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Tuesday, September 20, 2022

GRICE

 

Grice e Grassi – D’Ovidio a VIco: la metafora inaudita e il concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did, on the metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of metaphysical Platonism --. “Apparire ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger e umano – Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora” (Mucchi, Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi, Napoli). “La follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine -- ivalutazione della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf. la lingua inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia” Guida, Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia, logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di Grassi”; “Platone nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario Biografico degli Italiani.  “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita.  “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica? “L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Accostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti toccati dal filosofo: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Palermo, Centro Internazionale di studi di estetica, 2001; G. Civati, Un dialogo sull’umanesimo. Hans-Georg Gadamer e Ernesto Grassi, l’Eubage, Aosta 2003; R. J. Kozljanic, Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink, 2003; W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di Ernesto Grassi, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXXXIX, 2010, fasc. I, pp. 148-176; Id., Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, München, Alber 2009; J. Sànchez Espillaque, Ernesto Grassi y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora, 2010; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, Vaprio d’Adda, GDS, 2008; Id., La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, 2009; M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti 1922-1946, La città del Sole, Napoli 2011.  ! 4!  mitico/metaforologico, antropologico, filosofico, storia delle idee e storia della cultura. In questo contesto teorico emerge la centralità del concetto di Lichtung, il quale consente di comprendere la direzione metaforologica del pensiero grassiano che nei saggi giovanili si era concentrato maggiormente su una tematizzazione dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di evidente sapore heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura e sulla società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La nostra attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter grassiano dall’ontologia alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni storico-politiche (magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori e quei temi che più ci appaiono attinenti con l’argomento grassiano che vogliamo mettere in risalto. Dal nostro punto di vista la prospettiva grassiana va interpretata come il tentativo di approntare una nuova filosofia, nell’epoca in cui se ne è decretata la morte, che sia innanzitutto esperienza del mondo e non solamente conoscenza. O meglio: di conoscenza pur sempre si tratta, il punto di riferimento è pur sempre la ragione, ma una ragione non classica: una “ragione fantastica”. La svolta grassiana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria del concetto a una teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota espressione blumenberghiana. Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua problematicità l’eredità di quel discorso posto a partire dal Settecento in modo sistematico all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e sentimento che agita le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica kantiana fino alla tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 2 Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di Grassi cfr., S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit.  ! 5!  In questo orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della ratio e dell’atto dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma tale operazione decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben nota metafora nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate, con la conseguenza di una dilagante inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in Grassi una rassegnazione al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico della dissoluzione delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro inizio del pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle immagini. Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3, esemplarmente condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve, raccontato agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e ricordato da Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica dalla riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa, del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5. L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni qualitative proprie. Husserl ha parlato non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 3 Grassi usa il termine immagine nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. Grassi, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p. 17. 4 Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17.  ! 6!  a caso di sintesi passiva come genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo tentativo di ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati, senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La concettualizzazione messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia, dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza spesso è offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali del passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta di uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica, configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il senso segreto che in esso ci parla”6. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 6 S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7!   A una pars destruens, a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme. Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per pistis Grassi intende non un’opinione o una forma di persuasione ma “il modo di realizzarsi in noi dell’originario che comanda”8. La pistis diviene il fondamento della retorica originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il collegamento istituito tra nous/ingenium e archè mette in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi colti attraverso la passione. Secondo Grassi “ogni discorso dimostrativo razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”9. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Il fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è quell’abissale fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il pensatore individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si concentra sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore speculativo della proposta di Grassi che resta !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 7 E. Grassi, Significare arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma, 1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491.  ! 8!  filosofica proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La sua prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900: quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso; da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore “la differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di fronte all’animale”10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare in tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la “regia dei sensi”11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il disancoraggio umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in funzione a fini da realizzare”12, e l’episteme, che “delimita i fenomeni in funzione a principi, a ragioni”13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon, come compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 10 Ivi, p. 489. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem.  ! 9!  dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico per Grassi la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa avrà un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”14. La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, la semiosfera da cui si dipartono mondi possibili dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella sua ricchezza tematica si staglia la questione della rivalutazione dell’umanesimo, connessa alla tematizzazione della co-originarietà di logos e pathos (dove il trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a fondare la stessa vita cogitativa), e alla critica del moderno. L’interpretazione grassiana dell’Umanesimo è lontana dai presupposti teorici e metodologici a lui coevi che privilegiavano il contributo ficiniano nel superamento del pensiero immaginifico e retorico: lo scopo di Grassi è quello di mostrare come l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con l’attività razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia e della parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e Gentile ad essere messa in discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di spostare i termini della questione sul versante ontologico- !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 14 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli 1997, p. 194. 15 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1988, pp. 17-36.  ! 10!  ermeneutico che si concreta nella retrodatazione dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro la tesi che individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la questione della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione linguistica. A partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano nei confronti dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata o piuttosto come Weltanschauung inautentica, Grassi porta avanti la direzione della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca, Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini della paideia che ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello sistematico, verso la ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori prediletti da Grassi mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed aprioristici e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione dei miti e la politica. La dimensione retorica va considerata secondo il filosofo non come elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che altro non è che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 16 Cfr., A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, La Città del Sole, Napoli 1996, p. 387. 17 Ivi, p. 390.  ! 11!  “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità XIV), Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discoro che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa impostazione l’agire delle categorie interpretative del maestro degli “anni mitici”, Heidegger, il quale sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica, valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo18, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio19avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio , nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum20, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa subiectum22, il fondamento e la misura di ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 18 Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma 2010, pp. 116-122. 21M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 22 Ivi, p. 168.  ! 12!  certezza e verità. “La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, è posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum del 1709 del quale Grassi ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si presenti come un problema storiografico e filosofico complesso26 si può senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana alla critica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 23 Ivi, p. 169. 24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano 1996, p. 25. 25 Ivi. 26 Cfr. N. Badaloni, Introduzione a G. B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961.  ! 13!  cartesiana nel contesto della rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”27. Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte “topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare, circostanziale, storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons riguardo alla centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale si comprende la proposta retorica grassiana. Si tratta di un agire situativo che alla formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32: non “penso, dunque sono”, ma “sono costretto, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 27 G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa 2010, cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo, Ratio e inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi: Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405- 423; ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di E. Grassi, cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di Grassi, pp. 437-446; ivi, L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr., sull’incidenza dell’interpretazione grassiana di Vico nel panorama degli studi vichiani contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n. 2, 2011, pp.1-15, http://riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega, soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, Grassi y el problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di Ernesto Grassi. Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 188.   ! 14!  quindi agisco”. Proprio la ricchezza del reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace di apprendere maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono la base del discorso retorico e filosofico33. La metafora è il luogo, lo spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello. Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”35 in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo, sia esso ispirato dalla “metafisica immanente” di Heidegger, sia, infine, caratterizzato dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non metafisico – è tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e compiersi e non verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente ad una filosofia attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una dimensione esclusivamente ontologica, Grassi si misura con una continua operazione di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 33 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990, p. 62. Sul tema della metafora in Grassi cfr., D. Di Cesare, Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger, pp. 25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, Aesthetica, Palermo 1996. 35 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113.  ! 15!  storicizzazione delle strutture del mondo storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il filosofo riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di Grassi mette al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37 – fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che: “l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale. Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38. L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla luce dell’origine del nostro divenire; !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 36 E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. 995-1029, soprattutto pp. 1022-1024, e Id., Prefazione a Der tod des Sokrates di Guardini, ivi, pp. 985-989, soprattutto p. 986 37 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 192. 38 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73.  ! 16!  diventa una ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi fondamentali (archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi grassiana mira a proporre un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica. Grassi sostiene che “il fine degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo, dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità delle fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42. L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo circostante caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo fondamento nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche, artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi grassiani muovono dal rifiuto di assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che potremmo definire !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 39 ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.! 42 Ibidem.  ! 17!  fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda gli scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza dell’immagine, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale della fantasia che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi (Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner, Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner, Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (Cicerone, Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene quello slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della sua filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come una fenomenologia metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che ha prodotto la storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e al processo del metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria grassiana pone in luce l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera il mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens sylva, che dice del fondamento il suo ! 18!  essere al contempo puro apparire e progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi dell’abissale potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos lontano dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico, che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere, come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza dell’originario. Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della praxis”43, e non un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella “serietà del pensare filosofico”44. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare”45. Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel silenzio tragico dell’aperto, quello spazio abitabile dall’uomo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 43 E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di italianistica”, Vol. IX, N. 1, 1988, p. 19. 44 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 178. 45 Ibidem.  ! 19!  CAPITOLO I ERNESTO GRASSI: UN BRILLANTE INTERVISTATORE A CACCIA DI FILOSOFI? I. I. Grassi nel giudizio dei filosofi È il 14 gennaio del 1928 e Karl Jaspers in una lettera indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, il dottor Grassi di Milano, desidera parlarle di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere”46. Il 10 febbraio Heidegger risponde: “Il dottor Grassi mi ha fatto in un primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una natura giornalistica”47. Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto poco benevolo definendo Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli di Guido Calogero, il quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il problema della metafisica platonica del 1932, pubblicato dall’editore Laterza grazie all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger48. Croce scrisse: “insegnante in Germania, il Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre a concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema non ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo”49. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 46 M. Heidegger-K. Jaspers, Lettere 1920-1963, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina 2009, p. 73. 47 Ivi, pp. 73-74. 48 G. Calogero, Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari, 1992, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1932, 4, XIII, pp. 304-308, p. 308. 49 B. Croce, Pagine sparse, Vol. III, Laterza, Bari 1960, p. 406. ! 20!   E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il filosofo milanese ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia degli intellettuali più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee non furono troppo favorevoli: Grassi appare un brillante intervistatore a caccia di filosofi, la cui opera è da considerare al massimo come “prova cattiva di un ingegno ottimo”. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in queste affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve ripercorrimento dell’itinerario speculativo di Grassi almeno fino alla metà degli anni ’40 consentirà di comprendere la plausibilità o meno dei giudizi critici ora ricordati. I.! II. Le tappe della formazione di Grassi Scrive Grassi in La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale: “nell’anno 1928 – dopo aver brevemente assistito ai corsi di M. Scheler e di K. Jaspers – andai a Marburgo da Heidegger che si dichiarò disposto a seguire il mio lavoro di libera docenza [...] i luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che teneva il suo ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che aveva assunto la cattedra di filosofia)”51. È il 1986 e Grassi, ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia intellettuale, pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta, infatti, degli anni mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale Grassi guarda sempre – nonostante le prese di distanza di natura politica – come ad un autentico maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo del giovane Grassi era stato preceduto da un lungo periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti, come Cacciatore a definire quella di Grassi “filosofia del viaggio”52. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 50 Cfr., G. De Ruggiero, G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari 1932, in “La Critica”, 1932, 5, XXX, pp. 375-376. Ottaviano C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Sophia», Napoli 1938, III, pp. 397-399. Vanni-Rovighi S., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München 1939, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano 1940, 4, XXXII, pp. 309-314. 51 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 20. 52 Sul tema del viaggio e del resoconto di viaggio in Grassi come fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo cfr., G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofìa del viaje”de Ernesto Grassi, pp. 79- 91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofia hispanoamericana, ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa entonces un error garrafal esperarse del libro de Grassi [...] elementos meramente descriptivos o ! 21!   Grassi, nativo di Milano (1902-1991), dopo aver conseguito la laurea in filosofia con Piero Martinetti il 30 giugno del 1925, discutendo una tesi dal titolo L’unità formale della vita e l’impostazione del problema teologico, trae orientamento decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con il padre francescano Emilio Chiocchetti, uno dei primi maestri della neoscolastica milanese aperto al confronto con i temi della modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di Benedetto Croce del 1915, frutto di studi compiuti tra il 1912 e il 1914, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e Vico che affascinano molto il giovane Grassi, i cui primi lavori apparsi tra il 1922 e il 1925 sulla rivista Rassegna Nazionale, di stampo nazionalista, conservatore e cattolico53, mostrano idee ispirate al pensiero del “carissimo ed onorato padre Chiocchetti”54 e a valori liberali e cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un cinquantenario, del 1922, dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio “alla ricerca di idee che affratellino la gioventù tedesca e italiana”55; I giovani e il partito popolare italiano. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida, costumbres, mentalidades [...] hay que leer las pàginas grassianas ante todo como una experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente, con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn, precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza espacio-temporal distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de naturalezas diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones visuales y tàctiles que nunca han sido experimentadas”, p. 81. Mi permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne Anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika de Ernesto Grassi, pp. 323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli: filosofìa, historia, polìtica y cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di Ernesto Grassi in cds in “Studi Interculturali”, Trieste, 1, 2017. 53 Proposito della rivista era quello di collocarsi a metà strada tra i contributi dedicati unicamente ai settori storici e scientifici e quelli di carattere politico-religioso: “Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si offendono o prima o poi anche i diritti della civile società”, La rassegna nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E. Grassi, L’impatto con Heidegger, p. 75 in M. M. Olivetti (a cura di), La recezione italiana di Heidegger, pp. 73-82, Cedam Padova 1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, XLIV, novembre 1922, seconda serie, vol. XXXIX, pp. 100-109 ora contenuta in E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 18.  ! 22!  I successivi lavori grassiani, a partire da Il tragico del 1923 – che espone in nuce nodi concettuali che il filosofo avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora inaudita e Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia dello stesso anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato del 1924, mostrano uno slittamento da una concezione negativa del principio di immanenza ad una considerazione molto positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di emancipazione umana dopo la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto dopo la stesura del saggio su Machiavelli possiamo riscontrare una “prima svolta” grassiana dovuta con molta probabilità ad un’analisi dettagliata del pensiero di Croce, Gentile e degli umanisti, primo fra tutti Dante. Ci sembra convincente l’ipotesi di Messori56 secondo la quale a partire da questo momento, ossia dal saggio del 1924, l’Umanesimo diviene il terreno privilegiato della riflessione grassiana, la quale, grazie al pensiero politico di Machiavelli, riscopre un altro inizio del pensiero moderno, un altro ingresso alla filosofia, non gnoseologico e teologico, ma unicamente antropologico. Si tratta di un risultato di grande importanza poiché tra gli anni Trenta e Quaranta il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi concettuale – il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori dell’esperienza umana nella sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo – che ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella successiva produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica del 1970, a Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale del 1979, a Retorica come filosofia. La tradizione umanistica del 1980, fino ai testi degli anni Ottanta, Heidegger e il problema dell’umanesimo (1983), Umanesimo e retorica. Il problema della follia (1986), La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale (1986), Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi pubblicati singolarmente dal 1969 al 1990. Almeno in questa fase, tuttavia, occorre sottolineare che la considerazione dell’antropologica umanistica si pone ancora fortemente come una visione antropocentrica, mentre solo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 56 R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23!   successivamente all’incontro con Heidegger e alla scelta del concetto di Lichtung quale filo conduttore del nuovo approccio all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico, tale visione sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere. In questo periodo Grassi collabora anche con l’informatore bibliografico del Circolo Filologico milanese, la Rassegna di coltura, fondato nel 1872 e sul quale pubblica tra il 1925 e il 1927 una serie di contributi dai quali traspare uno studio di Croce e dell’attualismo gentiliano. Conseguita la laurea nel 1925, incomincia per il pensatore l’ambiziosa avventura europea57, in Francia e in Germania, alla ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In seguito al soggiorno a Aix en Provence, durante il quale conosce Blondel58, scrive La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia del 1928, in cui la filosofia dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non nega i valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo cristiano di M. Blondel del 1932, il cui merito sarebbe stato quello di liberare la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo saggio che si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe coniugato con la questione filosofica heideggeriana59 e che spinge Grassi ad approfondire la cultura filosofica tedesca. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 57 Ad un peccato di ambizione si deve, con buona dose di probabilità, l’adesione di Grassi al partito fascista il 3 maggio del 1933. Secondo la documentata ricostruzione di Büttemeyer, l’iscrizione al fascio fu fatta per ottenere la tessera senza la quale non era possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr., Büttemeyer, Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, cit. 58 Sui rapporti Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di Ernesto Grassi tra Platone e Blondel, pp. 275-295, in P. Pagani- S- D’Agostino- P. Bettineschi (a cura di), La metafisica in Italia tra le due guerre, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2012. 59 Cfr., W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di Ernesto Grassi, cit., p. 159: “La prima formazione filosofica di Ernesto Grassi è dovuta a Emilio Chiocchetti, la cui concezione di una neoscolastica moderata si mostra negli scritti dell’allievo dal 1922 fin verso il 1925. Mediata da Chiocchetti, vi si aggiunge la conoscenza dell’estetica di Benedetto Croce (1923) e della sua gnoseologia (1925) nonché del modello dialettico della storia della filosofia che si concretizza nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento (1923-1924). Grassi mostra momentaneamente simpatie per Miguel de Unamuno (1924-1925), per il concetto martinettiano dell’Unità assoluta (1924-1925) e per la filosofia di Bernardino Varisco (1925-1926), che gli era stato anche maestro con i suoi lavori; ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane invece escluso l’attualismo e immanentismo di Giovanni Gentile: pur avendolo conosciuto nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce positivamente soltanto a partire dal 1926, dopo aver già presentato una ventina di pubblicazioni”.  ! 24!  Dopo aver affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via al filosofare Grassi approda finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung più ampia rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea del 1929; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea dello stesso anno, in cui Grassi rimprovera a Husserl la mancanza di una solida base storico-filosofica, in particolare una superficiale interpretazione dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della filosofia italiana, da Spaventa a Gentile, pur riconoscendo alla fenomenologia il merito di aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista e naturalista e storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana si era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica, naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali. D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo di Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico – psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica: l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del pensiero pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per Grassi gli aspetti negativi sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo spazio di vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza che solo Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo “realizzando per primo in Germania la critica della fenomenologia di Husserl”61. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 60 E. Grassi, Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in “Rivista di filosofia”, Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi, p. 187.  ! 25!  In questo periodo Grassi opera quella collocazione della proposta filosofica heideggeriana all’interno della propria formazione intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro tra la teoria gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo storico del disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal cogito cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di Grassi che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto immanente, metafisico e autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto appaiono tra il 1932 e il 1935 i saggi Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della latinità, per Grassi. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana circa il tema del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra l’ontologia fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile. In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto il suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 62 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, Milano- Roma, XI, luglio-agosto 1930, fasc. IV, pp. 288-314, ora in Id., Primi scritti, cit., p. 209.  ! 26!  contraddizione, fondamento di ogni dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio; concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di Grassi fu di carattere neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il filosofo milanese afferma che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta dalla propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una “grazia” proprio nel senso teologico della parola”63. Un’impostazione di questo tipo spiega anche una originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della sua scoperta fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a porsi come un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa della trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da Grassi come insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che diviene quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello stesso attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra essere e ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare nel suo stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non come oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di Grassi il superamento gentiliano della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione dell’esperienza approda allo stesso risultato husserliano e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 63 Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie, vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol. XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64 Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio caratteristico della realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente o trascendente del reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano. Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso stesso l’unico illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più grande scoperta di tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di Giovanni Gentile. In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere”. Per una ricostruzione della presenza di Gentile in Grassi cfr. R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.  ! 27!  heideggeriano: quello dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65: l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di Grassi aver sottolineato. Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di pensiero di Grassi in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la fase giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica emergenti nei saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui abbiamo la correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo blondeliano della filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e dell’autonomia delle forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale heideggeriana67; la fase matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 65 Sottolinea molto bene questo aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhiei, Torino, 1989, pp. 27-28: “Gentile attraverso la radicalizzazione dell’immanenza supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un lato supera l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne tiene tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello è quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza, di svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti d’esperienza appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire andare alle cose. Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da sempre compromessi. L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di nessuna epochè”. 66 Cfr., E. Grassi, A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8, in Id., I primi scritti, cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp. 27-48; Scolastica e storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi, pp. 89-128; Tilgher e La visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162; Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163- 179; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp. 235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp. 371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp. 419-435; La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi, pp. 553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp. 753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850; Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, ivi, pp. 255-271; Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369; Filosofia tedesca, filosofia italiana e l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, ivi, pp. 851-864; Sul problema ! 28!   ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina la metafisica immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del logos, del pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la “passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della filosofia diviene una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa, dell’esistenza in situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale, impegno nella circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per acquisito, dunque, che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione di Grassi un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che incide profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario e della manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una collezione di posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio sembravano voler asserire. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema del sublime, ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del verosimile in Vico, ivi, pp. 951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo capitolo, per l’impostazione del problema neo-umanistico risultano fondamentali le osservazioni espresse da Grassi nel saggio su Machiavelli del 1924. 70 R. Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo e fenomenologia: “le due filosofie si intersecano su almeno tre punti essenziali [...] rifiutano di attribuire l’originarietà all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in secondo luogo entrambi avvertono la necessità di identificare l’originario con un processo che, divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che lo si intenda in senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il superamento della logica tradizionale e quindi del principio di identità e di quello correlato di non contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit., p. 34. 71 Si sofferma su questo “merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a I Primi scritti: “così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto alla nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che piega il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo svelamento dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico di Grassi dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 44.  ! 29!  Si impone all’attenzione teorica di Grassi la tematica della multiformità del reale (metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità che affannosamente il filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di fuori dei parametri tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di cogliere l’essere nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale e, pertanto, mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la metafora). Da un lato il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la manifestatività dell’essere heideggeriana, consentono a Grassi di guardare all’idea di fondamento come a quell’originario indeducibile razionalmente che può essere patito e vissuto nell’esperienza della parola più autenticamente che in quella del pensiero tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e proprio per questa identità di manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile radicare la trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un oltre, ciò che non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo “il processo deve quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”74. Il punto di partenza è quell’indeducibile originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e polimorfismo della realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un divenire storico che continuamente si distingue, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 72 Occorre sottolineare che il pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una impostazione soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come puro evenire, spazio di esperienza, cfr., sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90: “l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il Dasein, tra la determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come esperienza del puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce per non occupare né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno spazio di indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei termini della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi, dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di una semplice presenza”. 73 E. Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di filosofia”, Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora in Id., I Primi scritti, cit., p. 376. 74 Ibidem.  ! 30!  si differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità nell’esperire patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo di tale posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre ripensare il logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà monolitica e cosale? Come superare una concezione oggettivistica e soggettivistica? Si tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente dense di Il problema del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in cui Grassi si chiede: “Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione può solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di sé – giacchè ogni apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una mossa teorica insostenibile76, è per Grassi la condizione di possibilità per sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio a Gentile e a Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una visione del logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità antitetica al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la stessa dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da alcuni interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero grassiano, ma che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione complessa e ampia che Grassi ha del reale – offre a Grassi l’opportunità di delineare un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla manifestatività senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì tramite una pre- !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 75 Ivi, pp. 376-377. 76 Nella Recensione all’articolo di Grassi Il problema del logo afferma Ottaviano: “dirò subito che la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica del pensiero sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per mio conto insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7-24.  ! 31!  intelligenza pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge così un programma filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e latina in senso lato. Grassi si chiede: “in che senso possiamo affermare che il logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78. Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici significati del logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia d’Europa e per le vicende personali dello stesso Grassi che, come abbiamo detto sopra, si iscrive il 3 maggio 1933 al partito fascista79 più per motivi di “opportunismo” accademico che per convinzione, e in un clima di generale espansione europea delle ideologie fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici professori in quegli anni rifiutarono di prestare giuramento e che l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce restava isolato e chiuso nelle mura di palazzo Filomarino, mentre Gentile raccoglieva intorno a sé il meglio della cultura storica e filosofica delle nuove generazioni80. In tale contesto bisogna inquadrare il compito teoretico e culturale che Grassi dava alla sua ricerca di una rivalutazione della filosofia italiana. Così ritroviamo Grassi a Berlino, dove dal 1 aprile del 1938 assume il ruolo di professore incaricato di “filosofia italiana nei suoi rapporti con la filosofia tedesca”. Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e italiana del 1939 fino a Del Vero e del verosimile in Vico !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 78 E. Grassi, Il Problema del logo, cit., p. 387. 79 Cfr. la dettagliata ricostruzione di Büttmeyer in op., cit. 80 Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr., G. Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana, pp. 477-492, in A. d’Orsi-F. Chiarotto (a cura di), Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria, Aragno, Torino 2010.  ! 32!  del 1943, passando per i contributi sul poetico e sul politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento, sale in superficie la questione della parola, indagata, secondo Grassi, dagli umanisti non con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico, bensì con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto una vita activa, in cui i valori del passato greco, che gli umanisti sostenevano di aver scoperto contro le interpretazioni medievali, potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha sottolineato Cesare Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera grassiana Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi considera vero problema centrale dell’umanesimo italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto piuttosto l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] dalle analisi del Grassi, svolte in un ampio arco, da Dante al Boccaccio e al Salutati, dal Bruni al Vico, emerge un tema costante: la poesia come fondazione della comunità umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e – soprattutto in Vico – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua inquietante presenza storica”81. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce dell’esperienza linguistica che caratterizza il mondo umano e della individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che Grassi rielabora sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di Lichtung: si tratta di un neoumanesimo onto- antropo-logico, che, come sarà esplicitato in seguito, non è un approccio antropologico antropocentrato, poiché la relazione primaria èquella di uomo e mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un piano gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico- ontologico spinge Grassi ad un più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che “ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende”82. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 81 C. Vasoli, Introduzione a E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida 1985, pp. 10-11. 82 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 275.  ! 33!  Tale critica in Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in considerazione il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana Grassi ha dato una caratterizzazione per così dire non umanistica (in senso heideggeriano) dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con il pensiero di Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese l’umanesimo resta schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima propria ma interpretato solo in riferimento ad altre epoche. Grassi si chiede se sia plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già accaduto per Cassirer, Kristeller, Spaventa, Hegel e altri, di un errore di prospettiva83. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore negli anni Quaranta, Grassi impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della collaborazione con W. F. Otto e K. Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario del 1940, Grassi porta avanti una vigorosa critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione a partire dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della filosofia. Un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”84. A fondamento del pensiero c’è una necessità esistenziale che non può che rivelarsi e apparire attraverso l’esperienza della parola poetica e metaforica: unicamente quest’ultima può rendere conto del polimorfismo ontologico, che non è un fatto85, ma un continuo divenire, all’appello del quale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 83 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo capitolo, Il problema della parola poetica, pp. 31-36. 84 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 85 “L’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi [...] il dato originario, come immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo, cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in quanto già ! 34!   l’uomo è chiamato a rispondere in modo plurale e non univoco. Grassi afferma che “poiché il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora. Allora la metafora, che ricorre per lo più alle immagini” non va considerata un mezzo solo letterario ma “è indispensabile per esprimere l’Originario?”86. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare anche la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la partecipazione degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata anche alla luce di un intento politico-culturale: quello di affermare la specificità della Romanitas nei confronti degli ideali del mondo tedesco privilegiando soprattutto tre ambiti problematici: “in primo luogo l’antichità nel suo particolare significato per la tradizione italiana. Inoltre il rinascimento e l’umanesimo [...] infine, una terza questione riguarda il modo in cui il XIX secolo ha compreso e giudicato l’umanesimo e il rinascimento”87. Per Grassi fin dall’inizio gli studia humanitatis hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto nella comunità politico-sociale88. A partire dal 1945 Grassi si reca in Svizzera in cui progetta con Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore Francke di Berna e l’anno successivo incomincia la sua lunga attività di insegnamento a Monaco e di direzione del Centro Italiano di Studi Umanistici e Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee dell’“emigrante con la vocazione per la filosofia”, basti dire che negli anni densi e intensi dell’apprendistato filosofico tra il 1922 e il 1946 si gettano le basi di quei grandi temi che percorrono i decenni successivi: la rivalutazione dell’umanesimo e della latinità come luoghi di riflessione sulla questione onto-antropo-logica, sul nesso uomo-essere; la centralità del linguaggio e della parola poetica, del dire metaforico e della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! svanito, non più presente. Il dato come oggetto, e quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì una falsa interpretazione del dato”, E. Grassi, Il Problema del logo, cit., p. 375. 86 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 87 Id., Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin, verlag Helmut Küpper, 1942, pp. 19-32, ora in Id., I Primi scritti, cit., p. 949. 88 Del periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata con l’appoggio di Helmut Küpper.! ! 35!   retorica. La questione è, ancora una volta, quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, ma di attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. Il “neoumanesimo della complessità” offerto da Grassi può essere concepito come un atto di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare è quella della preminenza della ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione; del tramonto della civiltà, in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate; del tramonto dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale carente, diventando, infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come testimoniato dagli attuali studi post-umanisti, segmento di un processo ibridativo con la techne. Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le tappe grassiane del discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un itinerario onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia indissolubilmente con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli scritti del periodo giovanile nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da Grassi costituiscono un contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come dai giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere, ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo. ! 36!  CAPITOLO II L PROBLEMA DELL’UOMO TRA UMANESIMO E ANTIUMANESIMO: L’UMANESIMO CRITICO DI ERNESTO GRASSI. II.! I. Il momento machiavelliano della genesi del problema dell’umanesimo Uno dei risultati più importanti della indagine filosofica grassiana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito cogitativo89. Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica al pensiero moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli effetti negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la ricerca di un certo “luogo” della tradizione culturale umanistico-rinascimentale che il dibattito storiografico ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico, o almeno non carico di una serie di motivazioni teoriche che Grassi rintraccia. Secondo il pensatore milanese il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di fatto, un momento epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e storico del linguaggio poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso di ragione e passione è possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed autentica. Ma come nasce per Grassi l’esigenza di rinnovare la questione dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso fosse il problema: lo dimostra la tenacia speculativa che, in qualità di direttore della Humanistische Bibliothek dell’editore Fink, mostra patrocinando la pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a temi umanistici, nella speranza che la conoscenza diretta di Petrarca, Salutati, Valla, Pontano, Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad un’immagine dell’umanesimo lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre, nel 1938 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 89 Affronteremo la questione del nesso pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. ! 37!   il nostro autore, sotto il patronato dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e dirigere l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino, anche grazie all’interessamento di Enrico Castelli. Accanto a questa opera di edizione e direzione c’è il percorso di ricerca teorica portato avanti per tutta una vita e che pone Grassi in un confronto serrato con i più noti interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due autori in particolare secondo la convinzione di gran parte degli interpreti: Vico e Heidegger, ma noi vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e Leopardi. Da un lato Cartesio ha avuto un ruolo centrale nell’analisi grassiana del logos attraverso la fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito che rivestono un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che secondo Grassi gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il filosofare noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del filosofo tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che costituiscono la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico che appare come l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la Scienza Nuova ci guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita dalla fantasia e dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano Vico avrebbe contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in difesa delle humanae litterae. Lopardi con il concetto di illusione avrebbe teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe raggiunto le vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida la riflessione verso il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il più fiero oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua di espressioni di una mera antropologia ontica che ha come centro della riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento del disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione da Grassi che con Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di oltrepassamento, nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento) e Überwindung (superamento). Secondo l’interpretazione grassiana, quella di Heidegger sarebbe una prospettiva che, nonostante la messa in mora della modernità e l’opera decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione ! 38!  soggettocentrica, cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta la concezione idealistica dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “Heidegger sottolinea che il termine umanesimo si affermò per la prima volta al tempo della repubblica romana come equivalente del termine greco paideia. Per Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo principia col definire l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia antropologica”90. L’umanesimo come mera antropologia è l’equazione posta da Heidegger che Grassi mette in discussione attraverso un’analisi storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni sul linguaggio un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato una concezione del linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento dell’essere, la tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non era ritenuta funzionale al discorso relativo alle “circostanze della manifestatività” ma frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. Grassi tenta di ricostruire con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso tecnico, la tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e Landino che mostrano una ricchezza del possibile in alternativa all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in evidenza quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere dalla situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione aprioristica e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo ineludibile di una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 90 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono state sottolineate da Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto – e lo ripete nel modo più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o, almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti problemi di natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, Binghamton, New York 1983.  ! 39!  pensiero: non solo la logica e la teologia, ma la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco, la lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nelle parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo linguistico non chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo “del processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione (horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso la parola storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un apparire) del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera grassiana non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di rintracciare nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 92 Id., La filosofia dell’umanesimo un problema epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D. Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di Grassi costituisce un limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, Grassi, Vico, and the defense of the Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5. Opposto il giudizio di A. Battistini secondo il quale quello di Grassi è un metodo che “rispecchia una ricerca sempre in progress, inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di), Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404.  ! 40!  limite, raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli umanisti che con la riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte da bisogni concreti elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più importante di altre rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene nelle diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et nunc, tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale che “l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione razionale del reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero filosofico ben più radicale della così detta moderna “rivoluzione copernicana” del pensiero cartesiano e idealistico”95 e ciò è espresso, dal nostro punto di vista, in conformità alla generale impostazione onto-antropo-logica del pensiero di Grassi, che vede nella indagine linguistica e poetica la possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge l’uomo a rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze esistenziali. In tale contesto l’agire umano per Grassi “implica la necessità di realizzare non cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una metafisica metaforica, fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva alle urgenze vissute differentemente nelle varie situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti: come giunge Grassi alla domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli “anni mitici di Friburgo”? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in Grassi è una operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione “onto-antropo-logia” per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal filosofo di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 95 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, Vico e Ovidio. Il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, 1992-1993, XXII-XXIII, p. 174.  ! 41!  contesto onto-antropo-logico ci consentirà agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. Grassi affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel saggio Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio Grassi offre un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria. L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di immanenza che permea tutta la riflessione moderna. Grassi afferma che “il medioevo e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come espressione di due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero antico, medioevale cercava la razionalità del reale – ossia il principio di ogni realtà in un principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di cui il rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur accogliendo tale distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica e filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare essere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 97 Cfr., l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva filosofica di Ernesto Grassi, pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi Scritti, cit., p. 55.  ! 42!  un Giano bifronte, proteso sia verso l’impostazione classica e medioevale, che rintraccia nell’“essere per essenza – o per seguire la loro denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in funzione del quale tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e causa”100; sia verso un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca successiva un dispiegamento considerevole. Secondo Grassi nella concezione politica di Dante abbiamo un primo embrione della modernità: “la nuova epoca non si – può – far nascere dal secolo XV, ma molto prima, come ci rivela l’espressione volgare della Divina Commedia, del Convivio, e il ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della modernità matura sarà contraddistinta da una serie di elementi che metteranno in crisi l’impostazione medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio gli umanisti proporranno nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo Grassi lo stesso classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che “semplice scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda cenere sotto cui troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che ricerca e trova se stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di Machiavelli è assunta come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima generale della critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli umanisti Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità effettuale che, secondo Grassi, riveste un’importanza massima: “l’affermazione della verità effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente col suo metodo induttivo alla concezione della storia come creazione umana”103. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 100 Ivi, p. 56. 101 Ivi, p. 58. 102 Ivi, p. 62. 103 Ivi, p. 66.  ! 43!  La centralità della nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in correlazione con la teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il verum storico è conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio della convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di Vico, viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum ratione del 1708. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico: “pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo”105. Vorremmo sottolineare che il “vichismo” di Machiavelli individuato da Grassi in questo saggio risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo di Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica del 1908 in cui Croce, trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato la politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che la questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente identici”106 è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza della ulteriore determinazione morale”107. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 104 Per una sintesi ben documentata della storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr., M. Martirano, Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il criterio del vero e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero e del fatto dopo Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p. 266. 107 ivi, p. 267. Secondo Croce solo a partire dall’analisi critica di Francesco De Sanctis si è cominciato a comprendere il carattere complesso della tesi di Machiavelli e quindi a valorizzare il pensiero del Principe giustificandolo a dispetto delle condanne provenienti da correnti moraliste. Nella recensione dell’edizione del Principe curata da Federico Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario non tanto affermare che la politica si identifica con la forza bensì “insistere e mettere bene in chiaro che cosa sia veramente la forza, e come quella forza, che è la virtus politica, rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un aspetto solo della totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La Critica”, giugno 1924, p. 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel secolo decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica ! 44!   Su questo sfondo crociano l’interpretazione di Grassi pone in luce il nesso di verità effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo: dire che “coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum di Vico”109, significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo innovativo di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è degna di nota se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie concettuali che ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano quanto già a partire dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse viva nella riflessione del filosofo. Risulta evidente allora che la questione onto-antropo-logica, il problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e Sein nell’orizzonte della Lichtung non compare in Grassi solo ed unicamente a partire dall’incontro con Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo Grassi” ma affiora già nelle riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La “scienza nuova” offerta da Machiavelli secondo il pensatore milanese è innanzitutto una scienza induttiva e non deduttiva, è una intelligenza dei fatti che può realizzarsi solo abdicando al principio di autorità e all’a-priorismo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! e la denuncia della mera attività politica senza responsabilità è lampante: “se alla libertà si toglie la sua anima morale...si toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna alla quale essa si sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna guida e del comando non rimane se non il fare per fare, il distruggere per il distruggere...ne vien fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di un ideale etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” – B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari 1972, p. 300. Croce risolve in maniera definitiva la questione posta da Machiavelli saldando assieme l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia, sia nella sua filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica (1931) i precetti morali alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita Vico come il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli, ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito, che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B. Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N. Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa 2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi scritti 1922-1946, p. 66. ! 45!   logico. La grandezza del segretario fiorentino risiede nella ricostruzione politica del Rinascimento, che è allo stesso tempo una restituzione alla storia di una razionalità intrinseca. Ma in che modo è possibile offrire al dominio di Dio o del caso – la storia – una propria razionalità? La domanda che secondo Grassi Machiavelli si pone trova nelle pagine del Principe una risposta, l’unica possibile. Assodato che con il Rinascimento registriamo una rottura, un crollo dell’impalcatura teorica e pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori religiosi e l’affermazione della forza dell’individuo, come garantire l’integrità della vita activa, come riparare la nuova idea di azione umana dal pericolo di una dispersione irrazionale di energia? Secondo Grassi la stessa affermazione del soggetto empirico va superata e si supera con Machiavelli: “l’affermazione del soggetto empirico andava superata e condotta a un concetto di unità di individualità superiore, ma il problema doveva essere posto negli unici termini possibili: superare l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione dell’individualità stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto l’ascesa del soggetto è individuata come un tratto distintivo della modernità, sebbene in questo contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva che in seguito perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella compagine soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra l’aporia aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione grassiana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione del Principe di Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che rende la sua opera una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 110 Ivi, p. 73. 111 Ivi, p. 74. 112 Ivi, p. 76.  ! 46!  sorta di “fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e proficue114. Alla figura di Machiavelli, all’importanza della sua teoria politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al “cambiamento di paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione kuhniana, Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il suo imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma del dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del politico è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte, bensì la concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene espresso quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale esercita sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché quello di Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a costituire una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la quale ha di mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei dispositivi che sono fortemente radicati nella situazione particolare, nell’Appello dell’essere e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 113 Ibidem. 114 Cfr., G. M. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008, in particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens nel 1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio rifluiscono due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition.  ! 47!  del reale, la cui carica di estraneità è oltrepassabile solo tramite l’azione concreta e storica che ha struttura metaforica. L’attività metaforologica ha infatti una connotazione onto-antropo-logica in Grassi: riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante. Non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica: “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna – la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire politico119. Questi elementi ci dicono che “non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 116 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., Francesco Guicciardini e il concetto della politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti, cit., p. 891. Il saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der Politik in der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe der “Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118 Id., Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio appare nel 1945 con il titolo Theorie der Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”, Jahrgang 166, nr. 1016, 30. Juni, 1945, Morgenausgabe, Blatt 4. 119 Id., Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi scritti, cit., p. 786.  ! 48!  possiamo sottrarci di fronte all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente di prendere posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra situazione si trova sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un aut-aut ci costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come impegno e compito come Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata allo “stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos che può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico122. Umanesimo e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La riflessione sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel saggio su Machiavelli proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al 1924. In queste ultime è presente anche un intento di chiarificazione storiografica e di presa di distanza dalle coeve interpretazioni della “tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca storico-culturale, come quella al centro della riflessione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 120 Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana. A Walter F. Otto, pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912. Il saggio appare in tedesco nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und des individuellen Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto und Karl Reinhardt, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1942. 121 Ivi, p. 902. 122 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di Filippini, il Saggiatore, Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come potremmo dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos, e che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia. È possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire?”.  ! 49!  di Grassi, significa innanzitutto prendere in considerazione un “mito storiografico”123. Inoltre, il concetto grassiano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di Jules Michelet del 1855 Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi umanisti che per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i “barbari medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica”124. Posizione, questa, che importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età della sperimentazione125 e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo126, contro un atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del clero. Nell’altrove !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 123 Cfr., per una discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp. 3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma- Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi, L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C. Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna, 2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il rinascimento tra mito e realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. ! 50!   positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate, cavalieri fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del medioevo come generica premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo grassiano faremo riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione dal pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte dal quesito: “che cosa significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi del termine nell’ambito politico: “questo termine nasce per la prima volta in Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti politici di Coluccio Salutati, il primo segretario politico di Firenze”128. La domanda è il punto di partenza di un saggio scritto in occasione di una conferenza tenuta nel 1938 durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro saggio, Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition, in Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime per la prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta del passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo del Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo viator e penitente130 e all’uomo moderno131. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 127 Cfr., G. Sergi, op., cit., p. 5. 128 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id., (a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id., (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-12.  ! 51!  Per quanto sia discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così radicale tra due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da Grassi accomunate in un disegno sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza. Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su Machiavelli del 1924, e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico del 1932 in cui si afferma: “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve espresse con convinzione tuttavia non impediranno a Grassi di assumere una prospettiva teorica di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un nuovo mondo storico”133. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 132 “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti, cit., p. 259. 133 Ivi, p. 781.  ! 52!  Infatti, per Grassi lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica, prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si tratta della coniugazione “inaudita” che Grassi cerca di realizzare lungo tutto il suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale come passione e l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire con gli scritti sul valore della metafora e del pensiero noetico non metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica determinata e come proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio di questa problematica compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare ontologia, distinguendola dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo termine il rapporto che lega gli enti in situazione all’origine comune che li attraversa e perciò insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma situazionale”134, ontologia noetica e non metafisica, e pertanto metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola umana che costruisce universi di senso. La critica di Grassi si appunta innanzitutto contro l’assolutizzazione di un aspetto particolare della filosofia quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della modernità che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale posizione se, da un lato, può sembrare a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 134 Id., Il problema della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in E. Grassi-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina, p. 30.  ! 53!  prima vista contraddittoria rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione se la critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del moderno viene inserita nel contesto più generale di una messa in questione della supremazia che l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche analizzate. Si tratta di una messa in discussione dello stesso concetto di ragione e di logos, che non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che cerca di istituire una relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi sulla china dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di costruire o ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico e logico trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e vissuta. In Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi passa in rassegna diverse tappe interpretative rifiutate per una sostanziale misinterpretazione dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità con il saggio L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare. Il macigno che pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi da questo fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà rivolto sviluppando le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di Grassi: Macht der Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosofy 1980; Heidegger and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo aggiungiamo, sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse annoverato135, Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger offre all’attenzione del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa domanda, analizzeremo di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero della filosofia analitica di cui, almeno in questo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 135 La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non poteva annoverare questa opera perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal 1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di Grassi. Cfr, D. P. Verene, Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Peter Lang publishing, New York, 1990.  ! 54!  luogo, Grassi non esplicita i rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e autore di quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade: dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono con la nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138. Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è considerato scientifico quel pensiero che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera della dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti in modo significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...] al di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e mistero”139. Dalla prospettiva grassiana nell’orizzonte wittgensteiniano della filosofia l’unico linguaggio accettabile è quello del calcolo, della formalizzazione, della logica che esclude dall’orizzonte di significatività la dimensione retorica del logos ordinario – che esprime il sensus communis – e del logos patetico della poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo il livello connotativo del linguaggio, quella dimensione del mistico e dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la riflessione che si condensa nelle Ricerche filosofiche. Grassi non prende in considerazione la riflessione wittgensteiniana contenuta in questo testo, che possiamo definire come una sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di Wittgenstein contro se stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del Tractatus. Afferma Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e il suo correlato, la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un gioco linguistico a sé. Ciò !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 137 Cfr., L. Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L. Wittgen stein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 35.  ! 55!  vuol dire propriamente: veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” – e a ciò segue la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare come un particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter con l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso “dall’ambito della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia, poesia e retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il linguaggio filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi diviene un altro bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni contenute negli scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare si deve fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza”145. Secondo Grassi in questo passo si afferma che il ricorso all’esempio degli Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che produce storia, mai scienza. Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge dalla riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione dell’esperienza, lo svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 140 Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 391. 142 E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae cfr., G. Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21.  ! 56!  che pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo consacrarci seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le verità che siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i pregiudizi, e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo accolte in nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in seguito una rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per vere se non quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio. Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei saperi, gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni della formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed errori che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non potevano non contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire che leggere i libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri secoli147, dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo esito più compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo, della scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre liberarsi per Grassi che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio, che “egli rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti – di turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza del pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso comune, giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare”148. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 146 Cartesio, I principi dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M. Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295, “Conversare con gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si passa troppo tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio paese; e quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli passati, si resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno d’oggi”. 148 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 32. ! 57!   Vorremmo sottolineare tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto di una certa riabilitazione da parte di Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio nell’ambito della riflessione morale, come si evince dal Discorso, dai Principi e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra interpretazione ciò accade per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide l’impostazione idealistica che Grassi riceve negli anni di apprendistato alla Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto avrebbero in Cartesio un punto di partenza fuori discussione149; inoltre, l’impostazione heideggeriana che, come è noto, si concentra molto sulla critica a Cartesio, interpretato come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio cruciale nella storia della metafisica, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si asserisce che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”152: tale metodo è il cogito e le sue strutture. Infine la forzatura grassiana della contrapposizione Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici storico-culturali egli rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e mediterranea in senso lato. Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da Grassi, possiamo prendere come riferimento il significato della nota metafora della casa153 del Discorso che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 149 “Devo richiamare alla mente la situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20, periodo in cui compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana predominava in Italia grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin dalla fine del XIX secolo da Bertrando Spaventa”, E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 31. 150 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p. 158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un altro alloggio dove si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per non restare indeciso ! 58!   vuole comunicarci la necessità di prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente era precluso in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a ciò che sembra ragionevole e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è consentito in ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non intendo che noi ci serviamo d’una maniera di dubitare così generale, se non quando cominciamo ad applicarci alla contemplazione della verità. Poiché è certo che, in quel che riguarda la condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione vuole che ne scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se l’avessimo giudicata certissima”154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine è bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di giudizio: “con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi [...] non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi riconosce la portata più ampia del cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo portata avanti nel saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese afferma che “la metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con “cogitare”. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma anche di sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si profila il problema del rapporto e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria, riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp. 305-306. 154 Id., I principi della filosofia, cit., p. 22. I corsivi sono nostri. 155 Ivi, p. 25. 156 E. Grassi, Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 289. 157 Ivi.  ! 59!  e dell’esperienza dell’originario in cui il cogito – a cui precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile [...] di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra come il vero fondamento del sapere”159. La posta in gioco che emerge è quella del riconoscimento della priorità della manifestatività dell’essere quale fulcro tematico della filosofia. Il reale come punto di partenza della riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle vie di accesso, che per Grassi – questa volta non in opposizione ma in linea con Cartesio – ci pone di fronte ad una molteplicità di forme che sono in un rapporto di intima co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare un’immagine di Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione caratterizzante gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico /Cartesio (pensiero topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea grassiana della presenza di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana. Hegel160 avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa e l’opera che Grassi prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia in cui l’Umanesimo appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa, che non realizza in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia e dell’arte, e le cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il pensatore milanese “Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa riferimento l’Umanesimo, di essere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 158 Ivi, pp. 286-287. 159 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti, cit., pp. 817-818. 160 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 32-33.  ! 60!  volgarizzatrice (eine Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo sviluppo del diritto romano abbia un valore filosofico”161. Nell’ambito della definizione del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la scienza e la religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: “sembra che vi sia un terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e formale della scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della religione –: cioè la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti universali, filosofeggia su Dio e sul mondo [...] però anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si devono ascrivere gli scritti di Cicerone”162. Lo stesso Cicerone, al quale Montesquieu avrebbe voluto assomigliare163, recentemente definito come l’esponente dell’umanesimo universalista164 è al centro anche delle riflessioni dello storico Mommsen – come ricorda Grassi nel catalogo delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo165 – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo stile giornalistico”166. Altra “vittima” degli strali di Grassi è il romanista Curtius, annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica a mero esempio di “esercitazione stilistica”167. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per Grassi è inaccettabile o perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre il pensiero filosofico sotto l’egida del problema della conoscenza non consente di rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna innovazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 161 Ivi, p. 32. 162 G. W. F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, introduzione di L. Pareyson, tr. it. di A. Plebe, Laterza, Roma- Bari 1987, p. 132. 163 Montesquieu, Discorso su Cicerone, in P. Ciaravolo (a cura di), La personalità filosofica di Marco Tullio Cicerone, Aracne, Roma 2007, pp. 7-8: “il primo, presso i romani, che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti e l’abbia liberata dall’intralcio di una lingua straniera. Egli l’ha resa comune a tutti gli uomini, come la ragione, e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati d’accordo con la gente comune. Io non sono in grado di ammirare abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un tempo in cui i saggi non si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato a scoprire la verità”. 164 Uso l’espressione di L. Battaglia contenuta in Le virtù moderne di Cicerone. Appunti sulle Tusculanae disputationes, pp. 157-169, in P. Ciaravolo, op., cit., p. 157. 165 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 34. 166 T. Mommsen, Storia antica di Roma antica, Sansoni, Firenze, 1963, p. 1275. 167 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 34.  ! 61!  significativa168. I testi citati polemicamente da Grassi sono Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Il filosofo tedesco, di formazione neokantiana, si occupò intensamente dei problemi matematici e fisici della modernità, e la predilezione per alcuni autori, quali Galilei, Keplero, Newton, Cartesio, Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere nel tragitto filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo Grassi per Cassirer “laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo”169. Se prendiamo in considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che fu pubblicato postumo nel 1967 e che raccoglie i contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del Ficino nella storia del pensiero – recensione al libro di Kristeller La filosofia di Marsilio Ficino – Cassirer afferma: “alle sue origini e per il suo scopo principale l’umanesimo non può dirsi un movimento filosofico. Tra gli umanisti più noti non troviamo grandi pensatori veramente indipendenti. Il loro interesse era l’erudizione e la letteratura, non la filosofia”170. L’unica importanza dell’Umanesimo e del Rinascimento sarebbe la mutazione della dinamica delle idee171 e lo slittamento dal particolare all’universale172. In questa fase la riflessione sui principi della conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente173 e la filosofia sembra avere una efficacia limitata174. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 168 E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1963. 169 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 34. 170 E. Cassirer, Il Ficino nella storia del pensiero, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di P. O. Kristeller, tr. it. a cura di f. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 36. 171 Id., L’originalità del Rinascimento, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, cit., p. 11. 172 Ivi, p. 8. 173 Id., Storia della filosofia moderna, Vol. I, Dall’umanesimo alla scuola cartesiana, Tomo I, La rinascita del problema della conoscenza, tr. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1978, p. 100. 174 Ivi, pp. 97-98.  ! 62!  Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica grassiana rivolta al pensatore tedesco: Cassirer “preoccupato di rintracciare nella tradizione umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce”175 nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte condivisibile poiché Grassi e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso il mondo del simbolico. Nonostante questo punto di contatto Grassi pone una netta differenza tra la sua teoria di una logica della fantasia e quella cassireriana delle forme simboliche176. Afferma Grassi che “sarebbe un errore e un fraintendimento molto grave interpretare Vico come se la logica della fantasia fosse limitata a una pura logica di forme simboliche, per esempio nel senso di Ernesto Cassirer”177. Il filosofo tedesco, in particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche (1923-29), analizza la funzione del mito, inteso come originaria “forma di vita”, essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più importante del mero segno in quanto, secondo il filosofo, l’immagine conterrebbe l’essenza stessa delle cose: “l’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza”178. Dal passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che permetta la rielaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire dalle sue creazioni mitico-simboliche. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 175 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 176 Id., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 56 177 Ivi, pp. 56-57. 178 Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Arnaud, La nuova Italia, Firenze 1967, p. 30.  ! 63!  Queste strutture non hanno una funzione solamente comunicativa ma agiscono da mezzo col quale si determina la compiutezza dei loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo considerare il mito, la religione, il linguaggio non come forme di dominio sul mondo, bensì come forme essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo. La formazione simbolica costituisce così il medium tra l’elemento trascendentale e il mondo storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla formazione simbolica, diviene fondamentale strumento di concezione della storia che vuole liberarsi da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi riduzionismo empirico- descrittivo. Scrive Cassirer in Saggio sull’uomo: “per semplice che esso possa sembrare, ogni fatto storico può venire determinato solamente in base ad una preliminare analisi di simboli. La prima e più immediata materia della conoscenza storica non è costituita da cose e da avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e con l’introduzione di questi dati simbolici si può avere una idea della realtà storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato”179. Riprendendo la teoria vichiana del mondo storico come creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro campo, la mente dell’uomo è più vicina a se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà [...] Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque il mondo matematico né quello fisico, ma il mondo storico, la società civile. Quel che Vico chiede è una filosofia della civiltà: una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi fondamentali che governano il corso generale della storia e lo sviluppo della cultura umana”180. Se non sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare che questo passo esce direttamente dalla penna del Grassi autore di Vico e l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia permettono agli studiosi moderni di comprendere la coscienza storica dell’umanità. Il mito è una forma comunicativa, espressiva e esplicativa di eventi e fenomeni e va ben oltre una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 179 Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umna, a cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma 2009, pp. 296-297. 180 Id., Desartes, Leibniz e Vico, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, tr. it. di G. Ferrara, Laterza, Roma- Bari 1981, p. 111-112  ! 64! rappresentazione illusoria che nasconde il vero stato delle cose. Il Cassirer lettore di Vico mostra non pochi punti di contatto con Grassi che del filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti mitici, poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme simboliche a lungo si è soffermato. Se Grassi esplicitamente menziona la presenza di una logica della fantasia in Vico – in cui “il concetto fantastico e immaginativo [...] cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una visione diretta di una totalità pittorica”181 –, Cassirer si riferisce a Vico indicandolo come il creatore di una logica dell’immaginazione: “l’umanità, secondo lui, non poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio razionale. Dovette passare per lo stato del linguaggio simbolico, del mito e della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini poetiche [...] in realtà il mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere fondamentale, del potere di personificare. Non possono contemplare nessun oggetto senza dargli una vita interiore e una forma personalizzata”182. La breve sosta sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante confronto Grassi-Cassirer che ha come scopo quello di mettere in luce un comune terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese nell’elenco delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel “sostiene la tesi che gli umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un armamentario filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali asserzioni patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica polemica d’un nuovo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 181 Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, cit., pp. 266-267. 183 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti, cit., 255- 271; Id., Paideia e neoumanesimo, in Id., Primi scritti, cit., 357-369. 184 Id., La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. ! 65!   metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica dell’epoca umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si potrà trarre una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità per il formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti)”185. Dal suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le origini dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger dichiara che l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale culturale che ha per meta la formazione dell’uomo”187. Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che “sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si tratta di “manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza [...]. Siamo ora in grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca l’originalità dei Greci [...]. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquisita coscienza della legge universale della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo”188. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 185 K. O. Apel, L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo da Dante a Vico, il Mulino, Bologna 1963, p. 292. 186 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, tr. it. di L. Emery e A. Setti, Bompiani, Milano 2003. La concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività educativa come punto di incontro tra antichità e presente. Secondo l’esponente del cosiddetto “terzo umanesimo”: “per l’età moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua volta, se non sul fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo ha colà, appunto, la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una creazione dei Greci”, ivi, p. 517. La paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la formazione di una umanità superiore. 187 Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 188 Ivi, p. 14. I corsivi sono nostri.  ! 66!  Infine, nel catalogo grassiano degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il pensatore italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non platonico che al contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di mettere in luce. Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento che “gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro scritti su diversi argomenti mancano della precisione terminologica e della consistenza logica che abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di professione [...] in altre parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia coerente per un determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune a tutti gli umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in termini di dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo Grassi Kristeller “al quale dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo [...] valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della tradizione platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici di Friburgo Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi alla filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte. Il testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente dedicato alla memoria di Heidegger eletto da Grassi a suo maestro. Eppure Heidegger, come ricorda Grassi stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza dell’uomo”191. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 189 P. O. Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento, tr. it. di A. Gargano, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 90. Afferma Kristeller: “Diversamente dalle arti liberali del primo Medioevo gli Studia humanitatis non includevano la logica o il Quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica), e diversamente dalle Belle Arti del Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le arti figurative o la musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano neppure le materie principali che si insegnavano alle università del tempo, cioè la teologia, la giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche all’infuori dell’etica, cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica. In altre parole, diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo non costituisce il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma soltanto un suo settore parziale, ben limitato, per quanto importante. L’umanesimo aveva il suo centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre materie del sapere, compresa la filosofia (con l’eccezione della filosofia morale) avevano un loro sviluppo separato, che era in parte determinato dalla tradizione medievale, ma che fu poi lentamente trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove, trasformazione in cui anche l’umanesimo ebbe la sua parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e indirettamente”, Id., L’umanesimo italiano del Rinascimento e il suo significato, tr. it. di A. Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2005, p. 16. 190 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit. p. 35. 191 Ivi, pp. 35-36.  ! 67!  Dedicare un testo sull’umanesimo ad un anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita poiché effettivamente Heidegger appare molto duro nei confronti di una tradizione culturale che avrebbe meritato, se non un giudizio differente, perlomeno una più attenta riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “il presente lavoro è dedicato alla memoria di Heidegger che è stato il mio maestro: anche il mio primo lavoro scientifico, iniziato negli anni 1929-1930 sotto la sua direzione e pubblicato nel 1932 (Il problema della metafisica platonica) fu dedicato proprio a lui”192. Il magistero filosofico di Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo sollecitano nel giovane Grassi tematiche speculative che renderanno possibile la problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes (1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy (1980), ma anzitutto in Heidegger and the Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica. Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente [...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a principalement l’Etre”194. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo195, ed è inserita nel contesto della metafisica dell’umanismo che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 192 Ivi, p. 17. 193 Ivi, p. 29. 194 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1996, p. 40.  ! 68!  “non pone l’humanitas dell’uomo ad un livello abbastanza elevato”196. Una metafisica di questo tipo, che eleva l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro di Grassi con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono rintracciabili nel contesto più generale della critica alla metafisica che Heidegger conduce: “ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere [...] nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è un’antropologia ontica che muove da un ente senza tenere conto del riferimento all’essere – il grande impensato della tradizione metafisica occidentale, rea di un doppio occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι); oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente). Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 196 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 43.  ! 69!  al nesso essere-uomo significa pensare innanzitutto a quell’uomo oggetto dell’orazione pichiana che accende un dibattito filosofico nel 1487, promosso proprio da Pico della Mirandola199, e che è dominata dalla centralità dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità riconducibile all’essenza particolare del suo status ontologico. A differenza degli altri enti l’uomo è quell’ente che non ha una essenza specifica, una natura propria e definita, chiusa e circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà”200. Il problema posto da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare indifferente Grassi che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e che trova in Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto teorico importante per il tentativo di risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale circa il problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può fare la sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare le categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare”202. Occorre precisare, secondo Grassi, che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la prospettiva onto-antropo-logica grassiana ha come scopo teorico proprio la chiarificazione del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 199 Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 135. 200 Ivi, p. 136. 201 Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di Heidegger nel pensiero di Grassi D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 25: “la Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per Grassi, non solo nel confronto con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua attesa è rimasta delusa: non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento critico, o meglio autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e italiana, di quel che Grassi chiama Umanesimo [...] per Grassi si produce allora una difficile e tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal nostro punto di vista, l’incontro a Todtnauberg tra Grassi eHeidegger, sebbene significativo, non costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle affermazioni sull’umanesimo espresse da Grassi nella produzione giovanile. Infatti, la questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del 1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che intercorre tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già maturato le coordinate fondamentali del suo itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger riveste un ruolo centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70!   significato filosofico dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al centro della sua riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: “sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico [...] che significato può dunque oggi avere un umanesimo?”203. Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge Grassi a misurarsi con le questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si tratta di accenni polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma che ci consentono di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del declino di una visione globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento dalla realtà che le scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario contribuiscono ad espandere a dismisura: “qui nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico è per Grassi responsabile di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di una de-realizzazione del reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione dell’oggettivo svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che invece mediano le scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il risultato di un interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi presupposti”205. Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è la ricerca filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in cui motivi etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente in quel contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale che l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del discorso grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti: esaminate !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 203 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV, Umanesimo e scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi umanistici, a cura di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205 Ibidem.  ! 71!  tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione storica dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo attorno al quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il percorso onto-antropo-logico di Grassi staziona a lungo presso il concetto di Lichtung, e non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni friburghesi”. La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della prospettiva onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di vista, il plesso teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che successivamente avremo modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia; quella sulla metafora e la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero grassiano della Lichtung ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di questo concetto, ciò ci consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si staglia la particolare declinazione che della Lichtung offre Grassi. II. V La Lichtung in Heidegger Come ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung heideggeriana è un esempio di etimologia per antifrasi come il latino lucus a non lucendo, dove il lucus, il boschetto sacro, viene fatto derivare per antifrasi da lucere, perché esso ha poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali: al luminoso (Licht e lux), all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il termine Lichtung non ci riferiamo ad una espressione metaforica per indicare ciò che si sottrae all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di base di cui fanno parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua capacità di creare corrispondenze ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la concettualizzazione filosofica della Lichtung206 si dipana nell’arco di più di 35 anni di speculazione filosofica: dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 206 Resta ancora aperta tra i critici la questione di una possibile traduzione efficace del termine che conservi il senso filosofico originario senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da Cicero circa la traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né l’affinità fonica e verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte inapparente di ogni apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è noto sono quelli di Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che rende con radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita; Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg&Sellier, Torino 1993. Per una ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, pp. 195-230, in M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche”, Giannini, Napoli 2015.  ! 72!  pubblicazione di Tempo ed Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein, Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale, nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv) verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre, l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività. L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 207 “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208 L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale. Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165.  ! 73!  (ii) La relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso, come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 209 Il termine Offenheit è impiegato soprattutto in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al contempo aprente contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il mondo, infatti, come l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione, donazione e fondazione le quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente “insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione della donazione di senso. 210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id., Seminari, tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p. 158. 212 Cfr., V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976.  ! 74!  omogeneo naturale213. Inoltre, risulta impraticabile la deduzione dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso al concetto di Lichtung che dirada il luogo di ogni manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. (iv) Il legame di Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo paragrafo di Essere e Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci, apertura e verità214. Qui Heidegger afferma che un’asserzione è vera innanzitutto perché è apofantica, ossia è manifestazione dell’ente215. Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità è connessa ad un concetto di Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit (come uno stare aperto da parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente). La grande sfida che si apre alla riflessione del filosofo tedesco è quella di portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e oscuro su cui si pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità. Preminente secondo Heidegger nella dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi della cosa, e non il Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale separazione tra il contenuto dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha generato per il filosofo tedesco quel “riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 213 Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile”, M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello della della geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali della vicinanza e della lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea dello spazio geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di Essere e Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265.  ! 75!  all’asserire”216 della verità che è caduta sotto il giogo dell’idea, con il conseguente mutamento della verità in orthotes. (v) L’altro concetto fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello di nulla, di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno, radura e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano in quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica. Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso un indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali fondamenta e a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come può orientarsi? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 216 Id., La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann e F. Volpi, Milano, Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si dipana su un piano che è più strettamente analitico-esistenziale, nella prolusione Che cos’è metafisica (1929) la questione si pone sul terreno ontologico. Qui il discorso sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica del rapporto tra essere e nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è tanto l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello spaesamento – propria dell’angoscia, quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di apertura dell’essere – della stessa: «solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come tale [...] il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano”, M. Heidegger, Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia, cit., pp. 70-71.  ! 76!  II. VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta grassiana Queste sono le sfide che il pensiero heideggeriano pone e che Grassi rimedita in modo originale coniugando Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva un pericolo per l’esperienza autentica dell’originario Grassi individua una possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e razionalistica. Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo – nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio razionale e scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la razionalità genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà”218. Per il filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa prospettiva e la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per Grassi quello compiuto da Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare, portare a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto del quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel quale ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione, forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva metaforologica originale che coniuga l’analisi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 218 E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77!   della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel contesto della Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da questo passo emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea: si tratta di una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung heideggeriana pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base dell’evento, della manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere al quale è chiamato l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota linguistica perché l’appello dell’essere che avviene nella dimensione della Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi rimarca più volte la retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung: interpretata come riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere la Lichtung compare già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle che riguardano il linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il collega di corso di Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva risalire al 1914222, in realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger e Ortega di secoli. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 219 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono nostri. 221 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21. 222 Ortega ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune intuizioni filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti importanti di Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità di tredici anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932), in Id., Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47, nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger sono quelli di essere, verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei concetti ora ricordati rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi interculturali”, 1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i passi orteghiani del 1914 in cui si dice sia prefigurato il concetto heideggeriano di Lichtung, ! 78!   Secondo il filosofo milanese, infatti, il problema della radura risale alle riflessioni dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi umanistici un secolo fa, con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e Garin, gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione, largamente diffusa, è la ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! reso con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914, affermava che: “la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento, toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p. 68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo Ortega “il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo nome conserva un alone di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset, Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una “pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà possibile constatare che il tema della metafora svolge una funzione fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione, una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”. J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia, Sossella, Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è un’operazione metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...] così, se quanto diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere che perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la metafora”, J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46. Cfr., G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013 soprattutto il saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset”, pp. 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a cura di), Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico- scientifica e giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2, 2014; F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007, pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida, Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G. Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”, Trieste 2015.  ! 79!  problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi? Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale, del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung nel pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a: “l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita. Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad una molteplicità [...] !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 223 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 10. Completamente opposto è il giudizio di Rita Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84.  ! 80!  è radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il termine retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del pathos – “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”227. Come conciliare allora il periodo a -! “si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo [...] il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte durante tutto il suo iter di pensiero la necessità di una ricomposizione di queste due vie del filosofare tanto che giunge ad affermare che le analisi svolte sull’umanesimo sono da concepire come “uno sforzo per gettare un ponte tra logos e pathos”228. A questo punto si impongono una serie di osservazioni: Grassi non parla in maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla logica del pensare, dell’atto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 226 E. Grassi., Il problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id., Retorica e filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The Pennsylvania State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 170.  ! 81!  pensante, che porta a manifestazione. La lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229. La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che appare? Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio? Se da un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta connesso strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso logos-pathos (poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della manifestatività dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una connessione molto interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la Lichtung heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben più complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza del momento patico e di quello logico determina la forma della manifestatività. Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale per Grassi e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo esplicito negli anni della maturità), sia già presente nella produzione giovanile riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività e dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di riferimento centrale all’interno della prospettiva grassiana, sia per quanto riguarda il valore della parola poetica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 229 Analizzeremo in modo approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo.  ! 82!  come linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e le luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231 latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è, l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e significanza filosofica: Giambattista Vico”232. In Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della fantasia, del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura dell’“ultimo umanista”: Vico. Grassi pone il seguente problema: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung. Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal caos originario) è un processo che parte dalla originaria estraneazione dell’uomo, intesa da Grassi come “angoscia originaria dello smarrirsi nella foresta primordiale”234 e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo antropologico, approda all’istituzione della comunità umana mediante la parola. Questa più che configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad essa connesso !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 230 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di Ernesto Grassi, cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y Ortega, cit., pp. 146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi, p. 253.  ! 83!  – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi rintraccia l’autentica caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per Grassi la Scienza Nuova vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente affronta la questione della storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza Nuova appare la problematica principale del filosofo napoletano: quella del disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana fa perno sul passo vichiano della Scienza nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello vichiano della “schiarita della foresta primordiale”236. Mettere insieme Vico e Heidegger segnatamente al tema della Lichtung è per Grassi un’operazione che ha come esito un esame della metafisica in generale e non solo di una metafora, per quanto importante, della filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza. Il gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che possiamo ricostruire – come di fatto è stato ricostruito magistralmente da Amoroso237 –, per quanto interessante, rischia di rimanere molto generico se non calato in un orizzonte teorico più ampio che fa interagire i due autori sul terreno della metafisica. Conscio della grande distanza che corre tra il tentativo vichiano di una riforma della metafisica e di quello heideggeriano di un suo superamento, ma nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi alla “barbarie della riflessione” e ai trionfi della ratio, Grassi pone l’accento sul tema della Lichtung quale terreno di confronto tra due autori che alla ritematizzazione di un rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato gran parte delle proprie opere. La metafora che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 235 Ivi, p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E. Grassi, parzialmente modificato in Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp. 99-122.  ! 84!  Grassi eredita dal maestro degli anni mitici di Friburgo, come abbiamo visto, declina la dimensione della luce con quella dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene rintracciata in Vico. Ovviamente la metafisica della luce, che è a fondamento della scienza nuova, va intesa nel senso di un neoplatonismo cristianizzato. Nella metafisica del suo De Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la chiarezza del vero è come quella della luce. Qui la luce vale come metafora della verità metafisica di Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché è il principio infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè formate e finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico”238. L’alternanza di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un neoplatonismo cristianizzato e non come l’esempio di quell’impensato della tradizione occidentale contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore heideggeriano. Perché dunque Grassi mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe definito Vico un appartenente alla costituzione onto-teo-logica della metafisica – su un tema che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al Geschick, quel destino che genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al ruolo fondativo della poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico quale casa dell’essere – è significativo il tema della intima co-appartenenza di luce e oscurità nella analisi della genealogia del mondo umano. Secondo Grassi “l’unico pensatore che [...] avrebbe potuto aprire la comprensione per il pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger”239 poiché la Lichtung heideggeriana è molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime città, quali tutte si fondarono in campi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 238 G. B. Vico, p. 84, La metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura femminile della metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e civile. Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 Grassi, Vico e l’umanesimo, p. 194.  ! 85!  colti, sursero con lo stare le famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, conl’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre bruciate dentro il chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale sorprendente convergenza di temi Grassi sottolinea come la dimensione di apertura del lucus vichiano analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette in questione il tema dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e del sacro. Il Vico di Grassi, antropologo delle origini, avrebbe attribuito una centralità a quella dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo comune241. La ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto originario – la Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche linguistiche che in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e sull’etimologia e in Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana secondo Grassi è una mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei primi uomini allo stato di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla genesi del linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della storia. La questione della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi umanisti che si sono interessati alla questione della radura, del contesto originario all’interno della disamina del valore della parola poetica. Se la questione della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema dell’individuazione e dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno originario dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la possibilità di retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica non sembra tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla metafisica tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire non una nuova teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la scienza “del disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse interpretare !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 240 G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 115-117. 243 Ibidem.  ! 86!  il pensiero del napoletano come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe poiché “il problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La questione del contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del “disvelamento della foresta primordiale” che altro non è che il problema del fondamento del mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni” che soggiacciono al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato il filosofo milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e l’angoscia originaria dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della natura. In questo “atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine dell’umano e la fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa terra”245. Il passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli ordini civili. Il significato della luce vichiana è infatti innanzitutto civile, politico e comunitario. Come sottolinea Carillo “il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del termine vichiano luce Grassi mette in rilievo soprattutto la valenza di interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e Heidegger (1983) “nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua alienazione dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale – in cui si fa esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della storicità. Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di partenza per una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 244 Id., Vico, Marx e Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 182. 245 G. B. Vico, La Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico. Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E. Grassi, Vico, Marx e Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 181.  ! 87!  ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di una ricerca fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli esseri appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta (schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e l’uomo nella sua umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica dell’ipotesi interpretativa grassiana: il tema della Lichtung non è altro che la metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il già citato Dell’apparire e dell’essere del 1933 in cui la manifestatività si costituisce non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non in una condizione di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di progettazione e umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene per Grassi un pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la metafisica non deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti ma dalla parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua filosofia risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il filosofo milanese afferma in G. B. Vico filosofo epocale che “la sua opera – quella di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a poco appaia (phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – Grassi si !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 248 Ivi, p. 177. 249 Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto interessante risulta la ricostruzione etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De Constantia philologiae “donde il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia di una siffatta antichità. Dai ! 88!   sofferma sul senso ontologico-trascendentale del termine vichiano coniugando in maniera originale i temi heideggeriani e vichiani in una prospettiva che vuole essere l’occasione per un ripensamento della filosofia che riconosce la propria matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si tratta di un pensiero che passa “dalla metafisica degli enti a quella dell’agire, della prassi umana”252: per Grassi occorre partire dalla tematizzazione delle necessitates come fonti naturali dei mondi umani. Egli definisce l’ingegno – che non esclude mai il processo razionale – come teoria che “scopre ora e qui similitudini, connessioni, apre la premessa per un processo razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le conseguenze e quindi costruisce un mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria capacità di vedere il simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali alle quali l’uomo deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di civilizzazione. L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e multifunzionale a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! celati accoppiamenti degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli (latibula) che offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la sua prima origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere giuridiche, introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p. 524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che “abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit., p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco, venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare, attraverso uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia trarne gli auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De Costantia philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto semantico opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In quest’accezione in cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di qui la possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi sacri ai primi abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si combina alla descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è che la trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p. 203.  ! 89!  definiscono come problem solving254: si parte da una condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che, come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora. La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte “d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. Grassi sostiene che “se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259. Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per Grassi non è astorico, razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti indicativi, semantici, anche il tacere, acquistano !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 254 Per un’analisi del problem solving cfr. il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica. Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr., Significare arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199. 257 Ibidem. 258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro.  ! 90!  significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che ci riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica; mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario – la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli “invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica – corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione (Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 260 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e abbandono. Lettera a Ernesto Grassi, pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ! 91!   aprioristica scolastica – con la conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica – possano essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano dell’astrattismo medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto manifestazioni della storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia dell’evoluzione dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-) il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è espressione di una volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa l’appropriazione della natura a favore dell’uomo”265. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 262 E. Grassi, Marxismo, Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e l’umanesimo, cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1976, Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 84.  ! 92!  3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito come essere libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia libero. Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il lavoro ha una funzione sociale. Secondo Grassi l’importanza del lavoro come fattore di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci, dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 266 ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269 Ibidem.  ! 93!  sia concettualmente monca e praticamente inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro – come il superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa – l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi modelli congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo”270. In quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la quale se è vero che il lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale nel suo significato !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 270 Ivi, p. 93.  ! 94!  umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal modo il reale diventa storico, si umanizza quale opera dell’ingegno”271. Se, da un lato, allora, il presentarsi della manifestatività rende affetto l’uomo, e, colpendolo, ne rivela la componente di passività, il suo essere soggetto-a, tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il lavoro. Per Grassi infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura, l’essere “appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra progettazione, del nostro lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è un’operazione soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo – significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività ordinatrice della materia primordiale che per Grassi “ci impedisce di trovare una qualsiasi unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del pensiero”273. Il tema della determinazione concreta del reale risulta strettamente intrecciata a quello del lavoro umano nel suo significato ontologico trascendentale e a quello della fantasia come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base della visione delle somiglianze”274 e non come “attività che ci presenta qualcosa di irreale”275, come “rappresentazione dell’irreale, come pura facoltà della finzione, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 271 E. Grassi, Politica e religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43, in “Archivio di filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni grassiane sul lavoro mostrano molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In relazione all’attività ordinatrice della selva originaria Grassi in questo saggio parla di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile – il significato secondario – sia come attività del lasciar apparire – significato ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e leghein. 274 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276.  ! 95!  come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo caso essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa e combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il referente reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La fantasia ontologicamente intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro è capace di istituire il mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della natura, che l’uomo realizza con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque dall’attività fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si ritrova nella teoria vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il senso comune, secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo ciò che gli è utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come l’ingegno e la fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista fra di loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo umano e dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il lavoro, catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione, cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane”281. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 276 Ivi, p. 191. 277 Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52.  ! 96!  Il labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”, che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a “semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286. Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di Grassi assume un ruolo centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger qualche !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 282 Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284 Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S. Limongelli in Il problema dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s Science of Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland) 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93.  ! 97!  anno dopo287 – concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero teoretico contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle origini del divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288. La critica all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia per il filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale. Leggiamo in Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che Marx riteneva di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo schema del pensiero tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur ritenendo fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di radici dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica all’umano Grassi – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a pensiero della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie la lezione heideggeriana per la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma occorre andare oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che di volta in volta supera, secondo Grassi, i limiti delle prospettive toriche degli autori – in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che coniuga giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della Lichtung. Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un adattamento dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento mediante il quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di Ercole e Cadmo come simboli di essa”293. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 287 Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso in origine in Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (New Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92. 289 Id., Vico, Marx e Heidegger, cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p. 190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86.  ! 98!  L’uso vichiano dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia poetico-simbolica utilizzata ai fini della comprensione delle origini mitiche della storia dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla rappresentazione della faticosa impresa umana della costruzione della società il cui mito, narrato nella Scienza nuova, non appare a Grassi come una concessione al gusto antiquario della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il simbolo “dell’assoggettamento della natura [...] che porta all’autoaffermazione dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli universali fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari [...] così il concetto fantastico cristallizza un essere attraverso un atto dell’ingegno con una visione diretta di una totalità pittorica. Esso rappresenta una figura contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale logica della fantasia fondata sui generi universali e fantastici assume il ruolo di primo coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante rispetto alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo degli universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il ruolo di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica dell’uomo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 294 Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G. B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44 che “questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’ lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII. Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G. Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178, in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p. 54.  ! 99!  Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano. L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole [...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298. Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il pensatore: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”299. Quale importanza Grassi annetta al ruolo, al contempo storico e filosofico-speculativo, che svolge, nel complesso del suo itinerario onto-antropolo-logico, la questione dell’origine dei processi storici dell’umanità è testimoniato dalla collocazione del tema della Lichtung – che accomuna Vico e Hiedegger – accanto a quello del lavoro – che vede fianco a fianco Vico e Marx. Sostiene il filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo l’opinione di Vico, grazie alla radura aperta nella foresta originaria”, attraverso il lavoro, “divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”300. Si intrecciano indissolubilmente le questioni del disvelamento/Lichtung – la vera “chiave maestra” della lettura grassiana degli umanisti – quella del lavoro nel suo significato esistenziale e quella delle strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva del pensatore milanese è attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della natura – il disboscamento !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 298 G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 251. 300 Ibidem.  ! 100!  della selva primordiale – che si apre quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose” dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. ! 101!  CAPITOLO III LA QUESTIONE DELLA METAFISICA IMMANENTE IN ERNESTO GRASSI III. I. La struttura onto-antropo-logica del pensiero di Grassi Come è emerso dalle precedenti riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana. Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della metafisica immanente o ontologia situazionale301 grassiana e sul nesso essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di ricerca Grassi enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti – e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret  ico. Egli afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia sul terreno speculativo sia su quello storico in un articolo del 1932 su Jaeger Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo [...] può avere il suo fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche storicamente”302. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 301 E. Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi scritti, cit., p. 258.  ! 102!  La ricerca grassiana si configura, da un lato, come riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger. L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce a “una mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger, il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale, affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire “ontologia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 303 Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p. 883. 304 Per Grassi occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione: “come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio con l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”, ivi, p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle moderne scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito delle scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e soltanto in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium, in quanto siamo esseri storici”.  ! 103!  fenomenologica semantica” di Grassi, in cui il tema dell’essere, identificato con quello della manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello semantico, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel fondamentale saggio Significare Arcaico (1966) in cui è condensato tutto il valore della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del contenuto tematico di questi contributi è possibile una più profonda comprensione delle indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945), saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, i quali mostrano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. In questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,305 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959). In quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che trovano un’articolazione in una analitica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 305 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII.  ! 104!  esistenziale che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico – l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di Grassi dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione grassiana sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse di disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività, dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, Grassi mostra nella sua disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque di delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione di fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi significa affrontare il problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel processo di determinazione di una teoria dell’uomo che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 306!E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.  ! 105!  mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 – !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 309 Max Scheler in La posizione dell’uomo nel cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca antropologica come scienza fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali dell’uomo. Esplorare la dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta un confronto con le dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare, del volere. Per Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le mosse da ciò che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza: “è compito di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo “privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo”, ivi, p. 144. 310 Per Plessner occorre partire dal concetto di vita che costituisce la “parola chiave di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 27-28. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del quale si trova de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi antropologiche fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale, costruendo a partire da una natura una cultura; la legge dell’immediatezza mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato in precedenza in modo immediato attraverso forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte, conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che l’uomo prende le distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un fondamento assoluto del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma che “la sua forma eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio della caducità”, ivi, p. 363. 311 Arnold Gehlen si pone sulla linea di ricerca scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una serie di caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e istintuale; la sua “incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già Herder aveva tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava all’uomo come ad un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un essere privo persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la “deficienza organica” e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea cardine della “non-specializzazione”: [...] primitivo è = non specializzato = originario, o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello filogenetico (arcaico). Per specializzazione è da intendersi la perdita della pienezza delle possibilità esistenti in un organo non specializzato, a vantaggio del grande sviluppo di alcune di queste possibilità a spese di altre, cfr., A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, pp. 127-128. Accettando il paradigma interpretativo della carenza si pone il problema di coniugare questa non specializzazione umana con il suo esser collocata all’interno di una catena biologica evolutiva. La dotazione organica non specializzata dell’uomo e i suoi primitivismi rendono problematica la sua esistenza che solo grazie all’azione e alla costitutiva apertura al mondo continua e progredisce. Categoria fondamentale all’interno ! 106!   elaborano le note teorie sull’uomo, Grassi, forte della sua formazione culturale a metà strada tra filosofia italiana, filosofia tedesca e francese, sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia di un approccio scientifico all’uomo sia i limiti di una impostazione speculativa classica mediata soprattutto dalle letture heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso l’analisi delle teorie degli esponenti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! dell’antropologia gehleniana è quella dell’esonero Entlastung che indica la capacità umana di distaccarsi dagli oneri del mondo esterno. L’esonero costituisce il primo atto per spezzare il cerchio dell’immediatezza e per liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve allontanarsi dalla pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una distanza sempre maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt, l’ambiente, in un mondo abitabile, la Welt.  ! 107!  della biologia teoretica quali Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315, Grassi cerca di porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla confusione del “contributo delle scienze con quello della filosofia”316 . Accogliendo la critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 312 Hans Driesch (1867-1941) fu un biologo e filosofo tedesco. Egli lavorò a Napoli presso la stazione zoologica dal 1891 al 1900 e successivamente insegnò a Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a Colonia e Lipsia. Fu convinto assertore del vitalismo contro la teoria meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti ricordiamo Storia del vitalismo (1905), Filosofia dell’organismo (1909), Corpo e anima (1916), Il problema della libertà (1917), Metafisica (1924). Di Driesch Grassi mette in luce il neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita organica e l’importanza del concetto di entelechia esposto dal Driesch in Philosophie des Organischen. Grassi, in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, sostiene che “in molti ambienti la filosofia rimane concepita sul fondamento delle scienze, cioè sintesi e classificazione di fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere in questa forma un reale valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di concezioni simili si scorge oggi in tutta quella corrente speculativa della filosofia tedesca contemporanea che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza naturale elaborata in filosofia, filosofia della natura, che in realtà non diventa che un prospetto empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi naturalistiche. Appartengono a questa corrente di idee il Driesch, o zoologi come il Plessner – che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di raggiungere una costruzione metafisica [...] nella sua Philosophie des Organischen a mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e mettendo in luce con osservazioni biologiche l’originalità della vita organica, egli giunge ad una concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche, la sua teoria dei sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed egli concluse che accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un organismo, è necessario ammettere un nuovo fattore, che egli chiama entelechia”, in Id., I primi scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr., anche Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., pp. 299-332, in particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305. 313 Di Plessner Grassi evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico all’umano inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una filosofia fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come Plessner, scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un altro volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito, ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione grassiana – di evidente ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul concetto uexkülliano di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie sia nel saggio Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p. 205) sia più diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi sottolinea la connessione istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. ! 108!   si è messo a servizio della scienza espressa in Logica317 Grassi asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa “si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318. L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi del procedere naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano, alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione dell’atteggiamento speculativo grassiano. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia, metafisica esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch “presenta una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due pensatori, l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio del XX iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che senso si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella metafisica immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza l’attualismo323? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 317 B. Croce, Logica, Laterza, Bari 1920, p. 264: “perché quando non si tratta d’altro che di classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a ragione di non aver bisogno del soccorso dei filosofi”. 318!E. Grassi, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem. 321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo e fenomenologia gli articoli di indole informativa generale che seguono: Id., Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine grassiane su Heidegger del saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano, Philosophie des menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323 Già nel saggio del 1929 Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea (in Id., Primi scritti, cit., pp. 181-202) Grassi, sviluppando in forma più articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma quell’identità di problemi tra attualismo ! 109!   La “meditazione diltheyana” di Grassi si focalizza soprattutto sui concetti di Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il primo a intravedere il problema della realtà e della storia come problema della realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui scritti speculativi e tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente storico325. In Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il problema dal quale muove Dilthey, quello della distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa importanza in sé rileva Grassi, va ricondotto alla più generale operazione teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale delle scienze dello spirito individuato in “una scienza di carattere psicologico. Gli elementi del mondo storico sono gli individui, quindi lo studio di essi e la descrizione dei vari tipi di vita spirituale diventa la base della comprensione storica [...] l’esame della struttura della vita dello spirito cerca di conquistare nella molteplicità di situazioni coesistenti la sua caratteristica unità”326. La psicologia diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni concreta realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in cui si realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! e ontologia immanentistica heideggeriana che in Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger del 1930 troverà una articolazione teoretica più approfondita. Infatti, in Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti speculazioni metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del tentativo di Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p. 198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll., Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica, pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova 2003; Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione fondante di conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e metodo critico, Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia delle visioni del mondo tra critica storica della ragione ed essenza della filosofia, pp. 153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, pp. 249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa 2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande “Geistesgeschichtsschreiber” dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che Dilthey desta in seno alla filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in modo particolare sulla sua figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai suoi scritti di carattere speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi, pp. 172-173.  ! 110!  passaggio auspicato dal pensatore milanese da una “teoria dell’atto di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane incompiuto nel filosofo tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto completo di comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce ogni relativismo”327. Così per il filosofo italiano Dilthey ricade nell’astrattismo di una “tipologia che prese il posto della filosofia”328, la quale riduce la fondamentale categoria della Lebenzusammenhang a forme astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le riflessioni su Dilthey pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta e le strutture psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico umano, quelle su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il rigore alla filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un rigore metodologico, che invera “la psicologia fenomenale di F. Brentano”330. In Linee della filosofia tedesca contemporanea Grassi sostiene che “la meta di Husserl fu la conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire con sicurezza la ricerca filosofica [...] egli scorse con chiarezza l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze”331. Una critica radicale in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di “raggiungere il concetto della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 327 Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla critica grassiana al concetto di tipologia anche, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id., I primi scritti, cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 313-314. 332 Ibidem.  ! 111!  giudizio di esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi vari momenti e significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato e poi la sua rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come oggetto ideale della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il Vorurteil, il quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende possibile quella scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle proposizioni formali della logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della fenomenologia è colto da Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la Wesenschauung. Infatti, sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea, il filosofo sottolinea come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si isolano degli elementi assoluti, trascendentali, coi quali ciascuno può e deve costruirsi con rigore scientifico un concetto della realtà [...] le essenze logiche non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse a mezzo della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e pretende di andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè, riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 333 Grassi riesce a cogliere in poche battute tutto il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315. 335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali, storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112!   getta luce sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo razionalistico”. La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce il “dato empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di fatto dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...] la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica – dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema metafisico mostrando una certa affinità con i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! pensiero segnò un momento fondamentale in seno alla filosofia tedesca contemporanea contrapponendosi con maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl in E. Grassi, Was ist Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91. 338!Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339 Ibidem. 340Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 341 Ivi, p. 223.  ! 113!  temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in Il problema della metafisica immanente che “pur essendo nato da problemi e posizioni speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano: ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso: l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana Grassi coniuga il problema !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 342 Ivi, pp. 226-227. 343!Ibidem.! 344 Ibidem.  ! 114!  della trascendenza, così vivo nella sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il problema dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo afferma che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger, ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen – che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che l’analisi del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 345 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115!   contesto originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Grassi, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al contrario, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 346 Ibidem. I corsivi sono nostri. 347 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 80. 348 Ibidem.  ! 116!  grassiani, della correlazione di verbum e res, induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della metafora, della fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come l’ontologia grassiana sia un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi, scorci, campi, forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché il metapherein – la trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, ossia in Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 349 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I corsivi sono nostri. 353 Ivi, p. 15.  ! 117!  la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”354; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Ritornando al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a quest’ultimo “spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs) esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora, non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”357, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 354Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id., Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494. 358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202.  ! 118!  carattere palesante e immediatamente indicativo”359, profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene Grassi non citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante, intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che “ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della coscienza temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della physis in quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione (Bildung), che in questo modo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 359Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 Cfr., E. Grassi, Heidegger e il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le riflessioni sul “ritorno a Kant” contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p. 165.  ! 119!  acquista un carattere esistenziale. Infatti “esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo, senza evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico dinamico in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle forme dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso nell’orizzonte umano di esistenza – semantica – si comprende la critica grassiana alla struttura soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il filosofo “si manifesta sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in quanto continuamente affiora nell’ambito della contraddizione logica dell’esperienza che l’essere non si rivela mai completamente nel divenire degli istanti. È in questo divenire del metaforico traslarsi del reale che viene passionalmente vissuta la contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei limiti di storiche, differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che incombono”365. Solo attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo il pensatore – esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un determinato atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura per difenderci dal “vento del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La filosofia di Grassi tuttavia non va interpretata come una forma illogica di irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira a sondare “la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a quelli di logos, pathos !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 364Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma della metafora, cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id., Heidegger e il problema della metafisica, cit., p. 203.  ! 120!  e manifestatività. Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi teoretici essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero grassiano. III. II. Essere, apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia dell’accusa di dualismo Secondo Grassi è possibile fare esperienza dell’essere non solo attraverso il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la contraddizione. In La preminenza della parola metaforica egli riprende il tema già affrontato in Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema dell’essere come fenomeno linguistico e espressione della contraddizione originaria che caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere – in funzione del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige il principio di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è quello della contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere preme, si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il campo in cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come evento della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla questione del logos in pieno clima !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero di Grassi e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto dualismo. Egli afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora nei primi scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica, costituiva una forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una dignità peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza quasi ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo, Grassi non tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In effetti egli avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo capace di elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato dalla preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno del dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo la quale il pensiero di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della ricostruzione del cammino di pensiero di Grassi – soprattutto le sezioni che mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la tesi secondo cui in Grassi è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in riferimento a Vom Vorrang des Logos che “tale scritto del Grassi ! 121!   attualistico, e un “secondo Grassi”, sensibile alla tematica linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina storica delle opere grassiane con l’indagine teoretica sul tema onto- antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito, ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva grassiana “se si parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla caratterizzazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! rappresenta non solo il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p. 95. 371 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e non dualistico Rita Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi lega “pensiero e passione ! 122!   complessa di logos e pathos in Grassi. Ma prima di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e della manifestatività seguendo le tappe del discorso grassiano al fine di mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato. L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore (1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora inaudita e Il dramma della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si autodefinisce ancora come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La dialettica dell’amore, pp. 89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione del dolore in questo periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo importante. Essa attesta da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta dell’esistenza che in Grassi emerge già in questi anni attraverso le letture di autori quali Unamuno, Ibsen, Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo confronto con l’immanentismo avvertito ancora come distante dal proprio orizzonte speculativo. Afferma Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore assurge a un’importanza senza pari, è esso l’anima di tutto il divenire della Realtà in quanto ci permette questo essere una personalità, ossia coscienti e coscienza, che è l’essenza della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la possibilità della libertà [...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma la realtà, considerata come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si pone come nota distintiva dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista attestando una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni.  ! 123!  metafora – tanto che Grassi giunge ad affermare che “il dolore è in realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano il legame ancora profondo di Grassi con il concetto di trascendenza, che andrà dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi grassiani scritti a distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore che “se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375. In polemica con l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal filosofo come la più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di Giovanni Gentile) Grassi asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere, che esso proprio costituisce lo sbocco e l’affermazione alla quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per interna necessità logica giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore si pone in opposizione all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale, come quello del dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che dissolve ogni contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo le affermazioni appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata all’amico Enrico Castelli Gattinara !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 374Ivi, p. 118. 375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem.  ! 124!  di Zubiena che la sua posizione speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo dell’attualismo italiano gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur riconoscendo il punto di partenza cattolico della propria formazione filosofica. Scrive Grassi all’amico: “Durante le mie peregrinazioni germaniche nell’anno scorso ho trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori contemporanei [...] il mio filosofare è partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero cattolico, ma siccome in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la conquista realizzata, non posso dare quello che oggi non ho ancora [...] la mia posizione attuale è il riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più coerente e matura del pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero di giungere a nuovi orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla filosofia tedesca è animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e concretamente dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la mia posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far emergere un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della questione onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione giovanile la questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della componente della trascendenza, della realtà del dolore e del tragico, dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza, tutta votata all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi frutti: il problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si incontra con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo. Sebbene Grassi non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le esplicitate fonti heideggeriane !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 377 Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto Grassi, pp. 287-299, in “Idee”, 28/29, Lecce 1995, pp. 292-293.  ! 125!  e gentiliane, ma anche la questione fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana378. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi, p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità, nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti, l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato. Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere? [...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta la sua intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi, un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza, l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è l’intuizione categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che “la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto “l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento”, p. 62. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione categoriale. É possibile istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema della metafisica se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto che secondo Heidegger è reso possibile dalla sintesi a-priori dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei termini di fantasia e ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta fondamentale della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla soggettività”, ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo qualcosa di “immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”, ibidem, e nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla realtà”, ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in una semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori, ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in quella Lichtung che è il mondo. ! 126!   Sarebbe un’operazione forzata includere in seno alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche Grassi. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei metodi di ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di interessi di innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e dei gradi dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica all’obiettivismo. Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il ripensamento del tema della manifestatività nella sua identità con la questione ontologica. In Il problema del logo si afferma che la ricerca della manifestatività si identifica con la questione dell’essere: “L’originario vero non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se il processo di distinzione non fosse il primo, non sarebbe possibile passare dal non manifesto a ciò che è manifesto [...] il processo deve quindi essere inteso come un auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”379. In questo passo si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere l’essere è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di manifestazione. L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che Grassi fa partire da una messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto dato inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della prospettiva empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora questa concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente mette in evidenza: “l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la propria verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci porga veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama, sarebbe proprio per esso irraggiungibile”380. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 379 E. Grassi, Il problema del logo, in Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374.  ! 127!  La contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi, ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi poiché “il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente, nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente [...] l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381. Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per Grassi “ciò che sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto afferma Grassi che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più essere razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda, cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente”382. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 381 Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città del Sole, Napoli 2002, p. 81.  ! 128!  III. IV. Metodo statico e metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale, quello che per Grassi mira alla definizione del concetto che dice della cosa unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico, ma quella di un processo. Su questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in Il problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche” grassiane sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della manifestatività e della pluralità delle forme, che qui trovano una prima esplicazione sistematica correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema di Il problema della metafisica platonica è individuato da Grassi nell’ambito della problematizzazione del concetto di forma. Il tema dell’eidos è coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene configurando secondo il filosofo milanese come risposta da parte di Platone all’oggettivismo sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei modi della manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto nel 1931, il testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso l’editore Laterza ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale Grassi si sentirà legato per tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente influenzato il suo pensiero. In questo testo Grassi analizza il dialogo platonico Menone in polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone come il rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se, invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica platonica “è di porre solo in discussione il problema della legittimità della tradizionale interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello empiristico della sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa, quella metafisica, la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito avere alcun dubbio riguardo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 383 Id., l problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129!   all’affermazione che egli come filosofo, ha cercato di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una teoria del sapere come reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si saprebbe cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la tesi platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi che “se il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in questo caso nel dialogo la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 384 Ivi, p. 8. 385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F. Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – , e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130!   contesa, !"*-, diventa ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno della nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un “secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos – che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos, fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo rilevare come in Grassi “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una domanda, non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca comune !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 388 Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390 “Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che vedono non indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr. it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. Grassi, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”, Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro.  ! 131!  positiva”392. La determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una )!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo”398. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 392 Id., Il problema della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86. 394!Ivi, p. 71.! 395 Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere che appare è sempre finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si può fare, è l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza dell’essere non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica, né un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso di dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74.  ! 132!  La fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta, sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In un testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare riveste per Grassi399. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare all’atto linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il filosofo è mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal colloquio, al fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a monologo scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un monologo, emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali sono l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo dal colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come un monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto di partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il filosofo un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in cui l’uomo agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e la situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica, esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 399 Cfr., R. Messori, L’affettività del colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., e V. Mathieu, I temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo, ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., p. 61. Corsivo nostro. ! 133!   L’unico metodo per il filosofare nasce dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo intrinseco della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione del senso. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401 L’importanza della tesi di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi aspetti teoretici fondamentali facendo venire in superficie temi centrali in tutto il cammino di pensiero di Grassi. In questo testo l’essenza della verità è ricondotta alla struttura del dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra apofansis e poiesis, tra manifestazione e creazione, tra enunciazione della verità e la condizione che la rende possibile, tra verità e significatività attraverso l’analisi della questione metodica da cui risulta un’idea di verità extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché il vero è il processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia, che non è una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente a Grassi anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci solo se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. In Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 401 Ivi, p. 71.  ! 134!  incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un sapere concettuale che fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca, ma un sapere noetico che, per Grassi, è arcaico e indicativo. Qui risiede il valore semantico dell’ontologia fenomenologica di Grassi che gravita intorno al concetto di nous, sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di una “intelligenza senziente” o di una sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale, insieme a Grassi e Ortega, è uno degli allievi “latini” di Heidegger, come ricorda Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo discorso si inserisce anche il tema del nulla. III. V. La funzione metafisica di nulla e angoscia Grassi, in Il problema del logo, sostiene che “se la svelatezza dell’essere si chiude in un processo, allora esso [...] deve contenere in sé il nulla e l’essere, giacché ogni processo, ed anzitutto quello metafisico, realizza sempre un passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i concetti del nulla e dell’essere determinano il nostro concetto di processo”403. L’importanza della questione del nulla come co-fattore, insieme all’essere, nella !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 402 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del logo, cit., p. 377.  ! 135!  determinazione del divenire è centrale nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, “come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo”404. La centralità del logos, quale modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere confusa con un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia Grassi distingue un significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di svelamento dell’essere. “Il logo come oggetto della logica tradizionale è il logo in quanto pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un atto concreto, come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di giudizio [...] in quanto il manifestare logico, come verità di giudizio, si fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la legittimità di distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità del giudizio (come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza originaria degli enti”405. É precisamente in questa direzione che il filosofo conduce la propria ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e il pensiero heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al di fuori dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$- /*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema è quello di guadagnare un “nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica formale”406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e di esperienza. Si chiede Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere? L’Essere sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza contraddizione che il Nulla sia?”407. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 404 Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406 Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380.  ! 136!  L’importanza del nihil all’interno dell’indagine ontologica è direttamente conseguente all’assimilazione del processo di manifestazione all’auto-distinzione, dove lo svelamento contiene in sé già l’essere e il nulla, la possibilità di mostrarsi ed occultarsi, come quella dell’errore e della verità. Ora se la logica tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione scientifica del nulla per i motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo in cui il nulla si manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la questione dell’essere al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso empiristico o razionalistico – e secondo Grassi in questo tentativo di ripensamento di una via di accesso al nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della priorità della Stimmung dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con quella attualistica del logo come atto. Si chiede Grassi: “esiste dunque il nulla, e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica dell’angoscia che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos e manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 408 I termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da Grassi, tuttavia egli usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del 1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in Id., I primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia viene sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329.  ! 137!  stesso del fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di pensare [...] è allora proprio che l’esistente si manifesta e può diventare oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia nella sua convertibilità con l’essere, e che connota l’intero atto di manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la condizione trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di Grassi che mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e quindi verso la scelta, la decisione. In Grassi più che agire una temporalità contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 411 Ivi, p. 329.  ! 138!  III. VI. Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio significato per entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il logos inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo deduttivistico, dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello ridotto a fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella singolarità. Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero pensante e concreto, che sperimenta la manifestatività dell’essere nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va inteso in senso metafisico. L’angoscia costituisce appunto questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica: secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”412. Esso è “passione abissale”413 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico indica il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”414. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 412 Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 413 Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329.  ! 139!  in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”415. A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”416. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica: in questo contesto ontologico si installa la visione antropologica di Grassi. L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere rende possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da parte dal filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al compito di un ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali dobbiamo riconoscere di non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza della negatività, della mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto della necessità della trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un materiale per la formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è emersa una prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella del nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos. Se !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 415 Id., Assenza di mondo, cit., p. 226. 416 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id., Mito e arte, cit., p. 147. I corsivi sono nostri.  ! 140!  il reale è processo di manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora il logos capace di dire questo processo, questo apparire, questa manifestatività autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso tradizionale. Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un riduzionismo logico, tenendo conto della co-originarietà delle forme del manifestarsi del reale. La funzione del logos in Grassi ha destato non pochi problemi per gli interpreti, come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il problema del logo del 1936 il logos è considerato nella sua preminenza rispetto alla Stimmung, nei saggi successivi come Il reale come passione e L’inizio del pensiero moderno abbiamo un capovolgimento di questa posizione soprattutto sulla scorta dell’analisi del dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che possono aver suscitato l’idea di dualismo. In Il problema del logo il filosofo afferma che “la Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del legein”418. Da questo passo pare emergere la riconduzione della questione del patico all’interno dell’orizzonte logico: il pathos viene visto quale modalità del logos. Qualche anno dopo Grassi sembra cadere in contraddizione affermando l’esatto opposto di quanto asserito in Il problema del logo. In L’inizio del pensiero moderno si sostiene che “nel dubbio qualcosa è per noi originariamente non indifferente [...] in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra appunto il carattere patetico e passionale del pensiero”419. La difficoltà per l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione delle tesi appena citate e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una modalità del logos, un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È possibile uscire dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza dell’originario? La complessità di una loro possibile connessione viene esplicitata e avvertita dallo stesso Grassi che già in Il problema del logo si chiede: “possiamo dire che il logo sia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 418 Id., Il problema del logo, in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 141!  effettivamente il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento pre-logico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”420. Infatti egli interpreta il logos come legein, cioè come atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di questa manifestatività originaria, di questa svelatezza originaria degli enti (aletheia ) si può porre il tema della verità logica tradizionalmente intesa come connessione di soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal convincimento che ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime sull’on, sia già sempre radicato in un vero più originario: quello appunto della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la logica tradizionale vorrebbe essere proprio una logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto razionale od empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può venir dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che Grassi rivolge a gran parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità. Grassi ha in mente piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che però non troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo pensiero, restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo interpretato all’insegna del concetto di Lichtung. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 420 Id., Il problema del logo, in Id., I primi scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378.  ! 142!  Si chiede Grassi in Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva (Stimmung) deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La questione è comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in Grassi più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con la metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica heideggeriane423. Qui Grassi individua la possibilità di una corretta interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in Grassi la questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul terreno dell’ontologia e della !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 422 “Muss nun diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra.  ! 143!  manifestatività. L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und Zeit, mostrando una netta differenza di interpretazione rispetto a quella seguita dagli studiosi della analitica del Dasein degli anni ‘40425. L’articolazione del nesso logos-pathos trova una prima via d’uscita nella riflessione sulla fantasia, reciprocabile con l’intuizione e con l’intelletto, in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma di organizzazione a priori dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il pathos. La questione della correlazione di pathos e logos comporta per Grassi anche un ripensamento dell’identità (un’identità !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 425 Ha sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit. (p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni di Grassi e di Henry Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico a-priori del pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di Grassi e quella di Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo critico rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della distanza di vedute tra Bollnow e Grassi occorre mettere in evidenza come Bollnow in Das Wesen der Stimmungen del 1941 pone la ricerca antropologica sotto il segno della critica al concetto di fondamento heideggeriano, insistendo sull’infondatezza del dualismo autentico-inautentico insito, secondo Heidegger, nella dimensione della quotidianità. Nonostante la messa a distanza del tema ontologico nella “antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è riscontrabile un punto di contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di Bollnow e Grassi, alla storicità come fondamento di ogni antropologia filosofica che guarda all’umano come continua produzione di forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo “l’idea che la storicità della vita significa creatività, produzione di forme che portano a espressione la vita in manifestazioni specifiche” – (S. Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che converge con l’impostazione generale del pensiero di Grassi che punta ad un rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo conduttore delle espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia, influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto generale della Lebensphilosophie, “non muove da principi astratti [...] ma considera ipoteticamente i fenomeni della sfera educativa come parti dotate di senso in una connessione più generale e rintraccia tale senso nella originaria relazione attraverso cui l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p. 137). Bollnow, in Die Macht des Worts, afferma che la questione antropologica è connessa al potere formativo della parola e “la questione circa l’essenza del linguaggio diventa in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza dell’uomo in generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts. Sprachphilosophische Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato in S. Giammusso, op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è correlato alla questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella prefazione alla traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P. Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine. Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. Grassi, Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche battute un’idea di pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi (Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche – pur nella diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur evidenti differenze sottolineate da Messori.  ! 144!  che contenga in sé l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività. Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che cos’è metafisica anche Grassi crede che “il nulla non si rivela dunque come un oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico? In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si distingue da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per Grassi accade quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di pensare la coappartenenza di logos e pathos. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 426 E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi, pp. 383-384.  ! 145!  Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo Grassi ci giunge dalle analisi grassiane di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno Grassi porta avanti le sue analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in Dell’apparire e dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio vada rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso l’analisi del dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una realtà complessa che va identificata come atto, attività del cogitare. In quanto atto il cogito è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e l’essere, che in Grassi sono sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito è l’unico primo ed originario essere che incontriamo e fondandosi sul quale solo si può ricostruire e ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento [...] l’atto del cogito – come originaria unità, monade – contiene in sé già tutto”429. Appare qui evidente la funzione ontologica del dubbio come “apertura esistenziale” della questione della manifestatività. La suprema attività del cogitare, il cogito in quanto atto, non è altro che il dubbio, il dubitare che nel momento in cui dubita, in cui attua l’attività del dubitare, porta in superficie “l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile”430. Nell’atto del dubitare si compie un’urgenza: quella del reale che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci riguarda e nel quale siamo da sempre immersi e compromessi in quanto esseri gettati nel mondo e “di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra così come il vero fondamento del sapere”431. Pertanto il pensare (logos) si rivela nella sua identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme di espressione dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi appelli. Per il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza dell’originario, e non si può pensare ogni volta !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 429 Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., pp. 289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 818. 431 Ibidem.  ! 146!  che lo si desidera o lo si vuole. Perché l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e urgenza rende il logos convertibile con il pathos quali modalità di apprensione dell’originario. Se “solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza dell’originario”433 allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività rispetto al reale? In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a con il concetto di atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche la tonalità affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con cui Grassi si riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è importante sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare. Usando tale traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della gettatezza e passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che è tale nella misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere, all’assenza di codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non possiamo liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di possibilità per il nuovo inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il filosofo “in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra il carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos metafisico e originario è un’urgenza che non può essere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 432 Id., Il problema del sublime, pp. 917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434 Id., L’inizio del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 147!  dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero moderno. Per Grassi Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha il merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano, invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha portato fino in fondo il suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica del sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti. Le riflessioni grassiane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò che è primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione: “l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo, all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno, il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il mondo circostante. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 435 Ivi, p. 846. 436 Ivi, p. 847.  ! 148!  Secondo Grassi “in ogni atteggiamento originario non possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437. Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale, pur tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue: esse sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono Lichtungen del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati dall’azione di ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della non- indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova teorizzato nel concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama, che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico, bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si mostrano da se stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e impiegarli. Così questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura in cui non ci lasciano liberi”439. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 437 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p. 1005.  ! 149!  Possiamo dare per acquisito che in Grassi non c’è un rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile del logos si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I due momenti sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale unità che è al tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a individuare il problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura in cui quest’ultimo si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque essenzialmente una realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene tratta dalla fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo Grassi l’accadere, l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori dell’opposizione logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata, poiché primario e originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua processualità dinamica: in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in sé-per noi”, “uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di polarità antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire realtà mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa dal filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento (Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena, l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena originaria regge il fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale. Essa è definita anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si configurano come un tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via primaria relazioni, atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta possibile, così come la fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena. La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di formazione della veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale: “l’elemento originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni forma dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 440 Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p. 1013.  ! 150!  molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare [...] la scena fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la determinazione filosofica dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per l’ente nella sua totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare come facoltà del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo: dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura. Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 442 Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20, L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119; Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164; Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147.  ! 151!  del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che si viene ad istituire tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare, oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi che Grassi ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII. L’importanza del viaggio in Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia pragmatica che “ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia appartiene il viaggiare”446 e Grassi non sembra sia stato insensibile !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 444 I saggi sono raccolti in E. Grassi, I primi scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. ! 152!   a questa affermazione kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha condotto in giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul “tema uomo”. Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà peregrino se si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura umana fissa e immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita, per accogliere l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento alla multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque, alle molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un rinnovamento neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo stesso filosofo che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le “annotazioni sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla verifica costante di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente un significato originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447. Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica di una realtà nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma sono l’occasione di esperire il “totalmente altro”. Per Grassi il viaggio può avere questo significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è avvenuto: il Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in Sudamerica non è il primo viaggio né l’ultimo di Grassi, eppure in questo territorio si realizza una presa di coscienza molto forte dei limiti e delle possibilità della filosofia occidentale. Su questi limiti e possibilità il pensatore ha ragionato una vita intera, ma !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 447 Le citazioni riportate di seguito fanno riferimento all’edizione italiana del testo di Grassi: E. Grassi, Viaggiare ed errare. Un confronto con il Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen. Südamerikanische Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger, 1982.  ! 153!  lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione della foresta, sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta non è un ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria: storicità e astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di riflettere sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: “una volta si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della tradizione, ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si ritornava a casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo, allora, non è un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un resoconto autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più interessanti circa il viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate “non vogliono essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore che ha dedicato al tema grassiano del viaggio un saggio: América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”451 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 448 Ivi, p. 33. 449 Il testo, edito per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e ampliata dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”, cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in “Cultura latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto, nella vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento alla figura di Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello studioso in cui l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della sapienza poetica, del ruolo antropogenetico della fantasia, di quello arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con le analisi svolte da Grassi. Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G. Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id., Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici, Guida, Napoli 2004, p. 120, nota 10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in «Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817, p. 104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154!   de Ernesto Grassi, concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico. Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in Grassi individuati dallo studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie dell’analitica esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il senso ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”. El viajero [...] llega a un nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales, orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E tuttavia al cospetto di un mondo totalmente estraneo Grassi sente di non poter più fare affidamento sul proprio corredo categoriale. Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto viaggiatore in terra straniera Grassi si sente anche viaggiatore nell’interiorità, e il malessere vissuto dal filosofo per l’opposizione tra un’idea di Europa da cui ritiene di doversi congedare e la volontà di ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un rinnovamento dei concetti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il mare metafora del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di), Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie ora menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner, Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G. Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155!   fondamentali del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine dedicate al concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e assenza di mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della dismondanizzazione ci sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla completa apatia. Ogni processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore avvertito per la scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine esistenziale che sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria patria. Si tratta del terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico secondo il quale “grazie alla radura aperta nella foresta originaria divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”455. Il filosofo ritiene che “anche in Europa si prende congedo dal proprio mondo. La speranza di liberarci in qualche modo, in chissà quali paesi lontani, dai nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci sentiamo più a casa negli spazi della nostra storia”456. Nel pathos dell’angoscia e della noia per Grassi noi esperiamo la dismondanizzazione e la possibilità allo stesso tempo di generare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione e assenza di mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono essere compresi meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a Grassi, quella della luce: “assenza di mondo” come aurora e “dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo. La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle origini, immerso nella realtà circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e di cui Grassi crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva sudamericana, che in realtà !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 454 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 126. Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251. 456 Id., Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49.  ! 156!  si rivela essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di assenza di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una svolta decisiva”457. L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di mondo si caratterizza per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non appena quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che le direttive consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta inizia la storia dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo Grassi “la storia dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente [...] a stare su una soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e non ordinato. A partire da questa soglia si aprono i confini del mondo in cui viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a ciò che ci riguarda e ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio spirituale in cui ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo, come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad un certo punto si disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo costringe a trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla natura e in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei quali costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione (tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci circonda, e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a mancare”461. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 457 Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459 Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di mondo, cit., p. 222. ! 157!   Nel primo caso si tratta di una situazione di privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo nell’aperto – la Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo è condizione di possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale divenga mondo. Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita delle coordinate categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo non sono nient’altro che il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento ma in cui Angst e Langweile agiscono quali operatori metafisici nel contesto della Lichtung che, come ci ricorda Agamben, “è veramente in questo senso, un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel viaggio in generale e in quello sudamericano in particolare noi facciamo esperienza di una epochè dell’abituale e del consueto e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il nostro non poterci tenere a niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che l’alterità radicale del mondo sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la questione non marginale del pathos: per Grassi esso ha una componente metafisica e non psicologica, dal momento che grazie ad esso facciamo esperienza dell’originario. Come è noto, la passione per il filosofo ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo poiché consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. Afferma Grassi che “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 462 G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 71. 463 E. Grassi, Assenza di mondo, cit., p. 226.  ! 158!  come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”464. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare un secondo senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la lineas de una autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en la significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones de los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con l’idea di paesaggio. Grassi si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder, Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini, a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se tutti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 464 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173.  ! 159!  credono che esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti. Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la cesura, lo iato. Come afferma Cacciatore in America latina “en esta experiencia cognitiva [...] el viaje y la partida misma tienen sentido en la medida en que remiten immediatamente al retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la confrontatiòn de Grassi con Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el Otro, però tambièn un hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza. Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la “potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica, che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà completamente nuova, che ancora non si vede, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 467 Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81.  ! 160!  che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è attraverso l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470. L’esperienza cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento verso l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro può avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare del tutto della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente problematico: l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e storia, tra Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline a mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello europeo. Occorre prendere “la expresiòn grassiana naturaleza no historica con mucha cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni che cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –, bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di Grassi che guarda all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto Giannini, in Experiencia y Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa assenza di storia in modo più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il primitivismo che la contraddistingue, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 470 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una ricostruzione dell’intera vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 24.  ! 161!  non è ancora stata sopraffatta dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia, aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente estranea a noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro presente, ma sembra estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi dell’umanità si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà notevolmente diverso. Quando Grassi descrive il passaggio per la grande catena montuosa delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il vichiano “divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza Nuova. Ma non si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel momento Grassi non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva ipotizzato: “vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove prospettive. É l’accesso a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un essere vivente storico ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in queste ombre, in queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il caos inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può essere impresso un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo di pure possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la metafora di quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di possibilità inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo con cautela possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione di tale oggettività – la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della storia, quella che Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo percorso di transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la ragione totalitaria, la ragione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 475 Ivi, p. 69. 476 Ivi, pp. 80-81.  ! 162!  frammentaria, inquieta, balbettante, critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di Ernesto Grassi e pone in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il luogo geografico di elaborazione di questi innumerevoli significati del viaggio, il Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea che si costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione della problematica umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo. Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di retorica, metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il Sudamerica diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico e per gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha voluto confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano, assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle categorie della storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene. Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 477 Cfr., soprattutto E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi, Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.; Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit.  ! 163!  in prossimità del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia, che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per Grassi “non basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei quali ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le tappe di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un binomio vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa spazio ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione per rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo riconoscimento capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana l’oggettivo appare come una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma che domina l’uomo. Essa diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e si sottrae ad ogni orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione ciclica, in un eterno presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico della natura può quindi suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante. Una volta spezzata la coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si distinguono più come momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si precipita nello smisurato”481. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 478 Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit., p. 490. 481 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116.  ! 164!  Entriamo nello spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente appartenergli nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità “ha luogo un rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa, perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine “di una pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta riferendo ad una realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il Sudamerica è il simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che, prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto impossibile immaginare, e a gran pena ci è permesso di intendere”: qui è possibile guardare autenticamente al mito non alla luce della demitizzazione, non come “prestazione arcaica della ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma come “realtà in cui viviamo”. É ancora consentito vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in quel viaggio dal vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è principio arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere veramente il carattere di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo carattere apodittico, bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 482 Id., Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro del mito, tr. it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi, Significare arcaico, cit., p. 486. 487 Ibidem.  ! 165!  unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo”488. Perché come diceva Vico, uno degli autori prediletti da Grassi: “di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più spessa è la metafora [...] – che – vien’ ad essere una picciola favoletta”489. L’analisi delle “meditazioni sudamericane” di Grassi ha messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso come evento semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale grassiana: dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per comprendere il senso della proposta neo-umanistica grassiana: essa si struttura come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che essere un itinerario geografico perché “in quanto viaggiatori in terra straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità [...] oggi, viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto a un esame il mondo della nostra lingua, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene allora una meditazione sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza dell’oggettività: la nascita della coscienza temporale L’analisi del viaggio nel suo significato tetravalente e la focalizzazione sui temi della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci consente di inquadrare meglio le altre due idee !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 488 Ivi, p. 494. 489 G. B. Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 124.  ! 166!  centrali nell’analitica esistenziale grassiana: i concetti di coscienza temporale umanistica e di oggettività. Secondo il pensatore milanese l’esperienza del disancoramento originario dalla realtà è l’elemento principale che caratterizza la “situazione umana”. L’angoscia e il terrore della foresta primordiale, l’agorafobia originaria che genera la paura dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta in volta i codici di decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti considerazioni sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale simbolico e sulla distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla funzione di apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne che “la situazione umana è caratterizzata dal fatto che l’uomo ha la esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il problema del metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste nella ricerca della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo, cioè di ricerca di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del carattere ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi”491. La situazione in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso disancoramento-metodo- orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei sensi, che provoca il disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, Grassi individua la nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del rapporto immediato con la natura. Emerge un elemento concettuale di non secondaria importanza: il tema della nascita della coscienza e delle scienze si intreccia indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca della sua determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di un metodo, di un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene nella nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento che caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 491 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492 Ibidem.  ! 167!  un’oggettività “stabilita dai principi in funzione ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà fenomenica”493. L’assenza di coordinate e orientamento mette l’uomo in una condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra mondo animale e mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone nel contesto dell’onto-antropo-logia grassiana quale condizione di possibilità della nascita del mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo “la storia umana comincia nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura in quanto l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della non indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi”494. L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo livello di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? III. XI. I gradi dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una volta quello della “condizione umana” che “si distingue nettamente dalla condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo”495. L’indagine sulla situazione del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato l’individuazione di due livelli di oggettività. “Per giungere alla soluzione della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta”496. Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai nostri parametri e dai “limiti da noi progettati”497 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 493 Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497 Ibidem.  ! 168!  -! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del proprio divenire”498 Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e organica la natura appare nel costante ritmo temporale dell’identico, in un diastema, ossia in “ciò che sta (istemi) tra limiti (dià)”499, dettato dal fenomeno stesso della vita e non da modalità molteplici di ordinare i fenomeni naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo umano infinite unità di misura di questa natura. Per il filosofo “della natura possiamo solo parlare in quanto essa appare entro i diastema stessi, cioè entro determinati limiti”500 e tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni fenomeni “il cui apparire non dipende dalla nostra proiezione di diastema”501. Grassi riporta l’esempio dei molteplici stati di un corpo502: un corpo può apparire in una forma solida o liquida ma la modalità in cui esso appare non dipende da noi: la nostra proiezione di diastema non è l’unica via di accesso all’oggettivo, all’essere, alla natura. “Se è vero che la natura appare solo entro i limiti da noi progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività dei fenomeni naturali è la condizione dell’esperimento, è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo ricorre a Leonardo per porre in luce il concetto di natura entro i diastema. Nello scienziato Grassi individua un via di accesso alla natura mediata dall’esperimento che mostra il senso autentico del concetto di diastema. Nel Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo “l’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 498 Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68. 500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503 Ibidem.  ! 169!  ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità”504. La natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che viene svelato in funzione della domanda impellente”505, quindi mantiene una zona di opacità residua. Essa ha una propria oggettività che non può essere colta in maniera esaustiva e definitiva. Il tema della doppia oggettività della natura mette insieme l’idea dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e inaggirabile, e l’idea della natura come banco di prova dell’esperienza umana che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio indissolubile tra il tema ontologico della oggettività, della natura, dell’essere e quello etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle circostanze. In questo percorso di superamento dell’oggettività della natura, di trascendimento della sua alterità e di ricerca di principi di determinazione, l’uomo elabora le proprie strategie di contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per il pensatore italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di quei principi primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti, ma bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i nostri progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo umano”506. La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi nell’angoscia esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella di guidare l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 259.  504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra.  ! 170!  passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo. Come leggiamo in Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro, presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una concezione del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di percepire il tempo dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi). Osserva Grassi che una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non nel senso di ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende possibile le nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana – quella dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino corrispondente ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione: attentio significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 508 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 13. 511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14.  ! 171!  fondamento del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di misura come strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai quali dobbiamo corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della coscienza umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la potenza delle quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di soggetto e oggetto. La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè tra soggetto e oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che Grassi si propone di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena per una “semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo potere originario che strappa l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del semplice segno biologico e la colloca in una situazione di esistenza e di possibilità umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di quel disancoramento primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come produzione tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo divenire e del suo superamento dell’immediatezza della natura allora il suo compito fondamentale – il compito del vero umanesimo – sarà quello di riscostruire la storia “di quella realtà originaria che l’ha strappato dalla immediatezza della natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali, tecnica, filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di ricostruire – con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello umano. L’uomo può realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda originariamente e se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]: sorge per l’uomo il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo umano”518. Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni singola esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 514 Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo, cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 12.  ! 172!  giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando, come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe “mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola, il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 519 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 256. 521 Ivi, p. 254.  ! 173!  CAPITOLO IV PALAIÀ DIAPHORÀ: PENSARE E POETARE IV. I. Il significato della proposta retorica Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di Grassi seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e assoluti del positivismo logico, cui Grassi contrappone una logica del discorso diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione, come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 522 E. Raimondi, La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna 2002, p. 77. ! 174!   compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non soggettivo, non è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto essi si manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 523 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 242. 524 E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 135.  ! 175!  di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”525. La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”526 pone in luce come la retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”527. Essa è la base di quel theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico Il nucleo singolare dell’opera di Grassi si rivela come una nuova e specifica prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis (inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y Tarea, Grassi propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 525 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194. 526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte nel II capitolo.  ! 176!  non riduce tutto l’umanesimo al recupero del platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis. Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica dell’umanesimo italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla prassi, alla negazione della parola astratta, razionale – presuppone il superamento della dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo corrispondente alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile divaricazione di teoria e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la tradizione umanistica – fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della filosofia che per Grassi nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello dell’Abissale, poiché “conservare un passato (è indifferente che si tratti di pensieri, monumenti o avvenimenti), non considerato in relazione a un compito da assolvere nel presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni cultura, ogni tradizione, nella quale il passato perde questa promettente considerazione, decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella comprensione del presente”532. All’interno di questa prospettiva il filosofo milanese afferma che il vero umanesimo è quello che incomincia con Dante e Boccaccio. Contro l’indirizzo “platonico” costituito dal versante ficiniano dell’umanesimo per Grassi permane attraverso i contributi di Vives, Nozolio, Peregrini, Tesauro, Graciàn, Vico, Muratori, Leopardi, una tradizione non-platonica ma retorica, che resiste a quello !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 530 Cfr., E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo VI “Antiplatonismo e platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza dell’immagine, cit., pp. 259-260. 532 Ivi, p. 133.  ! 177!  spirito razionalista che la relega nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il punto di vista grassiano sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico. Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico modo per comprendere la realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica, caratterizzata dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et nunc della situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti universalmente validi: rispetto al discorso retorico “il discorso razionale invece è fondato sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la dimostrazione logica”533. Ne deriva che il discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede nella ricerca dei principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi principi e la scienza si arresta alla constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è quello che lega la definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi, alle archai, “è chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi conoscenza, non possono essere esse stesse essere provate, in quanto non possono essere oggetto di un discorso apodittico, dimostrativo e logico”534. Da qui sorge il problema dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una ricerca sui primi principi, sulle premesse indimostrabili. La risposta grassiana è nota: “l’uso di tali espressioni, che appartengono all’originario, al non-deducibile, non possono avere carattere e struttura apodittica e dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere indicativo delle archai che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La ricerca sul metodo adeguato per accedere al reale conduce Grassi a tematizzare l’infondatezza di quella opposizione tra filosofia topica e critica. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 533 Id., Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p. 97.  ! 178!  IV. III. Retorica tra filosofia critica e filosofia topica La dimensione retorica va considerata secondo Grassi non come elocutio ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità XIV) Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare critico e un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Grassi fa sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 536 Cfr., sulle parti della retorica dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo di Liegi, retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., §§ 19-21.  ! 179!  leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo539, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 539 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’Umanesimo, cit., p. 25.  ! 180!  e ragione. Le questioni poste sul tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Grassi pone l’attenzione sul passo vichiano del De Ratione in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544. Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà, limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la sua unilateralità razionalistica?”545. Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia l’arte dell’invenzione di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di un’esigenza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 543 Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B. Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. ! 181!   di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire, che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace di tenere conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano che esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale. Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni grassiane non è dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza, costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia grassiana ritroviamo un Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe che caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e di costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia Grassi può essere collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette in luce uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 547 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 33. 548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180.  ! 182!  della coerenza549. Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di Grassi, ragione per la quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550. Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga storia della retorica, da Aristotele a Cicerone e Quintiliano, da Dante a Bruni e Valla, da Vico a Nietzsche e Ungaretti, uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella storia e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria retorica grassiana mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per dirla con McPhail551 che si fonda su una riconsiderazione del tema della credenza/pistis. Il magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il mondo della storicità umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno, della metafora, il ruolo civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione politico-economica dei miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di convertire la natura in cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di partenza, i presupposti dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue implicazioni gnoseologico- pratiche e antropologiche. Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo della vita, il momento che precede quello razionale, le archai originarie, di natura topica e non critica, indicativa e non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 549 Mette in luce l’ipotesi dello slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della coerenza in Grassi M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118 in AA. VV, Kenneth Burke and contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di Grassi nella retorica contemporanea cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on Rhetoric, Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp. 54-74. Per un approfondimento dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie della verità cfr., M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica, ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech 69, n. 2 (May 1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and many others ring through Grassi’s pages, for he writes in the tradition of those who believe in the circumstantial nature of thought and the underlying unity of idea and image”, p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail, op. cit., p. 77. “A comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that both writers’ conceptualizations of language exemplify the evolution from correspondence to coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche di Burke e Grassi mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria della coerenza nella teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra.  ! 183!  dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli dedica attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le cui riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani -! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede “l’esistenza umana come essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la via da preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso l’individuazione del momento critico del pensiero razionale nell’indimostrabilità dei principi. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 552 Ivi, p. 79. “Grassi similarly sees human existence as essentially rhetorical, and explores metaphor as his representative anecdote”. Traduzione nostra.  ! 184!  IV. IV. La struttura della presupposizione Come leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la logica tradizionale distingue tra due modi per fondare la conoscenza. Il metodo deduttivo comincia da premesse e deriva le inferenze già presenti in esse. Qui è indispensabile che le premesse risultino universalmente valide e necessarie [...] ma le premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553. A fare problema è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il filosofo “quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele – noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e logica555. Per il filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi sono alla base di ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi), pone la definizione di un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 553 E. Grassi, La priorità del senso comune e e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New Jersey 1976, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare noetico non metafisico, cit., p. 17. 555 Sul problema della presupposizione come mitologema originario della filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr., E. Grassi, Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., 97.  ! 185!  fenomeno riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che le prime “archai di qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse stesse essere provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione sul mito – come “principio instauratore originario di una comunità”558 – sulla dottrina topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione originaria”559 – , sulla metaforologia – come “prassi linguistica e biologica”560 –, sull’ingenium –come “proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo”561 – e sulla phantasia intesa nella sua funzione ontologica come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze”562. L’apogeo della critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica, patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non ha luogo nella sfera !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 557 Ivi, p. 96. 558 Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e mito, cit. 559 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 93. 560 Cfr., Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 192. “La facoltà del trasferimento di senso, il metapherein, è fin dall’inizio essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia dell’umanesimo. In problema epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id., Significare arcaico, cit., p. 491.!  ! 186!  dell’originario”564 – palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di Grassi che resta integro proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra rifiuto o accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo si pone è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica e filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il linguaggio vive la contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è trattato, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 564!Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi, Introduzione, pp. 11-27, in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto Grassi’s response to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, pp. 261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and contemporary european thought, University of Alabama Press, 1995.  ! 187!  allo scopo di mettere in luce non la compromessa unità del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca capacità di generare significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la tripartizione del discorso Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di discorso Grassi parte dalla messa in discussione della riduzione del discorso retorico a semplice tecnica di persuasione. Secondo il filosofo il problema retorico può essere affrontato da due punti di vista: si può considerare la retorica in senso tradizionale, “quindi come arte, come tecnica di persuasione”567 o da una prospettiva più generale di interazione con il sapere teoretico. Per comprendere il senso autentico della concezione retorica dovremo prendere le distanze dall’approccio speculativo che la riduce ad arte della persuasione, privandola della componente filosofica. A tal proposito Grassi individua tre tipi di discorso: -! il discorso retorico esteriore -! il discorso razionale -! il vero discorso retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero discorso retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è indicativo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 567 E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem.  ! 188!  Tralasciando il secondo tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra – vorremmo soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica della persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo è quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base del quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione sia il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga il proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto della retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei fondamenti del sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria classicamente intesa. Quella di Grassi è non è l’ennesima sistemazione tassonomica del materiale discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a filosofia generale e che ha come oggetto di riflessione i fondamenti pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla non a caso di significare arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può nascere la prova. Inoltre se la razionalità è identificata con il processo di chiarificazione, noi siamo costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale, e a riconoscere che il linguaggio corrispondente, nella sua struttura indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il pensatore milanese tale tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è una Darstellung, una esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione fantasia e teoria si identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo il discorso che realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai) un significato”571. Il sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera retorica è la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 570 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo.  ! 189!  filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista Grassi non pensa che la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo procedimento. La genesi della struttura del linguaggio razionale, dialettico, dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova, la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare”576. La retorica come punto di partenza della scienza e della razionalità è contrassegnata da una nota antropologica che si configura come compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg “assioma di ogni retorica è il principio di ragione insufficiente”577 e ciò vale anche per Grassi che conosceva bene Blumenberg578 e che asserisce, con una sorprendente consonanza teorica, che la retorica nasce dall’insufficienza del pensiero razionale. La retorica allora mostra l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un lato l’insufficienza e dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono da quell’insufficienza originaria e che non possono essere messe da parte in nome di una scienza della verità e dell’evidenza. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 573 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987, p. 103. 578 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H. Blumenberg, Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di Marbach.  ! 190!  Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra retorica dell’ornatus579 e retorica come prestazione metaforica580, tale che la retorica come compensazione di una mancanza non si articola anche come compensazione di una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in ultima istanza una piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in Grassi la compensazione entra in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di evidenza, per eccesso di verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente, che ci incalza e ci chiama – l’Appello dell’Essere – appare nella sua evidenza abbagliante che possiamo solo patire. Come possiamo leggere in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono gli enti ma ciò che in funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si impone sempre carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto di “segni indicativi”, cioè dell’Abissale di cui i sensi sono strumenti”581. Das Reale als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è il reale, il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa scattare il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della vita che è evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è caratterizzata da un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione esistenziale – sia essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in Grassi retorica e filosofia, pathos e logos non sono che due approcci metodologicamente distinti ma che hanno una medesima origine: il reale che genera angoscia, la quale indica la “fondamentale esperienza esistenziale dell’inadeguatezza del codice biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale puramente biologico e [...] a mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla consapevolezza della propria condizione strana e non addomesticata”583. La proposta retorica e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 579 Quella dell’uomo ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la verità e che fa della retorica una tecnica compensativa. 581 E. Grassi, La metafora “inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1, 1988, p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono nostri.  ! 191!  linguistica del filosofo si pone in antitesi alla coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione abbiamo una definizione del discorso proprio in relazione al suo rapporto con l’evidenza: “la natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né s’argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui questo sfugge alle certezze del calcolo”584. Secondo questa concezione il campo dell’argomentazione è la prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere è quello dell’incertezza. In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte rientrano tutte quelle opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze che non si qualificano come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad una verità (che risponde solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a pieno titolo in quell’idea di ragione integrale in cui il vero si declina come verisimile. Emerge il tema dell’eikos concettualizzato anche da Grassi nella sua lettura di Vico e che mostra il progetto di una nuova retorica che fa appello ad una idea di ragione e verità che non si misura solo con il criterio dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di verità delle questioni morali, sociali, politiche e religiose. Afferma il filosofo in Retorica come filosofia che il logos della nuova retorica è quello capace di dire “il fondamento del mondo umano, il mondo come espressione di disperazione nella situazione specificamente umana”585. Tale logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la totalità di significatività nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo che “questa distinzione – quella di onoma e rhema – acquista un significato fondamentale. La parola in quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non esiste mai isolato, poiché appare sempre solo nella dinamica di un compito da adempiere rispetto a certi bisogni”586. La parola allora non definisce e non isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in cui accade la loro relazione reciproca e la connessione con !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 584 C. Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 2001, p. 3. 585 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586 Ivi, p. 192. I corsivi sono nostri.  ! 192!  l’essenza umana. “La parola in quanto presupposto e annuncio [...] viene perciò espressa nel linguaggio retorico, in quel linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e patetico, dal momento che la preoccupazione principale è quella di formare l’esistenza umana”587. Proprio perché massimamente evidente nella sua poliedricità il reale trova la sua dicibilità nella multiformità linguistica: attraverso il dire metaforico. Secondo il filosofo la “metafora agisce come una luce perché presuppone un’intuizione di relazioni”588. L’essenza della parola risposa nella sua struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di indicare il trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la metafora. Grassi sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario: il termine metapherein indica il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità – il che presuppone un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè gettare da un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589. La questione non è tanto quella di congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni per una riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana prende congedo da un’idea di evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo asserisce in Il ripudio del razionale la pistis “non è opinione né conoscenza [...] poiché non ha le radici nell’indicazione di una ragione, ma è il risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento scaturisce dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della parola: l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 587 Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p. 167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, p. 165.  ! 193!  lunga “preistoria” umanistica dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il fondamentale incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno del processo linguistico che rende possibile la fondazione della comunità. L’apertura è verso una considerazione della retorica come meccanismo antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto di vista antropologico, come fa Grassi, significa rintracciare il fondamento tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come si afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”591 e per comprendere questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 591 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 133. 592 Ibidem. Corsivi nostri.  ! 194!  La radicalizzazione antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un aspetto fondamentale dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico dell’uomo che genera la retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante, non esce dalla logica compensativa. La retorica rimane per Grassi – proprio per la sua valenza antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla metaforologia e in prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione antropologica operata da Grassi comporta che il fenomeno storico “retorica” sia privato della sua storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella storia della cultura e della società, e sia eletto a metafora assoluta della conditio humana. Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di Grassi, che rimane chiuso in un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a considerare il comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione sostitutiva/esonerante, non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo in alcun modo una lettura adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di quella stessa interazione natura/ars da cui pure muoveva l’interesse antropologico per la retorica. La salvaguardia delle molteplici forme di apparire dell’essere – il vero, il buono, il bello – , della metamorphè costitutiva del reale, induce Grassi a ricercare la forma linguistica adeguata a dire tale metamorphè. Il filosofo si pone i seguenti quesiti: -! “attraverso che cosa sorge il mondo umano se l’uomo, a differenza degli animali, non ha un ambiente immediato, se questo deve essere costruito ogni volta dall’individuo? In altre parole, qual è la causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come si rapporta questa costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del logos?”594 -! “è possibile superare la concezione puramente formale della conoscenza?”595 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 593 Ivi, p. 183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo nostro.  ! 195!  Le domande che vengono poste riguardano tre livelli della riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà; il piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi problemi comporta per Grassi un’analisi della storia dell’umanesimo che propone una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo organico. IV. VI. Il mondo organico L’analisi del mondo organico mostra degli aspetti che “possono essere ritrovati nel mondo sacrale”596 e retorico. Nell’ambito dell’organico “ogni genere e specie vivente sta sotto i propri segni determinati e indicativi”597. Tali codici/diastema mostrano che “la realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni”598. Le selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica “un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 596 Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp. 180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181.  ! 196!  Dal punto di vista grassiano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione. “Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della “comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi immediati del mondo olistico e non problematico”604. L’esperienza della frattura – la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che si presenta nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale? Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 600 Ibidem. 601 Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem.  ! 197!  IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo Grassi occorre rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos – un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè, un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 606 Ivi, p. 185. Il riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp. 187-188. 608 Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189.  ! 198!  linguaggio, in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné. Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio. “Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce (phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo “è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza significato e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. Grassi dispprova la spiegazione aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono “ci appare solo entro l’ambito di un codice che si impone”615; bisogna considerare la mutevolezza del codice616. Come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 610!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele, De anima II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43. 615 Ibidem. 616 Ibidem.  ! 199!  è noto Aristotele definisce il suono come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. É pertanto impossibile che si abbia un suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il percuziente e il percosso sono distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in voce occorre tenere in considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può produrre il suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti della voce sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo carattere interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per Grassi occorre risalire all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce al filosofo ad affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici schiudono “il teatro, nel significato originario di questo termine, cioè il luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei sensi. Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal tipo di stimolazione a cui è sottoposto – Grassi individua la possibilità di rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività della voce (che traspone un significato al suono) si radica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 617!Aristotele, De anima, II libro, 419 b 10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un suono dell’essere animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una voce, ma per somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale Grassi fa riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826, pp. 4-5. 622!E. Grassi, Prolegomena, cit., p. 45.  ! 200!  originariamente nella significatività già presente nei sensi. Questi ultimi dotati di un’energia specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito originario di formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i sensi, entro i limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai sensi, non è un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come parousia”623. Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario ha una struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità del reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in cosa consiste il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione, nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas esistenziale”625, del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo, ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò che ci è consueto, ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio, quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta, aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 623!Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21.  ! 201!  della metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come espressione della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628. La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 627 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 14  ! 202!  l’importanza dell’esperienza storica”631. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale, storica e metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”632; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Secondo il filosofo “il termine metafora è esso stesso una metafora; deriva dal verbo metapherein, trasferire, che originariamente descriveva un’attività concreta. Alcuni autori limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo a un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare il concetto al quale spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Nella ricostruzione etimologica grassiana il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria mediante il riferimento “al verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 631 Ivi, p. 15. 632 Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem. Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr., sull’analisi della metafora in Grassi M. Marassi, E. Grassi e il primato della parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, 2011.  ! 203!  esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo” 638, costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. Come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 635Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., Significare arcaico, cit., pp. 479-495, p. 494. 637Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 639 Id., Il colloquio come evento, cit., p. 71. ! 204!   emerge già a partire da Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che per Grassi non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo”640. Il polimorfismo ontologico viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico, ingegnoso, in grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità, questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Grassi la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le culture interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo afferma in Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio che “non va dimenticato che il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario; il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro luogo e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 640 Id., Significare arcaico, cit., p. 494. ! 205!   ciò presuppone un passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio, gettare un ponte da un luogo ad un altro”641. L’approccio antropologico-filosofico descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso attraverso la metafora, e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia della fondazione del mondo della vita e della comunità umana individuando nei processi di metaforizzazione e di concettualizzazione i congegni antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione. Nella semantica metaforica di Grassi non trova posto l’usuale contrapposizione del senso traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti “il termine metafora indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più tardi il termine compare anche nell’ambito del linguaggio”642. Se l’idea che riduce la metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua matrice pratica – va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che tenta di sostituire la metafora al concetto. Per Grassi la metafora non si trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da quello proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici – l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un unico percorso interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora equivale perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la metafora sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 641 Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. Corsivi nostri.!  ! 206!  guardare quella che per il pensiero logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di precisione della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui carattere di epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della metafisica in ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano dell’homo non intelligendo fit omnia Grassi asserisce che “se con la metafora [...] si risponde alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di elementi fantastici è originale, preciso, a differenza di quello astratto che si allontana”645 dal reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una metafora drammatica e inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e va a strutturare i codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica del giudizio (1790), trattando il procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora grassiana. Essa determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo che si trova a esser strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli interessi. Essa assume la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 644 Id., Prolegomena, cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A. Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385. “A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione”.  ! 207!  funzione del codice. Per il filosofo occorre “sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione tra codice e metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e interpretare la realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di segni, gli elementi dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 – “costituisce una sorta di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra un’analogia con il codice poiché rende possibile la visione degli enti e soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria aristotelica esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora significa percepire con la mente l’oggetto affine”651 Grassi pone strettamente in relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce, in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653 codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione, scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654. Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un metodo che risale verso archetipi, i quali !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 648!E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele, Poetica, 1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 74. 653!Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp. 76-77. Corsivi nostri.  ! 208!  fungono da paradigmi esplicativi dei comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso, soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede “come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655 alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di “visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia grassiana indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. Grassi elabora una semantica metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei suoi ultimi testi, La metafora inaudita, Grassi si mostra meno interessato al percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che traducono queste !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 655 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem.  ! 209!  prestazioni, la cui funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che sorge laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della res – il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se “l’essenza della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato, necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida deve venir sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia”659. La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni. Sostiene Grassi in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano a determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. Grassi è mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 657Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri. 660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80.  ! 210!  passioni e delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre una priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a Aristotele. Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi vuole proporre un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un ruolo preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi fondamentali: le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va respinto in quanto “ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza razionale e verità rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia disadorna, impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in considerazione l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola, come ciò che apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale all’interno degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve essere considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663. Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare. IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della retorica nella sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica intesa come argomentazione debole o !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 661 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 242.  ! 211!  tecnica del bel parlare – induce il filosofo a ripensare la correlazione retorica-filosofia a partire dal nesso vero-verisimile. Il tema è al centro di un saggio su Vico degli anni ’40, Del vero e del verosimile in Vico664, che mostra come la figura del filosofo napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di pensiero grassiano665 – e non uno sbocco finale della filosofia di Grassi – e costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico, che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium. Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, Grassi sottolinea come a differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il filosofo italiano che la fantasia vichiana “è l’espressione dello spirito umano in quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere, quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo; è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione”666. A differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e filosofia che “solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo umano di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 664!Id., Del vero e del verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in Grassi cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di E. Grassi, cit.; J. Sanchez-Esquillace, E. Grassi y la filosofìa del Humanismo, cit., J. M. Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 666!E. Grassi, Del vero e del verosimile in Vico, cit., p. 963. ! 212!   apparire”667. Conseguentemente la fantasia si esprime originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei significati [...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto interpretativo stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo”668. É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico: quello della formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende come la poesia per Grassi – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un ruolo fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia assuma per Grassi una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali che la fantasia “immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli eroi, essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone sotto i nostri occhi terre infinitamente lontane, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 667 Id., Retorica come filosofia, cit., pp. 38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 670 Come abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la Bildung dalla Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo aspetto fondativo e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 18.  ! 213!  abbraccia quelle distinte fra loro, valica quelle inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle impervie”672. L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza vichiana è sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di analisi della fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per delineare una storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della fantasia mira a sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente umana riesce ad attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno specifico libero mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una qualche forma del libero immaginare”674. Secondo Grassi nella tradizione umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e la relativa attività metaforica vengono interpretate come fonti originarie dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il metapherein?”675. Nel tentativo di risolvere la questione Grassi ricorre a Vico, considerato l’ultima “vetta”676 dell’umanesimo. Egli offre con le sue riflessioni sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione fortunata per un ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori dei cardini dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore della Scienza Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica della fantasia al fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e concretezza –, un accesso che la logica tradizionale, con !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 672 G. Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX, a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673 E. Grassi, La potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 22. Cfr. per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla facoltà mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme simboliche cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, pp. 85-104, in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando Siciliano, Messina 2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239. Corsivo nostro. 676 Ibidem.  ! 214!  la sua ricerca rivolta esclusivamente all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore milanese con Vico siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del mondo storico umano e individuale con maggior successo di quanto non faccia la logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema fondamentala di Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich Rahmen680 – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 – l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo di elemento fondativo delle istituzioni politiche. Grassi punta a sottolineare non tanto l’aspetto metodologico e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 677 Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su questo aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della fantasia, Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the Institute of Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M. Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.  ! 215!  storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore all’uomo. Pur accogliendo la prospettiva grassiana della rivalutazione del tema della fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il mezzo di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola capace di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al mondo reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero. Qui si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De ratione, per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di educare il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto, distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e dell’esperienza acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza specifica e una preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la fantasia, negli adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 682 Per una lettura antropologia della Scienza Nuova cfr. L. Amoroso, Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 53 e sgg.!!  ! 216!  quella che è sempre stata considerata l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale dei fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo, senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico, sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia sotto la categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che “rimembra le cose”; fantasia come attività che “altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno come attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò che è stato precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del mito; dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo Grassi propende per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. Grassi individua tre significati fondamentali della fantasia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 684 G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e l’umanesimo, p. 89.  ! 217!  vichiana: -! “nella fantasia e mediante la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore che dà un significato al lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio dell’ingegno. Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune costituiscono la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e della Scienza Nuova. Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico umano attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio vichiano il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane, dagli elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di intervenire nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire istituzioni umane, comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di questa struttura ritroviamo il senso comune !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 687 Ivi, pp. 88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del senso comune, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43.  ! 218!  che è guidato dall’ingegno. Per Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e basata sulla facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati alle percezioni sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce la facoltà originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà che appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare. Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso, fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo. L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della verità. Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché usandola, noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua capacità immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo “stato di ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in un’affinata facoltà poetica, in !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 691!Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica del 1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694 Ivi, p. 114.  ! 219!  una forza creativa che aiuta l’immaginazione dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la trasformazione dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica a quella prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una vivida fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia che, tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune, o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia, l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come fondazione della comunità politico sociale ci consente di comprendere l’estensione del discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di Grassi Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 con il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 695 E. Grassi, La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda edizione riveduta e ampliata E. Grassi, Kunst und Mythos, Frankfurt a. m. Suhrkamp, 1990.  ! 220!  titolo Mito e arte in “Rivista di filosofia”, Gentili affronta il problema del mito in Grassi quale evento originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il lavoro condotto da Grassi sul mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva di demitizzazione che non è omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella misura in cui – Grassi – legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e demitizzazione”697. Come interpretare allora la relazione complessa e articolata tra il mito e i suoi prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione? Grassi analizza il mito quale atto di fondazione originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni che lo stesso mito fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche filosofiche. Tuttavia la filosofia interpretata come sapere dedotto e non originario non può avere il ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per Grassi il “mito fonda (begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo”698. Nella ricostruzione grassiana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto che è alla base delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia, ma persino della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di mito come storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine”699. L’essenza del mito va collocata nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica poiché nel mito “domina il tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, W. F. Otto, individua due significati fondamentali del mito701: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 697 Id., Arte e mito, tr. it. a cura di C. Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150. Corsivi nostri. 700 Ivi, p. 166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 221!   -! il mito come favola e creazione artistica -! il mito come realtà religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come favola e creazione artistica – Grassi si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta nella Poetica sul mito come “sintesi delle azioni” in cui è sovrapponibile la sua valenza di fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito come realtà vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un orizzonte chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto, mito, composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non secondaria importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché “nasce nell’istante in cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene infranto. Nel momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece si manifesta l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali”702. L’arte si pone come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al mito – il suo divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della dimensione mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno strappo, una lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre dell’universo mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo artistico. Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale, religiosa ed esemplare. Per Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente distinto da quello profano, in quanto il profano presuppone una temporalità, una caducità, un essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non è neppure mai chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza confini”703. Tra il mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 702 Ivi, p. 158. 703 Id., Arte e mito, cit., p. 159.  ! 222!  kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando a questa concezione, il mito racchiude gli elementi eternamente esistenti dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente presente”704. Nel mito viviamo quella connessione con il mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione all’esperienza sudamericana di Grassi – che appare a Grassi come “l’ora in cui la realtà frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità terribile, fuori del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che incombe sul singolo e non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui l’uomo si trova, come l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è esemplificato con la metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece come la morte di Pan, come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla disintegrazione del mondo mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai ritrovati tecnici” – l’arte come poiesis e come techne – “quando ha perso di vista i riferimenti a una realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo istante sorge l’empeiria, la necessità di trovare un guado attraverso il fiume delle impressioni sensibili che si sono staccate dall’ordine originario”707. L’emepiria va interpretata come una realizzazione del logos (non inteso come ragione o intelletto) e non in senso materialistico. Secondo il filosofo si tratta della prima fase di ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il primo passo nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è impressione”708. Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e ordinamento dell’empeiria possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti il filosofo giunge a chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in questo aspetto ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel carattere di produzione insito dell’arte. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 704 Ivi, p. 150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707 Ibidem. 708 Id., Arte e mito, cit., p. 92.  ! 223!  Se con l’emepeiria siamo di fronte ad una constatazione, per quanto ordinata, dei fenomeni – il termine usato da Grassi è fest-stellen in riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di fronte alla produzione di un modo umano a partire dal mondo frantumato resoci accessibile attraverso l’empeiria. “L’empeiria sembra avere la sua radice nella necessità di ordinare i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire ordine complessivo. Essa comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei cui frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti”710. La potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il mito è “il progetto universale delle possibilità umane”711 e soprattutto la poesia assurge per Grassi a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la dimensione poetica in Grassi è una forma della ricezione mitica, una forma demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione del mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il mito in quanto “topos atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta ma detta attraverso la poesia. Grassi parte da una idea di mito come fondazione origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore originario di una comunità [...] con l’ordine – che pone una molteplicità di movimenti entro un’unità – si preannuncia la realizzazione dell’aspetto sociale”712. L’interpretazione grassiana della Poetica di Aristotele pone in luce l’aspetto di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 709 Ivi, p. 90. 710 Ivi, p. 94. 711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162.  ! 224!  secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata: l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via di accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare della storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung dell’essere. IV. XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e Langweile nelle meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi due concetti chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del disvelamento: si tratta delle questioni supreme a cui Grassi dedica gran parte della sua indagine storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo orizzonte teorico due figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da Grassi: Vico – come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è soffermata. Entrambi appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo umano attenti alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione politico-civile i cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso grassiano di ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione civile e del disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani e la funzione trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos della noia come sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano le tappe fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si concretizza come formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica. Nel corso della sua lunga ed operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso misurato con le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la centralità che il concetto di pathos assume all’interno del pensiero di Grassi è possibile comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense al poeta di Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 713 Id., Arte e mito, cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 61-76, p. 62. 715 Ivi, p. 64.  ! 225!  argomenti del piacere e del dispiacere; del principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè) poi con Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In questa sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con il padre della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal Grassi, quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza dell’originalità e discutibilità delle tesi grassiane su Leopardi che, come vedremo, non seguono i dettami del “filologicamente corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi con i concetti chiave del suo sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può avere Leopardi all’interno dell’iter di pensiero grassiano e qual è il valore della teoria dell’illusione a cui il pensatore conferisce tanta importanza da giungere a definire il poeta italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo sottolinea quanto l’approccio leopardiano sia distante dal razionalismo della metafisica astratta del “secol superbo e sciocco” insistendo soprattutto su quei concetti, quali illusione e noia, piacere e dolore, natura e passione in cui Leopardi assume un atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e il tema della civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo moderno e delle devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che si iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti 1922-1946. La lettura dei saggi risalenti !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 716 E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 226!   al periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche dello Zibaldone, che resta il preponderante testo di riferimento delle note grassiane sul poeta. Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di riferimento registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei concetti di formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se consideriamo quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come fattore antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi antropologica grassiana. In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung degli studia humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera educazione filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione. Egli afferma che “il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La distinzione tra Bildung e Erziehung mostra come la posta in gioco nella nuova idea di umanesimo sia la messa in discussione dell’essenza dell’uomo, della sua condizione, che accomuna, secondo il filosofo, le figure di Bruno, Vico e Leopardi. Così come per Bruno “ogni rapportarsi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 717 Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in Id., I Primi scritti 1922-1946, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718 Ivi, p. 881. ! 227!   originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi differenti”719 anche per Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del pathos consente un rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e antropologici implica una rivalutazione del concetto di pathos da parte di Grassi che tuttavia non indulge ad una forma più o meno celata di irrazionalismo illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca emerge laddove egli tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Nella sua prospettiva il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica. Secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”721: esso è “passione abissale”722 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi. Nella prospettiva grassiana il pathos metafisico è ciò che Leopardi chiama illusione e natura. “Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse sono cioè condizione delle esperienze e da esse non deducibili”723 e per il poeta indicano il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Grassi afferma che “l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto alla terminologia tradizionale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 719Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721 Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, pp. 156-175, in AA. VV, Tradizioni della poesia italiana contemporanea, Edizioni Theoria, Roma 1988, p. 166.  ! 228!  che si serve della espressione a-priori, il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del trascendentale”724. Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello Zibaldone l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia – che nelle “meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’ esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”725. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo a cui il filosofo fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”727. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 724 Ivi, p. 168. 725 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma, pp. 217-247, p. 226 727 Ibidem.  ! 229!  A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”728. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. É proprio questo concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel tema leopardiano dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter Otto il cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il singolo (l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una risposta nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del problema della parola come massima espressione della vita individuale, la quale però “non ha proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce alla questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana sulle modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il comune”732. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 728 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem.  ! 230!  L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di bella illusione – e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945 dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela inaspettatamente come passione [...] poiché la vita è sempre nella sua essenza impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza. Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura grassiana di Leopardi presente nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 733 Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p. 1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si tratta di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da R. Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit.  ! 231!  (1987)736; Der italienische Schopenhauer (1987)737; Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? (1989)738. Il testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo Zibaldone, considerato da Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo “all’officina poetica di Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema determinati problemi della tradizione umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium. Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di Recanati Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del Leopardi, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 736 Id., Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in “Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di Messina”, 5 (1987), pp. 69-82, presentato in redazione differente al Congresso su Leopardi a Roma nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora in E. Grassi, La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische Schopenhauer, pp. 125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper Munchen 1987 a cura di Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione.  ! 232!  così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania, pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine, di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica”743. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione. Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed esplicitamente alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è al passo zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui Grassi crede di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico, che si identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità della natura [...] si esprime attraverso la passionalità come !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 741 E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi sono nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione nostra. 744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6 ottobre 1821. ! 233!   illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale il filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello della natura [...] Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria, l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti nella lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e sulla !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 746 E. Grassi, Leopardi e Freud, cit., p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160.  ! 234!  Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a condizione che si mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora anche la noia può essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e dell’illatenza: il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della manifestatività, che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di patire allora diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente scade a povertà di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del mondo storico dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e del mondo, in cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente. Qui si installa un altro tema centrale della lettura grassiana: la critica del mondo moderno presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche la qualità umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo, Grassi afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca sulle strutture del mondo umano. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 750 Ivi, p. 161. 751 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida, Napoli 1985, p. 26.  ! 235!  Alla metafora fotica nell’accezione heideggeriano-grassiana sopra delineata fu sensibile già Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette morali e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce diretta e accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare piacevole e sublime. Grassi non sottolinea l’importanza della metaforica della luce né l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone, privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a Grassi – e al suo maestro Heidegger – ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica della metafisica757, rivalutazione della poesia. Temi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 752 G. Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè divenir aperto, mentre hio significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione”, 14 ottobre 1823 [3689]. 753 Ivi, 20 settembre 1821 [1745]. 754 Ivi, [1746]. 755 Ivi, 2-5 luglio 1821 [1276 e segg.]. 756 Ivi, 20 settembre 1821 [1745]. 757 “Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’ quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia”, Ivi, 14 ottobre 1820 [276]  ! 236!  fondamentali, questi, che corroborano l’idea, in altro modo proposta da Grassi, di un Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata come oltrepassamento dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si apre alla storia. Come abbiamo visto, l’indagine grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, si concentra sulla dimensione ontica delle concrete Lichtungen, che si converte in analisi del linguaggio. Per il pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per Grassi occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo Grassi, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”760. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 758 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 80 760 Ibidem.  ! 237!  Infatti, per il filosofo milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al concetto di prassi e di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo concettuale di grande spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la co-estensione del mondo (l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un rapporto pratico (la fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai temi centrali per Grassi della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per Leopardi “attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della situazione, noi dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato sempre differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua identità con l’ingenium. Per Grassi con la teoria dell’illusione “di cui con estrema lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha compreso che il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una situazione concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e dell’ora, che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta razionale, universalmente astratta, ma solo passionale”762. Con il poeta italiano abbiamo una riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta linguistica e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos polisemico che restituisca la multilateralità e polidimensionalità di un reale che si dà fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi e forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 761 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 762 Id., La metafora inaudita, cit., pp. 45-46.  ! 238!  La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”763 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’ abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato”765. Anche in Leopardi Grassi intravede le tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale. “Nel gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene parlato) si liberano molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e dunque tali da frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il senso. Ma che cos’è l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un entrare nel ludus, uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da queste considerazioni il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il Leopardi portavoce di una filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una antropologia che contiene in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma Grassi in La metafora inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica filosofia in grado di tentare questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza, “è una filosofia dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di risolvere il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 763 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli 1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. 767 Ibidem.  ! 239!  problema razionalmente, prenda atto dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi dell’illusione e della natura, della noia e della passione, che solo marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto- antropo-logia grassiana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che diviene ulteriore occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo che permea la sua prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere interpretato, allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che l’umanesimo autentico come pensiero poetante, come meditazione noetica e non metafisica, ha ancora una possibilità di essere esperito a partire da una tradizione a cui non è stata conferita la dovuta importanza. La traccia leopardiana nell’iter grassiano ha fatto emergere, attraverso il concetto di ingegnosa e bella illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene con le produzioni umane della civiltà, della storia, della cultura. Solo illudendoci sperimentiamo la nostra forza, la nostra umanità, come insegna Leopardi, e diveniamo artefici del nostro mondo. La filosofia dell’esistenza proposta da Leopardi diviene un experimentum vocis, una poesia pensante o un pensiero poetante. La )&0&*& '*&2o"& descritta da Platone nella Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato da Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una epistemologia o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline al vago ed indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al fallimento – ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in cui la connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione umano-civile-politico. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b.  ! 240!  Come è noto il plesso disegnato da Grassi di metafora-fantasia-ingegno ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario. Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che sempre precede nella storia del mondo, come in quella dell’individuo, l’operazione mentale della critica, l’arte del giudicare. Memore delle riflessioni vichiane della Scienza Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, Grassi affida all’ingegno la capacità di sintesi e connessione del molteplice empirico fino al punto di farne la caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva mancare di sottolinearne l’importanza teorica e pratica presente in Leopardi770. Ingenium come capacità di ritrovare; fantasia come facoltà di visione delle somiglianze; metafora come atto di trasferimento del significato e quindi creazione di una pertinenza semantica – e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o di comparazione – concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di attivazione di procedure di formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà di apprensione del reale attraverso una struttura pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare un’espressione di Zubiri, collega di corso in Germania di Grassi. Essa è il catalizzatore dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti figurativi, simbolici e semantici del logos Grassi non rinuncia mai tuttavia alla filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da un’ontologia che culmina in una metafisica”771, quella di Grassi ha come scopo l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 – che ha come oggetto il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 770 G. Leopardi, Zibaldone, 1 luglio 1821 [1254]. 771 E. Grassi- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20.  ! 241!  reale, “l’ontologia non logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del mondo non può che trovare espressione in un orizzonte di dicibilità che è metaforico. L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la secca alternativa tra un tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato da un filosofare che sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo di vitalità e utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso, dalla critica, che si è maggiormente concentrata sul Grassi lettore di Vico e Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un ripensamento, da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con l’ontologia non statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento del tema della verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro, della filologia, che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta dell’illusione, il cui significato sociale etico e politico viene ribadito contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la natura e le illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per lasciare spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di fronte all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico come due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile – !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 773 Ivi, p. 30. 774 G. Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821. 775 Ibidem.  ! 242!  l’indicibile non è altro che una presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che restituisce le circum-stantiae della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata come l’ennesimo tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è in questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso la parola e il pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. “Così poesia e filosofia stanno l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione, sensibilità, capacità di entusiasmarsi o facilità a vivere belle rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la verità, perché ogni analisi può essere portata avanti solo dove la materia della vita è riccamente delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a posteriori ma di giungere a conoscenza dei principi agenti, dai quali innanzitutto può avere origine ogni mondo, anche quello della filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha insegnato, contro le devastazioni dell’intelletto, questa filosofia dell’esistenza che guarda al phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non con l’occhio della metafisica ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di cogliere “l’appello che ci chiama da questo abisso”777. L’appello dell’origine. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 776 E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 172. 777 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46.  ! 243!  APPENDICE I Traduzione di E. Grassi Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg, Rowohlt, 1955, pp. 133-138. Il nostro concetto di natura deriva dal termine greco 341*1.!Questa parola proviene dalla radice phy (latino fio, fui, tedesco bin), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e così comprende il cosmo nella sua totalità. Noi traduciamo!341*1 con il termine “natura”, dalla espressione latina natura, il cui significato esprime quello della parola greca (nasci, esser nato, crescere, affine a gignere). Secondo l’originario concetto greco ciò che è immediato in quanto cresce è visto come una realtà eccellente; tuttavia occorre ricordare che per i Greci il crescere naturalmente realizza sempre la legge insita ad ogni sostanza. Pertanto sotto il termine natura, come principio del divenire, sarà compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il concetto di natura, la rappresentazione quindi che lo spirito umano si costruisce attraversa una lunga e movimentata storia. La conoscenza dei fenomeni naturali muta e di conseguenza cambia anche la concezione della natura. L’età pre- filosofica della Cosmogonia (sei secoli prima della nascita di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito sull’origine del cosmo, del Tutto, è pervasa da rappresentazioni mitiche, in cui già sempre la relazione dell’uomo con la natura gioca un ruolo centrale. Un primo inquadramento non più mitico, ma filosofico del concetto di 341*1, di natura, si ha nell’età antica con la Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e Prodico, i più giovani contemporanei di Protagora) e la filosofia socratica. Non più l’intera realtà è inclusa in questo concetto ma ora solo un suo settore specifico. Per prima cosa i Sofisti hanno messo in gioco la 341*1 contro il!%$μ$1 (legge), hanno posto il “naturale” solo in ciò che è fissato e posto dall’uomo in sua contrapposizione.!Socrate nel porsi domande di natura etica professa una bassa considerazione per una scienza della natura e vi contrappone l’idea di una scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra l’uomo con la sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero occidentale si pone già il problema se sia più importante conoscere la natura o l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e Platone si arriva al grande progetto ! 244!  finale della filosofia della natura greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro, si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico aristotelico di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si perda giacchè la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come creazione di Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio autonomo della natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura caratterizzata dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto quella aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i filosofi e gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della natura medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale partendo dal pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed esauriente. Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova concezione della natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla natura è cercato soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto specificamente moderno che per la prima volta con Leonardo Da Vinci assume una chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti sono il Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo corrisponde anche la nuova ! 245!  fondamentale teoria di Bacone. Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il concetto di esperimento si perfeziona con Galileo Galilei e grazie a lui e a Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo. Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle. La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246!  esperienza della natura, si riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo; categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua ricerca non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei fisici si allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena qualche secolo prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del sole. In seguito ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei nostri occhi. Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del vero si è trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo arrivati a credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui scorrono solo ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante ha qui l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso lo sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina in modo smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi permane l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. ! 247!  APPENDICE II Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im Denken der Gegenwart, a cura di V. Spierling, München-Zürich, Piper, 1987, pp. 125-138. I. Il Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di un altro autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una lingua completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro autore è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale, in modo tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera strettamente meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si tratta di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato filosofico generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi che dovremmo rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia [...] ma per questa parte, che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è riallacciato a questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è fortuita: Hegel quasi con le medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti in quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani si sono !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 778 B. Croce, Poesia e non poesia, Bari 1942, p. 98. [B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946, pp. 98-99]. 779 [Grassi si riferisce al testo di K. Vossler, Leopardi (1923), tr. it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli 1925]. ! 248!   arenati in un pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza del concetto. Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti fondamentali dei sistemi che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel tanto che concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò che è particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo la concezione di Hegel l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale, ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’“incapacità di rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia umanistica, secondo Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono alla filosofia poco beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 780 Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner, Suttgart 1928, p. 59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569]. 781 Ivi p. 121. 782 Ivi, p. 149. 783 E. Grassi, Einleitung in philosophische Probleme des Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986 [E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi moderni, Napoli 1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. 1983 [E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli 1985].  ! 249!  tra Schopenhauer e Leopardi. Io farò riferimento alle tesi di Leopardi senza discutere il parallelismo e la differenza con Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono prendere i testi di Leopardi come motivo per un confronto tra entrambi. A giustificazione di un metodo di analisi di questo tipo sarebbe determinante una parola di Schopenhauer. Nella scorsa metà del secolo scorso Francesco De Sanctis ha notato per primo in un saggio785 su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza filosofica del poeta, ma soprattutto ha contribuito a mettere in circolazione quell’immagine del pessimismo leopardiano, come noi oggi ancora comunemente pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente con il suo amico Lindner: “mi devo stupire molto nel vedere quanto questo italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia capita bene. Non fa come i Professori tedeschi, specialmente Erdmann, sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera comprensione e secondo il numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha sulle punte delle dita per adoperarli dove occorre”786. Io qui strutturerò i livelli di pensiero di Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer possano discutere la questione delle affinità e diversità tra i due autori. Innanzitutto perché è possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra prospettiva, diversa rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e l’idealismo tedesco. I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della ragione, la natura, l’analisi della noia, il significato filosofico delle passioni, l’illusione, la mania – sono gli stessi di Schopenhauer. II. La ragione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 785 Grassi si riferisce al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi che trae origine dalla lettura da parte di Francesco De Sanctis dell’opera di Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista contemporanea”, VI (1858), Vol. XV, pp. 369-408 e confluisce in Saggi critici (1874). Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id., Leopardi, a cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino 1983. 786 GBr, Nr. 454, p. 447 [Lettera di Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota 220].  ! 250!  I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo, per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa: consta di un manoscritto di 4526 pagine. Le annotazioni cominciano a luglio o agosto del 1817 e terminano il 4 dicembre del 1832. La prima edizione apparve nel 1898 e fu pubblicata da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con il titolo di “Pensieri di varia filosofia e letteratura” (un titolo che era tratto da un’indicazione di Leopardi). La seconda versione migliorata, che si accorda a questa traduzione787, appare negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2 volumi, Milano 1938. Io cito dalla traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della riflessione di Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha chiamato natura, criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di decifrare la realtà sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha a che fare con i sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta nel suo significato filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò che noi possiamo dimostrare e dimostrare significa mostrare e determinare qualcosa sulla base di un fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla base di fondamento e dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter prevedere anche l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi mettere a riparo da esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non solo non vengono presi in considerazione ma cancellati, allorché !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 787 Grassi fa riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von E. Grassi, aus dem italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke 1949. 788 G. Leopardi, Zibaldone, 20 gennaio 1820. ! 251!   si manifestano, e giudicati alla stregua di un fallimento delle nostre forze umane e razionali, delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza sicura e razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e spirituale devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli”789. “ Ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce”790. Partendo dalla tesi della priorità del pensiero razionale, ogni passione, ogni impulso, viene considerato in realtà come un momento da oltrepassare, come un momento che deve essere corretto o annientato. Di conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile, del sicuro, del giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la stessa vita politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire al suo sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una simile concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico, corrisponde a una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una posizione, che analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine del mondo occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è realizzata proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando ci si è allontanati !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 789 Ibidem. 790 Ivi, 11 luglio 1823.  ! 252!  già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato l’esito della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? “Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati, laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli”791. In un mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? “La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione”792. Per Leopardi i concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro rapporto profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? “ La ragione è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica della natura”793. “ Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda né vive con se stesso (se anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794. III. Natura e Passione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 791 Ivi, 4 luglio 1820. 792 Ivi, 7 giugno 1820. 793 Ibidem. 794 Ivi, 8 settembre 1821.  ! 253!  In che cosa risiede la potenza, la capacità della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita, che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare, secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente, dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà in esso animo, come non si dava in natura [...] o vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia, la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 795 Ivi, 8 maggio 1822. 796 Ivi, 17 ottobre 1823.  ! 254!  alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale. Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione, dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere della passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita, anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E dal momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo un’affermazione della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva attraverso il dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione, presentandosi nei miti, i quali non hanno conosciuto ancora nessun sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 797 Ivi, 7 giugno 1820. 798 Ivi, 5 gennaio 1821.  ! 255!  dei in comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non dubitando che elle non fossero degne della invidia degl’immortali”799. Da questo punto di vista la vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale, non attinge a ciò che è sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla certezza razionale e dimostrabile, bensì all’ambito del creativo, dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima possibilità dell’esperienza sorge da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra successo e fallimento, se inoltre siamo disposti alla realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica la nostra autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello oggettivo e trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone l’attenzione sul fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine esistente e consueto, infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo non possono essere dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità storica che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni, ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili, solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi passa alla descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora quelle forze imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è razionalmente deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo sotto forma di immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi esercizi fisici, le lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono la fantasia, destano i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 799 Ivi, 23 dicembre 1820.  ! 256!  debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate di essere uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc..., entrandoci e vedendoci tutto solitudine, pur credevi tutto abitato”801. IV. L’Illusione Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 800 Ivi, 7 giugno 1820. 801 Ivi, p. 100.  ! 257!  dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato”802. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 802 Ivi, p. 34. 803 Ivi, p. 96.  ! 258!  mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda”804. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 804 Ivi, 24 marzo 1821.  ! 259!  grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato”805. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 805 Ivi, p. 34.  ! 260!  che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”806. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 806 Ivi, p. 96.  ! 261!  popoli civili saranno lor preda”807. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati sorge una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer: la conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana, è tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico dell’uomo, non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto abissale? Oppure: la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è l’illusione e non la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza che lascia apparire e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante misteriosa ha solo riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma nessun interesse per il destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il suo ruolo in questo dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui l’Abissale conduce l’uomo verso il teatro del mondo? Dove risiede allora l’essenziale identità o differenza tra la teoria dell’illusione di uno Schopenhauer e quella di Leopardi? La formulazione e la risposta a queste domande si discostano radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer, così come tradizionalmente viene eseguita, quando si parte da Kant e dall’Idealismo tedesco per intendere Schopenhauer. Per me era profondamente importante qui mostrare il significato della teoria dell’illusione – che gioca un ruolo così profondo in Schopenhauer – alla luce di una prospettiva completamente diversa e poterne discutere. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 807 Ivi, 24 marzo 1821. 808 Ivi, 18-20 agosto 1820.  ! 262!  APPENDICE III Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, München, Beck, 1939, pp. 218. La ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità, pp. 37-43. Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero? All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità dell’indagine, la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del riconoscere la verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della verità. “Come potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non conosci ti prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come riuscirai ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”. Tuttavia ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa, già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più nel dettaglio ci si accorge ! 263!  immediatamente che essa in realtà fornisce già una prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come punto di partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la verità in sé ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è già esistente e non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito in maniera oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al Divenire poiché in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e non essere. Da ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene identificato con l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la possibilità della ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità: la semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata concezione di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la concezione di verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella concezione di verità che tradizionalmente per analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la verità è verità logica essenziale e che in quanto tale appartiene solo al pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale, come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale come nell’espressione dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere, l’atto di unire del pensiero, che si esprime nella concezione di unità come connexio di soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui uniscono o separano ciò che si appartiene o non si appartiene, così com’è nell'Essere. In primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base di una tale concezione il fondamento della verità appare innanzitutto come l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il fondamento della verità del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di fuori di esso e che per questo la preminenza del Logos come pensiero viene negata; in terzo luogo che la definizione del fondamento della verità ! 264!  in una tale concezione deve essere necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento empiristico o razionalistico. L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si presenti realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa, con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto non lo lasci ! 265!  inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma bensì porti con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non sarebbe più strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo passivo attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così com’è in sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro che solo mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre rimedio a questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile escludere da ciò che si ottiene quella parte di definizione che a partire dall’assoluto deriva dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero puro. Basterebbe questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci trovavamo in precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto che su di essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a noi così com’era prima di tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico della verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la verità può almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un oggetto, così come è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per un altro se esso si manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una concezione empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per una razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di un qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità. Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante” porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento della conoscenza come un qualcosa di immediato, ! 266!  oggettuale, simile a un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti, quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire, è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che nella logica tradizionale l’essenza della ! 267!  verità è stata ricercata nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo, motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro. ! Differenza ontologica e disposizione d’animo, pp. 52-58 Non dobbiamo perdere di vista il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di un elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268!  Attraverso ciò siamo poi giunti alla definizione del problema del Logos: il fondamento del manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo o un atto che non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci sulla base del significato originario del termine. La questione circa la preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale, nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della logica così come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché? Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema ! 269!  innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione (anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica la cui natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la comprensione dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica dell’afferrare la concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono già fornirci un esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere originaria. Ad esempio i principi basilari delle singole scienze, come ad esempio il fondamento del domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano e delimitano un determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione attraverso la conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di indagine scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari delle singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e dal momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una determinata precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge quindi spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto all’Ente. ! 270!  Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la separazione. Tale atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza ontologica, laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger dichiara che “la così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica della verità è possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò si evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta come atto e poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in senso più ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione originaria dell’Essere dell’Ente, che esso è “tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere in senso ampio”. Il fondamento della svelatezza, che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità pre-ontologica che è così fondamento della verità ontica e ontologica e disposizione d’animo laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve necessariamente basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì come processo del ricongiungere e del separare, processo del distinguere come un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento della svelatezza dell’Essere ! 271!  rispetto all’Ente non sia che trascendenza: ma cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di un qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la differenza ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto deve essere necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che si svela. Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine fondazione e fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato separatamente da esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della differenza ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla svelatezza, è svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità, in un mondo, in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è nell’essenza del suo Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea Heidegger, non è dunque inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra l’altro appartiene anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui e per cui anche l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si manifesta non precede o segue immediatamente un atto originario allora una qualsiasi svelatezza non risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò permette di comprendere lo stretto legame esistente tra trascendenza e disposizione d’animo. Trascendere ovvero Esserci in senso metafisico è così fondamentalmente un Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne deriva che l’Esserci stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli Enti ad esso appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci si afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il secondo modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché, terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger. Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la comprensione ! 272!  della necessità dei tre modi nei quali è insito il fondamento, e della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La possibilità dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, pp. 110-111. L’episteme come doxa alethes. Da un’approfondita critica dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una prima definizione di leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una definizione ossia di un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti al superamento del relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò non risolve né il problema teoretico del Logos né la questione interpretativa del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque nel dettaglio questo atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo definisce Platone? Ma soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità? Come una ricerca di soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il pensiero solo una forma esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo contenuto e la verità il risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa è la questione che partendo da un punto di vista storico e sistematico dovrebbe portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di Platone. Che l’anima abbia un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad appagare unicamente aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora modi e modalità di alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo del leghein, che si fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il fenomeno dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla verità; poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale da rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo, dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo ! 273!  fondamentale processo. Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del pensiero è ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e che dunque deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione per cui la doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale pensiero ci si riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa teoria relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque questo nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri sono veri solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa che veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma non ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato generale di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una conoscenza motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità. Da qui nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e il suo significato ontologico, pp. 179-189. Legame tra ricerca del fondamento del manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In precedenza abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come tale un atto o processo del leghein, il cui carattere resta però ancora piuttosto generico: con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire, il circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa ! 274!  il suo rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo ancora come definire il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su quei problemi sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos come necessità originaria, che si autoimpone, di affermazione del generale e dunque del giudicare, del pensare. Il processo dell’originario del leghein assume così un primo e determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può apparire come tale, in senso generale, ma bensì come un ben determinato ricongiungere e riunire: quello del pensiero che si manifesta nella necessità di affermazione del generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa attraverso il legame con la necessità di affermazione del generale. Questa necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma di problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto della trascendenza (intesa come “Logos in senso ampio) una determinata forma (quella del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche la nostra interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e l’essenza della poesia” in cui egli parla della funzione della parola poetica nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non si definisce il carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza? Dobbiamo attribuire al Logos, ! 275!  alla parola, alla lingua unicamente la necessità di affermazione del generale? A questo punto è necessario far notare che in nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate sulla base di ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel momento in cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza ciò dovrebbe essere presentato mostrando che oltre alla necessità di affermazione del generale esistono altre forme del fondamento originario del manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero se la parola, il Logos abbiano solo un significato “logico”. È evidente come un tale problema si ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è definita in maniera chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad esempio come necessità di affermazione del generale. Ma come possiamo sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le questioni che si presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger chiedendoci se il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca l’essenza delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per determinare l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo potremo determinare definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra posizione in merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha un doppio ! 276!  significato: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della poesia” andremo a discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: “La lingua per prima accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente”; “Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora aggiunge: “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita unicamente la determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto “Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il manifestarsi dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta? Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto proprio da questo punto ! 277!  di vista. Dal momento che la discussione heideggeriana sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un poeta, in un primo momento la questione appare essere considerata da un punto di vista che è al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che l’ambito non sia estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si evince però dalla scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della sua interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo. Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza “è colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione non si vuole qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve testimoniare l’uomo? “La sua appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione risulta difficile da comprendere in quanto nella nostra comune concezione di uomo la sua appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere dimostrata dal momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque inspiegabile come essa possa essere considerata un suo compito, un’attività da compiere che si impone costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione della parola. Da ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger l’uomo è tale solo in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza non si manifesta nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e realizzarsi. Tale atto viene definito da Hördelin come testimonianza “dell’intimità” con la terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin “intimità” è da intendersi ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose. La “testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la creazione di un mondo [...] la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però intendere l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si lega alla parola). Il ! 278!  mondo che appartiene all’uomo è solo il mondo della parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si appropria della realtà esistente così come percepita considerandola il proprio mondo solo attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi dell’uomo. Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe sbagliato in quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di denominare qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del significato, ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta l’Ente e lo fa solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è lingua può esserci mondo”. “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la parola pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione dell’Ente: parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più originario del termine. Heidegger aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e nella parola”. Ma cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in termini filosofici (termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva e proprio per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere, nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però solo ! 279!  sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale possiamo comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella propria lingua, nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come afferma Heidegger, l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e dunque sempre presente. In questo modo però la lingua si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però solo in poesia la manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella parola per poter definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è necessario sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger una determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il manifestarsi nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione del generale così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di essenza della poesia così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo attraverso la risposta a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria forma e necessità e dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza del fondamento” e “Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta essenzialmente della definizione di fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la differenza ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento” pag. 78), per cui il fondamento della svelatezza si trova nell'atto come differenza ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio” (pag.77). Questo svelamento si realizza solo per via di tale originario atto del distinguere, così che la ! 280!  sua essenza sia trascendenza e fondazione (pag. 102) e dunque fondamento di tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì lo rende possibile (pag. 81). In questo modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza, resta però aperta la questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi atto. Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la questione heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il più veritiera possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di Teeteto. Nella sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle parole la manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa identità delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in poesia e nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto consente la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente” (pag.7) e che la poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola” (“Hölderlin e l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza ontologica (origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma qui che “essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata” (pag.14). Heidegger afferma ancora che: “Solo dove vi è lingua vi è mondo” (pag.7) e ciò è possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’Ente come “Ente così conosciuto” (pag. 11). Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza è comprensione illuminante dell’Essere (“Dell’Essenza del fondamento”, pag.77), fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque possibile” (pag.81), e se in conclusione l’atto della differenza ontologica (il quale svela la sua essenza nell’Ente) “ è nella sua essenza creatore di mondo” (pag.98) qual è la differenza tra fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza ontologica come fondamento della verità ontologica nella sua generica concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di esistere e di manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla definizione di Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter attribuire alla poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da quella verità ontologica generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere chiarito anche il significato di fondazione, mondo, istituzione, manifestazione. Tale problema relativo alle forme della realtà si è manifestato nel corso della nostra ! 281!  indagine laddove siamo stati costretti a decidere se attribuire o meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o anche altri. Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei concetti heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e così via sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali questioni. Il problema delle forme del Logos, pp. 204-209. Sulla scia del pensiero filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo però dimenticare che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si oppone alla visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli afferma che tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto attraverso l’atto del pensiero, a cui egli attribuisce un significato ontologico originario, dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del manifestarsi senza riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo con un insieme di forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista empiristico. Una differenziazione è possibile solo sulla base di un atto originario nel quale e per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si rivela all’artista coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli la realtà è ciò che gli si manifesta. Unicamente nel ! 282!  momento in cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del giudizio solo allora la realtà gli apparirà come un qualcosa di ottenuto, di soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa irrealtà e idealità (dell’arte) diviene realtà viva e presente se la si considera così come la fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella fantasia dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella a cui si fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin tanto che si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si cela dietro il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone sempre del pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione. L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la questione metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il problema dell’Essere dell’Ente si ricollegava allora espressamente a quello dell’unità e della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza (ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale. Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa conoscenza come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così come Platone la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la svelatezza del proprio fondamento. Questa avviene nella trascendenza filosofica, nella conoscenza dell'essere come conoscenza del proprio fondamento: ! 283!  l’ineluttabile necessità di affermazione del generale. Da questo generale e dalla conoscenza che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia. Nella conoscenza del fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa conoscenza riguarda anche la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun tipo di arte: questa conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in quanto tale tantomeno si riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità, che ci costringe alla conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come asserzione generale, è fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi necessità che spinge l’artista alla creazione della sua opera. Con l’affermazione di Gentile secondo cui qualsiasi differenziazione si fonda nell’atto del pensiero non si va ancora a toccare il nocciolo della questione che ci riguarda. Il problema delle diverse forme del manifestarsi può essere sollevato o negato solo se non ci si limita a considerare ogni distinzione come atto del pensiero: se ogni differenziazione si realizza per mezzo di un atto, il quale per via della sua origine non può essere né dedotto né motivato (dal momento che esso stesso è il presupposto di ogni motivazione, domanda o risposta), allora dobbiamo chiederci se la necessità nella quale si manifesta l’Essere logico come aspirazione all’affermazione del generale è la stessa necessità per la quale ad esempio si compie la differenziazione poetica. Ogni atto come fondamento del manifestarsi di qualcosa è necessariamente fondazione, trascendenza e dunque possibilità di apparire di una molteplicità, di una differenziazione che non presuppone l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in una molteplicità ordinata, in un mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la manifestazione di un qualcosa nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si ottiene dunque attraverso il dubbio, dalla necessità di affermazione del generale una differenziazione poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si trova” in un mondo delle differenze e delle determinazioni che è identico a quel mondo che deriva dal pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta nel pensiero pensante essenzialmente come necessità di affermazione del generale. Da ciò possiamo dedurre che la questione circa la molteplicità delle forme del manifestarsi non può essere sollevata o risolta se si afferma che ogni differenziazione non è altro che la realizzazione di un atto del pensiero ma bensì solo domandandosi se la differenziazione poetica, la determinazione siano da ricondurre alla necessità di affermazione del generale. Rispetto a che cosa ! 284!  misura il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è all’esterno altrimenti come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da ciò che in esso si manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere, differenziare, decidere ed è possibile solo sulla base di una necessità, attraverso la quale il poeta capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo ciò che è necessario, fisso ed esistente può essere misurato. Questa necessità che si cela nell’oggetto poetico si manifesta nell’immediatezza dell’originario, del primo che per questo deve essere sempre qualcosa di istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo presente e unico. Solo grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è già e ciò che ancora non è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre temporalità di un determinato manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico e il suo paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico non deve essere considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì come qualcosa in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella quale all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo pensante non misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si trova al di fuori della necessità di affermazione del generale dato che l’Essere logico è e appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è solamente quello che riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da essa poiché ricorre a una determinazione che in sé non può giustificarla. In ciò consiste il profondo carattere etico che ogni verità possiede. Già il riconoscere di non sapere è una risposta all’originaria necessità. Allo stesso modo in cui l'uomo pensante guarda solo a una qualsiasi necessità che possa fargli riconoscere la verità della propria determinazione, verità che si cela con la forza attraverso la quale la necessità si manifesta, così il poeta paragona e sceglie la parola poetica non paragonandola all’Ente esteriore ma bensì alla necessità che si manifesta in esso: questo non è però mai un momento di conoscenza del fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci siamo posti sulle forme della necessità, sulla base della quale può essere distinta una molteplicità, si evince, contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i tre modi del fondamento che egli ha indicato come motivo del manifestarsi, fondazione (trascendenza), Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del perché, solo in questo contesto possano essere definiti chiaramente. È importante precisare che attraverso il carattere originario e ! 285!  immediato della necessità dell’Essere dall’Ente, il problema delle forme dell’Essere si cela dietro quello dei diversi attimi per l’ambiguità della parola tedesca Augenblick che può essere intesa sia come visione e dunque manifestazione dell’Ente sia come espressione temporale di attimo, momento. Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine che nel dubbio si manifesta originariamente come necessità di espressione del generale ci offre una ben determinata visione di svariati Enti. Questa molteplicità in quanto tale è solamente un momento del compiersi di una qualsiasi necessità. Da ciò si evince anche un ben determinato arco temporale: poiché sulla base dell'imporsi di una qualunque necessità si manifesta un determinato “prima” e “dopo”, una visuale di ciò che vediamo “già” e di ciò che non vediamo “ancora”, un passato e un futuro. Saggi: “Il problema della metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire e dell’essere”; “Linee della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed errare -- un confronto” (Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come anti-arte. – il bello nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza dell’immagine – ri-valutazione della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della fantasia” – “Per una storia del pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo e retorica. 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Il dolore di Tristano, in «Rassegna Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della fenomenologia «Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente  «Giornale critico della filosofia italiana», Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo «Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di filosofia», Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze “Paideia ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno «Sophia», Napoli Logo, in «Archivio di filosofia», Roma La nulla «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze La tradizione speculativa in «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze Esistenzialismo e marxismo, in Atti del Congresso di Filosofia (Roma),  Il materialismo storico, a cura di E. 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Grice e Grassi – dove fiorisce il limone – filosofia italiana – la giovinezza e il fascismo – parole ai giovane – al senato --  filosofia fascista – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Mascali). Filosofo.  Grice: “I like Grassi; he wrote on Faust!” Inizia gli studi ginnasiali presso il seminario di Acireale fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania, presso il liceo "Nicola Spedalieri".  Assiduo frequentatore della sala di lettura dell'Catania, conobbe Rapisardi, cui lo legò una profonda stima ed affinità.  Si laurea a Napoli con “La memoria delle immagini acustica e visiva della parola in rapporto specialmente al tempo di "fissazione", suggeritagli da Bianchi (Rivista di Freniatria). Si trasferì a Messina dove divenne assistente di Weiss. Comincia a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile contrasto fra le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di piegarlo a umilianti compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima.  Muta bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla facoltà di scienze naturali, conseguendo così la laurea con Mingazzini sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu pubblicata su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna, era felice di averlo come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie ed altri sbocchi, e così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano nella facoltà di filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò.  Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri, anche M. Sgalambro.  Altre saggi: “Preludi a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione); “L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”, “Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;  “La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”;  “Il faust e il tramonto dell’occidente o di una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici. Un filosofo dall'anima di poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi la psicologi concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita psichica; ma visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo (rappresentato specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo (Horwicz,Regalia), e il volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.). Questo terzo, è pare, all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il neo-idealismo, che non si accorge di restringere ancora più la intui rione dal mondo in un piccolo cerchio antropomorfico. Il Grassi esamina le teorie metafisiche dello spirito e le critica tutte e tre, con Egli conclude per il monismo psicologico: ossia contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o all'altro elemento fra i tre fondamentali, si pronuncia per una unità primordiale di tutta la psiche, la quale unità consta ad un tempo di rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze integrate in maniera indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre più chiarezza e sempre più distinzione.Cosi Grassi si connette a due psicologi italiani insegnanti nello stesso Ateneo Patavino , ma purtanto dissimili: Bonatelli e Ardigò, due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia. Un'osservazione critica. Grassi inserisce molte citazioni originali in tedesco, il che (oltre a dar luogo a gravi errori di stampa) induce fatica inutile nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco, massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust, il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosa mente. È upa ostentazione di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No : si citi pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano: la chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione. RENDAA.,Ladissociazionepsicologica. Torino,F.lliBocca,1905. La dissociazione,dice l'Autore, è un processo normale dell'attività mentale:questa non soltanto associa,ma pur dissocia,poichè «distin  gabile competenza una inne non si può dire per ciò che faccia fica italiana;tutt'altro!L'argomento , ma molto utile filoso è di cosi alta portata che riesce in materia ; egli era stato preceduto dal Faggi opera inutile nella letteratura guardarlo da varie parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai tre indirizzi principali, il Grassi parla anche di alcuni scrittori darii,fra cui Ward,Ebbinghaus secon giovane , Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e forti, al ,e noi pari del presente volume. Va Uu op.in-8.°,di pag.200.   598 RASSEGNA DI FILOS. “Goethe in Italia”  L'opera fu scritta in tre momenti successivi:  l'Urfaust, scritto tra il 1773 e il 1775, influenzato dalle rappresentazioni del Faust di Christopher Marlowe a cui il giovane Goethe aveva assistito sotto forma di teatro delle marionette (vedi Dottor Faustper il personaggio storico). L'Urfaust appartiene culturalmente alla corrente letteraria tedesca dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune aggiunte, nel 1790 sotto il nome di "Faust. Ein Fragment". Più tardi (1808) pubblicò un ulteriore seguito, che già ricade nella corrente letteraria del classicismo, "Faust. Erster Teil" (Faust. Prima parte): viene aggiunto il Prologo in cielo e sono apportate modifiche significative all'Urfaust. Così Mefistofele appare a Faust promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust è sicuro di sé: tale è la sua brama di piacere, azione e conoscenza, che è convinto che nulla mai al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa conoscere la giovane Margarete (Margherita) - detta Gretelchen (Margheritina) e Gretchen (Greta) - la quale si innamora perdutamente di Faust, inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è nient'altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di Margherita sarà tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte, 1832) la scena si allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico: Faust seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso risulta di 12.111 versi.   Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, trad. di Giovita Scalvini e Giuseppe Gazzino, Le Monnier, Firenze, 1857; Fausto, trad. Giovita Scalvini, 2 voll., Sonzogno, Milano 1882-83 e 1905-06; come Faust, Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W. Goethe, trad. di F. Persico, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1861 Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad. di Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier, Firenze, 1869 Fausto. Parte Prima. Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe, trad. di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le Monnier, Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni, Firenze, 1900 Johan Wilhelm von Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E. Vellani, Cogliati, Milano, 1927 Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol. I Versione, pp. 326 + vol. II Commento, pp. 423, versione integra dell'edizione critica di Weimar, Introduzione e trad. e commento di Guido Manacorda, Mondadori, Milano, 1932-45; Collana I Classici Contemporanei, pp. 774, Mondadori, Milano, 1949; ora in Faust, con un saggio introduttivo di Thomas Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Giulio Schiavoni, Collana Classici, BUR, Milano, 2005-2013, ISBN 978-88-17-06698-3. Volfango Goethe, Faust. Tragedia, trad. di Cristina Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il "Faust" nella sua forma originaria, Introduzione e trad. e commento a cura di C. Baseggio, Collana I Grandi Scrittori Stranieri n.20, pp. 224, UTET, Torino, 1932-1944 Faust. Parte I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma, 1933; come Il primo Faust, BUR nn. 39-40, Milano, Rizzoli, 1949, pp.190; Il secondo Faust, ivi (BUR n. 339-341), 1951, pp.371. Faust, trad. di Vincenzo Errante, 2 voll.: vol. I pp. 310 + vol. II pp. 476., Sansoni, Firenze, 1941-1942 Faust, trad. di Enzio Cetrangolo, pp. 278, Federici Editore, Pesaro, 1942 [scelta] Faust, introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi, Milano, Bietti. Il Faust. Versione d'arte con testo critico di Weimar a fronte, introduzione e commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana Straniera, pp. 424, Sansoni, Firenze, 1949 Volfango Goethe, Faust, trad. e prefazione e note di Barbara Allason, pp. 450, Francesco De Silva, Torino, 1950, poi Faust, Introduzione di Cesare Cases, Collana NUE n.53, pp. 377, Einaudi, Torino, 1965, ISBN 88-06-00331-3 Faust, trad. di Giovita Scalvini, Collana Universale n.16, Einaudi, Torino, I ed. 1953 - II ed. riveduta su nuovi documenti, pp. 179, 1960; Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe, a cura di B. Mirisola, Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana, 2012 Faust. Urfaust, versione integrale, 2 voll., Introduzione e note a cura di Giovanni Vittorio Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, pp. 459, UTET, Torino, 1950 - pp. 532, 1959 - pp. 588, 1975; in Faust e Urfaust, Collana UEFn.500-501, Milano, Feltrinelli, 1965; ora in Collana Universale Economica. I Classici n.2018-2019, 2001-2014, Feltrinelli, ISBN 978-88-07-90068-6. Faust. Seconda parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust, Introduzione, trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte, pp. 1180, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1970-2009 ISBN 978-88-04-08800-4; Collana Biblioteca n.18, 2 voll., Mondadori, Milano, 1980-1987; Collana Grandi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 1992-1997 - Collana Nuovi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 2012 ISBN 978-88-04-52011-5 Faust, a cura di M. Cometa, Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani, pp. 592, Schena Editore, 1984 Faust, trad. di R. Hausbrandt, 2 voll., Dedolibri, 1987 Faust. Urfaust, trad. e cura di Andrea Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott, prefazione di Erich Trunz, Collana I Libri della Spiga, pp. 1462, Garzanti Libri, Milano, 1990-1995 ISBN 978-88-11-58648-7; prefazione di Italo Alighiero Chiusano, Collana i grandi libri n.545-546, Garzanti Libri, Milano, 1994-2012 Faust. Testo tedesco, traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli. Prefazione di Fabrizio Cambi, pp. 472, edizioni aicc castrovillari; trad. di Vittori Santoli e V. Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna, 1996 Faust, trad. e note di Andrea Casalegno, illustrazioni di Eugène Delacroix, presentazione di Mario Luzi, Collana I Grandi Libri Illustrati, pp. 294, Le Lettere, Firenze, 1997 ISBN 978-88-7166-347-0. Il Fausto di Gounod. Dimora casta e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy with calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il limone, la giovinezza e il fascismo: parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grassi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754624207/in/dateposted-public/

