territorio e giurisdizione
propria che possono far sentire la loro voce. I delegati della
Corea sono esclusi. Intendo quello che si può dire: - La
morale è essa stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle quali
è subordinata la valutazione di tutte le altre discipline dei loro
principii e delle loro conclusioni. - Fosse pure, o, piut- tosto, dovesse
pure essere cosi. Quali sono queste esigenze della morale ? Come si
determinano ? Qual' è, fra i molti sistemi diversi opposti e anche
contraddittorii, quello auto- rizzato a rappresentare « la morale *, e a
far valere le sue esigenze come esigenze ideila morale *ì E se si
può distinguere una esigenza immediala e caratteristica, dato che
SI trovi, della valutazione morale, dalle esigenze ulte- non, argomentale
o poste da questo o da quel sistema per interpretarla o giustificarla,
allora è nello stesso tempo data la distinzione tra esigenza propriamente
morale ed esigenze avanzate ,ia una interpretazione o integrazione
metafìsica della esigenza morale; e si delinea insieme una
separazione legittima tra V indagine che cerca di risalire
dall'esigenza morale ai postulati metafisici, e l'indagine che ricava
dal- l'esigenza morale le applicazioni che logicamente ne discen- dono.
- Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza, valutazione
morale e valutazione metafisica formano un tutto unico; e separando
l'esigenza etica dalla fede me- tafisica colla quale è fusa e della quale
si alimenta, s, \ \ è
22 IL METODO dell'economia TURA XELl'eTICA
IL METODO dell'economia PURA NELL'eTICA
23 spezza r unità della coscienza , si oscura o si
cancella il signitìcato e il valore interiore della moralità, e si
pre- senta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo stampo esterno
e quasi l'impronta fossile dell'atto morale. — Sarà verissimo; ma
nessuna costi-uzione dotti-inaU può sfuggire a questa obbiezione. Tutto
ciò che la logica tocca e che è fatto oggetto di conoscenza riflessa e
i-agionata diventa perciò stesso un tipo, uno stampo, un fossile; anzi
stampo è la parola, stampo ò la stessa rappresentazione artistica
se non è vivificata e i-isvegliata da chi la deve intendere e gustare;
anzi sono diventate ormai stereotipe, per colmo di evidenza probativa,
perfino le fi*asi e le immagini usate a mostrare la « i-icchezza e la
varietà inesauribile» della coscienza e delle sue ci'eazioni.
E quanto al sepai«are nella teoria ciò che nella realtà è unito,
bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca è prima di tutto
distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto stesso, ogni fatto
(diceva già un chimico, il Chevreul,) è un' astrazione. Ciò che importa
veramente è di non dimen- ticare che l'astrazione non è tutta la
realtà. Ora, sceverando dal complesso degli elementi, onde la
vita etica nella coscienza personale iMsiilta o può risultare, quello che
è suscettivo della più universale applicazione, e costruendo il tipo di
vita che ne risulterebbe, non si pre- tende di esaurire il contenuto
della coscienza, ma soltanto di distinguere le norme di condotta a
giustificare le quali basta uu certo postulato, dalle norme e dalle forme
di vita morale che si fondano sopra altre esigenze ossia l'ichie-
dono altri postulati. E chi crede che la chiarezza dei concetti e
il l'igoi-e del procedimento si debbano poi'iare, fin dove è
possibile, anche nella speculazione etica, ammettei-à che può
essei-e que- utile
allo scopo, se non anche necessario, il seguir( sta via (].).
— Rimangono altri problemi. - E chi lo nega? Ma prima condizione
per cercar di risolverli con frutto è di non confonderli tra di
loro. h) E nasce da una confusione di problemi diversi
l'obbiezione, che si potrebbe dire pragmatistica, del difetto di
efficacia pratica, o più esattamente parenetica o pedago- gica, di una
dottrina morale che faccia astrazione da ogni valutazione metafìsica, e
presenti un sistema di norme che ha di necessità soltanto un valore
ipotetico, cioè, nel caso nostro, condizionato al valore che può avere
nella co- scienza il motivo impersonale della giustizia. (lì
Le espressioni di più d' un antiintellettualista indurrebbero 4uasi ad
ammettere che la morale sia una specie di grande imbroglio, nel quale a
voler vederci chiaro, si finisce per non credere più. Ora, altro è
riconoscere Cile ogni valutazione é in ultimo data alla intelligenza e
non dalla intelli- genza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento
può far volere un fine che non sia già voluto, o per sé, o come condizione
a un altro fine- altro è credere ed aOermare che T intelligenza o la
ragione sia « in contrasto » colla moralità. Come potrebbe
essere ? Non certamente in quanto si rivolge a determinare 1 mezzi
necessari e convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma ancella
della volontà in generale, e, se la volontà é « buona ». della volontà
morale. Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la
va- lutazione del fine (cioè delP oggetto o contenuto materiale del
motivo mo- rale) mostrandone \^ connessione, prima ignorata o trascurata,
con qualche cosa d' altro, che sia oggetto di una valutazione diversa;
diciamo, per co- modità, negativa o repulsiva. E allora, poiché la
valutazione di questo qualcosa d'altro non può venire dall' intelligenza
(la quale, come si sa. chia- risce rapporti, non dà valori),
manifestamente non si possono dare che due casi : ha origine
nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto che mettere in
chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia in
realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non
^'Ìitffl^-Él TBrti^tea^. JjW smÈj^i^ K
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24 IL METODO DELL ECONOMIA PURA XELl'eTICA
ffi. Poiché è uggioso a se e agli alti-i
l'ipetere cose già dette, e su questo punto ho insistito a lungo altrove,
mi restringo qui a riafTermare la legittimità, anzi la necessità
logica e la convenienza morale, di tenei- separata netta- mente ogni
ricerca che si volge a detei-minare quali siano le norme di condotta
richieste da un certo fine, dalla ri- cerca delle condizioni e dei
fattori dai quali dipende o può dipendere Fosservanza delle norme (1). La
legittimità delle deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti
rispetto al fine sussistono indipendentemente dalla presenza o
dalla assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono l'os-
servanza, e dalla natura di questi motivi. Come il conte- nuto e la
giustificazione delle prescrizioni d'un medico non dipendono dalla
disohbedienza o dall' obbedienza dell' am- malato nò dalle ragioni di
questa obbedienza. tocca in nulla il valore e l'efficacia del
motivo morale. Ammettere il contra- rio sarebbe come dire che cessa di
amare la giustizia chi cessa di difendere una causa che ha riconosciuto
ingiusta. ha origine in un motivo non morale (poniamo in un
interesse egoistico); e anche qui l' intelligenza non farebbe che
rivelare una condizione di fatto : la presenza e Tefficacia di motivi non
morali nella valutazione dei fini e :lella condotta. La conoscenza
dunque, anche in questo caso, non altera il valore del motivo morale; può
eventualmente mostrare che il valore e T efficacia sua non è esclusiva, o
incontrastata come si supj)oneva. Ma correggere un errore di giudizio non
é cambiare uno stato di fatto. Potrebbe dunque, tutt' al più,
togliere un' illusione. Ma è nell' illudersi d'esser morali che consiste
la moralità? (1) Questo conformarsi o non conformarsi si suole a
torto, per abuso di linguaggio, attribuire a una pretesa « efiicacia
pratica » delle norme; men- tre le norme - perse - hanno, a promuovere
l'azione corrispondente, una efficacia non maggiore di quella che abbiano
i fanali di una strada a muo- vere le gambe dei nottambuli. E un simile
abuso di linguaggio, che nasce da un difetto d'analisi, ha alimentato la
confusione tra esigenza giustifica- tiva e esigenza esecutiva, tra
l'obbligo e la giustificazione dell'obbligo, e la pretesa illusoria che
una norma possa o debba avere in sé forza obbligativa. Cfr. Prolegomeni
ecc. , e. I: (L'esigenza esecutiva) ; e Studi su la possibilità I, Gap.
III. (La pregiudiziale dell'imperativo categorico).
^é^^l^ f à'K^m^,^ i^^'^tliÈ '^f^i IL METODO dell'economia
PURA XELL'eTICA 26 La reale presenza ed
efficacia di motivi «ufficienii a determinare T osservanza è in ogni caso
si>,pposta , non . posla da qualnnque costi-uzione precettiva; e il
«„ppori-e operativo d motivo della giustizia non esclude, ma piut-
i tosto include, una ulteriore valutazione del motivo stesso '
ogniqualvolta nella realtà esso derivi in tutto o in parte la sua forza
da questa sopravalutazioiie. Ma anche in questo caso non bisogna
dimenticare che una tale efficacia .sarebbe sempre essa stessa
posMata come un dato di fatto, non comunicata o la,-g,la da una
fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione re- ligiosa o
metafisica non pone essa le credenze, ma le sup. pone già viventi e
.operanti. Il suo valore come motiva- zione morale dipende dal valore
reale che esse hanno nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa
appello a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale ,,el-
i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei dati assunti
da lei. E se questa fede mancasse, una fon- <iaz,one metafisica o
religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una efficacia non
diversa né maggiore di qualsi- voglia costruzione arbitraria.
Senonchè si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare che SI
,ie^e appunto volere quella fede dalla quale si può aspettarsi
l'incremento del motivo morale, e che, poiché SI tratta di « optare»,
conviene dal punto di vista' pratico optare per una fede moralizzatrice.
E compito del moralista «ara perciò di affermare e suggerire quella fede
come presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia- l'tà,
e presentare la dottrina morale connessa e incorpo- rata con quella
fede. Su un discorso di questo genere ci sarebbero da .lire
molte' cose; notiamone poche. E prima di tulio convien pur ripetere
che un tal compilo. t^ 1
2i') IL METODO dell'economia PIRA NELl'eTICA fc
m (lato che spetti al inoi-alista, ^Hi spetta in quanto è o
pre- tende (li essere educatore o apostolo, non in quanto si
propone di cercare quali concernenze ini[)liclii V accetta- zione di un
cei-t() postulato e si contenti di atierniare che chi accetta il
postulato deve accettai-e le hoimikì che ne discendoiHi. I due uffici non
si identificano ; chi ha slo//(i di ricercatore può non avere
stoft";i di a[)()stolo o di avvo- cato ; e potrehhe in og"ni
caso invocare aiiche qui il prin- cipio delhi divisione del lavoro.
Ma dal [)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tut- t' altro
che incontestahile. Suggerire e infondere una fede! E presto detto. Ma in
che modo o per (jual via? Partendo dall'esigenza pratica per arrivare
alla credenza, cioè pre- sentando la fede a[)punto come sostegno e
guarentigia della ni orai ita ? Lasciamo pui'e di indagare se
con ciò non si nega in effetto, neir atto stesso che si afferma, il
valore assoluto dei postulati religiosi o metatisici, dal inoinetito che
essi sono affermati o posti come condizioni o fattori nella pro-
<luzione di certi effetti, cioè sono valutati utilitariamente; e se
non si offende il sentimento religioso, considerandolo unicamente come un
motivo sussidiano invocato a sup- plii'e alla fiacchezza del uiotivo
morale. Un pragmatist.a conseguente potrehhe non avere (ii «juesti
scru[)oli. Ma lo scopo stesso a cui mira il pragmatista vieti
meno in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò che si vuol
produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale un sentimento che
vien fondato sopra esso, e vale in forza di esso. Con un risultato non
dissimile da quello che hanno di solito le discussioni ; dove le rai'ioni
usate a sostenei'e un'opinione persuadono soltanto chi è già persuaso;
cioè hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è superfluo
servirsene. ''^P^«^«f^^i^pS?R,fwpp«*f^9f?i^!wp|^r^^
IL METODO DELl'eCOXOML\ PIRA NELl' ETICA
27 Se si tiene invece una via diversa, e si intende di
edi- ficare la credenza su una educazione propriamente dog- matico-religiosa,
dov'è più la ^ opzione^, la affermazione libera e spontanea della
coscienza? E come può il moralista educatore presentare o im-
porre come unica e definitiva una iede, o una credenza religiosa o
filosotìca^che egli sappia essere personale e « vo- lontaria » ?
La vei-ità è che mentre nel valore morale (posto che sia
riconosciuto) del postulato che si assume a fonda- mento della
costruzione scientifica, è necessariamente im- plicito il valore morale
delle norme che ne esprimono l'applicazione, non è necessariamente
implicita l'accetta- zione di certi piuttosto che di cert' altri
postulati metafi- sici. Mentre, accettato un postulato di cui sia
possibile r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica basta
a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la coerenza logica
n07i basta a porre come necessariamente richiesta da quel postulato una
determinata fede religiosa filosofica ad esclusione di qualsiasi altra.
La salita al cielo dei postulati metafisici non si fa colle scale della
lo- gica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel fatto
che possono trovarsi concordi nelT accettare e nell' osser- vare la
medesima esigenza morale uomini di opinioni i-e- ligiose e filosofiche diverse;
come, inversamente, può la stessa fede religiosa e filosofica
presentarsi, nella realtà storica e psicologica, connessa con norme
morali discordanti). E la « libertà dì coscienza > sarebbe una frase
vuota di senso o piena di immoralità^ se il voler la giustizia e Tesser
giusti richiedesse o l'esclusione di ogni fede o l'accettazione della
medesima fede. E. JUVALTA. \
ài ^ *l fondata dal Prof. Sen. C;
Estratto dalla Rivista Filosofica VRLO Cantoni
(Novembre-Dicembre 1907)
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V * . JUVflliTfl La Possibilità l
I e i Limiti MORALE STUDI
TORIflO FRATELLI BOCCA EDITORI 1907
A 1 /
VERTENZA In questo volume sono raccolti tre scritti pubblicati
in più riprese nella Rivista Filosofica diretta dal mio in¬
dimenticabile maestro ed amico Carlo Cantoni, al quale il profondo e
tenace convincimento delle proprie dottrine non tolse mai di rispettare e
stimare sopra tutto, anche nei di¬ scepoli, la lil>ertà e la
sincerità. Benché diversi di titolo, i tre studi che ora
ripubblico riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del
me¬ desimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, cia¬ scuno
dei successivi, i precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi*
volta, continuazione di un altro pubblicato anteriormente col, titàlol «
Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafisica » ; nel quale è
esa¬ minato il problema della possibilità di un’ Etica
normativa indipendente da qualsivoglia soluzione, positiva o
negativa, dei problemi di natura metafisica. E perciò spero di essere
scusato se mi riferisco qualche volta anche ad esso ; e se in in questo
volume sono lasciate in disparte, o trattate con bre¬ vità che altrimenti
sarebbe soverchia, alcune questioni delle quali s’è già discorso in
quello. Anche to' importa di avvertire, sempre a proposito
dello Studio « La Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e la
Morale come Scienza », che — se nella esposizione sia generale, sia
particolare, della dottrina esaminata, ho cercato % _
2 — studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero
dello Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto
di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico che
assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio precedente. E
per questa ragione ho tralasciato deliberata¬ mente non solo qualsiasi
digressione, ma ogni discussione che non fosse strettamente necessaria
allo scopo mio parti¬ colare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di
accenni alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.
Pavia, Settembre 1900. E. Jl’VAI/TA.
e la Morale come Scienza
INDICE Introduzione .* 1. Movente etico-sociale
dell’opera dello Spencer. — 2. Conse¬ guenze nella valutazione delle suo
dottrine. 3. Scopo dello studio presente. PARTE I"
(Cap. I. e li.) Esposizione. Cap. I. — La
Dottrina etica in yenerale .P“g- 15 1. 11 concetto informatore. —
2. La distinzione delle due Eti¬ che. — 8. Il metodo dell’ Etica. — 4. I
dati dell’ Etica. — 5. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo ,
e possi¬ bilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica. Cap.
II. — La dottrina delle due Etiche . P a g- 25 1. Due questioni
fondamentali , attorno a cui si raccoglie la dottrina. — 2. Il giusto assoluto.
— 3. Il giusto relativo. — 4. Errore comune nel modo di concepire
la condotta ideale. — 5. La priorità scientifica dell’ Etica
Assoluta «sull’Etica Relativa. — 6. n confronto colle altre
scienze. PARTE H“ (Cap. m.-V.) Critica
Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto dal quale hanno
origine. Gap. III. — La pregiudiziale dell’ imperativo cateyorico
pag. 40 Partizione della Critica. — 1. L’imperative categorico. —
2. L’ obbligo e la giustificazione. — 3. La progiudiziale dell’ obbligo
categorico è estranea alla determinazione e alla giustificazione della
norma. — 4. In che consista la differenza caratteristica tra 1’ Etica e
le altre costruzioni precettive. Compito dell’ Etica.
— 6 — Cai*. IV. — La pregiudiziale, .sul modo di
intendere il compito normativo dell’ Etica .P a S - *
5. La progiudiziale sul compito normativo dell’Etica. G. Co¬ me
esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti. 7. Due presupposti
arbitrari comuni ad ambedue : a) che le norme siano già determinate e
note. — 8. b) che si accordino fra di loro. -- Necessità di un criterio
per la determina¬ zione. — 9. La soluzione dell’indirizzo sociologico -
Suo difetto capitale: non vale a giustificare le norme. — 10. La
soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. 11. Difetto capitale
: la costruzione metafisica postulata, come qualsiasi costruzione
metafisica, non serve a determinai e 10 norme. Cap. V.
— Il preconcetto fondamentale .P»g- G6 12. Presupposto comune ai
due indirizzi. Da questo nasce l’an¬ titesi tra esigenza scientifica
(determinazione) ed esigenza etica (giustificazione). — 13. Legittimità
di porre il pio- bleina in una forma diversa. — 14. Conclusione della
Cri¬ tica Preliminare. PARTE III.* (Cap.
Vl.-IX.) La dottrina delle due Etiche e le esigenze di una
scienza normativa morale. Cap. VI. — Il criterio del limite dell'
evoluzione e del¬ l’adattamento completo non serve a determinare
11 tipo di condotta cercato . l )a S- 71 Due tesi distinte
nella dottrina delle due Etiche; la validità dell’ una non dipende
da quella dell’ altra. — 1. 11 tipo di società giusta non è determinato
dal limite dell’ evo¬ luzione. — 2. Nè dall’ adattamento completo. — 3.
Su quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga nella
costruzione dello S. il postulato dell adattamento com¬ pleto.
Cap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispondente
all’adattamento completo, non serve a giusti¬ ficare il tipo di condotta
proposto .pag. 82 4 e 5. Il piacere puro non
può essere il criterio della massima desiderabilità. — 6. La questione
del « fine » e dei fini - Soluzione illusoria trovata nel termine
felicità e altri equi¬ valenti. — 7. Equivoco nell’identificazione dell’
oggetto dell’ attività col piacere. — 8. Quale possa essere il fine
che soddisfa alla doppia esigenza della determinazione e della
giustificazione delle norme. Vili. — Il tipo di .società giusta
dello Spencer . . pag. 94 9. Come concepisca la società giusta lo
Spencer. Presupposto illegittimamente assunto dalla biologia. 10.
Difetto fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c
il tipo della società giusta. — 11. Difetto che ne deriva nella relazione
tra giustizia e beneficenza. — 12. L’ in¬ dividualismo dello Spencer e il
postulato della giustizia. XX. — Ufficio e limiti di una
costruzione scienti¬ fica dell' Etica .. • • P a S- 100 13.
Come debba concepirsi un tipo ideale di società giusta. _ 14 .
Etica Pura ed Etica Applicata. — 15. Conclusioni della Critica. —
16. Presupposto fondamentale, e carat¬ tere ipotetico dell’Etica come
scienza normativa. INTRODUZIONE
1. — Pubblicando nel Giugno del 1879 I dati dell’Etica prima che fossero
composti il II e il III volume dei Principii di Sociologia, lo Spencer
giu¬ stificava questa deviazione dall’ordine del suo pro¬ gramma
col timore di non poter compiere l’opera finale della serie: I principii
di Etica. « Degli indizi che in questi ultimi anni si ripetono con
maggior frequenza e chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non
la vita, mi può venir meno per sempre, prima che io compia l’ultima
parte del compito che ho assegnato a me stesso. Quest'ultima parte è
quella per la quale io considero come sussidiarie tutte le parti pre¬
cedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio proprio del Governo scritto fin
dal 1842 indicava vagamente il mio pensiero intorno a certi principi
generali di bene e di male nella condotta politica ; e da quel tempo in
poi il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i fini prossimi, è
stato quello di trovare una base scientifica ai prìncipi del giusto e
dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua estensione. Lasciare
incompiuto questo fine, dopo aver fatta una preparazione cosi ampia per
raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui proba¬ bilità non posso
pensare senza sgomento^_e_sono ansioso di evitarla, se non del tutto,
almeno in parte ». (1). (1) The Principles of Ethics. Pref. to
Part. I. (wheu first issued separately.) London 1892. Voi. 1. p. VII.
— 10 — Qualche cosa di simile alla
catastrofe preveduta sopraggiunse infatti; perchè dopo un lento
decadi¬ mento e indebolimento progressivo egli fu costretto dal 80
al 90 a sospendere qualsiasi lavoro. Fortu¬ natamente nel 90 potè
riprenderlo: ed anche allora, la sua prima preoccupazione fu
quella di compiere i principi di Etica; e pose subito mano a quella
parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più importante: la IV a
(Giustizia) (1). Colle parole e col fatto egli mostrava
dunque che Tintento supremo al quale consapevolmente convergevano
tutti i risultati della sua specu¬ lazione, era u n intento mor ale. Par
che riecheggi in lui la voce di Spinoza: Finis in scientiis est
unicus ad quem omnes sunt dirigendae (2). E in p realtà, come le
idee madri della sua teoria pene¬ trano e illuminano tutti gli scritti
suoi, anche i minori, così vi circola dentro e li riscalda il
soffio vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina dell’evo¬ luzione,
par che diventi nel suo pensiero sopratutto la comprensione del processo
naturale e necessario che produrrà in un avvenire lontano ma sicuro
una umanità giusta e felice. Animata cosi di speranza, la dottrina
prende colore di fede. E veramente egli la professò come una fede; non
soltanto visse per la sua dottrina, ma visse la sua dottrina. E i
prin- (1) Op. cit. Pref. to Part. IV. (wlien first iss.
sep.) Voi. 2. p. Vili. (2) De. Intell. Emend. II, 16 nota.
— 11 — cipi che pone a fondamento della morale e del
diritto, € di cui vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse
dell’universo, ispirano e governano con indomita costanza tutti i suoi
giudizi e tutte le sue opinioni, da quelle sulla Educazione a quelle
sull’Etica delle carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta
alle proteste contro il « br igantaggio politi co », dalle ironie contro
«la Sapienza collettiva» a quelle contro « i diecimila sacerdoti della
religione d’amore che! non apron bocca quando la nazione è mossa dalla
' religione dell’odio. » 2. — Quell a unità e solidarietà di
pr i ncipi teo¬ r ici e pratici , p er cui la sua mora le si presenta
come s cienz a ella sua scienza come una morale, e questo continuo
cimentare che egli faceva i suoi principi con tutti i problemi più vivi
del suo tempo, onde la sua dottrina pareva prender veste di programma
so¬ ciale e politico, hanno certamente contribuito a pro¬ durre^
questo doppio effetto: che la preoccupaz ione , » morali' si insinuasse
anche nella critica delle sue dottrine teoriche; e che l’opera sua,
considerata prevalentemente, se non talora quasi esclusiva- mente,
come l’espressione di certe tendenze e di un certo indirizzo religioso
morale economico poli¬ tico, apparisse, col prevalere di tendenze e di
aspi¬ razioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più, e più
presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso. E cosi potè
facilmente accadere che anche certi cì tu? ■fot** v* w
— 12 — principi,
certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati in disparte, o si
stimassero superati e come logori e fuori d’uso, non perchò se ne fosse
mostrata la falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano con¬
nessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo che si giudicavano
superati. Ora se è vero che a intendere il significato e il
valore di una dottrina particolare è necessario con¬ siderarla nelle
relazioni col sistema di dottrine di cui fa parte, non è perciò meno
legittimo conside¬ rare se essa possa aver valore e segnare un
acquisto, anche all’infuori della validità di quel sistema e di
quelle altre dottrine, colle quali primamente si svolse. 3. —
L’intento di questo scritto ó appunto di esaminare il valore teorico e
metodico della distin¬ zione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la
quale ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante del suo
sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ra¬ gione di essere,
indipendentemente dall’applicazione che egli ne fa e dai postulati che
l’hanno suggerita. Perciò si divide naturalmente in due parti:
espo¬ sitiva e critica; la prima rivolta a mettere in chiaro le
ragioni e il significato della distinzione nel pen¬ siero dello Spencer;
la seconda a esaminare la pos¬ sibilità e la utilità di mantenerla e
applicarla sotto una forma diversa. L’esposizione comprenderà
pure necessariamente due parti: una che richiama, in
modo breve quanto è possibile ma esatto, il concetto informatore e
i lineamenti fondamentali di tutta l’Etica; l’altra che traccia più
distesamente la dottrina particolare esaminata.
Parte I ESPOSIZIONE Gap. I. — La
dottrina etica in generale. 1. — Q uella legge di evoluzione , che
si mani¬ festa nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare
come un tutto, nella terra come parte di questo, nella vita in generale,
e nella vita di ciascun orga- nismo individuale, nei feno meni ment ali
degli esseri animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si
manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale é quindi a nche in quei
fenomeni della cond otta, dei q uali tratta la morale . In conformità di
questa legge] j^etWnr.<****** e delle leggi via via subordinate in cui
essa si ri¬ frangevi produce una el evazione^progres siva nelle **
forme della vita sub-umana ed umana, la quale si traduce in un a
dattamento s empre migliore, più esteso e più durevole alle condizioni da
cui dipende l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie;
e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza della società. Per l’uomo
adunque l’adattamento riguarda tre ordini di condizioni; ossia è di tre
forme; e, benché si possa astrattamente considerare ciascuna forma
per sè, tuttavia, per la connessione naturale e necessaria dei fattori
dai quali dipendono, le tre V 1- 1 1 hu>«1J * •*» ^
...J ìS I f. .V> ( | w •v.etrii <
ut» ■yjUÌ* Ij.h* fif Tri Jr « 4* G VY. »Y *
l. yJ* ^ ' n -r?
— 16 — b ^
'• W\« ab yfa c f l<» Hit , .
UsJS a j^jr^w<Mitr /***yn« mi l|«*i# uUli"
» forme d’adattamento nella realtà procedono di con¬ serva
con mutue azioni creazioni continue; cosicché a ogni progresso in una
forma di adattamento cor¬ risponde un progresso nelle altre forme.
11_limite, ver so il q ua le tend ^questo processo, è
l’adattamento completo a tutte le condizioni della vita umana più
elevata; per il quale il massimo svolgimento della vita individuale, e
della parentale, e della sociale, non solo si conciliano, ma si
favoriscono a vicenda. Questo adattamento completo implica non
sol¬ tanto una perfetta conformità esteriore dell’operare alle
esigenze di una tal vita; ma implica del pari una conformità correlativa
e della struttura, e delle attività, fisiologiche e psichiche; è insomma
ad un tempo adattamento della condotta e adattamento dei fattori
interni della condotta. Quindi anche le idee, i sentimenti, le tendenze
sono, nella loro qualità e intensità e gradi di subordinazione,
pienamente adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze della
vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle forme di condotta
corrispondenti il loro appaga¬ mento pieno e concordante. 11 che viene a
dire che l’adattamento completo attua in sé le condizioni della
massima felicità . Adunque, ma ssim a elevazione della vita,
adat¬ tamento eoj puleto . m assima felicità, sono per lo Spencer
tre concetti che coincidono; o, meglio, sono faccie o aspetti diversi di
un medesimo risultato ò'yrwrC
— 17 finale, ed esprimono il limite verso il quale
tende l’evoluzione della vita umana nello stato sociale. 2. —
E’ appunto per q uesta ide ntificazione, che sta in fondo al pensiero
dello Spencer, tra evoluzione e aumento di felicità, che egli può porre
come ottima la cpndotta rispondente al limite della evoluzione.
Perchè lo Spencer, come è noto, ammette esplici¬ tamente che il fine
ultimo, espresso o so ttinteso, d ell’operare, non può essere che una
forma di co ¬ s cienza desiderab ile, cioè di piacere ; e che la
con¬ dotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto conto di
tutti gli effetti presenti e futuri sopra di sè e sopra gli altri, un
avanzo dei piaceri sui dolori. Totalmente buona, dunque, o
perfetta, non è che la forma di condotta che coyà&ponde a quel
limite; ogni altra forma diversa, ossia adatta a gradi di evoluzione più
o meno lontani dal limite, non può essere che imperfetta, ossia buona
relati¬ vamente, non assolutamente. Quindi due Etiche : Etica
Assoluta che determina le leggi della condotta ottima; ed Etica Relativa
che cerca di stabilire per a pprossi mazione quale sia la condotta relativamente
buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni reali di svolgimento
e di adattamento incompleto, è la migliore, o la meno lontana dalla
condotta per¬ fetta. E quindi la necessità, e la priorità logica del¬
l’Etica Assoluta; le cui determinazioni riguardano
<&• at*'*J)* ch> i V* i rt -. <
'f* (■ 3>u7 PK<kJf J* fattiti^ ,
r f d f I ^ fa t o ^ if y\
— 18 — relazioni più
generali, più semplici, più esattamente definite di quelle contemplate
dall’Etica Relativa. 3. — Or come si costruirà l’Etica Assoluta?
ossia quale sarà il metodo? L o Spencer si accorda cog li
Utilitarist i che lo precedono nell’assumere come cri¬ terio per
giudicare la condotta e determinarne le norme l a natura degli effetti o
dei risulta ti. Ma se ne distingue subito per il pr ocedim ento col
quale egli crede che questi effetti dei diversi modi di con¬ dotta
si possano e debbano conoscere. Per gli Utili¬ taristi che lo precedono è
l’induzione empirica, per lui la deduzione. Non si tratta per
lo Spencer di trovare che, in un certo numero di casi, certi danni o
certe utilità si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di in¬
ferirne che rapporti simili si manterranno nell’av¬ venire; si tratta
invece di determinare comee^er- chè alcuni modi di condotta siano dannosi
e altri utili; o più chiaramente, quale condotta debba essere
dannosa e quale debba essere utile. Non è dunque sopra certe relazioni
empiricamente osservate, ma sulla connessione causale necessaria tra le
azioni ed i loro effetti che deve fondarsi la determinazione delle
norme morali. E, poiché questa connessione deve essere alla sua volta una
conseguenza neces¬ saria della costituzione delle cose, deve essere pos-
sib ile dedu rre da principii fondamentali quali specie di azioni tendano
a produrre felicità e quali a prò- —
19 durre infelicità. E le deduzioni così ottenute
deb¬ bono essere riconosciute come leggi di condotta e aver valore
indipendentemente da una estimazione diretta (individuale e occasionale)
del piacere e del dolore. Ciò che distingue adunque
l’Utilitarismo che lo Spencer chiama Razionale, dall’Empirico, e dà
ca¬ rattere di rigore scientifico alla ricerca morale, è il
riconoscimento pieno e adeguato della causalità naturale dei fenomeni
della condotta; e il vero me¬ todo scientifico dell’ Etica, come delle
altre scienze che abbiano superato lo stadio empirico, deve con¬
sistere nel cercare e nel costruire in sistema non alcune relazioni empiricamente
stabilite, ma le re¬ lazioni necessariamente esistenti tra cause ed
ef¬ fetti in tutta quanta la condotta. 4.— Ma se le leggi
della condotta debbono de¬ terminarsi per deduzione necessaria, quali
sono i dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ? I fatti di
cui si occupa l’Etica non costituiscono un ordine nuovo che si distacchi
da un ordine infe¬ riore o precedente, come, per es., le formazioni
or¬ ganiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni sociali
rispetto ai biologici : ma appartengono per un verso alla biologia (1) in
quanto sono effetti in- UU 0 If-r'i (1) Lo Spencer li
considera anche come appartenenti alla fisica, in quanto, esaminati
esternamente, si riducono a movimenti e combinazioni di movimenti che
cooperano a produrre una forma di V-fT
* — 20 — terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti
nel tipo più elevato degli animali; e per un altro alla psi¬
cologia in quanto sono coordinamenti di azioni su¬ scitati dai sentimenti
e guidati dalla intelligenza ; finalmente in quanto queste azioni
direttamente o indirettamente riguardano esseri associati, appar¬
tengono alla sociologia. La condotta è adunque ad un tempo una formazione
biologica, una formazione psichica, e una formazione sociale: e perciò è
nei risultati delle scienze corrispondenti che si devono cercare i
principii fondamentali, i dati dell’Etica. E quindi i dati da cui si
debbono dedurre le norme dell’Etica Assoluta sono forniti dalle
condizioni che la biologia, la psicologia e la sociologia indicano
rispettivamente come proprie di un adattamento completo. Ora,
in conformità alle leggi di queste scienze, la condotta corrispondente a
un adattamento com¬ pleto ossia la condotta ottima, è
caratterizzata dalle condizioni che si possono riassumere nei se¬
guenti tre punti : I. Condizioni biologiche : Co rrispon denza
per¬ fetta tra gli organi e facoltà umane e le attività necessarie
alla vita completa. Il che importa che tutte le attività necessarie al
massimo svolgimento equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma
questa considera¬ zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza
danno essere tra¬ lasciata. I
— 21 — della vita per sò e per gli altri trovino il loro
com¬ pimento nell’ esercizio spontaneo di facoltà debita¬ mente
proporzionate e producenti quando entrano in azione il loro quantum di
soddisfazione (cioè di piacere). II. Condizioni psicologiche:
Corrispondenza per- fet ta dei sentimenti, come motivi deir operare,
ai I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i dolori, cui danno
origine i sentimenti distinti come morali, siano, al pari dei piaceri e
dolori fisici, impulsi positivi e negativi proporzionati nella loro
forza ai modi di operare richiesti. III. Condizioni sociologiche
: Accordo perfetto t rp le attività dei consocia ti. Il che importa
che tutte le attività conducenti alla vita completa di ciascuno non
solo non impediscano direttamente nè indirettamente, ma favoriscano la
vita completa di tutti. (Stato di pace permanente; cooperazione vo¬
lontaria; nessuna aggressione diretta o indiretta; scambio di servizi
gratuiti (1). La condotta ottima è dunque quella che sod-
(1) Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni sue¬
sposte equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate tre
antinomie che sotto varie forme compaiono , si può dire , in tutta la
storia della morale ; 1’ antinomia tra il piacere presente e il piacere
futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene proprio e il
bene degli altri, tra ciò che è richiesto dalla felicità individuale e
ciò che è richiesto dalla felicità generale ; e 1’ anti- nojnia tra
sentimenti egoistici e sentimenti altruistici, tra la ten¬ denza al
piacere e la coscienza del dovere.