 

Grice e Grataroli – sulla memoria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo. Grice: “I like Grataoroli, the Pope called him ‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on ‘semiotics’ of the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless you do Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and alchemy!” –Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di "phisici", tra i quali si segnalarono il nonno di Grataroli, fondatore del collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di Grataroli, Pellegrino, fisico presso la città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia. Eeretico pertinace et scandaloso et infame, peste contra la fede. Insegna a Basilea. Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo busto. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per la teoria fisiognomica. Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria reparanda, augenda ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba Philosophorum”; “De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna, Basilea); “De fato, libero arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae, quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea); “De balneis” (Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano  Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a Freud  M. Meriggi e A.Pastore, Le regole dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo ed il suo territorio. Bergamo, Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo Grataroli filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi, Le regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie.  del Rinascimento, T. Bottani e W. Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua & cer-  ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt, aut Jìunt , krevìter, &  dare, ordine que alphabetico de scripta per Gulielmum Gratarohun Medicum P/iy/i-  cum y cuni Addinone undcam fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo . Basilea?  apud Jacobum Pareum  in 8. Ibi-  dem apud Nicolaum Episcopium in 8. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum .   V opera indicata , con le altre due  » De Memoria reparanda t e » De Prje-  diclione morum » > si trovano unite tiell*  accennata edizione di Argentina alli Trat-  tati di Chiromanzia , e di Astrologia natu-  rale di Giovanni Indagine , o sia Giovalini Hagen dotto Certosino del decimoquin-  to secolo ? ed al libro » De Sculptura »  di Pompeo Gauricio Matematico Napolita-  no . Perchè il Grataroli non venga taccia-  to di superstizione o di puerile credulità  a motivo delle cose da esso scritte parlan-  do dei Pronostici naturali e della Predi-  zione dei costumi , credo cosa necessaria  fedelmente trascrivere la Protesta , o sia  Avvertimento al Lettore, che si trova nel-  la edizione di Argentina Devi poi  » avvertire , che generalmente parlando le  » cose dette si verificano nella gente gros-  » solana y vale a dire di coloro , i quali  » non sono rigenerati dallo spirito e dalla  » grazia di Dio , perchè di questi è vero  » ciò che dicesi della depravata natura in  » Adamo , che » Naturce fequitur femina  quifque fucc » : Ma air opposto i rigenerati  » dallo Spirito Santo mortificano la pro-  « pria carne con i suoi vizj , e con le  » sue concupiscenze , sebbene la concu-  » piscenza ed il fomite del peccato vi re-  » stino sempre , e da moltissimi , o Dio ,  anche pur troppo si riducano alla pra-  » tica », A gloria di Gulielmo riporterò  anche la sua opinione sopra la causa del  flusso e riflusso del mare r avendo preco-     6 A   Aizzato più di due secoli prima quasi in-  tieramente il sistema del rinomatissimo Ca-  valiere Isacco Neuton circa lo stesso feno-  meno : opinione approvata ed insegnata  da quasi tutti i Filosofi posteriori a quel  subitine Geometra » : Il moto periodico del-  ia Luna ha grande predominio sopra li  corpi fluidi , quindi fa che il mare s in-  nalzi e si abbassi ^ singolarmente per una  particolare di lei influenza , e ne segua il  flusso , ed il riflusso secondo i differenti  aspetti relativi alla medesima , e secondo  che questi accadono nella maggiore -> o  minore forza della sua influenza : Accade  ciò perchè la Luna ha bensì certa in-  fluenza coir Oceano , ma non già coi la-  ghi e coi mari di poco estesa superficie .  Per la qual cosa mentre quel Pianeta si  muove dall' Oriente verso il mezzo gior-  no , fa che la superficie del mare s' innal-  zi , e che conseguentemente ne segua il  riflusso medesimo . Quando poi si muove  dal mezzo giorno verso Y occidente fa che  il mare si abbassi , e però ne nasce il ri-  flusso . Similmente allorché la Luna si  muove dall' occidente verso V angolo della  notte , o sia da settentrione verso V o-  i icnte , ne segue nuovamente il riflusso r>     II. » Guliclmi Grataroli Bergomatis  Artium > & Mediani? Docloris de Memo-  ria reparanda , augenda > fervandaque ,  Liber omnimoda Remedia > & Pnzceptio-  nes continens cujufivis facultans jhuliofis  apprime utilis «, immo maxime necejjlvius ,  Tiguri ? apud Andream Gesneruni  in 8. , Basilea apud Nicolaum Episcopium  in 8., Lugduni , apud Gabrielem  Coterium in 8., Francofurti apud  Joannem Vichelium in 12. Ibidem  apud Viduam Petri Fischeri 1596. in 12.,  Argentorati in 8. » Nel frontespi-  zio dell'accennata edizione di Argentina si  trovano queste parole : » Omnia ab An-  afore correcla P ancia finis > 6' ultimo edita «. La stessa Opera » De Memoria re-  paranda » è stata stampata unitamente all'  altro libro del Grataroli » De confervanda  Valetudine » da Enrico Rantzovio .   De Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex infipeclione par*  tìum corporis > tutu aids modis «> Anelare  Gulielmo Gratarolo Medico , & Philojopho B ergo mate • Basilea 1554» in 8., Ti-  guri apud Andream Gesnerum in  8. , Lugduni apud Gabrielem Coterium ,  &* Argentorati 1 6*5 3» Li tre accennati libri De Memoria reparanda: De Temporum  omnimoda mutatìone Prognofìica: De Prce*  diclione morum » furono dati alla luce per  la prima vo ? ta dal Grataroli in Basilea , e  dedicati ad Edoardo VI. Re d'Inghilterra;  siccome pure la seconda edizione di tali  Opuscoli fatta nella medesima Città nell*  anno 1554. fu consagrata a Massimiliano  II. Re di Boemia lutto questo evidente-  mente si rileva dal primo periodo della  Dedicatoria medesima al secondo dei com-  mendati Sovrani , la quale cosi incomincia Nello scorso anno, ottimo Re,  per le pressanti istanze degli amici e del-  io stampatore > sono stato costretto a dare  alle stampe assai più presto di quello che  averei desiderato tre miei libretti intorno  ai quali erano già molti mesi che affatica-  va , e perchè essendo assente , molti er-  rori corsero nello stamparli, però riveduta  di nuovo queir opera , non solo ne cor-  ressi i difetti , ma in oltre impiegando  ogni possibile diligenza ed applicazione , e  prestandovi , come si suol dire , V ultima  mano , F ho accresciuta di parecchie belle  aggiunte a segno, che la presente edizio-  ne è superiore alla prima siccome lo è un  parto di nove mesi a quello di soli sette ,     *7  o pure Toro fino ali* argento • Avevo de-  dicata la prima ad Edoardo VI. Re d' In-  ghilterra , il quale innanzi anche di aver-  ne notizia , non che di averla potuta ve-  dere, fu costretto infelicemente a cambiare  la vita con la morte ». Tale Dedicatoria  fu scritta in- Basilea nel mese di Febbrajo  deiranno 1554. Nondimeno non posso  accertare in quale città siano stati stampa-  ti li sopradetti Opuscoli la prima volta che  dal Grataroli furono indirizzati alli due già  nominati Sovrani .  Pejlis Defcrìptio , Caujjoe > Si-  gnu omnigena > & Proefervatio . Anelare  Guliclmo Gratarolo Medico . Basilea? ; per  Ludovicum Lucium Anno Salutis Humana? Mense Augusto; Lugduni, apud  Gabrielem Coterium 1555. • La prima  edizione di tale veramente aureo Trattato  fu dedicata ad Ascanio Marzo Ambascia-  tore Cesareo presso i sette Cantoni della  Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e  virtù fornito ed amico di Gulielmo ; e  questi appunto furono i motivi , che lo  spinsero a sceglierlo per Mecenate con  scrivergli :  La vostra conosciuta  virtù , e la non volgare vostra mansue-  tudine , non meno che il vostro amore per tutte le sane dottrine , e per la pie-  tà , mi hanno costretto a dedicarvi quest'  opera » . Perchè si veda quanto amava le  massime di pietà e di religione conviene  notare , che dopo di aver egli prescritti  neir indicata sua opera li rimedj fisici con-  tro la Peste , raccomanda con fervore li  spirituali con queste parole (81) » Ma  per brevemente indicare li remedj più for-  ti , più giovevoli e generali , prima di  tutto allontanate da voi la paura della  morte , ma non già il santo timore di  Dio . Non perciò doverete amare il peri-  colo , né incorrervi temerariamente , se  non sarete sforzati o dalla carità cri-  stiana del prossimo , o dalla gloria di no-  stro Signore Gesù Cristo > il quale devesi  anteporre a tutte le cose De Litteratorum > & eorurn qui  Magijlratibus funguntur confermando, proe-  fervandaque valetudine , illorum prcecipue  qui oetate confiftentìoe vel non lunge ab  ca ab funt > curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione , & fideli praxi >  & experientìa concinnatum . Basilea apud  Henricum Petri in 8., Francofurti in 12. apud Ioanncm Vchel ; Ibi-  dem apud Nicolaum Hofmannum \6 17.     ($9  in 8. » La stessa opera è stata tradotta  nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P  e stampata in Londra Tanno in  1 2 . Questa dottissima opera è riferita dal  rinomatissimo Medico Ermanno Roerhave  nel suo » Methodus (ludii Medicorum » .   De Confervanda valetudine .  Francofurti apud Henricum Randzov .  Questa opera fu stampata unitamente all'  ultima registrata dallo stesso Randzov •Re girne n omnium iter agentium . Basilea? apud Hemicum Petri \66\.  Argentorati per Vendelinum Rihelium 1 s6%.  in 12. Colonia? apud Petrum Hofmannum  15/1. in 8. V edizione fatta di tale uti-  lissima opera in Argentina fu dedicata dal  Grataroli » alla vera pietà, (82) e nobil-  tà del chiarissimo Egenolfo Barone , e Si-  gnore in Rapolstein Hochen Ack e Ge-  rolzeck in Vassichin » e nel frontispizio  della medesima vi si leggono i seguenti la-  tini versi .   Ut peregrìnands vita ejl jubjecla procellis  Aeris , & varìis undique prejja malis ;   No/ira procelle* fi vario jìc turbine mundi  Volpi tur incertis anxia vita rnodis.     7°   Hoc bene pericolo Jervans prò tempore litro   Tutìor utque voles carpe Vìator iter.   VIII # De Laudibuj Medicina ejus  origine > progrejju ? militate . Argentora-  ti i 5 £3. in 8.   IX. De Pefle Thefes. Basilea in 8. Apud Henricum Petri .   De Vini natura , Artificio , &  Ufu , deque omni re potabili . Basilea ,  Apud Henricum Petri .   XI. Equorum P & Domejlicorum quo-  rundam Ànimalium remedia $ senza data  in tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis Philojbphici nomendaturoe . Basilea La medesima opera trovasi inserita nel  Volume in foglio stampato in Colonia Tan-  no 1571. da Pietro Orstio , con il titolo  Veroe Alchimia? Scriptores .   XIII. De janitate menda . Argento-  rati 15 6 5. Trovo quest* opera citata dal  Mercklino nel suo Lindenius renovatus.   XIV. De Thermis Rhoctias , & Val-  lis Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis . Si trova  stampata tale opera per la prima volta da  Tommaso Giunti in Venezia Tanno 1553.  nella sua copiosa raccolta di tutti quelli y     fi   che sino alla detta epoca avevano scritto   sopra i Bagni , ed è riportata alla pagina   192. , con questo titolo Guìlhdmus Gra-   tarolus ad Corradum Gefnerum Medicum   Tis'urimim de Thermìs Jxhoetìcìs Tutti  o   quelli i quali a mia cognizione hanno par-  lato di questo trattato di Guliclmo , sia  neir occasione di dare il Catalogo delle  sue opere , o • sia per semplice erudizione ,  e perfino il nostro Padre Donato Calvi ,  non hanno citata nessun' altra edizione  della stessa opera , che quella dei Giunti %  e tutti ne fecero sempre autore il Grataroli , senza mai mettere in dubbio questo  punto d' Istoria letteraria . Ciò nondimeno  non deve recare maraviglia , particolar-  mente delli scrittori oltramontani , e spe-  cialmente di quelli del decimosesto secolo :  ma fa bensì stupore , che siasi continuato  ad attribuire al Grataroli un simile tratta-  to , dopo la nitida e ben corretta edizio-  ne fatta dal valoroso Cornino Ventura X  anno 1582. in 4. di tutti i dotti Medici  Bergamaschi , che avevano scritto sopra i  Bagni di Tres^ore ; poiché apparisce , ed  è anche evidentemente provato da quel  diligente stampatore , e dagli eruditi e  perspicaci fratelli Licini suoi direttori, che     il trattato , che porta quel titolo , appar-  tiene sicuramente a Bartolommeo Albani  Medico Collegiato della Città di Bergamo.,  scritto dal medesimo sino dall'anno 1470.,  vale a dire quasi un secolo prima della  indicata edizione Veneta di Tommaso Giun-  ti • Di fatti T Opuscolo dell' Albani termi-  na precisamente con questa data : anno  mìllejìmo quadrigentefimo y & feptuagefimo  de menje Julii die vìge fimo Ceptimo . Per  ExeelL Artìum & Me dicince Dociorcm  Bartholomceum de Albano. Si fa ancora as-  sai ' più manifesta tale verità da quanto  afferma il Cornino alla decimaquarta pagi-  na della sua edizione degli Scrittori Berga-  maschi circa li Bagni Trescoriani , nella  annotazione seguente posta in fine dell* Q-  puscolo del sopracitato Bartolommeo Albani  per maggiore sua giustificazione » Da un  antichissimo esemplare manoscritto (83) ri-  trovato nella libreria de" Padri Domenica-  ni , il quale si vede eziandio trasportato  nella lingua Italiana , sotto il nome dello  stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di Bar-  tolommeo Colleoni , lasciato al Luogo de Ha Pie-  tà, conservato sino a questo tempo ». Non  si deve adunque più dubitare , che il ve-  ro Autore di quel trattato non sia Bariolommeo Albani , mentre anche il Padre Cal-  vi così ha lasciato scritto nella sua Scena  Letteraria (84) >> Bartolommeo Albano della  Medicina celebre Professore fiorì verso la  metà del passato secolo -> e fu il primo y  che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre-  score j leggendosi le sue degne fatiche con  quelle d 5 altri Autori nel libro » De Bal-  neis Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Ber-  gomi Questa è T accennata edi-  zione di Cornino Ventura. Si noti in que-  sto luogo , che lo stesso Bibliografo indi-  cando l'opera del Grataroli (85) sopra io  stesso argomento , dopo di avere scritto  De Thermìs Rhoeticis, & Vallìs Tranfche-  rii agri ìSergomatis » aggiunge » Questo  si trova nell' opeia Veneta De Balneis » »  Adunque al Calvi era nota tanto V edi-  zione dei Giunti , quanto quella del Co-  rnino : dopo tutto questo, in quale manie-  ra si potrà difendere il Grataroli dalla tac-  cia di plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile , Ricercato  Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande  amico , che si chiamava il Plinio dell* Ale-  magna , perchè gli facesse avere delle no-  tizie circa le Terme , o Bagni della Re-  zia , e della Provincia Bergamasca , egli ^per fare cosa grata ad un amico di tanta  rinomanza , prese in mano il manoscritto  dell' Albani , vi aggiunse qualche cosa del  proprio , ed ancora molte cose di quelle  che aveva scritto sopra i Bagni di Tresco-  re il dotto Medico Lodovico Zimalia , le-  vando alcune cose che gli sembravano su-  perflue , o inesatte , con purgato stile la-  ^inò , e con veri termini tecnici rifuse il  manoscritto dell' Albani , e cosi riformato  ed ordinato lo spedì all' amico, unitamen-  te ad una erudita lettera relativa alle Ter-  me della Rezia : e siccome in quei giorni  il Gesnero si trovava in Venezia per de-  scrivere i Pesci , ed i Crostacei del mare  Adriatico , averà consegnato questo scritto  a Tommaso Giunti s che in quel tempo  era occupato a pubblicare la sua grande  edizione di tutti li Scrittori sopra i Bagni  e le aque Termali n siccome ho già di so-  pra notato . Indubitata cosa ella è che il  Grataroli chiude il suo scritto con queste  parole (86) » Ho raccolte brevemente, e  con chiarezza tutte le soprascritte cose a  benefizio , e sollievo del mio prossimo^ io  Gulielmo Grataroli Dottore di Medicina :  frutto tutto questo delle mie oculari osser-  vazioni , e della lettura di parecchi amichi Medici della mia patria » . Appunto   questa sua protesta dalle persone oneste  e giudiziose deve essere considerata una  confessione del fatto , ed ancora del di-  ritto che aveva acquistato di appropriarsi  quello scritto ; tanto più che il Grataroli  nello spedirlo al Gesnero , lo previene con  la seguente onorata e sincera dichiarazio-ne Vi spedisco l'intiera Descrizio-  ne delie Terme Bergamasche , le quali non  sono lontane dalla Rezia più di due gior-  nate di cammino • Di queste niente sino  al presente trovasi pubblicato con i tor-  eh) ; onde mi giova sperare , che diver-  ranno celebri anche in avvenire , siccome  lo furono in passato , dopo che Y occul-  ta, e quasi intieramente ignorata loro vir-  tù sarà fatta nota con le stampe ; purché  non vi rincresca accoppiare le erudizioni  Italiane alle Tedesche » . Poteva qui espri-  mersi Gulielmo con più candida , ed one-  sta sincerità ? Confessa di essere semplice  raccoglitore d^gli altrui scritti, mentre  dice » Ho raccolto dagli scritti di altri  antichi Medici Bergamaschi » Non chiama  sua quella fatica , ma dice semplicemen-  te (89) » Vi spedisco T intiera descrizione  delle Terme Bergamasche > delle quali  niente sin ad ora è stato pubblicato » Non  si deve dunque condannare di plagiario il  Grataroli $ e certamente non conviene , che  egli abbia avuto rimorso di avere commes-  so una cosi vile, e detestabile impostura ,  mentre essendo sopravissuto quasi quindici  anni dopo l'edizione Veneta di queir opu-  scolo , sicuramente non averebbe mancato  di giustificarsi presso il mondo erudito circa il preteso plagiato . Ecco tutto quello ,  si può dire in difesa di questo Medico Fi-  losofo sopra tale inssusistente accusa , né  altro posso aggiungere «> se non che far  noto al mio Leggitore , che per quante  diligenze abbia usate «> non mi è giammai  riuscito di ritrovare i due citati mano-  scritti , e che in oltre il Padre Donato  Calvi , a cui era nota Y edizione di Co-  rnino Ventura , non ha nella sua Scena  Letteraria dimostrato di sospettare dell' o-  nestà letteraria di Gulielmo Grataroli . Pri-  ma di terminare il presente articolo dei  Bagni di Trescore, riferirò il zelante uma-  nissimo Voto, con il quale Gulielmo chiu-  de la sua opera stampata dal Giunti Faccia Iddio , che la Bergamasca Re-  pubblica abbia diligente cura di rimettere  nel primiero loro stato questi saluberrimi  Bagni , che certamente lo può , e lo de-  ve fare » . Faccio io pure fervidi e sin-  ceri voti , perchè abbia effetto tutto ciò  che caldamente raccomanda il Grataroli ;  e per maggiormente incoraggire la mia  Città , ed i miei Cittadini a procurare al-  la patria un vantaggio così rimarcabile ,  vivamente li supplico a leggere T erudita  ed elegante latina lettera di Lodovico Zi-  malia , premessa al suo dottissimo Trattato  dei Bagni di Trescore , dedicato al suo  magnanimo Mecenate Bartolommeo Colleoni  Capitano Generale degli Eserciti della Serenissima Veneta Repubblica , (91) nella  quale prova con una evidenza che sorprende, e che deve intenerire chiunque  senta amore per la sua patria , che quello  famosissimo Eroe deve senza alcun dubbio  essere ugualmente ammirato , e commen-  dato sì per le sue azioni militari , che per  le sue virtù politiche , a benefizio «> ed  eterno vantaggio , e decoro di tutta la  sua amata nazione Bergamasca .   De Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello stampatore . Tuttavia nominerò ancor io tra  le opere di Gulielmo un libro con tale ti-  tolo , ritrovandolo registrato dal Calvi , e   dal Papadopoli suo copiatore , ma non  dal Frehero , non dal Bayle , non dai  Maizeaux suo illustratore , non dal Mer-  ci: lino , non dall' Eloy , mentre tutti que-  sti si suppone avessero molto interesse di  far autore di un libro Anticattolico  Romano un erudito e dotto Italiano - sic-  come era da tutti considerato il Grataro-  li. Non però verun altro Letterato ha po-  sto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro • D' altronde è cosa più che cer-  ta , che si può scrivere dei caratteri dell'  Anticristo anche dalla più religiosa e ze-  lante penna cattolica : ed è certo di più ,  che il Calvi , o non averebbe registrato  un così fatto libro , o non averebbe man-  cato di scriverne qualche parola in dete-  stazione del medesimo . Ma di più anco-  ra quanto al Papadopoli , probabilmente  questi non averà nemmeno veduta quest*  opera , essendosi intieramente riportato al  Padre Calvi , siccome egli stesso scrive  nella sua storia dell' Università di Padova  parlando di Gulielmo Grataroli . Avendo  in oltre riportati i titoli delle altre sue  opere senza data , alterati , e confasi no-  tabilmente, non sarebbe stato egli il primo  a giudicare di un libro mai veduto , nò   letto • A me stesso è accaduta la medesi-  ma sorte y non solo di poterlo trovare >  ma neppure di averne fondata contezza ,  per quante ricerche abbia usate non sola  in Italia , ma altresì nella Germania e nell*  Olanda . Sostengo finalmente , che se que-  st* opera esiste , che io non credo , o se  fu composta da Gulielmo Grataroli -, non  doveva essere tanto malvagia e perversa ,  quanto alcuni senza ragione sospettano ;  mentre che tutte le opere del Grataroli è  vero che sono poste nell* indice de' Libri  proibiti ? ma con la semplice cautela ;  Quandiu emendata non prodieri nt (92) «  Dal che si è da presumere che se que-  sto fosse stato un libro veramente Etero-  dosso , Santa Romana Chiesa lo avrebbe  posto nella classe dei libri empj e mal-  vagi di prima classe •   XV I. Confilium de Proe fervanone a  Vcnenis . Gulielmo Gratarolo Aucìore .  Hamburgi in 8.   Ecco registrate tutte quelle opere che  mi è riuscito di raccogliere, le quali furo-  no composte da questo dottissimo Medico  e Filosofo : ora passerò alla seconda classe  delle opere tradotte e fatte stampare dal  medesimo .    J. Joannis Braccfchi de Alchimia ,  cum propofìtionibus 29. Idem argume ri-  rum compendiofa brevitatc compleclens ex  Italico Aucloris Autographo in latinum  verni -> & edidit Gulìelmiù Gratarolas .  Basilea 156*1. in folio. Apud Henricum  Petri .   Non mi è noto dove sia stata stam-  pata la prima volta questa traduzione; ma  solo ne ho trovata un' altra ed zione fat-  ta in Amburgo neir anno 1^7 3. in 8.   II. Chirurgico rum quorundam Auclo-  rum Libros Gali ice fcriptos latine reddidit ?  & in cap'-ta difiribuit Gulielmus Grataro-  las • Lugduni in 8. Apud Gabrie-  lem Coterium ,   Classe terza delle opere d* altri Scrit-  tori fatte stampare con prefazioni , note y  e commenti da Gulielmo Grataroli .   I. Ve ree Àlchymìce Scriptores aliquota  cum Praefationibus 9 & D celar ationibus col-  Ifgit y & una edidit Gulielmus Gratarolas.  Basilea? , apud Henricum Pctri in  folio .   II. Vetri Apone njls de Vene ni s eo-  rumane Remediis , cum Additionibus Gu-  Udini Grataroli . Francofurti , apud Joan-  n ìm Velici in 8.     8i   III. Hermannl a Ncunare de no-  vo haclenufque inaudito Germanice morbo  ^pompar* idcft judatoria febre , quern vulgo   fudorem Britannicum vócant, libellus a Gu-  lielmo Gratarolo editus. Colonia in  4. Ermanno Ncunare era Conte e Pre-  vosto della Cattedrale di Colonia .   Simeonis Riquinii Judicium do~  clijjimum duabus epijìolis contentimi de  fiutato r ice Febris cura t ione editum a Gu~  lielmo Gratarolo Medico > & Philofopìio  B ergo mate . Colonia in j 6.   V. Joackini Schdlerii ^ o come altri  scrivono Sckilfeni de Pejìe Britannica  Commentariolus aureus a Gulielmo Grata-  rolo Medico & Philofopko editus . Basilea?  1 5 c> 3. Apud Henricum Petri in 12.   VI. Alexandri Benedicii de Pejlilen*  tioe Caujjls s Proe fervanone > & auxiliorum  Materia Liber Jingularis : Omnia ex ma-  nufcriptis exemplaribus auxit y & illujìravit  Gulielmus Gratarolus Medicus 9 & Pialo-  fophus . Basilea? 1559. in 4. Ibidem 1572.  in folio apud Henricum Petri .   VII. Correcliones , & Additiones ad  librum Italicum , falfo tributum Fallopio 7  infcriptum , Secreta Fallopii . Francofurti  irfoò. in folio , e i6"o£. cum operimi   6 1     82   Appendice Guliehni Grataroli Medici Bcr-  gomatis. Girolamo Mercuriali da Forlì coe-  taneo del Grataroli , soprannomato Mercu-  rio e Trimegisto per la vastissima sua  medica scienza , nell' erudita opera : De  ratione dijcendi Mediana/?! , edizione di  Argentina dell' anno 16*07. > m proposito  dei libri falsamente attribuiti a Gabriele  Fallopio , racconta che vi furono alcuni ,  i quali o per malignità , o per sordido  lucro cacciarono fuori opere sotto il nome  del Fallopio , che affatto non sono sue ,  come il libro dei Secreti . Opere indegne  del suo maestro , e soltanto capaci a to-  glierli quella vera , e soda gloria , la qua-  le si era acquistata presso i dotti •   Vili. Cenjura & Additiones in Li*-  bruni Alexii Pedemontani , ubi de Quinta  effentia funplici . Per Gulielmum Grataro-  lum . Venetiis apud Jun£hs in 12.  Conjìha , & Curationes variorum  doclijfimorum Medicorum de Sudore An-  glico a Guliehno Gratarolo edita . Colo-  nia apud Franciscum Hofmannum 1602.  in folio .   X. Thaduei F/orenini , che 1' Alido-  sio chiama Taddeo Aledrotto^ & Guliclnù  a Brixia Conjìlia • Colonia* i^c^. Apud     Iranciscum Hofmannum in 4. Per Gidid-  mum Gratarolum .   XI. Johannis de Kupecijja de Extra-  tione Quinte? ejfentioe omnium rerum prò  u fu Medico . Venetiis apud Juntìas 156*1.  in 1 2.   XII. Theatrum G aleni > hoc eft uni-  verjlv medicince a Galeno diffupz *> fpar-   f inique traduce Promptuarium completimi  & in meliorem ordinem redaclum per Lu->  dovicum Luride llum a Gulielmo Gratarolo  Medico } & Philojbpho editimi . Basilea?  15 68. Apud Henricum Petri in folio «>  Hamburgi apud Joanneni Neumannum >  & Georgium Volfium \6j2. in foiio.  Petri Pomponacii de Incanta*  tionibus libri in quibus dijficilUma Ca-  pita > & Quefliones Theologicoe , & Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei doclrina  explicantur > & multis rarìs Hijìoriis > &  Glojfulis illujlrantur . Per Gulielmum Gra-  tarolum Medicum , & Philojbpkum Bergo-  matem > qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum Dociorum Judicio fubmittit . Basilea? Kalendis Martii ex Offi-  cina Henripetrina in 8. cum Csesa-  rea Majestatis gratia & privilegio. Quesra  edizione del trattato deeli Incantesimi di     &4   Pofnponacio tu consagrata dal Grataroli a  Federico Conte Palatino con una nobilissi-  ma , e giudiziosissima dedicatoria impiega-  ta parte in encomj della virtù e meriti di  quel Principe, e parte in difendere Y ope-  ra di quel Filosofo Mantovano , del quale  afferma e sostiene , che fu a torto impu-  gnato , e perseguitato ; e che se fosse sta-  dio con prudenza e carità Cristiana tratta-  to , sarebbe riuscito uno dei più zelanti e  forti Apologisti della Chiesa Cattolica, come riferisce essere avvenuto a Giustino  Martire , al grande Agostino , ed a mol-  tissimi altri difensori della nostra santissima  religione • Di fatti Pomponacio per atte-  stato di tutti gli Scrittori della sua vita  mori cattolicamente (93) : » Voglio spera-  re , che Pomponacio prima di mandare  fuori T ultimo suo spirito , siasi per singolare grazia delia divina providenza e misericordia ravveduto e pentito , e che non  abbia perseverato neir ateismo . Imperoc-  ché tale essere stato il Pomponacio Y ho  udito spesse fiate a rammentare da Elideo  Medico di Forli chiarissimo ornamento del-  la medica scienza , ed uno de suoi più  cari discepoli » . Ho ricopiato questo sen-  timento dui Grataroli acciocché si conosca quanto grande fosse Sa sincerità e Tat-  , taccamento verso la Chiesa Cattolica. Gis-  berto Voet , o Voezio ^ dotto Professore  di Teologia -, e delle lingue Orientali neìl'  Università di Utrecht , inimico capitale  della Filosofia e di Cartesio , ha parlato  con molta lode della suddetta edizione, dicendo Gulielmo Grataroli Medico  Italiano , li di cui scritti vengono coiti*  mendaci per lo zelo di pietà e di religio-  ne che vi traspirano, e per li encomj de*  quali lo ricolma Teodoro Beza nelle sue  lettere , e per li suffragj di molti altri uo-  mini dotti, che lo trattarono nelle sue ope-  re stampate in Basilea difende Pomponacio  contro li suoi caluniatori, ed afferma, che  abbia terminati i suoi giorni assai piamente. Dalla medesima dedicatoria di Gulielmo da  esso scritta un anno solo prima del suo pae-  saggio all'altra vita si rileva, che già die-  ci anni innanzi egli aveva fatto stampare r  senza che mi sia riuscito di sapere in qua!  parte ^ il Trattato De ìncantationibus di  Pomponacio , perchè così scrive al Princi-  pe suo Mecenate * (9$) » La parte di  questo libro , che tratta delle cause , e  degli effetti naturali, o sia degli Incantesi-     u   mi fatta da me stampare sono già più di  dieci anni , T avevo dedicata e spedita  air Illustrissimo Principe Ottone Enrico  Elettore di felice memoria , e S. A, non  sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo  proprio pugno » . Mi è piacciuto di nuo-  vamente riportare quanto Gulielmo Grata-  roli scrisse in quella sua elegante Dedica-  toria , perchè dalla premura e zelo da es-  so dimostrato sino agli ultimi periodi del-  la sua vita , e dalla universale estimazio-  ne , che hanno sempre costantemente fat-  ta palese in faccia di tutto il mondo tanti  letterati del primo ordine , d* ogni nazio-  ne , e d' ogni religione , della dottrina ,  della probità, e dell' amore del vero , e  del giusto , che ha conservato in tutte le  sue operazioni , possa invogliarsi qualche  valente ed erudita penna della sua , e  mia patria a tessere , ed in assai miglior  modo ordinare una più compiuta istoria  scevra dai difetti , dei quali questa mia  pur troppo è ripiena , di un Filosofo e  Medico j che ha impiegati e consagrati  tutti i suoi talenti , e tutti i momenti de'  tuoi giorni a benefizio e vantaggio della  languente umanità , ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere in diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in fine illustrando ed arricchindo di uti-  lissimi riflessi e profittevoli commenti un  numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni genere di scienze e di cognizioni, siccome ne forma  una evidentissima prova il copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla memoria, de balneis, turba philosophorum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689900199/in/photolist-2mKAsyK-2mKEftR

 