_ 22 — disfa a tutte queste condizioni ad un tempo; e
però compito dell’Etica Assoluta resta quello di dedurre da queste
condizioni le norme a cui tutte le forme di attività umana, a qualunque
fine siano volte, debbono conformarsi per essere totalmente buone.
5. — Per tal modo sono determinati i principi o i dati sui quali
deve costruirsi l’Etica Assoluta: le condizioni della vita umana,
individuale, paren¬ tale e sociale, proprie dello stato di adattamento
perfetto; è determinato il metodo: la deduzione; ed è posto fuori di
contestazione il fine ultimo clic giustifica le norme così dedotte e dà
alla condotta proposta valore di ottima: la massima felicità uni¬
versale. Ma restano d ue grandi difflcol tà : una incoc¬
renza, almeno apparente, da togliere, e una lacuna da colmare.
L’incoerenza è questa : Come si può sostenere che il fine della condotta
buona è la fe¬ licità, se le norme di essa condotta devono essere
dedotte dalle leggi necessarie della vita nello stato sociale, e devono
valere indipendentemente da ogni estimazione diretta e individuale del
piacere e del dolore ì 0 , in altri termini, come si risolve
l’antitesi tra il fine assunto e il metodo proposto? La
lacuna è la seguente : Le condizioni che si pongono come proprie della
condotta ottima e che la deduzione morale deve prendere come dati ,
sono esse possibili, o non esprimono delle esigenze in tvT*
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— 23 — tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma
quello stato finale di adattamento completo sotto tutti i rispetti, nel
quale le condizioni contemplate sono raggiunte, in qual modo e per qual
via può ottenersi ì (1). L’incocrenza è risolta così: Il fine
è la felicità; ma questa, a mano a mano che la vita si eleva,
dipende da una serie sempre più lunga e compli¬ cata di mezzi, ciascuna
delle quali deve essere rag¬ giunta perché sia possibile il fine. Le
norme mo¬ rali rappresentano la serie più generale e prelimi¬ nare
di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie più lontana dal fine, e
quella che deve essere osservata prima di tutte le altre; la
condizione delle altre condizioni. Ora siccome tutte le attività
necessarie alla vita tendono a diventare una sor¬ gente diretta di piacere,
(perchè i piaceri sono relativi alla struttura e questa si modifica
se¬ condo le attività) così le fo rme di attività morale, appunto
perchè necessarie, debbono diventare una sorgente diretta di piacere. Per
tal modo, l’os¬ servanza delle condizioni che conducono alla fe¬
licità diventa direttamente piacevole, ed è adem¬ piuta. senza che essa
felicità (che rimane il fine (1) L’analisi e la soluzione di
queste due questioni, le quali si legano per parecchi nessi tra di loro,
ma che per chiarezza bisogna considerare a parte , occupano i cap. IX-XtV
della I.» Parte dei Principi di Etica. ultimo)
sia lo scopo diretto e immediato della condotta ; ossia, (ed è un
pensiero che fa ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale
sopraggiunge come una conseguenza, non direttamente voluta nò
chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle atti¬ vità morali
divenuto per sè immediatamente gra¬ devole. La soluzione
della seconda difficoltà derivante dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione
oggettiva , tra bene proprio e bene altrui, e nella conciliazione
soggettiva, tra egoismo e altruismo, raggiunte per effetto e della
solidarietà crescente tra le condizioni di vita dei singoli e quelle del
tutto, e dello sviluppo concomitante della simpatia. Colla
soluzione di queste due difficoltà lo Spen¬ cer intende dunque che sia
dimostrata la possibilità — dal punto di vista scientifico — e la
legittimità dal punto di vista morale — della sua costruzione; e
con questa dimostrazione il pensiero che informa la trattazione
dell’Etica, è nelle sue linee generali, compiuto (1). Ed ora
, tracciato il disegno in cui si inquadra (1) La II. a Parte (Le
induzioni dell’Etica), che nella traduzione francese porta il titolo di
Morale de* differente peuples, dall’esame delle diversità di idee e
sentimenti morali dei diversi popoli rac¬ coglie la conferma di alcuni
dei principi fondamentali dedotti dalle leggi della vita nello stato
sociale ; e principalmente della estrema variabilità dei sentimenti
morali, e della corrispondenza generale di due tipi opposti di moralità
ai due tipi di coesistenza e coope- - 25 — la
dottrina particolare che più direttamente ci in¬ teressa, diciamo
alquanto piii distintamente di que¬ sta. Cap. II. — La
dottrina delle due Etiche. I. S’è visto come nel pensiero dello
Spencer la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta, la
condotta che c orrispon de al limite dell’evolu¬ zione; mentre l e forme
di condotta più n _mpnn lon¬ tane da quel limite so no, di molto o di
poco, meno adatte, cioè meno buone; onde la distinzione di Etic A
ssoluta ed Eftej> (1). Ora si presentano spontanee due domande:
l.° Perchè introduce lo Spencer, contro il modo comune di
comprendere 1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t ra Moral e
A ssoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica
(/ razione sociale (tipo militare e tipo industriale). Le
altre quattro parti, Etica della Vita Individuale (IH. a ), ed Etica
della Vita So¬ ciale : la Giustizia (IV.»), la Beneficenza Negativa (V. a
) e la Be¬ neficenza Positiva (VL S ) contengono le dednzioni o
applicazioni particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al
metodo ac¬ cennati, vogliono essere determinate le norme della vita
privata e deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle
condizioni contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’
Etica Relativ a. (1) Notiamo subito, benché l’avvertenza
debba parer quasi inu¬ tile , che per lo Spencer la parol i
fl.v<vofn^o non ha nè può a vere n ell’Etica un significato metafisi
co ; le norme etiche per lui non hanno ragione di essere all’ infuori
dell’ esistenza animata quale si manifesta fenomenicamente; all’infuori
di esseri capaci di pia¬ ceri e di dolori. 2
— 26 —
quello di stabilire le norme della condotta retta, della giustizia pura,
e, senza curare gli impedi¬ menti e le imperfezioni che i difetti della
natura umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale di pe
rfezio ne al quale ciascuno deve cercare di av¬ vicinarsi? E se così è.
non ò del tutto oziosa_e vi- ziosa la distinzione ? 2.”
Ammesso che dal punto di vista speciale dello Spencer questa distinzione
sia legittima, non è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento
elle la realtà presente ci dà uno stato di adatta¬ mento imperfetto,
ossia assai diverso da quello che essa suppone ?
L’esposizione del pensiero dello Spencer intorno -alle foie Etiche
( 1 ) mi pare si possa acconciamente raccogliere in due parti, nelle
quali trovi succes¬ sivamente risposta ciascuna delle due questioni.
Co¬ minciamo dalla prima. 2. — Si crede comunemente che si
possa deter¬ minare un tipo di condotta assolutamente giusta in
condizioni reali di esistenza imperfetta, mentre questa determinazione
non è possibile; e, se fosse, non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi
dei mo¬ ralisti, sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono
tacitamente accettati come veri; e pare infatti che senza di essi non sia
possibile giudizio morale, per- (1) Op. cit. Ch. XV : Absolute and
Relative Etkics. — 27 —
che la distinzione stessa tra atti giusti e atti in¬ giusti sembra
implicarli necessariamente. Sono que¬ sti: l.° Che in ogni caso vi sia un
modo di operare / \ ^assolutamente giusto. 2.° Che sia possibile
stabilire quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni
dimostra che in casi assai numerosi non è possi¬ bile il giusto, ma
soltanto un minimo ingiusto; e in casi pure numerosi non è nemmeno
possibile determinare in che cosa questo minimo ingiusto
consista. Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che è
il correlativo di qualche specie di male, di qual¬ che divergenza da
quell’adattamento perfetto che soddisfa pienamente a tutte le esigenze
della vita completa. Se il concetto di condotta buona è, in ultima
analisi (1), il concetto di una condotta che produce in qualche parte un
avanzo di piacere; e di condotta cattiva, che produce un avanzo di do¬
lore; il bene o il giusto assoluto nella condotta può esser quello
soltanto che produce p iacere pur o, pi acere non misto a dolore di sorta
. E quindi la condotta che produce qualche conseguenza dolorosa ò
parzialmente cattiva, e la forma più elevata che una condotta cosifatta
può raggiungere ò il mi¬ nimo ingiusto, il giusto relativo.
Ora le forme di adattamento incompleto pre- (1) Per questa
analisi v. op. cit. Parte I.» Cap. IV.
— 28 — WÙ («ino;
>1 'è ntiJj 1 sentano, più o meno vasto e grave, un
doppio di¬ fetto : Discordanza od antitesi fra i tre ordini di fini
della vita, per la quale atti che producono uti¬ lità o piacere all’
individuo o alla prole portano danno e dolore agli altri, e viceversa ; e
discordanza anche nello stesso ordine tra fini immediati e me¬
diati, presenti e futuri ; per la quale 1’ azione ri¬ chiesta dall’ utile
avvenire può esser sorgente di dolore nel presente, o la soddisfazione di
un desi¬ derio immediato può impedir di raggiungere un bene lontano
e mediato, o esser causa di un male futuro. Nella misura in cui queste
due specie di incongruenze (le quali si incrociano e si complicano
fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni devono produrre una
certa somma di dolore sia sull’agente sia sugli altri. Ora « finché v’ ò
dolore v ’è male ; e la condotta che apporta qualche male non può
esser giusta assolutamente ». A chiarire questa distinzione lo
Spencer cita degli esempi di azioni assolutame nte giuste e di
altre solo relativamente giuste. Una madre sana che allatta un bimbo
sano, un padre che, dotato di eccitabilità simpatica, partecipa ai
giuochi del figlio e li guida, sono esempi della prima specie;
nell’un caso e nell’altro l’azione produce piacere a chi la fa e a chi la
riceve; e aiutando lo svi¬ luppo fisico o quello psichico, o l’uno e
l’altro in¬ sieme, è utile al benessere futuro ; cioè produce di-
— 29 — rettamente e indirettamente soltanto piacere
senza dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo e con
soddisfazione e utilità reciproca ; e gli atti di benevolenza di chi
fornisce una notizia o un consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone
un dissidio tra amici, possono essere classificati come giusti
assolutamente per la medesima ragione. Degli esempi addotti dallo
Spencer di azioni solo relativamente giuste, scelgo due che mi
paiono tipici anche per il contrasto che offrono col modo di
giudicare comune: La cura di molti figli cagiona a una madre assai
dolori, ma le sofferenze imme¬ diate e le lontane che l’incuria
apporterebbe supe¬ rerebbero di gran lunga quei dolori. La condotta
giudicata buona in questo caso è quella che pro¬ duce minor male ; ma non
è ottima. È la meno in¬ giusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’
allonta¬ namento dei clienti da un negoziante che esiga prezzi
troppo alti o venda merci scadenti, o falsi la misura, fa diminuire il
suo benessere e forse apporta danni e dolori ad altre persone a lui
con¬ giunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar quelli che
la sua condotta cagiona, produrrebbe un male assai più grave e generale.
L’abbandono è perciò giustificato: ma l’atto è solo relativamente
giusto. 3 — Riconosciuta così la verità che una gran parte
della condotta umana non è giusta assoluta- —
Bu¬ rnente, si deve riconoscere 1’ altra verità che in molti casi
non é possibile stabilire quale sia il mi¬ nimo ingiusto. É facile
trovarne le ragioni, se si considerano gli effetti che quella stessa
discordanza, già rilevata, tra i fini della vita, deve produrre. V’
è un limite fino al quale é relativamente giusto che un genitore faccia
sacrifizio di sè stesso pel vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il
quale l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli ap¬ porti non
soltanto a sò ma a tutta la famiglia danni maggiori di quelli che il
sacrifizio tende ad impedire. Chi può dire quale sia questo limite?
Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni delle persone in causa,
non è neppure in due casi il medesimo, e non può essere per ciascun caso
più che una congettura. Un commerciante che sia tra¬ volto nel
fallimento d’un suo debitore e posto nella necessità di fallire egli
stesso se non è aiutato, deve o no domandai^un prestito a un amico?
Il prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo caso non
sarebbe cosa ingiusta verso i suoi credi¬ tori non chiederlo ? Ma
fors’anco non lo salverebbe, e allora non è una frode procurarselo?
Benché in casi estremi possa esser facile decidere, come sa¬ rebbe
possibile in tutti quei casi in cui anche il più intelligente e
competente non può calcolare le probabilità ? 4 — Questo
doppio errore del confondere il r — 31 —
giusto assoluto col minimo ingiusto, e del credere che si possa in
ogni caso stabilire quale sia, nasce dall’ errore che si commette nel
concepire il tipo della condotta, la condotta dell’ uomo ideale.
Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca nelle condizioni
sociali esistenti. Ciò che si cerca determinare è, non quali
sa¬ rebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme mutate, ma
quali sarebbero, date le condizioni pre¬ senti. E questa ricerca ò vana
per due ragioni : La coesistenza di un uomo perfetto e di una
società imperfetta è impossibile ; dato che potessero coesi¬ stere,
la condotta che ne seguirebbe non fornirebbe il tipo morale
cercato. « In primo luogo, date le leggi della vita come esse
sono, un uomo di natura ideale non può es¬ sere prodotto in una società
composta di uomini- che hanno una natura lontana dall’ ideale.
Aspet¬ tarsi che tra uomini organicamente immorali ne- sorga uno
organicamente morale è come aspettarsi di veder nascere tra i Negri un
bambino di tipa inglese. Se non si vuol negare che il carattere di¬
penda dalla struttura ereditata, si deve ammettere che in ogni società
ciascun individuo discende da uno stipite, che risalendo a poche
generazioni si ramifica per ogni parte nella società e partecipa
della natura media di questa ; e che quindi, nono¬ stante spiccate
differenze individuali, deve conser- — 32 — varsi una
comunanza di natura tale da impedire che un uomo, qualunque sia,
raggiunga un tipo ideale, finché il resto della società rimane di
gran lunga inferiore. « In secondo luogo, la condotta ideale,
quale è contemplata dalla teoria morale, non è possibile per P uomo
ideale in mezzo ad uomini costituiti diversamente. Una persona
assolutamente giusta c perfettamente simpatica non potrebbe vivere
e operare in conformità alla natura sua in una tribù di cannibali.
Tra un popolo perfido e al tutto privo di scrupoli, una intiera
veridicità e franchezza deb¬ bono apportare rovina. Se tutti intorno a
lui rico¬ nóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui
natura non gli permetta di inlliggere dolore agli altri deve soccombere.
Fra la condotta di ciascun membro della società e la condotta degli altri
vi deve essere per necessità una certa congruenza. Un modo di
operare interamente diverso dai modi di operare prevalenti non può
continuare con buon esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente,
o della sua discendenza, o di ambedue » (1). Adunque perchè
l’uomo ideale possa servire di tipo, egli deve essere concepito non a sé,
senza re¬ lazione colle condizioni che sono necessarie perchè la
condotta possa essere giusta, ma in corrispon- (1) Ib. § 106 p.
279-80 dell’ed. cit. — 33 — denza con queste ; V uomo
ideale deve essere con¬ siderato come esistente in una società
ideale. Perciò, secondo l’idea dello Spencer, il voler, per
esempio, stabilire quale sarebbe la condotta deiruomo ideale quando fosse
posto nel bivio o di farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di
men¬ tire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfet¬ tamente
vano ; perchè le condizioni cosi supposte contraddicono a quelle
richieste dalla definizione dell’uomo ideale. In una società ideale,
nella quale soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste
violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere collisione tra i modi di
sentire e di operare richiesti dal bene proprio e della discendenza,
e chiesti dal bene pubblico. Viene in mente, e
lo ricordo perchè può servire di commento al pensiero
delloCéàencer, ma perchè la somiglianza è significativa, queh^ udjko
^ dei Promessi Sposi, nel quale il padre Cristoforo è invitato a
far da giudice in una questione di cavalleria. Suonava rumorosa la
disputa tra i com¬ mensali di Don Rodrigo su questo punto: se fosse
lecito a un cavaliere bastonare il messo che gli consegna un cartello di sfida
senza avergliene chie¬ sto licenza ; e il padre Cristoforo, chiamato in
causa, dopo essersi invano schermito, esce finalmente in quella
sentenza che fa meravigliare, tanto pare fuor di proposito, tutti quei
dialettici della cavai- S — 34 —
leria : « 11 mio debole parere sarebbe clic non vi fossero nò sfide, nè
portatori, nè bastonate ». Ecco riconosciuta nel caso particolare
l’esigenza fondamentale dell’Etica Assoluta dello Spencer: Non vi
può essere condotta giusta finché vi sono condizioni contrarie alla giustizia.
Ma la realtà presente e viva è appunto così. « Oh ! questa è grossa
», risponde infatti il conte At¬ tilio. « Mi perdoni, padre, ma ò grossa.
Si vede che lei non conosce il mondo ». E se è il mondo coni’è
quello con cui si ha a fare, 1* ufficio dell’ Etica non sarà quello di
stabi¬ lire quale deve essere la condotta nel mondo reale presente,
non in un mondo ideale avvenire? 0, almeno, non ò inutile, anche ammessa
la distin¬ zione Spenceriana, correr dietro al fantasma di una
condotta ottima, adatta a uno stato di perfe¬ zione, che l’evoluzione
apporterà, sia pure, ma che per noi non esiste ? 5 — A questa
seconda domanda risponde la di¬ mostrazione della precedenza necessaria —
nell’or¬ dine della trattazione scientifica — dell’Etica As¬ soluta
sull’ Etica Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità
scien¬ tifiche si sono raggiunte trascurando prima i fat¬ tori di
perturbazione, che alterano ed oscurano l’azione dei fattori fondamentali,
e tenendo conto soltanto di questi. — 35 —
Quando la estimazione di questi fattori fonda¬ mentali, non, come si
presentano nella realtà, ma¬ scherati e complicati di elementi secondari,
ma quali si suppongono idealmente con un processo di astrazione, ha
aperto la via a conoscere e formu¬ lare le leggi generali, allora diventa
possibile la estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei fat¬
tori accidentali che nella realtà alterano i rapporti i deali contemplati
da quel le leg gi. Ma le leggi ge¬ nerali, le verità fondamentali, solo
per questa via si possono ricercare e scoprire, e solo con questo
procedimento il sapere passa dalla sua forma em¬ pirica alla sua forma
razionale. Per ottenere la formula che esprime il potere
-ifjicfip»tv* della leva s i suppone N una leva che non si pieghi ,
iàz<Jbz ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non
abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si suppone che la
potenza e la resistenza si esercitino su un punto, invéce che su una parte
più o meno estesa della leva. Del pari la determinazione del corso
di un proiettile si ottiene trascurando dap¬ prima tutte le deviazioni
prodotte dalla sua forma e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo
negli altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa possibile
tener conto degli elementi dai quali si è fatta astrazione, delle
complicazioni risultanti dal¬ l’attrito, dalla plasticità, dalla
coesione, dalla resi¬ stenza dell’aria : e ottenere così una
determinazione ' Jt- ^ "(VOM, P-O
— 36 — sempre più esattamente
approssimata al l'atto reale. Qui è manifesta la re lazione tra certe
verità assolute della meccanica e certe verità relative che impli¬
cano le prime, come è manifesto che non si possono stabilire
scientificamente le verità relative finché non sieno formulate
indipendentemente da queste le verità assolute. Il che equivale a dire
che la ! scienza meccanica applicala può svilupparsi soltanto
dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale. Le medesime
considerazioni valgono per la scienza morale. È impossibile determinare
con ap¬ prossimazione scientifica quale sia, date certe cir¬
costanze reali, il modo di operare meno ingiusto, se non si conosce quale
sarebbe il modo di operare giusto ; e questo non si può conoscere se non
si suppongono eliminate tutte le circostanze che lo impediscono o
lo limitano e ne falsano i caratteri ed i risultati: cioè, in breve, se
non si suppongono, scevre da ogni perturbazione, le condizioni ideali,
nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto. A chiarir
meglio questa relazione tra Etica As¬ soluta ed Etica Relativa lo Spencer
ricorre a un altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze
biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Pa¬ tologia. La
Fisiologia, nello studio degli organi e delle funzioni che combinate
costituiscono e con¬ servano la vita, suppone l’organismo sano e le
funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli
— 37 — eccessi, delle anomalie di cui si occupa la
Pato¬ logia : e questa poi presuppone quella, perchè le idee anche
più rozze intorno alle malattie suppon¬ gono idee di stati sani di cui le
malattie sono de¬ viazioni; e la conoscenza degli stati e dei
processi anormali e morbosi può diventare scientifica sol¬ tanto
quando vi sia già una conoscenza scientifica di stati e processi non
morbosi. Si milmeste l a Morale Assolut a deve precedere
laJSl orak ^llclativa ; la quale non deve applicare sic et simpliciter alle
condizioni particolari della vita reale le conclusioni dell’ Etica
Assoluta ; ma riconoscendo ciò che vi è di diverso nella condotta
che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta, deve determinare di
quanto essa si allontana dal giusto e come si possa ottenere, date queste
condi¬ zioni reali imperfette, la massima approssimazione al giusto
contemplato dall’ Etica Assoluta. 6 — Questi confronti coi quali lo
Spencer in¬ tendeva illustrare il suo concetto intorno alla re¬
lazione fra le due Etiche e alla priorità logica del- 1’ Etica Assoluta
sull’ Etica Relativa, si direbbe che abbiano servito ad abbuiarlo ; e
però non è fuor di luogo qualche breve chiarimento.
Dall’esposizione che precede deve essere apparso, spero, che è per
una esigenza inerente alla natura della ricerca scientifica che lo
Spencer sostiene la. V | necessità che l’Etica
Assoluta prec^g la Relativa; lì — 38
— e appunto por chiarire questa precedenza neces¬ saria egli
cita l’esempio della precedenza analoga della Meccanica Razionale
rispetto alla Meccanica Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto
alla Fisiologia Fatologica. Nel pensiero dello Spencer la priorità
dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione a un campo particolare di
ricerche di un suo cri- <--- 7 terio metodico
generale; del quale egli trova la conferma in tutte le scienze, che hanno
superato 10 stadio empirico. Il paragone non è dunque, pro¬
priamente, tra la sua Etica Assoluta e la Meccanica Razionale o la
Fisiologia Normale, nè tra la sua Etica Relativa e la Meccanica applicata
o la Fisio¬ logia Patologica; non è, voglio dire, di quelle scienze
pure tra di loro, o di queste scienze appli¬ cate tra di loro ; ma è
paragone tra le loro rela¬ zioni. E il significato del confronto è questo
: che tra le due Etiche, come le concepisce lo Spencer, corre una
relazione analoga a quella che intercede rispettivamente tra le due
Meccaniche (diciamo così) e tra le due Fisiologie. E in
questo senso che il paragone deve essere inteso ; e in questo senso è
appropriato. Perciò, quando la critica obietta che l’Etica ha
caratteri ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla Fisio¬ logia,
può essere che abbia ragione, ma interpreta 11 confronto in un
senso diverso da quello voluto dallo Spencer. Perchè il concetto, per il
quale il — 39 — paragone è
assunto è, nella sua espressione più semplice, questo: che anche per
l’Etica la solu¬ zione scientifica o scientificamente approssimata
dei problemi più complessi richiede la soluzione dei problemi più
semplici. Il paragone non deve dunque essere staccato da questo concetto
e preso con una significazione diversa; altrimenti si frain¬ tende
e paragone e concetto ; e rimane oscurato uno dei punti più importanti
della dottrina par¬ ticolare ora esposta. La quale non ebbe
mai molta fortuna nò presso i fautori di una morale scientifica, nè
presso gli av versa ri. Questi, preoccupati forse in generale dal
pensiero di mostrare la insufficienza dell’indirizzo naturalistico, hanno
veduto nella dottrina delle due Etiche (illustrata da quei confronti!)
sopratutto una fi gliazione de l concetto meccanistico, e f’hanno
com¬ battuta in nome delle esigenze della Morale; quelli hanno
notato nella affermata necessità di costruire un’Etica Assoluta, una
contraddizione colla teoria dell’evoluzione, e col principio della
relatività della morale e del diritto: e l’hanno combattuta in nome
delle esigenze della scienza. Gli uni e gli altri hanno considerato la
dottrina particolare unicamente in relazione colla dottrina generale
colla quale si pre¬ sentava connessa, senza badare alle ragioni che
la possono legittimare all’infuori del sistema e della forma
speciale di applicazione che in esso ha trovato. Parte IJ.
CRITICA PRELIMINARE: LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI E IL
PRECONCETTO DAL QUALE HANNO ORIGINE. Cap. III. — La
pregiudiziale dell’imperativo categorico. La dottrina esposta
traccia il piano che lo Spen¬ cer si è proposto di seguire per soddisfare
al compito da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,
scientificamente le norme della condotta morale.] Ma già intorno a
questo modo di intendere l’uf¬ ficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e
le obbiezioni; le quali devono essere, almeno nel loro contenuto
sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce la legittimità del
suo concetto sull’ufficio dell’Etica è vano discutere della possibilità e
legittimità del piano proposto per attuarlo. L’esame critico
si distingue perciò naturalmente in due parti; delle quali la prima
potrebbe dirsi critica preliminare. » * « 1 —
L’Elica può, o non può, essere scienza nor¬ mativa? Ecco una prima
questione pregiudiziale, che, a giudizio di un profano, (solamente dei
profani ?) po¬ trebbe dare un’idea poco lusinghiera dei progressi e
dei frutti della speculazione morale. — 41
— L’opinione se non universalmente, certo gene¬ ralmente.
dominante è che non possa. L’opinione dominante par che si chiuda in
questa alternativa: l’etica o è scienza, e non è più normativa; o ò
nor¬ mativa, e non è più scienza. La ragione dell’anti¬ tesi, che
così si pone, tra le esigenze della scienza e le esigenze della morale, è
nota. Dicono i puri moralisti: — Una morale che non dia alla norma
carattere di obbligatorietà non può essere vera mo¬ rale; e darle
obbligatorietà assoluta non si può senza uscire dal campo della scienza.
Nel latto, una con¬ dotta che si ponga scientificamente come morale,
è obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è ordinata
la norma; cioè è obbligatoria ipotetica- , mente, non categoricamente. E
se non c’è i m perat ivo categorico, non c’è m orale. — E i puri
scienziati rincalzano: — La scienza è scienza delle cose e dei
latti come_sonq_e non come dovrebbero essere. Si può cercare quali sono i
caratteri e i fattori, la formazione e le trasformazioni dei modi di
operare, dei sentimenti delle credenze distinti come morali; si
potrà anche, tracciati i lineamenti generali del processo di formazione,
argomentare induttivamente una possibile evoluzione ulteriore con qualche
pro¬ babilità; ma la scienza non sa di bene e di male; cerca ciò
ciò che è; tenta di prevedere, se le riesce, quel che sarà; dimostrando
che certi effetti dipen¬ dono da certe condizioni, ci fa capire che se vo-
3 — 42 —
gliamo gli effetti dobbiamo volere quelle condizioni, ma non può
obbligare nè à volerle nè a disvolerle. Gli uni e gii altri,
accordandosi nell’ammettere che la scienza non possa dare un imperativo
ca¬ tegorico, par che ammettano esplicitamente o im¬ plicitamente
che la morale debba o possa essere una dottrina che determina la norma
obbligatoria, ossia una teoria da cui si ricava il dovere. Ora. se
hanno ragione nell’ ammettere la prima cosa, hanno torto di supporre la
seconda ; hanno torto di credere che compito dell’Etica possa essere
quello di dimostrare l’obbligatorietà, e di supporre che una
dottrina religiosa o metafisica possa fondare quel che riconoscono non
poter essere fondato da una dottrina puramente scientifica; possa
fondare il « tu devi » (1). 2 — 11 « tu devi » è un giudizio
di constata¬ zione e non può essere altro. Dicendo « tu devi » io
non posso intendere che l’una o l’altra di queste due cose: o « tu senti
dentro di te qualchecosa che (1) Ho già mostrato altrove, in un
capitolo rivolto direttamente a questo esame (Prolegomeni a una Morale
distinta dalla Metafì¬ sica Cap. I. Pavia, Bizzoni 1901) come e perchè
sia perfettamente va no e illusorio credere che da una costruzione ,
teorica l sojjmtificn n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma
obbligatoria , se l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta
o supposta; e come nasca e si mantenga 1’ illusione, e lo sforzo di
credere che non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza
; e , del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il
mede¬ simo, è fatta da un punto di vista diverso.
— 43 — ti spinge, senti di essere obbligato a
non fare o a fare »; oppure quest’altra: « c’è una volontà cbe ha
il potere di obbligarti ». Nel primo caso si fa appello alla coscienza ;
a uno stato o a un fatto di coscienza che esiste o si suppone che esista
; nel secondo caso si fa appello a un potere, che pari- menti o
esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno e nell’ altro caso nessuno
sforzo dialettico può ri¬ cavare l’obbligo dalla natura della cosa
comandata o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far
esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza, nè questo potere.
Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un senso improprio. « Tu
devi » può voler dire: « È giusto che tu faccia; è giusto che ti senta
obbli¬ gato a fare, o che ci sia chi ti obbliga ». Ma se vuol dir
questo, l’espressione è equivoca. Che sia giusto il fare e che sia giusto
T obbligo di fare (quando questo fare sia già sentito come un ob¬
bligo) si raccoglie d al contenu to, non dal tono del comando: e non
basta a porre l’obbligo, lo giusti- fica dato die ci sia, e potrà far
desiderare che esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che
giustificano l’obbligo, non è porre in essere la forza o il potere o
l’impulso (con qualunque nome si chiami) che obbliga. Ed è così vero che
le due cose .sono diverse e non confondibili tra di loro, che non
si può ridurre 1’una all’altra senza togliere
44 — L* <MìWM una delle due. Non si può
derivare l’obbligo dalle ragioni che giustificano la norma, senza ricono¬
scere che l’obbligo vale solamente in quanto val¬ gono queste ragioni;
fcioè senza assegnargli un va¬ lore ipotetico, non più categorico. Nè si
può rica¬ vare la giustificazione della norma dall’obbligo ca¬
tegorico, senza riconoscere che la norma vale so lo i n quanto esiste
l’obbli go; ossia senza negare qual¬ sivoglia giustificazione, cioè
riconoscere che il con¬ tenuto della norma non avrebbe nessun valore
se P obbligo mancasse. 3 — Gli è che quando si dice essere il
dovere condizione necessaria della morale, si scambia la morale
colla 'moralità, la norma colla conformità alla norma. Ma l’obbligo
riguarda l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della
norma. Ora, che del¬ l’osservanza della norma sia condizione
necessaria e caratteristica il dovere, è cosa che potrà o
non potrà ammettersi, ma ha ad ogni modo un senso; che sia
essenziale alla determinazione della norma, non è neppure discutibile,
perchè non ha senso. Sarebbe come dire che è essenziale alla
costruzione della scienza medica l’obbligo di prendere le me¬
dicine. È verissimo che sarebbero perfettamente inutili le prescrizioni
mediche se non si supponesse che vengano osservate ; ma è non meno vero
che l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non mu¬ terebbe in
nulla il contenuto e il valore delle pre-
scrizioni. L’obbedienza del cliente non muta la scienza del medico. E le
condizioni da cui dipende l’osservanza sono così distinte dalle ragioni
che giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le scienze
precettive si fa consistere nel cercare e de¬ terminare le relazioni tra
certi mezzi e un certo fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e
ai- fi infuori da ogni preoccupazione che riguardi la reale
esistenza ed efficacia del desiderio o dell’ ob¬ bligo di conseguirlo. Il
che si vede manifestissi¬ mamente in una scienza precettiva, che, a
rigore, costituisce un capitolo dell’ Etica ; nella quale la
questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ ob¬ bligo di questa
osservanza) è rimasta perfettamente distinta dalla questione della
ricerca e della deter¬ minazione delle norme; forse appunto perchè
fu considerata e trattata indipendentemente dalla mo¬ rale; voglio
dire nell’igiene. Dove a nessuno viene in mente di pretendere' che sia
una condizione della legittimità o del valore delle norme dettate da
lei, questa: ch e il conformarsi ad esse sia sentito com e un d
over e. E se accade, come può accadere in ef¬ fetto, che l’osservanza di
qualcuno dei suoi pre¬ cetti sia già tenuto come un dovere, il
riconoscere che questo precetto è ordinato a un fine, al quale si
dà valore di bene, fa che fi obbligo stesso ap¬ paia giusto. Ma in questo
caso è facile vedere che la giustificazione dell’ obbligo riesce in
ultimo a • — 46 — questo :
a dare un valore ipotetico all’ obbligo ca¬ tegorico; cioè à dimostrare
che sarebbe bene osser¬ vare il precetto, anche se non ci fosse V
obbligo. Ora lo stesso vale, nè più nè meno, per la mo¬ rale.
Altro è cercare quali siano le norme da os¬ servare per raggiungere un
certo ordine di effetti (quello che la morale ponga come fine) e altro
è cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare queste norme
possa essere sentito e posto come un dovere. E l’importanza che questo
secondo pro¬ blema può avere non toglie che esso sia diverso e debba
essere distinto dal primo. La pregiudiziale dell’obbligo categorico
non tocca dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in primo
luogo perchè l’obbligo categorico si constata o si assume, e non si
dimostra, nè si ricava da una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè
se si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica deve dare
non V obbligo, ma la giustificazione del- l’obbligo, questa
giustificazione non può consistere che nel mostrare come la norma abbia
valore an¬ che indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sa¬ rebbe
bene o sarebbe giusto conformarsi ad essa anche se il conformarsi non
fosse sentito come un dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il
va¬ lore di una norma vuol dire mostrar la deriva¬ zione di una norma
da un fine a cui sia ricono¬ sciuto quel valore, giustificare 1’ obbligo
viene a — 47 — dire derivare la norma da
un fine, il cui valore si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’
ob¬ bligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea la
considerazione dell’obbligo e delle condizioni che lo rendono
possibile. A — La caratteristi ca di una dottrina etica no n
sta dunque nell’ obb ligatorietà, ma sta nel valore d el fine che si
assume (1). Ed eccoci alla vera ed j unica differenza tra 1’ Etica e le
altre costruzioni precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza
pre¬ cettiva si riduce a un sistema di relazioni e di leggi che
hanno valore di norme da seguire per chi si propone come fine quell’
effetto o quell’ ordine di effetti, del quale esse leggi esprimono
le condizioni $ ed i fattori ; cioè suppone la
desiderabilità che dà valore di fine a quell’effetto; ma non pretende
nè che questa desiderabilità sia riconosciuta univer¬ salmente, nè
che essa sia, pure universalmente, ri- conosciuta come superiore e
preminente rispetto a quella di qualsiasi altro fine. Ma questo
appunto (1) Sono lieto di notare che in un articolo dal titolo
Ethic.s, a xcience pubblicato nella Philo.sophical Review (Novembre 1903,
Vo¬ lume XII, G) il prof. E. B. McGilvary insiste sul concetto, clip
è conforme a quel che ho sostenuto e sostengo , che 1’ Etica , come
scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per un verso, non si
capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il medesimo di
qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non tien conto di
quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la earat-
teristica dell’Etica. —
48 — pretende l’Etica. Onde il compito dell’Etica si spe¬
cifica in due punti, di cui il primo segna la sua caratteristica: l.°
cercare se vi sia e quale sia l’ef¬ fetto o l’ordine di effetti che possa
avere un tal valore, cioè il fine del quale possa essere ammessa la
universale desiderabilità sopra ogni altro, 2." de¬ terminare le
condizioni e i fattori da cui quell’ ef¬ fetto dipende. E, nel supposto
che dipenda dall’azione umana individuale e collettiva, determinare la
con¬ dotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente. Se il
fine di cui può essera assunta questa uni¬ versale e preminente
desiderabilità è umanamente possibile, cioè tale che se ne riconosca
possibile il raggiungimento senza assumere o postulare nessun
intervento sopranaturale e sopraumano, la costru¬ zione etica sarà
scientifica; se no, sarà religiosa o metafisica. E quindi il problema
della possibilità di un’Etica scientifica assume questa forma: se si
possa assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente possibile, al
quale sia riconosciuto un valore supe¬ riore a ogni altro fine. La
determinazione delle norme morali sarebbe data dalle relazioni
trovate o da trovarsi tra quel fine e la condotta indivi¬ duale e
collettiva da essa richiesta. Ed eccoci a una seconda questione
pregiudiziale. Gap. IV. — La pregiudiziale sul modo di
intendere il compito normativo dell’ Etica. 5. — Non è
improbabile che qualche lettore trovi que sto modo di porre il problema
intorno al co mpito dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà.
Sento dirmi: «Nella realtà il compito dell’Etica è concepito e proseguito
in modo assai diversp anzi opposto. Le n prme della condotta morale sono
già d ate e conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla deter¬
minazione concreta dei precetti particolari, di quelli che si chiamano «
d over i » e che si raccolgono nella parte comunemente chiamata Morale
Speciale, non cadono sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i
filosofi della morale ne sdegnano quasi la tratta¬ zione o ne danno
soltanto le linee generali. Nella realtà dunque l’indagine morale non ha
per iscopo di cercare e determinare le norme ricavandole da un
certo fine; ma di costruire la sistemazione teo¬ rica di un codice di
condotta già dato, raccogliendo e unificando le norme particolari in una
norma ge¬ nerale, della quale si cerca quale possa essere la
giustificazione; anche se la costruzione induttiva¬ mente così ottenuta
rivesta poi l’apparenza logica di una costruzione deduttiva. Quindi è
antiscienti¬ fico e inutile andar cercando fuori della realtà, nel
campo di una possibilità, ipotetica, un fine — po¬ niamo pure che sia
possibile trovarlo — il quale —
50 — risponda a quelle esigenze, per il gusto di ricavarne
delle norme. Le quali, o si accorderanno con quelle riconosciute in
effetto e vigenti come morali, o discorderanno. Se si accordano, ciò vuol
dire che la pretesa derivazione deduttiva delle norme da quel fine
nasconde una reale derivazione induttiva del fine dalle norme; se
discordano, questa discor¬ danza viene a dimostrare l’inutilità, a dir
poco, di norme elle contrastano con quelle riconosciute e
accettate, e a far respingere come non morali o utopistiche le norme e il
fine dal quale sono rica¬ vate ». 6. — Io non ho difficoltà a
riconoscere che i due indirizzi prevalenti nella speculazione morale
con- temporanea— l’indirizzo sociol ogico-storico. e l’in- dirizzo
idealistico-prammatistico — si accordano fon¬ damentalmente nel
respingere le costruzioni etiche razionali o pure, e nell’assumere come
punto di par¬ tenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali
l’uno considera principalmente l’aspetto esterno, sociale, e l’altro
l’aspetto interno, psicologico. Ma noto subito che la novità nel punto di
partenza e nel processo di costruzione, è soltanto apparente; o,
per essere più esatto, la novità consiste (1) nel- (1) Adagio però
anche con questa novità. Perchè, almeno quanto al riconoscere
esplicitamente la legittimità del procedimento regres¬ sivo, all’
invertire deliberatamente la costruzione morale, il Kant avrebbe de’
diritti d’autore da rivendicare.
— 51 — l’assumere la legittimità di un procedimento,
che inconsapevolmente domina in generale la specula¬ zione etica, e
che si scorge più evidente in quei sistemi i quali hanno raccolto
rispettivamente nei diversi tempi e luoghi più largo consenso;
(consenso non verbale, si intende, ma reale). In altri termini non
si fa che seguire in modo consapevole e riflesso quella stessa tendenza e
preoccupazione, a cui ha obbedito in generale la speculazione morale,
almeno nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi tempi
come ortodossa, o retta, o sana che si voglia dire; la preoccupaziono di
giustificare, il modo di operare, di sentire e di giudicare già tenuto
come buono. Ora il rendersi conto che la costruzione etica — sotto
l’apparenza logica di una deduzione progressiva di certi precetti
particolari da una nor¬ ma generale e di questa da un fine posto
come supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai precetti
particolari alla norma' generale e da questa ai principi che la
giustificano), segna certamente un progresso e un acquisto quanto alla
conoscenza del processo reale storico e psicologico di formazione
dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia stato il processo realmente
seguito, altro ò affermare la legittimità del processo. Certo sarebbe un
fortis¬ simo argomento di probabilità, se avesse fatto buona prova.
Ma se si guarda ai risultati, vien fatto piut¬ tosto di pensare il
contrario; di pensare, che la 52 — speculazione
morale sia viziata nelle origini appunto dal preconcetto che la domina e
dal procedimento che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo pre¬
concetto che nasce, a mio giudizio, così il diletto della soluzione a cui
riesce l’indirizzo sociologico, come di quella a cui fa capo l’indirizzo
pramma- tistico. 7. — In primo luogo importa notare che
am¬ bedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune il presupposto
che compito dell’Etica sia quello di unificare le norme già date, risalendo
da esse ai principi o ai postulati, sembrano ammettere questi due
punti: 1°. Che le norme morali siano già tutte conosciute e determinate,
o che dalle norme cono¬ sciute si ricavi il criterio per quelle non
determi¬ nate. 2°. Che le norme date siano fra di loro con¬
cordanti o compatibili, o almeno non in contraddi¬ zione l’una
coll’altra. Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si
avvera nel fatto. E prima di tutto non è esatto che le norme della
condotta siano già date e conosciute. Anche se lo Spencer ha torto, come
io credo e si vedrà più in¬ nanzi, di assumere a criterio del giusto
l’adatta¬ mento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel
sostenere che in un gran numero di casi la coscienza non ci dice quale
sia il modo di operare giusto o approssimativamente meno ingiusto. Ma,
oltre ai — 53 — casi del genere di quelli
citati da lui, (nei quali si potrebbe dire, che se non riusciamo a
determinare quale sia la migliore applicazione del criterio, sap¬
piamo però quale sia il criterio da usare) vi sono sfere intere di
azioni, per le quali la coscienza non saprebbe suggerirci una scelta
sicura, e per le quali non ci dice, come per altre, «non è giusto» o
«è giusto». Difenderò io il divorzio o lo combatterò? Approverò o
non approverò l’allargamento del suf¬ fragio politico? Sarò
conservatoreoliberale, monar¬ chico o repubblicano, individualista o
socialista, liberista o protezionista? In quali circostanze ed
entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro indirizzo? Non serve
rispondere che ciascuno deve operare in queste materie secondo la propria
coscienza. Si tratta di sapere come una coscienza onesta deve
operare perchè alla bontà delle intenzioni (che è presupposta)
corrisponda la bontà degli effetti. E abbandonando questo giudizio alla
coscienza indi¬ viduale si riconosce o che possono coesistere
criteri morali diversi, o che lo stesso criterio morale può
legittimare ugualmente modi di operare opposti, o finalmente che quelle
parti della condotta escono dal campo della morale. Ma se
possono legittimamente coesistere per certe parti della condotta criteri
morali opposti, quale sarà il criterio superiore che serve a decidere
fra questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non
— 54 si ammette che possano del pari legittimamente
coesistere criteri contrastanti anche per le altre parti della condotta?
Se poi lo stesso criterio morale può legittimare due modi di operare
opposti, ciò non può essere che per mancanza di determinazione
delle circostanze; e prova in ogni modo che le norme particolari
della condotta morale non sono tutte de¬ terminate e conosciute. E se
finalmente quelle parti della condotta escono dal campo della morale,
quale norma suprema è mai quella che non ha nulla da dire intorno a
una parte così grande dell’operare, come è, per esempio, tutta la
condotta politica del¬ l’individuo e della società? Si dirà che per
questa parte, per la quale le norme non sono date, il cri¬ terio si
ricava de quelle già date e accettate come morali? Urtiamo in una seconda
difficoltà. 8. — Per ricavare dalle norme già date il cri¬
terio cercato, per unificarle cioè in una norma più generale, occorre che
le norme date concordino fra di loro, che in tutte si possa riconoscere
appunto questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di
insistere, perchè è cosa troppo nota, sull’antitesi fondamentale
esistente tra le norme di condotta che valgono come morali
rispettivamente nelle condi¬ zioni di pace e di guerra, o sui contrasti,
tragici talvolta, tra i «doveri» famigliari e i «doveri» sociali,
bisogna osservare che le norme date e accet¬ tate come morali possono
contemplare e contemplano realmente, almeno in
parte, delle relazioni, direi, secondarie, le quali esistono e sono
possibili in gra¬ zia di relazioni primarie e fondamentali, che le
norme non contemplano e che sono la negazione del criterio applicato in
quelle norme. Mi sia lecito spiegarmi con un esempio ipotetico assai
semplice. Se si suppone che un uomo sia saltato sulle spalle di un
altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a cercare quale sia la
posizione migliore per il por¬ tante e per il portato; sia quella,
poniamo, la quale concilia la minima fatica del primo col minimo
disa¬ gio del secondo. I l criterio seguito qu i è un criterio d i
equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto, o buono o utile per
nessuno dei due, il pretendere tutte le comodità per sè senza tenere in
conto le comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito nello
stabilire la condotta migliore, data, quella con¬ dizione diversa dei
due) fosse applicato a determi¬ nare la relazione tra i due ,prima che
siano divenuti rispettivamente portatore e portato, questa condi¬
zione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue gambe. Ossia la norma
morale regola nel caso sup¬ posto un rapporto che non esisterebbe se essa
fosse applicata al sorgere di quel rapporto. E può avve¬ rarsi,
così, delle norme morali qualchecosa di ana¬ logo a quel che racconta di
sé Senofonte, che all’o¬ racolo chiedeva quale via dovesse tenere per
giun¬ gere più felicemente in Asia, guardandosi bene dal chiedere
prima se era bene o male che andasse. — 56 —
Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e osservare che è colla
realtà data che bisogna fare i conti, e che è ozioso andar cercando come
sarebbe giusto che essa fosse; non resta che acconciarvisi alla
meno peggio. — Vedremo ora come questa po¬ sizione di puro adattamento
passivo sia, per forza stessa della realtà, che diviene e muta,
insosteni¬ bile: ma ò opportuno notar subito che quando si renda
palese un contrasto del genere notato, colla consapevolezza di questo
contrasto è inevitabile che nasca nella coscienza morale l’aspirazione a
una realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modifi¬ care la
realtà se essa appare mutabile, o a cercare la ragione della giustizia
fuori della realtà. Queste lacune e queste incongruenze delle
norme in effetto vigenti come morali in un dato tempo e luogo,
dimostrano intanto due cose: che, quale sia la condotta migliore in un
determinato momento storico, non è una semplice constatazione da
fare, ma è un problema da risolvere ; e un problema assai più
difficile e complicato di quel che possa apparire e si sia abituati a
considerarlo; e che in ogni caso è necessario assumere un criterio il
quale valga come guida a colmare le lacune, e a risol¬ vere o
giustificare le incoerenze. Ma un criterio, comunque assunto, a cui si
attribuisca questo uf¬ ficio e questo valore, è un criterio alla stregua
del quale devono essere valutate anche le norme par-
titolari già riconosciute come certe, poiché deve valere per tutta
la condotta. E ciò viene a dire che il processo di determinazione di
tutte lo norme si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso
modo che se le norme si dovessero tutte determinare ex novo,
astrazion fatta e indipendentemente dalle norme in effetto già accettate
e seguite. (Il che del resto è precisamente quello che avviene in
tutte le scienze precettive; dove, se anche i precetti scien¬
tificamente stabiliti si trovano a coincidere coi pre¬ cetti
empiricamente seguiti, la determinazione scien¬ tifica procede come se
spettasse ad essa di deter¬ minarli e giustificarli). E allora il problema
torna ad essere quello del criterio che deve essere as¬
sunto. 9. — Ora il criterio che l’indirizzo sociologico
suggerisce è, come è noto, — e conforme al con¬ cetto , che esso pone in
evidenza, della relatività della morale e del diritto — la corrispondenza
alle esigenze sociali del momento storico che si consi¬ dera. Il
codice morale di un dato tempo e luogo delinca la forma di condotta
richiesta dalle condi¬ zioni dell’ esistenza sociale in quel tempo e
luogo, e trova in esso la sua giustificazione. A nessuno può
venire in mente di negare la reale ed effettiva dipendenza delle norme
morali dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esi¬ genze
possono spiegare come si sia formato stori-
— òs¬ camente e psicologicamente il codice di condotta
correlativo finché sono inconsapevolmente identi¬ ficate colle esigenze
della coscienza morale, esse non bastano più, neppure a determinare quale
sia la condotta adatta in un certo momento storico, una volta che
siano assunte come criterio riflesso e consapevolmente seguito; non
bastano, tranne che in un caso: nel caso che le condizioni di esi¬
stenza, da cui quelle esigenze emergono, siano con¬ siderate come
immutabili o come assolutamente sottratte ad ogni azione od efficacia che
possa esercitare su di esse la condotta umana , indivi¬ duale e
collettiva. Perchè quando intervenga la con¬ sapevolezza di una possibile
efficacia modificatrice della condotta umana sulle condizioni sociali e
sulle esigenze che ne nascono, allora entra di necessità nella
valutazione della condotta la considerazione di questa efficacia; la
quale, richiede il confronto tra lo stato presente e uno stato futuro,
tra uno stato reale e uno stato possibile. E la ragione della
scelta tra i due non può essere data dalla realtà dello stato presente,
ma dalla diversa desiderabilità dei due stati messi a confronto; e quindi
non sol¬ tanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche da quelle
dello stato possibile o creduto tale. Per con¬ seguenza, condotta buona
apparirà non quella sem¬ plicemente che è richiesta dalle condizioni di
fatto, ma quella che, nei limiti imposti dalle condizioni
— 59 — reali, tenda a modificarla nella direzione segnata
dallo stato più desiderabile (1). Soltanto in un caso, puramente teorico,
la condotta tracciata in confor¬ mità con questo criterio, coinciderebbe
colla pura e semplice corrispondenza alla realtà delle condi¬ zioni
fiate; nel caso che lo stato reale presente ap¬ parisse universalmente e sotto
ogni rispetto più de¬ siderabile di ogni altro. Ma anche in questo
caso la valutazione è data dalla desiderabilità, non dalla
realtà. Insomma, altro è comprendere che una forma di
condotta è conforme a certe condizioni, altro è (1) Di qui si vede
quanto sia abusiva l’espressione comunemente ripetuta, sopratutto dai
seguaci più rigidi del materialismo storico, che la condotta giusta è ad
ogni momento quella che è resa neces¬ saria dalle condizioni del momento;
i quali poi sono spesso ardenti e anche non di rado generosi fautori e
propugnatori di riforme e di innovazioni anche radicalissime nelle
condizioni e nella strut¬ tura stessa della società. Sento 1’ obbiezione
: « Gli è che noi pre¬ vediamo necessario e inevitabile il mutamento in quella
direzione, e ci affatichiamo , come la levatrice , a rendere meno
doloroso il parto del futuro dai fianchi del presente ». Lasciamo, per
restare nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro
voler affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo,
questo futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del presente
? E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non
appre¬ stare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che
altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste con¬
dizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’ opera
vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno per
questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della obiet¬ tiva
ed esteriore necessità. — Cosi la condotta corregge la dottrina. «
Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati ».
— 60 — aver coscienza della bontà di quella condotta
; la quale non può nascere che dalla coscienza della bontà di un
fine a cui la condotta ò, o si crede che sia, ordinata; altra cosa è la
necessità di certe con¬ dizioni, altra è la loro desiderabilità; altra
cosa è la spiegazione storica, e altra la giustificazione etica.
10 — Di questa esigenza di una giustificazione, alla quale, una
volta che sia sorto il lavorìo ri¬ flesso della comparazione e della
critica, nessuna costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa
invece il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente successo si
deve, come credo, in gran parte, alla insu fficienza d el rel ativismo
sociologico e storico nel campo della morale. Esso è in sostanza,
come è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle esigenze
pratiche; la affermazione del diritto di cie- dere alì’ esistenza reale
di quelle condizioni che si pongano come necessarie a dare un fondamento
og¬ gettivo al valore delle norme e dei motivi morali. In questa
reazione a difesa della fede il nuovo idea¬ lismo, fatto audace
cìàPfavore delle circostanze e dalla debolezza degli avversari, è
passato, come ac¬ cade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo
af¬ ferma la legittimità del proprio indirizzo nel campo della
morale e della religione, o, come si dice, nel campo dei valori pratici;
ma anche nel campo della scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo
che in ultimo anche il sapere teoretico, benché non se ne
accorga o si dia l’aria di non accorgersene,
non ab¬ bia altra ragione per giustificare i principi e i po¬
stulati che assume a fondamento delle sue inter¬ pretazioni dei fatti e
delle leggi particolari, se non una ragione di convenienza ; il valore
che quei principi hanno come mezzi per la sistemazione del sapere,
cioè in ultimo per la soddisfazione di un bisogno speculativo.
Qui non è il luogo di discutere ciò che nella dottrina ci può
essere di vero — più come intui¬ zione di un aspetto trascurato della
realtà psicolo¬ gica, che come legittimazione di un metodo — per
quel che riguarda la ricerca scientifica (1); la con- (1) Però non
posso fare a meno di notare l'equivoco che, a mio giudizio, si nasconde
sotto la pretesa analogia tra la ragione che legittima i principi
teorici, e la ragione che il prammatismo in¬ voca a legittimare i principi
pratici. L’ equivoco è questo : E ve¬ rissimo che 1’ im rva Ira tura
d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può parlare di un sapere non
teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo cosi,
grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e in quanto possono
servire. Ma servire a che ? A unificare e siste¬ mare le cognizioni delle
cose dei fatti e dei rapporti come nono n on come desideriamo che nan o ;
a costruire non quella verità che piace a noi di ammettere, ma la verità
senz’ altro, sia o non sia conforme ai nostri desideri e ai nostri
capricci. Perchè il bisogno teoretico o scientifico è appunto il bi sogno
di .salier e le cose che s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come
le desideriamo. E qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione «
come sono » esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’
espres¬ sione « come desideriamo che sieno ». Perciò non è il caso di
ripe¬ tere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato.
Perchè quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì
soste- sidero nel campo della morale, c
soltanto rispetto- ali’argomento che ci riguarda. Per questo
rispetto la soluzione che essa dà del problema della giusti¬
ficazione etica, non dilferisce sostanzialmente dalle altre soluzioni di
carattere metafisico, se non per il fondamento. A proposito del quale,
siccome, se anche se ne ammetta la validità, questa non toglie il
difetto che nasce dal 'carattere metafisico della soluzione, mi
accontento di osservare, per quelli che credono di sfuggire per questa
via all’utilita¬ rismo, che essa conduce a una forma, mistica se si
vuole, ma ad una forma di utilitarismo ; anzi alla forma estrema e più
radicale : la valutazione delle stesse credenze metafisiche e religiose
dal punto di vista di un interesse umano ; sia pure questo
interesse il massimo, il termine di confronto di tutti gli altri. Perchè
conduce a considerare la credenza come un sostegno della moralità, ossia
in ultima analisi come un mezzo pedagogico. E non nere che
questo è un modo nostro di formulare e unificare i fatti ; ma i fatti
sono quelli, e a nessuno viene in mente di pensare che noi li crediamo
veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in piedi. E anche chi ammette che
1’ acqua sia stata fatta a posta per ca¬ varci la sete, sa benissimo
(diamine !) che altro è dire che in un pozzo c’ è dell’ acqua, e altro
dire che hanno sete quei che vi guar¬ dano dentro. Di questa
indebita intrusione di argomenti gnoseologici in que¬ stioni scientifiche,
(fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con profon¬ dità e con chiarezza,
c ome suole, il Varisco (V.* in particolare : Introduzione alla Filosofia
Naturale, e Studi di Filosofia Naturale, Cap. I). è
escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel mentre ehe si pone il
valore della credenza, si venga a togliere valore all’ oggetto della
credenza. 11 — Venendo ora al nostro argomento, è certo che l
a soluzione del prammatism o, come in genere le altre soluzioni di
carattere metafisico, soddisfa a quella esigenza della giustificazione
etica, alla quale non soddisfa il relativismo storico. Ma an¬
eli’essa presenta — dico all’infuori da ogni con¬ tesa sulla legittimità
del fondamento e sulla vali¬ dità teoretica dei principi e dei postulati
ammessi — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche. Ed è
che il fine di ordine sopranaturale cosi po¬ stulato, non può servire a
determinare le norme. Non può servire, per la ragione perentoria che
la relazione tra un fine, che è al di fuori e al di so¬ pra della
vita umana naturale e finita, e una con¬ dotta, qualunque essa sia, che
si deve dispiegare nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti
de¬ terminabili sono contenuti nei limiti della vita finita
individuale e sociale, una relazione di questo genere, dico, non può
essere in nessun modo dimo¬ strata, ma soltanto affermata. Ne è prova il
fatto che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costru¬ zione
metafisica può essere assunta a giustificare norme concrete di condotta non
soltanto diverse, ma opposte, senza che si possa ricavare da essa
nessuna ragione per la quale tra due forme di — 64 —
condotta diverse, una possa o debba giudicarsi pre¬ feribile
all’altra. Gilè, se si trova una ragione di preferenza nell’ ordine degli
effetti, che le due con¬ dotte rispettivamente producono o tendono a
pro¬ durre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta cor¬ relativa
un valore che sussiste indipendentemente dal fine sopranaturale, e
diventa il fine naturale della condotta medesima. Con questa
differenza tra i due fini: che mentre dato il primo, non si può (se non
facendo appello a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a
una pura affermazione) ricavare da esso quale sia la condotta atta a
raggiungerlo; dato questo fine naturale, le norme si ricavano appunto
dalle con¬ dizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione
naturale tra la condotta e gli effetti della condotta. Ossia un fine
sopranaturale non può fornire esso il criterio per determinare la
condotta, se non a patto che — implicitamente o esplicitamente — si
assuma, come subordinato ad esso e da esso richie¬ sto un fine, o un
ordine di fini, naturale, in rela¬ zione al quale in realtà le norme sono
stabilite. Nè concluderebbe nulla in contrario l’osservare
che il criterio desunto dagli effetti che l’azione tende a produrre,
riguarda la condotta esterna, non la interna, nella quale sopratutto
consiste il valore morale. In primo luogo anche se per le due con¬
dotte, esterna e interna, valessero criteri diversi, — 65
— bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò anche la
condotta esterna conta pure qualchecosa, sarebbe ancora necessario
ammettere un criterio che valga a determinarla. In secondo luogo,
benché siano, in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni i
sentimenti che hanno valore e danno valore alle cose e alle azioni, e
ogni valutazione si riduca a valutazione comparativa di tendenze o
sentimenti diversi; non bisogna dimenticare che i sentimenti, come
le aspirazioni, si distinguono per il loro con¬ tenuto rappresentativo,
cioè pe 1’oggetto a cui si riferiscono; e che anche le intenzioni sono
sempre intenzioni di qualche cosa. E finalmente, una forma di
perfezione interiore che si consideri come fine, a cui Tuomo possa giungere
o avvicinarsi, non può essa stessa fornire il criterio per determinare
quale sia la condotta richiesta a questo scopo, se non in quanto
questa perfezione si consideri come un ef¬ fetto o un ordine di effetti
che dipende natural¬ mente (in parte al meno se non in tutto) da
certe condizioni, ossia da certi mezzi. Le pratiche del¬
l’ascetismo non avrebbero senso se non si ricono¬ scesse a loro questo
carattere di mezzi atti a pro¬ durre certi effetti. ' Concludendo:
la soluzione metafisica a cui fa appello l’indirizzo prammatistico, come
ogni altra soluzione di carattere metafisico, non può avere, anche
se non si ponga in dubbio la sua legittimità, — r,o —
che un ufficio consolatore, non regolatore; può ser¬ vire a dare o
aggiunger valore a certe norme e ai fini umani connessi con queste, ma
non può ser¬ vire a determinarle ; può fornire un principio di
giustificazione, non un criterio di derivazione. E perciò lascia da parte
o suppone risoluto il problema che riguarda la determinazione delle
norme; il che ò quanto dire che lascia sussistere il problema, e la
validità delle ragioni per le quali si pone, e se ne cerca la
soluzione. Cap. V. — Il preconcetto fondamentale. 12 —
Così dei due tipi diversi di costruzione etica corrispondenti ai due
indirizzi esaminati, l’uno q « — quello del relativismo storico — se
anche può offrire un criterio di determinazione scientifica
di un sistema di norme, non soddisfa all’esigenza mo¬ rale, ossia
non giustifica il valore che ad esse si vuole attribuire. Perchè, alle
norme stabilite in conformità al criterio della corrispondenza alle
esi¬ genze della vita sociale, non si può riconoscere un valore
superiore a ogni altra norma, se non sup¬ ponendo che la forma di
esistenza sociale correla¬ tiva si riconosca universalmente e sotto ogni
ri¬ spetto più desiderabile di ogni altra; presupposto che non è
per nulla legittimato, nè si può ricavare . dal criterio assunto. L’altro
— quello dell’i dealism o — 67
— prammatistico — in quanto fa capo a principi e postulati
metafisici, serve a giustificare il valore che si attribuisce alle norme
morali, ma ò radi¬ calmente impotente a fornire un criterio di
deter¬ minazione delle norme. Il primo può determinare le
norme, ma non giustificarle ; il secondo può giustificarle ma non
determinarle. L’uno e l’altro tipo di soluzione hanno comune
il preconcetto fondamentale che compito dell’Etica debba essere quello di
trova re le rag ioni sulle_quali ò fondata la bont à o la giustiz ia di
quella forma di condotta, che già teniamo come buona. Ammesso —
tacitamente o esplicitamente — questo presup¬ posto, l ’esigenza
scientifica porta a riconoscere le connessioni naturali tra quella forma
di condotta e i bisogni della vita sociale del momento storico, e
quindi ad assumere come criterio etico la corri¬ spondenza a questi
bisogni ; l ’esigenza morale o giustificativa porta a cercare a quali
patti o con¬ dizioni quella forma di condotta possa veramente
essere riconosciuta come buona, e quindi ad assu¬ mere come fine della
condotta un bene il quale soddisfaccia a quel requisito di universale e
pre¬ minente desiderabilità, che non si trova in quel fine , che è
in realtà il fine naturale della con¬ dotta (I). (1) E i
moralisti che cercano di conciliarle ambedue, e soddi¬ sfare all’esigenza
scientifica senza rinunciare alla esigenza giusti- —
68 — 13 — E allora la conseguenza legittima è que¬ sta : che
una scienza normativa morale è possibile soltanto se il fine naturale che
serve a determi¬ nare le norme vale anche a giustificarle. Ma
il fatto — che questa esigenza non ò sod¬ disfatta finché si cerca la
giustificazione di un co¬ dice di condotta già dato, assumendo questo come
punto di partenza, e quindi come fine la forma di convivenza e di
cooperazione sociale alla quale esso codice corrisponde, — non prova V
impossibilità di una etica normativa scientifica; prova al più la
impossibilità di una tale scienza finche si intende £0 il compito dell’ Etica
in quel modo, [ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e
lecito porre il problema in un modo diverso: cercare quale possa
essere il fine che soddisfa a questa esigenza, e dalle condizioni che
esso richiede ricavare le norme della condotta? Il porre il problema in
questa forma non è forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo
visto nascere dal porlo in forma diversa, e dall’analogia
ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo in conformità all’ esigenza
scientifica il criterio , e in conformità all’ esigenza morale la
giustificazione ; ossia attribuendo un valore metafisico al fine
umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal quale si possono
ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in apparenza unificati
restano sempre distinti : e quando si tratta di stabilire quale è la
condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando si tratta di dire perchè
quella condotta è giusta, compare 1’ altro ; senza che si veda nessuna
ragione perchè il secondo debba essere cosi pronto a trovar giusto quello
che 1’ altro suggerisce. — 69 — (che l’esigenza
caratteristica della norma etica non toglie) colle altre scienze
precettive ? Sento risorgere V obbiezione : Posto pure che
l’impresa riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò facile la risposta. In
primo luogo, anche se non servisse praticamente a nulla, non cesserebbe
di avere un valore teorico il sistema di rapporti che per tal modo
-si venisse a conoscere. In secondo luogo a nessuno ò dato affermare a
priori l’inu¬ tilità pratica di una cognizione scientifica, sia
pure che riguardi dati ipotetici. (E quale cognizione scientifica
non contempla dati, almeno in parte, ipotetici?). E finalmente a queste
due ragioni ge¬ nerali se ne può aggiungere una terza particolare.
Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col quale può essere utile la
conoscenza delle relazioni che esistono tra forme diverse di moralità e
condizioni storiche diverse, non possa tornare utile la cono¬ scenza
delle relazioni scientificamente stabilite tra una forma di condotta
possibile c un ordine di con¬ dizioni possibili ? 14 —
Concludo : il problema, s e una scienza normativa etica sia possibile,
non è un problema risoluto, ma è un problema da ris olve re. Se si
possa e si debba risolvere nel modo tenuto dallo Spencer, è
questione diversa e clic rimane da esaminare. E questa critica
preliminare mentre avrà servito, come spero, a dimostrare che il
presupposto fondamen- — To¬ tale dello
Spencer intorno al compito dell’Etica non può essere a priori escluso, ha
posto in chiaro le esigenze fondamentali alle quali una scienza
nor¬ mativa morale deve soddisfare. E così ci fornisce una
guida per la critica della dottrina. Parte
III. LA. DOTTRINA DELLE DUE ETICHE E LE ESIGENZE
DI UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE Cap. VI. — Il criterio del
tinnite dell ’ evoluzione e dell’ adattamento completo nm^se^e a
determi¬ nare il tipo di condotta cercato. Il p rogra mma che
lo Spencer traccia e si pro¬ pone di seguire (non dico che in realtà gli
sia ri¬ masto fedele) per costruire una scienza normativa etica, si
può raccogliere, in queste due te si: I.° La necessità di assumere come
tipo della condotta mo¬ rale la condotta dell’ uomo giusto in una
Società giusta ; e la necessità conseguente d ella disti nzione
'ìdfn fv** i ^ tra E tica Pura (Ji/icr Assoluta) ed Etica Applicata
parevo*)» f ( Etica_ Relativa) e della precedenza teorica della prima
sulla seconda. II. 0 La identificazione della condotta giusta, oggetto
dell’oca Assoluta, col tipo di condotta che egli pone come proprio
del limite dell’evoluzione. Ora, benché nel pensiero dello
Spencer le due tesi siano solidalmente connesse, e la seconda sia
ilei'quadro del sistema la
fondamentale e quella che legittima e rende possibile ad un tempo la
sua costruzione, non ò difficile vedere come da un punto di vista
critico esse possono e debbono essere con¬ siderate a parte. La prima,
infatti, formula una veduta metodica ; la seconda esprime la
speciale applicazione che di quella veduta metodica lo Spen¬ cer ba
creduto di fare. In altri termini, è astrat¬ tamente possibile
riconoscere che il tipo ideale del- 1’ uomo giusto non possa determinarsi
se non in relazione con una società giusta e clic per deter¬ minare
la condotta giusta relativamente a certe condizioni reali, sia necessario
aver prima ricono¬ sciuto quale sarebbe la condotta giusta in
condi¬ zioni idealmente supposte, anche se non si accetta che il
tipo ideale di condotta giusta possa essere concepito in quella forma e
su quel fondamento che lo Spencer crede di dovergli assegnare.