Grice e Grazia – il principio di benevolenza conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo. Grice: “Grazia is important to understand Galileo, whom Italians consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about architecture – a truly Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto, dalla natia Calabria, da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli. Studia filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in nome dell'esperienza. Saggi: “Discorso sull'architettura del teatro” (Napoli: Giordano); “La scienza umana” (Napoli: Flautina); “Logica speculativa” (Napoli: Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama); “Considerazioni sopra 'l discorso di Galileo Galilei intorno alle cose che stanno su l'acqua, e che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don Carlo Medici (Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario Biografico degli Italiani. Classe- Appetito;Volere.Condizionediogni appetito è l'andarsi rinvigorendo con lareiterazione degli atti fino a rendersi dominante su gli altri appe titi. Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio acquistando maggior potere su imoti del corpo sog   3.Classe- Moloriprimitividellavolontà:Ten denzaistintivadellenostreforze all'azione;appetito istintivo del piacere nella sua triplice forma, e a v versione al dolore ; amor di sè stesso co'tre carat teri di concentrazione, di reazione, di espansione spontanea. 4.Classe- Oggetti dell'amor-proprio diconcen nale, onore esterno. Reazione dell'amor-proprio: Emo sentimento. Espansione spontanea : Benevolenza. Ilbenessereè certamente oggetto dell'amor proprio; ma nella3.classevadistinto dall'amor proprio l'appetito istintivo del piacere, e l'avversionealdo l o r e . N o n è p e r c h è a m i a m o n o i s t e s s i, c h e d e s i d e r i a m o il piacere e fuggiamo il dolore. L'amor proprio si pronunzia nel cercare imezzi per procurarci l'uno, e per sottrarci all'altro, fino a contrastare a tale uopo altriappetiti.L'appetito quindi del benessere, una delleesigenzedell'amor proprio,éprecisamentequel principio, in cui lo Stewart ha fatto consistere tutto il nostro amor proprio. Un tale appetito abituale non è  getti al suo comando, come anche su l'attenzione ri. flessiva. Seconda condizione dell'appetito è l'essere accompagnato da piacere , quando è soddisfatto ; e da dolore, quandoessendoistigato nonèsoddisfatto. È questo esclusivamente il piacere e il dolore morale. trazione:Benessere,dignità.perso IL METODO. Classe Slati diversi dell'appetito:Desiderio, o contento ; godimento , o afflizione, o rammarico ; speranza,o timore;pentiinento;disperazione. zione benevola di riconoscenza; ri   invero irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori epiaceri ,eragionee volontà,essoprevedendolecon seguenze delle sue azioni, non mancherà di formarsi u n p i a n o d i c o n d o t t a p e r e v i t a r e il dolore, p e r p r o cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito del benessere a sola mira di esibire intero nella 4. classe ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far riguardare con tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già completato il quadro de'fenomeni pri mitivi del pensiero , distinguendolo in tre categorie corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, V o lontà ; e tenendo conto delle condizioni loro comuni . Pria di progredire nel nostro divisamento, daremo fine a questo articolo con la seguente generale osser vazione. La semplicità di una classificazione di feno meni primitivi non si dee giudicare su laclassesu prema.Ilnumero de'principjignotièegualealnu mero de'fenomeni distintinellatotalità della classifica zione. Può quindi avvenire,che due classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti a s saidiversi.Se,peresempio,allaprima classe,che comprende i tre fenomeni , Sensazione, Giudizio, V o lere,sifosseanche ascrittalamemoria,esifossedi stinta nella riproduzione degli atti mentali , e nel ri. conosciinento;non sisarebbe nullacangiatouelnu Inero de'fenomeniirreducibili. Ciò nondimeno un tal cangiamento non sarebbe del tutto indifferente.Nella classificazione da noi preferita i fenomeni della prima  124 PARTE PRIMA,   IL METODO. 125 classe sono i più differenti di natura ; m a ciò che si riproduce nella memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee astratte si riproducono nella loro perfettaintegrità. Lesensazioniperdonoestremarnente di vivacità al riprodursi nella immaginazione:niente altrocangianodilorocondizioneprimitiva.E lostesso avviene nella riproduzione delle affezioni morali. La memoriaquindi,presanelsuopiùampio significato, non reca fenomeni di natura differente da que'della sensibilità , dell'intelletto, e della volontà : queste u l time facoltà somministrano materiali fra loro diffe renti , e la memoria è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la prima classe ha potuto segnalare laprima di visionedellascienzane'trerami logica,etica,este tica.Non è certamente questo un vantaggio di allo rilievo,ma nonv'eraalcunaragioneperdisprezzarlo.  Si supponga or che invece di esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in una sola lista , come è costume : sensazione , giudizio , atten zione,immaginazione, reminiscenza,analisi, sintesi, astrazione,generalizzazione...Ilnumero de'feno meni primitivi potrebbe rimanere lostesso, ma senza esservimarcataladipendenza traimedesimi.L'al tendereèproprio dell'intelletto; l'immaginazioneè una legge della sensibilità ; la reminiscenza o ricono scimento è un giudizio ; l'analisi, la sintesi , l'astra zione,lageneralizzazione....appartengono all'in telletto.Una tale dipendenza è una condizione di più nel fenomeno : è propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro esempio , se i motori della volontà si enunciassero come segue:Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione ; appetito istintivo del   126 PARTE PRIMA, piacere; appetito razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito dell'onore esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento; benevolenza ; si a v r e b b e c o m p l e t o il n u m e r o d e ' m o t o r i primitivi, ma niente apparirebbe della loro dipen denza; l'enunciazione non darebbe ultimata laloro riduzione,non siesprimerebbecompleto,perquanto a noi siscopre,ilsistema della natura pe'fenomeni della volontà. Vedulaprimordialenellericerchedellaori gineedellareuliàdellascienzaumana » 1 II. Sula ipotetica origine a priori delle idee e IL METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA.  IN QUESTO VOLUME PRIMO primitivi ..realtà delle conoscenze IV. Continuazione V. Osservazionipreliminari DI Ciò che si CONTIENE INTRODUZIONE delle conoscenze III.Siannunziano iprincipj, trattida osser . vazioni parlicolari, su la origine e Classificazionede'fenomeniprimitivi » II.Riduzione de'fenomeni particolari a' »esempio trattodalla estetica Classificazione delle scienzenell'ordinelogico VII.Metodo inventivo nelle scienze natu VIII.Metodoinventivarellascienzadelpen IX.Melodo di esposisione nelle varie X. Metododiesposizionenellascienzadelpensiero - poche idee sul metodo Utilitàinultimarleriduzioni Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL METODO PER LA SCIENZA PRIMA. CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA,  E SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Me-  todo — Esemplare classico del metodo  speculativo— Primo esemplare del me-  todo di pura osservazione. . .EL. Deviazioni del metodo nel periodo sco-  è è » a 00 a_n _d  Articolo HH. Metodo di pura osservazione nella parte  psicologica della Filosofia ortodossa. »  Articolo 1V, Progresso della osservazione analitica nel-  la Filosofia moderna, ad onta che i si-  stemi: declinassero o al sensualismo, o  al’ idealismo; Idealismo assoluto de’ discepoli di Kant—  Declinazione della osservazione anali-  tica, e rifiuto de’ suoi prodotti prece-  denti, surrogandovi una supposta per-  cezione de’.sensi, e una dimessa ma  ra soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso-detta discorsa Rassegna ci con la  seguente O'S 8 ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA SPECULATIVA. SU LA LOGICA DI HEGEL.    ‘Articolo E. Su l'identità de’ due contrarii . ... >» 4  Articolo HI. Le idee fondamentali dell’ intimo senso  Vanno snaturate in ogni panteismo . »   Articolo m. Su le categorie, e l'Idea assoluta. .. . » 2%  = vo nella scienza prima   — tende di continuo ad alterare il genui-    no valore delle idee fondamentali. SU LA FILOSOFIA SPECULATIVA. SU LA IMPOTENZA DELLA RAGIONE INDIVI-  DUALE , SECONDO IL LAMENNAIS. . » 3%  C4PO-T7-="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL cinite, SISI  L'ATTO CREATIVO, SECONDO IL Gro-  SERIE input » Sul secondo a della formola. .IN. Su Te altre parti della Formola , cioè  T Enie e l'alto creativo. .Su la Visione delle idee in Dio > indi-    pendentemente dalle altre parti della    iu DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA ODIERNA FILOSOFIA.  Articolo I. Sul concetlualismo, perenne caasa delle  deviazioni della Filosofia. . . Hi. Su i recenti proget di nuova Filosofia  OROCO: «..-_/._. cs. iu » Influenza della sacks tedesca su la Filo-  sofia del secolo . . ...... +. D 203  Articolo IV. Su le più famose obbiezioni prodotte da’  moderni contro la Teologia naturale. » 238  Articolo VW. Riassunto degli articoli precedenti e con-  seguenze per le scuole d’insegnamento. » ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME PERENNE DELL'U-  MANO INTELLETTO , SECONDO ZL ROSMINI.. » 275  Articolo Il. Su i modi dialettici adoprati dal Rosmini  nel mostrar conforme al suo sistema    la dottrina insegnata da S. Tommaso. » 314  Articolo Wl, già un anno decorso che uno dei più profondi filo sofi di questa Italiana provincia faceva da noi dipartila ! Niun periodico della capitale fra i tanti che pur trattano di futilità e di non nulla , o tutt'al piú di celebrità di teatro,fecealcunmottodilui:ilsoloOmnibus annun ziandone la grave perdita, prometteva una biografia dell'estinto:ma tale promessa insino ad ora non l'ab biamo veduta recare in atto Noi per mera carità di patria e senza pretenzione letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per come abbiamo potuti raccogliergli frugando nella nostra memoria (1). A quella regione ferace di eletti ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a Galluppi (tralasciando tanli altri illustri nomi) appartenne il nostro Filosofo, avendo avuto i natali verso il 1792 nell'antica Reazio ,oggiM e  Ahi sugli estinli Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. . 7   soraca,inProvinciadiCalabriaultra2.dabaronale ed agiatafamiglia. Passòl'infanzianellaterranatale,ima mostrato avendo svegliato ingegno, fu pensiero di un suo zio,religioso dello insigne ordine de'Teatini di con durlo in Napoli per fargli apparare belle lettere e filosofia appo que'RR.Padri. Quivi dedicandosi alacremente a talistudi,ebbe a con discepoloilfamoso ex Generale de Teatini,P.Gioacchino Ventura, che se tutti ammirano per non comune facondia , per vasto sapere ,per rettitudine ed illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a ragione desiderato continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui cominciata a p r o p u g n a r e n e g l i a n n i 1 8 4 6 e 4 7 . C o n l u i il D e G r a z i a l e g o s s i con tale intima amicizia e scambievole stima , che le m e morie di quella loro prima età insieme trascorsa, dopo tanto volgere d'anni non più cancellaronsi ,abbenchè pel diverso stato da essi prescelto, vivuto avessero quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito il De Grazia da quelle scuole,diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche ,non pure tra lasciando qnelli della filosofia , pe ' quali monstrava incli nazione grandissima. Giovane ancora militò per qualche tempo nel Genio ; m a poscia,smesso il cingolo militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de' Ponti e Stradë. Si nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai doveri della sua carica , e procacciossi giusta  -8 > 2   9  7 estimazione.Ed abbenchè per lasua indipendenza di pen samenti e per la sua modestia , non venisse adoperato come avrebbesi dovuto,pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati disegni in opere pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci di uni versale contentamento,e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere ricercato e consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione. Ma nel paese del De Grazia da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da potersi rivelare il genio artistico di un'ar chitetto;e se pure alcuna fiata qualche notevole edifizio debbesi costrurre,l'ingegnosirimanefrapastoje;perché condannato a grame proporzioni di una architettura bor ghese, od a meschine economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni incomplete,ovvero menate a compimento , ma di gran lunga variate dagli originali disegni. V e r s o l ' o t t a v o l u s t r o d i s u a e t à il D e G r a z i a , o m e t t e n d o i lavori per Ponti e Strade e smessa ogni altra cura ed applicazione, si dedicò con tutto ardore a quegli studi filosofici che fin dalla gioventù avea mostrato di molto prediligere. Frutto delle sue lucubrazioni e speculazioni filosofichefulagrave opera:Saggio sulla realtà della scienza umana ; lavoro sapiente e profondo , che in 4 volumi pubblicossi a Napoli nel 1839-43 e che verso il 1847 il Silvestri in Milano ed ilFontana a Torino voleano ristampato pe'loro tipi,ma non vedendosi incuorati da   chicchessia a tale pubblicazione , e la stampa tacendo su di un'opera di tanta mole , ne smisero il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione sul suo si stema filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne fac ciamo qui menzione ,pon sentendoci da tanto,e lasciando a'profondi pensatori un tale incarico.Solo diciamo ,ch'egli rifuggendo da'sistemi oltramontani e dallaservile imita zione, ha tutte leproprietà dell'italiano Filosofo, per q u e l l a s u a m a n i e r a d i s t u d i a r e il m o n d o e s t e r i o r e , e p e r quel pratico senno che loconducono dall'esperienza alla induzione ,per modo da congiungere sempre l'osservazione di fatto colla generalità delle idee.In ciò fare egli seguiva in gran parte le dottrine del sommo Aquinate ,gloria d’l talia e della Chiesa ; senza aver letto ancora Opera alcuna di questo santo Dottore. Per caso in confutando talune teoriche dell'altro nostro celebre italiano , l'abate Rosmini , il quale in un luogo delle sue opere ivaesponendo molte sentenze di S. Tommaso in conferma de'suoi detti,sorse vaghezza al De Grazia di leggere la somma di esso santo; e grandissimo fu il suo compiacimento in rilevare l'ac cordo delle loro dottrine in ciò che concerne ilprincipio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di ricondurre la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di rispetto e di ammirazione pel santo d'Aquino, iva seco stesso facendo le più alte maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica in questi u l timi sei secoli.  10 >   Oltre a molti altri scritti minori , pubblicati in parecchi giornali specialmentenel Progresso enel Calabrese,altra grave sua Opera è quella intitolata : Discorsi sulla Logica di Hegel e sulla Filosofia speculativa , ove adoprandosi dimostrare l'assurditàdi taleLogica,confutaque'filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene d'intede scare la filosofia italiana.  Per chi le Opere del De Grazia punto non conosce,riu. scendogli per avventura nuovo un tal nome ,potrebbe di leggieri riputare sospetti i nostri elogi, se non altro ,per troppa carità di patria : noi a renderlo persuaso del con trario, e che anzi,il lodato resta sempre al disotto delle nostre umili laudazioni , citeremo l'autorità di un giudice assai competente ed in nulla sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg Cav. Carlo Mittermaier. Questi nel suo Libro Condizioni d'Italia pubblicato nel 1846 e precisimente nella Lettera di appendice indiritta al chiaro abate Mugna , traduttore del suo libro, dopo aver parlato delle celebrità letterarie e scientifiche d'Italia , e m o strando desiderio che le opere filosofiche degl’Italiani fos sero meglio sludiate dagli stranieri ed in ispecie da'suoi connazionali , venendo a parlare di Napoli dice : « Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito umano,sempre unito a grande dovizia d'idee e ad una tendenzapratica ».Ad essoappartengonoleopere di P. Galuppi e di V. De Grazia, peculiarmente l'opera di questo:Saggio sulla realtà dellascienzaumana.Esa >   minandol’A.gliscrittide'suoipredecessori,non che de'filosofi tedeschi ed entrando in minute particolarità (peresempio vol.2.p.1.174)intornoa'varipensamenti sulla origine delle idee,seguesi con piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze pure intuitive , e c o noscenze dimostrative. « Fin qui il Mittermaier.Le parole di un tant’uomo sono più che sufficienti a testificare sul merito filosofico del nostro concittadino , ed altre singole illustritestimonianzepotremmopurqui addurre;ma le opere di lui per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza.Solo non vogliamo tralasciare di dire che fu in grand'estimazione tenuto da quell'antico uomo di stato e scienziato profondo il Conte de' Camaldoli , Francesco Ricciardi,e che ilsuo grand'emulo il Galluppi (la cui fllosofia era stata in qualche parte del De Grazia confutata perché non severamente italiana , nè in tutto da lui tro vata scevra di straniere dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà dellascienza umana , rispose:l'operaprocedemoltobene,secondo ilsistema seguito dall'autore.E qui di volo ci si permetta doman d a r e a n o i s t e s s i : c h i r a g g i u n s e p i ú il v e r o d e ' d u e c h i a r i concittadini nei loro rispettivi sistemi?chi più possedette geniocreatore?A ciòrispondiamoesserpaghidirilevare inambidueilpositivoprogressodellafilosofiaappo noi e possiamo riguardarli come continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi Calabresi Telesio e Campanella  42 > > >   che cercarono di richiamare la filosofia del secolo decimo settimo a'suoi veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria ragione ed all'esatto studio del mondo ,quale si offre alla osservazione, e sopratutto cercando di sce verare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche del tempo ; per il che ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro avversari , seguaci delle dottrine d'Aristotile , più in quanto alla forma che alla sostanza. Or nella gran serie di sistemi de' filosofi di Europa , ognuno dei quali nasce per distruggere l'anlecedente , e per essere poi a sua volta distrutto dal successivo,i sistemi seguiti da' due grandi Calabresi, Galluppi e De Grazia, sono sistemi italiani, sopratutto quello del secondo , e sopravviveranno a'posteri assai più,se non c'inganniamo,dell'eccletismo di Francia e del razionalismo puro di Germania ,ilquale u l t i m o s i s t e m a a r g u t a m e n t e il D e G r a z i a c h i a m a v a : p o e m a filosofico;abbenchède'filosofitedeschiegli faceastima grandissima,especialmentediEmanuele Kant,ch'èil primo nellaseriediquellicheformanolamodernascuola, per la mente profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i filosofi di Germania ,per maturo giudizio,fervida imaginazione,esottilissimoingegnoanalitico,ma lamen lava che il suo genio batté la via del eccletismo scettico e del dommatismo razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due inostri con cittadini,nondimeno sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di Heidelberg che nell'opera,da lui  13 >   citata e da noi di sopra più volte riferita,la penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro De Grazia abbiano richiamato la sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche del Galluppi. Eppure questi , sebbene tardi, fü almeno ricordato da quel Governo , essendo stato nominato professore di filosofia nella cattedra della universitàdegli studi di Napoli (2)e nella morte di lui fu r o n v i p u b b l i c h e e s e q u i e , e r e c i t a r o n s i f u n e b r i e l o g i ( 3 ) m a il De Grazia visse e mori ignorato! e non fu noto che alla calabraterra,chevidelonascere,edaqualche singola celebrità nostrana e straniera. Di chi la colpa ? Forse de' tempi ? del governo ? o della propria sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le suindicate cagioni. C i r c a il g o v e r n o c u i a p p a r t e n n e il D e G r a z i a , il m e r i t o non è merce cui è andato per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel tempo presente solo il pensarlo è utopia. E finalmente l'indole di lui rifuggente dallo adulare potenti,dalcercarmecenati,dalraccomandare odedicare isuoi scritti achichessia,mantenendosi sempre in dignità  Il secolo che corre: e che appellasi posilivo non ha altripensieridominanticheilcredito,> laborsa,lespe culazioni commerciali, o tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare l'ardente brama del guadagno (peste della società presente) che di continuo lo stringe ed arrovella;epperò non è secolo che occupar puotesi di filosofia.  e modestia , coltivando la scienza per abitudine contratta agli studi severi e per naturale inclinazione del suo genio inventivo e calcolatore, senza avere unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto influiscono alla fama ed a rendere popolare il nome de’loro maestri)e menando per conseguenza vita laboriosa e ritirata ; fecer si tutte le cosi fatteragionicheilnome suorimanesseignotoall'universale. Ma qui non possiamo fare a meno di non osservare che in questa epoca di generale centralizzazione governativa negli stati di reggimento assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso negato a privati di fare puranco il bene (4)o altra innocentissima cosa ,senza previa superiore autorizzazione, o sovrano beneplacito;ove nullapuossi mandare a stampa senzapreventivarevisioneecontro revisione;non rebbe uu richieder troppo da cotali governi se alla mania di voler lutto sapere ed operare aggiungessero un pò di buonavolontàedesideriodiconoscerelegrandi intelli genze , tenerne nota ed applicarle a vantaggio della n a zione. E grata cosa sarebbe riuscita al De Grazia,abbenchè dell'indole qui sopra descritta , e sempre abborrente dalla s e r v i t ù e d a l l a v a n i t à , s e il g o v e r n o i n m o d o q u a l u n q u e avessegli addimostrato di tenerloin pregio,o nominandolo professore di filosofia nella Università, dopo la morte del Galluppi, non essendovi in tutto il reame altri che più diluinefossestatodegno,omostrandogli dipregiarlo in altra guisa qualunque,ma sempre per moto spontaneo, essendo stata sua massima indeclinabile che ilmerito de  -15 > sa   vesi conoscere volenterosamente dagli altri,senza sforzo di sorta per parte propria. Sonovi però di momenti nella vita de' popoli in cui l'opinione pubblica si addimostra regina e manifestasi con tuttalapossibilespontaneità.Un talemomentosifuquando nel 1848 ilDe Grazia,non pure senza brigarlo,ma senza avervinemmeno pensalo,vide ilsuo nome con migliaia di voti sortire dalle urne elettorali, qual depulato cala brese nel Parlamento napoletano.Molto egli si compiacque per tale dimostrazione di stima e di fiducia da parte dei suoi concittadini;ed accetatone il grave mandato ,pieno di buon volere e di coraggio si parti con gli altri deputati per alla volta della capitale. Lusingavansi gli elettori suoi nella speranza di vederlo presto discendere dalle astrattezze filosofiche,alla realtà della vita politica:ma tanto non avvenné,  16 2 > Equicisipermettanoperpocotalune reminiscenze, r i a n d a n d o 'u n t e m p o , c h e g i à f u ( 5 ) p e r i l i b e r a l i o n e s t i e di buona fede che credevano alla santità ed alla osservanza di giuramenti (6) e del cui gran numero facevano parle quasituttiiliberalidelleprovincie,traqualiilDe Grazia, que' tre primi mesi, dopo il sollenne 29 Gennaio 1848, con assai più ragione di quello che uno scrittore francese diceva del suo paese nel 1830 furono giorni deliziosi,in cui la generazione nostra conobbe quell'allegrezza,quella ‘speranza, quel non so che si raro nell'umana storia che ci fa dimentichi del peso della vita. L'avvenire non più   - 17 - rappresentavasitristea'nostrisguardi,scoprivasiun'oriz. zonte sconosciuto, tutto era color di rosa,perché crede vasial progresso indefinitodell'umanità,ealcompimento insperato di tuttele promesse della filosofia moderna. Quelle notizie sempre succedentisi di libertà di popoli, di cessazione di ogni dispotismo e tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza ed autonomia di nazioni, eccede vano l'immaginazione e faceano degli uomini tanti inna morati viventi in un'atmosfera inebbrianto....... Tempi felici! e che non più ritorneranno !perocchè a tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non provegnenti nella gran maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e pura virtú) sono troppo rapidamente succedute le idee finanziarie e di materiali interessi, che stan materializ zandotuttiglispiritiedimmergendoliinunprofondo le targo daimpedirediaddarsidellalenta,ma sempreognor crescente propagazione del dispotismo; e che per sopras sello invece di farei indefinitamente progredire, ci ha fatto, e ne sta facendo precipitosamente indietreggiare (7).E cio di passaggio. Ma ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti Filosofi che hanno il coraggio del pen. sieroe non quello dell'azione.Uomo adusato da tanti anni  а star chiuso nella rocca della sua mente per dare corpo e vita a'suoi pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo delpiùsaldoproposito:ma arrivatoalcontatto della fredda realità, divenne esangue ed impallidi. Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono conce   I fatti che vide nel famoso 15 Maggio , al primo scio gliersidella Camera de'Rappresentanti della nazione, non c h e n e l t e m p o s u c c e s s i v o (d a s u p e r a r e f i n a n c o l e s u e p r e visioni e che iscusano la sua condotta inverso chi volle accagionarlo di timidità) fecero d' allora in poi addive nirlo più solitario e ritirato di prima. Lui felice ! che p o teva col pensiero allontanarsi dalla triste realtà che cir condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi della fi losofia. Fu verso quel torno che rivedemmo per l'ultima volta il'De Grazia,ilquale ci feceaperto diesser egli tuttoap plicato al compimento di un lavoro già concepito quando lesselaSomma dell'Aquinate.A questonomeglidichia rammo francamente il desiderio nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome dalle sentenze filosofiche scelte dalla S o m m a presentar volea la Filosofia di S. T o m m a s o , coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di tutte le sentenze politiche, di che ab bonda quell'aureo libro, ci facesse conoscere la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la s u prema autorità non trasmodasse in dispotismo e tirran nide, e che la macchina governativa fosse tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza della co  48 dute le improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore s'impossesso della situazione politica del momento , e m i surandone tutta la portata, promise a sé stesso di non porre piede nell'aula del Parlamento Napoletano. e   mune Patria;che simili scritti,soggiugnevamo,potrebbero serviredifrenoalpotere,affinchéne'suoiattinon de generasse in forza brutale. Al che il nostro Filosofo (cui sembravagli ancora di sentire il fragore delle artiglierie) mestamente rispose: L'eloquenza dellabocca de'cannoni fa ammutolire ogni lingua , e fa cadere la penna dalle p a ralizzatemani.E noidirimbecco:seilcannonedistrugge, la penna può e sa riedificare. Fu dunque nel 1851 che il cennato suo lavoro col litolo di:Prospetto della Filosofia Ortodossa, venne stampato in Napoli, in un volume in 8. di pagine 632. Fra le molle lodi che questo libro ebbe dalla stampa periodicadi di verse parti, furono quelle tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica (8)(anno 3. vol.10. N. 60) connostra grande maravigliaesatisfazione.Ma lamag gior lode che ridondar possa a vantaggio del De Grazia, si è, che per il primo ha cercato di far rivivere la Filo sofiadiS.Tommaso,echeilsuo pensieroè statoposcia seguito dalla Università -parigina e da parecchie di Ger : mania. Era sua intenzione comporre un'opera di Estetica ed un'altra d'Istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per esservene secondo lui, gran difetto nelle scuole : m a tale divisamento non potè mandare ad effetto: sonosi tro vati,èvero,de'manoscrittinellasuacasa,ma forte te m i a m o c h e a n d r a n n o p e r d u t i. F e r a l e m o r b o m i n a v a d a p i ù tempo isuoigiorni,edegli vide approssimare ilsuo fine con la serenità di un fanciullo e con l'impassibilità di un Filosofo ed il 22 settembre 1857 cessò di vivere.  -19   Fu ilDe Grazia di ordinaria statura e di gracile com plessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed insieme di tratti gentili, e cortesi epperò riusciva piacevole nella conversazione.Nel suo incesso vedevasi grave e pensoso come se ruminasse qualcosa col cervello,o talmente era assorto da suoi filosofici pensieri,da non por mente alle cose esteriori,e da non addarsi degli amici che passavan gli allato, se questi nol riscuotevano chiamandolo per nome.Visse sempre celibe.Lasciò un'unico nipole, erede de'suoi beni, mostrandosi pur generoso nelle ultime dis posizioni verso due suoi antichi compagni ed i suoi d o mestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di questo mondo senza che nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua tomba ; senza che nè pietra pè parola additassero ove han riposolesueceneriericordasseroilnome diluiagli avvenire ! A voi Italiani,che amate gl'illustri figli della comune sventurata patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di nazionalità, abbiamo rivolta la nostra p a rola:inscrivete,per come é debito, il nome di Vin cenzo De Grazia tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità ! Tu , illustre Mittermaier, che nel fare m e n zione in semplice lettera, de'chiari Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito filoso fico del nostro Eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal  20   21 paese ovo nacque e mori.E tu,o venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo condiscepolo, abbenché sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse ignori ch'ei non è più , in rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per quell'ingegno sdegnoso di ogni schiavitù mas sime se straniera,che co'suoi scritti fè sempre aperta guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle fonti del Cristianesimo,ciòinfluirànonpocoafarsicheilnome deltuoanticoamicosiaconto all'universale(9).Le no stre rozze e disadorne parole rassembreranno talco o mica inruvida roccia,ma levostresarannoripetutedagliechi, lontani e renderanno al virtuoso obbliato, dopo morte quel merito che in vita gli fu negato.  0 Napoli febbraio 1858.  Sopra un'amena collina distante una diecina di chilometri dal mar Ionio è situata Mesuraca,paesello che conta un due migliaia e mezzo di abitanti.Uno scrittore che sognasse,ve gliando,gl'irrevocabili portenti della Magna Grecia,nei ru deri che ingombrano il vicino monte Matonteo, crederebbe di scorgere gli avanzi di un vetusto tempio , sacro a Venere ; e nel nome tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e gli amori , fidi compagni della vezzosaDeadiAmatunta.Noi,nellanostramodestaprosa, ci contentiamo a più vicine,e più certe memorie. Egli adunque contava quindici anni meno del suo illustre compaesano,del Galluppi, ch'era nato il 1770, nella stessa provincia di Catanzaro ,in una piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto mare;e,vedi caso,era nato anche lui di casa baronale ; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo lo stemma gentilizio non fosse così ostinatamente avver so agli studi  Addi 19 febbraio 1785, in quel paesello appunto,nasceva da Marco e Laura Brondolillo quel Vincenzo De Grazia, di cui vogliamo esporre la dottrina filosofica. Nasceva di casa baronale ; ma non è quel che ci preme ;nè pare importasse neppure a lui, che aveva il buon senso di segnare a fronte de'suoilibriilproprio nome ecognome asciuttoasciutto,e senza nessun prefisso. Giovanettino ancora di soli cinque anni lascio, o meglio gli fu fatto lasciare il paese nativo, e fu condotto a Napoli ,   e quivi chiuso nel collegio di San Carlo alle mortelle, dove continuò a studiare,come sisuole,finoallaprimagioventù. Tra le poche carte,non disperse o distrutte,dalle quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita di lui, avanza una lettera del rettore di quel collegio,certo Teofilo Misa,sottoladatadel15agosto1795,concuisiraggua g l i a v a il p a d r e d e l l a b u o n a r i u s c i t a d e ' p u b b l i c i s a g g i d a t i d a i figliuoli di lui.Questa lettera giova non tanto a testimonian za del profitto; chè un baroncino , si sa, fa sempre bene ; e di fatti il buon rettore si lodava non solo di Vincenzo , m a del l'altro fratello Domenico ; quanto ad assodare la data della nascita . Eugenio Arnoni , che laboriosamente s'ingegna di scrivere lememorie dellaCalabria,lofanato il1792:seil1795 da va pubblici esami , quella data è dunque sbagliata ; e rimane accertata quella che ho trovata scritta io nel volume su la logica di Hegel , insieme con l'altra concernente la morte del De Grazia.Il volume appartiene alla famiglia del filosofo,ed iol'hopotutoavere,insieme conglialtridocumenti,perla cortese premura di Antonio Serravalle, valoroso giurecon sulto,e caldo promotore della gloria del nostro paese:qual cuno di casa vi avrà registrato certamente quelle due date. Forniti i primi studi , diessi a coltivare le matematiche, e divenne ingegnere.Ilnapoletano conquistato dalle armi fran cesi,doveva allora,per l'imitazione de'conquistatori, corre re dietro al mestiere delle armi . Il 1811 il nostro De Grazia trovavasi arruolato da sottote nente nel Genio,quando con Decreto Reale del 29 agosto di q u e l l ' a n n o , c o m u n i c a t o g l i d a l C a m p r e d o n il 1 4 s e t t e m b r e , e r a stato nominato ingegnere aspirante di Ponti e Strade. L'an no appresso,con Decreto del 22 aprile 1812,fu promosso ad ingegnere ordinario di seconda classe. Qui i documenti , che abbiamo avuto sott'occhio , finisco no;nèsappiamo,se,cessato ildecennio,eiritirossi disua  2   scelta, o se fu licenziato dal Borbone restaurato sul trono. Dal 1812 ci è forza saltare al 1838 . Il 29 giugno di quell'anno la Società Economica di Cala bria Ultra 2.a lo proponeva a socio : la nomina aveva luogo soltanto il 18 dicembre 1839. Era lentezza,o si erano incon tratiostacoli?nonsisa,efameraviglia,come diunuomo di vaglia, vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo erano molto casalinghe, che dal- la famiglia ei visse diviso , che per le vie raro si faceva v e d e r e . E d i o m i r i c o r d o , c h e a n d a t o s t u d e n t e a C a t a n z a r o il n o vembre del1852,benchè misidicesse cheilDeGraziaci fosseallora,benchèioavessidesideriodivederlo,nonmiven ne mai fatto d'imbattermegli per via. Questariservatausanza,e'lnon averemaiinsegnato,fe cero sì, che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei passasse quasi sconosciuto. Quando il Serravalle mandommi le sue carte, credevo di trovarci copiose notizie,od almeno un frequente carteggio : m'ingannai :corrispondenze non mantenne,o non conservo ; più facilmente però non mantenne,perchè non ci sarebbe sta ta ragione di conservare alcune lettere, e di distruggere le altre.Nè ciòprovenne,aparermio,danoncuranza,ma da impossibilità; correndo tempi fieramente avversi ad ogni a c comunamento degli animi,pieni di paure e di sospetti.  3 Dueotrenomine diAccademie glivennero,chenoiab biamo trovate fra le sue carte,con una certa cura custodite: una ,a socio onorario dell'Accademia Valentini di Napoli ,che avevaaprotettoreilContediSiracusa,sottoladatadel4giu gno 1842;una seconda,a socio corrispondente della R. AC cademia de'Peloritani,sotto la data del 10 ottobre 1842 ;una terza,più tarda, ma non più celebre,a socio onorario della R. Società Economica della Provincia di Cosenza, sotto la data del 9 novembre 1853 .   Ecco gli scarsi onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama ! IlMittermaier,professore dell'Università diHeidelberg, scrivevaintantoall'ab.PietroMugna,cheavevavoltatoin italianoilsuolibro sulecondizioni d'Italia,quest'onore vole giudizio sul nostro filosofo : « Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina a n a lisi dello spirito umano ,sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica.Qui appartengono le opere di Gal luppi,ediV. deGrazia,peculiarmente l'ultimadiquesto. Esaminando l'autore gli scritti de'suoipredecessori,anche de filosofi tedeschi,ed entrando in minute particolarità,(per esempio vol.II,pag.1-171)intorno a'varî pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi con piacere nel suo ingegnoso sviluppo,e si ammira la sua fina analisi (per esempio vol.II, pag . 171 ) intorno alla natura delle conoscenze pure e cono scenze dimostrative ». Così scriveva il giureconsulto tedesco il 1845 . L'opera del De Grazia,a cui egli alludeva,e che preferiva a quelle dello stesso Galluppi, era appunto il Saggio su la realtà della scienza u m a n a cominciato a pubblicare a N a poliil1839,efinitoil1842. Della importanza di quest'opera,e della mira che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente : per ora giova a v vertire, che gli stranieri avevano letto ed ammirato un libro che gl’Italiani di allora quasi ignoravano,e che i contempo r a n e i , p e r n o n f a r t o r t o ai l o r o m a g g i o r i , c o n t i n u a n o a d i g n o rare.Escludo daquestonumero ilprof.Ferri,che nelsuo SaggiosulastoriadellafilosofiainItalialoriportònelca talogo dei libri filosofici (degnazione non piccola) ; guardan dosi,beninteso,di accennarne almeno lo scopo.Forse non lo aveva letto. IlDe Grazia passava ilpiù del suo tempo a Napoli, dove il Galluppi fin dal 1831 teneva la cattedra di filosofia nella  4.   Università,ed attirava a sè la gioventù si per l'insegnamen to vivo, come per la popolarità de'suoi elementi .Al De G r a zia mancava l'una cosa e l'altra,perciò non gli riuscì di ave re seguaci. E che desiderasse farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scriveva Lorenzo Zaccaro il 3 marzo 1842 . Nel saggio medesimo da lui pubblicato le allusioni al Gallup pieranofrequenti;mavelate,esenzacitarlodinome.La fama del suo illustre concittadino turbava i suoi sonni ; ma all'emulazionenonsimescevanessunsensod'invidia,emol t o m e n o o b b l i q u e a r t i p e r s o p p i a n t a r l o . Il p r o f . P a o l o E m i l i o Tulelli anzi mi ha raccontato, che,vacando per la morte del Galluppi la cattedra della Università napolitana,al De Grazia non sarebbe stato difficile ottenerla,se l'avesse chiesta.M o stratagli questa agevolezza,eiricusò di chiederla,benchè la desiderasse,enon lonascondesse:offerta l'avrebbeaccettata; mailGovernonapoletanoparchenonlovedessedibuonoc chio . IlDe Grazia,intanto,alparidelGalluppi sieratenuto ap partato,nè si era mescolato nei rivolgimenti politici:entram bi,per usare una frase del Bonnet,s'erano fabbricato un ri tiro dentro il proprio cervello . Il Galluppi aveva visto le stra gi del 1799 ,gli spergiuri del 1821 , ed aveva continuato tran q u i l l o l e s u e m e d i t a z i o n i : il 1 8 2 0 p u b b l i c a v a , i n m e z z o a q u e l rimescolio , i suoi elementi di filosofia. Il De Grazia non a vrebbe potuto, per l'età,prender parte ai casi del 1799;a vrebbe potuto il 1821 , m a nol fece : la filosofia civile e bat tagliera era finita col patibolo di Mario Pagano ; da indi in poi,nel mezzogiorno d'Italia,prevalsero le speculazioni soli tariefattene'penetrali dellacoscienzasubbiettiva.IlGioia ed il Romagnosi scontavano nello Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno alla Statistica,ed al Dritto pubblico :nel Napoletano,tra il 1799 ed il 1848, i filosofi furono esclu sivamente psicologi. Non so se bisogna far eccezione per quel Pasquale Borrelli, che,sotto lo pseudonimo di Pirro    Il 1848 trovavasi il De Grazia avanti negli anni,dedito da quasi cinque lustri agli studi filosofici, stimato, se non cele bre ; adatto adunque a rappresentare decorosamente alla C a mera la sua provincia. Pare che questi numeri gli meritas sero isuffragî degli elettori politici,ed egli riuscì eletto con 5103 voti,terzo fra inove deputati della provincia di Catan zaro .L'esito gli fu comunicato il 7 maggio 1848 dal Presiden te Ignazio Larussa, valoroso giureconsulto ,e scelto Deputato anche lui,con queste parole: < < T a l v e r b a l e , n e l l ' e s s e r e il m a n d a t o l e g a l e d e p o t e r i a L e i conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa del le Sue eminenti virtù ». Il De Grazia però non fece a tempo di saggiarsi nella vita p o l i t i c a : il 1 5 m a g g i o , l a m a l a f e d e d e l p r i n c i p e a i u t a t a d a l l a inesperienza politica del popolo insanguinava le vie di Napoli e sgomentava naturalmente l'animo di chi era fatto per la quiete dello scrittoio,anzi che pei clamori e per le zuffe del l e p i a z z e . Il D e G r a z i a , s e n z a i n f a m i a e s e n z a l o d e ,t o r n ò a g l i studi.  6 Lallebasque,scriveva aLugano laGenealogia del pensiero, e che quivi pare balestrato da contrario e prepotente de stino. Dopo lamorte delGalluppi,contro lacuifilosofiaaveva assiduamente armeggiato nel saggio,era nel mezzodì inval saquelladelRosmini edelGioberti,ed,oltreaquesteita liane, quella straniera dell'Ilegel: i due ultimi filosofi aveva no principalmente il sopravvento . Ciò dava molestia a lui, costante e schietto sostenitore della filosofia della sperienza. Se gli era parsa incauta e sdrucciolevole quella che il M a miani chiamava la riservatissima filosofia del Galluppi,è da immaginare quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi del Gioberti e dell’Hegel. In un volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di quello del francese Lamen nais,e pubblicollo il 1850.   Pur lodando l'impresa del De Grazia,il Padula non gli dis simulava però che la critica fatta dell'Hegel e del Gioberti era scarsa al bisogno : instava, che ci tornasse sopra,e che raddoppiasse i colpi ; sollecitava da ultimo il filosofo a p u b blicare la Filosofia del pensiero, opera dal De Grazia dovu ta accennare come in via di esser composta. Quest'opera pe rò non venne , nè la critica contro all'Hegel ed al Gioberti fu rinforzata: venne bensì fuora il Prospetto di filosofia orto-, dossa , il 1851. L'autore fin dalle prime mosse era dovuto p a rere sospetto di sensualismo,e quindi pericoloso alle creden ze religiose:a lui l'appunto rincrebbe,e si risolse di scagio narsene . Divisò quindi invocare a soccorso la filosofia dell'A quinate, valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed amettere in salvo la pericolante ortodossia.IlProspetto, invero,piacquealcleronapoletano,piacqueaiGesuiti;ras sicurò l'autore medesimo,che doveva sentirsi in disagio.  VincenzoPadula,ilsolo,credo,cheleggesseallorailibri delDeGraziainCalabria,glibattevalemani daAcri,suo paesenativo.LeletteredelPadulailDeGraziaavevacon servate; gradito applauso in tanto silenzio.Il Padula però gli dipingeva iltrionfo delle idee giobertiane appresso la gioven tù calabrese, ed in una lettera segnata addi 1 del 1851 ,da Acri,gli scriveva,non senza un certo sgomento,così : « Sia comunque , l'epopea giobertiana ha sedotto molti let tori;ed io invano da due anni a questa parte mi vado adope rando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di essere chiamato bestia ». A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di risposta doveilDeGraziaraccontaleliete,enonsoseoneste,acco glienze fatte al suo ultimo libro dal Sanseverino.Ricopio le sue medesime parole: « Oltre l'articolo inserito nella Civiltà Cattolica , al quale accenna la sua pregiatissima lettera,un altro forse se ne pub blicherànelPeriodicolaScienzaelaFede.Eparmichean   8 c h e il c l e r o n a p o l i t a n o a b b i a a c c o l t o c o n f a v o r e il m i o p i c colo lavoro ;ilche io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina del regio prof. Don Gaetano Sanseverino, profes sore di filosofia nel Seminario di Napoli, il quale ha una m e r i t a t a r i p u t a z i o n e p r e s s o il c l e r o a n z i d e t t o . È b e n s ì i n d i p e n d e n t e d a t a l f a v o r e v o l e o p i n i o n e il s u f f r a g i o d e ' r e d a t t o r i d e l l a Civiltà cattolica ». Ho detto di dubitare, che queste accoglienze fossero one s t e , q u a n t o e r a n o l i e t e . Il c l e r o n a p o l e t a n o a l l o r a , e i G e s u i t i specialmentemiravano ascalzarelafilosofiadelGioberti,a denigrarla,ametterla inmalavoce.IlGiobertifilosofonon era forse la secreta n:ira de'loro strali :tiravano al filosofo per colpire l'uomo politico : guerreggiavano la costui filosofia per vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le pagine dell'illustre torinese. In quella che il Padula aveva chiamatal'epopeagiobertiana,lafilosofianonerasenonun e pisodio solo;e se gran parte de'giovani corse dietro ai pensa m e n t i d e l G i o b e r t i ,v i c o r s e s o s p i n t a d a q u e l c a l d o p a t r i o t t i s m o , onde ilfilosofo aveva saputo ravvivarli.Igiovani hanno più sicuro,che non gliuomini fatti,ilpresentimento dell'avve nire. I Gesuiti se n'erano accorti, e festeggiavano l'opera del De Grazia,perchè vi trovavano un poderoso aiuto.Non dico che il De Grazia sospettasse le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli accettava la lode, perché la credeva di buona fe de.Nell'annunzio che ne dà al Padula,e che noi abbiamo ri ferito,c'è la ingenuità, e direi quasi ilcandore di un fanciul lo che non ha pratica del mondo . Ecco ora l'intonazione dell'articolo della Civiltà cattolica : ne cito solo il primo periodo: ex ungue leonem . « Lode al cielo !Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per intedescare la filosofia italiana, intenebrandola colle lar ve di quell'Assoluto che sfuma nel vacuo del possibile,e colla nullità di una logica che teorizza la contraddizione, sorge all'estremità d'Italia , nella patria degli Archita, dei Zenoni ,    dei Campanella, dei Galluppi un ingegno sdegnoso di tale schiavitù, che tenta richiamare gli Italiani a pensamenti meno aerei spezzando gli idoli adorati oggidì dalla filosofia eterodossa, e congiungendo l'osservazione di fatto colla ge neralità delle idee ». Qui la frecciata va agli hegeliani ; e'l contrapposto fra ita lianissimi e tedescanti non poteva essere più abilmente, o più gesuiticamente messo in rilievo : non basta però a colo rire intero il disegno dell'articolista, ed ecco un 'altra frec ciata,che mira più addentro. «Oh questosì,chepotràdirsiunverorinnovamentodifi losofiaitalica!enegode l'animo dipotervaticinarealch. A. esito migliore e maggior riconoscenza per parte dei suoi concittadini , di quella che sperar possono certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali tentano di risuscitare i sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi Italiani, mentre in verità altro non sono che triste imitazioni del protestantesimo te desco,o dell'eccletismo francese. Mentre costoro per dare lo scambio agli Italiani vanno nella Magnagrecia ad invocare la Pitonessa,perchè risusciti dalla tomba iprofeti del paga nesimo,all'estremità della Magnagrecia presso la calla del cattolico Galluppi la Provvidenza fa sorgere un ingegno sin golare, che passando dalla milizia alla Scuola sembra con trapporsi al Renato ,che abbandonò la milizia per combattere la Scuola ». FinquiilGesuita.Ordunque,notoio,quandosivuolfi losofare alla tedesca , l'Italia è la patria degli Archita , e dei Zenoni,e non istà bene curvarsi a gioghi stranieri: quando poi sirisale a Pitagora,ch'era stato modello adArchita,ed allo stesso Zenone da voi indicato,ecco che questi diventano a un tratto profeti del paganesimo : potremo sapere a quali filosofi bisogna ricorrere per aver il vostro pieno beneplaci to,padre reverendo ?  -- 9 2   « La lettura della bella sua opera mi fa sentire anche più la perdita che io ho fatta;e che sarebbe per me irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in Napoli prima di ripartire per R o m a . Se in tale occasione p o tessiriceverel'onorediunasuavisita,mi stimereifelicedi conoscere il Ristoratore della filosofia ortodossa ». Mi son fermato su questi giudizî,perchè qualcuno ne ave va indotto,aver ilDe Grazia nell'ultima opera cangiato via, ed essersiaccostato alTomismo.IlDe Grazia,qui come nel Saggio,rimane saldo nella sua dottrina sperimentale: se di fetto v'ha in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle m e d e sime idee,e delle medesime parole stemperata in molti volu mi;ma cangiamenti non glisipossono imputare.Quel che si trova dippiù nel Prospetto di filosofia ortodossa è lo sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli pre messe,non indovino : era per tranquillità della propria co scienza ? era per capacitare gli altri ? era per aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione diffondere la sua dottrina ? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimase quasi sconosciuta, nè le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero allora, e forse le nocquero più tardi : successe di lei ciò ch'era succeduto di un teatro da lui disegnato,e costrui t o a C o s e n z a ; il q u a l e f u d i s f a t t o p e r i m p i a n t a r v i u n c o l l e g i o di gesuiti.  10 Ma lasciamolo làilGesuita,che non siaccorge,quanto la filosofia del De Grazia possa arrecar di nocumento alla sua fede:ilcritico non va a cercare tanto per lo sottile,e siap paga dell'autorità di san Tommaso ,e del titolo del libro:più inlànonvede.NèpiùinlàvideilP.Taparelli,contuttala fama di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro De G r a zia da Sorrento,in data del 12 agosto 1852,lo salutava,senz'al t r o , r i s t o r a t o r e d e l l a f i l o s o f i a o r t o d o s s a . Il D e G r a z i a , s a p u tolo a Napoli , era stato a fargli visita : non lo aveva trovato , e d il T a p a r e l l i , i n f o r m a t o n e , g l i a v e v a s c r i t t o c o s ì .   Meritava egli quest'obblio ? Certo che no ; e noi ci studie remo didimostrarlo,facendouna rapidaesposizionedellesue dottrine contenute ne'libri finora accennati. E primaditutto:qualieranolecondizionifilosofichedelle provincie meridionali , quando egli diessi a filosofare ? Quale fine si propose egli ? Quali mezzi aveva sotto mano ? Queste notizie sono indispensabili per valutare equamente il risulta to delle sue ricerche . Vincenzo de Grazia aveva avuto una coltura matematica ; e, come porta questa coltura, il suo spirito ne aveva attinto un bisogno di dimostrazioni rigorose,ed un'avversione alle conclusioni frettolose, ed alle sintesi arrischiate. Da parec chie testimonianze si raccoglie,ch'ei diessi alla filosofia sui quarant'anni, quando già la fantasia è manco vivace pur n e gli u o m i n i c h e p i ù n e a b b o n d a n o . E l ' e d u c a z i o n e a d u n q u e e l'età lo attiravano per quella via piana e sicura, dove un pie de va innanzi l'altro, senza intoppi, e senza bisogno di salti. Nel 1825,quando all'incirca eisimise afilosofare, ilGal luppi aveva lastricato quella via, ed additatala ai suoi con cittadini.La filosofia sperimentale era in voga. Erainvoga,ma lestavasempre difronte,temutaavver saria,quella filosofia che rivendicava all'attività dello spiri to un'attività produttrice ed indipendente, benchè sotto v a rie forme.Il Locke nel secolo diciassettesimo aveva combat tuto l'Innatismo cartesiano,ma era stato alla sua volta com battuto da Leibniz :l'Innatismo ricompariva sotto altro aspet to.Non dicogiàchelefiguresianobell'edisegnatenelmar mo,dicevaLeibniz;ma ilmarmo nonèperòliscioeschiet to,c'èuna certavenatura,che messa inrisalto siaccosta as sai alle linee che ti occorrono a figurarle. Stefano Bonnot di  11 IlDeGraziamoriaNapoliil20novembre1856,quasii gnorato : era attorno ad altri lavori , fra i quali un'Estetica, eleIstituzionidifilosofia;ma diquestimanoscrittiforsela sciati a Napoli non si è potuto avere nessuna notizia.   Condillac ripigliava l'impresa del filosofo di Wrington , e non c o n t e n t o d i d i v o l g a r l o t a l e q u a l e , c o m e a v e v a f a t t o il V o l t a i r e , lo semplificava,lo facilitava,sicchè la sola sensazione faceva a lui quell'ufficio, pel quale al Locke erano occorsi due coef ficienti : la riflessione del filosofo inglese era sbandita come soverchia.IlCondillacaveva,come suolesuccedere,comincia to con ricalcare fedelmente le orme di Locke , poi aveva ri fatto a modo suo : e la sua semplicità maravigliosa piacque in Francia più della circospetta indagine del filosofo inglese. Onde,morto luiil1780,ilsuofilosofarecontinuò,inter r o t t o a p p e n a d a l l o s t r e p i t o d e l l a r i v o l u z i o n e ,c h e t e n n e d i e t r o allasuamorte.Cessato,difatti,ilterrore del1793,l'anno appressoicondillachianiriapparveropadronidelcampo filo sofico,edebberoinmanolaScuolanormale,el'Istituto,che allora sorgeva per Decreto della Convenzione attuato dal Di rettorio.Questo gruppo detto degl'Ideologi contava nomi ce l e b r i : C a b a n i s il f i s i o l o g o d e l l a s c u o l a , T r a c y l ' i d e o l o g o p r o priamentedetto,Volney ilmoralista,Garatprofessorealla scuola normale e difensore del sistema ; e poi con loro altri che dipoi deviarono,chi più chi meno ,ma che allora stavano p e r la m e d e s i m a d o t t r i n a : il M a i n e d e B i r a n , il D e G e r a n d o , ilLa Romiguière. Nel decennio corso fra la cessazione del terrore e la fon dazionedell'Impero,dal1794 al1804,questogruppodiva lentuomini si adunava nei giardini di Auteuil, e l'amicizia deglianimi siaccoppiava ne'loro convegni allaconcordia delle dottrine . Sotto l'Impero , il cielo per loro si annuvolo . Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone teneva l'I deologia;nontuttinesannoilmotivo.Napoleonenon l'odia va tanto come dottrina,quanto come partito. IlCabanis,ilVolney,ilGarat,ilDeTracy,cheavevan visto di buon occhio il Nettuno che placava le onde tempe stose della rivoluzione, non furono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove . Gli tennero il broncio , ed ei si  12   vendicò nel rimpastare l'Istituto,scartando la sezione delle scienze morali, e destituendo l'Ideologia, secondo la frase del Damiron . Il Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonicacontro quegl'innocenti ideologhi,che poinon lameritavano davvero.All'Ideologia Napoleone imputava di scandagliare le fondamenta dello Stato col fine di scalzarle. Vera o falsa che fosse l'accusa,l'Ideologia ne scapitd, alme no perdendo la veste di filosofia ufficiale, e lo spiritualismo, chenespiavalemosse,lasoppiantonellascuolanormale, dove ilRoyer Collard l'introduceva il1811. Seguace del keid,questo eloquente filosofo seppe vincere la preoccupazio ne invalsa, che filosofare liberamente non si potesse fuori della Ideologia;e che quindi o bisognava accettare lo spirito teologico del De Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a c a p o il T r a c y . C o l R o y e r C o l l a r d l ' a l t e r n a t i v a f u e v i t a t a , e d inaugurata la nuova scuola filosofica della Francia , quella ch'è stata da indi in poi sempre al potere col Cousin ,col R é musat, col Barthélémy de Saint Hilaire, col Waddington , colSimon. In Italia lo spiritualismo ,rinfiancato dall'eccletismo cousi njano,benchè tradotto dal Galluppi,non fece fortuna: gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne scostarono per ben altra filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la filosofia del senso comune proposta dal Reid per fronteggiare lo scetticismo di Davide Hume ,ed accettata dal Royer -Collard per combattere l'Ideologia,diè da pensare agl'I talianilafilosofiatrascendentale di Emanuele Kant.IlGal luppi se ne mostrava profondo conoscitore fin dal 1819, quando incominciava la pubblicazione del Saggio su la cono scenza umana ;sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse e s p o s i z i o n i d e l V i l l e r s . P i ù t a r d i s o l t a n t o , il 1 8 2 1 , t r a d u c e v a laCriticainitalianoilMantovani;ma PirroLallebasque,il 1824,era in grado di studiarla su l'originale, come dimo stra di saper fare nella esposizione che ne dà nella sua Intro  13   duzione alla filosofia del pensiero : caso degno di nota per quel tempo, quando nè la lingua,né la filosofia tedesca era no divolgate, come oggidì, non dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa . Leduevieaperte,daindiinquà,furonoadunque,almeno p e r n o i , q u e s t e d u e : il s e n s i s m o , e d il c r i t i c i s m o . T r a q u e s t e cercava di aprirsi un varco intermedio il Galluppi ; al sensi smopropendeva ilBorrelli,alcriticismo ilColecchi.Pa squale Borrelli scriveva e stampava a Lugano, quasi con temporaneamente al Galluppi, ch'ei conosceva però soltanto di nome .Ottavio Colecchi insegnava pure in quel torno,ma le sue questioni filosofiche non furono pubblicate, se non il 1843. Che ilDe Grazia non abbia quindi conosciuto gli scritti del Colecchi , è certo ; del Borrelli si può dubitare, benchè a certi segni,che appresso additeremo, si possa credere di averne avuto sott'occhio le opere .Indubitato è però che siasi formato sul Galluppi,e che siasi prefisso di camminare su la via dischiusa dal suo gran concittadino, evitando gli svia menti ,in cui l'altro era incorso ,e tirando più dritto alla meta . Più dritto e difilato procedette in realtà;ma verso dove ? ParvealDeGraziacheilGalluppi,scambiodifondarelafi losofia della sperienza, come si era proposto, per incaute concessioni al Kantismo,era finito con darsegli in preda. Cotesto sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi libri, come nell'ultimo;primacopertamente,esenzapronunziarne ilnome,poiallasvelata.Onde amenonpiccolasorpresaha cagionato il giudizio di certi nostri storici e critici ad orec chio,iqualiconfondonoilGalluppicolDeGrazia,comese professassero la medesima dottrina. Capisco che iltitolo, c o m u n e a d e n t r a m b i , di filosofia s p e r i m e n t a l e , h a p o t u t o t r a r reinerroreiprelodatigiudici;ecompatirei losbaglio,s'ei fossero dilettanti;ma è da condannare severamente in loro, che si danno l'aria di scrivere storie e critiche, senza leg gere neppure ilibri istoriati e criticati.  14   15 TornooraalDeGrazia.Perdimostrareilprocessostori co de'due opposti avviamenti, ei ricorre alla sorgiva :rifà quindi la storia de sistemi filosofici moderni,ed ammaestra to dagli errori altrui ripropone il problema, e si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza del Galluppi è manifesta, avendo questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini fatte prima da altri sul m e d e s i m o s o g g e t t o : il D e G r a z i a t u t t a v i a r i t e s s e l a m e d e s i m a storia con altro intendimento ;perciò la sua non è ripetizione di quella fatta dal Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. II. La filosofia pel De Grazia si aggira sul problema della scien zaumana,nèpiùnémeno,chepelGalluppi:iltitolodelle due opere capitali scritte dai due filosofi calabresi accusa la medesima intenzione.Il Galluppi scriveva il Saggio plosofi co su la critica della conoscenza ; il De Grazia, il saggio su la realtà della scienza umana . Questa similitudine ha tratto in errore alcuni storiografi dafrontispizî,perchè dallaintestazionesono corsi,senz'al t r o , a d a s s e r i r e c h e il G a l l u p p i e d il D e G r a z i a p r o f e s s a n o l a medesima dottrina.Se non che,questa volta l'hanno sba gliata ; chè se il problema è lo stesso in entrambi , la solu zione è diversa non solo,ma opposta.Il De Grazia scrisse col manifesto divisamento di combattere la soluzione gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo di Mesuraca accenna a questo punto capitale del suo Saggio , ch'è la real tà della scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazio ne accettata dal filosofo di Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto dal De Grazia. IlGalluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua    Ancora non gli eran potute essere note le tre epoche di stinte da Augusto Comte , che par di non aver conosciuto n e p pure dopo,egiàeglitripartiscelastoriadellafilosofia,aun di presso,con un criterio analogo a quello del filosofo francese. Nella prima epoca la ragione,baldanzosa per inesperta gioventù,silibra a volo,e tenta costruzioni metafisiche, te nendo scarsissimo conto della scienza principale,e facendo ne quasi un'appendice delle sue fantastiche cosmogonie. Nella seconda,ella piglia per verità le mosse dal proble madelconoscere;matostoloabbandona,sedottadallame tafisica. Nella terza,la ragione rinsavita si propone chiaro il suo cômpito,ed'altronon sibriga;senon che,pur nelle solu zioni del problema conoscitivo,di quando in quando,fa capo lino ilrazionalismo. Insomma l'esosa metafisica,lo scapestrato razionalismo s o n o p e r D e G r a z i a il v e r o o s t a c o l o , c h e n o n l a s c i a p a s s a r l a vera scienza per la sua via. Alle tre epoche egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi abbozzi ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione,e de'ragionamenti d'induzione ; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a Locke ; in terrotta qua e là dai tentativi del Galilei, del Bacone,e del Des Cartes;laterzaduraancora,edènelmeglio delle sue conquiste.  16- dottrina la genesi storica del problema da lui riproposto ; e sirifàdaCartesioaquestaparte,daCartesiocheperluiè il padre della filosofia moderna .Il De Grazia risale più in su , fino ai primordî della filosofia greca , senza perder d'occhio p e r ò il p r o b l e m a d e l l a s c i e n z a . Il s u o c r i t e r i o s t o r i c o è s e m plicissimo:v'èduefilosofie,una che ritienel'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima, comechè si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza,m e ritasempreilnome dirazionalismo.   È mestieri,diceilDe Grazia,distaccardeltutto leme tafisiche speculazioni dalla scienza del pensiero,per forzar la ragione al metodo di pura osservazione ». La ragione,secondo lui, ha una tendenza precisamente contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel chetrovasidatodainduzione.È necessario adunque che la filosofia n e infreni l' i m p e t o , e n e m o d e r i la foga ; e , p e r n o n esserviriuscitaancora,lametafisica èrimastastazionaria, piena zeppa di ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. «Positivoprogresso dellafilosofiad'oggidì è quello di es sersiridottelericerchemetafisiche,cheuntempo formava no la sterile ricchezza degli scritti filosofici ». L a s t e s s a a v v e r s i o n e h a il D e G r a z i a p e r l o s p i r i t o t e o l o g i c o . « L'intervento divino nella spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello scioglimento del nodo diuna tragedia.Perocchè è ben facile espediente ilriporta re ad una causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo ricondurre alle cause naturali ». Soggiunge innotaunariserva,èvero;dichiaradinon v o l e r i m p u g n a r e i m i r a c o l i : il p u n t o p r i n c i p a l e n o n è m e n saldo però,l'esclusione loro dalla scienza. QuiilDe Grazia,siacheloconoscesse,oche s'incontras se col Comte , si mostra cosi aperto avversario dell'interven todivino,come delleipotesimetafisiche:teologia,erazio nalismo sviano dalla vera scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tresecolinelDeGrazia:fondamentodellascienzaèlasolaos servazione;e nondimeno riserva di ossequio verso l'autorità religiosa,da parte degli autori. IlDeGrazia rivolgeaifenomeni delpensiero quella os servazione, che il Telesio aveva rivolto a'fenomeni naturali. Ilmetodo ch'ei si traccia,e che si studia di seguire,è il se guente:osservare ifenomeni primitivi,ridurli finoagli ele menti irreducibili.  17 3   18 «La filosofiaintellettuale,eidice,dopoaverriconosciuto i fatti attuali di coscienza dee saggiar di risalire di riduzio ne in riduzione al fatto primitivo,alla pura veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi del pensiero a cui si fer ma?Sono tre,lasensazione,ilgiudizio,ilvolere;quindi tre parti principali della filosofia,Estetica,Logica,Etica. Lasciando di vedere se questi tre sono proprio i fenomeni irreducibili,certo è però che ilmetodo da lui seguito è pre cisamente quello tenuto dalle scienze esatte.L'autore non dissimula il bisogno da lui sentito di applicare alla filosofia ilmetodo dellematematiche,allequali s'era da prima ad detto, e dal cui studio deriva in gran parte il riscontro che si può scorgere tra la sua filosofia e quella che nel torno m e desimo si coltivava in Francia sotto il nome di filosofia po sitiva. « E p p u r e , e s c l a m a il D e G r a z i a , n o n v ' è c h i p a s s a n d o d a l la evidenza delle matematiche alle ricerche filosofiche non senta irrequieto ilbisogno di sortir fuori delle incertezze, in cui vede implicato il sistema della scienza ». Come dalla semplice osservazione lo spirito possa solle v a r s i a l l a r i d u z i o n e s c i e n t i f i c a d e ' f e n o m e n i , il D e G r a z i a d e scrive in modo molto preciso;e tale che merita esser riferi to con le sue stesse parole. « Ma l'esperienza non è l'osservazione empirica,che si arresta a'fenomeni isolati.Ilmetodo sperimentale sigiova dituttiinostrimezziperiscovrirelaconnessione de'feno meni;del ragionamento astratto,della induzione,delle spe rienze artifiziali, delle ipotesi.Con sì varî mezzi la fisica la vora alle classificazioni de'fenomeni esterni,a ridurre i fe nomeni particolari a'generali,a rilevare dal corso della na tura le sue leggi,cioè le costanti condizioni de'fenomeni,le une costanti e permanenti , le altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non mira soltanto a minorar  tuale ».   l'ignoto,che resta limitato a'fenomeni irreducibili, ma ad uno scopo più positivo,a quello diprevenir l'esperienza,e somministrar così preziosi materiali a tutte le arti ». C h i r i c o r d a il m o t t o d e l C o m t e : « s a v o i r c ' e s t p r é v o i r » r i conoscerà di leggieri il riscontro de due filosofi. Nè risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni fino all'estremo limite, affine di minorare l'ignoto . Trasportandoorailmetodotestedescritto alleinvestiga zioni filosofiche, il De Grazia procede cosi ; osserva , cioè, i fatti della coscienza,qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione risale finoaiprimielementi,ond'ellaèstata ge nerata.Eglistessoformolailsuoproblemainquesti termi ni:«coimezzichesonoinnostropotere,ritrovarlagene razione delle verità,di cui siamo in possesso ». Questo metodo ei lo chiama genealogico; e la parola ed il concetto sitrovano inun altro filosofo italiano,noto alDe Grazia,in Pasquale Borelli,che intitolò lasua filosofia,Prin cipii della genealogia delpensiero.Fino a che punto s'ac cordino nel loro intento,toccheremo appresso :qui basta n o tare,chelafilosofiavera,lafilosofiaseriapelDeGrazia co mincia con quest'analisi minuta degli elementi primi del pensiero.Dimodochè sebbene ei lodi Aristotele di aver a m messo la realtà delle idee universali,e più ancora di essersi fondato sul senso,nondimeno,poiché lo Stagirita vi arrivo quasi di lancio,e per un'affrettata generalizzazione,il n o strofilosofononripiglialaverastoriadalui.Ilprimo sag gio genealogico del pensiero sembra a lui,essere stato il Saggiosul'intellettoumano diLocke,chepure ilGalluppi chiamava immortale. QuelSaggio,cadutopoi indiscredito,ebbe una meritata rinomanza;elafamafupiùfondatadeldiscredito.La filo sofia inglese mette capo tutta quanta in esso ; la francese del secolotrascorso nederivò;allatedesca,iniziatadalKant, d i è il p r i m o u r t o p e r m e z z o d i H u m e . O g g i d i , a p p r e s s o d i n o i  19   Il principal merito del filosofo di Wrington era agli occhi del De Grazia quello di aver combattuto ad oltranza le idee innate.Ritenere tutte,o alcune idee per innate,porta ne cessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine; e quindi impedisce il progresso della filosofia, che tutta si dee travagliare attorno a questa ricerca.Cartesio e Leibniz, chesicredonodiaverleammesse,inrealtàleritenneroco me semplici disposizioni ;e fu per colpa di una improprietà dilinguaggio ses'imputòalorodiaverleaccettate.E qui dava una toccatina alGalluppi. Ma ilsistemalockiano,nelrintracciarelagenealogia del pensiero, omise moltissimi atti mentali che vi concorrono ; ed era omissione scusabile in un primo tentativo,ed in ri cerca cotanto complessa.Locke diè,per dir così,una for mola generale,allaqualeeranoapplicabilipiùvalori:Con dillac si avvisa di darle un valore preciso ; ma precisando, disvia.Locke,difatti,aveva riconosciute due sorgenti delle nostre idee,la sensazione,e la riflessione:quest'ultima non era ben definita,erauna funzione che accoglieva un po'di tutto,giudizio,astrazione,ragionamento,volontà,era in definita,siconfondeva con lacoscienza:Condillac dà un va  - 20 - sièpiùgiustiversodelmodesto,delsincero,del pazientis simo Locke ; smessi i superbi fastidî delle sintesi frettolose: al tempo che scriveva il De Grazia le invettive giobertiane erano accolte senza molti scrupoli ; ed al filosofo calabrese f u g l o r i a n o n e s s e r s e n e l a s c i a t o s m u o v e r e . Il G a l l u p p i , c o m e abbiamo visto,lo aveva pregiato assai,ma i consigli del buon vecchio cominciavano ad aver poca presa su gli animi de'giovani.Fuori d'Italia l'Herbart faceva tanta stima del Saggio lockiano,che al Consigliere Clemens,il quale lo ri chiedeva intorno alla filosofia da insegnare ne’ginnasi, riso lutamente rispondeva : dal maestro di filosofia ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che avesse letto Locke .  lore preciso , riduce tutto alla sensazione , o semplice , o t r a sformata : sentire è giudicare. IlDe Grazia,come abbiamo visto,fa della sensazione e del giudizio due fenomeni irreducibili ; egli non può dunque nè contentarsi dell'ambiguità della riflessione lockiana, ne moltomeno dellasemplicitàdellasensazionecondillachiana. All'osservazione de'fatti gli pare che il Condillac abbia sosti tuito la tortura del fare sistematico . Gran merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del giudizio,di questo fenomeno irreducibile,stato dal Con dillac confuso con la sensazione. Pel filosofo di Koenisberg gli ultimi elementi delle nostre idee sono da una parte le sensazioni,dall'altraigiudizî:idueelementi appunto che al nostro filosofo paiono indispensabili alla soluzione del p r o blemachesièproposto. Ma con questo gran merito egli imputa al Kant una gran colpa,la soggettività de’rapporti; vizio che gli sembra infet tare la filosofia contemporanea. L a s o g g e t t i v i t à d i K a n t p e r ò , e d il D e G r a z i a n e c o n v i e n e , fu una necessità storica. Locke aveva detto che tutte le n o stre idee nascono dalla sperienza,e che un'idea originale semplice non può derivare quindi da un ragionamento : H u meaccettòlepremesse,econtinuò:mal'ideadicausanon ܚ.ܝ 21- Per lui,come per d'Alembert,lafacoltà distintiva dell'es sere attivo e intelligente,è quella di poter dare un senso al la parola è:ora il Condillac questa distinzione l'ha distrutta. ; i J tà el Seelementisoggettivi,eglinota,simesconoco'dati spe rimentali,in taleipotesinon conosceremmo quel ch'è nel fattoosservato,ma quelcheciapparisce esservi;talchese spogliamo ilfattodiciòch'ènostraproprietà,lanostraco noscenza svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le ideedispazio,ditempo,disostanza,dicausa?Togliete via dunque dagli oggetti esterni e dal proprio essere siffatti ele menti;e la scienza della natura,e dello spirito è distrutta »,  22 può derivare dalla sperienza ;dunque non c'è.Cosi tutta la scienza della natura andava in aria,e Reid sirifugiò nel sen so comune ,in una credenza irresistibile,istintiva:Kant a m mise degli elementi aggiunti dall'attività dello spirito. IlDe Grazia nota con molto accorgimento,che in sostan zailsensocomune,dicuitantosicompiacciono certi filo sofi anche oggidi,non salva nulla;che per giunta è pieno di contraddizioni,perchè introduce classificazioni e distinzioni arbitrarie,mentre si era prefisso di accettare le comuni cre denzetaliqualisitrovanonellacoscienzavolgare;che tra Reid e Kant,per ciò che riguarda la realtà della scienza, nonc'èpuntodidivario. «Kantnellospiegareilfenomenolosfigura,elascia sco vrireildubbio:lascuolascozzesetieneoccultato ildubbio perchè non imprende la spiegazione del fenomeno .... È BravoilDeGrazia!Eglinonsilasciaappagaredallepa role,e civedebenaddentro;esel'haconKant,saperò rendergli giustizia,nè condannando lui,assolve quelli che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene ilbuono.Nella dottrina kantiana ei capisce subito, che non il numero degli elementi soggettivi aggiunti dallo spirito,ma l'aggiunzione sola,quanta che fosse, era sufficiente a compromettere la realtà della scienza umana . Certi nuovi critici,che in filosofia credono poter servirsi dellastadera,han detto,peresempio:ilKantammette in tuizionipure,categorie edidee,tutte apriori,ilGalluppi, invece, appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'i dentità e di diversità,dunque è lampante ch'ei sian discosti le mille miglia uno dall'altro.  sta dunque la differenza, in quanto alla realtà delle nostre conoscenze , tra il proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina della scuola di Reid !> que IlDe Grazia scrive così:«basta ilsupporre una pura ve duta dello spirito il solo rapporto d'identità e di diversità,   ·23 rapporto fondamentale delle nostre conoscenze , per ricadere nel realismo empirico del sistema kantiano ».(Saggio etc. Vol.2,pag.160 - Napoli 1839). Nè contentoacid,altroverincalzalasuaosservazione in questi termini: « M e t t i a m o o r a i n d i s p a r t e il s i s t e m a k a n t i a n o ; c a n g i a m o la sua ripartizione tra gli elementi soggettivi e gli oggettivi accordando più largamente alla sperienza ; o anche tutte le idee diciamole derivate dalla sperienza,e riteniamo bensi solamente che non sono condizioni oggettive i rapporti a n zidetti appresi tra le sensazioni ; noi ricadiamo apertamen te nel realismo empirico della filosofia critica ». (Vol. 3, p.367). Pel De Grazia il kantismo consisteva nell'applicazione di elementi soggettivi alle sensazioni:dovunque riscontra que sto medesimo processo ei riconosce ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli altri non siansi accorti di questa medesimezza. « La storia nota a stupore della posterità,che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema kantiano, e che niuno aveva avvertito, l'idealismo esser nella supposta n a tura soggettiva delle idee di rapporto ».(Vol.4,pag.512). Quale sarebbe stata la maraviglia del De Grazia,se avesse vistoche,quando ebbenotatacotestasomiglianzaloSpaven ta,controluigridaronotutteleoche,vigili sentinelledella rocca filosofica. Parve denigrazione della filosofia italiana, quella ch'era critica aggiustata e seria:parve così a coloro, iquali se ne predicavano sostenitori,quando non l'avevano studiata,e forse neppure letta. Ma torniamo al De Grazia. Ei non cita il Galluppi in tutto quanto il Saggio, se non una volta sola ; egli però scrive il libro per combattere la dottrina del suo gran concittadino,che glipareva derivata a dirittura da quella di Kant.Che però miri al Galluppi, ap    parisce da un'apposita nota,che aggiunge a pag.239 del 4° vol.delsuoSaggio. « La dottrina degli elementi soggettivi,ei dice,è stata da noi detta soggettivismo per denotarla qual vizio radicale del metodo filosofico.Puòanche dirsiformalismo,riferendosi alleformepure diKant,che sono gli elementi soggettivi. Noi abbiamo preferito finora la prima espressione per la c o n siderazione, che nelle dottrine attualmente in vigore si abbraccia l'ipotesi degli elementi soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome credono alcuni di non incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella ipotesi;noi nel combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome or generalmente adottato, quello di elementi sogget tivi.Se cifossimoinvecediretticontro ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di mira il solo sistema kantia no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal sistema serve a render più potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina degli elementi soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e si sono adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da taluni si è creduto evitare l'idealismo k a n tiano !» Pel De Grazia adunque il divario fra Kant e Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso, era più dinomeched'altro.Checosanediràilprof.Acri?checo sa ne diranno tutti quei ciarlatani grandi e piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche citano,lo mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile rivolgere nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva dire,quando scrisse a proposito del Galluppi il seguente giudizio ricavato dal De Grazia .  24 « Ma perciò che Galluppi e Kant affermano tutt'e due che questeidee(identitàediversità)sono soggettive es'accor   dano nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi sia kantia n o ? Il t u o a r g o m e n t o s a r e b b e q u e s t o n è p i ù n é m e n o : q u e l l ' a n i m a l e lì è c a n e ; q u e l l a c o s t e l l a z i o n e lì è c a n e : q u e l l o a b baia;dunque quell'altra deve pure abbaiare.Se si considera ilpensiero delGalluppi su questo argomento,quantunque non molto lucido e netto, come ha notato quel nostro De Graziadegnodimaggiorfama,sivedesubitochel'idea diidentitàhavaloreoggettivoereale,perchènasce dall'i dentità reale dell'io come cosa,non altrimenti che l'idea di unità ».(Acri,Critica etc.p.31). Quando lessi questa scappata dell'Acri,mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella esposizione del De Grazia,che sa pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano la falsità. Stando all'Acri,adunque,quel nostro De Grazia aveva notato benissimo che per Galluppi le idee di identità e di di versitàerano oggettive;chesoltantonellaespressioneave va questi mancato di lucidezza. HailprofessoreAcrilettodavveroilSaggio delDeGra zia?Iocredo,edebbocrederedino,perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro valoroso concittadino d'altro non biasimailGalluppi,pursenzacitarlodinome,che diaver accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di questi due d'identità e di diversità.  - 25 Ilprof.Acri,seavesselettoillibro,non sarebbeuscitoin quella citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che ilDe Grazia ad altro fine non scrisse,che a rilevare la medesimezza de'risultati, per rispetto alla realtà della n o stra scienza,si delle forme kantiane,come degli elementi soggettividelGalluppi.Capiscocheilprof.Acri potevafar a fidanza con l'ignoranza assoluta de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia,ma egli non doveva contare per niente,dunque,neppure isuoi contraddittori?   Padronissimo di creder lui,che que'rapporti pel Galluppi sianooggettivi,ma perchèvolertiraredallasuaancheilDe Grazia,che tuttalavitascrisseappunto per dimostrare il contrario?È un po'troppo,parmi. Finchè visse ilGalluppi,ilDe Grazia non riflni dal com batterneladottrina,congrandeinsistenzaforse,delche si scusava;ma con profondaconvinzione,edopo averne lunga mente ponderato quelli che a lui parevano inconvenienti gravissimi.Nol nominò però mai,altro che una volta sola, c o m e a b b i a m o v i s t o , e p e r l o d a r l o . M o r t o c h e f u il G a l l u p p i , scrivendo egli l'ultima sua opera col titolo di Prospetto della filosofiaortodossa,smettelaprima riserva,elocombatte no minatamente .Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli scrive cosi : « Su tutto quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina della sensazione essenzialmente percettiva, e della soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo anoistessiil far noto a'nostri cortesi lettori,che fin dal 1839 le stesse osservazioni, più estesamente sviluppate,furono fatte di ra gione pubblica, e non abbiam poi cessato di riprodurle in parte,e ripetutamente in varii articoli pubblicati in diversi giornali ».(pag.141-142). Dimodochè rimane fuori di ogni controversia, che il De Grazia ha inteso combattere la dottrina del Galluppi su la soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere questa dot trina conforme a quella di Emanuele Kant . Potrei anzi a g giungere,che la soggettività de'rapporti parve al De Grazia concedere più di quel che Kant medesimo ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi soggettivi ».(Vol.4,pag.267). Eperchèdippiù?PerchèKantlimitavaalmenoilnumero delle sue forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più largamente. Ecco le strette in cui il De Grazia pone questa filosofia.  26   «Finché siritiene,eidice,da'filosofilanatura soggetti vadelleideedirapporto,restainconcusso ilprincipio,che isensinonpossonoaltrodarcichenude sensazioni.Questo p r i n c i p i o o r o v e s c i a p e r i n t e r o il s i s t e m a s p e r i m e n t a l e , o deve ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo èilformalismoassoluto,all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure dello spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice ilformalista:tutte le nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate, dice ilsensualista».(Vol.4,pag.269-270). O Kant,oCondillac:eccoilbivio dellafilosofia,secondo il nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due soluzioni sono possibili, quando non si tien conto di tutti nostri m e z zi del conoscere.Questi mezzi sono due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un solo,importa o lasensazione tra sformata di Condillac,o ilformalismo kantiano. Formalista è dunque il Galluppi, formalista il Rosmini ; entrambi costretti ad ammettere tutt'igiudizi come sinteti ciapriori. « Se l'idea di identità fosse un elemento soggettivo,come essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il nostro giudizio sarebbe in tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto dal De Grazia non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si fermasse alla buccia delle q u e stioni;noncosìilDeGrazia,ilquale vipenetraaddentro. È una contraddizione,eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera dottrina è quella che non dipende dal la intenzione,o dalla professione di fede che fa un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che giudizi sintetici a priori non vole  27 rà; « Non si è dunque avvertito, che son due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.).   te ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello spirito. Quale dottrina contrappone ora il De Grazia a quelle del Condillac,e del Kant ? L'uno diceva : giudicare è sentire ; l'altro, seguito dal Rosmini e dal Galluppi, diceva:giudicare è a g g i u n g e r e ; il D e G r a z i a , d i s c o s t a n d o s i d a l p r i m o e d a l s e condo,dice:giudicare èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà alla funzione del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la sensazione. Né Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla percezione ; Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu sforzato ilGalluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle che vanno dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale del De Grazia . Due sbagli commette ilGalluppi,uno di confondere ilsen - timento con la coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello spi rito ».(Vol.4,pag.17). « Confondendo la coscienza della sensazione con la s e n sazione, non si sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il conoscere, il percepire col sentire, c o n fusione che essi medesimi rimproverano a'sensualisti ». (loc. cit.). Queste due confusioni erano state fatte veramente dal G a l luppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin  28 Il simile si dica della idea dell'ente, che il Rosmini a g giunge ad ogni giudizio; su la quale torneremo altra volta.   29 «Sentireilmesensitivodiunfuordime,glidiceilDe Grazia,èlapiùforzatacontrazione,che potea darsi all'e spressione del fatto di coscienza ».(Vol.4,pag.18). L'industria adoperata dal Galluppi per nascondere questi giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo, dal perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert, entrambi geometri , e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto il bisogno di spiegareilpassaggiodalmealfuordime:idueprimiave vano anzi proceduto più avanti,additando come mezzo l'in duzione;ilGalluppitagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non esservi luogo a passaggio,quando la sensa zione coglie immediatamente l'oggetto. Doppio sbaglioadunque da partedelGalluppi:primo,aver disconosciuto igiudizî primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del mondo esteriore,ilsoccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva prevenuto la dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il presupposto che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto primitivo non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi fapassareall'oggettoesterno,come,diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare una seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il Condillac ;  - ternailsentimentoelacoscienzadelme;esottoilnomedi sensihilità esterna la sensazione e la percezione . Perchèdalsentimentosivadaallacoscienza,edallasen sazioneallapercezionecivuoleilgiudizio;non ilgiudizio galluppianocheaggiungarapportisoggettivi,ma ilgiudi zio che osserva,ed osservando distingue i rapporti reali delle cose.   e della forza dell'abitudine Hume ,e della efficacia della in duzione avevano accennato il Leibniz ed il D'Alembert ! IlDe Grazia riassume e tesoreggia isaggi de'suoi prede c e s s o r i , e li c o m p i e c o s ì . associazione adunque spiega l'origine : l'induzione as sicura la realtà;come si può assicurare, beninteso, una ve rità contingente , la quale non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i quali han posto mente alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto :ma qual garantia ci porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo descritto 'da Davide Hume. Il D e G r a z i a , s c h i v a le p r i m e e le s e c o n d e difficoltà , e f o r m o l a il p r o c e s s o g e n e a l o g i c o c o s i : l ' a s s o c i a z i o n e c o m i n c i a , senza badare alla realtà;l'induzione legittima ciò che trova, senza doversi brigare del cominciamento. In siffatta guisa il nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi parziali tentatiprimadilui,licollega,liordina,licompie uno con l'altro :la sensazione e igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac ;l'osservazione, indefi nitatralemanidiLocke,edaluimeglioprecisata;lamas sima aurea del Kant :pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a rilievo da Hume;la induzione accennata da Bacone in generale,additata da Leibniz e dal D'Alembert a  scenze provvisorie. 30 La sensazione dà iprimi dati,ilgiudizio osserva i rap portichevisonocontenuti;l'associazionedelleideecifor nisce leconoscenze prime concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria ;l'induzione,più tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla tardiva comparsa d e l l a i n d u z i o n e , h a n n o o s s e r v a t o , c o m e il G a l l u p p i : m a l a i n duzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre capace.   31 proposito dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali,chealnostromodo diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due geometri filosofi, cioè al Leibniz ed al D'Alembert. La storia intanto invece di attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati sempre più alla soluzione delproblema delconoscere,ricordalemacchine artificiose de'lorosistemi,l'occasionalismo,l'armonia prestabilita,e simili deviamenti dalla salda filosofia. IlGalluppipoiagliocchisuoihailtortonon solodinon aver profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato anche al di là di quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto per obbiettivo, o percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a tutti i sensi, occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà oggettiva de gli esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: « ciò che non veggono alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettividell'oggetto esterno i no stri sensi,credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà dell'oggetto esterno ».(Vol.2,pag.254-255). IlGalluppidiffidandodituttociòche civieneinorigine per mezzo de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im mediatamente siapprende con l'atto del giudizio (pag.316). Ei non s'accorge che c'è una contraddizione manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap porti (pag.316-317). Ondechesquadrilaquestione,ilDeGraziatorna,edin siste sempre su questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve chiaro in Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive leidee,contraddicendo alla loro provenienza . Nel Galluppi rivive la tesi del concettualismo , che il n o    - 32 - stro filosofo combatte aspramente;nel Galluppi,e più anco ranelRosmini.IlDe Graziafautore del realismo,non del platonico però,spende molte pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo medioevale,e più del moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una rassegna appo sitapubblicatail1850,eidifendeSanTommaso dallataccia di concettualista, ed impugna la somiglianza che il Rosmini vuol trovare tra la sua teorica dell'ente possibile, e quella dell'Aquinate. Di questa particolare ricerca diremo appres so : continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta del De Grazia , le lacune ch'egli addita ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato attuale fu fatta maestrevolmente da K a n t : il D e G r a z i a è l a r g h i s s i m o d i l o d i a l f o n d a t o r e d e l C r i ticismo,filosofo per questo verso inarrivabile.Della origine peròilKantnon occupossi,dichiarandoaggiuntiaprioritut tiquegli elementi, di cui gli pareva arduo rintracciare la ge nerazione.Quanto sitoglieaiverimezzi diacquistar cono s c e n z e , t u t t o si a t t r i b u i s c e a d u n a s u p p o s t a o r i g i n e a p r i o r i , a questo vasto serbatoio di tutte le perdite dell'analisi . Cosi , con una similitudine arguta,ei battezza per vere lacune,per difetto di analisi ogni forma a priori. Nella stessa maniera han combattuto,dopo delDe Grazia,l'apriori ifilosofi po sitivisti.Siricasca inquesto metodo dunque,sempre che, abbandonatalagenesisperimentale,siricorre allospedien te di addizioni di forme pure;sia qualunque ilnome con cui si travestiscano . D'accordo con Kant,dice ilDe Grazia,che la conoscenza risulti dasensazioniedagiudizî;ma giudicare,perme, semplicemente osservare,e non è punto aggiungere. La ve duta èprora quando siosserva nell'oggetto,non già quando  - Ilmetodo daseguire,nelproblema dellaconoscenza,era questo:esaminare lo stato della coscienza,qual'è attualmen te;risalirealleoriginidelleideecheoravitroviamo;legit timarne la realtà.   O siaggiunge dal soggetto.Aggiuntachel'avretevoi,non è più da discorrere della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece benissimo la critica della coscienzaattuale;arrestossi per via nel rintrac ciare le origini della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè legittimare la realtà della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata con la dottrina del giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è assicu rata; se,invece,è una funzione addizionale,la realtà non si può a nessun patto legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere, perchè il De Grazia combatta con tanta insistenza la filoso fia del Galluppi,ed insieme di valutare,quanto poco la mira delDeGrazia siastatascortadaquellichenehannofinora discorso.Egli ritorna spesso su la critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata non piccola causa dell'esser passatainavvertita,perchèdileggereiseivolumidelle sue opere i più si sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua discussione si può ridurre a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatalaricercadellaumana cognizione:gliuni avevan detto col Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi soggettivi:egliavevarisposto:èfalsal'una el'altraspiega zione.Ilgiudicarenonèsentire,ma osservare;irapporti sono oggettivi,non soggettivi. Il Galluppi intanto , destreggiandosi tra le due spiegazioni , aveva di ciascuna ritenuto una parte.Pur discostandosi dal ladottrinacondillachiana,purdistinguendo ilgiudiziodal la sensazione,aveva però ammesso de'rapporti,iquali era no sentiti:tali erano il rapporto tra modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra effetto e causa. Similmente,pur promettendo divolersiappartareda Kant, pur professandosi fedele al metodo sperimentale, aveva a c  ce to B EL er EN 33 5 0   cettato due rapporti come soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e giusta critica del De Grazia aveva messo in e videnza le due capitali contraddizioni della filosofia del Gal luppi.La consapevolezza piena,profonda,ch'egli ha delle obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve lo fa insistere forse soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande perspicacia di mente nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. « L'idea di azione,di connessione,egli scrive,è idea di rapporto;eirapportisigiudicano,non sisentono.Sièdi menticato in questa occasione,che una sensazione non è più che una nostra modificazione, e per se stessa non può darci altra idea che quella di un particolar nostro modo di esistere » (Vol.4,pag.140). L'anno appresso,che ilDe Grazia finiva la pubblicazione d e l s u o S a g g i o , il 1 8 4 3 c i o è , u n d o t t o a b b r u z z e s e , O t t a v i o Colecchi,pubblicava in due volumi le sue Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica delGalluppi,muovendo da un criterio opposto a quello del nostro De Grazia,ed intanto somigliantissima nel significato. Il Colecchi segue la filosofia kantiana nel concetto fonda mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie tutte quante a quelle di sostanza e di causa;le dedu c e n o n g i à d a l l e f o r m e d e l g i u d i z i o , c o m e a v e v a f a t t o il K a n t , ma dalle anzidette nozioni di sostanza e di causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ; rifiuta lo schematismo kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e finalmen te crede , che la realtà della nostra scienza non ne sia punto compromessa . Il Colecchi adunque biasima il Galluppi d'incoerenza per averammesso alcuni rapportioggettivi,edaltrisoggettivi; senonche,invecedisoggiungerecomeilDeGrazia:dove vateritenerlituttiperoggettivi,corregge lacontraddizione  34   io galluppiana in un modo opposto,soggiungendo:dovevate ammetterli tutti per soggettivi. Tralasciando ora le modificazioni arrecate dal Colecchi allafilosofiakantiana,eraffrontandolesueobbiezioni con tro il Galluppi in ciò che s'accordano con le altre antece dentemente mosse dal nostro De Grazia,citiamo in compro va testualmente le parole del filosofo abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata somiglianza. Dopo aver egli ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e di diversità ammessa dal Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò si domanda ora:se rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che le separa da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito o no dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi » ? (Qui stionifilosofiche,vol.1,pag.197-198- Napoli1843). Potreicitarealtriluoghi,concuiilColecchinota ildi  - 35 un li ne ato 4 1 Biasima inoltre il Galluppi di aver detto che sono sogget tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi spazio,ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che sono soggettive,senza essere rapporti.   verso valore che debbono avere nella ipotesi del Galluppi le idee di identità e di diversità quando si applicano o agli o g getti dellamatematica,oaquellidellasperienza;ma usci reifuoridelmiotema.Amepremeassodarechelecontrad dizioni, in cui s'era avvolta la filosofia galluppiana per m a n co di coerenza,erano state rilevate con mirabile acume dal De Grazia e dal Colecchi. Il prof.Ferri,il quale scrisse due grossi volumi su la sto riadellafilosofiaitaliananelnostrosecolo,non trovòaltro spazio per ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che que sto,occupato dalle seguenti parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de Collecchi , Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en c o m battant Galluppi,n'ont cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la philosophie critique ».(Essais sur l'histoire etc. tom . 1, p . 334 ). Certo così il prof. Ferri non si compromette. En m o d i fiant, en combattant, sono frasi tanto diplomatiche che par c h e d i c a n o , e n o n d i c o n o . Il D e G r a z i a h a m o d i f i c a t o il G a l l u p p i ; il C o l e c c h i l ' h a c o m b a t t u t o : c i h o g u s t o : s t a b e n e ; m a c h e c o s a h a n d e t t o ? Q u e s t o è il p u n t o ; e s u q u e s t o , s i l e n zio perfetto.E poi ilDe Grazia non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure : l'avesse combattuto, qual lume si ricaverebbedaquestemezzeparole?Nonerameglioconfes sare di non averne letto sillaba ? E perchè non occuparsene? Forsechèerandamenoditantialtri?Io,peresempio,sen za far torto a nessuno , e salvo la disparità per altri riguar di,trovo più ingegno filosofico nel De Grazia e nel Colecchi, che non nelMamiani.L'ho detta grossa?Chiedo scusa a tutti quelli che ne prenderanno scandalo ;certo di aver con mecoloro,chesen'intendonodavvero;eche intendendo sene ardiscono dire il proprio parere. Del silenzio sul Colecchi il prof. Ferri si scusa quasi ,scri vendo in una nota così :  36   « Les écrits de Collecchi dispersés dans les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un seul corps il y a quelques années ». Pardon,prof.Ferri:gliscrittidelColecchi furono stam pati fin dal 1843 in due volumi,che io ho qui sul tavolo,ed hanno questaindicazione:Napoli,all'insegnadiAldoMa nuzio,CarrozzieriaMontoliveton.13,1843.Qualgirodi anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non vi bastano ? E perchè non una parola sul De Grazia , che doveva es servi noto,poichè ne registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in questo secolo ? Forse n o n e n t r a v a n e l d i s e g n o v o s t r o , c h ' e r a d i d e s c r i v e r e il p e n siero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te trovato , l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare diparzialitàloSpaventa,cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo criterio hegeliano ? Ma passiamo oltre,avvertendo soltanto,poichè siamo su q u e s t o a r g o m e n t o , c h e il c o g n o m e d e l D e G r a z i a n o n v a s c r i t toDiGrazia;echeilColecchinonvarinforzatocome l'ha rinforzatoilprof.Ferri,che loscriveCollecchi.Sarebbero minuzie, se non attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto chefuilGalluppi,ilDeGrazia,benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel combatterne le dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione. Ne'discorsi pubblicati il 1850 ei se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva preso ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale,com'erastatoilcasodelGal luppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova generazione.IlDe Grazia comprende tutti que  37   stisistemisotto un nome solo,sottoquello difilosofia spe culativa . Traquestisistemiperò,secondolavaria importanza,al cuni combatte più acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure del consenso del genere umano del La Mennais,del tradizionalismo del P. Ventura;delprimo un po'più distesa mente, perchè s'accorda col sistema del Gioberti nel rifiu tare la testimonianza e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto al P. Ventura, poco seguito aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza,nèilDeGraziaglienedàmolta. Mente severa, educata alle scienze matematiche, il De Grazia la giustizia sommaria di tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e la base solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo. la:nemo accedat,nisigeometra;igiovanettioggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E non hanno torto,perché ove si tratta di creare enti, o di manifestazioni del Dio -Cosmo, e di ispirazioni,e di intuiti,o di nuove logiche trascenden tali,non può esservi luogo pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è per tutti, come si vede, e non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i francesi,né i nostrani ;ma vediamo quali obbiezioni particolari muova a ciascuno ;e basterà ac cennarle,perchè oramai abbiamo abbastanza conosciuto il suo criterio. « Più dilettevole trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar per ogni dove un riflesso del d o m m a religioso ; che  38 Contro del La Mennais nota che la ragione umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo esiste;e quindi il c o n s e n s o u n i v e r s a l e n o n h a a l t r o v a l o r e , c h e q u e l l o d e g l ' i n dividui, da cui proviene. Con non dissimulata derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche de'fenomeni naturali per mezzo del domma.   Punzecchiando ilGioberti,siricordadelGalluppi,cheper liberarsidaognimolestiasularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni , e scrive . Le sue celie su la commodità di questi spedienti sono fre quenti;senoncheglisembra che nègl'intuiti,néleispi razioni , nè gli istinti, nè le idee inerenti allo spirito , benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano però a surrogarla pie namente . Se ilDe Grazia tralascia gl'influssi divini, cið avviene perchè il Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli appunti ch'ei muove al Gioberti.Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È ecclissato,sirepli ca,estabene;ma comeunmotivofinitobastaadecclissarlo? Il D e G r a z i a , p e r q u e s t o i n e s p l i c a b i l e e c c l i s s e , s ' i n s o s p e t  39 d'altronde doveasi toccare con più rispettoso contegno. Fino n e ' s e t t e c o l o r i d e l p r i s m a s c o r g e il t e r n a r i o , d a c h e t r e s o l i secondo l'autore sono iprincipali ». Che cosa avrebbe detto ilDe Grazia,se avesse letto la Vita di Gesù Cristo dell'abate Fornari ? Il Gioberti si studia di sostenere col ragionamento la dot trinaquasiispiratadelLaMennais:ilDeGraziarendegiu stizia al filosofo italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove. IlGioberti,perlui,escludeognianalisi delle idee,eper dispensarci dalle minute inchieste psicologiche, ci accorda l ' i m m e d i a t a v e d u t a d e l l e i d e e d i v i n e . C e r t a m e n t e , r i p i g l i a il De Grazia,eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri flesse dal lume divino su le parole, che attentarsi di rima neggiarle con profana analisi ! « P e r t o g l i e r s i d a o g n i i m p a c c i o b a s t a o g g i il d i r e : i o s e n to i corpi esterni,le mie sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia : io intuisco il creato,il creatore,el'atto creativo!»   tiscedellaesistenzadell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si passasse alla riflessione. Il p o t e r e d e l l a p a r o l a , d i c e il D e G r a z i a , è m i s t e r i o s o : n o n circoscrive l'idea,su la quale non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce la nostra facoltà intellettiva. Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti cilasciacon una virtù intellettiva in potenza , e con una riflessione a nude parole. Dove però il De Grazia va più addentro nel sistema giober tiano,è,a parer mio,nella seguente osservazione. «Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre taciuto, concernelapossibilitàdellavisioneinDio.La stessanonè solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere può vedere le idee di un altro es sere ». Questa obbiezione del De Grazia equivale a quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto dall'intuito giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica del Rosmini . Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel Saggio ; ci torna di poi nelle opere posteriori alla morte del Galluppi con più larghezza.  40 IlDe Grazia continua:vedere le idee in Dio,presuppone assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con quella di Sant'Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per ortodossa. Nel Galluppi il De Grazia aveva combattuto il concettua   l i s m o , a v e v a c o m b a t t u t o l ' a s s e r z i o n e , c h e le n o s t r e i d e e n o n siano rappresentative.A proposito del Rosmini ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si fonda su la subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro ilconcettualismo adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : « relatio nem esserem naturae ». O r q u a l d o t t r i n a s e g u e il R o s m i n i ? F o r s e q u e s t a d e l l ' A q u i nate,fondatasulpiùschiettorealismo?No;nesegueuna ambigua , e per tal ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso . « L ' e n t e i d e a l e d e l R o s m i n i , d i c e il D e G r a z i a , è b i f r o n t e ; da un lato offre l'idea universale di esistenza, dall'altro un ente esistente ». Basterebbe questa profonda osservazione, per dimostrare diquantaperspicaciafossefornitoilDe Grazia;ma egliva più in là ancora,ed addita un riscontro, che rivela la forza della sua critica. « M a , ci si dirà, qui non trattasi di una esistenza sostan ziale, o di accidenti di una sostanza, bensi di una esistenza ideale, qual può competere ad una idea.Si,ciò ricorda l'Idea di Hegel , con la differenza che questa contempla sè stessa, e l'idea universale di esistenza è l'oggetto contemplato da tutte le intelligenze, differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto allanaturadellaesistenza,l'entedelRosmi ni non è meno lucido e trasparente, che l'Idea hegeliana, perchè altro non è che l'idea di esistenza, o la possibilità  - 41 - «Sipongaormente,eglidice,cheiduepuntimessia maggiorrisaltonelnostrolibrosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». 6   42 - dell'esistenza,come lo stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi lettori ». « Se quindi si ammette una esistenza attuale e indetermi nata;attuale e non reale; se si ammette la possibilità dell'e sistenza essere un'attuale esistenza,si avrà il caso proprio di una identità de'due contrari «.(Esperimenti della filoso fiaspeculativane’sistemidelsecolocorrente -Napoli1850-- 29 Rassegna,pag.288). Ho notato in corsivo l'ultima conclusione del De Grazia, perchè il lettore rifletta su la somiglianza da lui additata tra l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando lo Spaventa, dopo del De Grazia,e senza sapere forsedelfilosofocalabrese,lecuiopere,specialmente leul time,erano rimaste sconosciute,mise in rilievo con più lar g h e z z a q u e l r i s c o n t r o , la c o s a p a r v e s t r a n a , e ci si v i d e u n o stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un criterio preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap presentanzadellafilosofiaitaliana,levarono lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler far parere la nostra filosofiaun'imitazione dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse !il Galluppi kantiano ! Il Rosmini hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi, e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi. Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che della smania divoler costruire la storiaapriori.IlDe Grazia, difatti,aveva a chiare note,e con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistemadelGalluppi;econ menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema delRosmini.Oh!come dunqueivindici,glistoriografi,i    rappresentanti dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo alRosmini. IlDe Grazia,dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente rosminiano,dopoaverbiasimatoilRosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e medesima sentenza,di averlo una voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume divinomedesimo,eidimostraugualeaccorgimento nelrile vare altri difetti. L'origine delle nostre idee è doppia,una l'idea dell'ente, l'altra lapercezionesensitiva;ma ilDe Grazia s'accorge, che la vera sorgente,l'unica sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che serve il contrarre l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo immediatamente con una sensazione ? Il participio sostituito al verbo potrà mai avere ilvalore di nascondereimoltigiudizî,chesicontengono nellaformola «enteagentesuimieisensi»? Il participio sostituito al verbo è difatti il ripiego della i d e o l o g i a r o s m i n i a n a : il D e G r a z i a l ' h a c o l t o a m a r a v i g l i a . « La percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero ? Se lo è,siavrà un pensare identico alsentire; senonloè,siavràunapercezione,allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in sensualismo, o è nulla pel nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque non si vede in che diver sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba concorre re traccia di pensiero : nè molto proficua è la ragione, che il De Grazia chiama potenza terza e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica ildato dell'intelletto ai dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma chimallevaallorala realtà ?Non l'intelletto che ha da fare col possibile ; non il senso che non può cogliere altro che nostre modificazioni.  43   « La capacità di sentire e la facoltà di percepire sono due potenze così differenti,che dee tenersi per ugual controsenso l' a t t r i b u i r e l a p e r c e z i o n e a l l a s e n s i b i l i t à , e l ' a t t r i b u i r l a s e n sazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce al senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto del Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe dirsi apocrifa ! » Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e reale. Come impugni il De Grazia le interpetrazioni date dal RosminialsistemadisanTommasovedremoaltravolta;chè tal ricerca non è semplicemente storica,e meglio si collega allaesposizione della dottrina del nostrofilosofo,ilquale altro non pretende di aver fatto,che di aver rinnovata la filosofia del sommo Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o frantesa. Venghiamo al giudizio su l'Hegel. Già pel De Grazia tutt'i sistemi nati in Germania dopo del Kant sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra gli altri, anzi a capo degli altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa de'sistemi tede schi, quanto ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pub b l i c a t o a P a r i g i il 1 8 4 4 . N o n è d a r e c a r m a r a v i g l i a a d u n q u e ,  - 44 - Al De Grazia non isfugge nessuno dei tortuosi giri dell'ideo logia rosminiana.   45 s'ei qui non possa penetrare sempre addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e coi nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini edelGioberti,benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così al De Grazia il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col non-essere. Par che baleni il sospetto di qualche alterazione al De Grazia stesso,ma tosto si ripiglia, ed afferma che « si può esser sicuro che le pro posizioni fondamentali della Logica hegeliana non valgono in tedesco più di quel che valgano in italiano o in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza veramente fa un poco a calci col metodo d'osservazione adottato dal nostro filosofo. Il quale se avesse conosciuto iltedesco, si sarebbe accorto che non trattavasi nè di movimento,nè molto meno distrofinamento. L'accusaperò,chemuove allaLogicahegelianadiessere un sistema di rapporti senza termini,è molto più fondata. SenonchenellaLogica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che relazioni anch'essi ; ma non è vero però, c h ' e i s i a n o u n m e r o n i e n t e , e c h e t u t t o il p r o c e s s o h e g e l i a no riesca al postutto ad un movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è in lui derivata dal non aver c o m p r e s o b e n e il v a l o r e d e l N i c h t - s e i n , c h e n o n e g l i s o l t a n t o , m a parecchi si sono incaponiti ad intendere per un bel nulla. Fisso in questa interpetrazione, ei continua a biasimare questo modo di far della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni realtà salda,e solo conveniente a quella fi losofia,che riduceirapportiapurevedute dellospirito.Qui,    46 . come si può scorgere,ei non vuol lasciarsi fuggir l'occasio ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto combattuta filo sofia del Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la soggettività de'rapporti e l'Idealismo trascendentale ,che poi siassolvettenell'Idealismoassoluto.IlDe Graziaconfino accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime e non sospettate conseguenze del suo principio. « Un rapporto ideale senza itermini sarebbe appreso dalla. nostramente,sesiammettesse lasupposizione,che irap porti sono pure vedute dello spirito, alle quali nulla corri sponde nelle cose ». Hegel è agli occhi del De Grazia « un elevato e perspicace p e n s a t o r e » , m a il s u o s i s t e m a è u n a p e r p e t u a i r o n i a . L a sola istruzione che se ne possa cavare è quella di capacitarsi della impotenza della filosofia speculativa a cogliere ed a spiegare la realtà. « Ecco dunque l'istruzione ch'egli (Hegel) ci dà in forme le più solenni :volete voi passare dal cerchio delle idee astrat te al mondo reale ? vi è forza porre innanzi tratto, che il reale è lo stesso che l'ideale ! In altri termini : dalle idee astratte non si può derivare la realtà; e questa massima può servir di lezione pe'tentativi,in cui con minori proporzioni, o più propiamente, con meno di purità speculativa, si voles se maneggiare ilmetodo ontologico ».  I due principii che lo informano sono l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il sistema hegeliano piglia le prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne inferisce? Q u e s t o s o l t a n t o , c h e il c o n c e t t u a l i s m o è f a l s o ; m a l a v e r a f i losofia rimane illesa dai suoi colpi. Il valore che il De Grazia attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli nol dica espressamente, di quello che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia socratica avrebbe svelato le contraddizioni della Sofistica, come l'ironia hegeliana avreb be tirato le ultime conseguenze del Concettualismo moderno .   H e g e l , s e c o n d o il g i u d i z i o d e l D e G r a z i a , a d d i t o il r i m e d i o contro le forme subbiettive di Kant ,deducendo da quelle pre messe , che dunque « i fenomeni del pensiero sono la sola v e rità assoluta », Tutta la storia della filosofia si spiega,adunque, e siran noda intorno al problema della conoscenza. Tre domande si possono fare: qual è lo stato presente della nostra coscienza ? qual è stata la sua origine ? qual è la sua realtà ? Il criterio con cui il nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è il s e g u e n t e : « c i ò c h e l a n o s t r a m e n t e v e d e i n u n f a t t o o è realmente nel fatto, o la nostra veduta è su tal riguardo il lusoria ». D a u n l a t o a d u n q u e c ' è il r e a l i s m o , a f a v o r e d e l q u a l e e g l i s i s c h i e r a ; d a l l ' a l t r o l a t o il c o n c e t t u a l i s m o , c h e p i g l i a d i v e r se forme, finchè non diventi idealismo assoluto, ossia l'iro nia hegeliana, che mette a nudo le coperte magagne de'siste mi antecedenti,Benchè ilibridelDeGraziasianopiuttostopolemiciche dottrinali,pure in essi,e nel Saggio principalmente,si scor gono le linee di una nuova soluzione del problema genealo gico delle idee.Il De Grazia fa consistere in questa soluzio ne tutta la sostanza della filosofia;m a a lui la genealogia non ha lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse probabilmente ilnome.IlBorrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi l'Herbert Spencer, studia la genesi del pensiero sotto l'aspetto fisiologico : il De Grazia si arresta ai tre fe nomeni primitivi del sentire,del pensare,e del volere,e di quivi soltanto piglia le mosse . Qual è ora per lui l'immediato,o ilfatto primitivo, sul quale riposa la filosofia sperimentale ? IlGalluppi aveva risposto :questo immediato è ilsenti mentodelmeedelfuordime;ilDeGraziarisponde:ilve roimmediatoèilsentimentodelmesolo. Questa prima discrepanza si può dire la origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. E n trambi vogliono partire dalla esperienza immediata, m a i li miti di questa immediatezza non sono tracciati al modo m e desimo . «Ilmetodo d'osservazione,dice ilDe Grazia,ciguida a    riconoscere,che ilcampo dellaimmediata percezione di fatti reali è la sola esperienza interna, ove l'oggetto è in noi , è la nostra esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m a niere di essere.Gli oggetti esterni non sono esposti alla im m e d i a t a n o s t r a p e r c e z i o n e , m a n o i li p e r c e p i a m o c o l m e z z o di più atti mentali ». Questa confusione sembra al nostro filosofo tanto più ine scusabile nel Galluppi,quanto più questi si era chiarito con trario alla tesi della sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre egli(ilGal l u p p i ) c o m b a t t e a v i v a m e n t e il p r i n c i p i o s e n s u a l i s t a , g i u d i c a r e è s e n t i r e , a b b i a p o i r i t e n u t o , c h e il s e n t i r e è u n a s p e c i e del pensare ? » Il De Grazia scorge manifesti gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita così . «Quandosiammette,chelerealtàesteriorisonodanoi sentite,e che poi l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura pri m i t i v a ; o n d e t u t t o il c a p i t a l e d e l l a e s p e r i e n z a e s t e r n a è c o stituito da ciò che sisente,e da que'rapporti,che il nostro spirito ha in pura sua seduta,ma che non sono nelle cose. Si fatte conseguenze vengono poi confermate ed ampliate con essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità interna,cioè  50 All'acume del De Grazia non isfuggi la conseguenza,che avrebbe portato il principio galluppiano. Se la realtà este rioreècoltaimmediatamente,dunque ilsentire è lostesso c h e il p e r c e p i r e ; è l o s t e s s o , c h e il p e n s a r e . G a l l u p p i s e n ' e ra aperto con molta chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne l'oggetto sentito,come ilpensare suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era dunque una specie del pensare :sentire e pensare non erano più due fenomeni primitivi, ed irredu cibili,come ilDe Grazia sostiene.   la conoscenza de'fatti interni è sensibilità. Vedesi quindi che con questi principî ilsentire non fu distinto dal pen sare ». Gli estremi , tra cui si studia di librarsi il De Grazia , son questi due:da una parte quello che raccorcia la portata del la coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre il convene vole.Chi dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e chidice:lacoscienzasiestendeallarealtàesterna,dice u gualmente cosa inesatta ;per difetto, la prima osservazione; per eccesso,la seconda. IlGalluppiammetteundoppioimmediato,ilme edilnon me;ilDeGrazianeammetteuno,ilmesolo:dondeproviene siffatto divario ? Eccolo ,con le parole stesse del De Grazia, le quali compendiano e chiariscono la dottrina galluppiana. « Il dir che partendo dalle nostre modificazioni sensibili, noi veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del m o n d o e s t e r i o r e , v a l q u a n t o il d i r c h e l o s p i r i t o u m a n o c o n i s u o i p r o p r i i e l e m e n t i c o m p o n e il m o n d o . L a f i l o s o f i a s p e r i mentale di Francia su questo punto va a coincidere con l'I dealismo di Kant ». E perchè? Perchè il Galluppi non si affidava ai giudizî per coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo lui,erano pure v e d u t e dello spirito ; d i m o d o c h é , se il m o n d o n o n ci fosse a p parso dal bel principio così,come oggi lo apprendiamo , quel lo costruito di poi sarebbe stato una mera relazione del n o stro spirito,a cui nulla sarebbe corrisposto di reale nella natura.Diffidente della sincerità de'nostri mezzi di conosce re,ilGalluppiquindiappigliossialpartito delReid,edam mise l'immediatezza della sensazione,confondendola con la percezione esterna.  51 « Si è quindi detto,osserva il De Grazia,che nel fatto io s e n t o n o n è c o n t e n u t o il p r o p r i o e s s e r e , e si è t e r m i n a t o d ' a l tra parte con dire che nel fatto io sento si contiene l'essere straniero,ilnonio».   52 IlDe Graziaritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti come reali,e quindi non alla sensazione,ma ad un pro cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi venuti abituali ed indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello stato presente le troviamo nella nostra coscienza . Esclusa dal De Grazia l'immediatezza della sensazione, non per questo ei mena buoni que'sillogismi, iquali si cre devano più spedito passaggio dalle nostre sensazioni alm o n do esterno. Il De Grazia nota che il modello di questi ragionamenti ri sale fino al nostro Campanella , il quale lo formolò così: Sia monoichemutiamo:dunquesentiamosolonoistessi,enon giàlecose.Noisentiamo lecoseesterne,soloperchécisen tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal tracosacimuta. Questo sillogismo , che , variamente rimaneggiato , è r i m a sto in sostanza il gran ponte di passaggio dal mondo interno all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro fi losofo.Le lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente colmare.Anzitutto :chi vi dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la volontà ? L'associazione delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed intanto è mutazio nenostra.Epoi,poniamochelamutazioneviadditialcun c h è d i e s t e r n o , c h i v i g a r a n t i s c e c h e il p r i n c i p i o e s t e r n o s i a un corpo ?  A taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim potente a discoprire un fatto :esso è utile soltanto a disco prire verità di ragione. Tolta l'immediatezza della sensazione,tolto il sillogismo, il D e G r a z i a t o r n a a l l e r a p p r e s e n t a z i o n i , c o m e i m m a g i n i d e l le cose esterne,ed alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle immagini,va legittimando la realtà delle immagini complesse,che l'associazione ha spontaneamente ed abitual mente formate.Non sarà una dimostrazione necessaria,ma   nelle verità di fatto non si dà mai l'assoluta impossibilità dell'opposto,e bisogna contentarsi della certezza morale. L'associazione collega insieme le immagini visive e le tat tili:igiudizîabitualicolgonoirapportiqualirealmente e sistono ;noi adunque venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con vedute subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa è stata pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa. Nell'ultima opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia ortodossa,ilnostro filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le parti fondamentali della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi arrecato, supplendo a quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to mistica.IlDeGrazianoneraabbastanzaversato nella filo s o f i a a r i s t o t e l i c a , d a a c c o r g e r s i c h e il m e g l i o d i q u e l l a , c h e ei battezzava per dottrina ortodossa,era mutuato da Aristo tele.Vediamo intanto quali principii ei ne accoglie,e ne te soreggia. Primieramente il De Grazia avverte la differenza che l’A quinate mette tra isensibili proprî,ed icomuni;differenza, che noi sappiamo appartenere ad Aristotele. Con molto acume l’Aquinate aveva avvertito di fatti che isensibili proprî sono qualità,come odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e che isensibili comuni,invece,sono quanti tà o estensiva,o intensiva,o discreta,come figure,distan ze,movimenti, successione :« sensibilia propria ... sunt qualitates : sensibilia communia omnia reducuntur ad quantitatem ». Finalmente cita la sentenza che accenna alla formazione delleimmagini corporee,echeattribuisceallospirito,enon  53 Dipoi ricorda la dottrina sui rapporti,che San Tommaso hariconosciutocomereali,comeresnaturae,enongiàco me res rationis.   giàaicorpi.«Imaginemcorporisnoncorpus inspiritu, sed ipse spiritus in seipso facit ». Alla quale ultima sentenza ilDe Grazia aggiunge questa avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare l'equivoco del le forme soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de perseveranza combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi esterni, l'idea del corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione del Galluppi, m a in questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi :tutti idati sono reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione dell'Aquinate,che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona così :dat (anima) eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque aveva tracciato le prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui ilDe Grazia si dà per continuatore: i due filosofi cadono d'accordo sui seguenti ri sultati : 1o che nel senso non v'è altro che il cangiamento del senso;2ocheleimmaginide'corpi sivan componendo con elementi nostri;3ochenoigiudichiamo,essere icorpi simili a quelle immagini. S e n o n c h e S a n T o m m a s o s ' e r a f e r m a t o q u i : il D e G r a zia ha domandato inoltre:con quali operazioni si son for mate quelle immagini ? Con qual criterio le giudichiamo si mili ai corpi esterni ? E alla prima domanda ha risposto : le operazioni sono i giudizî accoppiati alle sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le immagini tattili: giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione  54 « Quanto però egli(San Tommaso )enuncia,non lascia dub bio, che nella formazione delle immagini de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri elementi,che que'del senso e della imaginazione ».   Quando , difatti, io applico ai fenomeni della estensione le verità della geometria,e l'applicazione riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge tutta la forza della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo di logica dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme. « Se l'estensione corporea,dice ilDe Grazia,è reale, la troverò costantemente conforme alle leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà presentare nelle vo lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer mativa v'è la necessità assoluta di trovarsi avverate le ve ritàmatematiche,come sihanell'esperienza:nellaipotesi negativa,l'evento che ne dà l'esperienza, è uno degli in finiti eventi possibili. Questo cenno può far presentire, a qual grado si eleva la pruova induttiva del Leibniz,riguar dandola dal solo lato delle verità matematiche. Esposta in questi termini la mente del nostro filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti tra la sua dottrina,e quella del Galluppi. Il Galluppi aveva pareggiata la sperienza interna con l'e sterna,e quindi ammessa una doppia relazione colta imme diatamente, quella tra sostanza e modificazione, e l'altra tra causaedeffetto.IlDeGrazia,invece,distingueleidee pri  55 - si fa non per la immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per via d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz,ediD'Alembert,idue filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo e corpo !   mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che sono ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna. « Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di numero, di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le idee derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del possibile;e non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per essersi supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro dell'intelletto ». L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio essere:delle modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è la sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non sarebbe nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe u n m e z z o t r a l' e s s e r e e d il n o n e s s e r e ; il c h e è a s s u r d o .  56 Cosi dice egli parlando delle forme kantiane,e l'appun to si può volgere pure al Galluppi,che alla sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo visto, la medesima origine. Pel De Grazia la coscienza è l'lo sento,e in questo fatto permanente della propria esistenza lo spirito apprende la sostanza, come la modificazione nelle sensazioni in cui si senteesistere.Ilmododiesisterenon sipuòdispiccaredal laesistenza,edilDeGraziachiama una rivoluzione filoso fica quella avvenuta in occasione dello scetticismo di Hume , quando si cominciò ad affermare che nel fatto di coscienza v'èilsolomodo diessere,enon giàl'essere.D'allorain poi si cercò di supplire a questo difetto supposto per via di aggiunzioni provenienti da altresorgenti:così ilRosmini suppose che al fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea dell'essere.Pel De Grazia ilfatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e l'altro; se non che a cogliere questo rapporto non è attalasensazione,siveramente ilgiudizio.   Senza avere sperimentato il fatto del passaggio da una modificazione ad un'altra,noi non avremmo potuto affer marlo : dopo la sperienza però,noi essendo in un dato m o do pensiamo la tendenza di passare ad un altro; e cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no di costante gli stati successivi della sostanza. Nella originedell'idea di causa noi abbiamo bisogno di al tri dati. a Non siavverte,diceilnostro autore,chelacausa che produce le sensazioni è quella che mette in esercizio la sen sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi pensare,ma èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce ivoleri non è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi ricorda ora che a queste tre classi di fenomeni ri duce eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te cheperluiselacoscienzaporgeilmodellodellasostan za,non èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono più sostanze, di cui una determina l'altra. Nella sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata dallostatoanteriore;nellacausaessamutazione èdeter minata e dallo stato anteriore e dalla mutua azione. Il De Grazia riassume la sua dottrina su queste due idee capitali nel seguente modo . « La sostanzapersistenellasuaimmutabilenaturaal can giar delle modificazioni. Nell'ordine naturale nè possono prodursi nuove sostanze, nè leattualiannientarsi. I cangiamenti di una sostanza sono cosi connessi tra lo ro,cheinogniistanteilsuostatoèdeterminatodalsuosta to antecedente,cioè nel corso de'suoi cangiamenti ha per modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim mediato vaseguendo,equestatendenzaèquelchenoico  - 57 8   nosciamo della forza interna di una sostanza.La diversa na tura di queste forze ci viene manifestata dalla esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della sostanza.Così distinguia mo levarieforzeinternediunasostanza,elevarieforzein terne delle diverse sostanze ». « Una sostanza, che trovasi in uno stato permanente non può da sè stessa,cioè per propria forza,passare ad altro stato ». «Oltrelaconnessionetraicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una connessione tra i cangiamenti di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le medesime ». « Tutti gli avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e l'azzardo non è che l'incontro di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo incontro medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie de'cangiamenti anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che s'incon trano ». Ecco la somma della sua dottrina,la quale,intorno alla causalità specialmente, è la traduzione filosofica delle leggi delmoto diNewton.Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a ragione, non sarebbero vere leggi degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi della mutua azione. Locke intanto aveva negato l'idea di sostanza, Hume la connessione richiesta dalla mutua azione nella causalita ; entrambi per lo stesso motivo,che noi cioè non conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa.Pare al nostro au torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime ma:noinonabbiamoideaadeguata diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le ricerche,dalle quali Hume era stato indotto a questa conclusione ,la quale troncava i nervi ad ogni attività scien tifica, si possono brevemente esporre così.L'esperienza non dàconnessione,ma semplicecongiunzione:ilragionamento non dà idee nuove :l'abitudine non cangia la natura della  58   prinda percezione,come una serie di zeri è impotente a co stituire una quantità. Con lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu dichiamo appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione noi rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La spe rienza esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma con tal costanza,che noi ci avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto:noi induciamo,che questa congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacon t r a r i a s u p p o s i z i o n e , ei r i s p o n d e , i m p l i c a l ' a s s u r d o , c h e d u e sostanze con le stesse modificazioni sono condizionate ad e sercitare una mutua azione in un tempo più tosto che in altro;in un luogo più tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte quelle funzioni del pensiero,che isolate non sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau sale,intrecciateabilmente insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse diHume,lasciate correre senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a priori ; evitando con questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri aveva inferito,che ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma analiticoadirittura, come trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia riconosce che nella idea dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua causa ; dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì a tal principio.Giovaesaminarequest'ultimo aspetto della que stione .  .-59 11DeGraziareplicò:altroèilnonavereunaideaadegua ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a verne la menoma idea.Vero è inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè l'abitudine bastano da soli,ma intrecciati insieme forsebasteranno:epoisièlasciatafuordiconto l'in duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed eccocome.   Kant aveva attribuito al principio di causalità un'origine apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore ogget t i v o : il D e G r a z i a i n t e r p e t r a o g g e t t i v o n e l s e n s o d e l l a f i l o s o fiasperimentale,ed affibbiaalKant una contraddizione,che proviene da una poco esatta cognizione della Critica della Ragion pura. «Daunapartesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a priori hanno un valore oggettivo nella na tura ... Dall'altra parte si sostiene che la causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi alla nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o quella coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in universale,in ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo questa significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive appunto cosi: « N u n heisst « verknüpft sein in reinen Bewusstsein » soviel als « obiectiv verknüpft sein ». Ma di tali inesattezze fu causa non la poca penetrazione dellamente,sil'averluiignoratolalingua tedesca;ilche lo costrinse a servirsi di poco sicure traduzioni. N e l l ' e s a m e d e l m o d o , c o m e il D e G r a z i a s p i e g a l ' o r i g i n e dell'idea disostanza,equella dicausa,noi abbiamo indi cato tutto quanto il suo processo analitico nella genealo gia del pensiero,perchè la prima idea è primitiva, la se conda derivativa. Pure di altre principali toccheremo un cenno per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo testual mente la formola del suo metodo. « Pura osservazione di fatto nelle idee primitive;pura os servazione di concetti astratti nelle idee derivative ;ecco i due cardini del presente Saggio. La natura oggettiva delle idee di rapporto , e i giudizî parte integrante di alcune idee . . .  60   -61 sono ledue vedute primordialinellaquistionedellaorigine e realtà delle nostre conoscenze ». Con questo criterio ora ilnostro filosofo si fa ad esami nare ilfatto,ediquivi pervia diastrazione,ossiapervia del giudizio,attinge ogni nostra idea. Percepire ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è possibile, come percepireilnecessariovalgiudicareciòch'èneces s-ario,e percepire ilgeneraleval giudicare ciò ch'è gene r ale ». È una falsa opinione il credere che la necessità,la pos sibilità,launiversalità,come altresì laidentità,ladiversi t à non siano contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti : il giudizio non aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più. « Il nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità,con cuisioffronoleideeallanostra percezio ne:eccoquantodevesisolamentediredalfilosofo». L'infinito non è pel nostro autore,se non la quantità in finita, e la origine di questa idea è anch'essa dovuta alla e sperienza. « Partendo dal principio,che ilpositivo dee precedere il negativo nell'ordine genealogico, abbiamo conchiuso,la quantità che ha limiti dover precedere la quantità che non ha limiti;ilfinito dover precedere l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco ènelcredere,che una quantitàinfinita non ènegativa». Che sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere in se tutte le finite, è da osservare altresì ch'essa le comprende non come negazione,ma come quantità:lanegazione siri ferisce al limite. Tra quelli che San Tommaso chiamava sensibili comuni c'erano l'estensione e lasuccessione,rapporti quantitati vi,mentre isensibiliproprîeranoqualità.Oralavorando  Piùcomplicataèlagenesidelleideedispazioeditempo.   62 sopra questi due dati,vale a dire considerando come as soluta la posizione de'punti nella estensione,e degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio, nel se condo iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p a zio :in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di successione non è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi istanti ». Che cosa vuol dire questo valore assoluto ? Ecco:l'estensione consiste nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma a tutt'i punti assegnabili,siavrànonpiùunadataestensione,ma lo spa zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita. Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono ? IlDeGraziachelichiamasensibilicomuni,ritenendo la nomenclatura tomistica nel Prospetto della filosofia o r t o dossa,nel Saggio ne attribuisce l'origine non alla sensibi lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina k a n tiana delle forme pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e successione senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come diverse, o meidentiche;sicchènumero,diversità,identitàsono con dizioni dell'apprensione di questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e successione.Kant che le attribuiva alla sensibilità non si accorgeva del concorso indispensa bile dell'intelletto che vi si richiedeva ;ed anzi si contrad  CO   diceva ammettendo, che la materia sensibile prende un pri mo ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e la moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa contraddizione era stata avvertita dal Borrelli pri ma delGrazia,eforsequestil'hamutuatadall'autoredella Genealogiadelpensiero.Kant,aveva dettoilBorrelli,tie ne percategoriedell'intellettoladiversitàelamoltiplicità: e d intanto ammette una varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità: come va ciò ? Nè il Borrelli, né il De Grazia s'accorsero però che il divario tra categoria, ed intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma nel diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di giudicare nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi discoprire lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i costui sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni spiegazio n e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è nonperprodurre,maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa disposizione d'animo gliando a sanguelafilosofiadell'Aquinate,che,foggiatasul'ari stotelica, gli parve battesse la stessa via.Ripetendo l'an tico adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia,l'Aquinate procede difatti di astrazione in astrazione,ma senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che cosaèilfantasma?Similitudinedellacosaparticolare:Si militudo reiparticularis.Checosaèl'attodell'intendere? È laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna ad astrarre dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso lu me divino,sulqualetantoavevadisputatoilRosmini,seera Dio stesso,ounsuoriflesso?PelDeGrazianonèaltro,se  63 1   64 non l'effetto della attenzione, che vi si presta. Il giudicare era a lui un fatto irreducibile,da non confondere con la s e n s a z i o n e ,m a i n s i e m e e r a u n p u r o m e z z o d i o s s e r v a z i o n e . O s s e r vare adunque è la parola che compendia tutta la sua filosofia . Per questo verso la filosofia del De Grazia è più moderna di quella del Galluppi, e rasenta assai da presso il Positivis mo contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di filosofia positiva dettato da Augusto Comte fu p u b b l i c a t o i n F r a n c i a d a l 1 8 3 0 a l 1 8 4 2 : il D e G r a z i a a v r e b bepotuto averne notizia,matuttoinduce acredere,ch'ei non l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte era stata avvezza alle scien zeesatte,elapocapropensione per lespiegazioni trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. Il De Grazia al pari de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una mera riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi appli care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e rimentali,e da qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la scarsa che attribuisce al sillogismo .  Se non che all'osservazione immediata ei seppe accoppia re l'induzione,ch'è l'osservazione mediata.Della induzio ne ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli ceradunamento de'fattiosservati,ma ne estese la portata oltre ai limiti della sperienza.In questo allargamento però essa non genera nell'animo quella evidenza, che scintilla soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità di r a gione;ma una certezza morale,laquale ammette la possibi litàdell'opposto.Tutte lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello stato, ch'è pure tanto discosto dal d u b biotormentosolasciatoinereditàdạHume,ilqualedisco nobbe l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze,le quali si potrebbero cre dere imitate da Augusto Comte.   « Il metodo è il ridurre i fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più generali fino ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione viene operata a lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate osservazioni dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli incessanti rigo rosi tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu tamente irreducibile alle note forze primarie delle sostanze corporee,note però negli effetti, e per noi sempre ignote nella loro essenza ». « I nostri mezzi sono impotenti a scovrir la natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la nostra ragione nella scienza della natura è riposto nel classificare i fatti speri mentali con andarrisalendoda’fattiindividualia'generali, e da questi a'più generali fino a raggiungere ifatti primiti vi,ov'èforzal'arrestarsi». Ma allatoaquestesomiglianzetroviamonelDeGraziadei tratti, che lo differenziano dal fondatore del Positivismo francese;ne addito due come principali. Il Comte trascura affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema rimane pel De Grazia ilprimo ed il capitale. Il Comte attribuisce alla metafisica un valore storico sol t a n t o , il D e G r a z i a è p e r s u a s o c h e l a m e t a f i s i c a p o s s a r i m a nere accanto alla scienza sperimentale.Così,sebbene dichia ri inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità, l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che il tomismo stesso a lui or balena 9  65 -   va come riflesso dalla filosofia aristotelica,or come lume r a g giante dallarivelazionedivina;edellaortodossia del cre dente si faceva schermo a nascondere gli ardimenti del si losofo . Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato : eccone u n o per esempio. « Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto p r o trattiinostrigiorni,finoall'istantedirassicurarciche il nostro comunquedebolelavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate odiose imputazioni ». Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità diSanTommaso periscagionarsidellatacciad'incredulita. L o s t u d i o d i S a n T o m m a s o , e d il P r o s p e t t o d e l l a f i l o s o f i a ortodossa che ne fu ilrisultato,ebbero adunque per fine ladifesa della propriadottrina.Meglio forse avrebbe fatto a dispregiare ilvano cicaleccio delvolgo,che di ogni ri cercafilosoficas'adombraes'insospettisce;ma l'indoledel nostro filosofo era dimessa e circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto l'egida di un dottore di santa Chiesa; come se u n altrettalespedientefossegiovato alRosmini edalGioberti. Senza il bisogno di questa apologia della sua dottrina a vrebbe potuto por mano a quella Filosofia del pensiero, a cui accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi a stampa,ilsuo sistema rimane appena delineato nel prin cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni allaEstetica,oal l'Etica si trova più di un semplice accenno : la Logica stessa n o n v i è d i s t e s a p i e n a m e n t e , s e b b e n e t u t t o i'l S a g g i o n o n s i occupi di altro che di Logica. Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per lui sarebbero state la logica,l'etica,l'estetica, perchè itre fenomeni irreducibili del pensiero sono ilgiudi care,ilvolere,ilsentire.Ilsillogismo ègiudizio pure;ma  66   un giudizio fondato sopra idee astratte, mentre il giudizio primitivo è la osservazione immediata della realtà concreta . Il sillogismo è applicabile alle sole verità di ragione. La prova induttivá si adopera a slargare la cerchia della sperienza immediata :essa però presuppone la realtà delle idee di numero,identità,diversità,sostanza,modificazione, necessità,possibilità.Queste idee non si possono ricavare per induzione, altrimenti ci sarebbe un circolo:sono ricava te per astrazione dalla osservazione immediata fatta per m e z zo del giudizio. L'associazione è la sorgente spontanea,ma illegittima del le nostre idee : l'induzione dipoi legittima, confermandole , quelle relazioni,che l'associazione delleidee aveva per ipo tesi anticipato. E c c o a d u n q u e d e l i n e a t o il c o m p i t o d e l l a l o g i c a : a n a l i s i d e l senso comune ,e giustificazione delle credenze spontanee che quello contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa sappiamo,ch'egli,a differenza di El v e z i o , il q u a l e d à p e r o r i g i n a r i o il s o l o d e s i d e r i o d e l p r o p r i o utile,ammette appetiti disinteressati originalmente,non cre dendo che l'abitudine potrebbe andare fino al punto di snatu rare laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale de motivi disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra appetiti primitivameute tali. AnchequiadunqueavrebbeilDeGraziaadottatolostesso procedimento della conoscenza :lo spirito avrebbe legittima to conlaragioneciòchelanaturaspontaneamenteavessein  1 67 Prima la mente crede,perchè non ragiona ancora ;poi crede,perché laragione ha legittimato lasuacredenza.Fin chè il dubbio non l'assale,la mente riposa sicura sui nessi stretti spontaneamente dalla associazione naturale delle sue idee:quando ildubbio sottentra,la induzione ne la libera, giustificando la spontanea credenza .   origineoperato.Senon che,eglisenerimetteaquella Filo sofiadelpensiero,chepoiononscrisse,ononarrivòsino a noi. M e n o p r e c i s o è il d i s e g n o , d e l q u a l e si s a r e b b e d o v u t o t o c c a r e d e l l a E s t e t i c a . N o i s a p p i a m o s o l o , c h e il B e l l o è p e r l u i «l'oggetto della percezione,quando ci riesce piacevole il contemplarlo ». M a ,oltre a questo effetto prodotto dalla bel lezza nello spirito contemplatore,invano si cercherebbero altri schiarimenti . Nei voluminosi libri che scrisse avrebbe il De Grazia po tuto colorire intero il disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato troppo in polemiche ed in apologie,soventi superflue, e se avesse usato maggior parsimonia nello stile, ch'èdiffuso,stemperato,eridondante d'interminabiliripe tizioni. I sei volumi si sarebbero potuti restringere in un so lo,o in un paio al più,senza nessun danno per le idee che viesprime;eforseconquestoguadagnodippiù,diaverpo tuto trovare maggior numero di lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare,che il sensua lismo era la dottrina favorita de'giovani italiani, pria di comparire il Saggio su la critica della conoscenza,ilche av venne nel 1819;e che in parte con la forza del ragionamen to,einparteconquellaautoritàcheilnostroGalluppi ven ne mano mano acquistando pel valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti giovanili,ed avviarle a'sani principi della morale e della religione.Quindi le sue istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del Saggio,furono adottate per quasi tutte le scuole d'inse gnamento in Italia.Un tal positivo giovamento recato alla  68 Il De Grazia combatté la filosofia del Galluppi, finché que sti viveva e professava nella Università napoletana : la c o m battè perchè la credette sbagliata e perniziosa. Morto che fu ilsuo grande avversario,ei,pur rimanendo saldo nella sua sentenza , scrisse di lui queste parole .   sua patria è la gloria maggiore cui aspirar mai si possa da un filosofo». C o s ì il D e G r a z i a g i u d i c a v a il G a l l u p p i m o r t o n e l P r o s p e t to di filosofia ortodossa ; ed il giudizio ci rivela il carattere integro,leale,generoso di chi lo portava.Combattendo le dottrine di un avversario,ei rispetto,ei lodò le intenzioni ; ei non disconobbe l'utilità che aveva arrecato al suo paese . Talvolta anzi ei par che non agogni,che non cerchi altra gloria, che quella conseguita dal suo valoroso avversario: dispera quasi di conseguirla vivo,pur se l'augura dopo m o r to,non tanto per sè,quanto a pro della sua patria. «Esenonpuògodernechil'hameritata,purquestatar dagloriasiriflettesulasuapatria,servedisprone a'suoi concittadini sopra tutto,nella faticosa carriera letteraria, e riesce di nobile compiacenza per tutti gli spiriti fatti per a m mirare,per amar lavirtù ». Chi scriveva queste magnanime parole ebbe certamente un cuorenonminoredellamente,elatardagloriadaluiinvo cata è un tributo ben meritato da chi non stimolato da biso gno,nonallettatodapremio,passòlavita,non fragliagi ereditati,manellafaticosapalestradellostudio,dove s'in vecchia e simuore anzi tempo,ma dove siha almeno ildrit todicredereche,morendo,nonsimuoredeltutto.Vincenzo Di Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grazia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689392211/in/photolist-2mRigWB-2mR7Xaf-2mQCyu5-2mQwYd8-2mPGkBm-2mPsU62-2mPvn8a-2mPmmR4-2mNzeEc-2mN8Hgb-2mLGvyP-2mLQxu7-2mPrdWj-2mLExs3-2mPtp3t-2mKS7Wc-2mKBDtr-2mKG3XG-2mPpVqK-2mKCnei-2mKEPgR-2mKjsJY-2mJ3q6x-2mGnP2f-nUmNhz-hSTpSd-nW9LZ2