Anzi io penso che la veduta espressa nella prima tesi non solo si
possa, ma si debba accettare come legittima e necessaria, e che in essa
si racchiuda come in germe un concetto fecondo. Certo, credo, se
una scienza normativa morale ò possibile, è pos¬ sibile per quella via; e
i difetti della costruzione etica dello Spencer nascono non dall’averla
seguita, ma piuttosto dall’ essersene allontanato. Cosicché la
critica stessa della seconda tesi riesce a confermare la legittimità
della prima. — 73 — 1- — As sumendo come tipo
ideale di condott a ^ insta la condotta corrispondente al limite dellV
vn- ! azione, lo Spencer riconosce, esplicitamente o im¬
plicitamente, alla forma di vita individuale e so¬ ciale che segna quel
limite, valore di fine morale. Ora. lasciando la difficoltà, sulla
quale altri ha già zifjf.'w’Ui insistito, che uno s tato concepito come
il risultato necessario dell’evoluzione naturale possa aver va¬
lore di fine liberamente e deliberatamente voluto e proseguito?
difficoltà che non mi pare insupera- ' bile (1), io credo che questa
identificazion e presenta He due difetti capitali : essa non vale,
per se, a for- O' La difficoltà nasce dal modo di intendere
la possibilità e la necessità. — Affermare la possibilità die si produca
un fatto, non è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei
fattori, l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli,
produrrebbe, secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel
fatto. Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si
am¬ mette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui
dipende, ' può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri
l'azione MI'uomo, cioè quando la « necessità . dell’effetto sia
condizionata dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti,
aspira¬ zioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia
adeguata del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso
che l’ef¬ fetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso
elio 1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata
appunto al valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’
azione corrispondente, della volontà di raggiungerlo. Che
questa interpretazione sia compatibile coi principii dell’evo¬ luzionismo
Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane estranea all’ intento
di questo studio, e che i più risolvono nega¬ tivamente (cfr., tra gli
altri, L. Zeccante : La dottrina della co-
— 74 — ni re un criterio per la
derivazione delle norme morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi,
il tipo ideale è determinato dallo Spencer sopra un altro
fondamento); e non è sufficiente come prin¬ cipio di giustificazione.
Cominciamo dal primo. Il concetto di evoluzione, come quello di
tempo, del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la tra¬ duzione
in termini di causalità naturale, esclude l’idea di limite, inteso almeno
come termine fisso, oltre il quale ogni processo di trasformazione,
cioè di causazione, si arresti. Il processo stesso di dis¬
soluzione che, secondo il pensiero dello Spencer, si alterna a periodi indefinitamente
grandi con quello di evoluzione, non segna il termine di un periodo
e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista scienza movale
nello Spencer Cap. XXXI, p. 194; e G. V ijiaki : Rosmini e Spencer p. 209
e seg. Di queste, come di tutte le ob¬ biezioni mosse all' Etica dello
Spencer, a cominciare dal Guyau e dal Sidgwick fino ai critici più
recenti, tratta con grande larghezza e ricchezza di notizie il Dr. G.
Salvadori nell’opàra « L’Etica Evo¬ luzionista » che è una apologia entusiastica
di tutto il sistema Spencer iano). Colgo questa occasione per
dichiarare che ho dovuto astenermi da ogni richiamo sia delle obbiezioni
e discussioni di questi, come di altri critici valorosi (tra i quali sia
ricordato a titolo d’ onore il compianto Icilio Vanni), sia delle varie
opinioni che si connet¬ tono colle questioni generali toccate, per due
ragioni : in primo luogo perchè il punto di vista dal quale è qui
considerata la dot¬ trina delle due Etiche è diverso, e diversa la via
seguita ; in se¬ condo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione
toccata di¬ scutere le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di
un breve scritto, tutta, o poco meno, la storia della morale.
— 75 — di una valutazione umana o teologica. In
realtà il cammino non si arresta per tracciar di segni che l’uomo
faccia sulla via della natura. Nè, del resto, quando lo Spencer parla di
limite dell’ evoluzione della vita umana, intende di significare il
momento in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello in
cui la vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò questo
massimo svolgimento non può es¬ sere. necessariamente, che relativo a
forme date e conosciute o comunque determinate di vita, cioè di
organi, di funzioni, e di attività ; e, anche in¬ teso cosi, non può
venir stabilito se non fissando un grado che si consideri come
massimo; cioè, in¬ somma, segnando nel processo (non importa ora
con quale criterio) un momento , che sia punto di arrivo di una serie
(della quale sia rappresentato da punto di vista teleologico come fine),
ma che potrebbe essere preso, con un criterio diverso, come punto
di partenza di una serie ulteriore. È sufficiente a segnare questo
momento il criterio dell’adattamento completo ai tre ordini di
fini: della vita individuale, della vita della specie e della vita
sociale? 2. — È subito chiaro che questo adattamento completo
non può bastare esso stesso, se non si determina quali siano le sfere di
attività e di fini, l’adattamento ai quali serve di criterio per
stabi¬ lire se il limite è raggiunto. Perchè se si intende
per adattamento completo un adattamento definitivo a tutti i fini di
tutti e tre gli ordini, termine fìsso e insuperabile al quale si arresti,
e oltre il quale non sorgano nuove aspirazioni e nuovi fini, noi
non potremmo argomentare nò che un tale limite sia per essere raggiunto
mai, nò, (ciò clic qui im¬ porta di più) dato che si raggiunga, quale sia
il grado o la forma di vita, che un tale adattamento sia per fissare
e suggellare come definitivo. Perchè i fini sono, come ognuno sa,
correlativi ai desideri o ai bisogni. Ora a mano a mano che le
forme di attività si moltiplicano c si differen¬ ziano, si moltiplicano i
bisogni e quindi i fini; nò si può nò induttivamente, nè deduttivamente
de¬ terminare a qual punto questo processo possa o debba
arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla tesi evoluzionista, ogni
adattamento implica dimi¬ nuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus,
avanzo di energia; la quale appunto perciò si viene di¬ spiegando
in nuoA r e forme di attività, c quindi nella ricerca di nuovi fini. Anzi
il sorgere di ogni forma più complessa di attività, — ad esempio ogni
fun¬ zione più elevata — presuppone normalmente l’a¬ dattamento già
avvenuto delle attività meno com¬ plesse e relativamente elementari, —
funzioni più semplici — di cui essa ò una nuova ordinazione. Onde
per questo rispetto l’adattamento a certi fini, ò parallelo all’
insorgere di fini nuovi indefinita- mente. Oltredichè
il processo stesso del conoscere portando a scoprire sempre nuovi
rapporti di cose e di fatti, viene continuamente riversando la
desi¬ derabilità dei beni conosciuti su nuovi oggetti che
acquistano valore di utilità, c moltiplica così i beni, cioè i desideri e
i bisogni; o trova nel mutare delle condizioni esterne nuovi modi di
soddisfare ai bi¬ sogni già esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o
apre la via a nuove aspirazioni, alle quali la soddisfa¬ zione già
assicurata dei vecchi bisogni, permette che si rivolgano gli sforzi e
l’opere. Cosi ogni adat¬ tamento raggiunto è condizione e stimolo a
nuove forme di attività al modo stesso che ogni cono¬ scenza
acquistata fa sorgere nuovi problemi, e na¬ scere « a guisa di rampollo,
appiè del vero il dub¬ bio ». Si dirà che lo Spencer intende
l’adattamento completo nel senso di mutuo adattamento dei tre
ordini di lini fra di loro; intende cioè la concilia¬ zione c 1 accordo
tra le esigenze della vita indivi¬ duale quelle della vita della specie e
quelle della vita sociale. Ma lasciando di notare che la
difficoltà sopra notata risorge a proposito di questa conciliazione
perfetta, si presenta la domanda: A quali patti si fa questa
conciliazione ? Perchè se è vero, come lo Spencer ha cura di
ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di esi-
— 78 — stenza i fini di un ordine non possono essere
pro¬ se-miti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale dei fini
di un altro ordine, bisogna evidentemente perchè la conciliazione si
faccia, che intervenga una cessazione, o una modificazione o una
sostituzione nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini
considerati ; ossia una modificazione nei bisogni e nelle esigenze
dell’individuo, o della specie, o della società. Supponiamo ora per
semplicità di discorso che i fini individuali e i fini della specie si
possano considerare fin dal presente conciliati; o, per usare i
termini dall’economia pura, che si possa assu¬ mere 1’ egoismo di specie
come comprendente m se l’egoismo individuale (il che è in gran parte
con¬ forme alle vedute stesse dello Spencer); la conci¬ liazione
resterebbe da farsi tra i fini della vita individuale e i fini della vita
sociale. E allora il problema è il seguente: Nello stato di conciliazione
contemplato, fino a qual punto sono i bisogni e i fini individuali da noi
conosciuti o immaginati che avranno mutato di specie, di
estensione, di intensità, per adattamento alle esi¬ genze sociali, e fino
a qual punto si troveranno invece modificate le esigenze sociali per
adatta¬ mento ai fini della vita individuale? E manifesto che per
conoscere in che cosa la conciliazione sia per consistere bisogna o che
sia definita la sfera delle esigenze individuali, in corrispondenza
colla aliale si possa determinare la sfera delle „
sociali che con quelle si accordi; o sia definii sfera delle esigenze
sociali per una determinazione tersa; o finalmente siano definite certe
corni z on (qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1 H vacano,
esse, a determinare ad un tempo , limiti «Ielle une e delle
altro. :ì _ Queste condizioni lo Spencer ricava dalle
esigenze del “r ■» ™<ità induetnale !«<*<»' cui si
suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?» tratto sotlo la leggo
dell'uguale liberta ; e> 4“““* il limite dell'evoluzione è in realtà
,1 ^ della società industriale del suo temp , tamento
completo consist co¬ struttiva biologica e psicologica 1
nenti la società umana a questo tipo d, convivenza e di cooperazione (I).
Per conseguenza non è un (1) qua.» riatto «no «i *“
Spencer che qui il Etta , (cio4 quando que- biella II. n
edizione dei ‘ de i System of et’ opera fu ^pubblicata come
Synth. Phil.) si trova aggiun e cbe eva stato lo stesso
titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu dettato prima; ma, smarrì
o poi Qra in quel ca pitolo gei- sostituito da quello che figura ne
. . ident ifi c hiuo provare la possibilità che le attività
^«isMche ^ colle egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i
di- «e—. - * “ - 80 —
certo tipo di vita completa che serve a determi¬ nare il tipo
ideale della società giusta, ma è il tipo considerato come ideale di
società giusta che de¬ termina la vita completa. Adunque, poiché la
con¬ ciliazione dei diversi ordini di fini è subordinata all’
attuarsi delle condizioni che definiscono il tipo ideale di società ed è
relativa a queste, è il tipo ideale di società clic in edotto è assunto
come fine, e sono le condizioni proprie di quel tipo che ser¬ vono
a determinare le norme. benessere individuale non maggiore di
quello che è necessario alla conservazione della vita individuale ; ed
esser possibile il formarsi negli individui di una organizzazione tale
che la ricerca delle sod¬ disfazioni che la natura loro richiede, porti
ad esercitare quelle at¬ tività che il benessere della comunità richiede.
(Voi. cit. p. 300-302). Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo
che contiene questo passo, lo Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi
dice espli¬ citamente che esso può servire a chiarire e compiere il
pensiero espresso nel testo (ih. p. 2S9). Un altro luogo in
cui è ribadito in forma diversa, ma non meno recisa, lo stesso concetto
fondamentale, si trova nella seconda let¬ tera di risposta alle critiche
del Rev. J. L. Davies sull’ obbliga¬ zione morale, pubblicata col resto
della polemica nella- Appendice C. alla Giustizia : « Lasciatemi ripetere
qui una verità sulla quale ho altrove insistito : che appunto come il
cibo è giustamente preso quando è preso per soddisfare la fame, mentre il
doverlo prendere quando manca l’appetito implica uno stato fisico
disordinato ; cosi una buona azione o un atto di dovere è fatto
giustamente soltanto se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ;
mentre se è fatto per la considerazione di certi risultati finali in
questo o in un altro mondo, implica uno stato morale « imperfetto » — (A.
Si- stem ecc. Voi. X. App. C. « The Moral Motive p. 450. — Nella
trad. it. della Giustizia edita dal Lapi questa appendice è omessa).
— 81 Ma se così è, quanto alla determinazione
delle nolane il postulato dell’adattamento completo, posto clic si
possa assumose, non serve a nulla; equivale semplicemente a supporre clic
tutti gli individui i quali compongono la società ideale abbiano una
na¬ tura così latta, che l’osservanza della condotta cor¬
rispondente costituisca per essi un bisogno o un desiderio superiore a
ogni altro, senza possibilità di conflitto con altri bisogni o desideri;
cioè, tiene nella costruzione etica lo stesso posto che nei si¬
stemi morali è comunemente tenuto dal dovere , e nelle scienze precettive
in genere dalla supposizione che esista un desiderio o un bisogno
specifico cor¬ rispondente al fine da cui si ricavano le norme.
E quindi allo stesso modo che l’esistenza e la natura specifica dei
motivi da cui può dipendere l’osservanza di una norma, non hanno che
fare colla determinazione teorica di essa, così l’ipotesi dell’
adattamento completo dei bisogni e desideri individuali a certe
condizioni di convivenza e coo¬ perazione sociale, non ha che fare colla
determi¬ nazione di queste norme. Perchè le norme sono ri¬ cavate
appunto da quelle condizioni, alle quali si suppone avvenuto l’adattamento;
e che perciò ser¬ vono esse di critetio e per determinare le norme
e per conoscere se l’adattamento è raggiunto. — 82 —
Uljh&MJ? Jabot* Gap. VII. — Il criterio del
piacere puro, corrispon¬ dente all’ adattamento completo, n on ser re
a giustificare il tipo di condotta proposto. ì. — Ma perchè
assume lo Spencer come pro¬ prio della Società ideale un adattamento
completo, che, mentre esclude arbitrariamente ogni evolu¬ zione
ulteriore, non serve a definire questa Società ideale perchè è definito
esso stesso in relazione con quella ? Perchè soltanto quando
esso sia raggiunto, la condotta umana in tutta la sua estensione
apporta a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro pia¬ cere,
piacere non misto a dolore di sorta ; e per I l o Spencer, come s’è
visto, il giusto assoluto e sclude • il dolore . E perciò il tipo ideale
contemplato dal- 1’ Etica Assoluta non può essere se non quello nel
quale la condotta apporta puro piacere. L’ adattamento completo
darebbe dunque al tipo ideale di convivenza e cooperazione sociale
quel carattere di universale e preminente desiderabilità, che deve
avere il fine assunto dall’Etica. Lo dà veramente ? Benché a
prima vista possa parere strano il dubbio e inutile la discussione,
bisogna riconoscere che un tipo di esistenza individuale e sociale
nel quale tutta quanta la condotta in tutta la sua esten¬ sione
porti sempre e soltanto piacere, non è, date le leggi
psisologiche conosciute, e non può essere, un fine.universalmente
desiderabile sopra ogni altro. Lascio di discutere se,
supposta una condotta, diciamo così per brevità, totalmente piacevole,
il piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato di coscienza
distinto, per mancanza di quel con¬ trasto e di quell’ alternanza fra gli
stati psichici (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding),
senza della quale anche i godimenti più forti il¬ languidiscono e
vaniscono nella ripetizione abituale; e di considerare se la forma di
vita corrispondente non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche
ogni forma di coscienza riflessiva e di deliberazione vo¬ lontaria,
cioè l’intelligenza stessa e la volontà, al¬ meno nelle loro forme più
elevate riducendo la vita a una sorta di automatismo istintivo, al
quale corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli d’
uomini meccanizza ti. Certo, se si bada clic l’at¬ tenzione attiva è
sempre, in grado maggiore o mi¬ nore, sforzo, e clic lo sforzo è
alimentato princi¬ palmente, se non unicamente, dal dolore e non dal
piacere, bisogna riconoscere che la capacità dello sforzo e l’esercizio
dell’ attenzione tenderebbero a svanire collo sparir del dolore; e il
vigore dell’in¬ telligenza si affievolirebbe; come già si può
osser¬ vare in quelle persone sfaccendate e sonnolente, le quali
abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura — 84
tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo di altri
bisogni, e di aspirazioni diverse. E lo stesso discorso sarebbe da
ripetere a maggior ragione per la volontà. Certamente le
leggi psicologiche conosciute ten¬ dono ad escludere, per le ragioni
accennate sopra a proposito dell’adattamento completo, che un tale
stato possa avverarsi ; ma, dato che potesse attuarsi, non ci sarebbe
nessuna ragione per negare, in forza delle medesime leggi, l’eventualità
se non della soppressione, di un oscuramento progressivo delle
facoltà psichiche più elevate. E allora si presenta subito la questione,
se, ammessa pure soltanto la possibilità che a un tale stato si
accom¬ pagnasse questo effetto, potrebbe una forma di esistenza
siffatta apparire desiderabile sopra ogni altra. 5. — Si
potrebbe dire: Che importa l’oscura¬ mento e anche la soppressione dell’
intelligenza e della volontà, purché sparisca il dolore? E quando
non vi siano altri bisogni e altri desideri che quelli appunto che
trovano già una soddisfazione adeguata, ossia, quindi, non ci sia più
nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni di¬ versi,
non è una tal vita nel suo genere beata ; anzi la sola beata perché é esclusa
la capacità di provare altri bisogni ? Ora che un tale stato
possa, anzi debba apparire — 85 — il più desiderabile
quando si supponga l’adattamento già raggiunto, è fuori di contestazione;
ma qui si tratta di vedere se un tale stato possa essere
preferibile per chi ne ò fuori, e dovrebbe proporsi come scopo di
raggiungerlo. Se, cioè, a chi esercita certe forme di attività possa
parere desiderabile sopra ogni altro un tipo di vita, nel quale per
avventura quelle attività fossero oscurate o sop¬ presse. In questo caso
possono valere l’osservazione notissima del Mill e la ragione colla quale
la con¬ forta ; che, certo, non avrebbero valore nel primo caso
(1). Ma anche lasciando questo aspetto della que¬ stione, non
bisogna dimenticare che appunto perchè il piacere puro è il correlato
subiettivo dell’ adat¬ tamento completo, la medesima condizione di
una condotta totalmente piacevole, — per le ragioni dette a
proposito dell’indeterminatezza nel numero e nella specie dei (ini, rispetto
ai quali l’adattamento (1) « È meglio essere un nomo i nfelice che
un jjj^o.ap,ddi.sfotto : è meglio essere So crate malcontento che un
imbecille beato ». Ora la ragione addotta dal Mill vale per l’uomo, ma
non per l’animale, e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice
graziosa- munte, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille.
E nota infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione
in¬ tera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il
suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che la
conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo felice il
« desiderio ardente di giungervi » che è appunto ciò che <pii importa.
(Hoffding - Morale, VII. 3 tr. fr. p. 116-119).
— 8(i — potrebbe essere raggiunto — può concepirsi
attuata non in una sola ma in più forme di vita fra di loro diverse
; e resterebbe sempre da trovare un criterio comparativo della desiderabilità,
o da am¬ mettere che tutti i tipi di vita, per i quali si
concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini di fini (anche se
la conciliazione fosse ottenuta allo stesso modo che nelle società
animali, cfr. la nota qui sopra a pag. 79), siano ugualmente desi¬
derabili. Il che importerebbe la legittimazione a pari titolo di forme di
condotta fra di loro diverse e anche opposte; e si dovrebbe ricavare
daltronde che dal piacere puro il fondamento della legitti¬
mazione. E qui tocchiamo un argomento il quale si al¬ larga
fuori del campo particolare della dottrina dello Spencer e riguarda nello
stesso tempo una questione più generale: la natura del fine.
6. — Siccome il carattere che si richiede nel fine assunto a
giustificare le norme morali è, come s’è ripetutamente detto, quello
della universale e preminente desiderabilità sopra ogni altro, si
pensa che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo e
supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e al di là, non ci sia
più nulla da desiderare e da cercare. E allora non resta che questa
alternativa : o si cerca un fine il quale contenga e comprenda in
sò tutti i fini ; e prendono forma i fantasmi di
— 87 — felicità, di beatitudine, di perfezione, noi quali si
fd"-'.- figurano definitivamente appagati tutti i desideri, e
scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano appagamento ; oppure si
considera come fine la forma colla quale si presenta alla coscienza
la soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il piacere o la liberazione
dal dolore. Ma tanto 1’ una quanto l’altra delle soluzioni
non sono che apparenti, o si risolvono in una vana tautologia. Porre come
fine la felicità senza deter¬ minare quale sia o in che consista la
felicità di cui si discorre, è certamente un modo per conciliare
verbalmente tutte le differenze di opinioni e supe¬ rare tutte le
difficoltà; ma nella realtà non le concilia e non le supera, più di quel
che valgano a togliere le diversità di opinioni politiche e a
raccogliere i partiti ad unità di intenti certi « or¬ dini del giorno »
in cui si afferma all’ unanimità essere fine supremo per tutti il « bene
della patria » o la « prosperità della nazione » o altre formule
somiglianti. E se si determina in che si faccia consistere la
felicità, quali siano i fini che si comprendono nel fine unico chiamato
con questo nome, allora delle due l’una : o i diversi fini così
compendiati e com¬ presi nel fine unico, sono veramente unificati,
e, perchè ciò sia. occorre che essi possano ridursi ad uno; e
quindi diesi possa dimostrare che uno fra essi è causa o
condizione degli altri, o che tutti dipendono da una medesima condizione
o ordine di condizioni ; e in questo caso la felicità è caratte¬
rizzata o da quel fine o dal conseguimento di questa condizione, che diventa
esso fine, perchè su esso si riversa la desiderabilità di tutti ; e il
ter¬ mine felicità non è che.un duplicato di quel certo fine o di
questa condizione. Oppure i diversi fini non sono clic sommati insieme, e
giustaposti l’uno all’altro, rimanendo in realtà distinti e senza
che si veda la necessità della loro connessione; e allora 1’ unità
non è che verbale, e in realtà invece di un fine, si hanno più fini,
ciascuno nel suo genere supremo. Si dirà che si dà alla
felicità non il senso di un certo contenuto determinato che la
costituisca, ma il senso di appagamento dei desideri, di soddi¬
sfazione dei bisogni, senza clic si definisca quali ne siano per essere
il numero e le specie; nel qual senso si può affermare che la felicità
rimane sempre il fine ultimo pur restandone indeterminato il
contenuto ? E si riesce allora alla seconda alterna¬ tiva, di considerare
come fine ciò che si ammette esservi di comune e di costante nel
raggiungimento di qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma
sotto la quale si presenta la soddisfazione di qua¬ lunque desiderio : il
piacere o la liberazione dal dolore. Ma dire che il fine ultimo è il
piacere è — 89 — come dire che il line
ultimo è il godimento che accompagna il raggiungimento del fine o dei
fini, o che lo scopo dei desideri è.... la soddisfazione dei
desideri. E allora si vede perchè il puro piacere non possa dare un
criterio di legittimazione e di valutazione comparativa dei fini e quindi
delle forme di condotta. Perchè o si prende come criterio la
quantità del piacere, la intensità della soddisfa¬ zione, senza badare
alla natura del desiderio a cui corrisponde, e non è possibile assegnare
un solo desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per due
coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza in momenti diversi. 0
si valuta la soddisfazione secondo i desideri cui corrisponde, e allora
ciò che distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfa¬ zione
ma V oggetto a cui il desiderio si rivolge; non l’effetto soggettivo
gradevole, ma le condizioni che lo producono, non è il godimento del
bene, ma il bene. 7. — Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco
: nell identificare il b ene col piacere ; il fine, cioè l’ordine
di effetti che costituisce l ’oggetto del desiderio, collo stato
soggettivo che è il godimento (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì
vero che un bene di cui si concepisse che nessuno mai potesse
godere in nessun modo, non avrebbe valore di bene; ma è non meno vero che
un godimento del quale non si sapesse assegnare nessuna causa
n o condizione o mezzo atto a produrlo, non
potrebbe mai essere proposto o assunto come scopo di un'at¬ tività
qualesivoglia. Ora quando si parla di un fine desiderabile sopra ogni
altro al quale sia or¬ dinata la condotta, non si può intendere che
un bene, il quale sia bensì, direttamente o indiretta¬ mente causa
o mezzo o condizione di godimento, senza di che non sarebbe bene; ma che
non può consistere nel godimento stesso, ma in un certo effetto o
ordine di effetti determinabile e possibile, che possa costituire
l’oggetto di una ricerca attiva, •cioè di una certa condotta (1).
Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso e quivoco che conduce
a riporre il fine nella feli - cità o nel piacere ; l’equivoco che
questo effetto o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo,
uno stato definitivo, al di là del quale non siano assegnabili altri
fini. Uno stato, o un ordine di effetti definitivo è contraddittorio non
soltanto colle leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col
presupposto stesso fondamentale che si assume di necessità quando si
voglia determinare scientifi¬ camente un sistema di norme. Perchè
qualunque (1) Non altrimenti avviene nel campo speciale
dell’economia. E bensì vero che se non si supponesse la possibilità del
consumo, cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la
ricchezza, questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ;
ma 1’ oggetto a cui si volge 1* attività produttrice e del quale si
cer¬ cano le leggi, è la ricchezza, non il consumo. —
91 — fine rappresentato come umanamente possibile, ap¬ punto
perchè deve essere concepito come un effetto, che si produce, date certe condizioni,
è a sua volta pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo
ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente pos¬ sibile che sia
ultimo, è come pensare chiusa e fi¬ nita a un momento dato la serie della
causazione, abolita e spenta in un effetto che sia stato pro¬ dotto
ogni efficacia causativa ; e allora vien meno ogni ragione di pensare
come dipendente da certi mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto
stesso che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto ogni
fondamento a qualsivoglia determinazione di rapporti tra mezzi e fini, e
perciò anche a qual¬ siasi determinazione di norme. Si dirà
che si intende « ultimo » rispetto alla salutazione, cioè talea cui si
riconosca valore per sé, indipendentemente da ogni considerazione ulteriore.
Ma se si ammette che da quel fine, quando sia rag¬ giunto, dipendono
altri effetti, nell'atto stesso che lo si pensa condizione di tali
effetti ulteriori, la valutazione di questi (che non può essere
esclusa) •muta il valore del fine egli dà nello stesso tempo valore
di mezzo. 8. — Dal che nasce questa conseguenza assai
notevole: che la desiderabilità di un ordine di ef¬ fetti, che si assuma
come fine, non viene tanto dalla desiderabilità che gli si riconosca come
bene. cioè come oggetto diretto e immediato di godimento,
quanto dalla desiderabilità degli effetti, dei quali esso apparisca la
condizione necessaria. E che per¬ ciò, mentre è vano andar cercando quale
sia il fine ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve in una
pura espressione verbale, il fine che può valere come supremo si deve
cercare non nell’uno o nell’altro degli scopi a cui si riconosca
valore per sè, ma in un ordine di effetti, in un sistema di
condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si possa riconoscere
questo carattere appunto di con¬ dizione necessaria, non di alcuni, ma di
tutti quei beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E quindi il
fine che può avere universalmente una deside¬ rabilità superiore a ogni
altro, non può consistere se non in un ordine generale e, si potrebbe
dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione appa¬ risca
necessaria perchè sia possibile universalmente la ricerca ulteriore di
quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso di una gerarchia, della
qiiale segni il culmine, nè nel senso di una grandezza o quantità,
di cui sia il massimo, ma nel senso della precedenza necessaria o della
indispensebilità; per la quale venga a raccogliersi su di esso come
in un unico foco la luce e il calore di desiderabi¬ lità che irraggia dai
fini ai quali apre universal¬ mente la via. E perciò, ammesso
che qualsivoglia fine umano — 93 — abbia, come
ha in realtà, per condizione la convi¬ venza e la cooperazione sociale,
il line che può avere questo valore di precedenza necessaria sugli
altri deve essere di necessità il raggiungimento o il mantenimento di
certe condizioni ili convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una
qualche forma di società. Ma perchè ad una forma di so¬ cietà possa
essere riconosciuto questo carattere uni¬ versalmente, occorre che le
condizioni della sua esistenza abbiano per tutti un valore
potenzial¬ mente uguale : ossia che nessuno dei fini, dei quali
quella forma di cooperazione pone la possibilità e dai quali attinge il
suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa forma, precluso
o impedito a nessuno dei componenti la società. 0, in altri
termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone cercato, ciascuno trovi
nelle condizioni proprie di quella forma sociale la medesima esteriore
possibi- bilità di rivolgere a quella ricerca l’attività pro¬ pria.
che vi trova qualsiasi altro (1). L’analisi ci ha dunque portato a
queste con¬ clusioni : a riconoscere che il limite dell’evoluzione,
1’ adattamento completo, la massima felicità, nè for- (1) Il che
non implica, occorre appena avvertirlo, una ugua¬ glianza nei risultati
ottenuti, o come si dice inesattamente, una « uguale distribuzione di
felicità » la quale supporrebbe, insieme colla condizione notata, anche
una uguaglianza di attitudini, di at¬ tività e di preferenze.
— 94 — nisce un criterio ili determinazione delle
norme, nò basta come principio di giustificazione; a rico¬ noscere
la legittimità del concetto, clic bisogna assumere come fine un tipo
ideale di società ; e a stabilire le esigenze fondamentali, alle quali
questo tipo deve soddisfare. Ed ora è facile vedere per quali
ragioni i l tipo sul quale in realtà lo Spencer ha modellato la sua
società giusta non soddisfaccia a queste esigenze. Gap. Vili. — Il
tipo di società giusta dello Spencer . i). — In un articolo di
risposta ad alcune cri¬ tiche mosse ai « Dati dell’ Etica » lo Spencer
po¬ lemizzando col prof. Means così si esprimeva a proposito del
modo di intendere la giustizia: << A molti sembra ingiusto che la
dura fatica di un bi- folcogli faccia guadagnare in una settimana
meno di quanto un medico guadagna facilmente in un quarto d’ora.
Molti sostengono essere ingiusto che i figli del povero non possano avere
i vantaggi del l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e
defi cenze nelle quote di felicità che alcuni ritrag¬ gono dalla
cooperazione, sicc ome clerivano da ere¬ ditata inferiorità di natura, o
da inferiorità di c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ^
~ ^ cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io la
intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che
— 95 — trasmette alla discendenza
malattie c deformità, l’ingiustizia che infligge alla prole le
conseguenze penose delle stupidità e della cattiva condotta dei
genitori, la ingiustizia che costringe quelli che ereditano delle inc
apac ità, a lottare colle difficoltà clic ne derivano, l’ ingiustizia che
lascia in relativa p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or
- < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6 una
specie di ingiustizia estranea alla mia tesi ». il i cose stab
ilii'-, quantunque in forza di esso, una ' inferiorità della quale
l’individuo non ha colpa produca i suoi mali, e una superiorità della
quale egli non può vantare nessun merito, apporti i suoi benefìzi;
e dobbiamo accettare, come possiamo, tutte quelle disuguaglianze che ne
deri vftrm vantaggi che i cittadini si procacciane
rispettive attività » (1). Ho citato questo passo, non
perchè gli stessi con¬ cetti qui espressi non siano, esplicitamente o
impli¬ citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e la
morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun altro luogo appare piu manifesto
il presupposto che vizia la sua concezione della società ideale.