 

Grice e Gregory – implicature clandestine – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo.  Fellow of the British Academy. Grice: “I like Gregory; being a Roman, he studied Roman philosophy in one of the most interesting epochs: the thirties! Then he explored what he calls the ‘lessico filosofico,’ which Austin detested – “Why do we need the philosopheer’s ‘volition’ when we have ‘would’??” Si laurea a Roma con Nardi. Insegna a Roma. Direttore di Ricerche storico-filosofiche. Direttore della sezione di Storia della filosofia Lessico Italiano. Diresse la collana "I filosofi.” Saggi:“Anima mundi” (Firenze, Sansoni); “Platonismo” (Roma); “Scetticismo ed empirismo” (Bari, Laterza); “L'idea di natura”, “La filosofia della natura  (Passo della Mendola, Firenze, Sansoni); “L’atomismo”, “Aristotelismo” “Il genio maligno”; “Il demonio maligno”; “Mundana sapiential”; “Theophrastus redivivus”; “Erudizione e ateismo” (Napoli, Morano); “Il libertinismo”; “La filosofia clandestina” (Firenze, La Nuova Italia), “L’Etica della critica libertina” (Napoli, Guida); “Forme di conoscenza” (Roma, EStoria e Letteratura); “Lo spazio come geografia del sacro” Della sobria ebbrezza”; “La terminologia filosofica” (Firenze, Olschki); “Speculum natural” (Roma, Storia e Letteratura); “Principe di questo mondo”; “Il diavolo” (Roma, Laterza); “Della modernità, Pisa, Torre); “Vie della modernità” (Firenze, Monnier Università). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A. ALIOTTA, A. CAPITINI, P. CARABELLESE ETC., Il problema di Dio, a cura di G. Savio e Tullio Gregory, Roma, Universale di Roma, Raccolta di un ciclo di conferenze promosse dal Centro Romano Studi presso l’Università degli Studi di Roma nell’A.A. BRUNO NARDI, Storia della filosofia. Il naturalismo del Rinascimento, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni Universitarie, 1949, 191 pp.  2  Bibliografia di Tullio Gregory – 1951 torna su 1951 esci 3. BRUNO NARDI, La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 95 pp. 4. BRUNO NARDI, Il problema di Dio nella filosofia medioevale, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 88 pp. 5. Sull’attribuzione a Guglielmo di Conches di un rimaneggiamento della “Philosophia mundi”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp. 119-125. 6. L’Anima mundi nella filosofia del XII secolo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp. 494-508.      3  Bibliografia di Tullio Gregory – 1952 torna su 1952 esci 7. BRUNO NARDI, Le meditazioni di Cartesio, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1952, 51 pp. 8. L’idea della natura nella Scuola di Chartres, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXI, 1952, pp. 433-442. 9. Cattolicesimo e storicismo. La polemica sulla «nuova teologia», «Rassegna di filosofia», I, 1952, pp. 49-66. 10. Gli studi italiani sul pensiero del Rinascimento, I. La polemica sul Rinascimento, «Rassegna di filosofia», I, BRUNO NARDI, Il dualismo cartesiano, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1953, 48 pp. 12. Note sul platonismo della Scuola di Chartres. La dottrina delle specie native, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXII, 1953, pp. 358-362. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18) e Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23). 13. Gli studi italiani sul pensiero del Rinascimento, II. Platonismo e Aristotelismo, «Rassegna di filosofia», BRUNO NARDI, La filosofia di Dante, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1954. La pubblicazione è in due volumi, il primo di 111 pp. e il secondo di 109 pp. 15. L’escatologia cristiana nell’Aristotelismo latino del XIII secolo, «Ricerche di storia religiosa», I, 1954, pp. 108-119.   6  Bibliografia di Tullio Gregory – 1955 torna su 1955 esci 16. “Anima mundi”. La filosofia di Guglielmo di Conches e la Scuola di Chartres, Firenze, Sansoni, 1955,·(«Pubblicazioni dell'Istituto di filosofia dell'Università di Roma», 3), 294 pp. Indice del volume: I. La vita e le opere di Guglielmo di Conches, p. 1; II. La teologia, p. 41; III. L’anima del mondo e l’anima individuale, p. 123; IV. L’idea di natura, p. 175; V. Gli ideali culturali della Scuola di Chartres, p. 247; Indice dei manoscritti, p. 281; Indice dei nomi, p. 285. 17. L’Apologia e le “Declarationes” di Francesco Patrizi, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, I, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 385-424. 18. Note e testi per la storia del platonismo medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIV, 1955, pp. 346-384. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Nuove note sul platonismo medievaleIl maestro interiore nel pensiero di S. Agostino, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia»), pp. 3-19. Si veda anche il 1965, n. 44. 20. Il «De magistro» di S. Tommaso d’Aquino, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 183-201. Si veda anche il 1965, n. 44. 21. La «reductio artium» da Cassiodoro a S. Bonaventura, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine-Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 279-301. 22. Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, a cura di Antonio Viscardi, Bruno e Tilde Nardi, Giuseppe Vidossi, Felice Arese, con la collaborazione di Gian Luigi Barni, Luigi Brusotti, Don Giuseppe De Luca, Tullio Gregory, Luigi Ronga, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956 («La letteratura italiana. Storia e testi», I), LXXI-1237 pp. I capitoli in cui Tullio Gregory ha curato la nota introduttiva e/o le traduzioni sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum (traduzione), pp. 362-365; Lanfranco da Pavia (nota introduttiva e traduzioni), pp. 420-434; Sant’Anselmo di Aosta (nota introduttiva e traduzioni), pp. 435-470; Gioacchino da Fiore (nota introduttiva), pp. 723-725. Il volume è stato successivamente ristampato da Einaudi (si veda 1977, n. 76 e n. 77).     8  Bibliografia di Tullio Gregory – 1957 torna su 1957 esci 23. Nuove note sul platonismo medievale. Dall’anima mundi all’idea di natura, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXVI, 1957, pp. 37-55. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Note e testi per la storia del platonismo medievale Platonismo medievale. Studi e ricerche, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1958 («Studi storici dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 26/27), 159 pp. Indice del volume: I. Il commento a Boezio di Adalboldo di Utrecht, p. 1; II. L’Opusculum contra Wolfelmum e la polemica antiplatonica di Manegoldo di Lautenbach, p. 17; III. La dottrina del peccato originale e il realismo platonico: Odone di Tournai, p. 31; IV. Il Timeo e i problemi del platonismo medievale, p. 53; Indice dei manoscritti, p. 153; Indice dei nomi, p. 155. Per la traduzione tedesca del secondo capitolo si veda 1969, n. 58. Nel quarto capitolo sono raccolti, corretti e aumentati, i saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12); Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18); Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23), tutti pubblicati sul «Giornale critico della filosofia italiana». 25. Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXVII, 1958, pp. 319-332. Con revisioni e aggiunte è diventato il primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi La polemica antimetafisica di Gassendi. I, «Rivista critica di storia della filosofia», XIV, 1959, pp. 131-161. Per la seconda parte si veda 1959, n. 27. 27. La polemica antimetafisica di Gassendi. II, «Rivista critica di storia della filosofia», XIV, 1959, pp. 243-282. Per la prima parte si veda 1959, n. 26. Entrambi i contributi sono stati stampati, con numerazione continua, in un estratto unico: Tullio Gregory, La polemica antimetafisica di Gassendi, Firenze, La Nuova Italia Editrice, Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIX, 1960, pp. 237-252. Con modificazioni e aggiunte è diventato il secondo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari, Laterza, 1961 («Biblioteca di Cultura Moderna», 557), 254 pp. Indice del volume: I. La polemica antimetafisica, p. 5; II. Scetticismo ed empirismo, p. 119; III. Empirismo e metafisica, p. 179. 30. L’opera di Bruno Nardi, «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», II, 1961, pp. 31-52. 31. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XL, 1961, pp. 163-174. Testo presentato al Convegno “L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo” e pubblicato negli atti (si veda 1962, n. 33). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 32. Platone e Aristotele nello “Speculum” di Enrico Bate di Malines. Note in margine a una recente edizione, «Studi medievali», s. III, III, 1961, pp. 302- 319.      13  Bibliografia di Tullio Gregory – 1962 torna su 1962 esci 33. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo, atti del 3° Convegno del Centro di Studi sulla Spiritualità medievale (Todi, 16-19 ottobre 1960), Todi, Accademia Tudertina, 1962, pp. 263-282. Apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1961, n. 31). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 34. Per i sessant’anni della Casa Laterza, «Belfagor», XVII, 1962, pp. 701-713. Testo della conferenza tenuta in occasione dell’inaugurazione della Mostra storica della Casa Editrice Laterza, a Roma, il 7 aprile 1962. 35. Discussioni sulla doppia verità, «Cultura e scuola», Giovanni Scoto Eriugena: tre studi, Firenze, Le Monnier, 1963 («Quaderni di letteratura e d'arte», 21), 82 pp. Indice del volume: I. Dall’uno al molteplice, p. 1; II. Mediazione e incarnazione, p. 27; III. «Contemplatio teologica» e storia sacra, p. 58. Il primo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena (si veda 1958, n. 25). Per una traduzione tedesca del primo capitolo si veda 1969, n. 57. Il secondo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena (si veda 1960, n. 28), entrambi apparsi sul «Giornale critico della filosofia italiana». Diventano i primi tre capitoli del volume Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224) 37. Note sulla dottrina delle «teofanie» in Giovanni Scoto Eriugena, «Studi medievali»i 38. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, Firenze, Sansoni Editore, 1964, 43 pp. Testo presentato al Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale “La filosofia della natura nel Medioevo” (Passo della Mendola 31 agosto-5 settembre 1964). Successivamente è stato pubblicato negli Atti del Convegno (si veda 1966, n. 46). Diventa il terzo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 39. Aristotelismo, in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Andrea Mario Moschetti e Michele Schiavone, VI, Milano, Marzorati, 1964, pp. 607-837. 40. Einleitung, in PETRUS GASSENDI, Opera Omnia, Faksimile-Neudruck der Ausgabe von Lyon 1658 in 6 Bänden mit einer Einleitung von Tullio Gregory, I, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1964, pp. V-XXII. Il testo in italiano è apparso sul «De Homine» (si veda 1964, n. 42). La traduzione in tedesco è a cura di Franz Rauhut e Hermann Dommel. 41. Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, «Belfagor», XIX, 1964, pp. 1- 16. Testo italiano di una lettura tenuta all’Instytut filozofii i socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5 novembre 1963, edito in polacco con il titolo Filozofia i teologia wdobie kryzysu XIII wieku (si veda 1967, n. 51). Diventa il secondo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 42. Pierre Gassendi, «De Homine», 9-10, 1964, pp. 89-114. La traduzione tedesca del saggio, a cura di Franz Rauhut e Hermann Dommel, è pubblicata come introduzione all’Opera Omnia (si veda 1964, n. 40). 43. Studi sull’atomismo del Seicento, I. Sebastiano Basson, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLIII, 1964, pp. 38-65. Il saggio è seguito da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47) e da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967, n. 50). Tradotto in francese diventa il settimo capitolo della Genèse de la raison classique TOMMASO D’AQUINO, De magistro, introduzione, traduzione e commento a cura di Tullio Gregory, Roma, Armando, 1965, 181 pp. È utilizzata, rivista in più punti, la versione dei testi di Tommaso d’Aquino già pubblicata nel volume BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, pp. 203-275 (si veda anche 1956, n. 19, 20). 45. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, in Per la storia della cultura in Italia nel Duecento e primo Trecento. Omaggio a Dante nel VII centenario della nascita, «Studi medievali», s. III, VI, 1965, pp. 79-94. Diventa il decimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).     17  Bibliografia di Tullio Gregory – 1966 torna su 1966 esci 46. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, in La filosofia della natura nel Medioevo, atti del Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale, Vita e Pensiero, Milano, 1966, pp. 27-65. Diventa il capitolo 3 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Si veda anche 1964, n. 38. 47. Studi sull’atomismo del Seicento, II. David van Goorle e Daniel Sennert, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLV, 1966, pp. 44-63. Il saggio è preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) ed è seguito da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967, n. 50). Tradotto in francese diventa l’ottavo capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173).     18  Bibliografia di Tullio Gregory – 1967 torna su 1967 esci 48. TULLIO GREGORY, GIORGIO TONELLI, World Soul, in New Catholic Encyclopedia, XIV, New York, McGraw-Hill, 1967, pp. 1027-1029. 49. La saggezza scettica di Pierre Charron, «De Homine», 21, 1967, pp. 163- 182. Pubblicato come terzo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). Tradotto in francese diventa il quinto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 50. Studi sull’atomismo del Seicento, III. Cudworth e l’atomismo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLVI, 1967, pp. 528-541. Il saggio è preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) e da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47). Tradotto in francese diventa il nono capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 51. Filozofia i teologia w dobie kryzysu XIII wieku, «Studia Mediewistyczne», 8 1967, pp. 3-18. Testo edito in polacco di una lettura tenuta all’Instytut Filozofii i Socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5 novembre 1963. Traduzione a cura di Ryszard Palacz e Juliusz Domański. Il testo in italiano è apparso su «Belfagor» Pierre Gassendi, in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Michele Schiavone, XII, Milano, Marzorati, 1968, pp. 723-786. 53. Vorwort, in JOANNES DUNS SCOTUS, Opera Omnia, Reprogr. Nachdruck der Ausg. Lyon, 1639, mit einem Worwort von Tullio Gregory, I, Hildesheim, Olms, 1968-1969, pp. V-XII. 54. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini, «L’Alighieri. Rassegna Bibliografica Dantesca», IX, 1968, pp. 39-58. Si veda anche 1990, n. 123. 55. Bruno Nardi, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLVII, 1968, pp. 469-501. 56. Due interventi sull’Università, «Problemi», 7, 1968, pp. 290-291. Il primo intervento è di Salvatore Valitutti (pp. 289-290).     20  Bibliografia di Tullio Gregory – 1969 torna su 1969 esci 57. Vom Einen zum Vielen. Zur Metaphysik des Johannes Scotus Eriugena, in: WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchges, 1969, pp. 343-365. Traduzione tedesca del primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi (si veda 1963, n. 36). 58. Das Opusculum contra Wolfelmum und die antiplatonische Polemik des Manegold von Lautenbach, in WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1969, pp. 366-380. Traduzione tedesca del secondo capitolo di Platonismo medievale. Studi e ricerche (si veda 1958, n. 24).     21  Bibliografia di Tullio Gregory – 1970 torna su 1970 esci 59. Opera e studi di Bruno Nardi, «La Provincia di Lucca», X, 1970, pp. 5-13.  22  Bibliografia di Tullio Gregory – 1971 torna su 1971 esci 60. Premessa, in BRUNO NARDI, Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, a cura di Paolo Mazzantini, Padova, Antenore, 1971, pp. IX-X. 61. Tre opinioni sulla riforma. Interviste a Pietro Gismondi, Tullio Gregory, Ugo Spirito, a cura di Lido Chiusano, «Riforma Universitaria», I, 1971, pp. 41- 52. L’intervista a Tullio Gregory è alle pagine 45-50.   23  Bibliografia di Tullio Gregory – 1972 torna su 1972 esci 62. Gassendi e Galileo, in Saggi su Galileo Galilei, a cura di Carlo Maccagni, Firenze, Barbéra, 1972, pp. 309-323. 63. Erudizione e ateismo nella cultura del Seicento – Il “Theophrastus redivivus”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. IV, LI (LIII), 1972, pp. 194-240. Con numerose modificazioni e aggiunte diventa il primo capitolo del volume Theophrastus redivivus (si veda 1979, n. 79) 64. Abélard et Platon, «Studi medievali», s. III, XIII, 1972, pp 539-562. Comunicazione presentata alla International Conference “Peter Abelard” tenutasi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lovanio nei giorni 10- 12 maggio 1971. È stata pubblicata negli atti (si veda 1974, n. 67) ed è diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).     24  Bibliografia di Tullio Gregory – 1973 torna su 1973 esci 65. FRANCESCO ADORNO, TULLIO GREGORY, VALERIO VERRA, Storia della filosofia. Con testi e letture critiche, 3 v., Bari, Laterza, 1973, [199413]. vol. II, Dal Rinascimento a Kant, a cura di Tullio Gregory, VIII-546 pp. Nel 1979 è stata pubblicata un’ottava edizione riveduta e ampliata. Nel 1996 viene pubblicata la nuova edizione (si veda 1996, n. 155). 66. Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo, «Studi medievali», s. III, XIV, 1973, pp. 287-300. Traduzione italiana della comunicazione presentata al Colloque International “Pierre Abélard, Pierre le Vénérable”, tenutosi all’Abbaye de Cluny dal 2 al 9 luglio 1972. La versione in francese è stata pubblicata negli atti (si veda 1975, n. 70) ed è diventata il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).      25  Bibliografia di Tullio Gregory – 1974 torna su 1974 esci 67. Abélard et Platon, in Peter Abelard, proceedings of the International Conference (Louvain, may 10-12, 1971), edited by Eloi Marie Buytaert, Leuven-The Hague, University Press Leuven, 1974, pp. 38-64. È stata pubblicata in «Studi medievali» (si veda 1972, n. 64) ed è diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 68. Dio ingannatore e Genio maligno. Note in margine alle “Meditationes” di Descartes, «Giornale critico della filosofia italiana», s. IV, LIII (LV), 1974, pp. 477-516. Diventa il capitolo 15 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). La traduzione in francese viene pubblicata nel decimo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173).      26  Bibliografia di Tullio Gregory – 1975 torna su 1975 esci 69. La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique au XIIe siècle, in The cultural context of Medieval learning, proceedings of the First International Colloquium on Philosophy, Science, and Theology in the Middle Ages (September 1973), edited with an introduction by John Emery Murdoch and Edith Dudley Sylla, Dordrecht-Boston, Reidel Publishing Company, 1975, pp. 193-212 (Discussion, pp. 212-218) Diventa il quarto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 70. Considérations sur ‘ratio’ et ‘natura’ chez Abélard, in Pierre Abélard, Pierre le Vénérable: les courants philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du XIIe siècle, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), Paris, Éditions du CNRS, 1975, pp. 569-581 (Discussion, pp. 582-584). Versione in francese del saggio Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo apparso su «Studi medievali» (si veda 1973, n. 66). Diventa il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 71. Giovanni Scoto Eriugena, in Questioni di storiografia filosofica. Dalle origini all’Ottocento, a cura di Vittorio Mathieu, I, Dai presocratici a Occam, Brescia, La Scuola, 1975, pp. 503-522. 72. L’escatologia di Giovanni Scoto, «Studi medievali», s. III, XVI, 1975, pp. 497-535. Il testo originale francese di questo saggio è stato presentato al Colloquio “Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie” (Laon, 7-12 juillet 1975). Il testo italiano è stato pubblicato con un apparato di note più ampio di quello in calce al testo francese destinato agli atti (si veda 1977, n. 78). Diventa il capitolo ottavo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Diventa il quarto capitolo di Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224).         27  Bibliografia di Tullio Gregory – 1976 torna su 1976 esci 73. La filosofia medievale. I secoli XIII e XIV, a cura di Tullio Gregory, Alfonso Maierù, Franco Alessio, in Storia della filosofia, diretta da Mario Dal Pra, VI, Milano, Vallardi, 1976, pp. 1-232. La cultura filosofica nella prima metà del Duecento, pp. 3-46. Alberto Magno, la Scuola di Colonia e il neoplatonismo medievale, pp. 47- 68. Bonaventura e l’agostinismo, pp. 69-110. Tommaso d’Aquino e le origini del tomismo, pp. 111-146. L’averroismo latino, pp. 147-181. Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, pp. 183-208. Enrico di Gand, Goffredo di Fontaines, Egidio Romano, pp. 209-220. Le grandi enciclopedie, pp. 221-232. 74. Rapport sur les activités du «Lessico Intellettuale Europeo», in I Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1976, pp. 21-43. 75. Centro di studio per il lessico intellettuale europeo, Roma. Attività scientifica svolta nel 1975, «La ricerca scientifica», CNR, XLVI, 1976, pp. 1171-1173.   28  Bibliografia di Tullio Gregory – 1977 torna su 1977 esci 76. Scritture e scrittori del secolo XI, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi; con la collaborazione di Tullio Gregory, Bruno e Tilde Nardi e Luigi Ronga, Torino, Einaudi, 1977, VIII-319 pp. Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e precisamente le pp. XI-LXXI e 257-510. I capitoli curati da Tullio Gregory sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum (traduzione e note) pp. 108-111; Lanfranco da Pavia (nota introduttiva e traduzioni) pp. 166-179; Sant’Anselmo di Aosta (nota introduttiva e traduzioni) pp. 181-215. 77. Scritture e scrittori del secolo XII, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi, con la collaborazione di Felice Arese, Tullio Gregory e Tilde Nardi, Torino, Einaudi, 1977, VIII-289 pp. Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e precisamente le pp. XI-LXXI e 513-735. Tullio Gregory ha curato il capitolo Gioacchino da Fiore (nota introduttiva e note) pp. 213-215 78. L’eschatologie de Jean Scot, in Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Laon, 7-12 juillet 1975), Paris, Éditions du CNRS, 1977, pp. 377-392. Il testo in italiano della comunicazione qui pubblicata è apparso su «Studi medievali» (si veda 1975, n. 72), con un apparato di note più ampio ed è diventato il capitolo 8 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).       29  Bibliografia di Tullio Gregory – 1979 torna su 1979 esci 79. “Theophrastus redivivus”. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano, 1979 («Collana di filosofia», 20), 217 pp. Indice del volume: I. Gli dei figli degli uomini, p. 7; II. La storia naturale della religione, p. 77; Appendice: Le citazioni di Machiavelli, p. 197. Il primo capitolo del libro riprende, con numerose modificazioni e aggiunte, il saggio Erudizione e ateismo nella cultura del seicento (si veda 1972, n. 63). 80. GIAMBATTISTA VICO, Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, Ristampa anastatica dell’edizione Napoli 1725, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, 15-270 pp. 81. TULLIO GREGORY, GIORGIO PETROCCHI, Ricordo di Bruno Nardi, con sue pagine autobiografiche, Roma, Casa di Dante, 1979, 28 pp. Nel volume compaiono i testi degli interventi di Tullio Gregory e Giorgio Petrocchi alla “Casa di Dante” in apertura dell’anno di studi 1978-1979. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 5-13. 82. La conception de la philosophie au Moyen Age, in Actas del V Congreso Internacional de Filosofía Medieval, I, Madrid, Editora Nacional, 1979, pp. 49-57. 83. Pour un Thesaurus mediae et recentioris latinitatis, in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 719-738. 84. Lessico Intellettuale Europeo (1974-1976), in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 779-785.     30  Bibliografia di Tullio Gregory – 1980 torna su 1980 esci 85. Elogio di Henri Gouhier, in Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di consegna di lauree honoris causa. Allocuzioni di Antonio Ruberti, Luigi De Nardis, Tullio Gregory, Carlo Muscetta, Henri Gouhier, Eduardo De Filippo, Roma, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1980, pp. 7-10. 86. Ricerche sul Lessico Intellettuale Europeo, in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell’antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di Italo Lana e Nino Marinone, Torino, Accademia delle Scienze, 1980, pp. 47-54.   31  Bibliografia di Tullio Gregory – 1981 torna su 1981 esci 87. TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre- 1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981, XII-430 pp. 88. Il libertinismo della prima metà del Seicento: stato attuale degli studi e prospettive di ricerca, in TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre-1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 3-47. Tradotto in francese, diventa il primo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 89. Le biblioteche universitarie, in La riforma universitaria e le biblioteche dell’Università, atti del Convegno internazionale su “Le biblioteche universitarie e i loro problemi di struttura, coordinamento, unificazione”, Roma 4-5 ottobre 1980, Roma, Bulzoni, esci 90. Relazione sulle attività del Lessico Intellettuale Europeo (1977-1979), in Res. III Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. 509-518. 91. Foreword, in Global linguistic statistical methods to locate style identities, proceedings of an International Seminar (Gallarate June 5-7, 1981), edited by Roberto Busa S.I., Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. VII-VIII. 92. “Omnis philosophia mortalitatis adstipulatur opinioni”: quelques considérations sur le Theophrastus redivivus, in Le matérialisme du XVIIIe siècle et la littérature clandestine, actes de la table ronde des 6 et 7 juin 1980, organisée à la Sorbonne à Paris avec le concours du CNRS par le Groupe de recherche sur l’histoire du materialisme, dirigé par Oliver Bloch, Paris, Vrin, 1982, pp. 213-218. 93. Aristotelismo e libertinismo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. V, LXI (LXIII), 1982, pp. 153-167. Relazione letta al Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna” (Padova, 23-27 settembre 1981). È stata pubblicata negli atti del Convegno (si veda 1983, n. 95) e diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). Tradotta in francese diventa il secondo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 94. La tromperie divine, «Studi medievali», s. III, XXIII, 1982, pp. 517-527. Comunicazione presentata alla Table ronde internationale su “Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle”, organizzata dal Centre d’Études des religions du livre (Laboratoire associé au CNRS) a Parigi (5-7 novembre 1981). È stata pubblicata negli atti (si veda 1984, n. 97) ed è diventata il capitolo 14 di Mundana Sapientia Aristotelismo e libertinismo, in Aristotelismo veneto e scienza moderna, atti del 25° anno accademico del Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, a cura di Luigi Olivieri, Padova, Antenore, 1983, pp. 279-296. Apparso su «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1982, n. 93). Diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 96. Introduzione, in BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, Bari, Laterza, 1983 («Collezione storica Laterza»), pp. VII-XLIV. L’opera è stata ristampata nella collana «Biblioteca Universale Laterza» La tromperie divine, in Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle, actes de la Table Ronde internationale organisée par le Laboratoire associé au CNRS (Paris, 5-7 novembre 1981) edité par Zénon Kaluza et Paul Vignaux, Paris, Vrin, 1984, pp. 187-195. Pubblicato su «Studi medievali» (si veda 1982, n. 94), diventa il capitolo 14 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 98. Temps astrologique et temps chrétien, in Le temps chrétien de la fin de l’Antiquité au Moyen Age. IIIe-XIIIe siècles, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Paris, 9-12 mars 1981), Paris, Éditions du CNRS, 1984, pp. 557-573. Diventa il capitolo 12 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 99. Instrumenta Lexicologica Latina: verso un «Thesaurus Patrum Latinorum», «Studi medievali», s. III, XXV, 1984, pp. 449-457. 100. Premessa, in Francis Bacon. Terminologia e fortuna nel XVII secolo, Seminario Internazionale, Roma, 11-13 marzo 1984, a cura di Marta Fattori, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, pp. 1-3. 101. Introduzione, in Architettura in Provincia. Il centro storico di Sacrofano, a cura di Enrico Guidoni e Pia Pascalino, Roma, Edizioni Kappa, Filosofi, Università, Regime: la Scuola di filosofia di Roma negli anni Trenta. Mostra storico documentaria, a cura di Tullio Gregory, Marta Fattori, Nicola Siciliani De Cumis, Roma-Napoli, Istituto di Filosofia della Sapienza-Istituto italiano per gli studi filosofici, 1985, 506 pp. Presentazione pp. XI-XIII. 103. I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, VIII-358 pp. 104. Il Lessico Intellettuale Europeo, in Lo storico e il suo lessico. Atti del Convegno di Prato, 1-3 aprile 1982, a cura di Maria Caterina Cicala. Presentazione di Luigi De Rosa, Società degli storici italiani, [Messina, La Grafica], 1985, pp. 3-14. 105. Introduzione, in BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, introduzione di Tullio Gregory, Roma- Bari, Laterza, 1985 [19902] («Biblioteca Universale Laterza»), pp. VII-XLIV. La prima edizione dell’opera è apparsa nella collana «Collezione storica Laterza» (si veda 1983, n. 96). 106. I sogni e gli astri, in I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (Roma, 2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, pp. 111-148. Diventa il tredicesimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 107. Discorso di chiusura, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo, atti della XXXI Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 7-13 aprile 1983), II, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1985, pp. 1445-1485. Diventa il capitolo 16 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 108. L’importanza dei filoni tradizionali, in Cento anni Laterza 1885-1985. Testimonianze degli autori, Bari, Laterza, 1985, pp. 149-151. 109. Premessa, in Trasmissione dei testi a stampa nel periodo moderno, I seminario Internazionale, Roma, 23-26 marzo 1983, a cura di Giovanni Crapulli, Roma, Edizioni dell’Ateneo,  Etica e religione nella critica libertina, Napoli, Guida, 1986 («Interventi», 31), 117 pp. Indice del volume: I. Il libertinismo erudito, p. 11; II. Il «libro scandaloso» di Pierre Charron, p. 71; Nota bibliografica, p. 111. Testi di due lezioni tenute nel 1985 all’Istituto Suor Orsola Benincasa, riveduti per la stampa e arricchiti delle note a piè di pagina e della nota bibliografica. Il volume è stato pubblicato tradotto in polacco con il titolo Etyka i religia w krytyce libertyńskiej (si veda 1991, n. 127). Il primo capitolo diventa il sesto capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256); in una versione leggermente ridotta, è stato pubblicato tradotto in inglese (si veda 1998, n. 168). Il secondo capitolo è stato pubblicato come quarto capitolo nel volume Vie della modernità (si veda 2016, n. 256); tradotto in inglese con il titolo Pierre Charron’s ‘Scandalous Book’ è stato pubblicato in Atheism from the Reformation to the Enlightenment (si veda 1992, n. 135). I primi due capitoli, tradotti in francese, diventano rispettivamente il terzo e il quarto capitolo della Genèse de la raison classique Ideologia e programma dell’Olimpiade delle civiltà, a cura di Tullio Gregory, Achille Tartaro, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987, XIX-173 pp. 112. Le platonisme du XIIe siècle, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», tome 71, 2, 1987, Paris, Librairie philosophiques J. Vrin, pp. 243-259. Testo presentato alla conferenza al Collège de France il 19 febbraio 1986; sono state aggiunte alcune note essenziali.   38  Bibliografia di Tullio Gregory – 1988 torna su 1988 esci 113. The Platonic Inheritance, in A History of Twelfth-Century Western Philosophy, edited by Peter Dronke, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 54-80. Translated by Jonathan Hunt. Diventa il quinto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 114. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, «Archives internationales d’histoire des sciences», 38 (1988), pp. 189-242. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 115. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVII (LXIX), 1988, pp. 1-62. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana sapientia (si veda 1992, n. 134). 116. Lessico Intellettuale Europeo: recherches sur la terminologie intellectuelle du Moyen Age, in Actes du colloque Terminologie de la vie intellectuelle au Moyen Age, Leyden/La Haye 20-21 septembre 1985, edité par Olga Weijers, Turnhout, Brepols, 1988, pp. 105-108 117. Sémantique, in Image & Réalité du Vin en Europe, Actes du Colloque pluridisciplinaire sur le vin et les sciences, Organisé par l’Université Catholique de Louvain, en collaboration avec l’Institut Italien pour le Commerce Extérieur, Louvain-la-Neuve, 28 septembre-1 octobre 1988, pp. 151-154. 118. Necessità di programmare le carriere amministrative in funzione della specificità dei profili professionali. Il ritorno alla selettività e alla preparazione scientifica, in Memorabilia: il futuro della memoria. Beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici in Italia. Confronti per l’innovazione, a cura di Alberto Clementi e Francesco Perego, Bari, Laterza, Ricordo di Paul Vignaux, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVIII (LXXX), 1989, pp. 129-143. Testo letto in apertura della tavola rotonda su “Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne” organizzata dall’École française de Rome nei giorni 12-14 novembre 1987; Paul Vignaux – che doveva presiedere la tavola rotonda – era deceduto il 24 agosto in Spagna. Pubblicato negli atti della tavola rotonda (si veda 1991, n. 131). 120. Il calcolatore in lingua, «Il pensiero informatico», 3, 1989, pp. 13-15. 121. Ideali di sapere nella cultura medievale, «Il veltro. Rivista della civiltà italiana», anno XXXIII, gennaio-aprile 1989, pp. 5-51. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso internazionale di filosofia medievale su “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale” (Helsinki, 24-29 agosto 1987). È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114), ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 122. Presentazione, in GIORDANO BRUNO, Summa terminorum metaphysicorum. Ristampa anastatica dell’edizione Marburg 1609. Nota e indici di Eugenio Canone, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1989, IX-X pp.       40  Bibliografia di Tullio Gregory – 1990 torna su 1990 esci 123. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini, in BRUNO NARDI, «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di Rudy Abardo con saggi introduttivi di Francesco Mazzoni e Aldo Vallone, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 285-312. Si veda anche 1968, n. 54. 124. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, in Knowledge and the Sciences in Medieval Philosophy, proceedings of the Eight International Congress of Medieval Philosophy (Helsinki, 24-29 August 1987), edited by Monika Asztalos, John Emery Murdoch, Ilkka Niiniluoto, I, Helsinki, Societas philosophica Fennica, 1990 («Acta Philosophica Fennica», 48), pp. 10-71. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria del Congresso. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli «Archives internationales d’histoire des idées» (si veda 1988, n. 114) e nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121). È diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 125. Théologie et astrologie dans la culture médiévale: un subtil face-à-face, «Bulletin de la Société Française de Philosophie», 84, 1990, pp. 104-130. Prima comunicazione del saggio che poi diventerà il capitolo 11 di Mundana Sapientia, dal titolo Astrologia e teologia nella cultura medievale (si veda 1992, n. 134). 126. Missione scienza, «Ulisse2000», Etyka i religia w krytyce libertyńskiej, przelozyla Anna Tylusińska, Warszawa, Polska Akademia Nauk Instytut Filozofii i Socjologii («Renesans i Reformacja», 6), 1991, 59 pp. Versione in polacco del volume Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). Indice del volume: I. Libertynizm erudycyjny, p. 7; II. “Księga skandaliczna” Pierre’a Charrona, p. 37; Nota bibliograficzna, p. 57. 128. Sul lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento, in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee (V- 1991), a cura di Antonio Lamarra e Lidia Procesi, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1991, pp. 1-20. Relazione presentata al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991. Diventa il terzo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200). 129. Intervento, in Per la storia del «vissuto religioso». Gli scritti di Gabriele De Rosa. Interventi di Emile Goichot, Tullio Gregory, Liliana Billanovich, Antonio Cestaro, Fulvio Tessitore, Pasquale Villani, Cosimo Damiano Fonseca, Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, 1991, pp. 21-29. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 21-29 ed è stato tenuto per la presentazione del volume di Gabriele De Rosa Tempo religioso e tempo storico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1987, avvenuta a Vicenza, presso la Sala degli Stucchi di Palazzo Trissino, il 14 ottobre 1988, per iniziativa dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, con il patrocinio del Comune di Vicenza. 130. Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento e Novecento. Conclusioni, in Gli studi di filosofia medievale fra Otto e Novecento. Contributo a un bilancio storiografico, atti del convegno internazionale (Roma, 21-23 settembre 1989), a cura di Ruedi Imbach e Alfonso Maierù, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, pp. 391-406. Pubblicato in appendice a Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 131. Ricordo di Paul Vignaux, in Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne, actes de la Table ronde organisée par l’École française de Rome avec le concours du CNRS (Rome, 12-14 novembre 1987), Rome, École française de Rome, 1991 («Collection de l’École française de Rome», 147), pp. 1-16. 42       Bibliografia di Tullio Gregory - 1991 Pubblicata sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1989, n. 119). 132. Cultura umanistica e istituzioni, «La rivista dei libri», I, 2, 1991, pp. 18-20. 133. Le discipline umanistiche. Analisi e progetto, Supplemento al Bollettino «Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, 1991, 147 pp. Rapporto finale della Commissione Nazionale per la formazione e la ricerca nelle scienze umane, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, redatto dal Professor Gregory in qualità di coordinatore della Commissione.   43  Bibliografia di Tullio Gregory – 1992 torna su 1992 esci 134. “Mundana sapientia”. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992 («Storia e Letteratura», 181), 480 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sulla storia della filosofia medievale pubblicati in sedi e anni diversi. Il saggio Astrologia e teologia nella cultura medievale (capitolo 11) è nuovo, e ne fu data una parziale anticipazione alla Société française de philosophie (si veda 1990, n. 125). Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Avvertenza, p. V; I. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, p. 1 (si veda 1988, n. 114 e n. 115; 1989, n. 121 e 1990, n. 124); II. Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, p. 61 (si veda 1964, n. 41); III. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, p. 77 (si veda 1964, n. 38 e 1966, n. 46); IV. La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique au XIIe siècle, p. 115 (si veda 1975, n. 69); V. The Platonic Inheritance, p. 145 (si veda 1988, n. 113); VI. Abélard et Platon, p. 175 (si veda 1972, n. 64 e 1974, n. 67); VII. Considération sur ratio et natura chez Abélard, p. 201 (si veda 1975, n. 70; la versione in italiano è stata pubblicata su «Studi medievali», si veda 1973, n. 66); VIII. L’escatologia di Giovanni Scoto, p. 219 (si veda 1975, n. 72; per la versione in francese, con un apparato di note ridotto si veda 1977, n. 78); IX. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, p. 261 (si veda 1961, n. 31 e 1962, n. 33); X. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, p. 275 (si veda 1965, n. 45); XI. Astrologia e teologia nella cultura medievale, p. 291; XII. Temps astrologique et temps chrétien, p. 329 (si veda 1984, n. 98); XIII. I sogni e gli astri, p. 347 (si veda 1985, n. 106); XIV. La tromperie divine, p. 389 (si veda 1982, n. 94 e 1984, n. 97); XV. Dio ingannatore e genio maligno. Nota in margine alle Meditationes di Descartes, p. 401 (si veda 1974, n. 68); XVI. L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo, p. 443 (si veda 1985, n. 107); Indice dei nomi, p. 469. 135. Pierre Charron’s ‘Scandalous Book’, in Atheism from the Reformation to the Enlightenment, edited by Michael Hunter and David Wootton, Oxford, Oxford Clarendon Press, 1992, pp. 87-109. Traduzione inglese del secondo capitolo di Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). La traduzione francese compare nel quarto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 136. Gli atti del Convegno di Lecce: prospettive degli studi cartesiani, in GIULIA BELGIOIOSO (a cura di), Cartesiana, Galatina, Congedo Editore, 1992 («Università degli studi di Lecce, Istituti di Filosofia. Testi e Saggi»), pp. 97- 101. 137. E 42. Utopia e scenario del regime. I. Ideologia e programma dell’Olimpiade della città, a cura di Tullio Gregory e Achille Tartaro, Catalogo della mostra (Archivio centrale dello Stato, Roma, aprile-maggio 1987), Venezia, Marsilio, 1992, XX-180 pp. 138. Préface, in Pierre Gassendi explorateur des sciences. Catalogue de l’exposition, quatrième centenaire de la naissance de Pierre Gassendi (Musée de Digne, 19 mai-18 octobre 1992), rédigé par Anthony Turner avec la contribution de Nadine Gomez; préface de Tullio Gregory, Digne-les-Bains, Musée de Digne, 1992, pp. 11-28. Traduzione a cura di Simone Matarasso-Gervais. 139. Pierre Gassendi dans le quatrième centenaire de sa naissance, «Archives Internationales d’histoire des sciences», 42, 1992, pp. 203-226. Discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les- Bains, 18-22 maggio 1992). È stato pubblicato negli Atti col titolo Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n. 145). La traduzione italiana è stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n. 140). Diventa il sesto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 140. Pierre Gassendi nel IV Centenario della nascita, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXXI (LXX), 1992, pp. 202-226. Versione italiana del discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les-Bains, 18-22 maggio 1992). Diventa il quinto capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). La traduzione francese è stata pubblicata negli «Archives Internationales d’histoire des sciences» (si veda 1992, n. 139) e negli Atti del Colloquio con il titolo Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n. 145). 141. Presentazione, in Lessico Filosofico dei secoli XVII e XVIII. Sezione latina, a cura di Marta Fattori, con la collaborazione di Massimo Luigi Bianchi, I, a- aetherius, coordinamento di Eugenio Canone e Giacinta Spinosa, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992, p. VII.        45  Bibliografia di Tullio Gregory – 1993 torna su 1993 esci 142. Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, 3 v., Roma, Laterza, 1993. Il secondo volume è a cura di Tullio Gregory (si veda 1994, n. 144).   46  Bibliografia di Tullio Gregory – 1994 torna su 1994 esci 143. L’eclisse delle memorie, a cura di Tullio Gregory, Marcello Morelli, prefazione di Giorgio Salvini, traduzioni di Marcello Morelli, Roma-Bari, Laterza, 1994, XI-283 pp. 144. L’età moderna, a cura di Gabriele De Rosa e Tullio Gregory, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, II, Roma, Laterza, 1994, XX-596 pp. Si veda anche 1993, n. 142. 145. Pourquoi Gassendi?, in Quadricentenaire de la naissance de Pierre Gassendi 1592-1992, actes du Colloque International Pierre Gassendi (Digne-les-Bains 18-21 mai 1992), Digne-les-Bains, Société Scientifique et Littéraire des Alpes de Haute-Provence, 1994, pp. 21-39. Discorso di apertura del Colloquio. Pubblicato con un titolo diverso negli «Archives Internationales d’histoire des sciences»  La traduzione italiana è stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n. 140) 146. Gli studi di filosofia medievale di Sofia Vanni Rovighi, in Sapientiae studium. La giornata operosa di Sofia Vanni Rovighi (1908-1990), a cura di Mario Sina, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 13-26. 147. L’ordine della natura e l’ordine del sapere, in Storia della filosofia, a cura di Paolo Rossi e Carlo Augusto Viano, II, Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, Diventa, con il titolo Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, il secondo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 148. Considerazioni conclusive in Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, A cura di Jean-Robert Armogathe e Giulia Belgioioso, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, Introduzione, in Retorica e filosofia in Giambattista Vico: Le Institutiones Oratoriae: un bilancio critico, a cura di Giuliano Crifò, Napoli, Guida, Conclusioni, in Ricerca e terminologia tecnico-scientifica, a cura di G. Adamo, «Lexicon philosophicum., Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee», 151. Dell’Elefante. Parole pronunciate il 12.IX.1994 in occasione della mostra Res Libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma, Roma, Edizioni dell’Elefante, 1994, 19 pp. Opuscolo in edizione limitata. Pubblicato in Bibliomania Perennis (si veda 2002, n. 178). 152. Università e Beni Culturali, ricerca – formazione. Relazione della Commissione Nazionale per il Corso d Laurea e Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, Supplemento al Bollettino «Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, Relazione finale della Commissione Nazionale per il Corso di Laurea e Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, redatta dal Professor Gregory in qualità di coordinatore della Commissione.  48  Bibliografia di Tullio Gregory – 1995 torna su 1995 esci 153. Introduzione, in “Fabula in tabula”. Una storia degli indici dal manoscritto al testo elettronico, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1995, pp. 3-8. 154. I «thesauri» dei Padri greci e latini, «Studi medievali», F. ADORNO, T. GREGORY, V. VERRA, Manuale di storia della filosofia, Roma, Laterza. Curail secondo volume, XIV-457 pp. e i capitoli dal 19 al 41 del I volume. Pensiero medievale e modernità, «Giornale critico della filosofia italiana», Relazione tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei in apertura del VI Convegno di studio su “Pensiero medievale e modernità” (Roma, 12-14 settembre 1996) organizzato dalla Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale. Diventa il nono capitolo di Speculum naturale ‘Natura’ e ‘Qualitas planetarum’, «Micrologus», IV, 1996: Il teatro della natura/The theatre of nature, pp. 1-23. Diventa il quarto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 158. Premessa, in Album. I luoghi ove si accumulano i segni, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro di Studi sull’Alto Medioevo, 1996, pp. VII-XII. 159. Prefazione in Accademia nazionale dei Lincei-Archivio centrale dello Stato- Consiglio nazionale delle ricerche, Guglielmo Marconi e l’Italia. Mostra storico-documentaria (Roma 30 marzo-30 aprile 1996), catalogo a cura di Giovanni Paoloni e Raffaella Simili, prefazione di Tullio Gregory, introduzione di Raffaella Simili, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, Prólogo, in MICHEL DE MONTAIGNE, Ensayos (selección), Prólogo de Tullio Gregory, Traducción y notas de María Dolores Picazo y Almudena Montojo, Barcelona, Círculo de Lectores, 1997, pp. 9-31. Il testo in italiano è stato pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1997, n. 163). La traduzione francese, con qualche variante, diventa il secondo capitolo di Vie della modernità Apertura dei lavori, in Il vocabolario della republique des Lettres. Terminologia filosofica e storia della filosofia. Problemi di metodo, atti del Convegno Internazionale in memoriam di Paul Dibon (Napoli, 17-18 maggio 1996), a cura di Marta Fattori, Firenze, Leo S. Olschki Editore, Les nouveaux outils d'analyse textuelle, in Le Plurilinguisme dans la Société de l’Information, Actes du Colloque International (Paris, 4-6 dicembre 1997), Paris, UNESCO Publications, Per una lettura di Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo italiano della prefazione spagnola all’antologia degli Essais di Montaigne (si veda 1997, n. 160). 164. Nel mondo semantico del virtuale, «if. Rivista della Fondazione IBM Italia», V, 1997, pp. 14-17. 165. Introduzione, in Bibliotheca encyclopaedica: catalogo del fondo storico della Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, a cura di Roberto Mauro e Massimo Menna; presentazione di Rita Levi-Montalcini, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Introduzione, in RENÉ DESCARTES, Discorso sul metodo. Traduzione di Maria Garin. Introduzione di Tullio Gregory, Roma, Laterza, 1998 [201819], pp. V-XLVIII. 167. Conclusion, in Vie spéculative, vie méditative et travail manuel à Chartres au XIIe siècle (autour de Thierry de Chartres et des introducteurs de l’étude des arts mécaniques auprès du quadrivium), Chartres, Association des Amis du Centre Médiéval Européen de Chartres, 1998, pp.135-142. Discorso di chiusura del colloquio internazionale del 4 e 5 luglio 1998. 168. ‘Libertinisme erudit’ in Seventeenth Century France and Italy: The Critique of Ethics and Religion, «British Journal for the History of Philosophy», L’articolo, apparso in italiano con il titolo Il libertinismo erudito come primo capitolo del volume Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110), è stato leggermente ridotto in alcune parti. Traduzione di Letizia Panizza. 169. Introduction, in Le Dictionnaire de l'Académie Française et la Lexicographie Institutionelle Européenne, Actes du Colloque International (Paris, 17- 19 Novembre 1994), publiés par Bernard Quemada avec la collaboration de Jean Pruvost, Paris, Honoré Champion Éditeur, Nature, in Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, ed. Jacques Le Goffe - Jean-Claude Schmitt, Paris, Fayard, 1999, pp. 806-820. Diventa il primo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203), restituendo in latino i testi tradotti in francese. 171. Per una fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario ai paradisi della metafisica, «Micrologus», VII, 1999: Il cadavere/The corpse, pp. 11-42. Diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 172. Sapor mundi: scritti sulla civiltà dei sapori da Il Sole 24 Ore, Roma Raccolta degli articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1994 e il 1998 su Il Sole 24 ore. Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, traduit par Marilène Raiola, préface de Jean-Robert Armogathe, Paris, Presses Universitaires de France, 2000 («Épiméthée», 84), V-365 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi dedicati alle figure e ai problemi appartenenti alla prima metà del XVII secolo francese e europeo, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Notice de Tullio Gregory, p. v; Préface de Jean-Robert Armogathe, La première crise de la conscience européenne, p. 1; I. Le libertinisme dans la première moitié du XVIIe siècle, p. 13 (si veda 1981, n. 88); II. Aristotélisme et libertinisme, p. 63 (si veda 1982, n. 93); III. Ethique et religion dans la critique libertine, p. 81 (si veda 1986, n. 110); IV. «Le livre scandaleux» de Pierre Charron, p. 115 (si veda 1986, n. 110; per la traduzione in inglese si veda 1992, n. 135); V. La sagesse sceptique de Pierre Charron, VI. Perspectives sur Pierre Gassendi à l’occasion du IVe centenaire, p. 157 (si veda 1992, n. 139); VII. Sébastien Basson, p. 191 (si veda 1964, n. 43); VIII. David Van Goorle et Daniel Sennert, p. 235 (si veda 1966, n. 47); IX. Ralph Cudworth, p. 269 (si veda 1967, n. 50); X. Dieu trompeur et malin génie, p. 293 (si veda 1974, n. 68). 174. Vers un «Thesaurus totius latinitatis»: problèmes et perspectives, in L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Age, actes du Colloque international de Louvain-la-Neuve et Leuven (12-14 septembre 1998), organisé par la Société Internationale pour l’étude de la Philosophie Médiévale, éd. par Jacqueline Hamesse et Carlos Steel, Turnhout, Brepols, 2000, pp. 539-549. 175. Informatica e analisi testuale, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti. Appendice 2000, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 919-922. 176. I cieli, il tempo, la storia, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo, atti del XXXVI Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 1999), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2000, pp. 19-45. Diventa il quinto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 177. Il liber creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, in Le vie del medioevo, atti del Convegno internazionale di studi (Parma), a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2000, pp. 45-48. Diventa il terzo capitolo di Speculum naturale  Scrittura, fondamento di civiltà, in Duemila. Verso una società aperta, 3. Istruzione, scienza, linguaggio, a cura di Marco Moussanet, il Sole 24 ORE, Milano, Apologeti e libertini, «Giornale critico della filosofia italiana», Diventa il capitolo 8 di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256).   55  Bibliografia di Tullio Gregory – 2001 torna su 2001 esci 180. Per i cento anni della Casa Laterza. Il sodalizio Croce-Laterza nella cultura italiana del Novecento, «Accademie & Biblioteche d’Italia», s. I, LXIX, 2001, pp. 117-121. Testo del discorso pronunciato al Teatro Comunale Piccinni il 18 settembre 2001, alla presenza del Capo dello Stato, in occasione delle celebrazioni per il 100° anniversario della Casa Editrice Laterza. 181. Come cucinare un filosofo, «l’Erasmo», Introduzione, in VINCENZO CORRADO, Del cibo pitagorico ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de’ Letterati. Opera meccanica dell’oritano Vincenzo Corrado; seguito dal Trattato delle patate per uso di cibo, opera del medesimo autore. Con una introduzione di Tullio Gregory e una nota alle illustrazioni di Francesco Abbate, Roma, Donzelli, Due testi autobiografici di Giordano Bruno, in Memoria di Giordano Bruno  Atti del convegno (Roma) con il patrocinio dell’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Roma, a cura di Maria Mantello, Roma, VE.GRAF, Dell’Elefante, in Bibliomania Perennis. Mostre delle Edizioni dell’Elefante. Prologhi e testi di occasione, Roma, Edizioni dell’Elefante, 2002, pp. 135- 151. Parole pronunciate il 12 settembre 1994 in occasione della mostra Res libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi. Testi di Tullio Gregory, Firenze, Fratelli Alinari, 2002, 112 pp. 186. Il valore di una cultura comune. Il ‘nuovo mondo’ dei dotti del Seicento, «l’Erasmo», Lo spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo integrale della relazione parzialmente letta in apertura della Cinquantesima settimana di studio organizzata dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 4-9 aprile 2002) sul tema: “Uomo e spazio nell’alto Medioevo”. Pubblicato negli atti del Convegno (si veda 2003, n. 191). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 188. Introduzione, in GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi, Alinari, Firenze, 2002, pp. 11-12. 189. Apertura dei lavori, in Experientia. X Colloquio Internazionale (Roma, 4-6 gennaio 2001), atti a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Noè ovvero della sobria ebbrezza, in L’ebbrezza di Noè. Sedici artisti per San Gimignano, a cura di Marisa Zattini, Cesena, Il vicolo, 2003, pp. 23-25. Catalogo della Mostra tenuta a San Gimignano nel 2003. Edizione di 1500 esemplari numerati. 191. Lo spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, in Uomo e spazio nell’alto Medioevo: settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (4-8 aprile 2002), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2003, pp. 27-60. Discussione sulla lezione Gregory, pp. 61-68. Il testo della relazione è apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 2002, n. 187). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 192. Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel medioevo latino, «Studi medievali», s. III, XLIV (2003), pp. 1053-1075. Relazione presentata al VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2006, n. 201). Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200 e l’ottavo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 193. Un cibo da Bengodi. Viaggio nel mondo della pasta, «l’Erasmo», 15, 2003, pp. 87-95. 194. Istituti culturali e territorio: i problemi della ricerca e della formazione, «Accademie & Biblioteche d’Italia», Apertura dei lavori, in Informatica e scienze umane. Mezzo secolo di studi e ricerche, a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2003, pp. VII-VIII.       58  Bibliografia di Tullio Gregory – 2004 torna su 2004 esci 196. Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi, in «Giornale critico della filosofia italiana», Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2005, n. 199). Diventa il secondo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200). 197. Introduzione, in MAURO SIMONAZZI, La malattia inglese. La melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, Il mulino, 2004, pp. 9-13 198. Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, Dall’Apiarium alla Μελισσογραφια. Una vicenda editoriale tra propaganda scientifica e strategia culturale, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. IX, v. XV, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2004.     59  Bibliografia di Tullio Gregory – 2005 torna su 2005 esci 199. Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi in Significare e comprendere. La semantica del linguaggio verbale. Atti dell’XI Congresso nazionale, a cura di A. Frigerio e S. Raynaud, Roma, Aracne, 2005, pp. 85-116. Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata su «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 2004, n. 196). Diventa il secondo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200).    60  Bibliografia di Tullio Gregory – 2006 torna su 2006 esci 200. Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2006 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 1), X- 120 pp. Indice del volume: Premessa, p. IX; Nani sulle spalle di giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel Medioevo latino (relazione presentata al VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno, si veda 2006, n. 201. Pubblicata in «Studi medievali», si veda 2003, n. 192. Diventa l’ottavo capitolo di Speculum naturale, si veda 2007, n. 203), p. 1; Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi (relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti, si veda 2005, n. 199, e in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2004, n. 196), p. 33; Sul lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento (testo, con l’aggiunta di una nota finale di aggiornamento bibliografico, della relazione presentata al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991 e pubblicata in Lexicon philosophicum, si veda 1991, n. 128), p. 77; Referenze bibliografiche, p. 109; Indice dei nomi, p. 111. 201. Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli antichi nel Medioevo latino, in Medioevo: il tempo degli antichi, Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 24-28 settembre 2003, a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2006, pp. 57-64. Pubblicato in «Studi medievali» si veda (2003, n. 192). Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200) e l’ottavo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 202. Paul Vignaux storico del pensiero medievale, «Studi medievali», XLVII (2006), pp. 361-381. Traduzione italiana, leggermente modificata, della relazione francese Paul Vignaux historien et philosophe, letta in Sorbona il 2 aprile 2004, al Colloquio “Paul Vignaux citoyen et philosophe”.  Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007 («Storia e Letteratura», 235), X-254 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sul pensiero medievale, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Nature au Moyen Âge, p. 1 (si veda 1999, n. 170); Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, p. 15 (si veda 1994, n. 146); Il Liber creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, p. 35 (si veda 2000, n. 177); Natura e qualitas planetarum, p. 47 (si veda 1996, n. 157); I cieli il tempo la storia, p. 69 (si veda 2000, n. 176); Lo spazio come geografia del sacro nell’Occidente altomedievale, Per una fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario, p. 121 (si veda 1999, n. 171); Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi, p. 151 (si veda 2003, n. 192, 2006, n. 200 e 2006, n. 201); Pensiero medievale e modernità, p. 173 (si veda 1996, n. 156); Cosmologia biblica e cosmologie cristiane, p. 197; Appendice: Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento, Gusto del cibo, itinerario storico sentimentale, «L’attimo fuggente», Presentazione, in JUNE DI SCHINO, FURIO LUCCICHENTI, Il cuoco segreto dei papi. Bartolomeo Scappi e la Confraternita dei cuochi e dei pasticceri, Roma, Gangemi, Per una Storia delle filosofie medievali. Discorso di chiusura pronunciato al XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo 16-22 settembre 2007) promosso dalla SIEPM, «Studi medievali», Pubblicato negli Atti. Le acque sopra il firmamento. Genesi e tradizione esegetica, in L’acqua nei secoli altomedievali, Spoleto, Fondazione Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp. 1-41. 208. Spazio sacro, spazio profano. I confini simbolici nel cristianesimo altomedievale, in Frontiere. Politiche e mitologie dei confini europei, a cura di Carlo Altini e Michelina Borsari, Fondazione Collegio San Carlo di Modena, 2008, pp. 41-70. 209. Cosmogonia biblica e cosmologie cristiane, in Cosmogonie e cosmologie nel Medioevo. Atti del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.), Catania, 22-24 settembre 2006, a cura di Concetto Martello, Chiara Militello e Andrea Vella, Louvain-La-Neuve, Brepols, 2008, pp. 169-194. 210. Prefazione, in ROBERTO DE MATTEI, Il CNR e le scienze umane, Attività della Vice Presidenza Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Allocution, in Remise de l’Épée d’Académicien à Jean-Luc Marion, par Marc Fumaroli de l’Académie française de l’Académie des Inscriptions & Belles- Lettres, en Sorbonne, Salon d’honneur de la Cancellerie, 1er décembre 2009, pp. 8-13. 212. Translatio studiorum, «Quaderni di storia»,Testo parzialmente presentato, in inglese, al decimo congresso della International Society for Intellectual History su “Translatio Studiorum”. Ancient, Medieval, and Modern bearers of Intellectual History (Verona, 25- 27 maggio 2009). 213. Prefazione, in XXI Secolo-Norme e idee, direttore Tullio Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma 2009, pp. IX-X.  64  Bibliografia di Tullio Gregory – 2010 torna su 2010 esci 214. Dante e la «Commedia», in Dante e l’Islam. Incontri di civiltà, Biblioteca di Via del Senato Edizioni, Milano 2010, pp. 37-44. 215. Bruno Nardi, storico della filosofia. Uno sguardo d’insieme (Relazione di chiusura al Convegno di Pescia), in Per ricordare Bruno Nardi, a cura di Laura Simoni Varanini, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 43-49. 216. Tullio Gregory incontra Cartesio, «Le interviste immaginarie», Milano, Bompiani, 2010, 19 pp. Ristampato in appendice alla raccolta di saggi Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 217. Il lessico Intellettuale Europeo, in Lectio Brevis. Anno Accademico Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, Anno CDVIII – 2011. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. «Memorie», Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Testo della Lectio brevis tenuta il 12 novembre 2010 presso l’Accademia dei Lincei, in apertura dell’anno accademico Eugenio Garin: un ricordo in Normale, «Quaderni di storia», LXXII (2010), pp. 11-29. 219. Claudio Leonardi medievista, «Rinascimento. Rivista dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento», L’ascesa del Poeta è una vera ‘Rinascita’, «La Biblioteca di via Senato – Milano», Postfazione, in LUCIO MARIANI, Farfalla e segno. Poesie scelte (1972-2009), Milano, Crocetti Prefazione, in FRANCA FOFFO, E le stelle stanno a mangiare... La Dolce Vita continua, Roma, Sovera Edizioni, 2010, pp. 9-14. 223. La libraria di Fausto Maria Franchi, in FAUSTO MARIA FRANCHI, Studiolo Crispolti, a cura di Lucia Sabatini Scalmati, Roma, Gangemi,  Giovanni Scoto. Quattro studi, Premessa di Enrico Menestò, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2011 («Uomini e mondi medievali», 24), VIII, 110 pp. Sono ripubblicati i tre studi su Giovanni Scoto Eriugena Le carte di Carlo Lorenzetti, relazione tenuta presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma il 25 febbraio 2011, in occasione dell’inaugurazione della mostra di Carlo Lorenzetti. 226. «Vi esorto alla Bibbia», in Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici interdisciplinari, a cura di Gian Gabriele Vertova, Carocci, Roma 2011, pp. 17-20. 227. Alle origini dell’etica moderna, in Per un’Etica civile. Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2010-2011, a cura di Licia Ferro, Roma, Liceo Classico Orazio, 2011, pp. 13-31. 228. Natura, in Dizionario dell’Occidente medievale. Temi e percorsi, 2: Letteratura/e-Violenza, Torino, Einaudi, Il tema della fortuna in Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VII, LXXXX-XCII (2011), pp. 9-26. 230. Il gusto sullo scaffale, in IBC Dossier. Lo scaffale dei sapori, a cura di Rosaria Campioni, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della regione Emilia Romagna, 2011, pp. 60-63. L’articolo è tratto dalla rivista «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», XIX, 3, 2011. Si veda anche 2011, n. 232. 231. L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, «Nuova informazione bibliografica», Il gusto sullo scaffale, in Lo scaffale del gusto. Guida alla formazione di una raccolta di gastronomia italiana (1891-2011) per le biblioteche, di Rino Pensato e Antonio Tolo, con la collaborazione di Adele Blundo, contributi di Tullio Gregory e Massimo Montanari, Bologna, Editrice Compositori, Montaigne e la fortuna, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2011 («Paginette») Bibliografia di Tullio Gregory – 2012 torna su 2012 esci 234. Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei, in Le Accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti del Convegno Linceo (Napoli), Roma, Scienze e Lettere Editore Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei, in Quintino Sella Linceo, a cura di Marco Guardo e Alessandro Romanello, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2012, pp. 19-42. 236. Per una Storia delle filosofie medievali, in Universalità della ragione. Pluralità delle filosofie nel Medioevo, Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo), Sessioni plenarie, a cura di Alessandro Musco, Fascicolo monografico «Schede medievali», n. 50, Palermo, Officina di studi medievali,  «Studi medievali» Les sources oubliées d’une Introduction à l’Ethica, «Giornale critico della filosofia italiana», Quasi una Prefazione, in FRANCA FOFFO, Il dolce della vita, Roma, Sovera Edizioni, 2012, pp. 9-11.    67  Bibliografia di Tullio Gregory – 2013 torna su 2013 esci 239. Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Roma-Bari, Laterza («I Robinson / Letture»). Indice del volume: I. La caduta di Lucifero. II. Apparenza e realtà, p. 17; III. La via del nero, p. 31; IV. Il principe di questo mondo, p. 57; V. Satana e modernità, p. 67; Bibliografia, p. 79. 240. Translatio Studiorum, in MARCO SGARBI (ed.), Translatio Studiorum. Ancient, Medieval and Modern Bearers of Intellectual History, «Studies in Intellectual History», 217, Leiden, Brill, Paul Vignaux, Historien et Philosophe, in Paul Vignaux, Citoyen et Philosophe (1904-1987), sous la direction de Olivier Boulnois, avec la collaboration de Jean-Robert Armogathe, Turnhout, Brepols, 2013, pp. 9-26. 242. Per il XXV della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, «Studi medievali», Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, La biblioteca di Trisulti. L’ordine dei codici tra il 14° e 16° secolo, Roma, Scienze e Lettere, 2013, pp. 149- 167. 244. Presentazione, in Accademia nazionale dei Lincei. Inventario dell’archivio (1944-1965) a cura di Paola Cagiano De Azevedo, Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali,  Le carte di C. Lorenzetti, Discorso pronunciato il 24 febbraio 2011 nel Salone Borromini della Biblioteca Valliceliana in Roma per l’inaugurazione della Mostra “Carte e libri d’artista” di Carlo Lorenzetti, Città di Castello, Bibliografia di Tullio Gregory – 2014 torna su 2014 esci 246. Le plaisir d’une chasse sans gibier. Faire l’histoire des philosophies: construction et déconstruction, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo della relazione presentata il 25 settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; in italiano diventa il primo capitolo di Vie della modernità il Lessico Intellettuale Europeo compie cinquant’anni, in Locus- spatium. XIV Colloquio Intrnazionale (Roma 3-5 gennaio 2013), Atti a cura di Delfina Giovannozzi e Marco Veneziani, Roma, Leo S. Olsckhi  Prefazione, in FAUSTO MARIA FRANCHI, PIER LUIGI PICCARI, LUCIA SABATINI SCALMATI, Ricette preziose dal gioiello al pane, Terni 2014, pp. 7-10. 249. Presentazione, in LUISA RUBERTI, Le ricette di Luisa. La cucina campana a modo mio, Firenze-Milano, Giunti, 2014.    69  Bibliografia di Tullio Gregory – 2015 torna su 2015 esci 250. Carlo Lorenzetti e il Lessico, in Segno e parola. Carlo Lorenzetti e il Lessico Intellettuale Europeo, Catalogo della mostra (Roma), a cura di Giovanni Adamo e Cristina Marras, Firenze, Leo S. Olschki Editore, La rinascita nel dopoguerra, in Treccani. Novanta anni di cultura italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2015, pp. 15-18. 252. Dubbio, fede e religioni in Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», Prefazione, in La cultura e il mondo. Aggiornamento della Enciclopedia Italiana, Nona appendice, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,  Michel de Montaigne o della modernità, Pisa, Edizioni della Normale, 2016 («Variazioni», Translatio linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2016 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 2), IX-75 pp. 256. Vie della modernità, Firenze, Le Monnier Università, 2016 («Centro Interdipartimentale di Studi su Descartes e il Seicento. Saggi. Nuova serie», 1), 174 pp. Indice del volume: 1. Il piacere di una caccia senza preda. Fare storia delle filosofie: costruzione e decostruzione, p. 1 (testo italiano della relazione francese presentata il 25 settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2014, n. 246); 2. Michel de Montaigne ou «le plaisir de la variété», p. 22 (traduzione francese, con qualche variante, della prefazione all’antologia dell’edizione spagnola degli Essais di Montaigne, si veda 1997, n. 160; 3. La saggezza scettica di Pierre Charron, p. 40 (pubblicato in «De homine», si veda 1967, n. 49); 4. «Il libro scandaloso» di Pierre Charron, p. 55 (pubblicato in Etica e religione nella critica libertina, si veda 1986, n. 110); 5. Pierre Gassendi nel IV centenario della nascita, p. 71 (testo italiano del discorso di apertura del “Colloque International Pierre Gassendi”, pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1992, n. 140); 6. Il libertinismo erudito, p. 93 (pubblicato in Etica e religione nella critica libertina, Aristotelismo e libertinismo, p. 115 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1982, n. 93, e negli atti del Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna”, si veda 1983, n. 95); 8. Apologeti e libertini, p. 127 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2000, n. 179); Appendice: Tullio Gregory incontra Cartesio. Commentario (direzione scientifica) in GIORGIO SIDERI DETTO CALAPODA, Portolano 6. 1550, Roma, Treccani, 2016, 236 pp. 258. Ereditare e tradurre, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2016 («Paginette»), 24 pp. 259. Postfazione “La cultura del vino” in MARCELLO MASI, ROCCO TOLFA, Signori del vino, prefazione di Carlo Petrini, Roma, Rai Eri, 2 Bibliografia di Tullio Gregory – 2017 torna su 2017 esci 260; “L’ambigua dignità dell’uomo moderno” «Quaderni di storia», Bibliografia di Tullio Gregory – 2018 torna su 2018 esci 261. Considerazioni per una storia del pensiero scientifico altomedievale, «Studi medievali», Veritates in mensa, Modena, Consorzio Festivalfilosofia («Paginette»), La biblioteca dei Lincei: percorsi e vicende, Letture corsiniane, Roma, Bardi Edizioni, 2019, 24 pp. 264. Fra i miei libri, «Giornale critico della filosofia italiana», Fra i miei libri, «Voci», Istituto Enciclopedia Italiana, Sapida scientia. Percorsi gastronomici da Il Sole 24 ore (1999-2018), Roma, ILIESI, 2019, 217 pp. Raccolta degli articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1999 e il 2018 su Il Sole 24 ore. Stampato in numero limitato di esemplari in occasione del novantesimo compleanno di Tullio Gregory.   74Tullio Gregory. Gregory. Keywords: implicatura clandestina, clandestino – cognate with celare and occolto -- terminologia filosofica, libertinismo, filosofia clandestine, il libertino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregory: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754581552/in/dateposted-public/