Assu¬ mendo come elemento del concetto di giustizia — accanto a
quello dell’ uguale libertà — la condi¬ li) Replie to Criticism on « The
Data of Etihcs » in Mitid Jan. 1881 p. 93.
zionc ricavata dalla biologia, che la vita
progre¬ disce c si eleva soltanto a patto che gli individui
superiori godano i vantaggi della loro superiorità e gli inferiori
subiscano i danni della loro inferio¬ rità, egli identifica la
inferiorità fisiologica e psi¬ chica colla inferiorità sociale; la
inferiorità obesi potrebbe chiamare nativa o costituzionale colla
in¬ feriorità clic si potrebbe dire di posizione. Ora, che un
uomo debole non possa vincere le medesime resistenze che uno forte, che
un bambino poco intelligente impari meno e peggio di un in¬
telligente, è naturale e necessario; ma non si può dire che sia giusto nè
ingiusto. Che i figli eredi¬ tino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità
o l’in¬ sensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e che i
primi godano i vantaggi e i secondi sop¬ portino i danni che sono
conseguenza rispettiva¬ mente di questa loro soperiorità o inferiorità
ere¬ ditata, sarà del pari biologicamente necessario, ma non è
ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì giusto o ingiusto rispettare
o violare questa rela¬ zione naturale, soltanto se si considera questa
re¬ lazione come condizione di una elevazione pro¬ gressiva delle
specie che sia assunta come effetto universalmente desiderabile, cioè come
fine. Ma che i figli del contadino non abbiano la pos¬
sibilità di venire istruiti o educati, non dipende dalla costituzione
fìsica e mentale loro propria, ere- — 97 — ditata o
no, ma dipende da una inferiorità sociale, la quale toglierebbe ad essi
questa possibilità anche se la loro costituzione fisica e mentale Cosse
attis¬ sima a questa coltura. Ora, mentre l’analogia della
selezione biologica importerebbe che i figli del con¬ tadino al pari di
quelli del lord potessero porsi allo stesso cimento, salvo a ricavare
dalle loro ri¬ spettive capacità e sforzi frutti maggiori o minori,
la diversità delle condizioni sociali esclude gli uni dalla gara c toglie
non solo la necessita ma la pos¬ sibilità clic l’opera di selezione si
rinnovi tra i superstiti di ogni nuova generazione sull’unico fon¬
damento delle loro rispettive attitudini e attività. Sul che non è
necessario insistere dopo le cri¬ tiche note e ripetute ; ma valga
l’accenno per ri¬ levare che a torto lo Spencer identifica colla
infe¬ riorità biologica, o meglio, costituzionale, l’infe¬ riorità
clic deriva dalle condizioni sociali, e crede che possa valere a
giustificare le conseguenze della seconda, lo stesso fine che invoca a
giustificare le conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla
sfera dei beni conseguibili che è imposta da con¬ dizioni esteriori è
cosa affatto diversa dalla limi¬ tazione clic nasce dalla capacità e
dalle doti in¬ trinseche; e se questa è giusta, posto che si prenda
per fine superiore a ogni altro V elevazione della specie (e dato che ne
sia condizione), quella è giusta soltanto se si considera come fine
superiore quella certa forma ili cooperazione sociale che
la rende necessaria. Anzi quella limitazione d* origine so¬ ciale
che si ponga come giusta per quest’ ultimo rispetto, appare ingiusta per
l’altro. E l’ammettere che sia giusta la condizione « che ciascuno
sopporti i danni della sua inferiorità e goda i vantaggi della sua
superiorità » non include, ma piuttosto esclude 1 altra condizione, a
torto dallo Spencer compresa o conglobata con quella ; che ciascuno
sopporti i danni o goda i vantaggi che sono con¬ seguenza di una
inferiorità o di una superiorità, la quale risulta non dalle sue doti fisiche
e men¬ tali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe cir¬
costanze esteriori. E in verità sarebbe da meravigliare che
lo Spencer non abbia rilevato la differenza, o non ne abbia tenuto
conto, se non si ricordasse che il punto di partenza, il foco centrale da
cui muove e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è, come
s’ò detto in principio, un ideale etico, anzi propriamente sociale e
politico; onde l’intento prin¬ cipale diventa quello di trovare la
giustificazione del suo ideale nelle leggi della vita, e per esse
nelle leggi stesse dell’ universo. l ( h Ora il suo ideale sociale
e politico è in sostanza quello stesso del liberalismo, in cui
crebbe e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto e definito
nelle sue parti quando uscì il « Pro- —
99 spectus » (1800); e perciò nel costruire la sua « So¬
cietà di uomini giusti », per quel che si attiene alla struttura sociale,
egli non fa che supporre rea¬ lizzati i desiderati teorici, o già
riconosciuti espres¬ samente, o ricavati logicamente dai postulati
eco- n omici e politici di quel liberalismo . 11 quale era bensì
arditamente coerente nella affermazione dei principi e dei corollari
riassunti nella formula della giustizia (la uguale libertà per tutti), ma
conside¬ rava o come anteriori ed estranee a questa legge, o come
naturali ad un tempo e conformi ad essa, le dive rsità storicamente date
di condizione econ o- mica degli individui e delle classi socia li. Onde
lo Spencer non tenne conto della disuguaglianza ef¬ fettiva, che
nell’ esercizio di quella libertà, formal¬ mente uguale per tutti, porta
1’ esistenza di quella diversità, che egli credeva giustificata dalle
leggi biologiche . 1 frinii* • Ne segue che mentre nella sua
società ideale egli costruisce l’individuo giusto facendo
astrazione da tutto ciò che nei fini individuali vi può essere di
incompatibile non solo colla cooperazione, ma anche colla simpatia ; n el
costruire invece la so - cietà giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma
di aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato « lo stato
di cose stabilito », ma non fa astrazione da quelle con dizioni che
importano una reale li¬ mitazione diversa nella sfera delle attività é
dei
100 — fini conseguibili dei singoli ; e però
la sua non è una società giusto, ma una società di uomini giusti ;
giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia, cioè, è modellata sulle
esigenze di una certa struttura sociale, nel configurare la quale egli non
tien conto di quelle condizioni che pur suppone soddisfatte nel
formare il tipo dell’ uomo giusto. E cosi si avvera qui una i n eoe
ronz a del genere che si ò accennato più sopra (IV, 8): che le
norme della sua giustizia siano applicate a regolare delle
relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili in grazia di
relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che
sono la negazione del criterio applicato in quelle. Perchè mentre
sup¬ pone che gli individui seguano nella loro condotta una perfetta
imparzialità subordinando alle esi¬ genze della giustizia o dell’ uguale
libertà — fine prossimamente supremo — tutti gli altri fini ge¬
nerali e particolari, suppone poi, come proprie di una tale cooperazione
di uomini giusti, condizioni che sono in tutto o in parte la negazione
dell’im¬ parzialità, e che non esisterebbero se lo stesso cri¬
terio dell’ imparzialità fosse seguito nel costruire il tipo della
società giusta. E in questo senso che, accennando incidental¬
mente altrove all’Etica Assoluta dello Spencer, no¬ tavo come un vizio di
essa non un eccesso, ma piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli
as- — 101 suine abusivamente come
esigenze costanti e uni¬ versali di ogni forma di cooperazionc, e
quindi anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di un certo
momento storico; e pone come dati fon¬ damentali di una cooperazione
regolata dalla legge della uguale limitazione per tutti, delle
condizioni che importano una limitazione disuguale. Stando
così le cose, il raggiungimento o l’ap¬ prossimazione a un tale tipo di
società, non può apparire come fine universalmente preferibile, nè
le norme che esprimono la condotta richiesta da quel tipo possono avere
carattere di universale os- servabilità sopra ogni altra, E ciò da un
doppio punto di vista. Agli individui delle classi sociali
poste, per ef¬ fetto di quella disuguale limitazione, in condizione
di inferiorità, questa inferiorità che non è conse¬ guenza della propria
condotta, deve apparire una menomazione ingiusta dei diritti; agli
individui delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità,
questa superiorità, che parimenti non è conseguenza della propria
condotta, deve apparire, se la coscienza si elevi a una imparzialità
universale e coerente, una menomazione ingiusta dei doveri,
il. — E nasce di qui quel se greto rancore in chi riceve, e quel
senso indefinito di malcontento e quasi di rimorso in chi dà, clic
avvelenano talvolta dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità
— 102 — della beneficenza, se la accompagni il
dubbio che essa non sia se non un compenso parziale e tardivo di
ingiustizie patite e di ingiustizie godute. La simpatia non può
essere schietta dove non regna la giustizia (1); e non si possono
definire le forme e i limiti della beneficenza se non dopo die
siano definite, e siano o si suppongano osser¬ vate le norme della
giustizia; onde la necessità logica che il tipo ideale della società
giusta sia determinato all’ infuori da ogni supposta efficacia
modificatrice che la simpatia e la beneficenza eser¬ citino sulle
condizioni e sulla condotta dei singoli e della società. Soltanto così è
possibile accertare se il tipo di cooperazione assunto come ideale possa
essere universalmente desiderabile, e soltanto così è possibile
determinare dove la giustizia finisca e la beneficenza cominci ; dove
finiscano le relazioni di diritto e dove comincino le relazioni di
simpatia. * ^ _ Ora il tipo di società ideale dello Spencer
pre- i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva
inevitabil- mente dal primo; di supporre realizzate le condi-
yCH&Ue'ìt- f zioni della perfetta simpatia
in una società nella (1) Questo si riflette con tutta chiarezza
nella pratica quando si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei
quali non cada dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano
relazioni d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie
che sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e
gli obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e
tingono d’ altro colore i rapporti di simpatia.
103 quale non sono realizzate le condizioni della
giu¬ stizia. La sua società è una società più o meno ingiusta di
uomini perfettamente simpatetici ; dalla quale egli ricava per un verso
le norme della giustizia, e per l’altro le norme della simpatia;
invece di essere una società giusta di uomini giusti, quando si tratti di
determinare le norme della giustizia ; e una società giusta di uomini
perfetta¬ mente simpatizzanti quando si tratti di determinare le
norme della simpatia e della beneficenza. Ma anche supposto che per
questa guisa la perfetta simpatia venga a sanare gli effetti delle
inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il tipo che ne risulta
presenterebbe sempre questo difetto: che la ricerca e il raggiungimento
di alcuni dei fini, ai quali la cooperazione serve, apparirebbe per
una parte dei cooperanti subordinata alla be¬ nevolenza di un’ altra
parte. Il qual difetto baste¬ rebbe per togliere, nel giudizio di una
coscienza imparziale, a quel tipo di cooperazione il carattere di
univers ale preferibilità. 12. — Ma il difetto era, come s’ò detto,
dato il presupposto dello Spencer, inevitabile. La simpatia è pe r
lui il m ezzo di conciliazione dell’egoismo col l’altruismo. M a poiché i
limiti rispettivi dell’e- goismo e dell’altruismo sono segnati dalle
esigenze del suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo la
condizione dell’adattamento psicologico dei sin-
— 104 — goli a queste esigenze. Ed ò
caratteristico a questo riguardo il latto che il capitolo, nel quale si
tratta dello svolgimento progressivo della simpatia come l’attore
della conciliazione , porta lo stesso titolo e sostituisce nei « Dati »
il capitolo smarrito e ag¬ giunto poi in appendice, che ho citato più
sopra (v. nota a pag. 70), nel quale si cita come esempio di
conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo l’adat¬ tamento alle esigenze
della vita sociale delle api e delle formiche. Per questo rispetto direi,
se non sembrasse un paradosso, che il grande assertore e
propugnatore dell’individualismo, è in fondo, senza che se ne accorga, un
difensore della subordinazione totale e definitiva dell’individuo a un
tipo di coo¬ perazione sociale, che egli considera bensì come la
condizione necessaria alla vita più elevata delPin- dividuo e della
specie, ma che in realtà vincola il grado di elevazione della vita di un
gran numero se non di tutti gli individui, alle esigenze di una
certa struttura economica. E quando egli combatte l’intervento
della società nel regolare i rapporti economici, in nome dei
diritti dell’individuo, dimentica che una parte con¬ siderevole di quei
diritti, sono in realtà diritti di alcuni soltanto, e non di tutti, c che
questa dispa- 0 rità ha la sua radice nella costituzione economica,
che lo Stato, come egli lo vuole, interviene pure a sancire e a
difendere. La quale osservazione, —
105 — giova notarlo, non ■vale per sè nè prò nè contro il
cosidetto Socialismo di Stato; vale soltanto a provare che
l’individualismo dello Spencer non è, come pare, un individualismo
universale, ma un individualismo particolare. Cosi, i l difetto
capitale del tipo di società dello Spencer come in genere del cosidetto «
Stato di diritto » nasce non da quel che afferma, ma da quel che
dimentica ; non dal riconoscere e difendere le esigenze della uguale
libertà per tutti, ma dal non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o
dal- 1 omettere, come se fossero soddisfatte, mentre non sono, le
condizioni che rendono possibile 1’ uguale libertà (1). E, ad
esprimerlo in termini kantiani, il difetto si riduce a questo: Dove vi è
cooperazione con effettiva parità di diritti, ciascuno dei
cooperanti ha ad un tempo riguardo a qualsiasi degli scopi della
cooperazione, per un rispetto ragione di mezzo e per l’altro ragione di
fine. Se invece le esigenze della cooperazione interdicono a qualsivoglia
dei (1) Nota il Loria che quando si grida contro la concorrenza
come causa di una infinità di mali, si attribuisce alla concorrenza
la produzione di effetti che nascono « dalla mancanza di
concorrenza, cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto nel
campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza benefica.
Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il ri¬
sultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza di
concorrenza fra lavoratori e capitalisti ». ( Cost. Ec. odierna 0. 11. 3.
6. ; p. 175, cfr. anche p. 60 e passim). 7
— 100 — cooperanti la ricerca di una parte dei
beni, a cui ò condizione necessaria la cooperazione di tutti, per
questa parte 1’ escluso ha soltanto ragione di mezzo, e non ragione di
fine. Il che avviene appunto, malgrado il riconosci¬ mento
formale, o meglio, verbale, della uguale libertà, anche nella società
ideale dello Spencer. La quale perciò non può aver valore di
universale e preminente desiderabilità perchè non soddisfa alla
condizione richiesta : che tutti i sodi trovino nelle condizioni di
esistenza della società la mede¬ sima o equivalente possibilità esteriore
di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei
beni, ai quali la cooperazione sociale è mezzo. Questo è il
postulato caratteristico della univer¬ sale desiderabilità di una forma
di convivenza, ossia è il postulato caratteristico della giustizia;
e supporre una società giusta di uomini giusti equivale a supporre
riconosciuta e applicata uni¬ versalmente e costantemente in qualunque
specie di azione o di influenza che si eserciti, così dalla società
come da ciascuno dei singoli, l’esigenza di quel postulato.
Gap. IX. — Ufficio e limiti (li una costruzione scien¬ tifica dell’
Etica. 13. — La società giusta così intesa non rappre¬ senta
dunque un tipo definitivo della vita più — 107 —
elevata possibile, analogo ai tanti regni dell’Utopia che la
fantasia morale ò venuta fingendo nei diversi tempi. Anzi per questo rispetto
una mag¬ giore o minore elevatezza, complessità o intensità di
vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita nel postulato nè si
può ricavare da esso ; e si può concepire (e non ne mancano in effetto
gli esempi) una forma di società in cui sia, almeno parzialmente^
l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la quale sia tuttavia
meno giusta di un’altra più semplice e meno civile. Appunto perchè la
giustizia riguarda la universale possibilità di cercare i beni, ai
quali è condizione la convivenza e la coopera¬ zione sociale, e non
include che questi beni siano di molte o di poche specie, di maggiore o
di minor pregio. Onde è pienamente compatibile col
postulato anche la concezione pessimistica della vita ; perchè,
anche dal punto di vista del pessimismo, uno stato di giustizia, che è la
condizione necessaria della universalità della simpatia e quindi della
compas¬ sione, deve apparire preferibile a ogni altro. E se anche
si riguardasse come fine ultimo la negazione universale della volontà di
vivere, lo stato di giu¬ stizia apparirebbe la condizione più
favorevole perchè 1’ uomo prenda coscienza della necessità naturale
c inevitabile della propria infelicità, spo¬ gliandosi dell’illusione che
essa sia occasionale e
— 108 — contingente, ed effetto di malvagità
degli uomini o di iniquità degli istituti sociali. E questa desi¬
derabilità dello stato di giustizia anche rispetto al pessimismo è forse
una conferma non trascurabile del valore di universale preferibilità che
gli si è riconosciuto, e a un tempo della sua indipendenza da ogni
particolare concezione metafisica. Adunque, poiché uno stato di
giustizia non è caratterizzato da altro se non dall’ ipotesi che le
esigenze di quel postulato siano soddisfatte, non si può nè si deve
pretendere di ricavare dal po¬ stulato un contenuto determinato, ma
soltanto la forma generale delle norme. Il contenuto specifico deve
essere ricavato dai fini, ai quali si riconosce o si suppone che la cooperazione
sociale sia o debba essere mezzo, e in relazione al quali si
possano definire le condizioni richieste dal postulato della
giustizia. Quali siano questi fini non si può stabilire se
non o per constatazione o per ipotesi. Per consta¬ tazione, quando
corrispondano alla osservazione della realtà psicologica in un dato
momento sto¬ rico, ossia in una forma di civiltà. Per ipotesi,
quando si voglia cercare preliminarmente quali sa¬ rebbero le condizioni
richieste dalla possibilità di ciascuno dei fini isolatamente preso o di
un gruppo. (Ed è inutile a questo proposito insistere qui sulla
eventuale opportunità o necessità di ricorrere a —
109 — tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come questa,
nelle quali non è possibile la sperimentazione). 14. — Ma tanto
nell’uno quanto Dell’altro caso le condizioni che se ne ricavino e che
vengano sta¬ bilite come proprie del tipo di società giusta con¬
siderato, presentano questo carattere : che non sono date, ma costruite,
che non sono reali, ma ideali. Ora, se noi determiniamo quali siano le
norme di condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste norme
esprimeranno quale sarebbe il modo di ope¬ rare nella supposizione che
esse siano già date e reali, e non quale sia il modo di operare che
tende a realizzarle, mentre sono date condizioni piu o meno
diverse. La prima determinazione è oggetto di un’ Etica Pura
: la seconda di un ' Etica Applicata, nella quale si consideri come fine
il raggiungimento delle con¬ dizioni ideali che sono assunte nell’ Etica
Pura, e si stabilisca per approssimazione quale sia in un dato
momento storico la condotta sociale e indivi¬ duale, che, nei limiti
necessariamente imposti dalle condizioni reali date, ò più atta a
favorire la tra¬ sformazione di queste nella direzione segnata da
quelle. Soltanto così l’Etica può evitare un errore del
genere di quello nel quale cadevano gli economisti della scuola Classica
; i quali, dopo aver supposto l 'homo oeconomicus mosso unicamente
dall’interesse 110 — personale,
il che avevano diritto di fare, lo consi¬ derarono poi come reale e die
dero valore di leggi n aturali e necessarie alle conclusioni ricavate
da questo e dagli altri dati astratti supposti (1). Ora appunto
percliò le condizioni soggettive e oggettive dell’ homo iustus e della
societas insta, sono supposte e non reali, le norme che esprimono quale
sarebbe la condotta dell’ homo iustus e della societas iusta non
sono immediatamente nè integralmente appli¬ cabili in condizioni diverse
dalle supposte. I « do¬ veri » e i « diritti » dell’ uomo giusto nella
so¬ cietà giusta non coincidono coi doveri e i diritti dell’ uomo
storico in determinate condizioni sto¬ riche; alla stessa guisa che i « diritti
naturali » dei filosofi dello stato di Natura non coincidevano coi
diritti positivi delle società in cui vivevano. Ma se si dà valore di
fine all’attuazione delle con¬ dizioni proprie della societas iusta, i
doveri e i di¬ ritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al
quale si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi il
sistema di doveri e di diritti che vale come giusto in una società reale
data. Alla stessa guisa, se la costituzione di una società foggiata in
con¬ formità all’ipotesi dello Stato di Natura e del Con¬ tratto,
si fosse riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed evitando la
confusione fra giustifica¬ ci) Cfr. Ch. Gide. Principes d’ éc.
poi. p. 20-22. - Ili —
zione etica e spiegazione storica) come fine da rag¬ giungere invece che
come stato originario, il « di¬ ritto naturale » ricavatone
sarebbe legittimam ente apparso come il tipo idealmente giusto, al
quale il diritto positivo doveva avvicinarsi e adattarsi.
Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare i dati ipotetici coi
dati reali, c la pretensione uto¬ pistica di applicare direttamente e
integralmente le conclusioni ricavate dai primi alle relazioni che
sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un tempo e la 1 (
frittimi t à della distinzione, e la prio¬ rità logica dell’Etica Pura
surf mica Applicata (1). 15. — Raccogliamo in breve i resultati
dell’ a¬ nalisi. 0 Una scienza
normativa etica non differisce dalle altre scienze precettive se non pe ^
il valore, che si ^ attribuisce al line suo: il quale deve essere des
i¬ d erabile univ ersalm ente jyjjma e_a preferenza di ogni
a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo stesso carattere alle
norme ricavate da esso. Questo fine universalmente preferibile non nuò
essere che un fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no
anche valore per sè) sia mezzo o condizione di tutti i fini che si
considerano come « ultimi » ; e quindi non può essere che una forma di
convivenza e di */ . amw* (l) Per maggiori chiarimenti
sulla relazione fra le due Etiche cosi intese e sulle parti di ciascuna,
mi sia lecito riferirmi a quanto ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni
ecc. » già citati. — 112
— coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli
possa riconoscere tale requisito. Ma una società siffatta ò supposta, non
reale, e le norme di con¬ dotta che se ne ricavano regolano delle
relazioni che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono perciò
applicabili direttamente a relazioni più o meno diverse. Tuttavia la loro
determinazione è non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal
punto di vista scientifico alla determinazione delle norme che debbono
regolare le relazioni più com¬ plicate della realtà ; necessaria dal
punto di vista etico alla giustificazione di queste norme ; perchè
esse sono valide in quanto esprimono ravvicina¬ mento, nei limiti del
possibile, di queste relazioni reali a quelle relazioni ideali. Il che
viene a dire che l’Etica Pura fornisce all’Etica Applicata il
criterio per determinare le norme, e il valore che le giustifica.
16. — Ma non bisogna dimenticare che le norme, sia dell’Etica Pura,
sia dell’Etica Applicata, hanno il valore che si assegna a loro, nella
ipotesi fonda¬ mentale che si accetti come valido e fuori di conte-
stazione il postulato della giustizia. Ossia hanno valore se si suppone
che ogni « socio » riconosca che una forma di convivenza e di
cooperazione nella quale ciascuno abbia, quanto alle limitazioni esterne,
valore di fine a pari titolo di qualunque altro è preferibile a una forma
di cooperazione — 113 — nella quale una parte dei
<? socii » abbia, per uno o più rispetti, soltanto valore di mezzo e
non di fine. Quindi, è bensì vero clic l’assunzione di
quel postulato è la condizione necessaria all’ universale
riconoscimento della norma, e clic perciò, se si pone come caratteristica
della norma morale 1’ u- niversalità, rinunciare a quello vuol dire
rinunciare a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare chiaramente
e senza sottintesi che il sistema di norme per tal guisa stabilito ha,
come qualunque altro sistema di norme, del quale si richieda una
giustificazione, valore ipotetico ; e che perciò questo valore ò
incontestabile solo in quanto si riconosce incontestabile il
postulato. Appare di qui che è vano e illusorio cercare la
giustificazione di una norma morale nelle leggi | naturali (i). Perchè
ciò che giustifica una norma di condotta non è la naturalità, ma la desiderabilità
dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse possono apparire
giuste od ingiuste secondochè si assumano come universalmente
desiderabili o no i resultati, ai quali la conformità della
condotta / ' fi 1 affo irafic-li itr [v yJ.tA
ttfilk t**' he* ìtU 'o jqie j. (1) La conoscenza delle leggi
naturali suggerirà i mezzi neces¬ sari a raggiungere un fine; e darà modo
di giudicare della come- yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto
; ma non serve a dar valore di universale desiderabilità a un ordine di
effetti, per il solo fatto che ce ne riveli la produzione « naturale
». — 114 — a quelle leggi conduce, o ò creduta
condurre. Può essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere o
no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in ultimo, l’essere o no
presenti ed efficaci nella co¬ scienza umana certi bisogni, desideri,
aspirazioni, credenze), sia un portato necessario della natura
stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze umane, si siano, rebus
ipsis dictantibus, modellate cosi da condurre a riconoscere nella
osservanza delle leggi naturali un valore di giustizia e di bontà;
ma anche in questo caso non ò la naturalità, che ne fa ammettere la
giustizia e la bontà, ma è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità.
Onde per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano possibili,
almeno teoricamente, più Etiche diverse; possibile, per esempio, (sebbene
l’accoppiamento esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiu¬
stizia, quando si assuma come postulato la prefe- ribilità di una
comunione sociale in cui una parte non abbia che diritti e un’altra non
abbia che do¬ veri. Benché allora 1’ Etica si sdoppierebbe in due
Etiche diverse, anzi opposte : l’Etica degli uomini- fini c l’Etica degli
uomini-mezzi; o, per usare le parole del Nietzsche, la Morale dei padroni
e la Morale degli schiavi ; e la medesima condotta sa¬ rebbe,
seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri, ingiusta. Che
una « giustizia » di questo genere ripugni — 115 —
alla psiche del socius per una ragione analoga a •quella per la
quale ripugna alla psiche dell’ uomo logico ammettere che un rapporto tra
due cose o fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è
credibile; (sul presupposto di quella ripugnanza, si fonda, io credo, la
giustificazione etica della coazione e delle sanzioni). E certamente
rimane aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno ai
problemi che riguardano il come e il perchè il postulato che assumiamo
possa e debba essere ac¬ cettato ; e se alla esigenza che esso esprime
si possa o si debba assegnare un ufficio, e quale, nella
interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo e della storia. Ma da queste
indagini, le quali sono di natura metafisica, la costruzione scientifica
del- l’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi
indipendente, per una ragione analoga a quella per la quale l’igiene è e
si mantiene indipendente da ogni questione intorno al fondamento e al
valore del postulato assunto da lei, e dal quale deriva il valore
normativo dei suoi precetti: — che un or¬ ganismo sano sia preferibile a
un organismo ma¬ lato. — Perciò, finché si rimane nel campo
della ri¬ cerca scientifica, la sincerità richiede che, anche
nell’Etica, malgrado ogni interiore certezza, questa condizionalità del
valore delle norme sia esplicita¬ mente riconosciuta, e che anche nei
termini si « — 116 —
eviti 1 ’ equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni pretensione
a un valore che non sia condizionato al presupposto assunto.
Per questa ragione, oltreché per fissare rispetto alla dottrina
dello Spencer le differenze notate nel modo di intendere il fine, e di
concepire la società * giusta e 1 ’ uomo giusto, e la
priorità non soltanto logica ma giustificativa di un’Etica rispetto
all’altra, LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini « Etica
Asso- ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura
V'.',:r , ì '■ pvi n l iuta i v a » i ieri mmi « e~=r . 1
", della giustizia ed Etica Applicata della giustizia ». (^ 3 ;
n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od
'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le norme di
condotta nell’ ipotesi che, osservate pre¬ liminarmente le condizioni
della giustizia, fosse assunto come fine l’adempimento delle
condizioni richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero due
ulteriori sezioni dell’Etica : l’ Etica Pura della Simpatia e 1’ Etica
Applicata della Simpatia. della J **1
»
—-PER UMA SCIENZA FORMATIVA MORALE * -
\
1
PER UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE A leggere questo titolo,
quelli che il Varisco ha chiamato felicemente « i filosofi dell’ oramai»
e quegli altri che si potrebbero chiamare i girasoli della
filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma non in tutto) c’è da
scommettere che sorrideranno. — Non è « oramai » pacifico che di una
scienza della morale non si può parlare? E vale la pena di perdere
il tempo attorno a un problema « oltre¬ passato »? — Io mi rassegnerò a
lasciarli sorridere; ma non son persuaso dell’ oramai, e trovo che
il problema è tutt’ altro che superato. La quale per¬ suasione per
altro non garantisce nulla, pur troppo, rispetto all’ altra faccenda del
perder tempo ; per¬ chè il tempo si può perdere, e far perdere,
come sappiamo benissimo tutti, anche trattando di ar¬ gomenti non «
oltrepassati ». 'Dico dunque che il problema, almeno nel modo
nel quale credo che debba essere posto e ho cer¬ cato di porlo, è più
vivo che mai e di interesse capitale così per l’Etica come per la
Filosofia del diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se do-
8 — 122 — vrò, richiamandomi a cose già
dette, parlare, più spesso che le buone regole non consiglino, in
prima persona. • • 1. — Quando sostengo la
possibilità e la legit¬ timità di una scienza normativa morale, non
in¬ tendo che una tale « scienza » possa o debba so¬ stituire la
metafisica, e bandirla proprio da quel campo che è il vero vivaio dei
problemi metafisici, il campo delle idee e dei sentimenti morali. E
nem¬ meno che possa pretendere di costruire la morale , « F unica
vera morale » erigendo a norme della condotta certe leggi naturali cosmiche,
o biologiche o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si
presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho sostenuto e sostengo è
diversa. Una scienza normativa etica, non può, al pari di
qualsivoglia scienza pre¬ cettiva, consistere in altro che in u n sistema
di re ¬ l azioni e di legg i, le quali hanno valore di norme da
seguire nell’ ipotesi che sia assunto come fine quel- F effet to o
quell'ordine di effetti, del quale esse ’-ggi esprimono le condizioni e i
fattori. Ma dibo¬ sco dalle altre, perchè s uppone che al fine suo
[MJLjcTalfA Ò)lCJUjLt> 'ittl- ,
del quale esse ’Sl'Kp tkf si a rico n osc iuto
un valore di universale pref eribilità e precedenza sopra ogni
altro fine. Perciò una determinazione scientifica di norme
etiche richiede due condizioni : l.° Che il fine sia
— 123 — umanamente possibile; cioò tale che se ne
possa stabilire la dipendenza condizionale da una certa forma di
condotta collettiva e individuale. Di qui dipende il carattere
scientifico della costruzione ; perché la relazione che lega le norme con
quel fine potrà essere lunga, complicata e difficile, ma non
richiede ad essere conosciuta altri mezzi che quelli di una indagine
scientifica. 2.° Che sia ammesso come postulato che il ri¬
conoscere al fine assunto valore di universale pre- feribilità e
precedenza rispetto a qualsivoglia altro fine umanamente possibile, è un
'esigenza morale. É ovvio di per sè che se si ricusa di
ammettere questo postulato o se ne nega la legittimità, la de¬
terminazione delle norme di condotta richieste dal fine contemplato non
perde nulla del suo carattere scientifico ; ma le norme non hanno valore
morale. •Ossia, il valore morale delle norme così ricavate ò
relativo alla accettazione del postulato; e la de¬ rivazione scentifica
di un sistema di norme dal fine in discorso non ò, a rigor di termini, la
scienza della condotta morale; ma la scienza di una certa condotta;
la quale è la condotta morale, se si am¬ mette e in quanto si ammette quel
postulato. Ma è altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o
sarebbe al tutto arbitrario e fuori di proposito, l’attribuire in ipotesi
al fine un valore che nes- ’ v '’’ suno fosse disposto a
riconoscergli, e assumere come Ua esigenza morale una esigenza che
non trovasse nella */ r f>' r \ c < ’• ' a • fi «.e ^ 0
$/» Uiv - — 124 — l Vt
p*|Ut-U4« ^vw * realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò
che ho- cercato di porre in chiaro in primo luogo quale fosse
l’esigenza caratteristica del valore morale di una norma ; poi, se si
potesse assegnare un fine umano, e quale potesse essere, che rispondesse
a queste condizioni. Non è il caso di ripetere il già detto
(1); qui ne ricordo soltanto le conclusioni : — che l ’esi- genza
che assum o, e, credo aver dimostrato, legit¬ timamente, come
caratteristica di una norma mo- r ale ò quella di una universale
giustizia ; e che il fine che soddisfa a questa esigenza non può
essere che una forma di società umana tale, che tutti i sodi trovino
nelle sue stesse condizioni di esistenza la medesima o equivalente
possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di
qualsivo¬ glia dei beni ai quali la convivenza e cooperazione
sociale è mezzo. — Supponendo dunque ammesso il postulato sopra detto,
non ho fatto e non faccio una ipotesi arbitraria; poiché Tesigenza della
giu¬ stizia, alla quale il postulato fa appello, è la più profonda
e più tenace e più incoercibile dell’uomo in quanto è socius, cioè
in quanto è soggetto di moralità e considera se stesso, ed è
considerato, come persona a pari titolo di ogni altro socio.
(1) Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a quello clie che lo
precede nel presente volume, e a un altro studio : Prolego¬ meni a una Morale
indipendente dalla Metafisica, Pavia, Biz- zoni, 1901.
— 125 — Tuttavia per quanto possa
parere ed essere le¬ gittimo prendere per concesso qu esto postulato,
non bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chia¬ ramente ,
che il fine e le norme corrispondenti hanno quel valore che si
attribuisce a loro, soltanto nell’ ipotesi che lo si accetti come valido
e fuori di contestazione. Se non 6 ammesso, ò vano pretendere
clic la costruzione normativa valga a farlo accettare o possa
obbligare ad accettarlo. Essa non può che mostrare la coerenza delle
norme proposte col fine assunto, e di questo colla esigenza della
giustizia ; e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente
ammettere questa esigenza senza ammettere il va¬ lore di universale
priorità attribuito al fine, e quindi alle norme. Ma che l’esigenza
invocata sia ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato di
fatto che la costruzione normativa trova, se c’è; ma che non pone essa,
ne per sò vale a mutare. 2. — Adunque la scienza normativa morale
così intesa si riduce alla determinazione delle norme di condotta
valide per una coscienza che anteponga a ogni altra esigenza l’esigenza
della universale giu¬ stizia. Se in ipotesi volesse determinare le
norme di condotta per una coscienza per la quale valga come suprema
l’esigenza egoistica, le norme risul¬ terebbero diverse. Ma il
procedimento sarebbe il medesimo ; la deduzione sarebbe, o si può
concepire *1 lyO che
potrebbe essere, ugualmente ragionata e scien¬ tifica. E del pari se si
assumesse come regolatrice l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia
incon¬ dizionata di sò agli altri, o qualsivoglia altra esi¬ genza
e un fine possibile corrispondente. Di qui si vede quanto sia
superficiale c vuota di significato l’opinione tante-volte ripetuta, e
che forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto gran rumore,
che la ragione non ci comanda che l’egoismo. La ragione per sè non
comanda nulla ; né l’egoismo, nè l’altruismo, nè la giustizia. La
ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che servono a conservar la
vita a chi la vuol conser¬ vare, a distruggerla a chi la vuol
distruggere; ad¬ dita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le
vie della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli uomini
senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè più « razionale »
dell’altruismo, nè il regresso più razionale del progresso, nè la
conservazione del- l’individuo più razionale di quella della specie, nè
1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della col¬ lettività.
Razionali non sono i fini, ma le relazioni dei mezzi ai fini (1).
Ed è così ragionevole che dia la (1) Dire che la ragione non
consiglia che 1’ egoismo equivale a dire che una condotta non egoistica
non si può ragionevolmente giustificare ; ossia viene a dire una di
queste due cose : 0 che di un fine non egoistico non si possono assegnare
mezzi possibili, e — 127 — vita per un’idea chi
pregia più l’idea che la vita, come che taccia la verità per un ciondolo
chi ama più i ciondoli che la verità. Ma forse dicendo così
si è ancora giusti verso la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso
della ragione può avere, come non dubito che abbia, una efficacia
indiretta nella valutazione dei fini, non è dubbio che questa efficacia
si esercita in favore di quei fini e di quelle norme che rispondono
alla quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a
rag¬ giungerlo ; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza
umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine dell’
operare nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia altra cosa,
dal momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad esso indifferente.
Oppure che un fine non egoistico non è mai fine per sfi, ma ha bisogno di
essere giustificato da un fine egoistico al quale sia mezzo o condizione.
Ma il valore per sè di questo fine egoistico ultimo, al quale si riporta
la giustificazione, non può es¬ sere alla sua volta giustificato, ma deve
essere un dato di fatto reale o supposto ; il quale dunque, appunto per
ciò, è fuori di ogni ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in
discorso è al¬ lora non che « la ragione consiglia l’egoismo » ; ma che «
gli uo¬ mini sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini
ai quali soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici) ; e
quindi, finché sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole
altra condotta all’ infuori di quella suggerita dall’ egoismo ».
Sapevhm- celo ; ma non vuol dire che l 'essere egoisti sia più
ragionevole die il non essere. D’altra parte, posto che gli
uomini fossero inevitabilmente egoisti, anche il precetto o il consiglio
di non seguire la ragione, dovrebbe, per avere valore pratico, fare appello
in ultima istanza a in fine egoi¬ stico, nè più nè meno di quel che
farebbero nello stessè caso i con¬ sigli della ragione. Con questo bel
risultato : che gli uomini rinun¬ cino ad essere ragionevoli per....
continuare ad essere egoisti. tendenza caratteristica
dell’attività razionale : l’uni¬ versalità. Ora nel campo dell’attività
pratica il fine del quale soltanto si può concepire universale il
raggiungimento, e la norma, della quale soltanto si può concepire universale
V osservanza, sono un fine e una norma conformi all’esigenza della
giu¬ stizia (1). Ma, tornando al nostro argomento, anche il
ri¬ conoscere che il fino e le norme determinate in conformità al
postulato hanno, e possono avere essi solamente, la nota razionale dell’universalità,
non ne toglie il carattere necessariamente e insupera¬ bilmente
ipotetico; perchè se il loro valore si fa dipendere da questa loro
universalità, si prende per concesso che l’universalità sia assunta
come criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra- (1)
iSon trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione che non
solo l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una regola di
condotta, che si possa concepire nei rapporti tra gli uo¬ mini universalmente
e costantemente osservata, senza contraddizione, o senza che sia
necessario supporla subordinata alla sua volta a una norma di giustizia.
Perchè sia possibile l’abnegazione e la ri¬ nuncia incondizionata di sè
agli altri, bisogna che gli uni si sa¬ crifichino, e gli altri o qualche
altro accettino il sacrifizio ; cioè che gli uni seguano la massima dell’
altruismo, e gli altri o qual¬ che altro quella dell’egoismo. Se poi si
ammette che nessuno debba poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il
sacrifizio si riduce a un tacito scambio di servigi reciproci), bisogna
che la condotta altrui¬ stica di ciascuno non impedisca o limiti una pari
condotta altrui¬ stica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla
sua volta sia governato da una norma di giustizia.
— 129 — zionalc e teoretica dell' universalità la
coscienza faccia una stima pratica, attribuendole un valore e un’
autorità superiore ad ogni altra esigenza. Concludendo: la scienza
normativa etica, alla quale mi riferisco, è la scienza della condotta
ri¬ chiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se si
riconosce come caratteristica del valor morale di un fine e delle norme
che ne dipendono una esigenza diversa, o se si pone come congruo ad
essa un fine incongruo, o si assumono come con¬ dizioni conformi
all’esigenza di una universale giu¬ stizia delle condizioni clic negano o
limitano questa universalità, le norme riconosciute e accettate
come morali saranno diverse. 3. — Ma non concluderebbe nulla
contro la tesi che difendo l’opporre che le norme o alcune delle
norme in effetto tenute o seguite come morali sono diverse o contrarie a
quelle proposte e ricavate in conformità al postulato assunto. Perchè qui
non si tratta già di esporre (piali sono le norme accettate, o di
farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bi¬ sogna ammettere per
accettarle; ma di determinare quali sarebbero le norme della condotta
morale nel- l’ ipotesi che si accetti il postulato. Insomma
si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa ne segua. Ma per negare
valore scientifico a una tale co¬ struzione ipotetica bisogna negare la
dipendenza — 180 — condizionale del fine assunto da
una certa condotta collettiva e individuale; e per negarle valore
mo¬ rale (1), bisogna negare il valore morale dell’esi¬ genza, o
ammettere che essa è o dove essere subor¬ dinata a un’esigenza diversa.
Finché non si giu¬ stifica nè l’una nè l’altra negazione, il
dichiarare « oltrepassato » il problema vale poco; e il sorri¬ dere
vale anche meno. Perchè esponendo questo concetto io non mi
sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possi¬ bili; sopratutto
quelle che fanno capo alla afferma¬ zione comune della impossibilità di
una determi¬ nazione di norme morali che non si fondi sopra una
dottrina metafisica. Questa questione anzi ho esaminato di proposito, e
le conclusioni di quell’ana¬ lisi non furono confutate. Avrei dunque, «
in tesi di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo della
prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi dissente
dalle opinioni stabilite che ha torto; e deve rassegnarsi a battere e
ribattere per tutti i versi lo stesso chiodo. ì. — E prima
di tutto occorre qualche parola su quella che si potrebbe chiamare la
tesi scettica, (,1) Che essa possa e debba aver valore anche dal
punto di vista del Diritto è cosa evidente ; ma come c quanto non sono
questioni da risolvere cosi di sfuggita. — 181
— della impossibilità di una qualsiasi determinazione di
norme morali. — Il fatto etico è contingente, multiforme e
va¬ riabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni ten¬ tativo di
determinazione razionale. Oltredichè esso dipende dal sentimento e dalla
volontà e non dalla conoscenza, e non si può ricavare da un processo
di deduzione logica. — Questa tesi ha il grave torto di confondere
la morale colla mora lità ; confusione sulla quale dovrò tornare
anche più innanzi. « Il fatto etico ò variabile ». Certamente. E
il fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò esso pure
variabile? E forse perciò non si stabili¬ scono nonne giuridiche
determinate e precise, e non si considera questa determinazione come
un’e¬ sigenza della vita sociale, e non si misura dalla sua
precisione e coerenza il progresso della vita e della coscienza giuridica
? E non è un luogo comune la lode fatta a Roma di maestra del diritto ?
Non si venga a dire che il f atto "iuridico riguarda solo la
non, come la inorale, anche e sopra tutto la interna ; qui si
fa questione, anche per la morale, appunto, della con¬ d otta ester
na, nella quale la moralità interiore deve pur tradursi ; ed è assurdo
dire, per esempio, che non ha senso il precetto « non frodare », e
vano cercar di determinare in che la frode consista, per- La.
•H. i tìtou -
— 132 — w/# i-yW t
Aj.oiU? dolori* ché la frode è, forse più che
qualunque altra cosa al mondo, contingente multiforme e variabile.
È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo piuttosto che in un
altro, dipende dal sentimen to e dall a vo lontà, e non dalla co noscenza
del pre- 1 CJA k> W <Mj aI* VtU'f’N®
. j r ‘ r , * cetto ; e che non si può dedurre da nessuna com¬
binazione di premesse l’azione. Nessun congegno di premesse, nessun
processo logico, nessun sistema di conoscenze pone in essere la benché
minima cosa ; .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre
fin g iudiz io, non un ’azion e ; nella morale come in qua¬
lunque altro campo; l’azione., potrà.. o non potrà seguire, secondo che
le disposizioni sentimentali c. volitiv e sono tali o tali altre; potrà
anche seguire senza che ci sia il giudizio. Verissimo e
giustissimo. Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui è
questione non di fare, ma di sapere quel che con¬ venga fare, chi si
proponga e ammesso che si pro¬ ponga un certo fine. Ora lo stabil ire
queste rela¬ zioni tra un certo fine_e certe operazioni necessarie
a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della volontà ; e io spero
che nessun voluntarista vorrà sostenere che è indifferen te a chi vuol
andare, po¬ niamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada per
arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza nè di un certo effetto, nè
dei mezzi, ciò che fa vo¬ lere l’effetto e volere i mezzi, non toglie
nulla al- Pufficio specifico della conoscenza; anzi, e appunto
— 183
— perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema di norme
di essere per sè inefficace a muovere Fa¬ zione non ha senso ; come non
avrebbe senso pre¬ tendere che una formula chimica produca essa il
composto del quale indica la combinazione. L’ uf¬ ficio delle norme
morali, come di ogni altro sistema di norme qualesivoglia, non può essere
che un uf¬ ficio informativo, non formativo ; di guida, non di
stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli che adducono, per
mostr are l a inanità di una co¬ s truzione norma tiva, l a dipendenza
dell’ azione dal se ntimento e dalla volontà , non si accorgono di
confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come' s’è detto, la ni
qrfllo_nnIlp mo ralità, la determina- zio ne_delle norm e colla c
onformità alle norm e. Senonchò si può soggiungere che la
determina¬ zione in questo campo non serve, perchè la cono¬ scenza
delle norme si sprigiona volta per volta come da sè fuor dalle
circostanze, per un intuito naturale che è più fine e delicato di
qualunque de¬ duzione scientifica. E così viene in campo, accanto
alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità : — l a cos cienza
morale rende inutile la dottrina mo¬ rale. — - '* -** '
Lasciamo per ora la difficoltà capitale che nasce dal fatto
stesso da cui è nata la riflessione critica della morale: il fatto della
diversità di contenuto nelle coscienze morali diverse; e poniamo —
senza * —
134 — concedere — che 1*i ntuit o basti per tutti e sempre a
segnare caso per caso la via. Non ne seguirebbe ancora l’inutilità di una
ricerca che si proponesse la determi nazione sistema tica del fine a cui
.intui ¬ ti vamente tend e e delle norme che intuitivamente segue
la co scienza mora le. Come la guida istintiva dei bisogni
(^feUe^enTazioni non basta a rendere inutile l’igiene; o come non basta a
condannare la conoscenza fisiologica, per esempio, della dige¬
stione, il fatto che digeriscono bene, anzi di solito digeriscono meglio,
quelli che non sanno di quelli che sanno come la digestione
avvenga. E veniamo alle obbiezioni che toccano diretta-
mente la nostra tesi. 5. — In primo luogo si può osservare che
la p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso che dichiara
di voler tenersi estranea a qualunque af¬ fermazione di carattere
metafisico, presuppone una certa soluzione di un problema essenzialmente
me¬ tafisico. Perchè, assumendo come fine morale un ordine di effetti
umanamente possibile, pone come risoluto il problema se il fine supremo
possa o debba essere umano o sovrumano, relativo o asso¬ luto;
risolve cioè, sia pure negativamente, un pro¬ blema metafisico.
— 135 — Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe
risoluto il problema, se assumendo un fine (diciamo per brevità)
umano, si ponesse questo fine come ultimo assolutamente, come
definitivamente supremo; cioè se gli si assegnasse un valore assoluto ; e
si ne¬ gasse la possibilità di una ulteriore valutazione del fine
stesso ; di una sopravalutazwWe^Tciafisica, per la quale sia creduto
mezzo alla sua volta, o condi¬ zione o preparazione di un fine
sopraumano. Ma questa possibilità 1* ipotesi non la esclude. Si
dirà che in tal caso il fine umano non è più il vero fine; e che perciò
le norme debbono essere ricavate da quello a cui si dà davvero valore
di fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente, supremo; e
che questa necessità riporta il problema della determinazione delle norme
in piena metafì¬ sica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non
capire come da un fine assoluto si possano ricavare delle norme per la
condotta in condizioni finite, da un al di là le norme per un al di qua;
e dubito che quelli i quali dichiarassero di capire, equivo¬ chino
sui termini. Perchè non si potrà mai dimo¬ strare un legame di
condizionalità tra un certo modo di operare o un fine sopra natura le ;
essendo il proprio e caratteristico del sopranaturale c del
sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale e umana. Se si
considera il fine sovraumano come un effetto che può essere condizionato
da mezzi pu- — 136 — ramente umani esso cessa
di essere sovraumano. Ma se invece rimane tale, cioè trascende la
effi¬ cienza umana, si potrà bensì credere ed affermare che a
raggiungerlo si richiede una certa condotta, ma non si può assegnare una
relazione di condi¬ zione tra la condotta ed il fine, cioè non si
può ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel fatto, evidente
ad ogni osservatore non del tutto superficiale, che, anche nei sistemi di
morale teo¬ logica o metafisica, quando si tratta di determinare le
norme che debbono regolare la condotta nelle relazioni della vita comune,
famigliare e sociale, non è più il fine assoluto quello da cui si
deducono le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia re¬ moto; un
certo ordine e un certo tipo di vita in¬ dividuale e sociale.
Le norme dedotte da questo fine subordinato si presentano bensì
come derivate aneli’esse dal fine assoluto, perchè si assume quello come
posto o vo¬ luto o necessitato da questo ; ma in che modo dal fine
assoluto si ricavi il fine relativo, come e per¬ chè, per raggiungere o
approssimarsi a quel fine sopraumano, sia necessario tendere a questo
fine umano, non si dimostra nè si può dimostrare. E quando par che
si dimostri, gli è che si è assunto tacitamente e come incorporato in
modo surrettizio nel fine assoluto il fine relativo, che poi se ne
deriva ; cioè in ultima analisi non si è fatto altro
che porre o assegnare un valore sopraumano al fine umano; ossia si
è fatta (fucila che ho chia¬ mata una sopravaluta;ione metafisica di quel
certo fine umano dal quale in realtà sono ricavate le norme.
Xon è dunque vero che assumendo un fine umano si risolva, o si
postuli una certa risoluzione di un problema metafisico. Non si la che
ubbidire a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva
positivamente, sia che si risolva negativamente il problema intorno alla
natura del fine assolutamente ultimo o supremo; un’esigenza logica alla
quale non si può sfuggire: che un sistema di norme di condotta
individuale e sociale non si può stabilire se non in relazione a un certo
fine, esplicitamente o implicitamente assunto, che dipenda
condizional¬ mente dalla condotta, cioè che sia umanamente
possibile. 0. — Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza
propriamente morale, che il fine abbia un valore assoluto e non soltanto
relativo? — Non discuto se sia o non sia ; perchè si tratta
in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e per la constatazione di
un fatto la discussione non ap¬ proda. Poniamo che sia. Forsechè le
dottrine che pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^ ~~di me
glio che postulare la possibilità di quel fi ne e postularne il valore ?
Cioè supporre che quella pos- — 138 —
4t> siljilità e questo valore siano dati nelle
intuizioni o nelle credenze, dalle quali li prendono, per dir cosi,
a prestito, e sulle quali fanno assegnamento ? E se è cosi, e non può
essere altrimenti, se la cre¬ denza nel fine e il riconoscimento del suo
valore assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei fini
relativi della vita finita, non possono essere dati o fondati dalla dottrina,
ma soltanto assunti o affermati, è facile vedere che la dottrina
vale per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già, e che
accetta Vaffermazione perchè la trova corri¬ spondere a ciò che è già
dato in lei stessa ; ma non vale essa, la dottrina, a far accettare
queste sue affermazioni a una coscienza che intuisca e senta c
creda diversamente. La costruzione dottrinale metafisica non riesce
dunque clic a fare appello a un a intuizione o a una v alufazio ne di cui
ammette o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove manca
; e quindi, di fronte a una coscienza diversa da quella che essa suppone,
si trova nella stessa condizione della costruzione non metafisica.
Cioè vien meno alla ragione per la quale il valore as¬ soluto del
fine è richiesto. Questa ragione, se il valore assoluto del
fine non è già assunto come una constatazione di fatto, consiste
nella pretesa illusoria che la dottrina possa e debba assicurare per
questo modo alle norme una validità universalmente riconosciuta ; e
nasce Mm&i ^5_ 13<1
•da una preoccupazione pratica analoga a quella dalla quale è
ispirata l'altra pretesa che l’Etica dia alle norme autorità
imperativa. 7. — Ed eccoci all’argomento capitale: 1’ esi- •
gonza del carattere imperativo della norma. — Ho già ripetutamente
segnalato l’equivoco sul quale si fonda la pretesa esigenza
dell’obligatorietà della norma morale. È in fondo il medesimo già
notato più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia •della
conoscenza a determinare l’azione ; l’equivoco di con fondere la morale
colla moralità, la norma col la conformità alla norma : e quindi di
preten¬ dere da una dottrina quello che nessuna dottrina nè
metafisica nè non metafisica può dare : la ga¬ ranzia dell’osservanza,
cioè 1’efficacia esecutiva. Il linguaggio favorisce anche qui il
persistere dell’er¬ rore; e l’uso di definire 1’ Etica la scie nza o
la dottrina de i -doveri, contribuisce a ribadire il pre¬ concetto.
nato dalla preoccupazione pratica, che compito di una dottrina morale
possa o debba es¬ sere quello di costruire o fondare delle norme
ób- hliyatorie. Mentre l’etica, dico qualunque dottrina etica,__non
può fare altro che dedurre, o indurre, o comporre a sistema, delle norme
o ilei precetti, i quali hanno valore di doveri, se e in quanto la
coscienza concepisce, o meglio sente e vuole , come dovere, l’osservanza
dei precetti stessi, o la prose¬ cuzione del fine (o dei fini) dal (piale
quei precetti Yi (yivuni l&u vuxnrib I
nei — 140 — sono derivati.
E se anche tutte le coscienze uni¬ versalmente, in ogni tempo e luogo,
concordassero nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di una
certa norma, non per questo si potrebbe dire che l’imperativo è un
carattere della norma ; l'impe¬ rativo sarebbe sempre anche in questo
caso un ca¬ rattere del motivo che spinge all’ osservanza della
norma ; un dato della coscienza che la abbraccia, che la riveste e la
investe di questo motivo, clic la sente così. Quale sia la
preoccupazione pratica da cui nasce e si alimenta il preconcetto, e.
quale, sia il processo per cui si viene ad assegnare alla costruzione
nor¬ mativa un compito al quale essa non può soddisfare in nessun
modo, ho pure già cercato di mostrare altrove, e non serve di ripetere.
Piuttosto non mi par privo di interesse mettere in chiaro con 1’ a-
nalisi come i modi, nei quali può essere interpre¬ tato e tentato il
proposito di « fondare una norma obbligatoria » si riducano a postulare
l’esistenza dell’ obbligo, quando non riescono a una forma più o
meno larvata di imperativo ipotetico. E come poi, per il verso opposto,
assumendo l’imperativo categorico per dato o postulato, non se ne
possa ricavare la determinazione delle norme; ma si ri¬ chieda perciò
l’assunzione espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio di
valutazione e deriva¬ zione, estraneo e indipendente da quello.
— 141 8. — Il compito di assegnare una norma che
abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in ef¬ fetto, inteso in più
significati diversi ; i quali si possono ridurre ai quattro tipi seguenti
: 1. ° Dimostrare che la norma proposta corri¬ sponde a un
sentimento, a un motivo, a una di¬ sposizione che si manifesta nella
coscienza come •obbligo. — Allora il senso reale ò, non già che la
do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e norme; bensì questo:
che essa riduca, traduca o formuli in norme i modi di condotta ai quali
la coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità del
precetto è constatata e assunta, non posta, nè fondata dalla dottrina ; e
la norma obbliga solo se •ed in quanto i suoi comandi ripetono i
comandi della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco, e vien
meno se tace la voce della quale assume il tono. 2. °
Presentare le norme come ordini di un Potere (qualunque ne sia la natura)
irresistibile, che costringe volenti e nolenti a seguirlo. — In¬
tesa così l’autorità non viene nò dalla natura delle norme, nò da quella
del fine a cui sono ordinate, ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per
dir così, la presentazione ; anzi il suo ufficio si riduce
— 142 — in realtà a quello di interprete ed araldo di
quel Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e che suppone
sia riconosciuto dalle coscienze alle quali parla in nome suo.
Ad ogni modo l’espressione analizzata, se si usa ad indicar questo
ullìcio, è del tutto abus iva; l’espressione esatta ò questa: compito
dell’Etica ò di determinare quale sia la legge imposta da quel
potere indis cutibile e irresist ibile, di cui si am¬ mette o si
riconosce l’esistenza. 3." Dimostrare che ciò che la norma
prescrive dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra cosa :
cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di essere come ò, 1’ uomo
fosse diverso ; seguisse la sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o
realiz¬ zasse un certo tipo ideale. Ma è chiaro che in questo
senso non si là che o determinare il fine in l'unzione di un certo
tipo ideale, o il tipo in funzione del line ; ossia, in al¬ tre
parole, determinare la relazione che sussiste tra una certa natura e una
certa condotta. La qual relazione per necessaria che sia, non si vede
come [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si pensa di
fondare in tal modo 1’ obbligatorietà, ma¬ nifestamente si suppone ebe il
conformarsi a un certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già
sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fon¬ damento di questo, nel
primo dei casi enumerati. — 143 —
Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo davvero, giusto, o
perfetto, deve proporsi un certo fine o seguire una certa condotta, si
avrebbe non piii un imperativo categorico, ma un imperativo
ipotetico. 4.° Dimostrare che ciò che la norma prescrive,
dece essere voluto universalmenta e incondiziona¬ tamente. — Questo ò
manifestamente il significato che pare più proprio, e nel quale intesero
e inten¬ dono l’esigenza i moralisti i quali credono di po¬ ter
ricavare l’obbligo dalla natura del fine che assumono come ideale etico.
Ma l’intendere la tesi così, implica che si ammetta la possibilità di
una di queste due vie : a) o derivare 1’ obbligatorietà dal valore
riconosciuto al fine, assumendo questo riconoscimento come dato o
postulato ; h) o deri¬ vare dalla natura del fine l’ obbligo di
riconoscere al fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di
queste due tesi deve essere considerata distinta- mente e un po’ più a
lungo. 9. — a) — Posto pure che al fine assunto fosse
riconosciuto in realtà universalmente valore di sommo bene, non ne
seguirebbe in nessun modo che il sentirlo e riconoscerlo come sommo
bene porti con se il sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo.
Questo riconoscimento non genera la coscienza del- Pobbligo, bensì ne
mostra la ragionevolezza, fa che la coscienza approvi l’autori tà ob
bligante; cioè • — 144 — giustifica P
obbligo, posto che ci sia. Ora una tale giustificazione riesce a questa
alternativa: o serve a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente
tro¬ var buona e seguire la norma anche se non si sen¬ tisse
Vobbligo, perchè la norma è ordinata a quel certo fine che è riconosciuto
come sommamente desiderabile. E in questa forma la pretesa fonda¬
zione dell’ imperativo categorico si riduce alla for¬ mulazione di un
imperativo ipotetico, che si sosti¬ tuisce o si aggiunge al categorico. 0
riesce a un’ar¬ gomentazione di questo genere : Siccome è bene
sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e poiché si ammette o si
suppone che la coscienza d’un obbligo assoluto sia necessaria a
garantire questa osservanza, l’imperativo categorico appare la
condizione sine qua non, acquista valore di mgzzo indispensabile al
proseguimento del fine. Nel primo modo si viene a dire che
l’impera¬ tivo categorico è giustificato perchè è bene ciò che esso
comanda; nel secondo che è giustificato per¬ chè è bene che esso comandi
in quel tono. Ma nè l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme
riescono a fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè 10
giustificano gli tolgono il carattere di categorico. 11 che se nel
primo caso è più evidente, non è meno vero nel secondo. Infatti, posto
pure che la cate¬ goricità dell’ imperativo sia condizione
necessaria all’osservanza della norma, non ne viene perciò —
145 - che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che sa¬
rebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: os¬ sia la pretesa
derivazione che se ne fa, mostra la necessità di una condizione, non la
pone in atto se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la sod¬
disfa. In secondo luogo la dimostrazione stessa di questa esigenza è
contradditoria, perchè a convin¬ cere la necessità dell’obbligo
categorico ne assegna le ragioni ; il che equivale ad ammettere che
ve¬ nendo meno queste ragioni verrebbe meno quella necessità; ossia
che l’obbligo dovrebbe valere come categorico, finché è utile che valga;
come chi di¬ cesse un’ autorità che si fa valere incondizionata¬
mente .. .. sotto certe condizioni (1). Adunque, se la c Qscienza
d’un obbligo asso luto manca, la derivazione che se ne pretenda fare
da un fine, qualunque sia il valore che gli si attri¬ buisce, non
può farla sorgere; se c’è, la giustifi¬ cazione riesce ad assegnare le
condizioni della sua validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo
incondizionato. (1) Il che può però aver un senso, se si guarda
bene ; ma in un caso soltanto : nel caso che la coscienza la quale si
rende ragione delle condizioni che importano questa necessità o utilità
dell’ im¬ perativo categorico, e la coscienza nella quale 1’ imperativo
vale come categorico, siano due coscienze diverse ; ossia nel caso
che una coscienza riconosca la necessità che 1’ imperativo valga
incon¬ dizionatamente per un’altra coscienza. Che è un senso
assai meno strano di quel che possa parere a prima vista.
— 14U — b) — Oppure finalmente si intende che
ap¬ prendere ciò clic è posto come line equivalga per ciascuno a
dover riconoscerlo come tale; che non si possa conoscere la natura del
line senza sentirsi obbligati a riconoscergli valore di bene supremo
; cioè che la conoscenza generi la coscienza d’un obbligo. — Questa
che è in sostanza la tesi di¬ fesa, tra gli altri, con grande vigore dal
nostro Rosmini, è veramente l’interpretazione tipica, più audace e
radicale, del pensiero di derivare l’obbligo dal fine, o di dare
all’obbligo un fondamento og¬ gettivo nella natura stessa di
quello. Ma — senza dilungarmi su questo tema in una critica
troppo nota — è inevitabile questa alter¬ nativa : o il dover riconoscere
esprime una neces¬ sità puramente logica, e non può dare quello a
cui è invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di riconoscere il valore;
o vuol esprimere una neces¬ sità diversa, e si riduce a un paralogismo;
perchè pretende ricavare da una determinazione obbiet¬ tiva la
constatazione di uno stato subiettivo, la quale presuppone appunto
resistenza di quella co¬ scienza dell’obbligo, che crede di far nascere
e senza della quale la constatazione non è possibile. E per tal
modo si ricade ancora una volta nel primo tipo di interpretazione (V. p.
141); quando non si voglia ammettere questa tesi : che è obbligo
rico¬ noscere quel fine come sommo bene e volerlo, così
— 147 — se lo si crede tale, come se non lo si
crede; cioè sia che la coscienza senta sia che non senta di dover
attribuirgli quel valore. Ossia non si am¬ metta la tesi dell’obbligo di
credere anche senza o contro l’attestazione della coscienza. Il che
ren¬ derebbe inevitabile l’appello a una autorità esterna, alla
quale la coscienza si deve inchinare; e farebbe della morale del bene
oggettivo una morale dom- matica, che rientra nel secondo tipo.
10. — Adunque l’analisi dei modi nei quali può essere interpretato
e tentato il compito di fon¬ dare una norma obbligatoria conduce a questa
con¬ clusione: o si intende che « fondare una norma obbligatoria »
voglia dire derivare l’autorità della norma dal valore del fine; e
allora, come s’è visto, c come avea notato chiarissimamente il Kant,
non si può per questa via riuscire che a un imperativo ipotetico; o
si intende che voglia dire assumere come dato l’obbligo e determinare le
norme in conformità a questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza
in questione non è soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta
, non posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua esistenza e
validità sussiste all’ infuori della co¬ struzione dottrinale, che la
postula, ma non la fa essere; o non esiste: e il fatto di assumerla
come esistente non la pone in essere, nè ne legittima per sè
l’assunzione. — 148 — IL — Per tal modo,
se il difetto capitale di una scienza normativa etica conforme al
concetto esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di non^
poter presentare le norme col carattere di im¬ perativo categorico,
questo difetto è comune, e non potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi
costruz ione dottrinale. die non si proponga di derivare le norme
da un imperativo categorico assunto come dato. Ed allora resta da
vedere se. prendendo l’impe¬ rativo categorico per dato o postulato, si
possa ri¬ cavare da esso la determinazione delle norme; o se non si
debba ancora ricorrere all’ assunzione espressa o sottintesa di un fine,
o di un criterio di valutazione e di derivazione, estraneo e
indipen¬ dente da quello. CJie^ i 1 dato dell’ imperatività
sia per sè in suffi¬ ci ente alla d eterni i nazione .-dei le jparmc
morali è manifesto, qualora si intenda con esso assumere null a più
che la forma destinata a rivestire un con¬ tenuto qualsiasi ricavato
d’altronde: nel qual caso è pur manifesto che, appunto perciò, il dato
dell’obbli- gazione rimane estraneo alla costruzione dottrinale.
Ma non è altrettanto evidente, quando si ammetta che nel dato dell’
obbligazione è contenuta ad un tempo la forma dell’ imperativo e la m
ater ia del precetto ; ossia che da questo dato si possa ricavare,
hjUifot vtA »pUóh UàwtiH o
ad esso debba conformarsi e subordinarsi sia la determinazione del fine
sia il contenuto delle norme. Senonchè, quando si prenda come
dato non la pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è
inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente ha dimostrato, a
fondare la morale .sull’autorità, superiore ad ogni discussione, di una
certa rivela¬ zione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica
1’ ufficio di espositrice e interprete di questa. Rilevando questa
conseguenza io non intendo affatto di darle il valore di una
dimostrazione per assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò
tut- t’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in con¬ fronto dell’
affermazione generica e ambigua che « la morale deve dare norme
obbligatorie » il pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma
appunto perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui si
trova di fronte. 12. — Tanto se si intende che la ri velazio
ne da interpretare sia in|£g^ quanto se si intende che sia esterna,
si presenta la medesima difficoltà; quella difficoltà, antica e
notissima, dalla quale t ciu* oìaI
'R\)l£lp2:\0h/& l'ileo ila. £|Avh<*
venne il primo stimolo alla riflessione e alla cri¬ tica nel campo
della morale: l a pluralità delle ri- velazioni. Poiché i
responsi della cosc ienza morale sono s toricamente diversi e anch
e-apposti, come sono di- ✓ vèrse e in parte op poste le
rivelazioni religio se, resta, o che si riconosca a tutte la medesima
auto¬ rità, cosi co me i l tono imperativo è. il medesimo; o
che si scelga. f Quan to alle. religion i ò .troppo chiaro
che nessun criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere a
dimostrar l’autorità di una piuttosto che del- 1’altra, poiché t utte si
danno come assolutament e certe e indiscutib ili ; e le stesse prove
sulle quali una rilevazione attesta la sua autorità sono ado¬ perate
da ciascun’ altra per asserire la propria, e da tutte risuona sui
precetti morali diversi il me¬ desimo tono di comando. Si
cercherà il criterio della scelta nella natur a del le cose co mandate o
proibite, come avviene quando si parla di m aggior sapienz a o el evatez
za o n obiltà de i prec etti morali di una religione rispetto a
quelli di un’altra? Allora è i ^conte nuto dei precetti mo¬ rali
che viene assunto come criterio dell’autorità della rivelazione.
E il valore di questo contenuto, che è così usato a provare la
superiorità di una rivelazione sulle altre, si può dunque
riconoscere indipendentemente dal suo presentarsi sotto la forma di un
comando rivelato, dal momento che è esso invocato a pro¬ vare
l’autorità del comando. Ma allora I’ulhcio dell’Etica lungi dall’essere
quello di interprete e
— 151 — araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice
_deHc % U- t ? ^ rivelazio ni. Il che importa a ben più forte
ragione che tanto il fine quanto le norme morali si sup¬ pone che
possano e debbano essere conosciute c de¬ terminate a ll’ infuori di ogni
snodale rivelazione. cioè all’infuori da ogni appello
all’autorità. Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione
esterna, vale per quella di una rivelazione interna. Tra due coscienze,
delle quali rispetto alla mede¬ sima azione una ponga come obbligo il
fare e l’altra il non fare, il criterio di valutazione comparativa
non può esser dato dal carattere imperativo, che è comune ad ambedue, ma
deve essere un altro. Ed anche allora il criterio che serve alla
valu¬ tazione comparativa sarebbe esso in realtà quello da cui
dipende cosi la determinazione come la giu¬ stificazione delle
norme. l i. — Non resterebbe che riconoscere ja mede¬ sim a
autorità a tutte le rivelazion i. Il che importa l’una e l’altra di
queste conseguenze: o la asso¬ luta indifferenza del contenuto per
qualsiasi luogo -“ -- e tempo; o la limitazione a
determinate condizio ni storiche dell’autorità e del valore di
ciascuna. Se non si vuol accettare la prima (1), si pre¬
senta la domanda: Questa limitazione ha o non ha
Uva*» (1) Mi permetto di non fermarmi ad esaminare la tesi
della as¬ soluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel
campo della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma
del — 152 — la sua
ragion di essere nelle condizioni storiche, dalla cui presenza è
circoscritta la sua validità? Se la limitazione non dipende da
queste condi¬ zioni, ma essa pure non ha altra ragione di es¬ sere
all’ infuori dell’ autorità o del carattere impe¬ rativo col quale hic et
nunc si presenta, allora si ammette che, astrazion l'atta da questo
carattere di obbligatorietà col quale una certa norma si pre¬ senta
in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe nessuna ragione di preferire
nelle stesse circostanze una norma ad un’ altra, cioè si giunge per un
al¬ tra via all’indifferenza del contenuto (1). Se poi questa
limitazione ha la sua ragione di essere nelle condizioni storiche stesse,
entro le quali è valida, cioè in una parola se__ò relativa a queste
condizioni, allora si ammette che sono queste condizioni il criterio
della limitazione ed è la corri¬ spondenza a queste condizioni storiche
il criterio della validità. Cioè si ammette che vi è qualche cosa
che dà alla norma il suo valore all’ infuori del- 1’ obbligazione e al
disopra dell’autorità obbligante, medico, e le prescrizioni di
qualunque genere si equivalgono 1’ una l’altra. E forse è ancor meno
manifestamente falso questo che quello. Non sarà però
inopportuno avvertire che ogni questione intorno al merito dell’ agente
rimane qui al tutto in disparte. (lT E lascio^ le difficoltà che
nascono dalla necessità di ammet¬ tere un’ altra rivelazione alla cui
autorità si possa ricondurre la limitazione in discorso.
— 153 — dal momento che esso serve anche a stabilire
i limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta come valida. Cioò
si viene a riconoscere ancora come 1’ ob¬ bligazione non possa essere un
dato sufficiente alla determinazione e valutazione delle norme, e
come per essa non solo non possa essere negata, ma venga confermata
la legittimità di una scienza nor¬ mativa morale. 15. —
Senoncliè a questo punto mi sento op¬ porre un nome, un gran nome: Kant.