 

Grice e Griffero – l’inter-soggetivo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Asti). Filosofo: Grice: “I like Griffero; for one, he has a taste for neologisms, like his atmospherelogy – He has understood that aesthesis, qua sensatio, is the basis for aesthetics, and he has explored the philosophies of Tarso, Spranger, and Schelling!” Insegna a Roma. Studia a Torino sotto Vattimo su“L’ermeneutica.” Studia Betti (“Interpretare. La teoria di Betti e il suo contesto” – Rosemberg,Torino) ed il concetto di spirito e forma di vita. La filosofia della cultura (Angeli, Milano). Si dedica al rapporto tra arte e mito, scrivendo poi Senso e immagine. Simbolo e mito (Guerini, Milano), Cosmo Arte Natura. Itinerari  (Cuem, Milano), nel quale si concentra sulle caratteristiche del real-idealismo, e infine una ricostruzione dell'apporto dato da questo autore all'estetica filosofica (Estetica -- Laterza, Roma).  La nozione di "immaginazione transitiva", è invece affrontata in “Immagini Attive: beve storia dell'immaginazione transitiva (Monnier, Firenze). Ricostruisce la storia della credenza secondo cui una fantasia particolarmente forte sarebbe in grado di agire, cambiando o addirittura generando la realtà esterna.  In Realismo e Idealismo (Nike, Segrate) analizza il Pietismo Speculativo. La corporeità spirituale è il "fine ultimo delle opere di Dio. L'ampia storia del concetto e esposta in Il corpo spirituale. Ontologie sottili" (Mimesis, Milano).  La ricerca sulla fenomenologia del corpo e della percezione e l'estetica delle atmosfere è affrontata in “Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali (Laterza, Roma). Nel libro Quasi-cose. La realtà dei sentimenti (Mondadori, Milano ) indica e analizza sulla scorta dei un'estetica neo-fenomenologica i sentimenti atmosferici, il dolore, la vergogna, lo sguardo, il crepuscono, il corpo vissuto come quasi-cose, entità aggressive e decisive per la nostra esistenza senza essere riducibili al paradigma cosale tipico della tradizione occidentale   Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica (Guerini, Milano) delinea, a partire dalla nozione estetico-fenomenologica di “atmosfera”, i contorni di un'estetica orientata non allo gnosico ma al patico, che non tematizza un oggetto (come una espressione) speciali come le opere d'arte ma il modo in cui “ci si sente” quando ci si espone, soprattutto involontariamente, ai sentimenti presenti nell'ambiente circostante.  Il tema è sviluppato, esteso a considerazioni sull'atmosfericità del linguaggio, sulla presenza e la inter-soggettività re-interpretate in chiave fenomenologica. Altre opera: Storia dell'estetica (Nuova Cultura, Roma).  5. Quali atmosfere per quali spazi? Dicendo, con precisione tutt’altro che metaforica (cfr. Griffero 2010d) che, ad esempio, l’aria si è fatta pesante e il suono opprimente, l’odore penetrante e il silenzio solenne, ci si riferisce non certo allo spazio locale ma allo spazio assoluto e predimensionale (più o meno transitorio) delle “isole” leiblich. Ne viene – ed è ciò che ovviamente più interessa nel nostro più generale progetto atmosferologico (cfr. Böhme 1995, Griffero 2010 e Griffero 2014) – che lo spazio non locale del sentimento (Gefühlsraum)14, permeato cioè da sentimenti o tonalità emotive (Gefühle o Stimmungen) (cfr. Schmitz 1969), intesi ora come atmosfere, come quasi-cose caratterizzate (quanto meno nella loro forma 12 Una spazialità a rigore non solo non tridimensionale, ma neppure bidimensionale (superficie), monodimensionale (retta) o non-dimensionale (nel senso in cui lo è il punto). 13 L’abitare è per Schmitz, propriamente, cultura-coltivazione dei sentimenti in uno spazio recintato. 14 La tesi secondo cui «i sentimenti sono spazialmente estesi [...] sarebbe inconcepibile o addirittura comica se si riferisse allo spazio locale», giacché in tal caso «un sentimento sarebbe forse una sorta di sfera o un triangolo nel ventre o in prossimità della testa» (Schmitz 1990, p. 292). © SpazioFilosofico 2014 – ISSN: 2038-6788  351  prototipica e cioè oggettivo-distonica) da direzioni abissali, costituisce l’apriori di ogni nostra esperienza, specialmente involontaria. Come le valenze espressive delle singole cose e persone possono invitarci a fare o respingere qualcosa, così le affordances dello spazio del sentimento, irriducibili all’assetto ottico e agli effetti solo pragmatici cui pensa James Gibson, portano infatti in luce l’articolazione decisamente anisotropa (atmosferica) della nostra Lebenswelt. Ma, se avvertire un’atmosfera significa avvertire la qualità affettiva e leiblich “espressa” (un termine da non concepire, in una radicale Erscheinungswissenschaft, nel senso dell’estroflessione di un interno) dai nostri “intorni”, occorre da ultimo interrogarsi sulle atmosfere specifiche dei tre livelli di spazialità menzionati. Allo spazio della vastità c) corrispondono le atmosfere letteralmente s-confinate delle Stimmungen pure, come tali alla base dell’intero edificio della vita emozionale. Troviamo qui da un lato l’estensione piena della soddisfazione, concepibile non come gioia ma come quieto equilibrio (nel senso, ad esempio, dell’intimità famigliare), e dall’altro l’estensione vuota della disperazione, concepibile più come la medioevale acedia o l’ennui (nel senso, ad esempio, della lieve noia che ci coglie nelle stazioni o al cospetto del graduale impallidire serale delle cose) che non come un cruccio opprimente. Allo spazio direzionale b) corrispondono, invece, tre forme di atmosfere vettoriali. Anzitutto b1) le Erregungen pure, vale a dire emozioni strutturate e tuttavia diffuse e prive di un vero tema specifico (per questo abgründig per Schmitz), le quali, contrariamente alle fondamentali direzioni leiblich, possono essere anche centripete, aggredirci ab extra pur in assenza di una fonte precisa (cosa o quasi-cosa che sia) e quindi di una “ragione”. E poi b2) le emozioni “centrate”, le cui terminazioni e condensazioni in un oggetto (quando la Sehnsucht, ad esempio, si precisa come amore), in quanto tali responsabili della (secondo Schmitz fuorviante) teoria dell’intenzionalità dei sentimenti15, possono essere unilaterali (esaltanti o deprimenti), onnilaterali, centrifughe (come la Sehnsucht), centripete (come la paura e la sfiducia indeterminate), ma anche indecise, come nel caso del “presentimento”. Allo spazio locale a), infine, corrispondono16 le atmosfere generate dagli oggetti e dalla loro collocazione, relativa fin che si vuole nella spazialità locale eppure su di noi intensamente “attiva”, ad esempio in virtù di qualità espressive che, eccedendo di gran lunga l’ufficio delle proprietà − in linea di principio accidentali e parassitarie rispetto a un substrato sostanziale (nei sentimenti atmosferici assente in linea di principio) −, fungono da vere e proprie “estasi” (cfr. Böhme 2001, pp. 193-210). Quasi fossero i “punti di vista” con cui le cose in un certo senso escono da se stesse (cfr. Griffero 2005) e che appaiono inspiegabili come mera espressione di un interno (qui propriamente inesistente), le atmosfere o estasi delle cose paiono analoghe a potenze 15 I presunti sentimenti intenzionali – l’ira, ad esempio − sarebbero meglio spiegabili, come sentimenti atmosferici centrati, chiamando in causa una dissociazione tra punto di ancoraggio (lo stato di cose che suscita l’ira) e zona di condensazione (l’uomo o l’oggetto con cui si è adirati): due elementi di solito poco connessi sotto il profilo causale o logico (gestalticamente: figura/sfondo), visto che – ed è forse illogico ma adattivamente funzionale! – si teme, ad esempio, più la persona che potrebbe ucciderci (condensazione) che non la morte come tale (cfr. Schmitz 2007, p. 64). 16 Ma Schmitz qui obietterebbe che, le atmosfere non essendo per lui intenzionalmente producibili e riducibili a cose singole (giusta una più generale campagna contro la forma mentis singolaristica su cui non possiamo qui fermarci), le impressioni suscitate dalle cose non sarebbero autentiche atmosfere. 352   demoniche (numinose) indipendenti dalla nostra volontà. Sono, in altri termini, qualità espressive (inviti, affordances), nella cui manifestazione in certo qual modo le cose si esauriscono, esattamente come il vento coincide col proprio soffiare (cfr. Griffero 2013b). Sono modi-di-essere pervasivi (cfr. Metzger 1941, pp. 77-78) che, generando lo spazio affettivo cui il soggetto accede, danno vita a una co-presenza (proprio-corporea, anzitutto, ma anche sociale e simbolica) di soggetto e oggetto, a un “tra” (un tema caro a Böhme) anteriore alla distinzione soggetto/oggetto, a una relazione che paradossalmente (per la logica ordinaria, s’intende) dev’essere anteriore ai suoi relati, pena una ricaduta nel dualismo aborrito.Tonino Griffero. Griffero. Keywords: l’inter-soggetivo, Betti, ermeneutica, fenomenologia, Vico, il circolo dell’implicatura, implicatura ammosferica-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Griffero” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754816486/in/dateposted-public/

 

Grice e Grimaldi – implicatura anti-peripatetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cava de’ Tirreni). Filosofo. Grice: “I have spoken of ‘magic’ – “two kinds of magic’ – actually, for Grimaldi there are THREE: ‘black magic,’ ‘artificial magic,’ and my favourite, ‘natural magic’!” Nacque da nobile famiglia locale di origini genovesi. Compì i suoi studi avvicinandosi a Cartesio, di cui fu seguace e fece parte del gruppo chiamato degli epigoni dell'Accademia degli Investiganti. Consigliere Regio. Scrive numerose opere, raccolte poi in "Istoria dei libri di don Costantino Grimaldi, scritta da lui medesimo". Tra quelle più note si possono elencare le “Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli” (Napoli), le “Discussioni filosofiche” (Lucca), la “Dissertazione sulle tre magie, naturale, artificiale e diabolica (Roma). Il figlio gli dedicò "Ragioni genealogiche a' favore della Famiglia Grimaldi del Sig. Cons. D. Costantino Grimaldi. Colli signori Grimaldi di Seminara, e con quelli patrizj di Catanzaro" F. A. Meschini, nel Dizionario Biografico degli Italiani, indica Napoli come città natale. Memorie di un anticurialista del Settecento. Testo, introduzione note V.I. Comparato. Firenze, Olschki, Biblioteca dell'«Archivio storico italiano»,  Franco Aurelio Meschini, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana  Anticurialismo.  GRIMALDI, Costantino. - Nacque a Napoli il 30 genn. 1667 da Francesco Antonio e Antonia Cacace. Ebbe come maestro per le belle lettere e l'oratoria Matteo Taurini. Spinto dallo zio Scipione, sacerdote secolare, a frequentare le Scuole pie di largo dello Spirito Santo, vi strinse amicizia con il padre Tommaso di S. Tommaso d'Aquino, dal quale apprese la filosofia aristotelica. Dopo l'anno di logica, al termine del quale sostenne alcune pubbliche conclusioni, proseguì gli studi non di metafisica, come avrebbe voluto, bensì, per volere paterno, di legge, sotto Domenico Radesca e Matteo De Lellis. Lesse poi, per proprio conto, E. Tesauro, F. Piccolomini e, per i casi di coscienza, la summa di A. Diana e l'opera di M. Bonacina. A sedici anni, con la dispensa del Collaterale per la giovane età, ottenne la laurea.  Prese quindi a frequentare il foro, senza tralasciare, tuttavia, lo studio delle belle lettere sotto la guida del leccese Luca Giordano che lo avviò alla lettura dei moderni: L. Di Capua, T. Cornelio, R. Boyle, P. Gassendi, R. Descartes. Non trascurò i classici, Cicerone e Quintiliano sopra tutti, studiò lo spagnolo e il francese, i rudimenti della geometria su Euclide e la medicina sotto la guida di Tommaso Donzelli. Di lì a poco prese a frequentare il circolo di Giuseppe Valletta e strinse amicizia con diversi personaggi illustri: Francesco Billio, Filippo Anastasio, Giuseppe Lucina, Giacomo Grazini, Domenico Greco, Antonio Monforte, Giacinto Di Cristofaro, Niccolò Capasso, Niccolò Cirillo, Matteo Egizio, Ottavio Ignazio Vitagliano, Amato Danio, Felice Stocchetti.  È di questi anni l'idea, cara all'ambiente vallettiano, di una storia universale della filosofia, che il G. concepì in contrapposizione al gesuita Giovan Battista De Benedictis. Questi nel 1694, sotto lo pseudonimo di Benedetto Aletino, aveva dato alle stampe a Napoli le Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica: cinque lettere indirizzate a personaggi fittizi (ma facilmente identificabili) e reali dell'ambiente investigante. La necessità di una risposta al gesuita fu immediata; lo stesso G. fornisce l'elenco di quanti risposero o manifestarono l'intenzione di rispondere: Giuseppe Lucina, Filippo Anastasio, Francesco D'Andrea, Domenico Greco e Giuseppe Magrino. Da parte sua il G. in un primo momento (è lui stesso a ricordarlo) pensò di rispondere indirettamente, compilando la sopra ricordata storia, che avrebbe dovuto seguire lo sviluppo della filosofia nelle singole nazioni, soprattutto nel suo sorgere presso i Greci, nel passaggio ai Romani, quindi agli Arabi e infine ai moderni.  Quando apparve chiaro che le risposte attese o annunciate non avevano raggiunto lo scopo o che addirittura erano destinate a restare allo stato di progetto, mentre peraltro l'Aletino e i suoi sostenitori continuavano nell'offensiva contro i moderni, il G. si accinse a rispondere al gesuita.  Le tre risposte del G. videro la luce tra il 1699 e il 1703. Nella prima (Risposta alla lettera apologetica in difesa della teologia scolastica di Benedetto Aletino. Opera nella quale si dimostra esser quanto necessaria ed utile la teologia dogmatica e metodica, tanto inutile, e vana la volgar teologia scolastica, stampata a Ginevra per l'interessamento di C. Musitano, presso Tournes, ma datata da Colonia presso S. Hecht), pubblicata anonima, il G. muove dalla distinzione (già in Valletta) tra una buona e una cattiva (volgare) scolastica: la prima che non si discosta dalla Sacra Scrittura, dalla tradizione, dai Padri, dai concili, dall'autorità, la seconda che, al contrario, non fa debitamente ricorso alla tradizione e pretende di provare le verità di fede con la sola ragione umana, muovendo dalla filosofia. Descartes, che secondo uno schema consueto ai novatoresnapoletani viene accomunato spesso a Gassendi, è presentato come estremamente rispettoso nei confronti della sacra dottrina, in contrapposizione a quei filosofi che dialettizzavano la teologia.  La Risposta, di cui ben presto si conobbe il nome dell'autore, procurò al G. notevole fama e apprezzamento anche fuori del Regno e lo mise in contatto con letterati illustri, tra cui G.V. Gravina, L.A. Muratori, A. Magliabechi, J. Mabillon. Nella seconda risposta (Risposta alla seconda lettera apologeticadi Benedetto Aletino. Opera utilissima a' professori della filosofia, in cui fassi vedere quanto manchevole sia la peripatetica dottrina, 1702), non più anonima, data la favorevole accoglienza della prima, e stampata realmente a Colonia "perché trovò le stamperie occupate in Ginevra", sono affrontati più direttamente i problemi della filosofia aristotelica e del suo rapporto con la fede e con la dottrina cristiana.  Con abile mossa il G. trasforma questa seconda risposta in un serrato attacco ad Aristotele, proprio sul terreno più caro all'Aletino, l'affidabilità teologica dello Stagirita. Sulla base di un sapiente incastro di testi (F. Patrizi, P. Ramo, P. Gassendi, ma anche gesuiti come Juan Maldonado, Antonio Possevino, Michel Elizade o domenicani come Melchior Cano) e di abili argomentazioni, il G. dimostra come alla luce dei principî aristotelici diventino insostenibili i cardini della fede cristiana: la provvidenza, la creazione, l'immortalità dell'anima; e, sul versante della scienza, la corruttibilità dei cieli. Diversamente, i moderni, Descartes sopra tutti, hanno professato dottrine non in contrasto con le Scritture: ne è esempio l'impegno del filosofo francese per conciliare la dottrina eucaristica con la sua concezione della res extensa.  Alla terza risposta (Risposta alla terza lettera apologetica contra il Cartesio creduto da più d'Aristotele di Benedetto Aletino. Opera in cui dimostrasi quanto salda e pia sia la filosofia di Renato delle Carte e perché questa si debba stimare più d'Aristotele, 1703), stampata questa volta in Napoli da G. Rosselli, ma sempre con l'indicazione di Colonia (perché senza la licenza dell'arcivescovo), è affidata la difesa di Descartes dagli attacchi dell'Aletino.  Questa risposta, più ancora delle prime due, rappresenta uno fra i più importanti documenti nella diffusione del pensiero e delle opere di Descartes in ambiente napoletano. Il G. appare, anzi, come uno dei più attenti, se non il più attento interprete partenopeo del filosofo francese, sia per la conoscenza pressoché integrale del corpuscartesiano allora disponibile, comprese le lettere e gli Opuscula postuma, sia per l'acume interpretativo. Descartes, "il miglior filosofante di ogni tempo", viene visto soprattutto muovendo dalla sua metafisica: "È ben noto che non solamente il metafisico sistema cartesiano s'aggiri tutto intorno alla cognizione d'Iddio […] ma il sistema ancor fisico tutto quanto è, suppone necessariamente per fabro, e regolatore il supremo facitore" sicché "togliendosi per ipotesi il darsi Iddio, caderebbe e si ridurrebbe a nulla la macchina del Cartesiano sistema" (pp. 186-188). Questa piegatura metafisica, nuova rispetto a pensatori come Valletta e D'Andrea e più in generale all'ambiente investigante e a quello dell'Accademia di Medina Coeli, permise al G. di allontanare da Descartes la pericolosa accusa di collusione con l'atomismo antico, e di inserirlo nell'alveo della tradizione di Platone e di Agostino, di cui, in particolare, Cartesio è detto "fido seguace". Tutti i temi e i testi della metafisica cartesiana, in un discorso che è al tempo stesso giustificazione e ricostruzione del moto rinnovatore napoletano che da quei testi aveva tratto alimento, sono passati in rassegna: il dubbio, il cogito ergo sum, il criterio dell'evidenza (ove grande importanza è data al momento dell'intuitus, il "guardo"), le dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Esaminata e così difesa la metafisica, la fisica cartesiana, di cui il G. discute il ruolo delle ipotesi (diverse dalle supposizioni dei poeti e degli astronomi, spesso impossibili), appare se non più agevole, certo più sicura. Il G., che difende al tempo stesso Descartes e Leonardo Di Capua, polemizza non solo con l'Aletino ma anche con talune sue fonti come il padre G. Daniel e soprattutto l'astronomo Pierre Petit, che l'Aletino aveva indicato come propria guida. Vengono così discusse, cogliendone precisamente i nessi, le principali concezioni fisiche del filosofo francese: il corpuscolarismo legato al rifiuto delle forme sostanziali (concetto applicabile solo all'anima "ragionevole"); la riduzione della materia a estensione e negazione del vuoto; l'universo indefinito (non infinito come gli attribuiva l'Aletino), costituito dal moto che Dio ha impresso alla materia; l'accettazione del principio inerziale, da cui discende che il cosmo è retto dalle leggi del moto e liberato da ogni visione antropomorfica e finalistica. Con questo cosmo materiale l'uomo, non più centro dell'universo, intrattiene un rapporto grazie alle sensazioni e alle passioni, che sono in vista della conservazione e della salvaguardia del composto anima e corpo.  Nel 1703 uscì una replica dell'Aletino alla terza Risposta del G., la Difesa della scolastica teologia, ed ebbe inizio anche lo scambio di accuse tra i due presso il Sant'Uffizio, che diede il via a una serie di relazioni e controrelazioni. Nonostante ciò, il G. trovò a Roma un clima non del tutto sfavorevole, soprattutto tra i prelati filogiansenisti, e l'opera poté liberamente circolare; anzi, grazie soprattutto all'interessamento di A. Magliabechi (cfr. lettera del G. a Magliabechi del 13 marzo 1703, Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII.671), ebbe una notevole diffusione in Italia e fuori. Tra il 1703 e il 1704 il G. abbozzò le risposte contro la IV e la V lettera del gesuita. Nel 1704 venne colto da un colpo apoplettico e l'anno dopo l'Aletino (insinuando che il 28 febbr. 1704 s. Ignazio avesse colpito il G. perché aveva osato "malmenar" la sua Compagnia) intervenne nuovamente con una Difesa della terza lettera apologetica di Benedetto Aletino. La morte improvvisa del gesuita, l'anno successivo (il G. non mancò qualche anno più tardi di vendicarsi delle insinuazioni dell'Aletino, collegando la sua morte a una punizione celeste), la sua stessa malattia, la denuncia alla congregazione romana delle tre risposte, il fatto che altri avessero risposto alla replica dell'Aletino (Filippo Anastasio diede fuori uno scritto, che non venne pubblicato, ma il G. ebbe modo di leggerlo), sono tra i motivi per cui il G. non volle dar seguito allora alla polemica; nello stesso periodo, tuttavia, mise mano a un'Analisi del modo di teologare, il cui bersaglio era pur sempre la teologia scolastica, che l'autore non portò a termine perché chiamato (direttamente dalla corte di Barcellona, su consiglio di Nicolò Caravita) a difendere gli editti regi in materia di benefici ecclesiastici nel Regno di Napoli contro la Curia romana.  Il G., che aveva già ricoperto cariche in seno all'amministrazione (governatore dell'arrendamento dei ferri in Terra di Lavoro e deputato dell'arrendamento del tabacco), venne chiamato a questo incarico il 20 luglio 1708. La pretesa del re Carlo d'Asburgo, espressa negli editti, di conferire benefici ecclesiastici solo a regnicoli, contro la pretesa della Curia romana, venne dunque sostenuta dal G. nelle Considerazioni teologico-politiche fatte a pro degli editti di s. maestà cattolica intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (I-II, Napoli 1708-09), che furono recensite nel IV supplemento degli Acta eruditorum del 1711 (pp. 369 s.). La risposta di Roma non si fece attendere: il 17 febbr. 1710 la Curia emanò una bolla che colpiva, con le opere di Alessandro Riccardi e Gaetano Argento, la prima parte del Trattato delle considerazioni teologico-politiche, mentre la seconda parte veniva raggiunta dalla censura neppure un mese dopo, il 24 marzo. Il G., che nel 1709 era stato nominato consigliere straordinario del tribunale di S. Chiara (diverrà ordinario il 28 febbraio dell'anno successivo), preparò contro il testo della censura (la cui stesura si doveva al benedettino Nicolò Maria Tedeschi) un Avviso critico et apologetico intorno alla bolla, et alla censura fatta a' libri intitulati Considerazioni teologico-politche, che circolò manoscritto negli ambienti anticuriali napoletani.  Morto l'Aletino, la polemica con i gesuiti non cessò: in un processo che li riguardava essi ricusarono il G. come giudice, facendo leva sulla passata polemica con il loro confratello e ottennero poi, con l'appoggio del reggente S. Biscardi, l'esclusione del G. da tutti i processi in cui fosse coinvolta la Compagnia, con una sentenza del Collaterale del 19 dic. 1710. Il G., che cercò inutilmente di ottenere la revoca del decreto (facendo anche intervenire L.A. Muratori presso il viceré Carlo Borromeo Arese, di cui l'abate modenese era amico), ebbe tuttavia dalla sua parte Gaetano Argento e il reggente Gaetano Rubini. Numerosi consulti negli anni successivi testimoniano la sua attività di consigliere. In questi stessi anni il G. riprese in mano le risposte all'Aletino con l'intenzione di pubblicarne una nuova edizione. Le controverse vicende della stampa sono documentate dal G. stesso nelle sue Memorie, ora pubblicate, a cura di V.I. Comparato, con il titolo Memorie di un anticurialista del Settecento, Firenze 1964. Terminata la stesura dell'opera il G., il 29 marzo 1719, chiese la licenza di stampa al Collaterale (non all'arcivescovo, precisa lo stesso G., per l'illegittimità, a suo avviso, della licenza ecclesiastica); si rivolse quindi allo stampatore Nicolò Parrino, che, iniziata la stampa, la sospese di lì a poco su pressione di ambienti curiali. A questo punto il G., secondo una prassi invalsa, ottenuti dallo stesso Parrino i caratteri, continuò la stampa in casa propria. Gli ostacoli e gli equivoci erano, tuttavia, ben lungi dall'essere superati: il cardinale Francesco Pignatelli, arcivescovo di Napoli, cercò, infatti, di far interrompere la stampa, senza però riuscirci; d'altro canto il viceré, cardinale Michail Friedrich d'Althan, che in un primo momento aveva fatto intendere che avrebbe gradito che l'opera gli fosse dedicata - cosa che il G. fece - sollevò mille difficoltà, cui il G. rispose punto per punto, finché "vidde, ed odorò che il signor viceré non facea più da viceré, le cui parti altre certamente sarebbero state, ma da ministro di Roma, e da esecutore delle voglie altrui, non ascoltando altro che gl'impulsi venutigli da colà" (ibid., p. 54). I volumi, già stampati, vennero sequestrati, salvo quelli che il G. aveva fatto circolare tra gli amici. Tre copie vennero inviate a Roma per il tramite del cardinale Àlvaro Cienfuegos, ministro plenipotenziario austriaco. Una di queste venne fatta pervenire direttamente al pontefice. Il 23 sett. 1726 arrivò la condanna della congregazione dell'Indice, che colpiva sia la prima sia la seconda edizione delle Risposte. Il G. affidò la sua difesa a un memoriale in cui rivendicava il fatto che la prima edizione delle Risposte fosse passata immune per ben tre volte all'esame del Sant'Uffizio.  La nuova edizione, intitolata Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche di Costantino Grimaldi fatte per occasione della risposta alle lettere apologetiche di Benedetto Aletino (I-III, Lucca 1725), contiene, in realtà, alcune importanti aggiunte, che danno conto soprattutto delle letture che in quegli anni il G. andava facendo e di nuovi legami maturati anche al di fuori dell'ambiente napoletano: in particolare Mabillon e Muratori, Jean Le Clerc e Noël Alexandre. Gli interventi più significativi sono nella prima risposta, con una più convinta difesa del giansenismo, che è al tempo stesso presa di posizione per un cristianesimo nutrito delle Sacre Scritture. Ciò significava anche, nel momento in cui veniva tolta alla ragione la giurisdizione sulla fede, liberare il campo della filosofia dalle intrusioni teologiche e difendere quella libertas philosophandi che era stata e continuava a essere la bandiera dei novatores. Le risposte alla quarta e alla quinta lettera, rimaste manoscritte e ora conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli, furono redatte in un lasso di tempo che presumibilmente va dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della terza risposta a dopo il 1724. Nella quarta risposta il G. attinge a pensatori come Pierre Bayle e Richard Simon, a libertini come François de La Mothe Le Vayer e Gabriel Naudé, alla cultura investigante, sempre a Descartes, ma anche a Nicolas Malebranche. E, tuttavia, è soprattutto il Muratori, con le sue Riflessioni sopra il buon gusto, a rappresentare in questa fase, in cui la polemica con l'Aletino è ormai piuttosto un pretesto, un punto di riferimento. La scolastica è attaccata sia nel suo interprete più ortodosso, Tommaso d'Aquino, la cui valorizzazione di Aristotele non può servire ai sostenitori del filosofo greco perché filologicamente non sorretta dalla conoscenza del greco, sia nel suo ispiratore principe e cioè Aristotele stesso, di cui il G. passa in rassegna gli errori nelle varie scienze. A essi, tuttavia, il G. non contrappone un nuovo corpusdottrinale, bensì, con un atteggiamento caro ai moderni, il metodo, aprendosi a una vera e propria apologia della ricerca.  Non mancano altresì affermazioni che nella sostanza suonano anticartesiane, soprattutto nella direzione di un certo vitalismo della tradizione naturalistica meridionale. Nella quinta risposta, Per la scelta d'Aristotele in maestro contro a' libertini ed atomisti, il G. affronta il tema dell'ateo virtuoso e, per spezzare la relazione tra atomismo e ateismo, cavallo di battaglia dell'Aletino, ribalta l'accusa di ateismo su Aristotele, che per di più è giunto in Occidente attraverso la mediazione irreligiosa di Averroè ed è all'origine sia degli errori di P. Pomponazzi sia, ancor più, di B. Spinoza. La fortuna della filosofia aristotelica, d'altro canto, era nata, secondo il G., dalla crisi della cultura nel Medio Evo e ora era in declino proprio per l'avanzamento della verità, grazie, soprattutto, alle scienze sperimentali.  L'opera, che si conclude con un'apologia della ragione e dell'esperienza, contiene anche i germi di quel riformismo cattolico che troverà in Muratori più compiuta maturazione: diminuzione delle feste religiose, superamento della condanna sull'usura, rifiuto del magico e del diabolico. Rinnovamento che passa - ciò è una costante nelle opere del G. - attraverso la comprensione critica della storia ecclesiastica, meglio, attraverso la storia ecclesiastica quale strumento critico della disciplina se non della dottrina.  Tra il 1729 e il 1733, cioè dall'uscita di scena del viceré d'Althan all'avvento degli Austriaci, il G. trascorse uno dei periodi più tranquilli della sua vita e al tempo stesso più intensi per la sua attività politica: insieme con Biagio Garofalo compilò la lista delle "proposizioni ingiuriose alla potestà de' principi" nelle Riflessioni morali e teologiche, scritte dal gesuita G. Sanfelice contro P. Giannone, prese parte al progetto di riforma dell'Università di Napoli, appoggiò la candidatura di Biagio Garofalo a teologo del Collaterale e di Celestino Galiani alla cappellania maggiore del Regno. Il ritorno a Napoli degli Spagnoli con l'avvento di Carlo di Borbone segnò una nuova svolta negativa nella vita del G., nei cui confronti venne aperta un'inchiesta, ancora una volta in base alle accuse della corte di Roma e dei gesuiti, in seguito alla quale, nel 1735, perse la carica di consigliere, non senza, tuttavia, che il re riconoscesse il suo valore: gli venne, infatti, concesso "l'onor della toga e l'intiero soldo".  È in questo momento che il G. pose mano all'Istoria de' libri di Costantino Grimaldi scritta da lui medesimo, con l'intento di difendere il suo operato; fonte preziosa che permette di seguire la genesi delle sue opere e delle polemiche in cui fu impegnato. Per ottenere il passaggio delle sue opere censurate dalla prima alla seconda categoria dell'Indicedovette adoperarsi con tutte le forze, ricorrendo agli amici, facendo appello a tutta la Curia romana e giungendo, infine, a una ritrattazione (1736) che, a sua insaputa e con suo disappunto, venne pubblicata l'anno successivo nelle Novelle letterarie di Venezia.  Negli anni successivi visse appartato, continuando a intrattenere rapporti epistolari con vari rappresentanti della repubblica letteraria, in particolare G.M. Mazzuchelli. A questo invierà l'Elogium che gli aveva dedicato il padre Casto Innocente Ansaldi, insieme con le Discussioni storiche e una versione abbreviata dell'Istoria de' libri, scritta nel 1735, cui aggiunse le notizie relative agli anni successivi al 1734 e cenni sulla sua giovinezza, materiali questi che Mazzuchelli utilizzerà per le Notizie storiche e critiche intorno alla vita e agli scritti di C. G., pubblicate l'anno dopo della morte del G. nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici di A. Calogerà.  Il 17 febbr. 1744 il G. fu arrestato, con l'accusa di intrattenere corrispondenza con gli Austriaci, insieme con il figlio Gregorio, che fu poi relegato nell'isola di Pantelleria. Il G. restò in carcere quaranta giorni (Vat. lat., 9281, cc. 130-140). Dello stesso anno è una Lettera apologetica indirizzata al padre Sebastiano Paoli sull'involuzione della liturgia nel Medioevo (tema ripreso il 23 maggio dello stesso anno e il 30 nov. 1745 in due lettere a Mazzuchelli). Polemiche attardate, come quella durante la crisi napoletana del Sant'Uffizio nel 1746-47 allorché il G. compose il trattato Sciagura maggiore…, rimasto manoscritto, in cui riproponeva la lotta anticuriale a favore del sovrano e contro l'intrusione del potere di Roma. L'ultimo scritto del G., pubblicato postumo (Roma 1751; rist. anast. Milano 1974) a cura del figlio Ginesio, è una Dissertazione in cui si investiga quali sieno le operazioni che dependono dalla magia diabolica e quali quelle che derivano dalle magie artificiale e naturale.  Il G. morì a Napoli il 16 ott. 1750.  Dei tredici figli avuti dal matrimonio (1692) con Giovanna de' Marzi, morta durante la sua prigionia, gli sopravvissero Gregorio e Ginesio, Bernardo, chierico e abate di S. Maria della Misericordia a Itri, Aniceto e Teodosio, monaci olivetani, e tre femmine.  Il G. intrattenne un'ampia corrispondenza: in particolare le sue lettere al Magliabechi sono conservate nella Biblioteca nazionale di Firenze, quelle al Muratori nell'Archivio Muratoriano di Modena, quelle al Bottari, infine, presso la Biblioteca Corsiniana di Roma.  Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 9281, cc. 130-140: Viri clarissimi Costantini Grimaldi senatoris Neapolitani elogium authore P. C.I. A. O.P. [C.I. Ansaldi]; G. Grimaldi, Lettera di Claristo Licenteo [Licunteo]scritta al signor Rodolfo Grandini, in cui si essaminan due luoghi del signor Francesco Maradei in persona del regio consiglier d. C. G., s.l. 1716; Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, a cura di A. Quondam - M. Rak, Napoli 1978; G.G. Scarfò, Opuscoli, III, Napoli 1727, pp. 56 s.; G.M. Mazzuchelli, Notizie storiche e critiche intorno a C. G., in A. Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, XLV, Venezia 1751; Index librorum prohibitorum, Roma 1758, p. 17; M. Delfico, Elogio di C. G., Napoli 1784; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1787, s.v.; M. Schipa, Il Muratori e la coltura napoletana, in Arch. stor. per la provincie napoletane, XXVI (1901), pp. 553-649; P. Sposato, Le "Lettere provinciali" di Biagio Pascal e la loro diffusione a Napoli durante la "rivoluzione intellettuale" della seconda metà del secolo XVII, Tivoli 1960, pp. 27-47, 72-100; N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, passim; E. Boscherini Giancotti, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, in Giorn. critico della filosofia italiana, XLII (1963), pp. 339-362; R. Ajello, Il preilluminismo giuridico, Napoli 1965, pp. 146 s.; V.I. Comparato, Ragione e fede nelle discussioni istoriche, teologiche e filosofiche di C. G., in Id., Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 48-93; B. De Giovanni, "De nostri temporis studiorum ratione" nella cultura napoletana del primo Settecento, in A. Corsano et al., Omaggio a Vico, Napoli 1968, pp. 141-191; B. De Giovanni, Il ceto intellettuale a Napoli fra la metà del '600 e la restaurazione del Regno, Napoli 1968, pp. 35, 37 s., 43, 83 s.; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 31-33, 83, 87, 322, 375, 388, 532; V.I. Comparato, Giuseppe Valletta e le sue opere. Un intellettuale napoletano alla fine del Seicento, Napoli 1970, ad ind.; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 266-271; A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel Regno di Napoli. Problema e bibliografia, Roma 1974, ad ind.; L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli: il processo agli ateisti 1688-1697, Roma 1974, pp. 51, 54; G. Ricuperati, C. G., Nota introduttiva, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, V, Milano-Napoli 1978, pp. 741-774; E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino 1978, pp. 874-876, 882, 907; V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli 1982, pp. 478-481; M. Torrini, La discussione sullo statuto della scienza tra la fine del '600 e l'inizio del '700, in Galileo a Napoli, a cura di F. Lomonaco - M. Torrini, Napoli 1987, pp. 357-383; F. Cacciapuoti, Il processo agli ateisti: dalle discussioni teologiche al giusnaturalismo, in Dalla scienza mirabile alla scienza nuova. Cartesio e Napoli, Napoli 1997, pp. 149-174; G. Belgioioso, La variata immagine di Descartes. Gli itinerari della metafisica tra Parigi e Napoli (1690-1733), Lecce 1999, pp. 29-62; E. Lojacono, Immagini di Descartes a Napoli: da Valletta a C. G., II, in Nouvelles de la république des lettres, 2000, n. 2, pp. 45-65.Costantino Grimaldi. Grimaldi. Keywords: magica naturale, magica artificiale, magica diabolica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura peripatetica”– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692105690/in/photolist-2mQHpXE-2mPpb7N-2mKC3nj-2mKLP2r-2mKRy6y-2mPHbXQ-nSmehQ-mujkJt-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujmJz-mujhJF-mujo6x-mujjcR

 

Grice e Grimaldi – inter-azione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara). Filosofo. Grice: “Grimaldi for some reason did some deep research on cynicism – a wonderful etymology, too!” -- Esponente dell'illuminismo. Fratello minore di Domenico Grimaldi, filosofo. Nato in una famiglia aristocratica che faceva risalire le proprie origini alla nota famiglia di Genova, dei principi di Monaco, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione innovativi nelle sue proprietà terriere (peraltro non molto estese). Inviato a Napoli, conosce Genovesi. Comincia a interessarsi alle vicende culturali e politiche della Repubblica di Genova: volle anch'egli essere iscritto fra i patrizi di Genova, esprimendo la convinzione che l'aristocrazia genovese avrebbe dovuto riprendere la funzione, svolta nei secoli precedenti, di classe dirigente della Repubblica. Studia il diritto testamentario romano. Fu pertanto fautore del “fedecommesso” istituzione risalente a Roma antica e prediletta dalla classe aristocratica.  Maestro venerabile della loggia massonica di Genova. Partendo dalla filosofia romana, cerca di analizzare l’interazione umana. Al di fuori della società l'uomo, in balia dei "sentimenti fisici", diventerebbe “un vero bruto” – “como Romolo” --. Tali riflessioni saranno approfondite nel "Saggio sull'ineguaglianza umana”. Sostenne che, in natura, gli uomini non sono uguali e che le differenze, sia fisiche che morali, ha origini soprattutto ambientali (per es., il clima, la diffusione delle malattie). La inter-azione  non e uno stato di corruzione, ma lo stato "naturale" dell'uomo. La struttura gerarchica dell'Ancien Régime era giustificata dall'ineguaglianza degli uomini. L’educazione non sarebbe riuscita ad appianare tale disuguaglianza. Scrive gli Annali del Regno di Napoli. Fa una Descrizione de' tremuoti accaduti nella Calabria. Altre saggi: “De successionibus legitimis in urbe Neapolitana systema. Pars prima in qua ius Graecum Neapolitanum vetus, et ius omne Romanum a 12 tabulis ad Iustinianum vsque absolutissime expenditur” (Napoli: Simoniana); “Lettera sopra la musica all'eccellentissimo signore Agostino Lomellini già doge della serenissima repubblica di Genova (Napoli); “La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio genovese, illustrata con riflessioni politiche, e morali, e con una brieve narrazione del governo politico della Repubblica di Genova dalla sua origine” (Napoli: Raimondi); “La vita di Diogene Cinico” (Napoli: Vocola); “Riflessioni sopra l'ineguaglianza fra gli uomini” (Napoli: Vocola). (Franco Crispini, Vibo Valentia: Sistema Bibliotecario Vibonese) Annali del Regno di Napoli dedicati a Ferdinando IV. re delle Due Sicilie. Epoca I. Dal primo anno dell'edificazione di Roma sino alla fine del quarto secolo dell'era Cristiana” (Napoli: Porcelli); “Annali del Regno di Napoli” -- Epoca II. Dall'anno 409. dell'era volgare, sino all'anno 1211” (Napoli: Porcelli); “Descrizione de' tremuoti accaduti nelle Calabrie” (Napoli: Porcelli. (Saverio Napolitano, Bordighera: Manago). La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio Genovese” (Napoli: Raimondiana); “De successionibus legitimis in urbe Neapolitana” (Napoli: Simoniana); “Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio); Fulvio Tessitore, «Grimaldi e l'ineguaglianza». In: F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma: Edizioni di storia e letteratura, M. Tallarico, «CESTARI (Cestaro), Giuseppe». In Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. Crispini, Appartenenze illuministiche: i calabresi Francesco Saverio Salfi e Grimaldi, Cosenza: Klipper, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Boccanera, «Grimaldi In: E.Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti, e de' contemporanei, compilata da letterati italiani di ogni provincia e pubblicata per cura del professore E. Tipaldo” (Venezia, Alvisopoli)’ Melchiorre Delfico, Elogio del marchese don Francescantonio Grimaldi dei signori di Messimeri, patrizio di Genova e assessore di Guerra e Marina, In Napoli: presso Vincenzo Orsino (ristampato in Opere complete di Delfico, a cura dei G. Pannella e L. Savorini,  ITeramo: Giovanni Fabbri). R. Ubbidiente, Il pensiero e l'opera di Domenico e Francescantonio Grimaldi. Tesi di Laurea in Filosofia italiana. Salerno. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  CAP. I. DelPineguaglianza degli efferi orga- nici. pag. 4. 1 CAP. II. Dell ineguagliang? del [effe , 9 deir età degli ejferf organici . ' 9. CAP. III. Della di/fimilitudine fifica , che vi è traglt nominile gli altri efferi organici » »«' CAP. XV. Dell' ineguaglianga fijica tra gli uomini . CAP. V. Dell' ineguaglianza della [enfìbìlità 3S» degli efferi organici . I$I> CAP. VL Deìr ineguaglianza della [enfibili- > tà tra gli uomini . 26$» CAP. VII. Dell ineguaglianza delle facoltà intellettuali 283. CAP. Vili. Dell' ineguaglianza delle pajjio- 31£ CAP» IX. Deir ineguaglianza della volontà . 384.INDICE DE’CAPITOLI Della feconda Parte. CAP. I. Principio generale intrinseco dell' ine- * , gli uomini Ji fono ritrovati dopo della generale inondavo- Uh cietà familiari 122. CAP. XI. Delle Tribù de'Selvaggi. 145. CAP. XII. Delle Nazioni barbare. 159- CAP. Delle Nazioni civili. 190. CAP. Dello Sviluppo delle facoltà in- tellettuali nelle Nazioni civili rela* . 6S. 92. 99’ Digitized by Google   relativamente alle arti, ed al. /e fetente . CAP. XV. Dello Jviluppo delle pajjioni de- uomini ctvilt . . CAP. XVl. Della maniera come dicare dell’ homo morale nella civile focietà . CAP. XVII, Concbiufione della feconda par- I -»i _Della ICerza Parte CAP. I. U"T^XEl? ineguaglianza naturale pag. 8. CAP. II. CAP. III. Della libertà , e della ferviti civile ;. 45 CAP. IV. De Governi . 66. CAP. V. Della legge di Natura. ^8. CAP. VI. Del diritto delle Genti. 140. CAP. VII. Del Diritto Civile. 152 CAP. Vili. Della maniera come fi giudica da noi Vineguaglianza politica de*diritti e delle obbligazioni degli uomi-m ni . • 180, CAP. IX. Conchiufione della Terza Parte .• Uesta breve ricordatila dell’ illustre Cittadino, questo semplice monumento alla Memoria d’un Uomo ce- lebre nella Repubblica delle Lettere, questo esempio «i« • l*» ttttmalv m »!tX4 «m ITlUvl/1C ifflHllU tato dalla sincera e disinteressata amidkia. Possa egli contribui- re ad alleviare il dolore d’ una perdita nazionale , «ervire per ricordo di gratitudine a' concittadini , per motivo d’ imitazione agli Uomini di Lettere , e somministrare un modello a coloro che bramano di conservar nel loro cuore i più rispettabili sen- timenti , che istillar possono concordi la Natura e l’ Educazione! Digitized by Google  Nascita , Grimaldi t 4*4 vi 44 ed 'TT'L nome Grimaldi contemporanco alla Storia Moderna d’ Eu- ^ * ** r0Pa ^ stat0 scmPrc fecondo d’ Eroi . Un ramo di que- sta illustre Famiglia si trovava da più secoli trapiantato in estraneo suolo , cioè, nella Città di Scminara in Calabria (<z) . Ivi da Pio Grimaldi , e Porzia Grimaldi nacque Francescan- tonìo (a) Le emigrazioni delle famiglie da uno Stato all'altro in Italia furono frequentissime nel XIII. e XIV. secolo, quando per la debolezza delle Costituzioni de’ Governi non regnavano le leg- gi , ma i partiti. Genova soffrì forse più lungamente che qualun- que altra Città d’ Italia queste politiche concussioni . I Grimaldi Guelfi di partito , ebbero de' tempi di disdetta ; ma non fu ni per disgrazia , ni per delitto , che Bartolomeo Grimaldi si spa trio . Figlio sccotiAoeenìio di Ranieri L Principe di Monaco , venne colle sue galee nelL 1309. in ajuto del Re Roberto a ri- acquistar la Sicilia , e formò il ramo de' Grimaldi Signori di Mes- sirneri. Per più d' un secolo , ciol , fino ai tempi di Giovanna II. essi st conservarono in grande stalo ; ma le non insolitejiccnde di famiglia, più frequenti ancora sotto quel Regno, ridussero i Grs maldi in più umile grado di fortune . Perdute le grandi ricchezze,' e ridottisi -in urta - Città- di Provincia , conobbero chi vi può « - sere una grandezza nella virtù , che forse frequenta più le pri- vate abitazioni , che quelle de' grandi • Piccola consolazione nel Cinsuperabile ineguaglianzal » -~-,  Digitized by Google   44 vii >4» ionio (a) , che nel secolo XVI1L ha accresciuto nuovo lustro agli allori -de' suoi maggiori. L’ onestà , la virtù , e le lette- re , che avevano fatto sempre la principal caratteristica di questa Famiglia , fecero l'educazione di Colui che abbiamo per* duco. 11 di lui savio genitore , memore -di partecipare all* au- torità suprema d’ una Republica illustre , non conservava solo nel suo cuore le comuni doti d’ ordine degne d’ un membro di Senato Aristocratico t ma nato in una libera monarchia rico- nobbe altre più vere idee della virtù , che seppe imprimere nel- l’ animo di quelli a’ quali aveva dato 4' esistenza « Conobbe egli » » «he la severità della virtù passa agevolmente in difetto , quan- do non è accompagnata da quei sentimenti d’ umanità che devono costituire il benefico carattere dell’uonjo sociale ; e che questo perfezionamento della virtù non si acquista che colti- vando Jo spirito, e perfezionando la ragione. Per tal modo quel tavil>«tUirJatJ»***-!r»i.—i—— «<* *mi ri no que’ semi virtuosi , che vennero poi vigorosamente a germo- gliare. L’esempio stesso della di lui vita fu per esso una cont»* mua lezione di que’ doveri , che accompagnano l’ uomo ne’ suoi varj rapporti e. situazioni . Qual raro e piacevole spettacolo è in latti , il vedere un amico genitore occuparsi gradatamente a perfezionare l’ instabile e balbettante lingua de’ suoi fanciulli « condurli quindi alla conoscenza e varietà de’ linguaggi ; mo- (a) A' io. Maggio 1741. strar Digitìzed by Google   * «M vili H» Strar. loro ora l’ indole degl’ idiomi , ora le bellezze dello stile t ora la verità de’ fatti , ed ora quelle della ragione ! Questa fu la vera e rara educazione , che F. A. G. ebbe la sorte di go- dere. 11 solo padre fu il suo istitutore - Nato con una costituzione vigorosa , sana , e di sanguigno temperamento, ajutato da una educazione corrispondente svi- luppò prematuramente un carattere capace del grande . E sic- come sono le circostanze che determinano 1’ attività nostra a tale o tal’ altra direzione ; così le sue forze incapaci d’ un’ iner- zia vergognosa , presto si determinarono al laborioso migliora- mento delle facoltà intellettuali , che duplicano quasi la nostra esistenza , facendo sviluppare lo spirito e sublimando la ra- gione . Ciò che si chiama Corso di Stud) no» fu per esso , come co* illunemente esser suole , una serie di lezioni consuetudinarie , che invoco di mijlioi—• I— ,p!n»A non famin rVm dete* riorarlo . Egli studiò le scienze con quella vera attenzione , che meditando su le idee e verità conosciute vede sbucciarne delle nuova , e richiamando per i varj e necessarj rapporti mol te idee a quella che principalmente si medita , fa quasi sorgere * crea nuove verità , che altrimenti resterebbero in dubbio retaggio ai secoli futuri-. Un* anima cosi elevata da moltiplicità di cognizioni erra qual- che tempo nell’ immenso campo delle idee , ora seguitandone arditamente una serie , ora poggiando su le adire per sentirle quasi più da vicino j ma noa SÌ stabilisce finalmente e riposa Digitized by Google   che sopra quelle , che sono d’ un vantaggio dichiarato per t* nomo. • • La Morale scientifica e prattica no , non è per nostra sverrà tura un affar comune e volgare. £' il risultato di meditazioni profonde, di cognizioni moltiplici , di quantità di paragoni , chedopod’avernequasiformatouncorsod'esperienze, ritor- na alle cagioni e ne stabilisce i principj . E' la scienza dell» Felicità publica e privata : fi chiunque non è nuovo nelle scien- ze converrà facilmente che questa parte della Filosofia è egual- mente grande per l’ importar»»» •»» • p»r hi sue sublimità. Que- sta fu , non dirò la prescelta^* dal nostro Grimaldi , ma quella verso della quale egli fu trasportato dalla forza del suo inten- dimento combinata con quella del suo cuore. I primi saggi in- fatti del di lui spiritOi anche indirettamente, fecero subito rico-; noscerc quésta naturale inclinazione» Un* -11°— " ra o nell’ immenso caos delle sensazioni i principj di quell’ ar- monia generale , che donò il gusto del Bello ma fra le Belle Arti la Musica é forse la più vicina e la più dipendente da co» desti principj non ancora interamente rivelati dalla Natura : Perciò allor quando il cuore è più sensibile e l’anima più ar- monica è facile il trasporto al gusto musicale . 11 di lui savio educatore fin dalla prima infanzia profittò di questo stato pre- coce della sensibilità del suo allievo. Quindi seppe insinuargli fc fargli nascere il più sicuro senso dell’ordine, della proporzio- ne, e dell'armouia , coll’isiruirlo nei principj del Disegno , della a Pit- Digitized by Google   • fattura e della Musica . Non vedeva egli ancora qua! parta avessero queste istruzioni nell’ istituzione della virtù : onde seguitò lo studio della Musica per trasporto piuttosto che per ragione. Ma allorché le altre cognizioni cominciarono ad accu» snidarsi nel di lui spirito -* quando cominciò a travedere ( che la Musica non è solamente un’ arte , ma parte ancora delle scienze sublimi quando riconobbe gli effetti sicuri e necessar} , della Musica, e che i principi dell' armonia sono immediata- mente dettati della Natura , non si ritenne più su la semplice esecuzione , nè Sì contentò della sola parte imitatrice , ma vol- le esprimere le proprie idee , ie mflhagini, i sentimenti ; e ’l suo istromento rispose perfettamente alle domande . I suoi progress* furono in breve meravigliosi , giacché il gusto , 1* esattezza e i’ espressione vi si ravvisavano tanto nell inventare che neU’esegui- re . Per la perfezione meccanica dell’ arte si richiede un esercì* zio abituale C Continuo di , ma un taT-nt/. «OH fattO pCt rimanersi alle porte del tempio della gloria prende delle Belle Arti quella parte che serve al miglioramento della sensibilità , c trapassa ad altri più utili oggetti . Egli nondimeno , trasportato k veder tutto per un lato morale, avendo osservato colla scor- ta degli Antichi -che la Musica ha tante influenza sul cuore e sul costume , cioè sulla creazione di quei sentimenti fondamen- ti' , che caratterizzano gl’ individui e le nazioni , volle com- «nunicare al Pubblico le sue osservazioni, *i-»•«-*«...j j>*•t ** Sono 44x MM Digitized by Google   44 xi M» secssoesaeeMieMfleM —* . > Ono esse contenute nella Lettera sopra la Musica alt Lo- Lettera sopt4 ^ HSK*> cruentissimo Signore Agostino Lomellini (a) . A quest' uo* no degno d’ eterna ricordanza volle il Grimaldi indrizzare I» sue idee , non solo perchè n’ era un giudice competentissimo ì ma per attestargli parzialmente quella stima, della quale L’ Euro» pa tutta r onorava . ' E‘ meraviglioso il vedere come il Grimaldi in questa operici ciuola abbia potuto combinare tanta abbondanza d’erudizione è di ricerche , « tante fona di wgtwaiMBta. — , . __ Egli vede la Musica come una parte- sublime dalla Filosofia } che ha contribuito all’ espansione della virtù , alla regolarità de' Governi , alla conservazione del costume > alla sublimazione de’ sentimenti più convenienti per 1’ uomo - Vede- che in altri tempi questa ch’era stata la miglioratrice degli animi, concorsi poi jJIk-Wo t» «rwwf! r i- eroe»a- j zioni dèlia sua sensibilità , attenuò quasi «1 indebolì finanche la fisica di lui costituzione. Tutti questi varj fenomeni sono dimostrativamente provati dalla Storia amica , e dalle memorie cd osservazioni de’ Filosofi contemporanei. La diversità degli e£* fotti pruova quelle delle cagioni , che il Filosofò ricerca » Eglg incomincia dal distinguere la Musica’ sotto tre forme : la prima " (à) In Napoli 1766. ""l! vx B2 * che» Digitized by Google   4-4 xii cte chiama Naturale , la «*rr>nda Armoniea voluttuosa, e la terza Armonica Filosofica . Per quanto siamo lontani dalla prima esistenza della specie ì pure siamo in istato di giudicare della sua Musica primitiva t perchè tuttavia esistente . Le impressioni delle passioni su 1’ or* ^ gauo vocale, la nascita degli accenti , la diversa prolusione di essi , la successione ora più stretta ora più larga degli stessi tuoni , o di pochi di essi ; ecco la prima Musica naturale e vo- 1* cale . L' imitazione dei rumori fece nascere l’ istromentale ; e una e 1* altra semplice e monotona , 1’ una e V altra conservata, nel civ Aizzamento della Società e nel perfezionamento della Mu- sica , con questa differenza che quella restò sola presso le Na- zioni barbare , ma nelle Nazioni culte restò quasi per la parte barbara della Nazione. Quindi è che le cantilene volgari por- tano quasi dappertutto questo cara**ttere primitivo - La Musica Armonica voluttuosa pare «V»* non H.-hha essct distinta dall’ altra detta Filosofica , che per la qualità degli ef- fetti , poiché l’una e l'altra ànno bisogno di Filosofia nella com- posizione. Ma la prima sembra diretta a soddisfare più 1’ orga- no ecfj&itare le emozioni voluttuose , quanto 1’ altra lo è a far nascere de’ sentimenti cooperatori della virtù , affinan- do la sensibilità non per una più estesa facilitazione di sem- plici piaceri corporali^, ma per rendere la macchina e l’anima stessa armonica , onde sentire agevolmente 1’ Ordine , che deve essere la base delle virtù politiche ed il sostegno degli Stati. La Filosofia dunque della Musica dovrebbe consistere non solo nel- - lo Digitized by Google \  ,  lo stabilire una qualità di Musica assoluta , i cui effetti fossero» necessar e costanti , ma anche una relativa secondo il caratte- j re de’ popoli , che o si vogliono richiamare dalla corruzione , o avviare alla perfettibilità, e secondo l'indole o lo stato deità sensibilità lora Esaminando però U Storia, «cmlura-ch# qnesta Musica Filoso- fica abbia albergato poco sul Globo te più culte ne inno fatto più un oggetto di voluttà , che di —. costume. Questo però non toglie , che vi sia una verità di prit> cip), che si palesa negli .Atti. Lm virtù e "i- sentimenti che le producono, possono avere un’espressione degna di esse : ecco la Musica Filosofica. Questa forse era quella, «olla quale si can- tavano le antiche leggi, e le gesta degli Eroi ; questa, che det- tava i principi Morale, questa, che eccitava, i cuori all» gloria , e che nudriva 1’ amor sociale . Ecco perchè i più illu-. stri fondaifijà.delllumanitfc.|pci.Tl^., Al^nrio . oaio . Cadmo , Chirone furono tutti stimati inventori della Musica , non solo .perchè la Musica è l’emblema dell'armonia sociale, ma perchè ne è la conservatrice . Ecco perchè ancora, i Filosofi di primi ordine o fecero della Musica una parte della Filosofia, o la ca- ratterizzarono come uno dc^ più veri principi dell’ordine socia- le, che solo può conservare il costume e la costituzione degli Stati ; ed ecco infine perchè il nostro Autore si duole che in tanto gTado di miglioramento morale non si richiamila Musica ai suoi principi , e non si feccia del piacere una strada alla virtù. Che se lasciasi ancora d’ adoperarla con vista immediata al pubblico ... b«»e» j giacchi tutte le Nazioni   Vita £Ansal- do Grimaldi. <H xiv H» mesacenomessat>cs>08e»OB<-B>ogs>ocr>opge>saeg>«o«"»aag*»a tene , può frattanto essere di grandissimo utile agli individui * giacché non manca in parte di quegli effetti , che decisamente migliorano la nostra sensibilità. Cosi egli, ad esempio de’ Filosofi antichi , moralizzò quest' Oggetto , seguendo con ciò la più utile determinazione del suo spirito <e la migliore applicazione delle proprie cognizioni. L gradimento dell’ illustre Tìxdoge Lomellini fu grandissimo: Ie maggiore anche il piacer di vedere , che il nome Gri- maldi fuori del patrio suolo prometteva nuovo splendore alla Patria ed alla famiglia . La Republica di Genova già ammirava i talenti del nostro Grimaldi, quando dovett’essere più contenta nel vedere impegnata la di luì penna a dimostrar anche da lon- tano il più vero spirito patriotico , solo retaggio rimastogli dai tuoi antenati . Fu certamente 1’ effetto di questo sentimento » che 1’ impegnò a pubblicaro 1» Vita -4n**IJ* CrtrrutUi ^4) I Eroe della Patria e della famiglia. Chi legge questo libro par che non lo trovi corrispondente alla prima idea che dal titolo ne viene eccitata ; perchè poco vi si parla della vita d’Ansaldo. Sembrami però . che due fossero le mire principali dell'Autore , che ben rettificano la sua inten- zione . La prima di rilevare quelle qualità d' Ansaldo , che gli fanno meritare il titolo di Grande ; la seconda, di rischiarare di- . versi (a) in Napoli 1769. Digitized by Google   «H xv W versi punti importantissimi delia Storia politica di Genova e di segnare il carattere della sua vera Costituzione ed i principj veri e regolari della sua sussistenza. Quest' oggetto rientra tutto nella Storia d’ Ansaldo , non solo perchè esso fu il Restitutore della libertà e del decoro ma perchè in quel tempo si scosse- , ro più possentemente i cardini della Republkana libertà e si sta* •bill la insino allora di Stato è indivisa da quella dello Stato istesso . Non mancò dunque 1’ Autore se non tenne dietro a quelle particolarità che occupano ordinaria J. rwna <Wi Biografi, ma pensò di cs* •ere più utile col sostituire riflessioni s ed alle personalità, donde poi provenivano quelle vicende, che tenevano lo Stato in continua rivoluzione ; e per quale sue* cessione di disordini si giunse finalmente all’ordine, che tut- tora vi regna. E codesta, che interpolatamente contiene le gesta dell’ Eroe , fa la parte principale dell^Opera . Ma siccome la Sto* ria delle Republiche è stata sempre la vera miniera delle poli- tiche e morali osservazioni , cosi il nostro Autore non potè evi- tare quelle riflessioni che il corso della Storia naturalmente gli presentava . Esse sono opportunamente collocate , e formano quasi una «rie di tanti saggi Politici e Morali , ne’ quali ben- ché vacillante Aristocrazia . La storia dell' uomo interessanti a fatti di poco momento . Egli cosi ha divisa quest’ Opera quasi in due parti . Nel Testo si fa come' un quadro animato della Storia Po* litica di Genova' scritta da vero Filosofo cagioni agli effetti. Fa veder come la mancanza di Costituzio- ni e **88* 1.10 . metraggio , cioè, ravvicinando le * Digitized by Google   ^XVI H! thè r uomo non sia risparmiato , poiché viene mostrato qual' è •chiavo delle passioni c delle circostanze, il Grimaldi non lascia d’ indicare nel tempo stesso quei doveri, che in. ogni circostanza •ono le leggi vere della condotta e della vita • Bisogna assolu- tamente leggere -quest’ Opera , che sotto semplice titolo contiene tante nobili idee , e che è impossibile di dettagliare in un cir- coscritto discorso . Torno per tanto all’oggetto principale, cioè, al Grande Ansaldo. Il titolo di Grande, che dall’ adulazione è stato consacrato ai distruttori deli’ Umanità, non si deve che ai^uoi Benefattori- La prima qualità per esser Grande è la Beneficenza. Ansaldo gene- roso , benefico, illuminato, coraggioso , sensibile meritò dunque questo titolo d'onore . Non ignoro che la grandezza consista nella quantità dell’azione, e nell’effètto: ed ecco ciocché si rea- lizzò in Ansaldo. Come uomo di Stato egli sostenne la Patria col vigore de’ suoi consigli, rolla sublimità de’ suoi talenti , colle ric- chezze ammassate dalla sua temperanza. Come semplice Cittadino, fu il benefattore di quanti potevano essere oggetti d’una illuminata beneficenza, cui non si contentò di esercitare nel ristretto tempo della sua durata , ma volle estendere all'avvenire e che anco- ra persiste . Non solo vivendo fece codest’ uomo il miglior uso delle sue ricchezze, ma fece che la sua volontà restasse perpe- tuamente benefica nella serie de’ secoli. Incominciò egli dal con- tribuirc i mezzi che perfezionando la Ragione perfezionano si- milmente la Morale , cioè , dal fare assegnamenti per **l*a publi- '-* ca istruzione , e stabili non solo delle Cattedre di Scienze , ma som- Digitized by Google   4-i xvii somministrò anche soccorsi a coloro che v’attendevano'. Egli non trascurò moderatamente i luoghi religiosi , gli ospedali ed altre fondazioni di pubblica pietà . Egli pensò da uomo libero e non da Aristocratico : volle che tutti partecipassero della sua beneficenza ; quindi non solo ebbe in mira le opere dan- neggiate dalle passate guerre , come la darsina , il porto , le mura , i ponti e i mulini , ma lasciò altre somme considerabili per le ordinarie spese della Republica ; liberò dai debiti Je ga- belle che già troppo aggravavano il popolo Genovese » nè gli Stessi agricoltori furono obbUacì nelle sue liberalità e benefi- cenze • • La pubblica beneficenza non gli chiuse però il cuore ad una più propria e particolare del suo nome e della sua famiglia . Le risoluzioni domestiche, si osservano più facilmente nel tem- po che quelle degli Stati . Ansaldo lo vide ; e considerò che della sorte . Quindi da gran politico pensando che , nelle Ari- stocrazie specialmente, dalla povertà de’ Nobili incomincia la corruzione , volle , per quanto potè , prevenire questi tristi ro- vesci della fortuna , formando nella sua Casa una quantità di beni , che potesse decorosamente mantenerla , e stabilendo per tutta la famiglia un Albergo che fosse atto a sostenere senza avvilimento Io splendor del cognome Fece de’ legati partico- larmente per i Grimaldi che attendessero alle lettere , con pen- sione che durava per anni otto : volle che le donzelle Grimaldi avessero nella loro collocazione un conveniente soccorso ; e nel- C le aeoaeeseueaaysa Digitized by Google   4 xviu >4* le annue liberalità che per i poveri stabili , volle che non fos- sero obbliati quelli del suo nome , che una rivoluzione sventu- rata poteva in questa classe collocare • Una cosi estesa e perpetua generosità , un uso cosi giusto delle ricchezze , una liberalità , che si propagava fino all'ultimo Cittadino » riunite a tutte le altre qualità che gareggiavano ad ornarlo fece dunque bea meritare ad Ansaldo il’ titolo di Gran- de : e più lo merita a’ giorni nostri quando un lusso distruggi- tore à estinto negli animi ogni sentimento di beneficenza. Ma se dall’ antica veneranda tomba alzasse il capo il Grande Ansaldo* forse esclamerebbe: O Patria, ingrata Patria, o Posteri più in- grati alla mia memoria ed ai miei sentimenti ! Io non feci delle mie ricchezze un Banco di Commercio, ma di Beneficenza Come V amministraste voi verso quella famiglia , che per virtù e per le circostanze diveniva la prediletta nella mia intenzione ? Voi nega- ste al vostro sangue , al vostro nome stesso quei soccorsi che lo Spirito di Patria , d' Umanità , di famiglia mi dettò contro i di- spettosi rovesci della Fortuna . Ah ! un nome illustre non ì che un tormento se è accompagnato dal bisogno L Ma sento da un cu- • po oscuro Chiostra ì teneri ed acuti accenti di cinque mie figlie , che rivolte all’ antica Patria ridamano i diritti di quel sangue che loro scorre nelle vene . Possano queste voci giugnere ai vostri cuori , ed onorarvi di meritata riconoscenza ! Genova , Grimaldi , calmate V ombra del vostro Benefattore -1 Il nostro Grimaldi fu veramente desiderato molto dalla Re- publica per onorarlo personalmente e promuoverlo alle su-- iy pren>£ Digitized by Google   «H x*x preme Magistrature ben meritate da’ suoi talenti e dalla sua virtù ; ma lé circostanze Napoletano non gli permisero d’ accettare il meritato invito si contentò di farsi più denza colla Filosofìa , e l’esercizio di essa con quello della virtù. ta la Filosofìa par che debba zione, cioè in tutti i rapporti degli individui fra loro e verso , di famiglia e I» applicazione al Foro e desiderare, dando a conoscere con diversi Responsi ch’egli aveva saputo combinare la sublime Giurispru- yjjpRapasserò intanto leggiermente su questa professione, eh* per qualche tempo ei volle esercitare. Chi considera in1 Avvoca^a - Trattato Le- * astratto la qualità di Cù,reconsulto una migliore applicazione de’talenti , per che non possa vedere nella Società dove vive. Tut- servire a questo primo oggetto so-« ciale . La conoscenza del Giusto in tutta ì immensa sua esten- tutti gli oggetti coi quali sono in relazione , è I’ apice delle umano ragiuuom_ 1-oaàc—o» .do!-«wo-Adwry, applicarvi le verità di dritto è la più nobile operazione come ritrovar più i principj d’ una tranquilla della Ragione. Ma multuose bolge del nostro Foro, ed in no? Quasi ognuno conviene della deficienza delle nostre leggi della Giustizia , e della perniciosa mancanza d una vera Approvazione nei Giusdicenti e dei difetti esistenti nell* amministrazione nei Giureconsulti; e, per un effetto di vera dono di questi mali c gli altri ne profittano. Quindi si moltipli- cano all’infinito gli attori di questa scena tragica per la società e per la Morale ; e questo malore contribuisce sempre più alla C a dete*. ragione fra le tu- quel vertiginoso frastuo- corruzione, i più ri- , Digitized by Google  a..  «H xx deteriorazione del costume ed all’ affogamento de’ talenti , che nella loro freschezza rivolgono facilmente , come le piante , le radici a quella parte ove più abbondantemente possono succiare gli umori nutritivi 11 Grimaldi cautamente portò il piede su le sponde di code- ito baratro pericoloso . Senza immergevi nel bujo , vedeva dal- la circonferenza a quali limiti bisognava rimancrfe . Non cupido d’una gloria efimera e fugace, non avido di que’ lucri, che di rado sono il premio della virtù e del valore , egli si contentò dell’ approvazione della Ragione piuttosto che di quella del vol- go ammiratore Se alcuno volesse dubitare , che si ritenesse in tali limiti per mancanza di convenevoli talenti , l'Opera legale che egli ancor giovine molto dettò , potrebbe facilmente sincerarlo . Nell’ e- là di soli ventiquattro anni egli publicò il libro Dt Succ(s- sionihus legitimis in urhr Nfapolir.ina (a) - Qual differenza fra questa e tante altre Opere legali uscite dal nostro Foro , che I opprimono il buon senso ed oscurano la Ragione ! Tutte le co- gnizioni antecedenti , necessarie a formare non dirò un Giure- consultomaunLegislatore, nonmancavanogiàalGrimaldiin età cosi giovanile. La Storia e la Filosofia erano cosi amalga- mate nel di lui spirito , che la conoscenza prattica e teorica dell’ Uomo e delle società gli era sempre presente per conoscere ( ) lo Napoli 1766. le Digitized by Google   le cause delle sue idee e de* suoi movimenti , e per ravvisare quali fossero i piti convenevoli alla sua destinazione. Egli dun- que vide la materia delle successioni legittime come provenien- te dai primi dritti della Natura realizzati nelle società collo sta- bilimeuto della proprietà e dei dominj . Dimostrò come lo staro della legislazione civile d' una nazione siegua la sua politica Costituzione ; e quindi in uno stesso popolo la differente ma- niera di considerare gli stessi oggetti, secondocchè i rapporti si alteravano. Venendo al suo oggetto, cercò rapidamente 1’ origi- ne deile Consuetudini N«potetene' te rapporto alle successioni nell’ antico stato Uepublicano di questa Città , nell’ analogia di governo colle altre Greche Republiche , e con una felice e nuo- va applicazione ne trovò la filiazione nelle leggi dì Solone . L’ erudizione sparsa in queste ricerche è ampia , ma non lussu- reggiante ; e cosi procede nel resto dell'esame, cioè nel mostrare quale fu quecta pwrt* «talli cibilo JcgreUxione net 'SUCCOSsivi cambiamenti della Romana Repubiica . L’Aristocrazia espressa tutta nella legislazione decemvirale fissò le agnazioni, e l’esclu- sione delle donne , avendo in mira la conservazione e perpetui- tà delle famiglie Aristocratiche . I progressi alla Democrazia , ne- - cessario frutto dell interno vigore dello Stato , che liberò i beni dalla schiavitù , che sciolse gli individui dalla dipendenza dell’ opinione e della servitù personale; che strappò il codice arbitra- rio dalle mani sacerdotali , cangiò anche questa parte di legis- lazione : e le donne furono riguardate come parte della specie e della Società . Tutto cangiò coi cangiamento del Governo ; e si   serbarono i nomi mentre le cose non erano più . Le forinole e le solennità de’ Giudiy , che costituiscono fino ad un certo ter- mine la libertà civile , cederono a quelli detti impropriamente di Buonafede, chesembranopiùconvenientiadunGovernome- no complicato , facendo strada a quell’ arbitraggio che è la . , morte della Civile libertà . Le alterazioni in questa parte della legislazione .si fecero insensibilmente sotto gl' Imperadori fino a quelli , che con nuova Religione portarono nuove leggi sul Tro n no. Ma qui non è luogo di seguire 1’ Autore in tutta la serifc. istruttiva delle tante idee utili e nuove , che s’ incontrano ad ogni passo della sua Opera . Tocca ai profondi Giureconsulti il giudicarne con dettaglio » e far vedere qual precisione e chia- rezza egli seppe portare nel pii oscuro legale labirinto, quan- te cognizioni seppe nobilmente combinare alla dilucidazione del suo oggetto , e quale vera utilità debba produrre la di lui Opera non solo nel giudicare , ma nel riformare questa importante par-» .te delle nostra legislazione* Asciò noudimcno 11 G,!malcl‘ <*’ immergersi nelle cure del gene. JSL*Foro, nonriguardandolocomeoggetto, chedovessein- tieramente assorbire il prezioso tempo delle sue applicazioni , ed assoggettare il fervore de’ suoi tajpnti e la forza del suo spirito attirato da oggetti più sublimi e più generali . Restò egli per alcuni anni nel silenzio, ma non nel riposo , poiché l’ attitudine formatasi allo studio ed alla meditazione tira il stato di piacere iella sua anima vigorosa, che quindi sentiva il più vero bisogno di Vita di Dio- ‘TìT Digitized by Google  •H XXXIII K- di pascersi e nudassi d’ idee e sentimenti analoghi al stio ca- rattere deciso. Questo vigore di sensibilità , che sempre accom- pagna i talenti superiori perchè li crea , non permette che lo spirito resti confinato dalla stretta circonferenza delle idee e delle virtù comuni • Sorse quindi quel sentimento di perfezione unico scopo del Genio e della Virtù , che fermentando nelle a- nime sublimi tenta tutte le vie per aprirsi la strada all’ utile Gloria ed alla verità . V" Nella vecchia Storia della Filosofia cioè de’ progressi della , Ragione e degli errori , vide I! Grimaldi i grandi sforzi degli amichi Filosofi, che non più contenti d'una Morale di prover- bj , parabole e sentenze , si studiarono di ridurla a princlpj ge- nerali che potessero condurre 1* uomo In tutto 1’ uso della vi- ta . Ma esaminando particolarmente la dottrina e condotta loro, vide quanto è difficile una lunga Epoca della Ragione . Trovò nondimeno fra quegl» antichi Istitutori e maèstri dBTMorale un Filosofo che fissò tutta la sua attenzione ; e questi fu Diogene del quale volle scrivere la vita . (<r) k Credè alcuno , eh’ egli imprendesse quasi per giuoco , si, fatto assunto t ma chi ha letto questo nobile opuscolo , può giudicare della verità della sua intenzione. Egli fece vede- re in Diogene non quel Cinico descrittoci da Laerzio , non quell' impudente che ci dipinsero gli altri , nè quello stravagan- te • '^''•'' _,i (a) in Napoli 1777. ,  Digitized by Google   4*4 XXIV le che*corrimunemente è creduto.' ;.ma provò ad evidenza che quel Filosofo fu il più conscguente r giacché le azioni .corrispo- sero sempre alla sua dottrina : e codesta era la più vera , la più utile , la più giusta che fosse ' •* dettata insind allora . Sinope , Corinto ed altre Città ono la memoria di quell’ illustre uomo coi bronzi e con 1 marmi , ma non poterono salvar la di lui fama presso l’invida posterità . Grimaldi nel Se- colo XVIII. rinnalza Diogene su i monumenti erettigli da' suoi compatrioti e diviene il Restitutore della di lui fama , e della di lui virtù . La Morale di Socrate era divenuta puramente nominale , quando a Diogene sorse il talento di reintegrarla ad uso dell’ umanità . 1! principio della Morale prattica par che consista nella facilitazione della Virtù . Non basta il dipingerne le bellez- Iezze , l’ indicar^ le attrattive , ravvivarne il quadro col più vago colorito , se pei ci sì mostra divisa ed isolata dall' insor- montabile vallo del dolore . Diogene volle dimostrare , che que- sto divisorio è d'invenzione umana, è creato nella Società , e che bisogna perciò ravvicinarsi alla Natura. Questa vera osservazione gl’ indicò la Temperanza per un principio fondamentale della Virtù . La Temperanza non è un’ dea assoluta : essa ha una gradazione dì beni da un estremo ali’ altro della 'sua lùtea . L’ uomo , questo animale privilegiato , che può vivere in tutti i climi e nudarsi di tutti gli alimenti , ha più facilità alla sussistenza . E dunque un effetto dell’Educa- zione quello che gli dà quantità di bispgjù , che non vengono dalla Digitized by Google   . ^xxv^4» - «aaBeMecSeaooeoeeseaaoosMsaeeseeeiMjeBft dalla Natura . L’ uomo diviene cosi un aggregato di bisogni 6 di desìdeij,che accrescono m ragion diretta la sua sensibilità al dolore, senta proporzione relativa al piacere ed alla felicità . Se questo spiacevole accrescimento di sensibilità è effetto dell’ edu- cazione , esso è opera dell’uomo , è di creazione sociale; vi è dun. » que tutta la possibilità d’ abolirlo . Si può essere decentemente coperto d’un Pallio senza infelicitarsi per non avere in dosso le gemme ed i preziosi metalli ; si può vivere bene e sano senza esser velato dalle leggerissime spoglie dell' Oriente o soffogato sotto i rarissimi velli del Settentrione : e , se dell’aria comune la più respirabile è la più libera , si può vivere, e meglio, sen- ta le stanze ermeticamente chiuse , senza che sieno ricca- mente foderate , e senza richiamar tutte le arti e tutti i climi ad estenuarci ed estinguerci nella mollezza • Tutte le eccedenti ricchezze s'acquistarono forse alle spese della virtù; aveva dun- que egli regione di veder I» Temperanza come la base princi- pale di essa- Ma se per la Vmù è necessaria quella tal disposizione abi- tuale dell’ animo che si chiama Tranquillità , questa è simil- mente figlia della Temperanza: L’animo distratto dalle passioni disanaloghe alla natura dell’ uomo , cioè non tranquillo , non può essere virtuoso . Diogene non diceva: „ fatti del dolore la strada alla virtù tristo comando alla Natura umana - Non diceva : „ divieni apa- to ed insensibile „ altro precetto peggiore e non conducente alla perfezione morale- Diceva solo: „sii temperante che sarai tran- D quii-   . 4^ xxvi >4* jquillo , ed essendo l’ uno , -e 1* altro puoi essere virtuoso . „ Finché 1’ uomo è distratto da sensazioni vaghe « immerso ne’ desiderj , lacerato dalle passioni non sentirà che se stesso ; ma quando nè i bisogni , nè le idee, nè le immaginazioni tumultua» rie Io tormentano , egli deve essere necessariamente benefico , cioè , virtuoso . Se le ricchezze fossero sempre necessarie all’ esercizio della beneficenza , la virtù sarebbe solo riposta nell’ uso de’ metalli , ed il non ricco non potrebb’ 'essere giammai Virtuoso . La virtù , nel sistema di Diogene, non doveva essere Un fantasma dell’ immaginazione , un’ astrazione per alimenta- re le dispute de’ Moralisti; ma bensì il partaggio dell’ Umanità» il vero sistema della beneficenza universale • Se la virtù è nell’ azione , e quest* azione dev’ essere facile , equabile , pronta * Diogene voleva render l’uomo libero dagli inutili ceppi fabbri- cati a se stesso, per renderlo attivo , benefico , virtuoso . Uno aguardo anche passaggiero su la Morale esistente prova la ve- rità e la profondità delle Ciniche osservazioni Qual era diuresi Ja serie ragionata e conseguente delle idee morali di Diogene ? Temperanza , indipendenza , libertà , tran- quillità , beneficenza ; virtù tutte nascenti 1’ una dall’ altra • tutte conducenti per la più agevole strada alla meta della Morale • La Vita di Diogene non ismentì i di lui principj . Egli visse libero , tranquillo e contento , cioè virtuoso e felice . Apostolo della vtréi e della virtù , egli non fece che predicarle . Un Re «d un llot^ erano eguali agli occhi di lui : la verità e la virtù fa- . Digitized by Google   $*4 xxvii $4* ess<se-e»eoes>eoe^oe<==yat=sor=>oot=r»-sot=xì eeyecaìtjesa faceva egualmente il loro bisogno . Diogene rispettava le leg- gi e la pubblica Autorità da vero Filosofo , cioè , approvan- do quelle che erano dirette al pubblico bene , ed indiziando quelle che mancavano di questo fine . Venerava la Religione ; ma ne abominava l’ intolleranza e l’ abuso , che conduce sem- pre alia superstizione. Rideva di quei tanti Impostori, che anche ia q-v «empi sotto vario manto e varie regole dividevansi il culto e le sostanze de’ divoti . Si vuole che dissuadesse e disap- provasse il vincolo conjugale ; ma come fargliene un delitto ? Che altro vedeva egli nelle Società de’ suoi tempi che la trista alternativa di nobili , e plebei , di ricchi e miserabili , di ti- ranni e di schiavi ? Un Filosofo non può amare la moltip li- catione e la riproduzione di queste razze degenerate dallo sta- to pteseritto loro dalla Natura. Diogene non morì, come Socrate, martire della Verità e della Virtù : egli ritornò nel seno della Natura così spontaneamente come n’ era uscito . La distruzione e la riproduzione dei corpi organizzati è nelle sue immutabili e costami leggi , che non «paventano il Filosofo , il contemplatore della Natura , l’ amico della Ragione. La vita di Diogene rettificata da una etilica imparziale c» mostra un modello di vera vita virtuosa in tutte le circostanze e situazioni . Non fu dunque nè per giuoco , nè per gloria per vanità che il Grimaldi imprese a dettagliarne le azioni e la dottrina , ma per rendere un giusto tributo a quel Filosofo cui ayeva cercato d’ imitare > o per partecipare al pubblico un vero D a fiJCh , nè Digitized by Google   xxvm ^ tJtis»oe«cM»eé<Jsae«^Qee=»oeH=>ee^eg=aem^->gceg»oogrg>r'e)gac modello di filosofica virtù. Egli si dichiara in più luoghi della sua Opera , che Io stato attuale delle Società non comportereb- be una vita esteriore come quella di Diogene propone come un modello, al quale quanto più l’uomo s’accosta., più s’avvicina alla perfezione . Non altrimenti fece Grimaldi . Le virtù di Diogene furono le sue. Ne chiamo in testimonio gli amici, che lo anno veduto in tutti i punti della sua vita . La tempe- ranza de’ suoi desideri , la tranquillità dell’ animo suo , la veri- tà e la sincerità de’ suoi sentimenti , la libertà del suo spirito , il coraggio e l’ amore per la verità , la tolleranza de’mali , 1’ ar- mor della Pubblica Beneficenza , il sentimento costante de' do- veri, e tutto condito ed addolcito da una sensibilità purificata, lo resero rispettabile come Diogene , ma più amabile , perchè seppe combinare i principj e 1’ uso della Virtù, con tutta la de- cenza della vita sociale, e coll'esercizio di quelle funzioni e do- veri, che formavano la sua civile esistenza Riflessioni so- FOn sono certamente le idee astratte e le sublimi nozioni, pra rInegua- glianza. che possono far meritare il. titolo rispettabile di Filoso- fa . Se la virtù non è posta in azione , se le grandi idee non diventano di qualche uso , se la fiaccola s’ asconde sotto il moggio , non solo si è in colpa , ma si è reo di lesa umanità. colpa che meriterebbe maggior castigo chel disprezzo e i’obblio. Sentiva Grimaldi nel più vivo dell’animo questa verità, e per- ciò veggiamo come la sua vita fu ima continua serie di me- ditazioni e d’azioni tutte coordinate allo stesso fine di migliorar se . ; ma che egli lo Digitized by Google  .-  4*4 xxix £4* se stesso , e di essere utile agli altri Quindi i suoi non inter- . rotti srudj e le continue meditazioni lo condussero alle più estese cognizioni e alle più utili che si possano acquistare Or quando lo spirito è abbondantemente nudrito d’ idee e di cognizioni varie, quando è gu lungamente abituato al difficile esercizio di molti e conseguenti raziocinj , quando codesti sono specialmente diretti verso qualche oggetto particolare , che per- ciò divicu dominante : l’animo prova una certa inquietezza e quasi un’ oppressione da questa folla di pensieri , e par che sia costretto a liberarsene . Chiunque ha scritto sopra qualche og- getto particolare e lungamente meditato , ha dovuto provare in se questo sentimento penoso . Quindi la volgare espressione dà chiamare le opere parti dello tpirin , non manca di una ve- rità nella sua origine;- ma non tutti i parti sono regolari . Ho indicato antecedentemente la predilezione che il Grimaldi ebbe sempre per le idee morali , e la facilità che aveva di ri- chiamarle ai principi pid sublimi, e di renderle più attive e fe- conde : ma dopo d’avere per più lungo tempo estese le sue ap- plicazioni su tali oggetti li vide in tutta 1’ ampiezza della qua- le sono capaci , e fra tanti fenomeni Morali che presenta la So- cìtà , fu specialmente colpito da quello , che stende il suo do- minio su tutti i punti dall’ esistenza , dico della Morale Ine guagliania A tutti sono note le riflessioni che l’ eloquente Gian-^iacomo portò su questo punto; ma la ragione trasportata dall’entusias- mo lasciò de’ gran ruoti fra le idee principali , balzò agl! estro-  .,  44 xxx >4» estremi obbliando le idee intermedie e necessarie, guardò 1' og- getto lateralmente > e quindi fra molte vere e nobili osservazio- ni ci presentò de’ paradossi in luogo di tranquilli ragionamenti ed utili risultati . Vide intanto il Grimaldi di quale utile fosse il ritornare solidamente a quest’ oggetto > che è quasi la base del- la Morale e della Politica . Prescélse quindi un campestre ed isolato soggiorno ; e lungi da ogni distrazione , irapenetrabile anche agli amici ed alla famiglia , concentrato lo spirito in que- sta idea principale , impetrava dalla Natura la rivelazione delle verità più utili all’ uomo . In codesto stato egli delineò il piano delle sue Riflessioni sopra VIneguaglianza tra gli uomi- ni (<*) Le sue prime considerazioni gli scoprirono , che la base dell* Ineguaglianza è nella Natura . L* Ineguaglianza Fisica la generatrice delle altre: è dunque legata ad un ordine: è per conseguenza una legge immutabile ed eterna . Le stesse ricerche preliminari, che fa su questo punto, portano f espresso carattere della novità . Colla più seria attenzione poi assottiglia il suo Sguardo per penetrare nei più complicati recessi di quest’ Esse- re sublimemente organizzato , che si chiama Uomo - I più te- nui rapporti non sono negletti; e combina una maravigliosa mol- tiplichi di cognizioni per farsi strada all’ oggetto . La Fisica la Fisiologia , la Storia Naturale , quella particolare dell’ uomo 00 In Napoli 1779-80. è perciò e del- Digitized b’y Google   44 xxxi h» e delle Società , tutto è da esso ordinatamente richiamato a dare il risultato , che si era proposto , cioè , a far conoscere 1* essenza reale di questo composto meraviglioso. Incominciando dal punto principale , cioè, dall’ Ineguaglian- za generale degli esseri organizzati , passa all’ esame particolare della Ineguaglianza che nasce dalla diversa destinazione degl'ìnr dividui della stessa specie . Osserva , che la differenza sessuale si va distinguendo a poco a poco dagli esseri più semplici 9 meno complicati fino ai più composti e perfetti . Che questa differenza porta per necessiti di natura una Ineguaglianza di- stintissima nel temperamento, nella forza , nel carattere , nelle passioni , ed in tutto ciò che si chiama meccanismo e sensi-* biliti. ......, _tv-:• ' Si trattiene poi ad osservare la dissomiglianza in ge^qfgjp» degli esseri organizzati; e riducendo questo paragonerai ferenza che vf ha fra IV m+eeanlSrtto delTwnno <fJ»!f$..rR|ljl'* altri corpi organici ', rileva qual sia l’essenza fisica pbitós’' aefc. la spezie umana • Si apre quindi la strada ad esaminéft * geograficamente le differenze, e quindi 1’ Ineguag(^|5- de’ P|po- li e delle Nazioni. Egli scorre con abbondante." -ed adatyy^fcrvp. . dizione la superficie tutta del Globo , indicando le cagioni pria- cipali e le concause , che rendono gli esseri delIiL stessa specie tanto dissimili gli uni dagli altri , e come questa dissomigliati? za fìsica porti nel tempo la morale . Ha riflettuto e dimostra^', che la sola differenza di climi non poteva-produrre questo tv* levantissimo effetto, ma che la situazione locale, la quali$ -delP^- ’-;' ’,aria , , . * • Digitized by Google   xxxii >4 •ria > le maniere diverse di vivere , di nudrirsi , d' abiure vi concorrono necessariamente , e sono forse cause ed effetti nel tempo stesso . La Natura ha prescritto dappertutto la legge dell* Ineguaglianza . Gli uomini sono ineguali, come le piante della •tessa spezie in diverso dima ed in diverso suolo, e come diffe- renti sqno ancora gli alberi della stessa selva . Le cagioni sono qualche volta impercettibili, ma gli effetti ne manifestano resi- stenza . Da questa Ineguaglianza più apparente , par che divenga una Conseguenza necessaria quella della Sensibilità . Nel tempo ster- eo che 1’ Autore sbandisce la Metafisica delle Scuole , tratta i più malagevoli e spinosi punti della Psicologia , e combattendo ora i sistemi ora le ipotesi e le sottigliezze , si fa strada alla Realità , . Per una lunga serie di osservazioni egli gradatamente giunge a stabilire ; Chi la sensibilità negli esseri organici siegue i gradi dfl loro meccanismo ; e che la differenza che vi è fra il tertiro dell' uomo e quello degli altri animali cossituisce la ca- -tatteristica essenziale della nostra seusibiihd paragonata colla ion • • / Che che ne sia della sensibilità assolutaci sonode’corpi più « meno conduttori , ma il più d’ ogni altro è 1* uomo . L’ esame particolare degli organi de’ nostri sensi , paragonati con quelli degli altri esseri sensibili, ne compruova maggiormente 1' assun- to , che anche più resta dilucidato colla dichiarazione di ciò -che si chiama Senso interno , punto centrale della sensibilità e *. *he par che segua la gradazione dd meccanismo e della sen- sibi- * Digitized by Google  .  xxxili >4* eoofesamjwegWBesaoexeBui-^BeSeeeaeeeaaetja sibiliti istessa . Ciocché 1’ Autore ha ridotto nel cap. V. della prima Parte basterebbe per fare un’Opera illustre. L’esame che egli fa della sensibilità , riducendola quasi agli elementi primitivi che la formano e la generano , dimostra che essa non può essere eguale fra gli uomini ; e rileva la dispia-» cevole verità , che il tuono fondamentale della sensibilità è il dolore : tristo partaggio di quest’ essere , di cui divien prin- cipio di moto , e di sviluppo d’ attività in tutu 1’ esten- sione . 1 Alla sensibilità sicgue ì* intelligenza come l’effetto alla causa e che per conseguenza deve portar 1* istesso carattere della sua genitrice. Questa è forse l' Ineguaglianza la piò espressa fra gli uomini ; ma a dir vero la meno fastidiosa . I piaceri dell’ intel- ligenza sublime non s’ acquistano forse che alle spese dell' esi- stenza e della vita. Ne fu un esempio funesto il nostro Gri- maldi medesimo Dalla sensibilità e dall’ intelligenza risultano le passioni e no portano il carattere . Chi non ne vede continuamente l' Inegua- glianza? Due illustri Moralisti Francesi , due nomi immortali per i progressi dalla Filosofia , Montesquieu ed Helvetius , so- stennero le cause uniche delle differenze generali fra gli uomi- ni , 1’ uno rapportando tutto alle cause fisiche , 1’ altro alle morali ; ma 1' amor del Sistema nascose alla loro vista la chia- ra verità che rivela la Natura. Se la sensibilità e 1’ intelligenza fanno nascere le passioni sono queste che determinano la volontà. Tutto dunque è Ine- E gua- Digitized by.Google  .  xxxiv eoaeejeBeaseesaeesoeeBeeaaeaoiyaeo >aiicjaL<ju< quagliatila ; dai primi composti fisici fino ai più sublimi risul- tati morali, tutto siegue questa legge eterna ed inevitabile della llatura . Lo stato d Ineguaglianza morale, cioè dell' uomo come essere pensante, è estesamente sviluppato nel secondo Tomo di codest’ Opera, dimostrandovisi che questa Ineguaglianza è in ragion composta delle facoltà intellettuali dipendenti dai meccanismo particolare degl' individui, e dalle cause esteriori , che più o meno si combinano o si coordinano a svilupparla. L’ Uomo è in relazione con tutti gli esseri che lo circonda- no . Ogni sensazione o piacevole o dolorosa fa una parte della sua vita o della sua esistenza ; e questo è nell’ ordine eterno della Natura , perchè i rapporti degli oggetti fra di essi e con f Uomo sono figli di quella Essenza delle cose , che forse la Natura ci ha velata per sempre ; ma sono quindi necessari co- me la loro stessa esistenza. , La sensibilità è il mezzo che lega V uomo agli altri esseri : Questa facoltà che si estende, si nobilita, si sublima , à dun- que varj gradi relativi a se stessa ed agli effetti che la percuo- tono . Quindi la diversità de’ bisogni e quindi delle percezioni » delle idee c dei sentimenti, che colle necessarie attenzioni svi- luppano le intellettuali facoltà . Ora essendo riconosciuta 1 ine- guaglianza della sensibilità dipendente dalla differenza del parti- colar meccanismo , zie siegue necessariamente , che le impressio- ni degli oggetti esteriori non sieno neppur simili ed eguali ne- gli individui . Ed ecco come la diversità di bisogni e di desi- deri , ' Digitized by Google  .  xxxv derj, che forma l' ineguaglianza morale fra gli uomini contemporaneamente questo principio d’ineguaglianza nella Na- tura stessa , cioè , nei bisogni relativi alla sensibilità di ciascun individuo . Chiunque non vede altro nell’ Uomo in ultima analisi che il Sentimento e V Espressione ravviserà in un colpo la ve- , rità di fatto delle idee dell' Autpre . Stabiliti tali principi , egli rileva primamente colle più giuste osservazioni che 1 indicazione dell’ Uomo Naturale è un’ inven- zione gratuita ed erronea è sempre lo stesso, e allorché diversifica per le circostanze, sono anche codeste naturali , cioè, nell’ordine della Natura che l’Uo- ; raononàuncaratterease, maquellocheè loèperlasi- tuazione relativa alle circostanze giacché in esso vi è altro ,, che la sensibilità modificabile dalle cahse esterne , e circoscrit- ta dalla forza del meccanismo di ciascun individuo. Che quia- di Io stato morale di ciascun individuo i relativo alle circo- stanze sociali combinate con quelle , che sorgono dalla propria sensibilità Con questi principj si apre la strada all’ esame morale deU’ uomo . Egli lo sottopone all’ esperienza , non come un semplice Fisico farebbe, ma come il Chimico più esperto e sensato, sottopo- nendolo all’ operazione di diversi agenti , analizzandolo , ricom- ponendolo , e combinandolo , per vedere in quale stato possa dare più felici risultati , risultati che caratterizzino la differenza e 1’ Ineguaglianza morale degli uomini e delle Società . L’ Uomo solitario è 1’ oggetto di queste sperienze esposto alla E a sciti— dei Filosofi ; perchè l’uomo per Natura , stabilisce Digitized by Google   XXXVI ocsfleesaoejeeoooeaooesocsocBooeaooeaoee'Mtoo semplice vista ; ma nella Società egli è messo ad un vero ci- mento, giacché ivi siscuoprono i varj gradi di rapporti, di affi- nità, di coesione Scc. su i quali si può misurare la sua moralità. Dopo d’ aver considerato che i rapporti dell’ Uomo solitario sono quasi negativi giacché sente appena i bisogni d’una sus- , sistenza che non conosce , per passare a considerarlo nello sta- to <Ii Società, riflette primamente , che la sociabilità è un» qua- lità essenziale dell' uomo ; cosa dimostrabile per ragionamenti se non fosse una verità comune , continua e coesistente colla stessa Umanità. Le Società anno intanto diversi gradi alla per- fezione . Il minimo par che lo conosciamo : ma il massimo , se vi può essere per 1’ uomo , sarà riserbato ad epoche più felici . Ma come tutti questi immaginabili gradi di perfettibilità sociale mettono i componenti in 'rapporti e circostanze diverse , cosi la sensibilità e la morale saranno del pari differenti . Gli uomini posti vicino alle catastrofi del Globo dovettero avere de’ senti- menti proprj ad essi , che nelle prime società di famiglia dovet- tero provare cangiamento ed alterazione . Lo stesso dovè acca- dere quando le famiglie cominciarono a moltiplicarsi , e la gran selva della Terra a popolarsi di selvaggi , e poi per successivi e varj gradi prevenire allo stato di barbarie ancor molto esteso e vergognoso per la specie . Tutti questi lenti passi dell’ umana perfettibilità sono partico- larmente osservati dall'Autore , sempre riportando tutto ai suoi principi , e facendo vedere come naturalmente ne discendano . La gradazione de* bisogni porta quella delle idee e de’ rapporti, dal- Digitized by Google   xxxvir .1 KiueBeteaaoeaeoeeaaoc ^>3frC-»o ccS3g>uce:!>o ysra& dell affinamento della sensibilità , dello sviluppo delle facoltà in- tellettuali. dell attività dello spirito, e finalmente della riflessio- ne . figlia necessaria di quell'olio , che susseguendo ai bisogni soddisfatti > ne vede o immagina gradatamente de' nuovi . In qnesy varj stati, per i quali passa 1' uomo, egli (à vedere come nascano l' indipendenza e la libertà , come si alterino e si per- dano, e come i sentimenti morali cangino d’aspetto al cambiarsi dei rapporti e delle circostanze. In somma egli fa la Storia mo- rale della specie , se non comprovata da documenti che devono mancare , almeno qual doveva essere per necessità di Natura- Scorsa cosi la Storia oscura dell Umanità, dove sempre l' Ine- guaglianza domina e campeggia , perviene finalmente allo stato di luce , all’ epoca della Società civilizzata ed ingentilita . E’ permesso al Poeta ed all' Uomo fortemente appassionato di riso- spirare le selve al centro del vortice sodale , come è loro per- messo di evocar le Ombre e le Furie , che io guidino nel per- petuo albergo dell’obblio . Ma il tranquillo Filosofo , compassio- nando gli eccessi della sensibilità e della immaginazione, richia- ma 1’ uomo ai suoi doveri rimostrandogli le beneficenze della vita sociale • Quando si considerano le Società civilizzate , e la perfettibilità della quale sono capaci , bisogna aver lo spirito falso per abborrirle , o per preferire ad esse uno stato naturale, che non esistè giammai in Natura. Nelle Società solamente si svi* luppano le facoltà morali ed intellettuali deli* Uomo : è dunque in esse che si purifica o si perfeziona la specie. Diogene vole- va ravvicinar 1' Uomo alla Natura , non col degradarlo mino- rando   XXXVIII H* »ando la sua esistenza , ma colla virtù accrescendola e miglio- randola ; e questa non è anch’ essa il più nobile ramo dell al- bero sociale ? E’ vero che nella Società si sviluppa e manifesta maggiormen- te 1’ inegu3gliania morale ; ma in che altro consiste essa che nei gradi di miglioramento del carattere e dei sentimenti degl individui ! E se anche le circostanze sociali portano delle catti- ve abitudini, che altrimenti non esisterebbero, codeste sono mo- derate e ritenute dalle leggi conservatrici . Ma questo rientra nell’esame dell’ ineguaglianza politica, che 6 1‘ oggetto della Ter- za Parte. Qual infinita differenza fra 1 selvaggio e 1 uomo civile ! E' la crisalide trasformata in farfalla . Questa metamorfosi , eh’ è un miracolo agli occhi volgari , non è che un naturale svilup- po a quelli dell' attento Naturalista . Tale è 1’ uomo sodale per chi medita la Natura umana . Ma qual differenza ancora nel seno stesso della Società ! Nel massimo della civilitazione si trova spesso lo stolto selvaggio ed il barbaro feroce , 1’ uomo di genio e lo stupido , il virtuoso Filosofo , 1 imbecille supersti- zioso , 1‘ opulenza ed i cenci ; il Frate ed il Militare esistono nella stessa società e sotto lo stesso Governo. Ma fra i Governi ancora quai triste differenze ? "Lo stupido Despota da un trono invisibile sacrifica milioni di schiavi ; mentre un Rè vive da amico col popolo che lo adora . Un Senato Aristocratico a pas- si lenti e regolari calpesta un popolo che crede degradato per Natura , e che lo è spesso per sentimento ; mentre una Demo- cra- Digitized by Google  crazia , sragionando quasi sempre nelle sue risoluzioni opprime , ,  «M-xxxix h* sooooeaaecaje e tiranneggia gli altri popoli che le appartengono La tumultua- . ria libertà è al centro- la schiavitù , e l’ oppressione alle circon- ferenze . Che strani misti ancora possono sostenersi , senza un contrasto di forze resistenti l E quali specie di sentimenti nascono ancora sotto queste varia- te forme! L opinione sostenuta tà il vessillo dei ineguaglianza; e le leggi, sempre deboli contro • quella dominatrice dell’ Universo, la vedono spesso lor malgrado de' varj Governi , che non dal potere innalbera in mezzo alla Socie- trionfare. Ognuno si sforza per avvicinarsi revole; e se tutti gli sforzi non sono egualmente felici, cosi non- dimeno si scuote l’inerzia fondamentale dell'Uomo , così esso di’ viene un essere attivo, così si sublima a un grado superiore a tutti gli altri esseri senzienti . Le circostanze che s' incontrano , ael corso della vita, determinano gli uomini diversamente in ra- gione della loro sensibilità ; e quindi nella riunione delle azioni . formano un tutto, non di parti similari, ma differenti e dissimi- li , che fermentando necessariamente rigenerano il moto e danno origine a nuove trasformazioni Senza l’ineguaglianza le Società non sussisterebbero. Non posso» no codeste distruggerla, ma non per questo essa porta un caratte- re intrinseco di male: e quando siam persuasi che le idee mo- rali sono tutte relative , e che esse traggono la loro sorgente dai rapporti immediati dell'uomo, ci bisogna esser conseguenti iti riconoscere il bene che fa la Società col moderare e rintuzza- , a quell' insegna favo-  .,.  4*4 XL te i disgustosi eccessi dell’ ineguaglianza che viene dalla Natu- ra . Nelle Società sono nate le leggi protettrici della de- bolezza e direttrici della forza e della Ragione ; e se le Società non danno sempre quegli effetti che dovrebbero per loro natu- ra, non parmi che sia per intimo difetto della cosa, ma della Na- tura umana finora incapace d’ un sublime grado di perfezione Se nondimeno la ragione , la sperienza e la Storia ci mostrano, che 1' uomo in società è sempre determinato dalle cagioni e dalle circostanze ; e che queste sono in gran parte in mano del Legislatore e del Governo , basta far nascere queste circostanze, per far prendere agl’individui quella determinazione , eh è più atta fare la loro felicità relativa • Alfonso 1. amò le lettere , fu !’ amico de' valentuomini , li premiò , li onorò, e durarono iìno al tempo de’ suoi brevi successori La legislazione moderna d'Europa manca ancora dima parte, cioè, del premio alla virtù. Quindi ritieguaglianza divien più do- lorosa , e le leggi non communicano un moto sufficiente verso la Beneficenza . Chi a caso s' avvia per questa strada , vi si vede quasi isolato; e non potendo giugnere all’insegna dell’opi- nione per la gran folla pervenutavi per istrade più brevi, si con- tenta d’ un piccolo tugurio su la via percorsa , e colà vive da Eremita Bisogna assolutamente leggere i tre uhimi Capitoli della Parte Terza, per avere le più giuste e vere idee della Legge di Natu- ra , del Dritto delle Genti e del Civile . J principj fattizj d’ al- cuniFilosofivisonomodestamenteesaminati, colmostrareche essi Digitized by Google   •M XLI essi non s’ adattano all’ uso dell’ umanità , e per conseguenza non sono tratti da quei rapporti coesistenti colla specie , e che non si cangiano , che nei diversi punti della naturale progres- sione . Le prime leggi di Natura sono comprese nella teoria della sensibilità tanto bene sviluppata dall'Autore. Tutti i drit* ti dell'uomo, in qualunque stato, sono una emanazione di quella qualità inerente alla sua esistenza , e su di essa si devono misurare . Quindi dimostra infine che non bisogna giudicare delle azioni morali col rapportarle all’ idea di utile , perchè sa- remo sempre ingiusti ; c clic I" archetipo al quale si devono ri- ferire è la Giustizia , che vale a dire, T espressione perpetua ed eterna della morale verità Ecco il secco scheletro d'un’ Opera pienissima , fatto solo col ravvicinare il più che per me si è potuto le idee principali dell’ Autore relative al suo titolo , titolo che forse per sola mo- destia volte Imporle ; poiché *i -parer mìo , è il più completo corso di naturale Filosofia, essendo tratta dalla vera natura dell’ uomo , ed il più utile, perchè applicabile a tutta la pratica del- la morale ed alla teoria della Legislazione . Qual giustezza • qual vastità di spirito , qual’estensione di cognizioni e quale su- blimità di genio abbiano avuto parte à quest’Opera non può rile- varsi in un estratto. I Giornali d'Europa fecero eco in celebrar- la : e questa e quella del Cavalier Filangieri, facendo molto ono- re alla Nazione , eccitarono le più lusinghiere speranze di ve- der presto in un nuoyo Codice gir'effetti di questi lumi e di ’ queh Digitized by Google  ,.  XLI1 quella libertà che non si scompagna giammai dalla Ragione e dalla Virtù . Una tale Opera che sarebbe stata sufficiente per fare la cele- brità d'un uomo, che poteva farne nascere delle altre utilissime, che non pecca d’ altro che d’ abbondanza d’ idee e profondità di pensieri , avrebbe dovuto fare riposare lo spirito dell’ Autore , se avesse travagliato pel solo desiderio della Gloria . Ma que- sto sentimento lo tormentava cosi poco , che non potè calma- re 1’ attività dello spirito sempre sollecito d; pensieri utili ed interessanti , e lo diresse ad altr* oggetto , che doveva eterna- re la sua memoria colla gratitudine della Nazione. Annali del TTL sentimento di Patria, soggetto ad estinguersi sotto ‘1 di- Regno JlL, spotismo , ricomparisce nello spirito e nel cuore sotto di- versi aspetti ne' Governi moderati. li desiderio della Gloria e del Pubblico bene accompagna costantemente questo sentimento nel- ie anime ben nate ; e ciascuno brama nel suo interno , che, la sua Nazione sia la più rinomata e la più felice . La nostra Nazione è come una illustre antica famiglia della quale si contano tanti -Eroi nella Storia e le cui glorie sono coeve del tempo htcsso s ma ridotta in più povera fortuna ed umile stato , riclama solo per suo vanto le imprese c le gesta de’ suoi maggiori . Vide il Grimaldi che nella folla de' nostri Storici Scrittori si era mancato sempre a quella vista che l' ottimo Storico deve ave- re, 1' utile cioè dell'umanità e della Nazione in particolare per la qua- Digitized by Google   XLIII ì* t<.gaeoaoe3ao(^i)oce9ae5uiryj<xs)3iitsatii3aae»ioi=>» quale si scrive . Vide che uu nudo racconto di fatti non sareb- be stato che una inutile rapsodia atta ad occupare il tempo degli oziosi e degli annojati. Vide che la Storia non è altro , che la vita morale delle nazioni . Vide che i fatti che formano il ma- • teriale d' ogni Storia, non sono che fenomeni, che devono ave-* re delle cagioni . Vide finalmente che la Storia doveva essere d’ un utile presente . Ecco ciocché gli fece nascere l’ idea di compilare gli Annali del Regno . L’apparato delle difficolti da scoraggiare qualunque spirito non fecero arretrare il suo. Quel vigore di sentimento e quella co- stanza ch'ei portava in tutte le sue intraprese, lo accompagnaro- no similmente in questa pur troppo malagevole e difficoltosa. Egl’ incominciò dalla Geografia, non col far una secca no- menclatura o una nojosa discussione critica su i veri nomi a situazioni delle antiche Città e popoli : ma col dare nettamente in risultato quello che vi era di piò verificato e che più im- portava di sapere . Un Filosofo vede con occhio differente da! Filologo gli antichi fatti ed i superstiti monumenti. Così egli non si fermava sn i fatti isolati , ma combinandoli e riducendoli li richiamava quasi a nuova vita , e per tal modo con .molta fatica ci ha dato la Storia de’ tempi quasi del tutto ignoti alla Storia, stessa. Egli ha descritto Io stato barbaro del Regno prima che le Colonie d' oltremare venissero a civilizzarlo : à fatto vedere 1* azione reciproca d qua.’ popoli fra loco. , e per effetto delle j varie leggi , 1' avanzamento degli uni e la decadenza e di$tru-> ' zione degli altri; i progressi della perfettibilità Fi non sociale j Inforza DìgiUzed by Google  LXIV teMPOeeOaaoaBoeeesoeieeaeBOiuo^eeaooo» non sempre accompagnata dalle ricchezze : la popolazione o le coltura crescer col commercio e colle arti e poi divenir preda d’altri popoli più guerrieri. Egli discese fino alla particolarità di quelle costumanze che allora si chiamavano Religione , feroce o lieta secondo lo stato e carattere della Nazione. Lo stesso Go- verno economico e politico non è stato trascurato , mostrando come questi popoli liberi e divisi sapessero poi formare un uni- tà ed una forza concorde , che formasse di tanti voleri un so- lo, cioè , quella volontà generale , che è la legge eterna delle Nazioni . Le arti , 1; agricoltura , le Scienze anno anche meritato la sua particolare attenzione : e sebbene sembri eh' abbia rab- bassati troppo i popoli Autottoni d Italia , pure chi considera: attentamente, troverà, che si è egli voluto attenere più alla ve- rità Storica , che alla vanità Nazionale In tutto fi corso di questa Storia la di lui penna è sempre animata dal cuore. La tirannia , il vizio t la superstizione , che entrano pur troppo spesso nella Storia dell’ uomo , sono mostri che non si stanca mai di combattere , smascherandoli anche dove li uova coperti e velati , per far via più campeg- giare la vera gloria e la virtù, sempre rara nel corso de’ secoli. La libertà , parola volgare , poco ancora intesa , dritto prezioso dell’ uomo e più prezioso per la Società , è sempre rilevata dall’ animo del vero Filosofo , che non può far a meno d’ amarla . ' Su questo gusto egli tratta la Storia de’nostri progenitori . fin- ché essi e l’ Italia tutta non perderotto la propria esistenza , per diventare nou sudditi ma schiavi di Roma. U .  . Digitized by Google  .  4*^ XLV >4* la forma del Governo cangia il carattere morale de popoli „ Niente di grande , niente di generoso sema 1’ amor della Patria e sema il sentimento di libertà . Un lusso distruggitore, il lan- guore dell’ inerzia , la schiavitù e la spopolazione corteggiano sempre il dispotismo. E questo è il quadro degli antichi popoli sotto l' Impero de’ Romani I Barbari distruggendo l’Italia la rigenerarono. Essa non po- teva rinascere che dalle sue ceneri : ma con qual progresso lento , con quali nuovi errori , con qual nuova strage deli* u- manità riprendesse questo corso , tutto è attentamente rimarca- to dall' Autore , a cui nulla sfugge di quanto deve far vergo- gnar 1' uomo delle sue pretensioni o consolarlo ed istruirlo . Ma è inutile di parlare più oltre di quest’ Opera, che è nelle mani & ogni onesto cd illuminato cittadino . E' stata vera disgrazia della patria, che l’Autore sia rimasto a mezzo ’l corso della sua vita e del più utile prodotto , che potesse dare alla Nazione. Ecco con quali Opere Fr. A. G. rese immortale il suo nome. Ecco con quali mezzi cercò di essere un utile e benefico cittadina Ecco quali titoli abbiamo di celebrare e piangere la sua memoria. La di lui vita si può dire compresa tutta nelle Opere sue , non solo perchè le idee nuove e sublimi fanno quasi 1’ apice dell’ esistenza d’ un uomo di lettere e d’ un vero Filosofo ; ma per- chè nelle di lui Opere morali souo espresse e manifestate quelle idee, e que’ sentimenti ch'egli esercitò in tutto il corso del suo vi- vere. Tuttavolta il mio cuore sente ancora il bisogno di parlare, di qualche altra particolare circostanza. Si Digitized by Google   4*4 xlvi >4» Si inno ordinariamente delle strane idee s» la sensibilità del cuore umano . Si dispensa e prodiga spesso il titolo di sensibi- le alle anime deboli o alterate , credendosi volgarmente che la sensibilità non possa esser compagna della virtù e della ragione. Bisognerebbe essere o stupido o affatto depravato per rimaner insensibile ai più lusinghieri e naturali sentimenti; ma questi per essere conformi alla loro destinazione) devono nascere da quella analogia d' idee , da quella uniformità di sentimenti e da quel- ( la consensibilità di cuore) che formano la base armonica dell' amore.-Se un uomo sensibile resta indeterminato a questo sen- timento , non è certamente per mancanza di sensibilità fonda- mentale, ma dal non essersi ancora incontrato con un cuore v che possa combaciarsi e quasi amalgamarsi col suo . Rari in- contri , ma possibili, per consolazione della spezie tonio Grimaldi fa abbastanza ragionevole e fortunato, per collo- care gli onesti sentimenti del suo cuore in quello della Contessa tratteggiata dall' espressione della virtù c dei doveri , era poi quasi alluminata Aurora Barnal a. Una fisonomia felice, fortemente da più soavi e teneri sentimenti del cuore. La dolcezza delle -sue maniere , la facilità della sua ragione il gusto per , laverità, la superiorità ai pregiudizj desiderj ( virtù rara nel sesso ) faceva parere che fussero tras- fase nella di lei anima le virtù del suo compagno come spesso , il disinteresse , e la temperanza dei , una maschile fisonomia ei conosce in più delicato volto e pren- , de la morbidezza e ’l carattere del sesso che investe- Con que- ste qualità fondamentali si potrebbe mai dubitare , se D. Auro- ra ! Francescan- Digitized by Google  4*4 XLVII H ra facesse la feliciti della sua famiglia , se fosse la più teneri amica del marito , la più saggia madre delle sue figliuole , la più atta all’incarico delle domestiche cure ? Non si conosceva intera- mente F. A. G. sema conoscere ancora qual donna egli s’ avesse assortita . Gli amici e confidenti di lui erano egualmente j suoi Lo spirito di ragione e ’l gusto ch’essa portava su varj oggetti, ne rendevano la compagnia egualmente piacevole ed interes- - sante . la sua casa era quindi il punto di riunione di coloro che ai talenti accoppiavano le Non è questo il luogo di fare il catalogo dei molti amici del Grimaldi * tutti conosciuti per merito e per probità ; mi non posso trattenermi dal ricordar colui la cui memoria dovrà esser mai sempre cara alla nostra Nazione , dico d’Antonio Genovesi, padre e creatore de’ nostri ingegni Quell’ Uomo egualmente di . cuore benefico e di spirito sublime aveva assai punti di rappor- to per esser stretto amico del giovine Grimaldi , che già in fre. sca età dava non dubbj segni d’ esser destinato a divenirgli successore nella pubblica stima , e nella celebrità » Grimaldi era un uomo che abbisognava d'amare per istinto; sin- cero e semplice nelle sue maniere come ne’ suoi sentimenti , il suo cuore non era chiuso nè dalla diffidenza nè dal disingan- no . La libertà della- sua ragione non era mossa nè dallo spiri- tò di dispuu nè dal gusto di primeggiare : ma aveva il giusto principio di richiamare tutte le idee allo scopo dì qualche uti- lità morale . Con questa maniera di pensare , oh quanto d’ inu- tile si trova negli usi ordinar) della vita ! Eppure essa dà il meto- do p iù lodevoli qualità, del cuore- .  * Digitized by Google   4*4 xlviii >4* do più vantaggioso per giudicare del bene reale delle cose e del- le azioni . I suoi più prediletti discorsi si raggiravano su que- sto punto che tanto facilmente ricorre nelle Capitali . dove la grandetta della scena è proporzionata alla moltitudine degli at- tori . Così quest’ uomo nel tempo che si sottraeva alle necessa- rie applicazioni' non si distraeya in inutili trattenimenti , ma in compagnia d’eletti amici rilevava Io spirito con altre idee era-, gionamenti d’un utilità più ordinaria e generale. Non solo i nazionali ma gli esteri ancora vollero avere il piacere -di vedere dawicino quest’uomo illustre, e restavano sor- presi nel riconoscere in una somma semplicità di maniere quel Filosofo , che in lontananza avevano altrimenti immaginato. Egli però poco desideroso di essere conosciuto , niente avida» di gloria letteraria , anzi pieno d’ una vera modestia che ac- cresceva il di lui merito reale, evitava. le nuove conoscenze, e cercava di tenersi chiuso eristretto fra’l numero di pochi amici, eh’ egli più che fraternamente amava . Pareva che non esistes- se veramente fuori della sua famiglia . Cosa rara nel seco- lo ! Le persone eccentriche ai sentimenti primitivi , che anno bisogno d’uria esistenza adjettizia, che unicamente vivono in so- cietà estranee ad essi, o dnno la disgrazia d’aver sonito circo- stanze infelici , o non esistono che per 1’ ambizione e per la vanità . La prima morale comincia, dai primi vincoli e rapporti che ci dà la Natura ; e chi non sente questi non sentirà che in apparenza quelli della società che sono più lenti. Chi non trova i germi delia sua felicità nella prima società naturale, potrà difficil- jncu- Digitized by Google  44 XLIX euere39ee»au(^>jeejeBg3eomjaoiie35e»^><- c»iwieeao «ente rinvenirli altrove. Quindi egli menava il più che poteva la vita domestica , e poco si estrinsecava , anche per non inde- bolire i vincoli del cuore , che si spossano nelle troppo suddi- vise diramazioni . Non potè però celarsi allo sguardo di chi lo cercava senza conoscerlo. 11 Generale Afton, desideroso d’avere al suo fianco un uomo , che all’ estesa cognizione delle Leggi riunisse non ordinarj talenti e le più preziose qualità del cuo- re, non altrove seppe porre il suo giusto sguardo e fermar la sua scelta che sopra Grimaldi, già molto conosciuto per nome e per i suoi libri in Europa. Egli lo rese noto alla Maestà del Sovrano che sempre amante dc'talenti dc’suoi sudditie voglioso di ricono- scerne il merito , fece che restasse impiegato nelia delicata cari- ca d’-Assessore de’ suoi Reali Eserciti, avendolo poi in mira per altre situazioni , dove più utilmente e più estesamente avrebbe impiegato la forza de’ suoi talenti, e l’attività del suo cuore. Io non devo estendermi sii! dìsiiBpegno particolare della sii* Carica . Pieno di talenti , della più vera rettitudine di cuore , ed esercitato alla virtù chi potrebbe dubitare se ben l’esercitasse è li Publico ne ha fatto l' Elogio, e lo ha fatto colle lagrime . Nel rimanente della sua vita privata era lo stesso cogli estranei e co- gli amicj . Ignorò sempre ciocché si chiama lingua e tuono del mondo , non essendo stato giammai Cortigiano , nè potendo es- serlo pel suo carattere . La verità usciva nuda c sincera dalla di lui bocca, e la espressione di essa gli era cosi naturale come il sentimento» Mai ricercato o ingegnoso, non isforzava lo .spiri- to per mostrare d’ averne , e le sue maniere non erano model- G late ,  Digitized" by Google   L eCJlMStysooe^fle^oe^e^nr^anp^sagsg^at x —v^' * s^ey— late sul gusto o sulla moda , ma spontanee , cordiali e vere . , In tal guisa egli faceva la delizia di chi aveva la fortuna d' essergli vicino. In questi ultimi anni però era poco il tempo che poteva con- sacrare all’amicizia. Pieno di sentimenti di dovere pel suo im- piego , ei s’ occupava in gran parte di quello e compromesso ; col pubblico e con se stesso per l’Opera degli Annali, travaglia- va e meditava assiduamente su quest’ oggetto a lui caro . Ru- bava le ore- necessarie al rinfranca delle perdite giornaliere della macchina per soddisfare alle intense brame del suo spirito . Ma questa combinazione eccessiva di fatiche alterò non poco la sua robusta e valida costituzione* Gli accessi del male che soffrì più volte , furono tanto ferali, che minacciarono la sua esistenza : ma fatto più per abbandonare se stesso, che disposto a trascurare in menoma parte i suoi doveri, non si diede mai un serio pansiere della propria conservazione. La sofferenza che si aveva acquistata per i mali fisici passava qualche volta in neghittosa noncuranza, nè voleva ricordarsi della pur troppo stretu dipendenza del no- stro essere dallo stato delf organizazioue . Le rimostranze che gli si facevano per questo , erano sufficienti per disturbarlo ; e se qualche volta si ridusse per le amicali violenze a temperare alquanto le sue applicazioni, e a prendere qualche cura della sua esistenza , ad ogni piccolo miglioramento ritornava inconta- nente ai modi usasi . senza badare , quanto la machina, indebo- lita prende con faciliti le cattive abitudini , che ne portano 1* distruzione .Ma V intemperanza nelle applicazioni dello spirito,'. è sta- Digitized by Google   +Ì LI H* è stata in ogni tempo il difetto comune ai grandi e sublimi ta- lenti. In questo stato d’ assidue fatiche e di spossatezza , un colpo terribile gli fece risentire la catastrofe , che nel disastro della Calabria involse anche il luogo della sua nascita . Quel giorno di lutto comune della Nazione fu terribile per lui, che colla ma- dre perde cinque altri individui della sua virtuosa famìglia . La ragione non à fòrza di consolare il cuore destinato a sentire e non ad essere comandato.; e In inaura»*»»*»»» dell» sensibilità so- no le più distruttive di questa nostra tenue e troppo complica- ta organizzazione • In mezzo al più vivo dolore il Grimaldi non diede soltanto sterili lagrime alla Patria . Egli per Sovrano com- mando fu il primo descrittore di quella fatale sventura , il pri- mo a suggerire le necessarie viste d’una ben intesa beneficen- za , ed a sollecitare la sensibilità, del Trono per conservare gli avanzi di quel popolo infelice. Dalle di lui carte ne nacquero altre molte , che forse quanto inno di esattezza Io devono s quelle , eh’ egli per sua modestia non volle publicare Ma forse nè per quel violento attacco di sensibilità, nè in con- seguenza delle nuove fatiche l’ arressimo immaturamente pianto, S® il più terribile e fatai colpo non l’avesse sopraffatto in questo sta'to di salute indebolita . Egli vedeva da più tempo la diletta compagna del suo cuore, in età giovane ancora, perdere quell* espressione.ti «alm*. r: -1—lietaunafisonomia. Tutte le attenzioni che trascurava per se medesimo, volle che fos- sero moltiplicate per lo sospirato ristabilimento della sua consorte Ci . •0 Qigìtized by GoogleJ "1   4*i LII >4. td amica- L’insinuante qualità del male , che già della di lei tersotia si era impadronita, dava luogo a frequenti alternative di speranze e di timori: ferite mortali nell'animo di chi ama . Chi è stato anche solo spettatore in si fatti casi conosce in qua- le stato d’ orgasmo sia un cuore sensibile, ed a quali lacerazioni sia in necessità di soggiacere . Il male che nel corso di circa due anni distrusse la vita d’ Aurora Darnaba , fece anche crol- lare quella cfel suo illustre consorte . Le anime sensibili e non infelici nel sacro nodo ronjugale possono forse sole immaginare qual profonda acerbissima ferita dovè farsi nel cuore superstite . Gli amici , che gli erano d’ in- torno, vedevano espressa su la di lui costretta fisonomia l’ im- mensità del dolore e P indifferenza alla vita . Il solo amor pa- terno poteva ancora rendergli non odiosa 1' esistenza ; ma la macchina non resiste alla gravezza de’ mali dell'animo . ed O T una o 1’ altro deve soccombere. Gl’incomodi, che prima Pavé- vano travagliato ad intervalli, divennero continui; le medele a- vevano perduto la loro attività; la macchina ora indebolita a se- gno , che un colpo solo tolse la più preziosa esistenza per 1‘ a- micizia e per la virtù • La perdita del Pubblico e degli amici è irreparabile ; ma le cinque nobili ed afflitte pupille ànno trovato nei cuori di Fer- dinando E Carolina la sensibilità e P affetto dei loro Geni- tori - Possa «ampie hi BemeficenT» far I’ Elogio de’ nostri adora- bili Sovrani ! Questa è la vera riconoscenza eh’ essi possono testimoniare alle ceneri dell’ Illustre Cittadino , come queste pO- Digitized by Google   un >4* poche pagine e questi sentimenti sono dopo le lagrime l' uniccr omaggio , che 1’ amicizia poteva consacrare ALLA MEMORIA ETERNA DI FRANCESCO ANTONIO GRIMALDI; v. A. XLU. M. IXFrancesco Antonio Grimaldi. Francesc’Antonio Grimaldi. Francescantonio Grimaldi. Marchese Grimaldi dei signori di Messimeri. Keywords: compassione, la compassione, Romolo bruto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura ed inter-azione” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691180351/in/photolist-2mQHpXE-2mPpb7N-2mKC3nj-2mKLP2r-2mKRy6y-2mPHbXQ-nSmehQ-mujkJt-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujmJz-mujhJF-mujo6x-mujjcR