Ma dunque non ^esiste la Morale Kantiana ? Non ricava egli dalla
volontà buona, dal dovere, dall’ osservanza della l egge perda legge, la
norma morale suprema, nella notissima formula, nella quale,
indipendente¬ mente da ogni particolare rivelazione storica, c
sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie tutto un sistema di
norme razionali ? E s e la sua morale è f m^gle. cessa perciò
di avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere, e, a
fortiori, di essere possibile? — Certamente a nessuno può venire in
mente di negare la possibilità di un sistema che ò esistito ed
esiste, e a me, forse meno che ad altri, di ne¬ garne il valore.
Così la grande costruzione razionale dei doveri dell’ uomo del
Kant, come la grande costruzione razionale dei diritti dell’ 'uomo che
piglia nome dalla Rivoluzione Francese sono ben lungi dal me¬
lo — 154 — VFDFfiF
sr & )\<é 4 i'MSSfat ri
tare il facije compatimento col quale parlano di astrazioni e di
formalismo certi fonografi della so- ciologia. Ma qui al
proposito nostro importerebbe vedere la costruzione razionale del Kant
sia fondata sul d ato dell’ obbligazione, co me pare , o non ni ut trist
o sulbesigenza dell' universalitaTche nKanTcrede bensì trovare
implicita nel concetto del dovere, ma v* /v T<
ì»-^uAtv\ 7 u-iC' che è invec e caratteristica dell’ ide
a_di ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap- p
robazione interiore dell’obbligo, che è propria della ^ -y j coscienza
del dovere (1). Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve al
Kant per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’uni¬
versalità, non è un elemento contenuto nel dato stesso e che possa
esserne ricavato analiticamente, ma (L una sintesi nella qual e insieme
coll’obbliga- zioneè già assunta l’esigenza dell’universalità che
la giustifica. Ed è questa e sigenza dell’ universalit à, non
il dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il cri¬ terio
supremo della morale. Ma a ben chiarire questo punto — come,
anche nella morale kantiana, l’imperatività non sia un dato
sufficiente alla determinazione delle norme, e come in realtà venga
assunto non solo un criterio (1) Di questo argomento ho trattato di
proposito altrove. Cfr. Prolegomeni ecc. pp. 19-88. (
C* «M. ÀtydL* UO-rutL <.TKv tff» }rlv \ltj ’V- r ' P i* "
I"," I ]( Lo'h YcMufr Vvvt7 VX 0 u dU
'um^ìvc^ÌO p c -‘ — ‘Oi "
— 155 — non ricavato da
quella, ma implicitamente anche un certo contenuto — occorrerebbe
un’analisi assai meno sommaria; poiché non è questo un argomento da
sbrigarsi così alla lesta. Basti per ora non aver omesso 1’
accenno. IL FONDAMENTO
INTRINSECO DEL DIRITTO secondo I il Vanni
Il Fondamento Intrinseco del Diritto SECONDO IL VANNI
(*) -- Nota Critica - Il volume dal titolo « Lezioni
di Filosofìa del Diritto », la cui pubblicazione fu curata con
rive¬ rente pietà e con devota ammirazione dalla Vedova e da alcuni
tra i più valenti Discepoli poco dopo la morte immatura dell’Autore, è
forse tra gli scritti del Vanni quello in cui la sua dottrina ap¬
pare più compiutamente ordinata a sistema, e nel quale a un tempo si
rivelano felicemente congiunte le qualità dello scienziato e dell’insegnante;
e ve¬ ramente si può considerare come il testamento scientifico del
celebrato Maestro. Certo, qualunque giudizio porti sul fondamento e sulla
validità in¬ trinseca del sistema, nessuno può disconoscere la
larghezza e la profondità della coltura filosofica e giuridica, e la
chiarezza della trattazione; e sopra¬ tutto la sincerità e, direi, 1’
onestà scientifica che ò propria di chi medita e scrive per amore
disin¬ teressato del vero. (1) Icilio Vanni. — Lezioni di
Filosofia del Diritto — Bologna, Zanichelli, 1904.
La l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il ^
tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca sintetica o lcnomenologia
giuridica ; e la ricerca deontologica. Nella prima egli
comprende non soltanto la de¬ terminazione dell’oggetto, dei metodi e dei
rapporti della filosofia del diritto colle scienze affini, ma anche
una indagine preliminare di critica gnoseo¬ logica. che il Groppa li
accordandosi col Fraga pane ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea
al compito di questa disciplina. Giustamente, finché si intende che
la filosofia del diritto debba istituire una sua propria ricerca
gnoseologica ; ma non se si intende anche di negare la opportunità di
pre¬ mettere, come in fondo fa il Vanni in queste Le¬ zioni, quali
sono i presupposti gnoseologici accettati. Poiché ogni dottrina deve pur
assumerne, di una o d’altra speeie, esplicitamente o
implicitamente. Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere e
si applicano di solito nelle ricerche speciali taci¬ tamente. Ma compito
del filosofo è appunto, come osservava il Rosmini, di c omprendere e fo
rmulare elii aramente quello che gli altri sottintendon o.
Del resto il fatto che il Vanni voglia prender le mosse da una v
alutazione critica sulla natura e al sapere giuridico, prova quanta
larghezza di pen¬ siero, e direi, di coscienza filosofica egli
portasse nelle sue ricerche, e con
quanto scrupolo sentisse l’obbligo di rendersi conto anche dei più
lontani e generali presupposti della sua dottrina. La seconda
ricerca si sdoppia in due parti : statica, che determina la nozione
logica del diritto, inducendola dell’analisi del diritto positivo dei
po¬ poli più progrediti, e similmente dello Stato; dina¬ mica
(genetica o storica) che studia la genesi e la formazione storica del
Diritto e dello Stato; e si potrebbe anche chiamare filosofìa della
storia del diritto. Alle quali due ricerche corrispondono le parti
II® e III® del volume. Finalmente la terza ricerca di carattere
etico o valutativo ha per oggetto il problema della Giu¬ stizia,
ossia del fondamento intrinseco e delle esi¬ genze razionali del diritto.
Questa, che costituisce la parte IV® ed ultima, ò senza dubbio la più
im¬ portante, perchè riguarda quello che è il problema centrale
della filosofìa del diritto; e nella cui so¬ luzione principalmente Si
manifesta la nota carat¬ teristica delle diverse dottrine. E la dottrina
del Vanni, benché l’indirizzo e. direi, la moda oggi prevalente la
consideri oltrepassata, merita di es¬ sere ricordata e discussa; perchè
mentre intende il compito della filosofia del diritto non soltanto
come storico-genetico, ma anche come normativo, (nel che si accorda
coll’ idealismo) si propone di assol¬ vere questo compito tenendosi nei
limiti d’una co- 16 2 — struzionc puramente
scientifica, ed escludendo ogni postulato di natura metafisica; nel che
consente col proposito, se non col metodo, dello storicismo c del
positivismo. Ora il difetto principale della sua dottrina, non
nasce, come può parere a prima vista, dalla pre¬ tesa e comunemente
ammessa inconciliabilità tra il compito normativo e la validità
scientifica ; chè anzi questo intendimento, chiaramente concepito e
tenacemente proseguito, di una costruzione nor¬ mativa scientifica del
diritto, è a mio giudizio, un alto titolo di merito; ma nasce
dall’essersi fermato, direi, a mezza via nel rilevare a quali
condizioni sia possibile una costruzione etico-giuridica che sod¬
disfaccia a un tempo ad ambedue le esigenze. La jiottrina del Vann
i, per quel che riguarda il fondamento intrinseco del diritto e il
metodo, si può considerare come una forma di quella che lo Spencer
ha propugnato e difeso col nome di utili¬ tarismo razionale: e infatti,
pur rilevando giusta¬ mente l’importanza e il valore del pensiero
del Romagnosi, egli la riconosce come il precedente più immediato e
più notevole della sua. Ma la trova erronea per tre rispetti ; perchè
ammette un diritto naturale; perchè pretende di costruire una norma
etico-giuridica assoluta ; e perchè
Analmente lo Spencer intende le condizioni di esistenza da cui le
norme devono essere dedotte, in un senso pura¬ mente biologico.
Principalmente su questo ultimo punto egli accentua il suo dissenso,
prendendo come base, non le condizioni dell’esistenza individuale e
la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma le condizioni
dell’esistenza sociale. Il fondamento dell’ etica sta dunque nella
necessità per chi vive in società (e la socialità è la esigenza suprema
del- 1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni ed alle
esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica dimostra intrinsecamente
necessarie quelle forme e quei modi di condotta che sono richiesti dalle
con¬ dizioni della vita in comune. Fra queste condizioni ve ne sono
alcune che hanno un’ importanza fon¬ damentale e primaria, in quanto
rappresentano l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione;
e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia. Ma poiché queste
potrebbero non essere spontanea¬ mente osservate, è necessario che le
azioni relative ad esse non restino abbandonate alla buona volontà
e alla spontaneità e che « con una norma di con¬ dotta irrefragabilmente
obbligatoria ed eventual¬ mente coattiva s’induca all’osservanza anche
il volere recalcitrante. Quindi in altri termini la ne¬ cessità del
diritto, il quale ci apparisce allora come una norma che ha da garantire
le condizioni fon- — 164 — (lamentali per
la coesistenza e la cooperazione umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma
anche il Di¬ ritto viene ad avere un fondamento intrinseco, e viene
ad averlo anche lo Stato, il quale è indispen¬ sabile alla funzionalità
(tei Diritto » (pag. 314). Xon è necessario un lungo discorso per
vedere che quando il Vanni crede di fondare in questo modo F
esigenza razionale del diritto finisce per assumere in realtà come
presupposto il principio che egli vuole, e crede di dovere, derivare
apodit¬ ticamente, e al quale appunto è subordinato il va¬ lore di
necessità razionale assegnato alle norme ideali che devono servire di
modello e di criterio di valutazione. Infatti la relazione naturale e
ne¬ cessaria tra una certa condotta e certe condizioni, necessarie
alla loro volta alla convivenza e coope¬ razione sociale, serve bensì a
stabilire che quella condotta deve essere riconosciuta come un
mezzo necessario al fine di conservare e promuovere la convivenza e
la cooperazione sociale, posto che questo sia riconosciuto e voluto come
fine ; ma non vale a stabilire la necessità razionale di
riconoscerlo come fine; e fine precedente in valore e autorità ad
ogni altro. Il \ anni par che intenda superare la difficoltà
osservando che la necessità puramente naturale in quanto è pensata dalla
mente si trasforma appunto in una esigenza ed in una necessità razionale.
« Essa — 105 — allora
esprime un principio logico fondamentale, il principio di contraddizione
». Se in forza della na¬ tura stessa delle cose c dei rapporti causali, per
ottenere un certo fine è indispensabile un certo mezzo, e per raggiungere
un certo risultato è in¬ dispensabile un certo modo di condotta,
impliche¬ rebbe contraddizione che si potesse impiegare un mezzo
diverso o seguire una condotta diversa (p. 315). Ma ò facile
vedere 1’ equivoco. Contraddizione vi è certamente tra il pensare che una
condotta è indispensabile a raggiungere un certo fine e pen¬ sare
che questo stesso fine possa essere raggiunto con una condotta diversa ;
ma io non violo nes¬ sun principio logico e non sono punto in con¬
traddizione con me stesso se, ammettendo che un certo fine dipende da
certi mezzi, non voglio il fine e non voglio perciò neanche i
mezzi. E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale all’
ordine cosmico, considerandolo come la forma più alta a cui riesce 'iì
processo della^ evoluzione universale. Perchè non si fa altro in questo
modo, che spostare il presupposto; cioè ammettere, an¬ cora e
sempre, che si riconosca valore di fine su¬ biremo a questo adattamento
all’ ordine cosmico. Il quale presupposto potrà o non potrà
venir legittimamente assunto come dato o postulato ; ma è e rimane
un presupposto. E perciò le norme ideali che se ne
deducono hanno questo valore di nonne nell’ ipotesi che si accetti come
fine supremo quel- P ordine di effetti dal quale sono dedotte.
« Ma rilevando cosi il carattere necessariamente
ipotetico della costruzione, alla quale riesce anche il « sistema delle
condizioni della vita in comune » del Vanni, io non intendo, anzi
escludo, che questo carattere ipotetico costituisca per sò un vizio
pro¬ prio di questa e di tutta una classe di costruzioni
etico-giuridiche, come pretende P idealismo metafì¬ sico. Il quale si
illude di poter esso sfuggire a questo carattere ipotetico riallacciando
quel tipo di convivenza e di relazioni sociali, che assume come
modello e in conformità al quale determina le norme ideali, a un fine di
natura metafìsica, che abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare,
sia detto di passata, due circostanze, a mio giudizio, decisive : Primo :
che le norme ideali sono pur sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni
sforzo od ogni apparenza contraria, dal tipo sociale as¬ sunto come
modello, e non dal fine metafisico, della cui autorità e del cui valore
esso si riveste. Secondo: che il valore assoluto di questo fine
metafisico non può essere che assunto aneli’esso o come dato o come
postulato. La verità è semplicemente che un sistema di norme
giuridiche contempla di necessità un certo — i<;7
ordino di vita individuale e sociale; e che la va¬ lidità dello
norme dipende dal valore che si sup¬ pone riconosciuto a questo ordine di
vita. Questo riconoscimento di valore, questa valutazione del fine
è dunque il presupposto inevitabile della va¬ lidità etica del sistema
(la quale non esclude la va¬ lidità scientifica, ma non si esaurisce in
questa); e la questione si riduce a decidere se si pub o non si può
assumere legittimamente come dato o come postulato questo riconoscimento
del valore che nel sistema è assegnato al fine. Ora è nel
rispondere a questa questione, non nel carattere ipotetico, che si rivela
l’insufficienza del sistema del Vanni e dell’ indirizzo naturalistico
in genere; e alla quale del resto non riesce a sfug¬ gire neppure
l’indirizzo metafisico. Infatti una ri¬ sposta adeguata alla questione
esige che si deter¬ minino le condizioni richieste perchè a un
ordine di convivenza e di cooperazione si riconosca valore di fine
universalmente regolatore, valore, direi, (piuttosto che di summum bonum
) di primum de¬ siderabile ; ossia perchè si possa ammettere che
tutti i soci consentano liberamente nel valutarlo e vo¬ lerlo come
tale. E che si assuma poi, come modello per dedurne le norme ideali, il
tipo sociale che soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale
con¬ figurato in conformità di quelle condizioni. Ma non è
rispondere alla questione il dimostrare la
naturalità della convivenza sociale in genere, o di un certo tipo che si
assuma volta a volta come modello. Questa dimostrazione può servire a
farmi trovar buona o giusta o desiderabile P osservanza dell’ordine
naturale, se io trovo già buono o giusto o degno di essere voluto, quel
tipo di vita sociale, cbe si presenta come suo effetto ; ma non
inversa¬ mente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi a subirlo
per la coscienza della sua necessità natu¬ rale. chi potrebbe
legittimamente scambiare questo subire con un volere . e la rassegnazione
a un male con la aspirazione a un bene ? Nemmeno gioverebbe,
d’altra parte, il ricorrere a postulati metafisici. Posto che io non
riconosca l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema come
degno di essere voluto, in qual modo si può presumere legittimamente che
valga a farmelo ri¬ conoscere tale Vaffermazione (poiché qui di
dimo¬ strazione non si potrebbe parlare) che esso .ha un fondamento
o una giustificazione metafisica, se la ragione per la quale il sistema
gli assegna questo fondamento consiste appunto nel valore di fine
che esso gli attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli riconosco
? Ma il Vanni (per restringermi a lui. poiché al- 1
indirizzo metafisico non ho accennato qui se non per debito di sincerità
e di chiarezza) obietterebbe — 169 — con
tutta probabilità che per la via indicata come la sola legittima si
riesce a una costruzione pura¬ mente astratta, di un tipo utopistico di
società che non trova nella realtà storica nessuna corri¬
spondenza; e che si ricade nei difetti (ai quali ap¬ punto egli,
d’accordo in ciò con la scuola storica, s’ è proposto di sfuggire) o del
puro formalismo, o di un diritto assoluto valevole per tutto c
sempre, e senza riferimento possibile alla variabilità dei rapporti
sociali. Mentre riponendo, come egli fa, il fondamento
intrinseco del Diritto n ella conformità della co n¬ d otta alle
condizioni richieste dalla vita in comu ne, questo riferimento non solo
appare possibile ma inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le con¬
dizioni della vita in comune non sfuggono al moto dell’ evoluzione e
della storia ; e se anche alcune hanno il carattere d’una certa
uniformità e co¬ stanza, altre invece variano correlativamente al
grado di sviluppo umano e alle forme di organiz¬ zazione sociale, e sono
proprie di ciascun grado e di ciascuna forma. Il che importa che debbono
va¬ riare corrispondentemente le norme regolatrici ; os¬ sia che
nell’applicazione « il sistema etico-giuridico fondato sulle condizioni
di esistenza va combinato col principio di evoluzione e subordinato al
criterio della relatività storica » (p. 318). Ora, lasciando
di rilevare come con questa su- / it
bordinazione si assuma sempre per presupposto che
l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo so¬ ciale storicamente
dato, abbia, per il solo l'atto che la coscienza* ne riconosce la
necessità storica, anche valore di fine, importa notare come si venga
con ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa delle diverse
forme storiche del diritto. Perchè una valutazione comparativa richiede
di necessità un criterio, il quale non può essere dato dalla corri¬
spondenza alle condizioni storiche. E se si prende un criterio diverso,
allora è la conformità a questo criterio e non la necessità storica, che
si assume come esigenza razionale o come giustificazione in¬
trinseca del diritto. È certo che se una costruzione
etico-giuridica per essere razionale dovesse rimanere sospesa, come
gli Dei d’Epicuro, tra cielo e terra, e fuori di ogni possibilità di
applicazione alla condotta in¬ dividuale e collettiva, bisognerebbe
accettare la tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del
diritto qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ am¬ bito
della pura sociologia. Ma esiste davvero questa incompatibilità?
E non potrebbe essa dipendere, invece che dalla ra¬ dicale
sterilità di una costruzione veramente ra¬ zionale (1), dalla
preoccupazione di giustificare eti- (1) Se, e a quali condizioni,
una tale costruzione sia possibile, è argomento del quale s 1 è già
discorso altrove e che non può es¬ sere toccato di sfuggita.
— 171 — camentc forme di diritto che non sono
eticamente giustificabili, di assumere come condizioni richieste
dalla giustizia e conformi ad essa certe condizioni, reali sì, e
storicamente date, ma che sono la nega¬ zione di quelle richieste dalle
esigenze ideali? Per¬ chè se fosse cosi, Ih conclusione da trarne
sarebbe non che la costruzione razionale ò inapplicabile come
criterio di valutazione e come modello nor¬ mativo, ma che, essendo le
condizioni reali diverse da quelle idealmente contemplate, le norme
ideali non possono essere applicate simpliciter a condizioni
diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi do¬ vranno ugualmente servire
come criterio per de¬ terminare quale sia in un dato momento
storico la condotta sociale e individuale che, nei bifidi delle
esigenze reali necessariamente imposte dalle condizioni in effetto
esistenti, è più acconcia a favo¬ rire la trasformazione di queste nella
direzione se¬ gnata da qualle esigenze ideali, ossia tende ad at¬
tuarle. il che importa che le esigenze corrispondenti alle condizioni
proprie di un certo momento storico non siano assunte esse come esigenze razionali
del diritto, ma forniscano il criterio per stabilire entro quali
limiti sia possibile -tradurre in norme di di¬ ritto positivo le norme
ideali. Ossia in breve : l’esigenza razionale segna le
condizioni a cui deve soddisfare un ordino sociale perchè possa aver valore
di fine; la realtà storica 1
> Indice Generale 1. ° La
Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e la Morale
come Scienza .... Pag. 3 ' * • , 2. ° Per Una
Scienza Normativa Morale .„ 119 3. ° Il Fondamento
Intrinseco del Diritto secondo il Vanni 157Erminio
Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords: implicature,
il metodo dell’economia pura nell’etica --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Juvalta on the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689131181/in/photolist-2mLQdrQ-2mKbfaU-2mKAiSV
CHU CHU CHU
Grice e Labriola – implicature – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Cassino). Filosofo. Grice: “Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential
Italian philosopher -- Con particolari interessi nel campo del
marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere, e
da Francesca Ponari. Il padre, oriundo di Brienza, era nipote diretto di Pagano.
Si iscrisse alla facoltà di filosofia di Napoli, città nella quale la famiglia
si era trasferita. Qui studia con Vera e Spaventa, il cui appoggio gli procura un
posto di applicato di pubblica sicurezza nella segreteria del
prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller, un'opera in cui
osteggia il neokantismo contro ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica
l'attualità dell'hegelismo. Conseguì il diploma di abilitazione e insegnò nel
ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine
e natura delle passioni”: una significativa presa di distanze dall'idealismo in
favore del materialismo. Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte,
Platone ed Aristotele”, premiata dalla
Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera
docenza in filosofia della storia e si mette in aspettativa in attesa di
ottenere un incarico nell'Università; scrive la dissertazione “Esposizione critica
della dottrina di G. B. Vico” e collabora con il giornale svizzero "Basler
Nachrichten", al quale invia corrispondenze politiche, al quotidiano
napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto da Rocco De Zerbi, futuro
deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al quale Labriola
aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di Napoli" e,
nel febbraio 1872, in quella de L'Unità Nazionale, diretta da Ruggiero Bonghi,
al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue dieci
Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in psicologia e in morale,
pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale, dedicata ad Arturo Graf e
Morale e religione. Trasferitosi a Roma, ove muore di difterite il figlio
Michelangelo, supera il concorso alla
cattedra di filosofia e pedagogia all'Roma. Pubblica il saggio
Dell'insegnamento della storia e l'anno dopo è direttore del Museo di
istruzione e di educazione: sono anni in cui Labriola mostra un particolare
impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la
diffusione dell'istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo
per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s'informa sugli
ordinamenti scolastici dei paesi europei: nel 1880 pubblica gli Appunti
sull'insegnamento secondario privato in altri Stati e nel 1881 l'Ordinamento
della scuola popolare in diversi paesi. Contemporaneamente Labriola abbandona
le convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni
radicali: oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica l'intervento dello Stato
nell'economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio
universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso al Parlamento. Ottiene
la cattedra di filosofia della storia all'Roma e inizia un corso di storia del
socialismo. A seguito di notizie che danno imminente la stipula del Concordato
con il Vaticano, Labriola tiene all'Università la conferenza Della Chiesa e
dello Stato a proposito della conciliazione, considerando una minaccia per la
libertà di pensiero ogni accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella
vita pubblica italiana. Il quotidiano
romano La Tribuna pubblica una sua lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere
«teoricamente socialista ed avversario esplicito delle dottrine cattoliche» e nella
conferenza Della scuola popolare, auspica l'abolizione dell'insegnamento
religioso. Sul giornale Il Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica
contro le manifestazioni; tiene agli operai di Terni un discorso su Le idee
della democrazia e le presenti condizioni dell'Italia, in cui afferma di
impegnarsi personalmente in politica e dichiara di desiderare un «governo del
popolo mediante il popolo stesso» e la formazione di un grande partito
popolare. Scrive che «I parlamenti, come forma transitoria della vita
democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo del proletario» e il 20
giugno tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso Del
socialismo commemorando la Comune di Parigi. Nell'ottobre Labriola saluta
il congresso della socialdemocrazia tedesca a Halle scrivendo che «Il
proletariato militante procederà sicuro sulla via che mena diritto alla
socializzazione dei mezzi di produzione ed l'abolizione del presente sistema di
salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze».
Nel 1890 entra in rapporto epistolare con Engels, che conoscerà a Zurigo, e con
i maggiori dirigenti socialisti europei, Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue,
mentre rimprovera a Filippo Turati, il più prestigioso leader socialista
italiano e direttore della rivista Critica sociale, superficialità teorica e
arrendevolezza nei confronti degli avversari politici. Vuole che il Partito
socialista, che deve nascere ufficialmente con il Congresso di Genova del 14
agosto 1892, sia un partito di operai e non di intellettuali positivisti
borghesi. Vede nei Fasci siciliani un concreto esempio di socialismo popolare e
rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a essere compreso in
Italia. Fa lezione sul Manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo,
di star facendo un nuovo corso «su la genesi del socialismo moderno» ma di non
riuscire a risolversi a scriverne un saggio per l'ignoranza su tanti «fatti,
persone, teorie, etc, che sono tante fasi, tanti momenti né sentiti né
conosciuti in Italia», come ribadisce a Victor Adler che «il marxismo non
piglia piede in Italia». Su sollecitazione del Sorel, scrive In memoria
del Manifesto dei comunisti, il primo dei suoi saggi sulla concezione
materialistica della storia, che esce in francese sulla rivista del Sorel, Le
Devenir social; lo spedisce a Engels in luglio, ricevendone le lodi. Anche il
giovane Croceche ne promuove la stampa in Italiane è influenzato tanto da
attraversare il suo pur breve periodo di adesione al marxismo. Nei due anni
successivi Labriola scrive altri due saggi, Del materialismo storico,
dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e di filosofia. È
sepolto presso il cimitero acattolico di Roma. Schematicamente, possiamo
suddividere il percorso filosofico e politico di Labriola in tre diversi
momenti: innanzitutto fu propugnatore dell'idealismo hegeliano (influenzato da
Bertrando Spaventa, del quale fu allievo a Napoli); successivamente, possiamo
distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del
realismo herbartiano, ed infine, il momento della maturità, in cui aderisce
pienamente al marxismo. L'approccio di Labriola al marxismo è influenzato
da Hegel e Herbart, per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi
come Karl Kautsky. Egli vide il marxismo non come una schematizzazione
ideologica ed autonoma dalla storia, ma piuttosto come una filosofia
autosufficiente per capire la struttura economica della società e le
conseguenti relazioni umane. Era necessario aderire alla realtà sociale del
proprio tempo storico se il marxismo voleva considerare la complessità dei
processi sociali e la varietà di forze operanti nella storia. Il marxismo
doveva essere inteso come una teoria ‘critica', nel senso che esso non
asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad interpretare le
contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo al centro della
sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e
materiale "prassi" umana. La sua descrizione del marxismo come
"filosofia della prassi" verrà ripresa nei Quaderni dal carcere di
Gramsci. In pedagogia Labriola avvertì l'esigenza collettiva dei tempi
nuovi, il bisogno di una scuola popolare che servisse da reale tessuto
connettivo dell'Italia post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e
fine dell'evoluzione morale (e complessiva) delle classi subalterne.
Nella monografia Dell'insegnamento della storia, del 1876, dedicata alle più
importanti questioni della pedagogia generale, Labriola aveva asserito la
centralità dell'educazione alla socialità: il metodo pedagogico doveva essere
quello della ricerca critica e di dibattito e di sperimentazione, unica via
capace di condurre alla padronanza del pensiero logico-razionale e in grado di
formare personalità aperte alla ricerca e al confronto (non a caso i primi
studi di Labriola erano stati rivolti a Socrate e al metodo socratico).
Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per Labriola era necessaria
un'attenzione maggiore ai prerequisiti logici piuttosto che alla struttura
interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che egli
chiama un'epigenesi analitica. Celebre fu una sua conferenza tenuta nell'Aula
Magna dell'Roma, discorso sollecitato
dalla stessa Società degli Insegnanti della capitale, che poi ne curò la
pubblicazione in opuscolo. Era necessario dare concretezza a piani di
istituzioni scolastiche entro le quali le didattiche si sviluppassero non da
una deduzione della teoria, ma come risultato di lotte politiche, di ideali
sociali, di tradizioni storiche, di condizioni ambientali. Per Labriola proprio
l'azione dell'ambiente storico sociale sugli uomini e la loro reazione ad esso
costituiscono il tema dell'educazione. Per cui « le idee non cascano dal cielo
». Il metodo deve partire dalla prassi, dalla pratica e non dalle idee, dai
principi astratti. Il nucleo essenziale della pedagogia della « prassi »
sta nella percezione della connessione dell'opera educativa con le condizioni
dello sviluppo economico-sociale. Trockij conobbe «con entusiasmo»
l'opera di Labriola nel 1898, quand'era detenuto nel carcere di Odessa. Egli
scrive nelle sue memorie che «come pochi scrittori latini, Labriola possedeva
la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'era impacciato, certo
nel campo della filosofia della storia. Sotto quel dilettantismo brillante
c'era vera profondità. Labriola liquida egregiamente la teoria dei fattori
molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i nostri
destini». Trockij aggiunge che dopo 30 anni continuava a rimanergli in mente
«il ritornello Le idee non cascano dal cielo». Opere Una risposta alla
prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di
Spinoza, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele,
Napoli, Stamperia della Regia Università, Della libertà morale, Napoli, Tipografia
Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Tipografia Ferrante, Dell'insegnamento
della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola
popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta, I problemi della filosofia della storia.
Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza
tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato
per la commemorazione di G. Bruno in Pisa. Lettera, Roma, Aldina,Del
socialismo. Conferenza, Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera ad
Ettore Socci a proposito del Congresso democratico, Roma, La cooperativa, Saggi intorno alla concezione materialistica
della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma, Loescher, Del
materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo di
socialismo e di filosofia. Lettere a G. Sorel, Roma, Loescher, B. Croce, Bari,
Laterza, Da un secolo all'altro.
Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la
libertà della scienza, Napoli, Tipi Veraldi, A proposito della crisi del marxismo,
in "Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di
filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce, Bari, Laterza, Socrate,
Benedetto Croce, Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta
di B. Croce sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni
sulla storia e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti,
Brescia, Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia
e socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Luigi
Dal Pane, I, Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La
dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano,
Feltrinelli, Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano,
Feltrinelli, Scritti di pedagogia e di politica scolastica, Dina Bertoni Jovine,
Roma, Editori Riuniti, Saggi sul materialismo storico, Valentino Gerratana e
Augusto Guerra, Roma, Editori Riuniti, introduzione e cura di Antonio A. Santucci,
Il materialismo storico, antologia sistematica Carlo Poni, Firenze, Le Monnier,
Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e introduzioni
di Demiro Marchi, Firenze, La nuova Italia,Scritti politici. Valentino
Gerratana, Bari, Laterza, Opere, Franco Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici
e politici, Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, Lettere a Benedetto Croce. Napoli,
Istituto italiano per gli studi storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era
della concorrenza al monopolio. Nascita e lotte del socialismo. IV saggio,
incompiuto, della concezione materialistica della storia, Lecce, Milella, Scritti
liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici, Nicola Siciliani De Cumis, Torino,
POMBA, Epistolario Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori
Riuniti, Lettere inedite. Roma, Istituto
storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica italiana Corrispondenze
alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di Stefano Miccolis,
Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti, Milano, M&B
Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI, Giordano
Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni
della Normale,. Tutti gli scritti
filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,.
Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione
l'edizione nazionale delle opere di Antonio Labriola, istituita con decreto del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, A.Savorelli
e A. Zanardo, Bibliopolis, I problemi della filosofia della storia e recensioni
G. Cacciatore e M. Martirano, Bibliopolis, Da un secolo all'altro. Stefano
Miccolis e Alessandro Savorelli, Bibliopolis,. Copia archiviata, su
archividifamiglia-sapienza.beniculturali. L. Trotzkij, La mia vita,Carlo
Fiorilli, Antonio Labriola. Ricordi di giovinezza, in «Nuova Antologia», Giuseppe
Berti, Per uno studio della vita e del pensiero di Antonio Labriola, Roma, Ernesto
Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani: Milano, Luigi
Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Milano, Sergio Neri,
Antonio Labriola educatore e pedagogista, Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio
Labriola, la vita e il pensiero, Bologna, Demiro Marchi, La pedagogia di
Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e
nella cultura italiana, Torino, Stefano Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e
scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano, Giuseppe
Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, Roma, Filippo Turati,
Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici, Milano, 1979.
Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali, Bari, Stefano Poggi, Introduzione
a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi, Antonio Labriola. Dalla filosofia di
Herbart al materialismo storico, Bari, Franco Livorsi, Turati. Cinquant'anni di
socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi, Ordinamento politico e società
nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio Areddu, Sulle lettere di
Antonio Labriola a Benedetto Croce, Firenze, Renzo Martinelli, Antonio
Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del
marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce
nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini,
"Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo",
in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale M. Guidi e L. Michelini, Annali della
Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e
nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A.
Labriola, "Il Cronista", Antonio Labriola e la sua Università. Mostra
documentaria per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di
Antonio Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio
introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia,
Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi,
contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007.
Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica,
Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis,
Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica,
Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio
Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,, Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale
di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro
Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Antonio Labriola, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Antonio Labriola, su Liber
Liber. Opere di Antonio Labriola, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio
Labriola, su Progetto Gutenberg.
L'Archivio Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio
Labriola, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Roma. La personalità storica di
Socrate I. Socrate o gli Ateniesi pag. 1-10. —II. Educazione e svi- luppo della
coscienza di Socrate pag. 10-20. — III. Carattere di Socrate pag. 20-22.
—Osservazioni su le fonti, pag. 22-23. II. —Orizzonte delia coscienza socratica
I. Posizione di Socrate nella storia della religione greca pag. 25-33. —II.
Elementi della coscienza di Socrate pag. 33-30. III. —Del valore filosofico di
Socrate I. Formalismo logico pag. 40-43. — II. Determinazione del valore del
formalismo logico pag. 43-46. —Osservazioni —1) Li- mitazione del sapere umano
pag. 46-47. — 2) Socrate e i Solisti pag. 48-52. —Pretesa soggettività di
Socrate pag. 52-54. — 4) Preteso misticismo di Socrate pag. 54-55. IV. —Del
metodo di Socrate I. Presupposti storici e psicologici pag. 58-60. — II. Motivo
e sviluppo del metodo socratico pag. 60-67. — Osservazioni.— 1) Imprecisione
formale del metodo socratico pag. 68-70. — 2) Della differenza fra
rappresentazione e concetto, e del prin- cipio d'identità pag. 71-72. pag. 1-
23 V. — Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene . . •
Osservazioni pag. 80-82. VI. — Conoscere e volere I. Equazione fra volere c
sapere (ptù&i cautdv) pag. 85-89. — II. Fondamento della pedagogia
socratica pag. 89-92. * » » 24- 30 37- 55 56- 72 73- 82 83- 92 VII.