 

Grice e Gruppi – la via italiana al socialismo – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Torino). Filosofo. Grice: “Gruppi is an Italian philosopher; at Oxford, someone who writes only on politics is not considered usually one!” -- Il concetto di egemonia in Gramsci Incipit Antonio Gramsci è senza alcun dubbio quello che, tra i teorici del marxismo, ha maggiormente insistito sul concetto di egemonia; e lo ha fatto in modo particolare richiamandosi a Lenin. Anzi, direi che, se vogliamo vedere il punto di contatto più costante, più scavato, di Gramsci con Lenin, questo mi pare essere il concetto di egemonia. L'egemonia è il punto di approccio di Gramsci con Lenin.  Citazioni La scienza si ha quando si supera il dato immediato, l'apparenza; si ha con un salto dialettico. In tutte le analisi che Gramsci conduce, io trovo la presenza di un filo rosso che le guida, presente in tutti i Quaderni. Luciano Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Riuniti, Roma.  Gramsci è senza dubbio quello che allaccia, se così si può dire, congiunge il movimento operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è giustamente il primo bolscevico italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del nostro Paese. Attraverso un processo che fu complicato e che parte dalla sua comprensione non completa, ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione d'Ottobre, arriva ad affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il Capitale di Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del Capitale, secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della funzione del partito come guida dei processi rivoluzionari.  Gramsci sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin con un processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è un approfondimento del pensiero di Lenin.  Gramsci si aggancia direttamente al concetto di dittatura del proletariato come si trova in Lenin, individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo mutamento della struttura economica e politica del paese, ma una profonda rivoluzione culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini non solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più essere la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in Russia.  La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di pensiero, secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e filosofia affermando che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di agire, sta nella sua politica più che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo egli ricava che il principio teorico-pratico dell' egemonia (e qui egemonia significa dittatura del proletariato) ha anch'esso una portata gnoseologica, cioè di conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo.  Lenin avrebbe fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due elementi.  In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche la filosofia o le filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca, come aveva detto Engels, e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilic [Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico, cioè nel senso di pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta».  Il processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una riflessione sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma sullo Stato borghese italiano, una individuazione della sua specificità.  In un articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato italiano che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet come la città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la natura spietata della classe proprietaria.  Si può dire che lo «Statuto albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera iniziativa.  Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che presidi almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione, mentre negli altri Stati democratico-borghesi almeno una garanzia, almeno formale, esiste, in Italia non c'è neanche la garanzia formale.  Negli Stati capitalistici che si chiamano liberal-democratici l'istituto massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato italiano la giustizia non è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è uno strumento della corona e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del ministro della Giustizia. Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico ministero avviene ad opera del ministro della giustizia. La direzione generale delle carceri, le direzioni particolari, gli agenti della pubblica sicurezza, tutto l'apparato repressivo dello Stato dipendono dal ministero degli Interni, si capisce perché in Italia il presidente del consiglio si riservi sempre il ministero degli Interni, come era tipico nello Stato prefascista, in modo che tutto l'apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue mani.  Il presidente del consiglio è l'uomo di fiducia della classe proprietaria - alla sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara a conquistare la maggioranza parlamentare con la frode e con la corruzione; il suo potere è illimitato non solo di fatto - come è indubbiamente in tutti i paesi capitalistici - ma anche di diritto, il presidente del consiglio è l'unico potere dello Stato italiano.  La classe dominante italiana non ha avuto neppure l'ipocrisia di mascherare la sua dittatura, il popolo lavoratore è stato da essa considerato un popolo di razza inferiore che si può governare senza complimenti, come una colonia africana. Il Paese è sottoposto ad un permanente regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della notte un ordine del ministro dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento l'amministrazione poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei locali di riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via amministrativa la libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in difesa contro la brutalità ed i contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il semplice ordine di un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e perquisito, una riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore cancella uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di un prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di sciogliere un'associazione, ecc.».  È un'analisi spietata dei limiti liberali e democratici dello Stato liberale italiano, della sovrapposizione del potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere giudiziario, è una descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai prefetti, ai questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà.  Ora a questa visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano, Gramsci ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come per Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si organizza sin da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per Lenin, viene concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si compie in un determinato momento.  La domanda infatti, che egli si pone nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto il lavoro del giornale, dell'Ordine nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a Torino, un embrione di Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le commissioni interne. E aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in qualche cosa di piu, bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza dei Consigli di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla loro iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina, per mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento non solo della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un organismo attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della produzione, della organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della produzione, stabiliscono un potere nella fabbrica, un potere democratico della fabbrica e un potere che poi dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a diventare potere nella società e nello Stato.  indice  I consigli di fabbrica  Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice salariato - schiavo del capitale, non cosciente della funzione storica della propria classe - in produttore (egli prende da Sorel questo termine), ma esso è presente anche in Marx quando parla della Comune come l'autogoverno dei produttori e non più degli operai salariati, cioè dell'operaio che ha superato ogni limite corporativo, che non ragiona più come mentalità di categoria, di classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri interessi immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e interprete degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale, forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire.  Egli scrive nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitraggio e di disciplina, sviluppate ed arricchite dovranno essere domani come organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Cioè bisogna imparare prima a dirigere le fabbriche se vogliamo abolire il capitalismo.  Fin d'ora gli operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee di delegati scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola d'ordine: «tutto il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata all'altra: «tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini».  Vi è, quindi, un tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a fare come in Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li va a cercare nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste, cioè le commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e molta più capacità rappresentativa.  A questa concezione di elevamento della funzione dirigente della classe operaia prima della conquista del potere, come condizione della conquista del potere, qui Gramsci ragiona già alla leniniana, a questa sua concezione si contrappone un'obiezione di Bordiga e del suo giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio, utopico pensare che la classe operaia possa avere una funzione dirigente nella fabbrica prima della conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti, solo quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere nella fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo prendi?  Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo di crescenti contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla grande crisi che è il momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il proletariato e il Partito comunista devono prepararsi mantenendosi puri, intatti, non contaminando si in alleanze, in compromessi e in cose del genere. Vi è cioè in Bordiga una visione meccanicistica, di materialismo volgare, meccanicistico del processo rivoluzionario che ignora la funzione del soggetto, del partito.  Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni parlamentari. Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato. Riprende cioè una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed Engels avevano polemizzato, come Lenin polemizza inEstremismo malattia infantile del comunismo contro queste posizioni di Bordiga.  Per Gramsci, invece, ripeto, la rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad illustrare tutte le vicende dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero dell'aprile del '20, detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la questione dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il padronato decise di passare dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare senza avvertire i consigli di fabbrica.  Gli operai arrivarono in fabbrica e trovarono le lancette dell'orologio spostate e fu lo sciopero. Era in gioco una questione di principio: il potere democratico del consiglio di fabbrica. L'ingenuità fu il non aver unito alla questione altre rivendicazioni piu sostanziose che potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu solo una lotta di principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe padronale passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il momento più avanzato della lotta, ma un momento di difesa.  Funzionarono, però, i consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la disciplina, ma nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè il movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della fabbrica, e anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e soprattutto una grave debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico limite dell'Ordine nuovo.  Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei consigli con l'occupazione delle fabbriche si pone l'esigenza del partito, come momento unificante di tutto il movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci aveva visto, ma in modo incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva privilegiato i consigli rispetto alla questione del partito stesso.  indice   Necessità della ricognizione nazionale  La riflessione di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare? scritto per una rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati sconfitti?  Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce il proprio Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro sulle stratificazioni sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle classi, non è uscito un libro sulla storia dei partiti italiani, c'è un'infinità di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in Sicilia i contadini sono autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono autonomisti i latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti gli anarchici sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere perché non conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo, che Marx ed Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco l'esigenza di usare il marxismo non come strumento di propaganda, ma come strumento di analisi, di comprensione della realtà.  Certo, spiegare la sconfitta del '20-21 col fatto che non si conoscesse bene l'Italia è insufficiente, è unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli elementi della verità.  Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del partito col '24, cercherà di arrivare ad un'analisi dell'Italia, ad una conoscenza del processo storico italiano. Le tesi del terzo Congresso di Lione sono un'analisi del processo attraverso cui si è formato lo Stato unitario italiano per individuare da questa analisi concreta, storica, le forze motrici della rivoluzione nella classe operaia del Nord e nei contadini del Mezzogiorno e delle Isole. Si veda il saggio sulla Questione meridionale, contemporaneo alle Tesi di Lione.  Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25 aveva già usato in polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il concetto leniniano dell'egemonia, dell'alleanza della classe operaia con gli altri ceti e soprattutto con i contadini e si è attenuto ad una posizione astratta per cui la classe operaia deve restare chiusa in se stessa, ha temuto che ogni alleanza fosse una contaminazione piccoloborghese della classe operaia, per questo non ha capito l'essenziale di quello che è il leninismo, alleanza operai contadini, costruzione dell'egemonia.  Nella Questione meridionale inoltre Gramsci pone non solo la questione meridionale come elemento nazionale decisivo e quindi chiave della egemonia della classe operaia, ma entra in una definizione pili precisa della egemonia. Che la questione meridionale sia elemento decisivo della egemonia è un momento molto importante, perché non aver capito questo aveva reso il movimento socialista subalterno alla politica della borghesia e di Giolitti, cioè aveva accettato la politica di Giolitti assai limitata, da un lato, e, dall'altro, riformistica senza riforme in un certo senso, che però faceva concessioni alle cooperative del Nord, al diritto di associazione, alla funzione dei sindacati, non interveniva come Stato nei conflitti del lavoro, ecc., facendo pagare tutto questo al Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la politica della camorra, degli «ascari», cioè dei deputati che andavano in Parlamento per votare sempre « Sì », reclutati attraverso le clientele, ecc. Il modo in cui si spezza l'egemonia della borghesia è il modo in cui si rompe questo blocco industriale e agrario tra la borghesia capitalistica del Nord e i grandi proprietari terrieri, latifondisti del Sud, e si salva l'alleanza classe operaia del Nord e contadini del Sud.  A questo proposito Gramsci dice: il proletariato può diventare classe dirigente e dominante, nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, il che significa in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti in Italia): nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine.  La questione delle alleanze, quindi, è vista come questione decisiva per conquistare il dominio e la direzione, e la questione contadina viene vista come essenziale. Ma non la questione contadina in generale (tra l'altro non esiste). La questione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la questione contadina ed agraria in generale, in Italia la questione contadina ha, dice Gramsci, per la tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto con i contadini del Sud e con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di ispirazione cattolica.  Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire che c'è un altro passo in cui egli si richiama alla dittatura del proletariato, che l'egemonia viene vista come una direzione che si conquista nella società civile e la dittatura del proletariato è concepita come la forma statale, politica dell'egemonia, anzi essenzialmente come la forma. statale.  Inserisce qui una distinzione tra società civile e Stato. Nella società civile l'egemonia, nello Stato la dittatura del proletariato, che però in Gramsci non è così schematica. I due momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che la distinzione tra Stato e società civile, società politica e società civile è una distinzione puramente di metodo, metodologica, non organica, perché in realtà questi due elementi sono fusi. Società civile e Stato non SI separano nella realtà.  Come è noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che significa dirigere, guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel significato tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel senso originario, etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo termine da Lenin, perché Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione democratico-borghese; Lenin non lo usa più nel 1917, quando usa ormai il concetto di dittatura del proletariato. Ma non c'è dubbio che la capacità dirigente della classe operaia nel processo rivoluzionario congiunge nel '17 strettamente la rivoluzione democratica alla rivoluzione proletaria, in modo che la dittatura del proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione democratica, quegli obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella dittatura del proletariato vengono infatti indicati, come obiettivi primi, obiettivi democratici e non obiettivi socialisti: la terra ai contadini, la nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo. indice Egemonia e blocco storico Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del proletariato, ma riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e realizzata da Lenin. Poiché l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione del 1905 fu sconfitta, significa che Gramsci usa il termine di egemonia nel senso di dittatura del proletariato, quella teorizzata e realizzata.  Ora Gramsci sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il consenso, la coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia?  La chiama egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato la funzione dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e ideale che l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso uso dei termini. Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato, sia perché era quello rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno (si era sempre intesa la dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle libertà, e non come l'essenziale capacità dirigente, come Lenin aveva sempre più sottolineato, man mano che veniva avanti la costruzione del regime sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci usa questo termine, la egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze del '19-20-21 e si pone ancora la famosa domanda: perché non abbiamo vinto?  Non abbiamo vinto, dice Gramsci, perché bisogna capire le differenze che esistono tra una società e un potere politico come quello russo, zarista, e un potere politico in una società come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati. La domanda - si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le condizioni oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una risposta in questa analisi di Gramsci.  Gramsci dice: in Oriente, cioè in Russia, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatina sa (ecco il punto); nell'occidente tra Stato e società civile c'è un giusto rapporto e nel tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava una robusta catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a Stato) ma questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale. Ecco la grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente casi, in una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una enorme burocrazia zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui quando lo Stato andava in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta militare e durante la guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente che resisteva.  In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e lo Stato italiano tremò fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta struttura della società civile, c'era l'apporto del capitalismo, le sue organizzazioni, la sua tenuta culturale e cosi via.  Questo, secondo me, è un tentativo di risposta di Gramsci al perché nel '19-20 siamo stati sconfitti, ma è al tempo stesso una riflessione molto più generale sul modo in cui si pone il problema della rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati.  Di qui egli trae la necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in altre pagine . Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale, gelatinosa, era possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe rapidamente risolutivo, in Occidente è necessaria la guerra di posizione, che qui non significa stare fermi. 'è un altro passo in cui con guerra di posizione Gramsci indica una relativa staticità dei processi sociali e politici, qui non significa questo, qui guerra di posizione è la guerra di trincea, per cui vai all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè individui i gangli essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica (attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto di tutte le complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la rivoluzione.  Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo dall'Ordine Nuovodel '19-20, attraverso La questione meridionale per arrivare ai Quaderni, perché il problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare anche in Italia come in Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo dal movimento reale, non astrattamente.  Nel '26 già individuiamo che cosa distingue la questione contadina in Italia dalla questione contadina in Russia. Come noi risolviamo questo problema decisivo della egemonia proletaria che Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini? Qui che cosa è l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è questione vaticana che l'origina.  Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza di una strategia, cioè dice: non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno di una ricognizione del terreno nazionale, cioè di una analisi concreta della situazione concreta italiana, di calarci nel processo storico, nella originalità dei processi sociali, politici e culturali del nostro Paese.  L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata) applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del fronte unico della classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla Terza Internazionale, al suo Quarto congresso del 1922, la individuazione di un tipo diverso di lotta rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a mio parere, molto di più di quanto Lenin non volesse dire, forza il suo pensiero, lo porta oltre.  Lo porta oltre però partendo da intuizioni che in Lenin ci sono, perché vi sono scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno conosceva in cui Lenin dice: in Occidente tutti i lavoratori sono organizzati, non è come in Russia dove non c'erano sindacati, dove i partiti avevano scarse radici, non avevano avuto una vita legale, ci sono cooperative, sindacati, partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente tutti i cittadini partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia », quindi Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una strategia, diversa, cioè il fronte unico.  Gramsci parte da questa intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto oltre e sottolinea fortemente la necessità di una ricognizione del terreno nazionale: una classe di carattere internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristici e municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in un certo senso, cioè deve calarsi profondamente nella realtà nazionale se è internazionalista, in quanto è internazionalista, se vuole dirigere i contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare la specificità del processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile al di fuori della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di individuare la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società, l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo livello di cultura, scoperta di cose che non si conoscevano.  Questo nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è individuazione della tattica e della strategia nuove che si devono usare in determinate situazioni.  Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx aveva detto nella Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una società sono le idee della classe dominante, cioè la classe dominante diffonde le sue idee, la sua cultura, la sua ideologia in tutta la società. più esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica dell'economia politica del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di proprietà prevalente, che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il modo di pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di produzione e il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi questa contraddizione, la contraddizione che esiste nel modo di produzione capitalistico, tra classe operaia e capitalisti per esempio, pone in discussione non solo la politica economica, le questioni sindacali immediate, ma anche la politica e la cultura delle idee della classe dominante.  Non appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato, assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non soltanto delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una concezione del mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che contrappone ai valori ed alla morale della società dominante. Attraverso un processo enormemente faticoso, attraverso una piccola avanguardia, poco alla volta, cerca di strappare all'egemonia ideale e politica della classe dominante una parte sempre più grande della classe operaia e dei suoi alleati, contadini, ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali.  Ora Gramsci si chiede come si tiene insieme una determinata società, cioè un determinato «blocco storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene insieme questo rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di scambio, e lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui interessi sono opposti.  Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli operai, tra i contadini, i cui interessi sono opposti a quelli della società capitalistica, non solo con l'influenza politica, dice Gramsci, ma con l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco storico, che lo salda, che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo differente, ma con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande cemento del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere dissociata dal momento dell'ideologia e delle idee.  Noi allora abbiamo un processo per cui le classi, antagoniste per interessi, sono subalterne all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una propria cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi subalterne è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne sono però spinte alla ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non riesce ad organizzarsi in una politica perché c'è subalternità ideale, culturale.  È necessario tutto un processo perché le classi subalterne diventino autonome, si diano un partito, una linea politica, una concezione culturale, e allora da autonome lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già prima della conquista del potere possono diventare egemoni, cioè. diffondere la propria concezione non solo politica, ma culturale, in tutta la società.  L'egemonia si conquista prima della conquista del potere ed è una condizione essenziale per la conquista del potere.  Il processo di egemonia è quindi un processo di unificazione del pensiero e dell' azione perché - quando le classi sono subalterne - può esserci per esempio una insurrezione contadina unita all'affermazione che i proprietari della terra ci sono sempre stati, e magari sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per sistemare le cose. Può accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in corteo al palazzo dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo zar pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della chiesa ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.  Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è quella della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata che vive nella coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale. Bisogna sogna congiungere questi due elementi attraverso un processo di educazione critica per cui la filosofia reale di ciascuno, la sua politica, diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia dichiarata. Per giungere a quel processo di unificazione di teoria e pratica, di costruzione di una cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le due cose sono strettamente congiunte per Gramsci.  Gramsci riprende questo concetto di riforma intellettuale e morale ancora una volta da Sorel, ma cambiandone completamente i contenuti. Riprende anche un tema tipico della cultura italiana del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo Oriani, per esempio, come nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia mancato qualcosa di simile alla riforma protestante, cioè una riforma della concezione del mondo e morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è stata invece la controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione del dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia, che ha viziato profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei cortigiani, ne ha fatto dei servi.  È mancata una riforma protestante. Gramsci dice che non solo è mancata una riforma protestante, ma è mancato qualche cosa ben di più della riforma protestante; qualche cosa di analogo all'illuminismo francese del settecento che preparò la rivoluzione francese, qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese. indice La nozione di intellettuale Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro compito che era di diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo umanesimo :fino agli strati più profondi e più incolti del popolo. Come era necessario fare. Gli intellettuali democratici laici non l'hanno fatto perché si sono mantenuti come una casta separata, con un suo linguaggio separato, con una sua vita culturale separata. È mancato l'elemento essenziale della costruzione democratica e di una riforma intellettuale e morale nel nostro Paese, cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa cattolica, perché la Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla due linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta bene attenta che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al tempo stesso.  Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una riforma intellettuale per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo lasciano la religione che è la filosofia di quelli che non hanno filosofia cosciente.  Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici lo può fare la classe operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e creando nuovi quadri intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i suoi quadri, i suoi dirigenti.  Qui muta completamente la nozione di intellettuale, l'intellettuale non è chi sa il latino o il greco, lo scrittore o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della società, il quadro sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un intellettuale, secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci, perché organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono gli intellettuali secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico, gli elaboratori della egemonia della classe dominante la quale senza gli intellettuali non potrebbe essere egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e oppressiva e le mancherebbe la base di massa, il consenso necessario per esercitare il suo dominio.  La cosa interessante è che Gramsci elabora queste idee attraverso un'analisi del processo storico italiano. C'è sempre concretezza nel suo pensiero. Ad esempio analizza come si sia formata in Italia l'egemonia dei liberali, come i liberali con un'azione molecolare ed empirica abbiano assimilato, isterilito le forze repubblicane, mazziniane, ecc., e disgregato il blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione intellettuale e morale. Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento ideale e morale nella direzione dei liberali moderati.  Ed è qui che egli introduce il concetto di supremazia. Un gruppo sociale, una classe ha una supremazia in quanto ha la direzione e il dominio, la classe che è all'opposizione non ha ancora il dominio, ma deve conquistare la direzione, cioè l'egemonia, se vuole conquistare anche il dominio e una volta conquistato il dominio deve mantenere la direzione.  Come si presenta, quindi, per Gramsci la rivoluzione? La rivoluzione si presenta in realtà come una c risi di egemonia, cioè come una crisi di capacità dirigente da parte di coloro che hanno il dominio perché non riescono più a risolvere i problemi del Paese, non riescono più a tenerlo insieme con l'ideologia. Pensate ai processi che oggi si sono compiuti. Lo spostamento a sinistra degli studenti, pur caotico ed anche pericoloso che sia, contiene molti elementi di individualismo borghese esasperato - e quindi resta nel quadro dell' egemonia culturale borghese molto più di quanto non si pensi -, ma è anche il segno della disgregazione di questa egemonia culturale, una disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa, che si rigira e si tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa crisi. Basta vedere come le idee del marxismo si sono diffuse e si diffondono.  Qui c'è un allargamento della nozione di rivoluzione.  Marx aveva detto: la rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in una contraddizione incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte di qui, ma vede la totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha quando la classe dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse non accettano più di essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo una grande ribellione di massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la crisi di egemonia, come uno scollarsi tra dominio e direzione, come il venir meno della direzione, quindi come una crisi che investe tutta la totalità sociale, in cui il momento culturale, morale, ideale ha un'enorme importanza.  Noi stiamo vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il vecchio blocco di potere che aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta meno la capacità dirigente del vecchio blocco di potere (che è sempre stata molto limitata del resto), non si è ancora costruito un nuovo blocco di potere che possa portare ad un nuovo blocco storico. Blocco di potere è un'espressione che Gramsci non usa, la usa Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un nuovo blocco storico e di una nuova società, di una nuova base sociale, di un nuovo tipo di Stato, di un nuovo rapporto tra base sociale e Stato.  Il momento di questa crisi di egemonia è dunque un momento anche di crisi ideale, di crisi culturale, di crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del soggetto, della coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è iniziativa, è intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin aveva detto nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il materialismo storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti i quali, avendo individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel processo per condur1o in una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi non hanno capito la prima tesi su Feuerbach, la funzione del rapporto soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci chiama il marxismo «filosofia della prassi», usando una terminologia che fu usata da Gentile. Però Gramsci l'usa in tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come intendeva Gentile, ma la prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di soggetto-oggetto, intervento del soggetto sulla realtà.  Attenzione però. Gramsci parla sempre di egemonia della classe operaia, non del partito, perché Gramsci non ha mai rinnegato l'esperienza dei consigli di fabbrica e ritiene che la classe operaia debba darsi una molteplicità di organizzazioni per conquistare il potere. Mai Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il potere solo col partito, essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve essere presente nelle istituzioni statali oltre che di massa.  Inoltre Gramsci non mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente deve saper depurare il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio, di arretrato, di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli chiama il senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune, nelle sue contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni arretrate. indice  Il partito, moderno «Principe»  È compito del partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il nocciolo razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia della classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il partito, perché esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della filosofia istintiva, non consapevole, presente nell'azione, e della filosofia consapevole che bisogna fare acquisire, dando la prospettiva, dando la visione dell'insieme.  In questo senso egli chiama il partito il moderno principe, riferendosi al Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe moderno non più come individuo, perché nella società moderna questo non è più possibile, ma come intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una grande volontà collettiva: il partito è il moderno principe.  Del partito Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della direzione. In ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per entusiasmo o per fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza questi tre elementi il partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con l'elemento di base voi non formerete nulla, non formerete mai il partito; occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un esercito non forma il capitano, ma alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la formazione del partito va dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso, parte dal punto più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma è una visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo. Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione.  Il partito è il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la vecchia concezione e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del meccanicismo materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista da cui lui veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento sulla totalità sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali: l'egemonia costruisce un determinato blocco storico e il blocco storico si tiene insieme grazie all'egemonia, grazie alla direzione. L'egemonia è il momento di saldatura.  Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente blocco storico. Rompe il vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e costruisce un nuovo tipo di totalità sociale, anzi, direi, sociale, politica e culturale.  Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non di più. A mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di scrivere i Quaderni nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da togliergli la forza fisica di scrivere.  In questa elaborazione noi siamo andati avanti, cercando di dare una risposta a che cosa è la strategia rivoluzionaria in paesi capitalisticamente sviluppati. L'abbiamo cominciato a fare durante la guerra di Liberazione, parlando di democrazia progressiva, di democrazia di tipo nuovo, come diceva Togliatti.  Secondo Togliatti non ci si poteva più rifare al modello russo della rivoluzione perché la rivoluzione ha modi e scadenze diverse a seconda dei paesi, non c'è un unico modello. La ricerca del nuovo modello avrebbe potuto avvenire attraverso l'azione dei CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) che Togliatti valorizza quando dice: avremmo preso una strada più rapida e più sicura se avessimo potuto mantenere in piedi i CLN. Lo afferma al quinto congresso del PCI.  Lavorando su questa indicazione di Gramsci, e non solo, lavorando sulla realtà oggettiva, riprendendo l'esperienza della guerra di liberazione, siamo venuti costruendo quella strategia che è, che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa strategia non può grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza avere delle convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento operaio in altri paesi capitalistici. Quello che gli altri chiamano euro-comunismo è fatto di accordi tra noi e il partito comunista francese, il partito spagnolo ed altri partiti.  Abbiamo naturalmente esteso il concetto di egemonia.Per noi l'egemonia, la capacità dirigente della classe operaia è capacità di realizzare tutte quelle alleanze che sono indispensabili affinché la classe operaia abbia accesso al potere in una società di capitalismo monopolistico e di capitalismo monopolistico statale. Perciò la classe operaia deve andare al di là dell'alleanza operai-contadini poveri (tra l'altro i contadini oggi sono solo il 15% della popolazione, comprendendo anche quelli ricchi), ma deve arrivare ai ceti medi delle città e delle campagne, deve arrivare al settore della piccola e media industria. Si tratta di un sistema di alleanze assai articolate e, badate bene, contraddittorio. perché, tra gli operai della piccola e media industria e il proprietario della piccola e media industria c'è indubbiamente una contraddizione, una contraddizione che noi dobbiamo indirizzare verso la contraddizione principale, come direbbe Mao-Tse-Tung, ovvero contro il capitalismo monopolistico.  Ora alleanze sociali cosi ampie non possono che esprimersi a livello politico, cioè in partiti politici. Questa è una cosa che Gramsci non aveva presente, per lui un partito solo faceva la rivoluzione: il Partito comunista. Al Partito socialista bisognava tagliare le radici. Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia delle alleanze, non ci poteva arrivare.  indice  Quale pluralismo  Per noi invece questa visione si esprime in una pluralità di partiti, e d'altra parte le democrazie popolari ci danno un esempio di pluralità di partiti. In Polonia, nella RDT, vi sono partiti che hanno una scarsa autonomia forse, ma esistono realmente.  Come mandare oltre questa esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze, anche a livello politico, che è fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è fatto di lotta. Ad 'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche lotta, è anche discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema lo possiamo chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un termine che non è nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla sociologia cattolica e dalla sociologia americana.  La sociologia cattolica intende per pluralismo una pluralità di istituzioni che si equilibrano l'uno con l'altra: la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e cosi via. Il suo pluralismo è fondato sull'interclassismo, cioè sulla collaborazione tra classe operaia e capitalisti e sul superamento della contraddizione tra l'una e gli altri.  La sociologia americana dice: il pluralismo è una pluralità di istituti che impedisce a una sola forza di avere l'egemonia, il dominio, la prevalenza.  Per noi il pluralismo è invece un'ampiezza di alleanze sociali e politiche tale da isolare il grande capitale monopolistico, la sua logica e la logica da cui oggi è dominato il capitalismo di Stato in questa società, 1ìno a sconfiggerlo. Cosi si realizza il vero pluralismo, perché noi diciamo che fino a quando esiste il grande capitale il pluralismo reale nella società non ci sarà mai, sarà sempre apparente.  La nostra Costituzione è pluralistica, ma il pluralismo reale della nostra vita è apparente. Invece vi è il monopolio dei mezzi di informazione, dell'economia e cosi via.  Ad esempio il pluralismo della società americana nasconde la realtà di una società in cui il potere economico e politico è al massimo grado concentrato, e la partecipazione democratica dei cittadini è puramente formale. In realtà, devono votare per due partiti che si confondo l'un con l'altro, che si mescolano, non si sa bene che differenza ci sia tra democratici e repubblicani. A volte i democratici su certe cose sono d'accordo con i repubblicani, su altre sono d'accordo solo con certi repubblicani. Si può dire che negli Usa ci sia un pieno trasformismo. Un reale pluralismo si ha quanto più si batte il capitalismo, quanto più si avviano forme di autogoverno della società, di partecipazione. Il nostro pluralismo è anche statale, di istituzioni statali e sociali. L'autonomia del sindacato, poi, è un momento decisivo. Quando diciamo pluralismo delle istituzioni statali intendiamo parlamento, regioni, comuni autonomi, comprensori, consigli di quartiere o di circoscrizione, sino ad arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un istituto statale, ma sono sanciti dai contratti e riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori. Perciò pluralità di istituzioni sociali e politiche. Inoltrel'autonomia dei sindacati significa che il pluralismo è già dentro la classe operaia, che esso non caratterizza semplicemente il rapporto della classe operaia con forze sociali non proletarie e il rapporto del Partito comunista con partiti non proletari, ma che vive nella classe operaia. Infatti nella classe operaia ci sono i comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i democristiani, c'è anche il sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica, che ha anche esso una sua dialettica nei rapporti col sindacato e coi partiti.  Il pluralismo vive nella classe operaia e per questo può attuarsi nella società. Egemonia nel pluralismo, dunque, e non: egemonia e pluralismo, come diceva bene Ingrao, e fra i due termini c'è un rapporto dialettico. Più egemonia c'è, e più c'è pluralismo, non come confusione di forze, ma come forma di lotta, la più ampia, la più acuta, la più caratterizzata dal punto di vista di classe oggi. D'altra parte, senza pluralismo non si ha egemonia, ma isolamento della classe operaia e suo ritorno a posizioni subalterne. Di tale nesso dialettica tra i due termini i nostri avversari ovviamente non capiscono nulla, e dicono: se parlate di egemonia non potete parlare di pluralismo, e viceversa.  Dal punto di vista della sociologia cattolica e americana hanno ragione, ma noi usiamo questo termine con tutt'altro significato. Legato a questo si pone anche il tema della dittatura del proletariato. Come ci collochiamo?  Quando i socialdemocratici escludevano la dittatura del proletariato, e anche Kautsky la escluse dopo la rivoluzione d'Ottobre, in realtà dilatavano una concezione della democrazia tale per cui nell'esercizio della democrazia si arriva al socialismo, ma smarrivano la questione dell'autonomia e dell'egemonia della classe operaia, concepivano il processo come puramente elettorale e non come un'egemonia che rompe il blocco avversario, che aggrega e costruisce un nuovo fronte, quindi un'egemonia fondata sull'iniziativa e sulla lotta.  Noi abbiamo parlato di dittatura del proletariato nella Dichiarazione programmatica del nostro VIII congresso, nel '56, per sottolineare come cambino le forme della dittatura del proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il concetto, ma abbiamo sottolineato questo elemento: cambiano le forme.  Abbiamo ripreso questo concetto al decimo congresso, nel '62, per sottolineare che della dittatura del proletariato emerge sempre di più l'elemento della direzione e del consenso. In seguito non abbiamo più ripreso questa nozione, l'abbiamo lasciata cadere.  Mi chiedo se sia compito dei documenti del partito affrontare questa questione tipicamente teorica o se invece non si debba sviluppare la discussione e il dibattito a livello teorico su questo problema.  Ad ogni modo la mia opinione, che altri possono naturalmente confutare, è che la nozione della dittatura del proletariato è nella situazione italiana dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello superiore.  Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at· traverso tutto un processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo unitario), costruire un nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una funzione dirigente.  D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si costituisce sotto la direzione della classe operaia o non si costituisce.  Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo progressivo se ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si conquista ogni giorno.  Ecco allora che è il blocco di potere ad esercitare la coercizione sulla società attraverso la legalità dello Stato. L'elemento della coercizione non può essere eliminato, non si costruisce il socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa viene esercitata dal blocco del potere, non direttamente dalla classe operaia.  Del resto anche nella concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha esercitato la coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non verso gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui la coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna pagarli molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di consenso e un elemento di costrizione.  Se si allarga il blocco di potere, come da noi deve allargarsi, si allarga anche la sfera del consenso, ma di un consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra contrasti, anche, tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe operaia non esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo modello di Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet, che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si sono estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale. La classe operaia ha creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per riprendere una frase biblica, cioè ha impresso la sua visione statale su tutta la società.  Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo il parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni, le stesse regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come elementi nostri invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri e cosi via, i quali sono gli elementi di una democrazia diretta che supera il parlamentarismo.  In questo senso allora mi pare che non si possa parlare di dittatura del proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un elemento: la coercizione esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue forme e nei suoi modi. La coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere che esercita anche la direzione sulla società, non sola la coercizione.  Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere esercitare la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere, per tenerlo insieme, per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si va avanti nel senso del socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e diventa più avanzato, più omogeneo dal punto di vista di classe e cosi via.  Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento essenziale: l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia, superando l'altro elemento, lo elemento della coercizione inquadrandolo in un ambito più ampio.  Questa è soltanto la mia opinione in proposito.  “C’è in molti giovani comunisti uno stile di serietà riflessiva, di maturità e di chiarezza responsabile, che stupisce, se confrontato al tono un pò vacuo, avventato o ciondolone, che è tradizionale di molta gioventù italiana. Sono giovani che, usciti dalla dura scuola che i tempi impartiscono – sia pur con diverso profitto – a ciascuno, son passati alla scuola del Partito, e diventano in breve dirigenti : acquistano quel piglio, quel polso, quella quadratura, quasi non avessero fatto altro da molti anni, o come se tutto in loro da tempo tendesse a farne dei quadri comunisti, o non altro. Un dirigente di questo tipo è Gruppi, segretario della Federazione di Torino. Laureato in filosofia, e questa è una delle chiavi della sua personalità, ma proprio in un senso che smentisce nel modo più assoluto il concetto che dei filosofi s’ha volgarmente. Tutto in Gruppi è esattezza logica, ragionamento filato, rigore razionale: un matematico, potrebbe anche essere, se i numeri non fossero entità troppo astratte per il suo bisogno di concretezza.”  Così Italo Calvino, dalle pagine de l’Unità piemontese, descriveva Gruppi.  Mi sembra giusto rendere onore ad un grande compagno, anche se non ho avuto la fortuna di conoscere se non attraverso i suoi scritti.  Gruppi è stato per lungo tempo il responsabile della Sezione culturale del PCI e successivamente direttore dell’Istituto di studi comunisti “Palmiro Togliatti”, la famosa scuola di Frattocchie. Pubblicato numerosissimi articoli su Rinascita, su l’Unità, su Critica marxista (di cui è stato vicedirettore), assieme ad altre pubblicazioni.  Il suo lavoro, nel Partito ed all’Istituto, è stato fondamentale nel costruire quadri e militanti e nello sviluppare quella teoria rivoluzionaria che a noi, comunisti del XXI secolo, così manca.  Una testimonianza diretta da mio padre Marco. “Conobbi Gruppi alla scuola di Partito di Frattocchie/ In quel periodo il partito si era impegnato molto nella formazione dei gruppi dirigenti. Io insieme ad altri giovani compagni della gloriosa Federbraccianti delle varie regioni d’Italia, fra i venti e i trent’anni avevamo partecipato, orgogliosamente, a quella settimana di studi e approfondimenti sulla questione agraria e economica del Mezzogiorno. Ci colpi’ molto la preparazione e la competenza di Gruppi, ma soprattutto il suo linguaggio e la sua dialettica, coerentemente alineata a sani principi etico-morali. E uno che volava alto, ogni tanto si lasciava andare in ragionamenti filosofici che a noi, ancora politicamente acerbi, sembravano un pò difficili. Una settimana intensa e ricca che ci forni strumenti di analisi, di critica e di proposta.”  Qualche cenno biografico per i compagni che non lo conoscono, dal sito biografico gestito dalla moglie Tilde Bonavoglia e da suo nipote Andrea Bonavoglia http://digilander.libero.it/lucianogruppi/ : Iscritto al Partito comunista italiano. Partecipa alla Resistenza. Dopo la Liberazione è membro della Segreteria e responsabile della Commissione giovanile della Federazione di Torino. Responsabile della Commissione giovanile, poi della Sezione di stampa e propaganda, membro della Segreteria della Federazione di Milano.  Responsabile della Sezione d’organizzazione e vicesegretario della Federazione di Torino. Segretario della Federazione di Torino. Fa parte della Segreteria regionale del Piemonte. Membro della segreteria del Consiglio mondiale del Movimento dei partigiani della pace a Praga e a Vienna. Vice responsabile della Sezione di stampa e propaganda del Comitato centrale del PCI. Fa parte della segreteria della Federazione di Torino ed è capogruppo consiliare al Comune di Torino. Rappresentante del PCI nel Comitato di redazione della rivista internazionale Problemi della pace e del socialismo, a Praga. Vice responsabile della Sezione culturale del Comitato centrale del PCI.  Dal ’64 al ’66 responsabile della Sezione per le scuole di partito.  Dal ’66 al ’73 vice responsabile della Sezione culturale del Comitato centrale del PCI.  Vicedirettore della rivista Critica marxista.  Direttore dell’Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti (Frattocchie).  Presidente dello stesso istituto.  Membro del Comitato centrale, Membro della Commissione centrale di controllo. Al congresso ha chiesto di non essere riproposto per organismi dirigenti del PCI;  Ha restituito la tessera dei Democratici di Sinistra; Iscritto al Partito della Rifondazione Comunista;  Nello stesso sito è possibile trovare l’importantissimo “La concezione marxista dello Stato”, che riunisce le lezioni tenute presso Frattocchie. http://digilander.libero.it/lucianogruppi/concezionedellostato/la_concezione_dello_stato.html  Per finire, la commemorazione su “L’Ernesto” https://www.marx21.it/rivista/5142-marx-dalla-democrazia-radicale-al-comunismo-rivoluzionario.html  Un breve estratto da quest’ultimo articolo, ancora oggi attualissimo, di Bianca Bracci Torsi e Fosco Giannini, che mi sento di condividere in pieno :  “Due propensioni, quella dello studio teorico e della formazione, quanto mai necessarie ed attuali oggi, in questa fase caratterizzata sia dalla povertà teorica che segna di sé una parte significativa del movimento comunista che dalla grave sottovalutazione del valore della formazione politico-teorica ( la “scuola quadri”) che si manifesta anche in Rifondazione comunista.  Luciano Gruppi, dunque, non solo nel ricordo: ma per il lavoro futuro, come è destino dei grandi. “Luciano Gruppi. Gruppi. Keyword: la via italiana al socialismo, egemonia della filosofia del linguaggio ordinario -- Refs.: Luigi Speranza: Grice e Gruppi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755430814/in/dateposted-public/

 