— Le forme concrete della vita elica È Socrale un riformatore? pag. 93-98. — I.
L’individuo e le sue relazioni domC5tiche pag. 08-103. — II. L’ individuo e lo
stato pag. 104-108. Vili. —Delle virtù Generalità pag. 109-112. — I. Il
concetto delle virtù nell'o- rizzonte socratico pag. 112-113. — II.
Identificazione della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali
pag. 117-119. IX. — Di nuovo del bene, della felicità c del sapere I. Del bone
pag. 121-120. — IL Della felicità pag. 12G-127. — III. Del sapere pag. 127-129.
X. —Della Divinila e dell’anima umana nell’orizzonte socratico . I. Il Concetto
della Divinità png. 181-138. — IL II concetto dell’ anima pag. 138-140. XI. —
Riepilogo e conclusione La personalità storica di Socrate. . . 1-42
I. Socrate e gli Ateniesi pag. 3-18. — II. Educazione e sviluppo
della coscienza di Socrate pag. 18-86. — III. Carattere di Socrate
pag. 37-39. — Osservazioni su le fonti pag. 40-42. II. —
Orizzonte della coscienza socratica . . 43-68 I. Posizione di
Socrate nella storia della religione greca pag. 47-62. — II.
Elementi della coscienza di Socrate pag. 62-68. II r. — Del valore
filosofico di Socrate. . . 69-104 I. Formalismo logico pag. 77-82.
— II. Determinazione del valore del forma- lismo logico pag. 83-88.
— Osservazioni — i) Limitazione del sapere umano pag. 88- 90. — 2)
Socrate e i Sofisti. Pretesa soggettività di Socrate pag. 98- 102. — 4)
Preteso misticismo di Socrate pag. 103-104. IV. — Del metodo di
Socrate 105-135 I. Presupposti storici e psicologici pa- gine
111-115. — II. Motivo e sviluppo del metodo socratico pag. 115-127. —
Osser- vazioni. — i) Imprecisione formale del metodo socratico pag.
127-133. — 2) Della differenza fra rappresentazione e concetto,
p^^- e del principio d'identità pag. 133-135. V. — Dell'etica
socratica i?i generale, e del concetto del bene 137-156
Osservazioni pag. 153-156. VI. — Conoscere e volere
157-176 I. Equazione fra volere e sapere (yvttjtì-t. aauxóv)
pag. 163-171. — II. Fondamento della pedagogia socratica pag.
171-176. VII. — Le forme concrete della vita etica . 177-206
È Socrate un riformatore? pag. 179-189. I. L'individuo e le sue
relazioni dome- stiche pag. 189-198. — II. L'individuo e lo Stato
pag. 198-206. VIII. — Delle viriti 207-226 Generalità
pag. 209-215. — I. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico p.
215- 217. — II. Identificazione della virtù e del sapere pag.
217-223. — III. Igno- ranza degli elementi naturali pag. 223-226.
IX. — Di nuovo del bene, della felicità e del sapere ...
227-246 I. Del bene pag. 230-239. — II. Della felicità pag.
239-242. — III. Del sapere pag. 242-246. X. — Della Divinità
e dell'anima umana nel- l'orizzonte socratico 247-267
I. Il Concetto della Divinità pag. 251- 263. — II. Il concetto
dell'anima pa- gine 263-267. XI. — Riepilogo e conchcsione
269-279 Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in bocca
agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse ripeter
sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il libero
corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea esprimere il
suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla maniera di Gor-
gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto il campo dello
scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa e virulenta
di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed una
moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi
limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditori ('). Questo fare
era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè rinunziare al
mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni. IV, 4, 6. Plat. Gorg.
p. 490 E. (2) Lo Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza che correa
fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale; vedi in generale
op. cit., cap. II, pp. 72-115. 78 SOCRATE toria non potea non
sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche fac- cende
dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo
all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni
istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un
mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in
serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ?
Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e
quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta
degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle
medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di
pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni
stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si
potesse apprendere, come avvenne (i) Lo Zeller ha molto bene criticata
l'opinione or- dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare, op. cit., voi.
II, p. 73; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore
filosofico del dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui
recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica. più tardi, le
relazioni morali nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta-
mente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia
dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi
che avean raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di-
scutere sul valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia
notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e
certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi
presuppo- sti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non
apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della
ricerca, e come presente alla co- scienza del filosofo per sé ed
obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di • (i) Vedi su questo
punto Hermann: Gescìiichte ecc., p. 257 e seg.; e lo stesso autore Prof.
Ritler's Dar- stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, 1833. Hegel è
stato uno dei primi a riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la
determinazione del prin- cipio filosofico di Socrate, op. cit., voi. II, p. 105
e seg., e cfr. Biese: Die Philosophie des Aristoicles, voi. I, p. 28 e
seg. 8o SOCRATE colui, che ragionando avverte per la prima volta,
che il ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera
corretta e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa
troppo ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema
logico della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo
stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza
della forma logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo
valore : ma tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del
sapere esatto e formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale
energia, un bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di
una opinione chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria
coeffi- cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non
può ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se
noi ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che
la coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa
nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei
sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed
inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora
intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la
parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira-
zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe
avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le
incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la
vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui-
stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella
definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due
funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era
tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello
spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la
natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza
precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza,
per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 82 SOCRATE che possa dirsi certa
ed evidente. Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente
designato come elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di
sceve- rare dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti
del soggetto pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come
qualcosa di affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer-
cava; e senza isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò
un grado di sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo
principio efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni
posteriore attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates
kein Zuriick- ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen
Regionen des Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so
schreitet sie nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel, op. cit., p. 51. Da
questo e da altri luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto più
schietto della filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti
scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non
volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del sapere,
e ricade nell'errore di Schleier- macher e di Brandis. Determinazione del
valore del formalismo logico La caratteristica, che noi abbiamo data
dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già
s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un'opinione corrente,
secondo la quale So- crate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara
coscienza del valore del sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea
del sapere sia la scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la
esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza
dell'idea, del soggetto, dello spi- rito e così via (^). Senza la pretensione
della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle
caratteristiche; e perchè at- tribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore
di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture per
spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Ba- (i) Per es.
Schleiermacher, op. cit. p. 300. , (2) La forma più esagerata è quella del
Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit.,
passim. 84 SOCRATE sterà notare solo questo, che partendosi dalla
supposizione, che Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé
stesso, come forma o attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente
di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione,
ma si è poi obbligati a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a
priori del sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in
ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una
scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica (');
mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non
come un risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e
semplice esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che
il valore filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale
e certo; ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta
opinione, esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in
apparenza sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e
seg. che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta
come una potenza deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la
tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le
complica- zioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto
del sapere abbia rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare
esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal
confi-onto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la
consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('),
si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giu- ;
dizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non può
indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il
valore filosofico di Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della
sua co- (i) L'Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una
piena coscienza del proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore,
dal momento che s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un
documento biografico; vedi op. cit., p, 13 e seg. 86 SOCRATE
scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più
complessa, e più personale di quelli che conducono esclu- sivamente alla
conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci
fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la
congettura, il processo genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato
impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche.
Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè
l'ac- cettazione o la critica di una tradizione teo- retica; e per questa
ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio logico della
certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed
incon- sapevole. Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano
predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e
depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo
tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni
correnti: e quella naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in
un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia
del mondo, e la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza,
la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza
della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose
perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la
sua in- telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma
costante dei giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua
alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli,
che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella
lingua e nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei,
se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti con- dizioni
della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza,
che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare
entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece
divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra
maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un posto na-
turale alcune opinioni, che incontestabilmente 88 SOCRATE gli
appartengono, e che altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò,
molte quistioni, che si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono
escluse di fatto. Tocche- remo alcuni di questi punti. Nel concetto che
Socrate s'era fatto dello Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque
altra delle sue definizioni, il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6,
21-29. (2) Vedi il Jacobs, Vermischte Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte
enthalt ebeti so, wie die Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des
Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des
Schlechtesten in sich. che correa
fra la novità delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla
conser- vazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era
sussidiata dal convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il
principio normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che
la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti
potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello
Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono-
scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una
legit- tima ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un dovere,
quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica
intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita
politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i
suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e
perfetta notizia degli obblighi spe- (i) Mem., Ili, 5, 21 e 9, io; e cfr.
ibid., I, 2, 9; e Plat. Apol., 31, E. (2) Mem., Ili, 6; e IV, 2, 6 e seg.
SOCRATE ciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori
dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio che solo chi sa
deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza di questa massima
in- novatrice ci fa apparire l'attività socratica in una manifesta opposizione
con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di
essa, il dritto ereditario della monar- chia e dell'aristocrazia, ed il
concetto demo- cratico della maoraioranza erano recisi nella loro radice e
subordinati alla necessità di una generale rettificazione di tutte le forme
sociali dal punto di vista della consapevo- lezza. Ma pur nondimeno la cosa non
andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il
presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di
una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sa- pere,
di cui parlava Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica
dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un
insieme di teorie univer- sali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più
tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la
coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determi- nate dal
concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha
co- lorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi
alle pratiche esi- genze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane
subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la
ori- ginalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui
procede, che, mal- grado l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate
riconobbe l'ubbidienza alle leggi come impreteribile ('); e, fedele all'antico
principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene
dell'individuo da quello della comunità (^); e considerando la sua at- tività
filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto
alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronun- ziata contro di lui
non fosse che una legittima manifestazione dell'attività dello Stato (•^).
L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e
l'esigenza di una per- (i) Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7, 9. (3) Mem., IV, 4,
4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr. Phaed., 98 C e seg. 202 SOCRATE
sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente nelle scuole
socratiche; e special- mente in Platone, il cui ideale politico non deve essere
inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico ('), né come un segno pre-
cursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come un progresso
teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel
sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza
dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto
pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio
speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al manteni-
mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei
dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui
l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell' individuo
all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza (i) Come
vuole l'Hermann. (2) Come vuole il Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller,
Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati
Vortràge ecc., pp. 62-82 incertezza e divagazioni. Sotto questo
riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il
marinaioedilgeneraleecc.,perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì
cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico
delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed
incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione
di que- sto o quel dialogo, perchè in tutti gli sva- riati casi non rileveremmo
che una sola con- clusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che
abbia nettamente formulata l'esi- genza di una tecnica speciale delle arti e
ravvisata la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser
collocata la riflessione normativa: e, per le cose già espo- ste, non fa
mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perchè altri non creda, che egli
intendesse conciliare la pratica e la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade
in acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno ri-
guardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota ('), non
ha fonda- (i) Mem., Ili, cap. ii, 204 SOCRATE mento che nella
natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve es- sere
addotto a provare che la principale preoc- cupazione di Socrate fosse la
ricerca dei con- cetti ('), né può essere inteso come interamente derisorio
(^), perchè l'ironia è un momento ofenerale della conversazione socratica, mo-
stra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch'esso nei
suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socra- tico di un
esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava allora gli scrupoli
esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione
della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica (^); anzi, per le
speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere
un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Io Zeller, op. cit., p.
75, nota 2=*. (2) Questa è l'opinione di Brandis: Enhvickelun- gen ecc., p.
236, nota 49. (3) Vedi su questo argomento l'Hermann: Priva- talterthilmer, \
29, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John : The Hellenes, the
history of the mannei's of the ancient Greeks, Londra, 1844, voi. Il, p.
42. LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA 205 a quello della donna
legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo ('). E a terminare questo
schizzo della co- scienza politica e sociale di Socrate osser- veremo, che
egli, col rilevare l' importanza dell'attività cosciente, nobilitò il concetto
del lavoro, facendone uno degli elementi costi- tutivi dello Stato e della
famiglia. Questa ve- duta era allora qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire
contro un pregiudizio, fon- dato nella costituzione sociale dell'antica Gre-
cia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell'uomo
libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no
superato il particola- rismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole
Senofonte (^), o per ingiusta come vuole Platone p), l'offesa arrecata al
-nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti dai vari espositori noi
non sappiamo affermare {*). Ad ogni modo, l'autorità di Senofonte ci par- (i)
Vedi Jacobs: Vertnischte Schriften, IV, p. 379 e seg. (2) Meni., II, 6, 35 e
cfr. Ili, 9, 8. (3)Crit.,49Aeseg.ecfr.Rep.,I, 334Beseg. (4) Questa è anche
l'opinione dello Zeller, op. cit., p. 114. 2o6 SOCRATE rebbe da
preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla ci
pare infondata e priva di ogni verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners:
Geschichte der Wissenschaften, II, p. 456 (*), pone una distinzione arbitraria
fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello che può toccareil
suobenessereinterno,negandochequest'ul- timo sia incluso nel xaxcòj iioistv di
Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del Brandis, secondo la quale
Senofonte non avrebbe espresso interamente il pensiero di Socrate. Cfr. lo
Strùmpell, op. cit., p. 179, che ha tentato supplire Senofonte col Gorgia, p.
481.Antonio Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo,
partito socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola,
Labriola su Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della
storia, dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del
socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo
in Italia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e
il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51686128490/in/photolist-2mRgKq7-2mQBLt7-2mQerAd-2mMQbzj-2mLP4Rj-2mLQdrQ-2mLGjg5-2mKw3hq-2mKjVho
Grice e
Lagalla – filosofia italiana –la teoria geocentrica – la terra al centro
del universe -- Luigi Speranza (Padula). Filosofo. Grice: “I love Lagalla: the
fact that he was an Aristotelian when everybody in Florence was a Platonist!” Figlio
di Roberto, alto funzionario della burocrazia vicereale, e Vittoria Rosa.
Studia filosofia. Ancora bambino, perdette i genitori e fu affidato con i
fratelli alla tutela di uno zio paterno, Girolamo Lagalla, che lo avviò agli
studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua
formazione. Si iscrisse ai corsi di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri
G. Stillabota, F.A. Vivoli e B. Longo. Affidato dal Collegio degli archiatri a
G. Provenzale e G. Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse
condotto con una tale competenza da meritare, nel 1589, i gradi accademici
"nulla pecuniarum solutione". Nello stesso anno, grazie a Longo,
divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a
Napoli, con la quale si diresse verso le coste laziali, per giungere poi a
Roma. A Roma avrebbe conseguito una
nuova laurea, in seguito alla quale entrò al servizio di Santori, per il cui
interessamento ottenne da Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia
presso la Sapienza romana. Cura per Facciottola stampa di un commento ad
Aristotele, “De immortalitate animae ex sententia Aristotelis libri septem”, precoce
manifestazione di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla
quale Lagalla si interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che
contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia. Altre opera: “La circuncisione di Cristo”. Al
problema dell'anima Lagalla. dedicò corsi della lettura ordinaria di filosofia,
che tenne alla Sapienza. Queste lezioni furono raccolte in un manoscritto dal
titolo “De anima commentarii”. Allo stesso argomento è dedicato il penultimo
volume dato alle stampe dal L., il “De immortalitate animorum ex Aristotelis
sententia libri tres” (Roma). Lagalla, pur riaffermando le posizioni della
tradizione tomistica sulla questione dell'anima umana, secondo le quali l'anima
intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta quelle di
Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli, ritenendo che
non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove eternamente, ma
piuttosto come “forma informante”. Morto Santori, si fosse avvicina a Pietro Aldobrandini,
entrando al suo servizio. Conobbe Cesi, al quale fu legato da una cordiale
amicizia. Se questa non diede luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei,
malgrado una precisa richiesta da parte di Lagalla., fu solo a causa della sua
marcata professione aristotelica[. Cesi lo presentò comunque a Galilei quando
quest'ultimo si recò a Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con
esso realizzate al giudizio degli autorevoli astronomi del Collegio romano,
nonché di influenti membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne
derivarono alcuni incontri, durante i quali Lagalla., incuriosito dall'
"occhialino" galileiano, lo sperimentò e fu intrattenuto da Galilei
con l'esibizione delle "pietre lucifere di Bologna". Da ciò che vide,
trasse spunto per due scritti, pubblicati in un unico volume, il “De
phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. Gallileo Gallileo nunc
iterum suscitatis physica disputatio… nec non de luce et lumine altera
disputatio” (Venezia). Atteso con
impazienza da Galilei, che fu costantemente informato da Cesi dei progressi
nella composizione, il libro deluse l'ambiente linceo. Nel primo dei due scritti, pur difendendo la
verità ottica di ciò che mostrava il telescopio, cerca di spiegare l'irregolare (la scabrosità
della superficie lunare) come prodotto del regolare, attraverso una sorta di
estensione di un principio di regolarità (invariabilità dei cieli e dei corpi e
fenomeni inclusi in essi), cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica.
Le asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense di
"etere", più opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel
secondo scritto Lagala. racconta una discussione sulla natura della luce avuta
con Galilei, Cesi, G. De Misiani e G. Clementi: dopo aver ribadito che la luce
non è una sostanza, ma un accidente o una qualità reale, tratta delle
"pietre lucifere" e, contro l'interpretazione di Galilei, osserva che
la luminescenza delle pietre non è una proprietà del minerale non trattato, ma
una conseguenza del processo di calcificazione, che rende la pietra porosa e in
grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di luce, poi lentamente
rilasciata; con ciò esclude che possa essere il prodotto della riflessione
della luce solare sulla Terra da parte della Luna. A proposito del primo dei due scritti,
Galilei meditò di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso Lagalla,
di cui le note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro
preparatorio. Tale risposta non arrivò, ma i rapporti tra i due divennero più
stretti, forse per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni
scientifiche. In occasione dell'osservazione di una cometa, scrisse il Tractatus
“de metheoro quod die nona novembris anni presentisin Urbe apparuit sopra
collem Pincium” e poiché quest'opera pareva, in alcuni punti, accogliere le
posizioni di Galilei, fu attaccato di scarso aristotelismo. Si convinse così a
chiedere a Galilei e a Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando
l'occasione (la morte di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fece
niente, ma anche in questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero
saldi. Aumenta intanto la sua
insofferenza verso gli ambienti romani che lo guardavano con crescente
sospetto. La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento
di Allacci. Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato
incarico al di fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con
attenzione la proposta di trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le
compromesse condizioni di salute (soffriva di una malattia urinaria, forse una
ipertrofia prostatica con complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco
potesse peggiorarle lo portarono a rifiutare.
Continua a praticare la filosofia, l'astronomia, e segue il suo
protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari luoghi d'Italia. Gli è stato
dedicato il cratere Lagalla sulla Luna. Altre saggi: “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii
usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris
anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera
disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca
apost. Vaticana, Barb. lat., 323; cfr. Kristeller, II,444 cfr. Edizione naz.
delle opera, Firenze, Biblioteca nazionale, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle
opere di Galilei, X indica una stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma
Heidelbergae. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Giano Nicio Eritreo [Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum
illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone
Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani, Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario
istorico” (Napoli); F. Colangelo, Storia
dei filosofi e dei matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii
vita, in Novae patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno”
(Messina); G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e
benemeriti salernitani, Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte,
Roma, ad ind.; M. Bucciantini, Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e
momenti della cultura salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno, Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere
del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione
nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è
pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G.
Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary
bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia
napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him
Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che
dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la
terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna,
l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei.Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690418222/in/photolist-2mKGUth
Grice e
Lamanna – il risorgimento fiorentino – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Matera). Filosofo. Grice: “I like
Lamanna – a very systematic philosopher especially interested in the
longitudinal history of philosophy – he wrote on economics during controversial
times, too!” Linceo. Figlio di Angelo Raffaele Lamanna, calzolaio, e da Maria
Bruna Pizzilli, filandaia. Fece i primi studi in seminario e poi nel Liceo
classico della sua città. Si trasferì a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna
a Messina e Firenze. Pubblicò un commento alla Dottrina. Autore di un fortunato
manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei.
Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito,
per Lamanna, che la religiosità sia un'esigenza naturale dello spirito umano,
egli rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e
il dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come
razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e
disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la
concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la
necessità dell'esistenza di Dio. Analoga
antinomia gli sembra esistere tra morale e politica che a suo avviso può essere
risolta trasportando nell'attività pratica la riconosciuta razionalità
dell'ordine trascendente e divino, che è di per sé bene assoluto. In questo
modo l'operare umano si fa etico ossia, secondo Lamanna, realmente politico,
realizzandosi concretamente nell'ordinamento giuridico e, così come
nell'operare razionale si concreta la vita morale, da questa si raggiunge
l'armonia in cui consiste la bellezza. Saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze),
Kant, Milano, “La polizia di Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici
d’eta antica” (Firenze); La filosofia del Novecento, Firenze); “Il bene per il
bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze); Scritti storici e pensieri sulla
storia, Padova); P. Piovani (Torino); Pietro Piovani, Tra etica e storia,
Napoli); G. Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», G. Calò, Il
pensiero, Napoli, G. Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico
degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna
was concerned about the idea of the state, which is not an easy thing. More
specifically, the concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy
for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’.
– The history goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He
is the only philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism
into FASCISMO, which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own
entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The
third volume is ITALO-CENTRIC, from Vico onwards, Farlingieri, and notably
Gentile to end with MUSSOLINI. The idea is presented by Lamanna as a
‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato
liberale Borghese is in ruins – and although he plays with the ‘socialist
state’ he does not consider it within the realm of the proper history of
philosophy when he talks of French illuminism. So his concern is wht the idea of
the state in the liberal party – the philosophy of the laissez faire. It
provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And there is competition.
Also as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly
‘equal’ for every member of society, so that liberalism only pays lip service
to liberale. With the socialist state, the problem is the opposite: the state
becomes a gestore – and there is this idea of an endless dialectic among the
classes. So how does Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato
fascista’ – Had Lamanna continued from Kant to Fichte and Hegel, the student
would be more prepared! Mussolini’s idea of the state is Hegel’s – it is the
NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of this nazione, he means
the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE however, is MORE than the
sum of its individui. Individui come and go – but the state remains. The state
becomes governo. Mussolini’s prose is machist and homosocial, and Lamanna has
to lower down the rhetoric, but nothing is said about Germany. It is ITALY
which is seen as proposing this new or novel idea of the state (after la
rivoluzione fascista of 1923) with a Kantian approach. Since Lamanna has only
read Kant seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s fascist
state gives each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the CAPO or
Duce who ‘knows’ how to command. Lamanna quotes from Cicero to the effect that
it is obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on th
azione or prassi, which is understandable since the pupils are supposed to
learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about
this. In 1914, when ‘I all started it’ I did not know where I was going. It was
the ANTI-PARTY movement --. Lamanna provides the editorial. During the
ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE
NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government
(polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even
the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to
worthip the God of the Heroes.It is an ‘etica guerriera’ and it targets the
giuventu – the youth or male youth --. Being commanded by one know knows is a
privilege. Ths is interesting because this was conceived after the temporary
successes in Africa – Mussolini romano e africano – and before the problems of
the second world war. For the first time, Italians FEEL they are part of a
NATION. The seeds were in the Risorgimento, but this got stuck with a liberal
kind of state, which only provided negative freedom, and where the initial
conditions were unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism,
so the Congress is closed, and the only party is the national party. Jews are
excluded from PUBLIC service (even if some wrote panegirici for fascism, like
Mondolfo). The philosophical foundations are found in Hegel. If Hegel
concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself.
Gentile did not really help, although he was the official voice of fascist
philosophy --. The student of philosophy then was taught the lessons of history
(philosophy was IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the final stages
into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is no idea of
dissent. Lamanna however emphasizes that the stato fascista still recognizes
the indidivuality and the personality of each member – as the stato comunista
or socialista would not!” Eustachio Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E.
Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il risorgimento fiorentino. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754314550/in/dateposted-public/
Grice e
Lami – la ragione degl’antichi – la tradizione della polizia romana --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Lami; he has written
interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Saggi:
"La ragione degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone”
(Rubettino, Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini)
"Qui ed ora -- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio,
Rimini); "Il libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis,
Pesaro); G. Sessa, "Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia
politica Filosofia della storia Nuova Destra. Letteratura e Tradizione//miro
renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/ Scuola Romana di Filosofia
Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola. E’ davvero difficile
per me, ricordare Gian Franco Lami. In questi giorni, ho dovuto farlo più
volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare
da domenica 23 Gennaio quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e
sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la
presentazione di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come
relatore, anche lui. Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo
incontro, quando io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di
assistente di Augusto Del Noce. Fin da allora, non si trattò di un semplice
rapporto professionale, in quanto Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo
frequentavamo, l’amore per il sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza,
in vita. Mi coinvolse immediatamente in un progetto ambizioso: quello di
introdurre in un paese dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della
storia Eric Voegelin, allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa
ricerca, alla quale ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona,
assieme a Giuliano Borghi e pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di
una serie di antologie voegeliniane (qui è bene rinviare a Eric Voegelin: un
interprete del totalitarismo, Astra 1978), che fecero ampiamente discutere. Il
merito maggiore, conseguito da Lami, in questo ambito di studi, fu di
individuare nel filosofo austro-americano, un diagnosta della crisi della
modernità. In particolare, attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e
storia, opera monumentale, Egli presentò l’esperienza classica della ragione,
quale unica terapia possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si
veda, prefazione a Eric Voegelin, Israele e rivelazione, Aracne 2004, ma anche
G. F. Lami, Introduzione a E. Voegelin, Giuffré 1993). Fece propria, in
modo critico e originale, l’eredità di Del Noce, secondo modalità più profonde
rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli, scelse, come il Maestro, una via
di fede. La cosa, è facilmente deducibile dalla lettura dell’organica
monografia che egli dedicò al filosofo cattolico (Introduzione a Augusto Del
Noce, Pellicani 1999), da cui si evincono tanto la gratitudine per il
discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da un metodo rigoroso
d’analisi quanto le differenze speculative essenziali, dovute alla
valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose dei singoli,
nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro individua, nello
specifico, il campo d’indagine della Scuola Romana di Filosofia politica, che a
Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente contribuito gli
interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, Adriano Tilgher e
Julius Evola. Al primo, dedicò un volume significativo (Adriano Tilgher, un
pensatore liberale, Seam 2000), nel quale evidenziò il tema della pluralità
delle morali, come caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo Lami,
lo avvicinava al filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individuava effettive
vie realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del
santo, dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo, dette alle stampe la
prima monografia filosofica (Introduzione a J. Evola. Un passo per la vita e un
passo per il pensiero, Volpe 1980). Inoltre, quale collaboratore della
Fondazione Evola, ha curato diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei
quali, come pochi, è riuscito a contestualizzare storicamente l’opera del
pensatore romano e a coglierne il valore, in un lavoro esegetico sempre aperto
alla comparazione. E’ proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono
dipanate, nel corso degli anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che
Egli leggesse Evola, tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti
della tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a
quest’ultimo, interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di
matrice cristiana del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana.
Stigmatizzò sempre negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della
visione del mondo ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla
quale la civiltà greco-romana tanto aveva insistito. La cosa, è particolarmente
chiara nello studio dedicato a questo specifico tema (Socrate Platone
Aristotele, Rubbettino 2005), nel quale tentò di presentare il simbolo epocale
del mondo antico, la “vita contemplativa”, come realizzantesi pienamente nella
dimensione della Città, a testimoniare della contrapposizione tra tensione
utopica tradizionale, e scacco utopistico, tipicamente moderno. Tema questo,
attorno al quale spese le sue energie intellettuali nel recente volume Tra
utopia e utopismo (Il Cerchio, 2008). Corrispondere a quella che è stata
la via da lui indicata, ad un tempo ideale ed esistenziale, a quella che egli
definiva una filosofia dei pochi, del divino e dell’ordine, è compito complesso
e gravoso, al quale comunque, chi come me, gli è stato vicino, non può
permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria della Sua luce interiore,
che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”, o in chi lo ascoltava
nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto lavorava, dai
Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua assenza. Ma, più
in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e presente, che si
realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti, come Roma (ma non
solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento spirituale più
prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno
presente, di prossima pubblicazione per i tipi de Il Cerchio). L’università di
Roma, con Lui ha perso una delle ultime personalità carismatiche, in grado di
fare Scuola. Personalmente, non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo
mondo, della Sua amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto
da Area. Grice: “Lami touches some crucial points. For one, he criticizes
Jowett for mistranslating Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’
– Politeia --. Lami as a Roman hates the Pope – who does he think he is? The
Papal dynasty is take in that they cannot reproduce. So we must go to the
civil-political organization of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’
of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione una. Espressione
varie e tradizione una. With the birth
of Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to
mean ‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the
old Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for
Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all
this – and more --. Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752587207/in/dateposted-public/
Grice e
Landi – semiotica economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I would call
Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della dottrina del
‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato un notevole
contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica (prassi,
pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica romana e
fiorentina con quella oxoniense. Diplomato
al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano. Studia a Pavia.
Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può suddividere in
tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica), nonché
l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria della “produzione”
del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento è l'omologia tra
la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E. R. E.). La
terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e teorizza l'”alienazione”
dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica communicativa (Bocca,
Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione e parlare comune,”
– cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare, implicARE, -- ‘common’ is
Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to extra-ordinario. Marsilio, Padova.
La semiotica e “Segnare” come lavoro e mercato,
-- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational
effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with
‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence
of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational.
Bompiani, Milano, Segno ed ideologia (Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani,
Milano); “Ideologia” (Mondadori, Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza
dei segni, o teoria? – cf. Grice on philosophical psychology,’ folk science of
psychology – ceteris paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws
of psychology – “That’s why we call them ‘psycho-logical’ concepts, or
theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th. (Bompiani, Milano). Cf. Grice on the
boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’ y is a consequence of x, x
means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale ed eccedenza, Scritti su
G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo, Padova); “Semiotica Filosofia
del linguaggio su ferrucciorossilandi.c om.
Grice: “Landi takes economics seriously, as did Aristotle – unfortunately,
those researching onto Landi hardly quote from Aristotle!” “While the Italians
think that Landi is being very Original, we at Oxford don’t! Game theory,
strategy theory, and efficiency theory are all basic to ‘oeconomica’ in most
pragmatic models of efficient communication – “Information is like money!” – Cf.
la teoria del valore e le formulae dell’egoismo, l’altruismo o non-egoismo,
Meinong. Teoria formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con
le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono
espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym.
Siccome non si propone di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di
questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va speciali, così, quando adopera i simboli
senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico – con la
lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE,
ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per
indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*.
Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante
sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo
il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un
“poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un
polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo
i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa,
o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si
può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un
fabbricante per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il
valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di
un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto
quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche
ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai,
CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre
possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che
costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare
che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti,
e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE
‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula.
Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante
u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento
accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio
proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece
si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il
beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al
rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della
volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula
sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del beneficato,
allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la
condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze.
Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè
aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la
modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza
del MALE ALTRUI. Allora si avrà:
W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione
egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si
aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o
anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le
due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se
oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U).
Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per
attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) >
W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al
valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi
l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in
un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0
W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0
W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con
segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di
queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come
indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque
riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica
nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della
volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si
è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di
una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla
determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è
INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è
importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui
fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei
valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si
ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia
la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione
e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra
affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi
come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di
rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con
il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la
cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della
volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio
del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la
parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati
predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può
rendersi più esatta. (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che
aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle
volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”,
che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona,
ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u.
Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio
(uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di
non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per
circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione
finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce
nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di
progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i
due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la
coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza
pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo
bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel
senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la
grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi
della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di
linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta
espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto
d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di
questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che
vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo.
Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO
ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono
adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due
bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse
proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi
interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e
“y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” ,
“W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno
negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si
trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione
valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire
agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse
proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il
sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra
parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio
produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità
propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo
di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'”
indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità
delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule
all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori
“r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per
g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno
ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale
d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo
divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato
l'interesse proprio da sacrificare. È F , 1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) =
- C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)=
0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure
evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più
INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà
da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella
seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo
della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio
per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma
l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più
grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è
esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad
altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le
formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si
accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il
che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W(gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL
CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere
le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande
dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno
così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A
questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra
correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del
binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt
o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim
W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune
conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l
a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno,
secondo la formula principale or ora ricavata, in un rapporto di
RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo
luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e
MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il
NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, …
n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme
superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti
sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di
mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una
volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta
ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g”
e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso
attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)=
>. Passamo ora ad esaminare un'altra
coppia di binomi: gr g+1 1 T (go+
1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa
dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in queste
formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione tanto
con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords:
implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library,
Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza,
“Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical
semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and
excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701883411/in/photolist-2mRkgtK-2mRcn9c-2mPVkio-2mPYy6p-2mPUHFB-2mPyn68-2mPiqeP-2mMRLT9-2mLHEEX-2mKKMt4-2mKCQBD-2mPtp3t-2mKQqs3-2mKiPND-R1eT5f-Fk4dhM-G768cb-G9rj7p-DndBhH-AcDUcp-T3H8P3-nNK6N1-o1cZ1Z-nYkP5S-nzsfjR-nsj5ZA-nuoDVU-ncSabS-nnvnLQ-nr43e9-nRpz1J-nRxV4g-nz47iC-nREe6x-nupBjR-nu822k-nupzLa-nsn1sJ-i65ZAc-i65CuK-hMNyRg
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