Grice e Guastella – la conoscenza – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Misilmeri). Filosofo. Grice: “Guastella is an interesting philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and metaphyusics in a clear style.” Cosmo Guastella (Misilmeri), filosofo. Figlio di Vincenzo farmacista e da Marianna Piazza, uno dei quattro figli della coppia, ancorché di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il capostipite del fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”; “Metafisica”; e  “Il fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica. Dizionario Biografico degli Italiani, Dizionario di filosofia. Cause  empiriche:  e  cause  metaempiriche. La  caasa  nel  senso  scientifico. Distinzione  tra  la  causa  nel  senso  metafisico (causa  efficiente)  e  la  causa  nel  senso  scientifico. I filosofi  hanno  ammesso  generalmente  questa distinzione Impossibilità  di  provare  la  dottrina  di  Comte   sulle  cause  efficienti.L’ANTROPOMORFISMO. La  Filosofia  teologica.  La  filosofia  teologica  nel  periodo  prescientifico. Funzioni  della  divinità  come  principio  esplicativo    dei   fenomeni. La    divinità   come  principio  motore. La  divinità  come  principio  di  una  spiega-  zione teleologica  dei  fenomeni.  Le  prove  dell'esistenza  della  divinità. I  concetti  della  teologia  trascendentale  ^^   Immutabilità  ed  extra-temporalità  di  Dio--      Pag'   '  Dio  come  l'Infinito  o  l'Assoluto       .        .  1^9^ Il  dualismo  e  il   panteismo  nella  filosofìa  antica  e  nella  moderna. Il  valore  delle  prove  dell'esistenza   della  divinità  dipende  da   quello   del   concetto   di  causa  efficiente. L'animismo  come  spiegazione  dei  fenomeni  biologici.   §    8.  Osservazioni  generali  suU'animismo  come   ipotesi  biologica 85-La  spiegazione  animista  dei  fenomeni  bio-  logici   87-Estensione  del  dominio  della  coscienza  in  conseguenza  dei  principii  dell'animismo.    102-Spiegazione  intellettualista  dell'istinto. L'ilozoismo. Osservazioni  generali  sull'ilozoismo         .  111-L'  ilozoismo  nella  filosofia  antica   e   moderna    119-128   14.  L'ilozoismo  nella  filosofia  contemporanea. 11  panpsichismo.   Osservazioni  generali  sul  panpsichismo. La  monadologia  di  Leibnitz. I  panpsichìsti  moderni. L'idealismo. Osservazioni  generali  sull'idealismo. L'idealiijino  di  Kant 200-L'idealismo  assoluto,  dei  successori  di  Kant  214-219-Il  coneetto  di  eansalità  deirantropiomorfismo.   .§  21.  leoda  volizionale  della  causazione  e  teorie   affini. Osservazioni  su  queste  teorie. La  filosofia  meccanica  o  impulsionista.   §    1.  Della  filoso fia  meccanica  o  impulsionista   in  generale 251-Il  principio  ,  su  cui  è  fondata  la  filosofia  meccanica,  in  Cartesio  e  i  cartesiani,  in  Hobbes,  in  Spinoza,  in  Newton, nei  primi  newtoniani,  in  Locke,  in  Leib-   nitz,  in  Clarke, in  Huygens,  Bernouilli,  Eulero,  d'  Alem-  bert, Hume, Reid, Dugald-Stewart, Hamilton, Galluppi, Rosmini,  Cuvier, nei  fisici  e  filosofi  contemporanei. La  proposizione  che  V  azione  a   distanza   è  inconcepibile,  assurda  e  contraddittoria. Origine  e  sviluppo  dell'idea  di  causa  bf-  ,  ficiente.   §    1.  Le  causazioni  più  familiari  ci   sembrano  spiegarsi  da  se  stesse  e  potere   spiegare   tutte  le  altre. Proposizioni  di  filosofi  che  hanno  ricono-scinto   questo   fenomeno   psicolo^co  \(di  ^  Bacone  ,    Stuart-Mill  ,     Bain  ,    GiiffopA  ,      Pag.   Stallo). L' idea  di  causa  efficiente  deriva,  dall' «et   sperienza  delle  causazioni  più  famlliani. Le  causazioni  più  familiari  non  sembrano,  misteriose  che  nella  riflessione  scientifica. Perchè l’azione   volontaria    diventa   mi-  -  steriosa Perchè diventa misteriosa,  in generale,  l'azione mutua tra  lo  spirito  e  il  corpo. Perchè  diventa  misteriosa  1'  attività  inte-  riore dello  spirito 3Perchè  diventano  misteriose  IMnipulsione  e  le  altre  azioni  fisiche  più  familiari  —  Conclusione  sulle  ragioni  per  cui  le  cau-  sazioni più  familiari  perdono  la  loro  intelligibilità. La  tendenza  naturale  a  spiegare  le sequenze non  familiari  riconducendole  alle  familiari,  e  quindi  il  principio  di  causa-  lità efficiente  nella  sua  forma  primitiva  e  spontanea,  non  possono  avere  alcun  valore   obbiettivo Forma secondaria del principio   di   cau-salità   efficiente  —Il  principio    di   causa*-    ,  lità  efficiente  è  un'induzione   incosciente   dalle  causazioni  più  familiari. Origine  comune  e  differenziazione  prògressiva  dei  concetti  fisico  e  metafisico  i'  deWsL  causalità. La  dottrina  dbll'inconoscibilb  b  l'idea  di   CAUSA   EFFICIENTE.  La  dottrina  dell'  inconoscibile   come    ap-    Digitized  by    Google    -  m  -^   pliéàzìone  del  principio  di  causalità  efficiente  'tiella  sua  forma  secondaria    .        .  J?ni-39S  §'lLa  proposizione  che  non  conosciamo  l'es-   senzal  disile  cose 11  fondamento  principale  della  teoria  del -   l'ÌDCon<6scibìl'e  è  il  principio  di  causalità efficiènte. Questo fóndamente non può pretendere ad alcun calore obbiettivo. Ciò è provato più chiaramente dalTesame dell'inferenza incosciente di cui è la conclusion. Noi conosciamo o possiamo conoscere l'essenza delle cose e il modo essenziale della produzione dei fenomeni La Forza nel senso metafisico. La  fij.osofia  apriorista.  Lo  sforzo  di  ricostruire  la  realtà  a  priori  è  una  delle  tendenze  più  generali  della  speculazione  metafisica. La  filo&ofìa  apriorista  è  sovratutto  un'ap-  plicazione del  principio  di  causalità  efficiente  La  filosofìa  apriorista  in   Cartesio, in  Malebranche 4(ìy-in  Spinoza in  Leibnitz, in  Locke, in  Condillac, in  d'Alembert, in  Hume, in  Kant, in  Fichte,  Schelling,  Hegel, in  Reid,  Ehigald-Stewart ,  Galluppi ,  Ro-  smini, Gioberti,  Mamiani, in  Taine  e  Spencer  e  in  Hartmann. Le  pretese  dimostrazioni  dei  principii  della  meccanica. La  filosofia  apriorista  al  di  fuori  della  ri-  cerca della  causa  efficiente. Dottrine  della  filosofia  apriorista  sulla  essenza  e  la  definizione. Dottrine  di  Aristotile e di  Platone  in  particolare. Dottrine  analoghe  e  particolarmente  quella   di  Cuvier  della  correlazione  organica. Spiegazioni  della  filosofia  apriorista  della  costituzione  del  cosmos  (e particolarmente quelle  di  Platone e  di  Aristotile). L'argomento  ontologico  come  applicazione   della  spiegazione  apriorista. IL REALISMO DIALETTICO. Perchè si realizzano le astrazioni. Spiegazioni correnti e precisasione della  qaistione. Il  realismo,  in quanto  è una  spiegazione del  mondo  (realismo dialettico),  ha Io scopo di  identificare  il  rapporto  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  al'  rapporto  ontologico  tra  la  causa  efficiente  e  V  effetto— Origine  del  realismo  degti  scolantici. Il  sistema  di  Hegel. Il  sifttema  di  Taine. Realismo  (realizzazione dei concetti) del   Taine. Il  suo  metodo  dialettico  (cioè  di  dedurre  i   concetti  realizzati). L'idea  fondamentale  di  questo  sistema  è  Ti-  dentificazione  del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  ef-  ficiente e  Teffetto. Il sistema di Piatene. Cenni generali sulla filosofia di Platone. Apriorismo di Platone. Suo metodo puramente  deduttivo. Importanza  capitale  attribuita  al  metodo;  universalità della filosofia e sua sìstemftticìtà. Affinità  del  metodo  dialettico  col  metodo  matematico. Caratteri  prepri  del  metodo  dialettico,   per   cui  differisce  dal  matematico. Tutte  le  altre  Idee  si  deducono  da  quella   del  Bene. L'Idea  del  Bene  non  è  solo  il  principio  logico ma  anche  il  principio  ontologico  (la  causa  produttrice)  delle  altreldee, enonne  è  il  principio  ontologico  che  in  quanto  ne  è   il  principio  logico. La  deduzione  progressiva  delle  Idee  le  une  dalle  altre  é  una  derivazione  reale  delle  Idee   che  si  deducono  da  quelle  da  cui  sf  deducono.  L'Idea  del  Bene  è  la  più  generale  di  tutte.  Contenuto  di  quest'Idea. Metodo  di  divisione  e  gerarchia  delle  Idee. Teoria  della  definizione. La  dieresi  è  una  deduzione  in  cui  V  Idea  divisa  funge  da  principio,  e  le  Idee  in  cui   si  divide  da  conseguenza. Come  la  dieresi  è  una  deduzione,  e  come  si  trovino  in  essa  1  caratteri  distintivi   del   metodo  dialettico  dì  cui  al  §  12.        .  »    264-Il  metodo  indiretto  del  Parmenide É con questo metodo che deve  dimostrarsi  il  primo principio  (cioè  l'Idea  del  Bene). Un'Idea  generale  non  è  solo  il  principio  logico ma anche  ontologico  (la  causa),  clelle   Idee  più  particolari  in  cui  si  divide. L'obbiettivazione  dei  concetti  e il  metodo  dialettico  hanno  per  Iacopo  Tidentiflcazione  del  rapporto  tra  il  princìpio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la causa  efficiente  e  Teffctto.     n  iftiema  41 Spinosa. Idea  generale  della  filosofia  di  Spinoza. Il concetto  del  parallelismo  psico-fisico  e  suoi  sviluppi   Metodo  puramente deduttivo. Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo ontologico. Le cose considerale sua specie aetemitatis. L’essere, secondo Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che  derivano logicamente e ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e la conseguenza é identico con quello tra la causa (efficiente) e l’efi'etto. Difi'erenze e omologia fra tutti questi sistemi. Come il  realismo  dialettico deriva  dalla  tendenza  naturale  del  nostro  spìrito  da  cui  derivano  tutti  gli  altri  concetti  metafisici.  NIHIL  ORITUR,  NIHIL  INTERIT. Tendenzanaturale  a  supporre  che  il  reale   nella  sua  essenza  é  immutabile. I  fisici  greci  in  generale  -Dottrine di Empedocle e di Anassagora. Il sistema degli atomisti. Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica. Dottrina  di  Eraclito  della  identità  dei   contrari  Dottrina  degli  Eleati. Spiegazioni  meccaniche  dei  fisici  in  generale. Dottrine  dei  filosofi  indiani. Dottrine  di  Bnmo  e  di  Telesio.  La  teoria  meccanica  (cioè  laridnrio-  nedi  tutti  i  fenomeni  a  quelli  mecca-rici)  nella  scienza  moderna. Applicazione della  teoria  alla  costituzione  della  materia. Ancora  della  teoria  meccanica-  Applicazione ai  fenomeni  psichici. Spiegazione  meccanica  dei  fenomeni   della  vita   Il  principio  della  persistenza  delle  co-  nelle stesse proprietà nell'atomismo metafisico,  nei sistemi monisti,  nel realismo,  nel criticismo. Doitrine di Herbart e del prof.  Corleo  Dottrina  delTidentità  della  causa  e  dell'efletto. IL  CONCETTO  DELL'ANIMA. L'animismo  (sostantificazione dell’anima)  è  il  prodotto  d'una  tendenza  naturale  dello*spirito  umano.  Le  .prove  della  sostanzialità  dell' anima. Materialiià  deir  anima  Della  for-  ma primitiva  deirÀnìmismo.      L'animismo  è  anch'esso  un' ap-  plicazione del  principio  deirim-  mutabilità  dell'essenza  delle  cose  »  Le  concezioni  moniste  si  fonda-  no su  questo  principio  egualmente che  le  dualiste.  .  È  per  esso  che  deve  «piegarsi  anche  Tanimismo  de -l'uomo  primitive. Il  concetto  dell'immortalità  del-  l'anima e  quello  della  bua  im-  materialità sono  degli  sviluppi  naturali  della  teoria  animista.  »  Il  substratum ,  supposto  indi  sponsabile  j  dei  fenomeni  psi-  chici non  è  che  il  fantasma  del   corpo »   La  terza  forma  dell 'animismo,  cioè  la  dottrina  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un  fatto  psichico  permanente  che  è  il  sobstratom  di  tutti  gli  altri.  DOTTRINA  DI  ROSMINI  SULLA  SOSTANZA   DELL'ANIMA  carte. IMMANENZA  DELLE  IDEE  PLATONICHE. Prove  di  qoeat*  immanetiixa  .  I  termini  designanti  le  Idee  in  generale. I  termini  designanti  ciascen'Idea.  carte    Il  concetto  e  la  conoscenza  generale  si  riferiscono  airidea »        La  definizione  e  la  dieresi,  che  hanno  per  oggetto  le  Idee,  si  riferiscono  alle  eose  considerate  d'una  maniera  generale  ed   astratta L'Idea  è  Tuniversale,  ciò  che  è  lo  stei^so   in  tatti  gl'individui  del  genere. VLa  napouoCa,    la  (léBe^i^  e  le  altre  espressioni del  l'inerenza  nelle  Idee  nelle  cose. Contenenza  reciproca  tra  le  Idee  gene-  riche e  le  Idee  specifiche. Gli  elementi  delle  Idee  sono  anche  gli   elementi  delle  cose »      89-100   IX.  Tutto  il  reale  si  risolve  nelle  Idee. L'essere  non  6  fuori  del  divenire,  ma  nel   divenire  stesso.  BlMeuMione  degli  argomenti  contro  V  ImmanenBa  I.  La  sostanzialità  delle  Idee. La  distinzione  fra  le  Idee  e  le  cose  inter-  pretata come  una  separazione         . ni.  Le  Idee  considerate  come  esemplari  a  cui  le  cose  non  si  conformano  che  approssimativamente. Le  allegorie  del  Fedro  e  del  Timeo. La  testimonianza  d'Aristotile. IL  PITAGORISMO  PLATONICO  Cenni  snlle  dottrine  del  Pitagorici  e  sul  pitagorismo  di  Platone  In  generale. I  namert  ideali  carte  I  doe  elementi   A.  La  forma  e  la  materia  delle  Idee. La  forma  e  la  materia  delle  cose. Le  entlUi  matematielie  (come  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cosej. li  piiagerifiino  nel  Timeo  e  nel  Filebo   Motivi   deireTolnzione   di  Platone  verso  il  pi-  tagorismo. II  pitagorismo  nel  Tìm^o (Carattere  simbolico   della  cosmogonia  del  Titneoe&no  significato).   Il  pitagorismo  nel  ^^eòo(il  limite  e  V illimi-  tato di  questo  dialogo) »    242-251   V.  Il  pitagorismo  nel  discepoli    di  Platone  Le  tre  dottrine  dei  platonici  sui  numeri  carta         La  dottrina  di  Xenocrate  .        .  .        .  carte   251-25o   La  dottrina  di  Speusippo. DOTTRINE  DI  PLATONE  SULL'ANIMA  E  LA  DIVINITÀ   NEL  LORO  RAPPORTO  COL  SISTEMA  DELLE  IDEE. L'anima  e  suo  rapporto eon  le  Idee  e  eoi  fenomeni  (ranima  individuale   carte   ranima  cosmica  e.  £80-293).        carte  L'Interpretaslone  teistica  del  siste-  ma delle  Idee  (che  le  Idee  soro  i  pen-  sieri della  divinità  creatrice)      liOldee  e  11  pensiero  (Interpretazione  di  Hegel  e  del  Teichmùller  dell'immortalità  dell'anima  e  altre  dottrine  connesse — Pla-  tone non  ammette  Tidentità  dell'essere  e  del  pensiero,  e  la  sua  Idea  è  un*  entità  puramente  obbiettiva. Cosmo Guastella. Guastella. Keywords: conoscenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e noumenismo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689814494/in/photolist-2mPE1ox-2mLNi1Z-2mKDP1b

 

Grice e Guicciardini – le cose dello stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Guicciardini. Grice: “Guicciardini is what I call an Italian classic; some like Machiavelli, as Austin used to say, “but Guicciardini is MY Renaissance man!” – Grice: “There are various topics of interest: the italian of Machiavelli and Guicciardini in the development of a philosophical political lexicon; there’s the trope of the centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure political philosophy of the type enjoyed by members of the Debating Union at Oxford!”  Terzogenito dei Guicciardini, famiglia tra le più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima formazione umanistica in ambito familiare dedicata alla lettura dei grandi storici dell'antichità (Senofonte, Tucidide, Livio, Tacito), studia a Firenze seguendo le lezioni di Pepi. Soggiornò a Ferrara per poi trasferirsi a Padova per seguire le lezioni di docenti di maggior importanza. Rientrato a Firenze, esercita l'incarico di istituzioni di diritto civile. Nominato capitane dello Spedale del Ceppo. Inizia la stesura delle Storie fiorentine e dei Ricordi. Esattamente dieci anni prima, ossia con l'anno 1498, si chiudono quelle Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono le premesse degli avvenimenti riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di cui Guicciardini si occupa, nelle sue Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla politica fiorentina. In occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato a pratica dalla signoria, ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi portarono il Guicciardini anche ad una rapida ascesa nella politica, ricevendo dalla Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso Ferdinando il Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica nacque la Relazione, e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di teoria politica in cui Guicciardini sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a far parte della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici, avvocato concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio pontificio di Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore di Reggio Emilia e di Parma. Nominato  commissario generale dell'esercito pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi, matura quell'esperienza che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi Ricordi e della Storia d'Italia.  Alla morte di Leone X, si trova a contrastare l'assedio di Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa di Parma. Dopo l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di Clemente VII, venne inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle lotte tra le famiglie più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli abilità diplomatiche.  Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda un'alleanza fra gli stati regionali allora presenti in Italia e la Francia, in modo da salvaguardare in un certo qual modo l'indipendenza della penisola. L'accordo fu sottoscritto a Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di questo periodo è il Dialogo del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il modello della repubblica aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e Roma fu messa al sacco dai Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la repubblica. Coinvolto in queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai repubblicani per i suoi trascorsi medicei, si ritira nella villa Guicciardini di Finocchieto, nei pressi di Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio accusatoria e la defensoria, ed una Lettera Consolatoria, che segue il modello dell'oratio ficta, nella quale espose le accuse imputabili alla sua condotta con le adeguate confutazioni, e finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse le Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra la prima deca di Livio", in cui accese una polemica nei confronti della mentalità pessimistica dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione definitiva dei Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a Bologna. Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea come consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare lo stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro, Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili, raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata.  Guicciardini è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti.  L'opera districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo).  Guicciardini è l'uomo dei programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui al saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire "con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).  In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di verifica della sua Storia d'Italia.  La reputazione di Guicciardini poggia sulla Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi discendenti aprirono gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di pubblicare le sue memorie.  Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono ad un'accurata conoscenza della sua personalità.  «L’angolo di prospettiva dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII, l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio il Guicciardini sopra il Giovio, sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le mani colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi, la superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario, una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare, superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i meno benevoli alla Storia.»  Il giudizio di Francesco De Sanctis  Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Francesco De Sanctis non ebbe simpatia per Guicciardini ed infatti non nascose di apprezzare maggiormente il Machiavelli. Nella sua Storia della letteratura italiana il critico irpino mise in evidenza come Guicciardini fosse, sì, in linea con le aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in linea con i suoi ideali, il primo invece "non metterebbe un dito a realizzarli". De Sanctis affirma:“Il dio del Guicciardini è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli ideali scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che l'INDIVIDUO.” “Ciascuno per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita”. E poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare. Né altro è il sistema. Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento".  Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che Guicciardini vale più come analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso, preciso a prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della narrazione. "Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo delle autopsie".  Altre opera: Scritti autobiografici e rari (Laterza), Storie fiorentine; Discorso di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, Ricordi politici e civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia d'Italia, Scritti sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia (Firenze, Olschki); Le cose fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi,  presso Zanichelli, Bologna;  presso Istituto per gli studi di politica, Firenze; presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di grandissimo animo e molto virile", secondo il Guicciardini (Storie fiorentine). N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, A. G. BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi non vedescriveva il Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale appunto conviensi alla grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica dell’Istorico che le tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e sostenuti, per esser ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l senso facile e piano in maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi, come nello stil di Villani, che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A. TASSONI, Pensieri diversi, Venezia,  Il legame del pensiero politico tassoniano con quello di Guicciardini (incluso, a differenza del Machiavelli, tra gli storici della «prima schiera» con Comines e Giovio, ossia considerato pari agli antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è noto: i due fiorentini, come dice il Fassò, furono «i due poli» a cui si volse la sua riflessione politica. (Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma,  T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra del paragone politico, I, Bari,  Walter Binni, I classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino, Nuova Italia, Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari, Laterza); “Historia di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia, Angelieri): Scritti autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici” (Bari, Laterza); “Storia d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari, Laterza); Studi R. Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo politico, Firenze, R. Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, Guicciardini. Dalla politica alla storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per Francesco Guicciardini. Quattro studi, Roma, E. Cutinelli-Rèndina, Guicciardini, Roma, Famiglia Guicciardini. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Propositioni, overo Considerationi in materia di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili, & Concetti Politici di Guicciardinii, Lottini, Sansovini, Venezia, Presso Altobello Salicato, Opere illustrate da Giuseppe Canestrini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., (Bari, Gius. Laterza); biblioteca italiana.   AVVERTIMENTO PRIMO. R Principe,checolmezodelsuoAmbasciatorevuoleingannar Paltro,deueprimaingannar l'Ambasciatore,percheopera,en parlaconmaggior efficaccia,credendo che cosisiala mentedel fuo Principei,lchenon farebbesecredesseesseresimulatione,eg ilmedesimoricordousiogn'uno,che permezod'altrivuoleper Juadereaun'altro ilfalso. 11. DAL fareònonfareunacosachepaiaminima,dependebenspejlomomentodi coseimportantiffime,o però nellecosepiccoledeuefieffereauuertito,ceonsiderato. III. FÁCIL cosaèguastarsiunbel'eseredificilealracquistarlo,peròchisitruong inbuon gradodeuefareognisforzodinonlasciarselovscirdimano. IIII. E'Pazziasdegnarsiconquellepersoneconlequaliperlagrandezzaloro,tunon puoisperaredipoteruendicarti,peròsebena pareessereingiuriatodaquesti, bisogna patire,efimulare NELLE cosediguerranasconodaun'horaàvn'altrainfinitevarietà,perònon fideuepigliaretroppoanimodelenuoueprofpere,nèuiltàdelleauuerse,perchespeso nascequalchemutatione,ma questodeueinsegnare,chea chifelipresental'occasione non laperda,perchedurapoco. COME ilfinedemercantièilpiudellevolteilfallire; quellodenauigantiilfom mergere, cofispessodichilungamentegouernailfineècapitarmale QYESTI ricordisonregole,cheinqualchecasoparticolarechehadiuerfa  VII LE cosechesonouniuerfalmentedesiderate, rareuolteriescono,laragioneècheli pochisonoquellichecommunementedannoilmottoallecose,e alifini, dichesono contrarijaljaigliappetitidimolti VIII. TVTT.E lesicurtàchesipossonohaueredel'inimicofonbuone,difede,diamici, dipromesse,ed'altreassicurationi,maperlamalaconditionedeglihuomini,evariatio nedetempinissunaaltraèmigliore,& piuferma,cheaccommodarsiinmodo,chel'ini mico non habbiapoteftàd'offenderti IX NESSUNA cofa deue desiderarepiul'huomoinquestomodo,nèattribuirlopiu a fuafelicità,cheuederel'inimicofuoprostratointerrae ridottoaterminitali,chetu l ' h a b b i a a d i s c r e t i o n e :M a quanto è f e l i c e a c h i a c c a d e q u e s t o , t a n t o d e v e f a r s i g l o r i o s o conl'ofarlalaudabilmente,cioèesserclementeaperdonare,cofapropriadeglianimi generofi, & 'eccellenti: ragione,   ragione,hannaeccettione,maqualifianoqueicasiparticolari,sipofonomaleinsegnare altrimenti,chceon ladifcrettione. diuèdicarsi dite,nonlofacciaprecipitosamente,anziaspettiiltempoel'occasione,laqualesenza dubbioliuerrà diforte,chesenzascoprirsimaligno,oappasionato,potràsodisfareal fuodesiderio. XIIII. Chi hadagouernare Città,opopolielivogliatenercoreti,Sappiacheordina riamentebastapunireidelinquentiaföldiquindiciperlira,maènecessariopunirlitut t i , c h e i n e f f e t t o s i a c u s t i g a t o o g n i d e l i t t o, m a s i p u ò b e n f a r q u a l c h e m i s e r i c o r d i a , e c c e t todellicasiatroci,chebisognadaressempio. XVI. IL ricordodisopra, bisognavsarloin modochel'acquistarnomedinoneserbene. fattore,nonfaccia,chegl'huominifugghino,& aquestosiprouedefacilmente,conbe n e f i c i a r n fe u o r d e l l a r e g o l a q u a l c h ' o n o , p e r c h e n a t u r a l m ě t e h a t a n t a s i g n o r i a n e g l h u o minilasperanzachepiutivaleràpressoaglialtri,& piuessempiofavno chetuhaba biabeneficiato, checentochenonhabbinodatehauutoremuneratione.  S. Auuertimenti di XII. INGEGNATEV Idinonvenireinmalconcettoappressodichièsuperio renellapatriavostra,neuifidatedelbuongouernodeluiuernostro,chesiatale,che nonpensiated'hauergliacapitarnellemani;perchenasconoinfiniti,enonpenfaticasi dihauerbisognodilui, èconuersoil Superioresehavogliadipunire,& XIII. TVTTI glihuominisonobuoni,cioedouenoncauanopiacereoutilitàdel m a l e , p i a c e p i u l o r o i l b e n c h e i l m a l e :m a s o n o v a r i e l e c o r r u t t e l e d e l m o n d o e f r a g i l i t à loro;& spessoperl'interesseproprioinclinanoalmale.PeròdafauiLegislatorifieper fondamento dele Republiche trouatoilpremioelapena,nonperviolentareglihuomi ni,m a perche seguiting l’inclinationenaturale. XVII. PIV tengonoamemoriagl'huomini l'ingiuria,cheibeneficijriceuuti,anziquan dopuresiricordanodeibenefici,lofannonell’imaginesuaminore,chenon furiputun dosimeritar piuchenonmeritano.Ilcontrariosifadell'ingiuria,cheduoleadogniuno XI. E 'laudato appressogl'antichi,& è verissimoprouerbio: Magistratusvirumoftédit, perche conquestoparagonenonsolosiconosceperilpesochesiba,sel'huomoèd'assai odapoco,maperlapoteftà,elicenzasiscuopronoleaffettionidell'animo,cioèdiche natural'huomofia, perchequantoaltruièpiu grande,tantomancofreno,erispettoha alasciarsiguidaredaquelchegl'ènaturale. XV. SE liScrittorifuferodiscreti,ogratisarebbehonesto,edebito,chelipadronilibe neficiasseroquantopotesero,ma perchesonoilpiudellevolted'altranatura,equando fonopieni,olilasciano,òlistraccano,peròèpiu vtileandareconloroconlamanostret ta, e trattenendoliconsperanza, darlorodieffettitantochebastiafarechenonsidi Sperino. piu, cheragionenolmentenon doveriadolere,peròdouegl'altritermini.forpara guardateuidifarquellipiaceri,chedinecessitàfannoadun altrodispiacerevguale, percheperlaragionedettadisopra, siperdeingrosso,piuchenonsiguadagna. ,percheper esperienzasivedecheglihuomininonsongrati,perònelfareicalcolituoi, òneldi segnardisponerdeglihuominifamaggiorfondamentoinchineconseguevtilità,chein chis’hadamuouerfoloper rimunerarti,percheineffettoibeneficijsidimenticano. cheprocededa bron’animo, fivede, chepurtalvolta èremunerato qualchebene ficio,e anchespessodiforte,chenepagamolti,& ècredibilecheaquellapotestà ch'èsopraglibuominipiaccinol'ationinobili,eperònonconsentachesianosenza frutto: XX. INGEGNATEV Id'haueredegliamici,perchesonbuoniintempi,luo ghiecasi, chevoinonpensarete,equestoricordobenchevulgato,nonlopuòconsidera reprofondamentequantovaglia, achinonèaccadutoinqualchefuaimportanzafen tirnel'esperienza: XXI. P I A C E vniuersalmente, chièdinataraverae liberă,& ècosagenerosa,ma talvoltanuoce.Madall'altrocanto,lasimulationeèvtile,ma'èodiata,G hadelbrut the ènecessariaperlemalenaturede glialtri,però non sòqualesidebba eleggere, Credoperò, chesipossavfarel'onaordinariamente,senzaabbandonarl'altra,cioènel corsotuoordinariocomume vjarlaprimainmodo,cheacquistinomedi personalibe ra, nondimenoincerticasiimportantipotrai sarelasimulatione,laqualeàchivi uecosìètantopiuvtile,e sicredemeglio,quantoperbauernomedelcontrario,tiè facilmentecreduto XXIIII. E INCREDIBILE quantogiouiachihaamministratione, chelecosesue fienosegrete,perchenonsoloidisegnisuoqiuandosifanno,possonoeserprenenuti,e interrotti,maancoral'ignorareisuoipensieri,fachegl'huominifannosempreattoniti 3  XVIII. PIV fondamentopotetefareinvnoc'habbiabisognodivoi,oc'habbiainqua! checasol'interese communecheinvnoc'habbiariceuutodaboibeneficio XIX. H O.postoiricordidisopra,perchesappiateviuere,ericonosciatequelchelecose possono,nonacciocheviritiriatedalbeneficiare,percheoltrecheècosagenerosa,en XXII. P E R Lecagionidisopra,nonlaudochiviuesempreconsimulatione,& conarte, mascufobenechiqualchevoltal'vja. XXIII. $1A certochesetudesideri,chenonsisappiachehaifatto,òtentatoqualcheco Ja,cheèsempreapropositoilnegarla.Percheancoracheilcontrariosiaquasiscoperto & publico,tuttauianegandolaefficacemente,sebenenonlopersuadiachihaindi tij, ocredeilcontrario,nondimeno perlanegationegagliardaseglimetteilceruello àpartito. A 3 esospetti,   efofpetti,aoßeruarelesueattioni.Ed'ognifuominimomoto,sifannomillecommente ti,& interpretationi,ilcheglidàgranriputatione,peròchièintalgradodouerebbe auezzareisuoiministrinonsoloàtacerelecosechemaisifappino,ma ancortuttequel lechenonèptilechesipublichino. XXVI, ANCORA quellicheattribuendotuttoallaprudenza, ovirtů, s'ingegnano e s c l u d e r e l a f o r t u n na ,o n p o s s o n o n e g a r e , c h e n o n f i a g r a n d i s s i m a f o r t e n a s c e r e d q u e l tempo, oabbattersia quelleoccasioni,chesienoinprezzoquelleparti,opirtùinchę tu vali . XXVII . N O N vogliogiàritirarquellicheinfiammatidall'amoredeltaPatriasimetto H o a p e r i c o l o p e r r i m e t t e r l a i n l i b e r t à ., e l i b e r a r l a d a T i r a n n i ; m a d i c o b e n e , c h e c h i cercamutationedistatopersuointereffenonèsauio,percheècofapericolosa, elivede cõeffettiche pochissimitrattatisonoquicheriescano,epoiquãdobeneèsuccesso, fide e quasisempre che nellamutatione tu no conseguiscidi gră lunga quel chetu haidife gnato,& inoltretioblighiàvnoperpetuotrauaglio, perchesempretuhaidadubita re, nontorninoquelli, chetuhaifcacciatijetivecidino. XXIX. CHI purpuoleattendere'atratati,siricordi,chenefunacosalirouinapiucheit desideriodivolerlicondurretroppofieuri, perchéchi vuolfarperinterponere manco tē po, implicapiuhuomini,emescolapiucose,dallaqualcausasiscopronosemprefimili p r a t i c h e . E t a n c o è d a c r e d e r e c h e l a f o r t u n a , f o t t o l ' a n i m o d i c h i s o n q o u e s t e c o s e . f i j d e gniconchivuolliberarsidallapotestàfua& aficurarsi,peròèpiufécurovolerliesem quireconqualchepericolo,checontroppasicurta. įXX. NON disegnatesùquello,chenonhauete,nèspendetefuliguadagnifuturi; perchemoltevoltenonfuccedono,etitrouiinuiluppato, & sivedeilpiudelevol te, chelimercantigroffifallisconoperquefto,quando persperanzad'vinmaggior guadagnofuturo,entranosuocambi;lamoltiplicationedequaliècerta, & hatempo determinato, maliguadagnimoltevolte,ononnengono, ofiallunganopiucheildia  Aiuertimenti di X X V :. O S S E R V A I quandoere AmbasciatoreinIspagnaappressoil Re Ferdinan dod'AragonaPrincipefauio,& glorioso,cheegliquandovoleuafareunaguerra, impresanuoua,òaltracosad'importanza,nonprimalapublicaua,epoilagiustifica ua, maperilcontrariovsauaartecheinnāzis'intendessequellocʻbaueuainanimo,er fidiuulgana ilRe douerebbeperletalicagionifar questo inmodo,chedoppopublican dosiquelchegiàpareuagiuftoadogniunoonecesario,èincredibileconquantalände eranoriceuutelefuedeliberationi. XXVIII.", RCON viaffaticateaquellemutationichenonparterisconoaltro,shemutarei visidegl’huomini: perchechebeneficiotirecafequelmedesimomale,odispetocheti facciaPietro tifacciaGiovanni? 12 . Jegne,   Tegno,dimodo,chequellaimpresachetuhauenicominciatacomevtile,tiriescedania nofiffima XXXI. SE hauetefalitopenfatelabene, emisuratelabene, tananzicheentriateinprigio nepercheancorach'ilcafofussemoltodificileascoprire,tamenèincredibile,aquante cosepensailgiudicediligente edesiderosoditrovarelaverità,& ogniminimospiras glioèbastanteafaruenire tuttoaluce. ,ofa tiche.Ma quelchelafa forsedesiderabileancoraall'animepurgate,èl'appetitoche s'had'esserefuperioreagl'altrihuomini,ilcheècerto.cafabella & beata,attesomaffia me ch’innessunaaltracosacipesamoassomigliareaDio dentisubitiderepentini,cosacheagiudiciomioèrarissima pericoli,& mai XXXII LÀ medesimaragionefa,chequantopiul'huomoinuecchia,tantopingliperfa ticailmorire, e semprepiuconleattioni,econlipenfieriviue,comesejapesenonha weremaiamorire. XXXVII. SI CREDE,& ancospessofeuedeperesperienza,chelericchezzemale acquistate,nonpassanolaterzageneratione. Sant'Agoftinodice,cheDiopermet te, chechil'haacquistategodainrimunerationediqualchebene,chehafattoinvi ta,ma poinonpassanotroppoinnanzi, percheègiudiciodiDioordinariamente,che cosinadadimalelarobamaleacquistata. IodiligiàadunPadre,cheameoccor reuaun'altraragione,perchechiha acquistata la roba,ècommunemente allenato dapouero,l'amasc sal'arte diconferuarla,maifigliuolichesononati& allcuatida XXXII. 10 hodefideratocomeglialtrihuominil'honore& l'otile,& infinquipergram tia'diDioèfuccedutosopraildisegno,enondimenoquãdohocõseguitoquelchedeside rauo,nonuihoritronatodētroalcunadiquellecosechemihaueuoimaginato,ragione, àchibenla considerasse , chedoueriabastareadeftinguereaffailafetedeglihuomini. XXXIII. LA grandezzadiftatovniuersalmenteèdesiderata,perchetutoilbenech'èin Jei-appariscedifuori,ilmaleftàdentroocculto,ilqualechinedessenonebarebbeforse tantanoglia,percheèpienasenzadubbiodipericoli,disospettodimilletrauagli XXXII11. LE cosenonprenedute, nuoconosenzacóparationepisa,cheleprouifte; peròchiama moioanimograndeeperito,quelocheregge, enonsisbigotisceporili XXXV. N O N èdubbio,chequantopiul'huomoinuecchia,piucrescel'auaritia.Sidice communementeessernecausà,perchel'animodiminuisce,ragione,cheamenonècapa ce,percheè beneignorantequeluecchio,chenonconoscehauerneminorbisogno,quan ldpiuinuecchia, &inoltreueggo, chene'uecchis'augmētaperilcotrariolalufuria, (dicol'apetitoenonlaforza lacrudeltà, egl'altriuitijperòcredo,chelaragionue-: safia,chequantopiusiuiue,tantopiul'huomos'habituaallecosedelmondo o per consequentepiul'ama > ricchi, A 4   r i c c h i, n o n s a n n o c h e c o s a s i j l ' a c q u i s t a r r o b a , & n o n h a u e n d o a r t e , ò m o d o d i c o n f e r . varlafacilmenteladisipano. XXXV TII. NON fipuòbiasimarel'apetitodihauer figliuoli,percheènaturale:madico bene, cheèfpeciedifelicitànonhauorne,percheetiandiochiglihabuoni,e saur,' perdita ditēpošle quali cosesonotenutemalenelinostrigiudicij,che X L I I. E ' IMPOSSIBILE, chel'huomo (sebene èd'ottimoingegno, e giudicion a turale)posaaggiugnères& beneintenderecertiparticolari,però ènecessariale fperienza,laqualnonaltrogliinsegna,e questoricordolointenderàmeglio,chiha maneggiatofacendeassai,percheconlesperienzamedesimahaimparatoquantovan glia,esiabuonal'esperienza. strettonontoglieànessuno,pinsonoquellichepatisconodel legrauezzedel prodigo, chequellichehannobeneficiodellaficalarghezza:Laragio nedunquealmiogiudicioè,cheneglihuominipuopiulasperanza cheiltimore,etpiu Sonoquellicheferonocoseguirequalchecosadalui,chequi,chetemonoessereoppreffi.  1. Auuertimenti di senzadubbiomoltopiudispiacerediloro,checosolatione.L'esempiol'hovedutoinmio Padre,cheasuoidìeraessempioaFirenzedipadrebendotatodifigliuoti,peròpensa secomestia,chiglihadimalaforte. XLIII. PIACE senzadubbiopiuvnPrincipec'habbiadelprodigo,chevnoo’habbia dellostretto,ő tamendouerebbeessereilcontrario.percheilprodigoèneceßitatofa reestorsioni,Grapine,lo sha messiasuavolontà,& afuobeneplacito, perchelaleggenonglihavolutodarpoteftà difarnegratia,manonpotendoneicasiparticolari,perlavarietàdellecircostanze darneprecisadeterminarione,sirimetteall'arbitriodelgiudice,cioèallasuaconscien za, checonsideratoiltutto, facciaquelcheglipare piugiusto,& bonefo,& chialtija mentil'intendesse,s'inganna,perche laforzadellaleggeloaffoluedihauerneadar conto,perchenonhauendoilcasodeterminato,sipuòsemprescusare,manonglidàfa caltàdifardonodellarobad'altri. Χ Ι Ι. SI VEDE percfperienza,cheipadronitengonopococontodeseruitori,e per ognsiuacommodità,& appetitoglimettonodaparte. Tolaudoqueseruitori,chepi gliandoessempioda padroni, tengono piùcontodeleinteresisuoi,chediloro,ilcheperò consigliochesifaccia,faluandosemprel'honore,e lafede. X L. E R R A chicredechelicasi, chelaleggerímetteadarbitriodelgiudice, fienorin 2 XXXIX , -NON BIASIMO interamentelagiustitiaciuiledelTurco,cheèpiutosto precipitosa,chefommaria:perchechigiudicaaocchichiusiragionevolmente,spedisce lametadellecausegiustamente, e liberalepartidaspese,& spessofarebbepiuperchiharagioneha uerehauutodaprimalasentenzacontra,checonseguirladoppotantodifpendio,do titrauagli,senzacheàpermalignità,operignoranzadelligiudici;ó ancoraper ofleruanza delle leggisifa delbianconero : 1 L’IN   deuiofferuarequestaopinione,etiamconqualchetuain- commodità,& inquestos'ingannanospessoglihuomini,perchesimuovondoa qualche pocodidanno, cheapparisce,& nonconfideranoquantosianograndiibeni,chenonsi veggono, percheisudditinonveggono,enonmisuranoappuntoquelchetupuoifare,anzi imaginandosimoltevoltelapotestàtuamaggiore,chenonè,credonoaquellecoseche tunonlipotresticostringerė. XLIX. SONO alcunihuominisauiasperarequellochedesiderano,altrichemailocrea dono,infin,chenonnesonobensicuri,& senzadubbiopiuvtileèsperareinfimilicasi poco,chemolto,perchelasperanzatifamancaredidiligenza,e tidàpiudispiacere, quandolacosanonsuccede. LII. QUANTO bendissecolui.Ducuntvolentesfatanolentestrahunt,seneveg gonoognidìtanteesperienze,cheamenonpare,chemaicosaalcunasiaiceljimeglio.  Saui,chesidevgeodereilbeneficiodeltempo. M. Francesco Guicciardini. XLIIII. S L’INTENDERSI beneconlifrateli, econliparenti, fainfinitibeni, che tunonconosci,perchenonapparisconoadviper vno,mainfinitecosetiprofitta, fattihauereinrispetto,però altrimentièimpossibile,chelungamentesiatenutobuono. XLVII. XLVI. CHI nonsicurad'esserebuono,madesiderabuonafama,bisognachesiabuono, 10 fuigidd'opinionedinonvedereetiamcolpensareassai,quelchenonvedeuo prefto: maconl'esperienzahoconosciutoeserefalfifsimo,peròfáteuibefedichidi cealtrimenti. Quanto piusipensanolecose,tantomeglios'intendono,á sifanno: XLVIII. QVANDO tiverràoccasionedicosa chetudesideripiglialasenzaperdereten po, perchelecosedelmondosivarianotantospello,chenonsipuòdiredihauercofaal cuña, finchenonsiainmano.Etquandotièpropostaqualchecosa,chetidispiace,cer caildiferirlapiuchetupuoi,percheogniborasivede,cheiltempoportaaccidenti, cheticauanodiquestedifficoltà,& cosìs’hadaintenderequelprouerbio,chediconoi LIII : ILTIRANNO faestremadiligenzadiscoprirel'anitzetio,ciodseticon tentideltuostato,consideragliandamentiÜnnodituoi,concetičaredritesdiertocat chi XLV. CHIHA autorità, &signoriapuofpingersi,&flenderlaancorasopralefor zesue, LI . L. SE tuvuoiconoscerequalifienoipensierideTiranni,legiCornelioTacito,quan dofamentionedegloltimiragionamentic'hebbeAugusto conTiberio. IL medesimo Cornelio Tacito achibenloconsidera,insegnapereccellenzacome s'ha da gouernarechi vinesottoa un tiranno.   thìconuersateco,e conragionartecodivariecofe,&ponerti domandarti partiti,& parere,peròsenonvuoichet'intenda,bisogna,chetiguardicongrandissimadiligen za, damezzicheeglivsa,nonvsartermir: LIIII. A chi haconditionenella Patria,efiafotoonTirannofanguinofo& beftia le,siposjondarepocheregole,chseienobuone,eccettoiltorsol'esilioM.a quandoilTi fanno,oper prudenza,òpernecessitàdel suostatosigouernaconsospetto, on’huomo benqualificatodeuecercarediesseretenutodaaffai, & animoso,madinaturaquieto, nècupidod'alteraresenonèsforzato,percheintalcasoilTirannotiaccarezza,e cercadinondarticaufadifarnouità,ilchenonfariaseticonoscesseinquieto, perche all’horapensainognimodochetunonsiaperftarefermo,ondeèneceffitatopensare sempreťoccasionedispegnesti. SECONDO ilterminedisopra,èmegliononeseredelipiuintimieconfiden tidelTiranno, perchenonsolotiaccarezza,mainmoltecose,famancoasicurtàte co, checonlisuoi,cosìtugodilasuagrandezza,& nellarouinasuadiuentigrande, ma diquestoricordononsenepuòvalerechinonhaconditionegrādenellasuapatria. LVI. E'DIFFERENZA dhauerelifudditidisperati,adhanerlimalcontenti, perchequelinonpensanomaiadaltro,cheamutationedistato,elacercanoetiamcon suopericolo, questisébenenonsicontentano,edesideranocosenuouteamennoninui tanoleoccasioni,ma aspettanochedaseuenghino. LVII. NON. posonogouernareisuditibenesenzaleuerità,perchelamalignitàde glibuominicercacosim,asiuvolemescolardestrezza,& fardimostratione, accioche glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità, esalute publica. LVIII. SIDOVERIJ atenderealiefet,inonaledimostrationi,esuperficie,e nondimancodincredibilequantagratia,cöfauoveticöcilinoappresoglihuominileca rezze, etlahumanitàdiparole.lragionecredochesia,percheogniunosistima, parmeritarepiuchenonuale,eperòsisdegna',quandonede,chetunontieniquel contodilui,chegliparechesegliconuenga.  Auuertimenti di chebabbinoadarsospetto,guardandoco meparli,etiamconlintimituoi,e secoragionando,& rispondendodiforte,chenonti poljacauare, i!chetiriuscirà,setipresupponisemprequel'obbietto,cheegliquanto puoticirconuieneperscoprirti. LV . AC LIX E'COSA honoreuoleàun'huomononprometteresenonquellocheuuoleoffer nare,ma communementetuttiquelligachituneghi,á giustamente,reftanomalfodif fatti,percheglihuomininon Jilalanogouernaredallaragione:Ilcontrariointra uiéneachipromette,percheintrauengonomolticasi,chefannochenonaccadefare l'esperienzadiquello,chetuhaipromello,& cosihaisodisfattoconlamēteyetsepure s'hadauenireal'atononmancanoSpedoscuse,emoltisonofigrofli,chesilasciano aggirare   M . Francesco Guicciardini. aggirareconparole,nondimeno è fibruttomancareallaparolafua, chequestopre ponderaogniutilitàchesitraggadalcontrario,& peròl'huomosideueingegnaredi trattenersiquantopuoconrispostegenerali,&pienedibuonasperanza,manondifor techetioblighinoprecisamente. percheèpaz giafarsinimicosenzaproposito,& ueloricordo,perchequafiogniunoerrainque ftaleggerezza. LXI. Chi entrane' pericolisenzaconfiderarequelchepossono,oimportino, fichiama bestiale, maanimosoèquellocheconoscendoipericoliuientrafrancamente,operne cefftà,operhonoreuolcagione. ranno . mad ti ipopoli, 6  LXII. CREDONO molti,cheunfauio,percheuedetutiipericoli,nonpossaesserea nimoso: 10sonodicontrariaopinione,chenonpossaesseresauiochinonèanimoso, p e r c h e m a n c a d i g i u d i c i o , c h i s t i m a a d a u u e n i r e i l p e r i c o l o , p i u c h e n o n s i d e u e ,m a p e r auuenturaquestopaso,cheèconfuso,deuesiconsiderare,chenontuttiipericolihan no effetto,perchealcunineschifal'humo coladiligêza,etindustria,etfrächezzasua, altriilcasoiftesoetmilleaccidētichenasconoportanouia, peròchiconoscospericoli,no lideue metteretuttiad entrata,& presupponerechetuttisuccedano,m a discorrerecon prudenza quelchealtruipuò sperared'aiutarsi,edoueilcasoverisimilmenteglipuò farfauore,farsianimo,nèritirarsidall’impresedirili,& honoreuoliperpauradituttii pericolicheconosceessernelcaso. LX111. ERRA chidice,chelelettereeglistudijguaftanoilcervellodeglihuomini, percheforseè veroachil'hadebole, ma doueleletteretrouanoilnaturalebuono,lo fannoperfetto,percheilbuonnaturalecongiuntocoʻlbuonoaccidentalefannobuonif Jima compositione. Livi E'SEN?A comparationepiudetestabileinvn Principel'avaritia,cheinun priuato,nonsoloperchehauendopiúfacultàdadiftribuire,priuaglihuominitantopiù: maetiamperchequellochehavnpriuatoètuttofuo,&perusofuo,& nepuòsenze giuftaquerelad'alcunodisponere,matuttoquellochehailPrincipe,glièdatopervalós & beneficiod'altri, &peròritenendoloinfe,fraudaglihuominidiquelchedeueloro. L X V I .. LX. GV ARDATEV Idatuttoquellocheuipuonuocereenongiouare,però inpresenzad'altri, nonditemaisenzanecessitàcose,chedispiaccino, LXIIII. NON furonotrouatiiPrincipiperfarbeneficioaloro,perchenessunofefareb bemessoinseruitùgrauiffima,ma perinteresedepopoli,perchefuserobenegouernati, peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli,nonèpiu Principe DICO che il Principe chefamercantia,questononsolofacosavergognosa,maè Tiranno,facendoquellocheèoficiodepriuati,enondePrincipi,& peccatantoverfa   Auuertimenti di ipopoli, quantopeccherienoipopoliversolui,volendointromettersiinquelcheèoficio solodelPrincipe. LXVII. LE cosedelmondosonovarie,edipendonodatanticasi,& accidenti,chedifficilmē tesipuofargiudiciodelfuturo,& sivedeperesperienza,chequasisempreleconiet t u r e d e s a n i j s o n o f a l l a c i,p e r ò n o n l a u d o il c o n s i g l i o d i q u e l l i c h e l a s c i a n o la c o m m o d i tàd'onbenpresente,bencheminore,perpaurad'onmalfuturo,benchemaggiore,se non èmoltopropinquo,etmoltocerto,peichenon succedendo poispessoquello dichete meui,titrouipervnapauravanahauerlasciatoquellochetipiaceua,& peròèfauio quelprouerbio.Dicosanascecosa. LXVIII. NELLE cosedellostatoho vedutospessoerrarechifagiudicio, percheesamina quellocheragioneuolmentedouerebbfearquestoequelPrincipe,etnoconsideraquel lochefarà,verbigratiailRediFrancia,perchedeuehauerpiurispeto,qualsialana tura& costumidonFrancese,cheàquellodouerebbefarciascunPrincipe,prudente, faggio,& giusto. LXIX. 10 HO dettomoltevolte, etlodicodinuouo, ch’oningegnocapace, & chesappia farecapitaledeltempo,nonhacausadilamentarsi,chelauitasiabreue,perchepuò attendereadinfinitecose,& spendereytilmenteiltempo,gliauanzatempo. LXXI. NON èfaciletrouarequestiricordi,maèpiudificileesequirli,perchespesso l'huomoconosce, manonmetteinatto, peròvolendovsarlisforzatelanatura,e fate niunbuonhabito,colmezodelquale,nonfolofaretequesti,maancoraviverràfatto senzafatica, tuttoquellochevicomandalaragione. sottol'Imperio,cheTiberiohuomotiranno,& superbohaueuaesofa tantadappocagine. LXXIII. SE hauetemalasatisfattioned'ono,ingegnateuiquantopotete,chenonsen'accor ga, perchesubitofialienaràdavoi,& vengonomoltitempi, & occafionichevipollo noferuire, viseruirebbe,secoldimostrared'haverloinmalconcetto,nonvelbauesti giocato,e ioconmiavtilitàn'hofattol'esperienza,cheinqualchetempohohauuto malanimoversod'ono,chenonaccorgendosenem'hapožinqualcheoccasionegiouato, com'è statoamico. L'AM  LXXII. NON simarauigliarddell'animobasoeseruiledemoltipopolichileggerainCor nelio Tacito,cheliRomanisolitiàdominareilmondo& viuereintantagloria,ferui uanosivilmente > . LXX CHI vuoletrauagliare, nonsilascicanaredipossessionedellefacende, perchedal l'onanascel'altra,siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa tionechetiportailtrouartiinnegotio,& peròsipuo.ancoaquestoadattareilprouer bio:Di cosa nasce cosa. 1 1   & nefas,como ècausad'infinitimali.PeròveggiamocheliSignori fimilichehannoquestoobiet to,nonhannofrenoalcuna,o fannounpianodellaroba,& vitadeglialtri, purche, cosigliconfortiilrispettodelasuagrandezza. similimodi,hapiulungotrattocheprimanons'haveb becreduto, comeancoraintrauieneadvnochemuored'eticooditisico,chelasuavi tasempresiprolungaoltral'opinionechehannohauutoimedici,colivnmercăteinan zichefalisca, pereserecõsumatodagliinteresifireggepiutēpo,cbenöeracreduto. LXXIX. M'E parfasempredificileacredere, cheDiobabbiaapermettere,chelifigliuoli delDuca Lodouico, habbinoagoderquellostato,quandoioconsidero,cheilpadresuo l'havfurpatofceleratamente,é pervfurparloèstatocausadellarouina, seruity d'Italiaeditantitrauagliseguitiintutta Christianità, a questichelibiasimama nosonopazzi, perchestarebbefrescalaCittà,cóloro,seiltirannononhauesseattor noaltrichetristi.  M. FrancescoGuicciardini. 7 LXXIIII. L'AMBITIONE dell'honore,edellagloriaèlaudabile,& vtilealmondo, perchedacaujaagl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse.Nonècosiquel la delagrandezza,perchechilapigliaperidolo,vuolhauerlaperfas, LXXV. L'IMPRESE e cose,chehannodaaccaderenon perimpeto,maperchepri masiconsumano,vannoassaipiuinlungo,chenonsicredeuadaprincipio,perchegli huominisiostinanoapatire,apatiscono, lopportanomoltopiu,chenonsisarebbe creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerraches'babbiaafinireperfame,perl'incomodi tà,per mancamēto didanari,& LXXVIII. FATEV 1beffediquestichepredicanolalibertà,nondicoditutiman’ec cettuobenpochi,percheogniunodiquestitali,chesperasjehauerepiubeneinvnosta tostreto,cheinunlibero,vicorrerebbeperleposte,perchequasituttipostponeran noilrispetodel'intereseloro,esonpochifimiquelicheconoscono quanto vagliala gloria& l'honore. gottirti, e coltenereilcapofranconontilassareleuarefacilmente. LXXVII . LXXVI . CHI conuerfacongrandinonfilafcileuaracauallodacarezzeedimostrationi fuperficiali,conlequaliefefannocommunementebalzarglihuominicomevogliono, @affogarlinelfauore. Etquantoquestoè piudificileadifendersitantopiudeuesbir N O N potetehauermigliorparte,chetenerecontodell'honore,perchechifaque ftonontemei pericoli, nefamaicosachesiabrutta,perotenetefermoquestocapo, ú faraquasiimpossibile,chetuttononvisucceda.bene,expertusloquor LXXX. Dico cheunbuoncittadino,& amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi coltirrannopersuasicurtà, percheèinpericoloquandoèhauutoinsospeto,maanco taperbeneficiodelapatria, perchegouernandosicosi,glivieneoccasioneconconsigli, & conoperedifauoriremoltibuoni,edisfauoriremoltimali LAV   städodimezzotusemprerilieuietuincachisiuoglia. LXXXII. LA naturadepopoliècomequelladepriuati,diuoleresempreaugumentaredel gradoinchesitrouano,peròèprudenzanegareloroleprimecose,chedomandono,per checoncedendononlifermi,anzigliinuitiadomandarpiu,& conmaggiorinstanza, chenonfaceuonoda principio,perchecol.darlispessodaberesegliaccresce lasete. LXXXIII . OSSERVATE condiligenza lecosedetempipassati,perchefannolumealle future, cumsitcheilmondofiasempred'unamedesimaforte,& chetuttoquellocheè, sarà,èstatoinaltrotempo,perchelemedesimecoseritornano,mafotodiuerfinomiz & colori,peròogniunononleconosce,masolochièsauio,eleconsideradiligentemente. LXXXV. SE Oferuatebene, trouateched'etàinetàsimutanononsolamenteiuocaboli, modideluejlire,eticostumi,maancoraquelcheèpiuigustiel'inclinationidell'arme, & questadiuersitàsivedeetiaminuntempomedesimodipaeseinpaese,douenonso loèdiuersità delleinftrutioni,maancoradegustidecibiedegliappetitiuarijdegli huo mini.  Lamětepericolodellauittoria,ma Auuertimenti di i LXXXI. LAVDO chinelleguerred'altristaneutrale,chièpotentediforte,hatalconsi derationedistato,chenonhadatemereiluincitore,perchefuggeilpericolo,elaspesa, elaStracchezza,didisordinid'altripossonoparartiqualchebuonaoccasione:fuordi questiterminilaneutralitàèunapazzia,percheattacãdoticonunadelleparticorriso 9 4 1 LXXXIIII. SENZA dubbiohamigliortempoinquestomondo,piulungavita,esipuochia mareinuncertomodofelice, chièd'ingegnopiubasso,chequestiintellettieleuati,pero chel'ingegnonobile,seruepiutostoatrauaglio,& cruciatodiehil'ha,nondimenol’uno participapiudell'animalbruttoched'huomo,l'altrotrascendeilgradodell'huomo, s'accostapiuallenaturecelesti. LXXXVI. INANZI alM.CCCCXC111.nelqualtempol'ambitione,&cecita del Duca Ludouicoaperselauiaallarouinad'Italia,eranocome ogn'unosaimodidels la guerramoltodiuersidaquestiloppugnationedellecittà,leuccisioni,iconflitid'ale traforte,& quasisenzafangueinmodochechihaueuaunostatodifficilmenteglipote wa effertolto, dipoifiridusse,chechierapadronedellacampagna,haueuauinta laguer ra, comeinunmomento,s e eranodueesercitiincampagna siueniuainuntrattoale lagiornata,& eradatalasentêzadelaguerra,cosiuedemosenzaromperelanciaper dersiilRegnodiNapoli,ilDucatodiMilano,econlafortunad'unsologiocarsitutto lostato deVenetiani.Hoggi il Signor Profpero primo ha dimostratodiuerfo modo di guerra, checolmettersinelleterrehafoggiogatol'impetodichierapadronedellacamo p a g n a ,m a n o n r i u s c i r e b b e b e n e q u e s t o , a c h i n o n h a u e s s e d i s p o s i t i o n e d e p o p o l i f a u o r e wole,cornehahauutoegliquelladiMilanocontraFrancesi. LXXXVII. LE medesimeimpresechefattefuorditempo,Sonoštatedificiliseme,òimpoffibile, 1 quando   quandosonoaccompagnatedaltempoedall'occasionesonofacilißime,perònonsiuuo letentarleattrimenti,perchesetuletentifuordeltemposuo,nonsolonontifuccedono, maportipericolo,checonl'hauerletentatenonleguastiperqueltempo,chefacilmen tefarebbonoriuscite,peròsonotenutisauijipatienti. LXXXIX. NON ègrancosa,ch'ungouernatorevsandospesoaffrezza,òefetidifeuerità, sifacciatemere,percheisudditihannofacilmentepauradichilipuosforzare,eroui n a r e , & v i e n e f a c i l m e n t e a l l' e s e c u t i o n e ,m a l a n d o i o q u e l l i g o u e r n a t o r i, c h e c o n f a r p o cheaffrezge, et esecutioni, fannoacquistarsi, & conferuarnomediterribili. xcІ. RICORDATEV I diquellochealtrevoltehodettodiquestiricordischeno s'hannoad osseruaresempreindistintamente,mainqualchecasoparticolare,cheara gionediuerfanonsonobuoni,& qualisienoquesticasi,nonsipuocomprendereconrego laalcuna,nesitroualibrochel'insegni,maènecessariochequestolumetelodiaprima lanatura, & poil'esperienza. ... XCIII . cu i diseonpopolo,diseveramenteunpazzo,percheeglièunmoftropienodi tonfusione;ó d'errore,perchelesueopinionisonotantolontandeallauerità,quanto secondoTolomeo,laSpagnadall'India. COME  M. FrancescoGuicciardini. 8 * 011. A miogiudicioinnesjungrado, òantoritàsiricercapiuprudenza,& qualitàec cellente,cheinvnCapitanod'onoesercito,perchesonoinfinitequellecose,a cheproue deré,& comandaresinfinitiaccidenti,etcasivarijsched'horainhoraseglipresentano, inmodocheperamentebisognachehabbiapiuocchid'Argo,e nonsoloperl'importa zafua, maperlaprudenza, chelibisognareputoinognialtropesoniente. XCIIII. Edifferenzaadesereanimoso,&nonfuggireipericoliperrispetodel'bonore,Psta noel'altroconosceipericoli,ma quelloseconfidapoterfenedifendere,efenonfusseque staconfidēzanõgliaspetarebe,questopuoeferschetemapiudeldebitoznèsiafaldo, perchenonhabbiapaura, maperchesirisolueavolerpintostoildãnocbelauergogna. LXXXVIII. HO osseruatowe'mieigouerni,chequandomièvenutainanzivnacausa,cheho hauutoper qualchegiustorispettodesiderio d'accordarla,nonhoparlatod'accordo,ma folmetterevariedilationi,& ftrachezzehofattochelemedesimepartilhannoricer cato, cosiquello,chesenelprincipioiol'haueßiproposto,sariastatoributtato,s'eridotto intermine,chequandoèvenutoiltemposuo,ionesonostatopregato. XC: N O N ,chechitieneglistatinonsianecessitato,metterlemaninelsangue,madi cobenechenonsidevefarsenzagranneceßità,& cheilpiydellevolteseneperde, piuchenonseneacquista,perchenon solos'offendequellichesonotocchi, ma ancorasa dispiaceall'vniuerfaledeglialtri,efebenetuleuiquelloinimico,oquelloostacola,non perosenespegneilseme,cumsitscheinluogodiquellosott'entranodeglialtri,& fpeffo intrauiene,comesidicedell'hidra;cheperognunojnenafcesette. $   XCVIII. N O N possoio, nesofarmibello,nedarmiriputationediquellecose,cheinperin tànonsonocosi,& tamenfariapiuvtilefareilcontrario,percheèincredibilequanto giouilariputatione,e opinionechehannoglihuomini,chetusiagrande.Conquestoru moresoloticorronodietro,senzachetun'habbiavenireacimento. che ilpadrone,eproportionatamenteil superiorelisudditi, perchenonsipresentaianzialuitaliqualisipresentanoagl'altri, anzicercanocoprirsialui, & parered'altrafortecheinverononsono. ,e pericoli, qualfortehabbiapiuadesiderareuna Città,òdicaderenelgouernod'vno,òdimolti,odipochi. p e r c h e d'hora in hora nascono o c c a s i o n i, c h e e g l i c o m m e t t e a c h i v e d e , ò a c h i g l i è p i u e p r o p i n q u o, c h e s e t i h a u e s s e a c e r careòaspettarenontisicommetterebbe, e chiperdevnprincipiobenchepiccolo,per despessol'introduttione,e aditaarosegrandi. fawpusēruitorichefannoilmedesimoversoipa droni,non facendoperacosachesiacontralafede,l'honore.  Auvertimenti di XCE . COM Ecoluic'haagiutato, òeftatacaufa, cheunosalgainungrado,louuolgouer nareinquelgrado,giàcominciaa căcellareilbeneficio,chegliha fato,volēdousarper se,quelcheprimahaoperato,chesiadiquell'altro,eglihagiustacausadinon.com portarlo,neperquestomerita eserechiamatoingrato. XCVI. R O N s'atribuiscaalaudedifa, òchinonfaquellecose, lequalifepotefse,ofa cesjemeriteriabiasimo". XCVII. DICE ilprouerbioCastigliano,ilfilsirompedallatopiudebole,semprechepensi v e n i r e i n c o n c o r r e n z a è c o m p a r a t i o n e d i c h i è p i u p o t e n t e o r i s p e t t a t o, p i u s u c c u m b e i l piudebole,nonostante,chelaragioneèl'honestà,òlagratitudinevolesseilcontrario, perchecommunemente;s'hapiurispetoal'interese,chealdebito:+31 xCІ. NIVNO conoscepeggioliferuitorisuoi GII. 10 velodicodinuouo, lipadronifannopococontodeseruitori,& perogniinteresse listrascinanosenzarispeto,perosono 2 CI. TP chéstaiincortë,& seguitiongrande, edesideriessereadoperatodaluiinfa cende, ingegnatidiStarlituttaniadinanzia gl'occhi, pome ...) C O N C O R D A N O -tutieferemeglioreloftatod'vnoquandoèbuono, ibedi pochiedimolti,o buoni,eleragionisonomanifeste,cosiconcludono,chequellod'ono piufacilmentedibuonodiuentacattiuo,chegl'altri,& quando ècattivoèpeggioredi tutti,tantopiuquandovaperfiuèceffione,percheradevolteadunpadrebuono fa uio, succedeunfigliuolosimile.Perovorreichequestipoliticim'haueJerodichiarato, consideratetutequesteconditioni CTII CHI siconoscehauerebuonaforte,puotentarl'impreseconmaggioranimo,maè d a a u u e r t i r e c h e l a f o r t e n o n s o l o p k o e s s e r e v a r i a d i t e m p o i n t e m p o ,m a a n c o i n u n t e m   pomedesimopuoelervarianellecose,perchechiosseruauedràperesperienza,mol tiesserefortunatiinunaspeciedicoje,& inun'altraesseresfortunati,etioinmiopar ricolarehohauutoinfinoaquestodàtrediFebraroM D XX111.inmoltecose bonißimaforte, tamennonPhosimilenellemercantie, one glihonori,cheiocerco d'havere, perchenoncercandolimicorrononaturalmentedietro,ma come cominciò a cercarli,pare chesidiscostino . CV. LE cosedelmondononstānoferme,anzihannosempreprogressoalcamino,àche ragioneuolmenteperfuanaturahannodaandare,e finire,matardanospesopiache ilcrederenostroperchenonlemisuriamosecondolavitanostra,cheèbreue,e non secondoiltemposuo,cheèlungo, & peròipaffifuoifonopiutardi,chenonsonoino fri,& fitærdipersuanatura,cheancorachefimouinononciaccorgiamospesode fuoimoti,e perquestosonofpefjofalsiigiudicij,chenoifacciamo, CVII . R O N sosesideuonochiamare: fortunatiquelli, achivnavoltasipresentavna grandeoccasione,perchechinonè prudente,nonlafabenevsare,masenzadubbiofo no fortunatiffimiquelli,aqualivnamedesimagrandeoccasionesipresentadueuol te,perchenonèbuomocosidappoco,chelasecondavoltanonlasappiavsare, cosi inquestocasosecondos' hadahauere tuttal'obligationeconlafortuna, donenelpri mohaluogo-ancoralaprudenza . , cheuiuonoinlibertà, ma queli, neiqualiera meglioprouiftoallaconferuationedelleleggiedellagiuftitia. fannoinuentionediquel löches'aspeta,òsicrede,epiuorecchivipreftosefononuouestrauaganti,o'inaspet tate, perchemancooccorreaglibuominifareinuentioni,òpersuadersiquellochenon èinalcunaconsideratione,ediquestohovedutoiomolteuoltel'esperienza. GRUAN forteèquelladegliastrologi,cheancora,chelaloroprofeffionefiava  M. FrancescoGuicciardini. CIIII . N O N hamaggioreinimicol'huomo,chefefteso,perchequasitutiimali,perico li,& trauaglisuperflui, chehanonprocedonodaaltro,chedallasuatroppacupiditate C, L’APPETITO dellarobanascedaanimo'balo,omalcomposto,fenonside. fiderasseperaltro,cheperpoterlagodere,ma essendocorrottoilviueredelmondo,co me èchidefiderariputatione,èneceßitatoàdesiderareroba,perche.coneffarilucono Levirti,cfono inprezzolequaliinunpouerosonopocoftimate,& mãcoconosciute. B CVIII. La libertàdelleRepublicheèministradellagiustitia,perchenonèfondataadal trofine, senonperdifensione, chel'onononsiaopressodal'altro,peròchipotesseef soresicuro,cheinunostatod'unoòdipochis'ofjeruajelagiustitia,nonharebbetau fadidesiderarelalibertà.Questaèlaragione,chegliantichisauij, & Filosofinon laudornopiudeglialtrique'gouerni CIX. QVANDO lenuoues'hannod'Autoreincerto,&fienonuoueverisimili,d aspettate,ioliprestopocafede,percheglihuominifacilmente СХ; nito,   Auuertimenti di mità, òperdiffettodell'arte,ofuo,tamenpiufedeglidàvnaverità,chepronostica no,checentofalsità,é tamenneglihuominiintrauieneilcontrario,cheunabugia, c h se i a r e p r o b a t a d a v n o , f a , c h e s i s t à s o s p e s o a c r e d e r l i t u t t e l ' a l t r e v e r i t à , & procede daldesideriograndec'hannoglibuominidisapereilfuturo,dichenonhauendoaltro modo dihauerecertezza;credonofacilmente ,a chifaprofessionedisaperlolordire, comeall'infermoilmedico,chelipromettelasalute. ,òdallauoluntàdiquelli,chedominano,perchenonhan uendesiacūbattereconragioniimmutabili,ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille cafi,chefacilmentetisolleuanodachipuopretenderedileuartidiposeso. scarso, perchenessunacosaof fendepiùl'animod’unfuperiorecheilparerglichenonlisiahauutoquelrispetoeri uerenza,chegiudicaconuenirseli.  CXI. F T Ë ognicosapernontrouaruidonesiperde,percheancora,chenonuisia colpaisoftra, nehauetesõprecarico, nèsipuoandareatuttelepiazzegetbanchiagiu Stificarsi,comechisitrouadouefi vince, siportasemprelaudeetia Jenzasuomerito. fa nellecosepriuate,trouarsiinpoffeffioneantica,chele ragioninonfimutano,6 imodidegiudityediconsignareilsuofonoordinarü,&fer mi,masenza cumparationeèmoltomaggiorevantaggioinquellecose chedependo nodagliaccidentidellistati CXIIII. FV crudeleildecretode Siracusani,dichefamentioneLiuio, cheinsinoalledon n e n a t e d e t i r a n n i f u s s e r o a m m a z a t e , ma non però a l t u t t o s e n z a r a g i o n e , p e r c h e m ă Catoiltiranno,quellicheuiueuanouolentierisottodilui,sepotefjeronefarebbono un'altrodicera, enonessendocosifacileuoltarela riputationeaun'huomonuouo,si ritiranosottoognireliquia,chereftidiquello.Peròuna Città, cheescanuouamente dallatirannide,nonhamaibensicuralalibertàSenonspegnetuttalarazza,& pro geniedetiranni,dicoperò glimaschi,enonlefemine. CXV. N O N èinpoteftàd'ogniunoeleggersiilgrado,elefacende,chel'huomouno le, manonbisognaspessofarquelle,chet'appresentalatuaforte,& chesonoconfor mialostatoincheseinato, peròtuttalalodeconsisteinfarlasuabene,comeinuna comedia,nonèmancolodato,chibenrappresentalaperfonad'unferuo,chequelli,a chisonomeffiindossoipannidelRe,od'altrapersonadegna,ogniunoinefetonel gradofuopufoarsihonore. E vantaggiocomeognun CXII . CXIII . CHI desideraeseramatodasuperiori,bisognamostrared'hauerelororispetto,e riuerenza,e conquestoeferpiutoftoabbondante,che CXVI. OGNIV NO inquestomondofadeglierrori,daqualinascemaggioreomi nordanno,secondogliaccidenti,& casicheseguitano,mabuonafortehannoquelli, ches'abbattonoadevrareincofediminoreimportanza, òdallequalineseguitaman codisordine. 2 E gran   CXVII. E 'granfelicitàpotereviuereinmodo chenonsiriceua,nèfifacciaingiuriaad altri,ma chis'adduceingrado,chesianecessitato,oaggrauare,òapatire,deueper mioconsigliopigliareiltrattoauantaggio,percheè cosigiustadifesa,quella chesifa pernonesseroffeso,comequella,chesifaquandol'offesatièfatta,ènerochebisogna bendiftinguericasi,nèpersuperflupaauradarsisenzacausaadintendered'eserene ceshtatoapreuenire,nèpercupidità,nèpermalignità,doueinverononhainèdeui hauerefolpettovolereconallargarequestotimoregiustificarelaviolenza,chetufai. CXVIII. NE glihuominie lapatienza, el'impetosonobastantiapartorirecosegranuis perchel'onooperaconl'urtareglibuomini,esforzarelecose,l'altraconlostraccara li,evineerlicoltempo,el'occasioni,peròinquellochenuocel'ono,gioual'altro,Grå conuerfo,& chipotessecongiugnerli,& vsareciascunoaltemposuosarebbediuino, maperchequestoèimpoßibile,credocheožbuscõputatis,lapatienzaemoderationfi: landabileinun Principepercõdurremaggiorcoseafine,chel'impetoelapcipit.iticne. CXX. NLELLE cosedellEconomicailuerboprincipaleèrisecaretutelespesesuper flue,ma quelloinchemipare, checonsistal'industria,èchifalemedesimespesecon piuvantaggio,ecomesidicevolgarmente,spendereilfoldoperquattroquattrini. CXXII. DICEVA unpadre,chepiubonoretifaunducatoinborsa,chediecichene baispesi,parolemoltodanotare,nonperdiventarfordido,nèpermancarenellecose honoreuoli,e ragionevoli,maperchetifafrenoafuggirelecosesuperflue. la malitia,ochenelmaneggiarelecoses'accor gono diquelloharebbono dibisogno,sicercafardirealiStrumétiquello chel'huomo vorrebbechedicese,peròquandosonogliinftrumentidicosevostred'importanza, habbiatepervfarizafaruelilenaresubito,& hauerliincasainformaautentica.  10 M. FrancescoGuicciardini. CXXIII. RARISSIMI sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano,madopo fatisecondocheglihuomiuipensano CXIX . SE benglihuominideliberanoconbuonoconsiglio,gliefetisonoperòlpelocat tiui,tantosonoincertelecosefuture,nondimenononsiuuole comebestiadarsiinpicito daallafortuna,macomehuomoandarcontaragione,& chièSauio,hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio,ancorchel'efetosiastatocattiuo,chefeconvácon figliocattivo, hauessehauutol'effettobuono. CXXI. TENETE amente,chechiguadagna,sebenpuospenderequalchecosadipiu chenonguadagna,tamenè pazziaspenderelargamentesulfondamentodeguada gni,seprimanonhaifatobuonocapitale,perchel'occasionedelguadagnarenondu rasempre,& fementreessaduranontiseiacconcio, passatacheellaèytitrouipouero comeprima, edipiuhaiperdutoiltempo,el'honore,percheallafineètenutodipo coceruello,chihahauutal'occasionebella,& nonl'hasaputausarebene, & questo ricordotenetelobeneamente, perchehovistoamjeidiinfinitierrori. E Cer B2   puoalcunauoltamettendoinsiemela gratitudinechesisentedatuttiefere notabile. CXXV. DEL fareun'operabuona, & laudabilenonsivedesempreilfrutto,peròchi nonsisatisfafolumdelbenfaredi sesteso,lascidifarlo,nonparendoglitrarneuti lità, maquestoèingannodeglihuomininonpiccolo, percheilfarelaudabilmente,se bennontiportasjealtrofruttoeuidente,spargebuonome,& buonaopinionedite, laqualinmoltitempi & cafitirecautilitàincredibile. progressoditemposi p o c h e c o f e u e r i f i c a t e , c o m e s i t r o v a a c a p o d e l l ' a n n o d e g l i a s t r o lp o ge i ,r c h e l e c o s e del mondosonotroppouarie. CXXVIII. NELLE coseimportantinonpuofarebuonogiudicio,chinonfabenetuttii particolari,perchespesounacirconftantias& minima,nariatuttoilcaso, mauidice bene, chenonhanotitiaadaltro,chedigenerali,& questomedefimogiudicapeggio intesii particolari,perchechinonhailceruellomoltoperfettoemoltonettodallepaf fioni, facilmenteintendendomoltiparticolarisiconfondeeuaria. CXXXI. SE d'unos'intendedlegge,chesenzaalcunofuocommodo,èinterefe,ampor  Auuertimenti di CXXIIII. E'Certo, chenonsitiencontodeliseruitijfattialipopoliinuniuersale, comedi quellichesifannoinparticolare, perchetoccandocolcommune, nessunositienseruito inproprio, peròchis'affaticcaperlipopoli, &vniuersità,nosperiches'affatichinoper luiinunsuopericolo,òbisogno,òchepermemoriadebeneficij,lafcinounalorocomo modità, nondimenononsprezzatetantoilfareseruitioapopolichequandouisipre sentil'occasionelaperdiate,percheseneuieneinbuonnome,ebuonconcetto, cheè fruttoasaidelafatica, senzapure,cheinqualchecasogiouaquellamemoria,& rin mzoneachièbeneficiatosenonsicaldamente,comelibeneficipropri,almancosarà partediquantosiconuiene, &fonotantiquestiachitocca questalorleggieraimpres fione,che CXXVII. CH I facessefuun'accidentegiudicaredaun'buomosauioglieffetti,chenasce ranno,& scriueseilgiudicio, trouerebbetornandoa uederloin CXXIX, SPES SO s'inganna, chisirifoluesuiprimiauuifi,cheuengonodellecoseper ebeuengonosemprepiucaldi,& piuspauentofi, chenonriefconopoiconglieffettin però chino nèneceffitatoaspettisempreisecondi, edimanoinmanoglialtri. CXXVI. CHI halacurad'unaterra, chebabbiaaesserecombattuta,òassediata,deuefa repochiffimofondamentointuttiqueirimedij,cheallunganogestimareassaiognico fachetolgatempo,etiampiccoloaliiniinici,perchespessoundìpiu,o un'borapor taqualcheaccidente,chelalibera. CXXX. NON combatteremaiconlareligione,neconlecosecheparechedependonoim mediateda Dio, perchequestoobiettohatroppaforzanellementideglihuomini. ilmale   CX XXIIIK E'buonmezo aguadagnarsifauoriilmostrareaquelli,dachituduoiguada gnareilfauoredifarlicapisG CXXXVI. QY ANDO sifauna cosa, sesipotessesaperequelchefarebbeseguito, senon sifufefatta, sòifussefattoilcotrario,senzadubbiomoltecosesonoda glihuominilau dati,chenon fariano,anzimeriterebbono contrariasentenza: CXXXVIII. A C C A DE :molteuolteinunadeliberationecheharagionedaognibanda, che ancorachel'huomohabbiadiligentementepenfato,chepoichehafattoladeliberatio ne, gliparebauerelettolapartepeggiore,laragioneè, chepoichetuhaideliberato tisirappresentanosolamenteallafantasialeragioni,cheeranonell'opinionecontra rialequaliconfideratesenzailcontrapesodell'altretipaionopiugraui,e pireim B 3 portanti  M.Francesco Guicciardini. Ir i male,cheilbene;fideuechiamarbeftiae, t nonhuomo, poichemancadell'appetia naturale , n o a fauorire quello, che p e r a l t r o h a r e b b o n o d i s fauorito CXXXV. CXXXII. NON credeteaquestichepredicanocheamanolaquiete,etd'essereStracchi dell'ambitione,& hauerelasjatele.facende,perchequasisemprehannonelcuoreil contrario, esisonoridottiavitaappartata, & quieta,òpersdegno,òpernecessità, òperpazzia,l'essempioseneuedetuttoildì,percheaquestitalisubitoches'appres Sentaqualchespiragliodigrandezza,abbandonerannolatantalodataquiete, & nifi mettonoconquelpericolo, chefailfuoco,adunacosafecca. CX XXIII. :L'INCLINATIONI, e deliberationide.popolisonotantofallaci, & Menatepiuspessodalcaso,chedallaragione,chechiregolailtrainodeluiuerfuo,non inaltrocheinfüilasperanzad'hauereadeseregrandecolpopolozhapocogiuditiosper cheopporsièpiutostoventuracbefenno. autoridiquellacosa,nellaqualen'haidibisogno,perche la piupartede glihuomini,presidaquellauanità,òambitione,uisiaffettionanoinmo do,chedimèticatiirispetticontrari,ancoradepiuragioneuoliepiuurgenticomincia INFINITE Sonolevarietàdellenature,dadepensierideglihuomini, però non sipuoimaginarecosa, nèsìstrauagante,nèsicontraragione,chenonsiasecondo ilceruellod'ałcuno,perquestoquando sentiretedire,ch'altrihabbiadetto,ofattoco. facchenonuiparrauerifimile,nèchepossacadereinconcettod'huomo,nonuënefat teleggiermentebeffe,perchequellochenonquadraate,puofacilmentetrouareachi piaccia, òpaiaragionevole. CXXXVII. PA RE chei Principi sienepiuliberi,e piupadronidellelorouolontà,chegli altrihuominóznonèuero nePrincipi chesigouernano prudentemente,perchesonone cefsitatiprocedereconinfiniteconsiderationi,rispetti,inmodochemoltevoltecat tiuanoilordisegni, iloroappetiti,el'altrevolontàloro, iochel'hoosseruato,n'ho pedutemolteesperienze.   ,diriandaretutteleragioni,chesonohinc,& inde,perchequeen stoconcorso& contrarietà, chetiapprefentiinanzi,fa,cheleragionichesiconcede ilano,nontipaianepiudimaggiorpesosoimportanzadiquello,cheveramente CXLII. QVANDO nelleconsulsteonoparericontrarij, sealcunoescefuoraconqual. Che partitodimezo,quasichesempreèapprouato,non percheipartitidimezo,il piudellevoltenonsier:opeggiori,ma percheicontradittoricalanopiuvolentierid quello,cheall'openionecontraria,& ancoglialtri,òpernondispiacere,opernonef jerecapaci,sigettanoaquellocheparloro,chehabbiamancodisputa. CXLIIII. POSSONO maleglihuominipriuati,biafimareolodaremoltoleationide Principi,nonsolopernonsaperelecosecomestanno& peressergliintereffi,& ilo to finiincognitismi ancoraperchela differenzaèdall'hauereauuerzo ilceruello advsodePrincipi,adhauerloaurezzoadvsodepriuati,facheancorchelostato, ifinidellecose, & gliintereshfulero all'unonoticomeal'altro,leconsiderationi  Auvertimentidi portanti,chenonpareuanoinanzi,chetudeliberafi:Ilrimediodiliberarsidaquesto molestia,èsforzarsi CXXXIX . V NO huomo,chenonsiaprudente,nonsipuoreggeresenzaconsiglio,nondime noeglièmoltopericolosopigliarconsiglio,perchechidàconsiglio,haspesopiuconside rationeall'interessesuo,cheaquellochelodomanda,anziproponeognisuopicciolo rispetto,& fodisfattioneall'interesse,benchegrauissimo,a importantijimodiquela l'altro,peròdico,cheintalgradobifogna, ches'abbattaconamicifedeli,altrimenti portapericolodinonfarmaleapigliarconsiglio,etmaleetpeggiofa,ànolopigliare. mol tevolteinterzooquartocaso,chenonfumaiinconsideratione,e chedifficilmente fisarebbeimaginato,chepoteseesseremolteutoltesitrouaingannato. CXLI . : NON sipuochiamareinfelicevnacittà, chefioritalungamente,uieneabal Sezza, perchequestoèilfinedellecosehumane,nësipuoimputareinfelicitàlelle resotopostoaquellalegge,cheècommuneatutiglialtri, mainfelicesonoqueicit tadini,a iqualihadatolafortenascerepiuprestonelladeclinationedellasuapatria, cheneltempodellasuabuonafortuna. fono. però C X L. Si CHI sulfargiudiciodelfuturovuolpigliare-qualchedeliberatione, comespesso calcula, latalcosaanderà,òneltalmodo,òneltale.,& suquestodiscorsopigliail suopartito,percheperlavarietàdellecose,edegliaccidentidelmondo,viene CXLIII. VR Principe,chevolessetorreilcreditoagliAstrologi,chestampanoigiudicij vniuersalmente, nonharebbeilpiufacilmodo, checomandare,chequandosistampa ilgiudicioloro,perl'annofuturo,fusseristampato, & appiccatoconessoloroilgiudi ciodell'annopaljato,percheglihuominirileggendoinquelloquantopoco fifienoa p postidelpassato, farelbonosforzatinonprestarfedealfuturo,& hauendosidimenti catolebugiedell'annopaljato, lacuriositànaturale,chehannoglihuominidisapere, quelchehadaessere,gliinclinafacilmenteaprestarlifede. 1   peròsonomolto'diuerse,äsidiscorronolecosecondiuersoocchio, sigiudicano condiversogiudicio,& infine,l'unolemisuracondiuerfamisuradall'altro. fareognioperapossibile, fachecoluiilpiudelleuoltècominciaacre dere,chenonlovoglia seruire;ilcontrariointrauienea chifalarghezzadisperan 2a,&difacilità, perches'acquistapiucolui,ancorche l'efetononriesca,cosisi D e d e , c h e c h i s ig o u e r n a con arte, o p e r d i r m e g l i o c o n q u a l c h e a u u e r t e n z a ,è p i u g r a to, & piufailfattosuo,nèprocededaaltro,senondaesserelapiupartedeglihuo miniignorantialmondo,ches'ingannanofacilmenteinquellochedesiderano.onesto ma utilitario,ambi ziosoepositivo, consideratoildramma dellaruina italica, in mezzo al quale si svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il segreto per giudicare la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui manifesta l'anima sua,che vibra d'ambizione,di collera,discoraggiamento,dibeffardoscetticismo e anche di nobili entusiasmi. e 2 ZANONI. INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI SULLA PRIMA DECA DI TITO LIVIO. NiccolòMachiavelliposemano aisuoiDiscorsisulle Deche diTitoLivionel1513,elifinìmoltopiùtardi: liandò leggendo negli Orti Oricellari,circondato dalla gioventù fiorentina,che pendeva ammirata dallesue labbra. Egli dice, sin dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto argomento dal bisogno di o p e rare quelle cose che credeva adatte a recare comune beneficio a ciascuno. E se l'ingegno povero,la poca esperienza delle cose presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo suo conato difettivo e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con più virtù,discorso e giudizio,possa a questa sua intenzione soddisfare.Più apertamente manifesta questo suo desiderio,concludendo:«Benchè questa impresa sia difficile, nondimeno aiutato da coloro, che mi hanno ad entrare sotto questo peso confortato, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve cammino a condurlo al luogo destinato.'» Il Guicciar dini ne accettò l'invito e scrisse le sue osservazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli,fermandosi a con 1Machiavelli,nel proemio al primo libro dei Discorsi.  CAPITOLO SECONDO. CONSIDERAZIONI DEL GUICCIARDINI   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 19 Il Machiavelli tratta delle origini delle città e os serva che se trovansi in luoghi sterili, i cittadini d i ventano energici ed operosi : m a se si stabiliscono in luoghi fertili, cadono nell'ignavia,se non si cerca con le leggi di correggere il male morale portato dalla fecondità della terra. Se non che la sterilità dei luo ghi non offre facile via alle conquiste,e per questo i Romani fondarono la loro città in luogo fertile e adatto a spianare ad essi la via dell'imperio : al ri manente rimediarono con leggi severissime,le quali resero armigero il popolo. Su quest'ultima parte il Guicciardini,che assaiammira l'arte militare deiR o mani e non troppo il governo e la politica loro, os serva che Roma era bensìposta in paese fertile,ma per non avere contado e essere cinta di popoli po tenti, fu forzata allargarsi con la virtù delle armi e con la concordia ;e questo si discorre non in una città chevogliavivereallafilosofica,ma inquellechevo  siderare i primi due libri e appena qualche capitolo del terzo,perchè gli mancò iltempo a continuare il lavoro intrapreso.In esse spicca la differenza di mente fra il Guicciardini e il Machiavelli : questi guarda le questioni da sublime altezza e sotto un aspetto più g e nerale,abbandonandosi alla sua geniale idealità,nello studiare l'organizzazione dello Stato ; il Guicciardini invece,ricco di tanta esperienza,vero genio del senso pratico,nonsegueilsuoamiconeivolipoetici,ma si ferma soltanto a rettificare quelle idee del Machia velli a lui sembrate erronee : in ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza profonda dei go verni. Egli discute i mezzi di reggere le repubbliche e i principati, ne studia l'indole per cercare il go verno migliore : parla dei modi di comportarsi coi soggetti e di aumentare fuori l'imperio degli Stati,di condurre le guerre, dell'efficacia delle religioni sulla civiltà delle nazioni:ragiona sullanatura umana,do minata dai due istinti del bene e del male. <   20 CAPITOLO SECONDO. gliono governarsi secondo il comune uso del mondo, come è necessario fare;altrimenti sarebbono,essendo deboli, oppresse e conculcate da'vicini.'» Moltissime sono le osservazioni del Guicciardini circa le varie specie di governo,le guarentigie da prendersi per custodire la libertà, le qualità e condizioni necessarie ad un regime per essere forte.” Degne di studio sono pure quelle riguardanti il principato,ilgoverno popolare e quello degli ottimati. « Il frutto del governo regio,così il Guicciardini,è che molto meglio, con più ordine, con più celerità, con più segreto, con più risoluzione si governano le cose pubbliche quando dipendono dalla volontà di un solo, che quando sono nell'arbitrio di più.» Ma se il so vrano è cattivo, gli effetti ne sono pessimi. E però, secondo lui,è necessario farlo perpetuo,ma limitargli l'autorità, con fare che da sè solo non possa disporre di alcuna cosa e solamente abbia libertà d'azione in quelle che sono di minore importanza. Dichiara che nel governo degli ottimati è il bene, perchè essendo in più non possono cadere tanto facilmente nella ti rannide, come avviene nel principato :essendo uomini qualificati governano con più prudenza e intelletto del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose p r o p r i e e o p p r i m o n o il p o p o l o : l ' a m b i z i o n e f a n a s c e r e in essi le sedizioni e per via della tirannide si produce la ruina della città. Se poi, invece del governo degli ottimati, per elezione o per qualità, che si potrebbe rendere buono con acconci provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per nascita o per eredità,questo sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di popolo è di buono che mentre dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi che gli uomini ; e il fine di tutte le deliberazioni è badare al bene universale. Di male 1 F. GUICCIARDINI, Opere inedite, vol.I, pag.5. Firenze, Bar bèra,Bianchi e Comp.,1857.  7 2 Ibidem,pag.6.   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 21 Egli,nei suoi giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del popolo che disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e l'ama.Intorno alla ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina « che senza comparazione il popolo sia più in grato ; perchè, e per essere gli uomini distratti in varie faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco distingue e manco conosce che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade più facilmente negli uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o di nobiltà o di ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta ; nè cosa alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più qualità di loro e questi sempre desiderano abbas  vi è che il popolo,per la ignoranza sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e desi deroso sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato dagli uomini ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati, che gli neces sita a cercare novità e perturbazioni.» Il Guicciar dini,inchinevole più al governo di uno, quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare, si di scosta in ciò da Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze : questo è uno dei punti,in cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra di essi.Del resto il Guicciardini reputava ottima la forma del governo misto di principe,popolo,ottimati,togliendo da ciascuna specie il buono e lasciando indietro il cattivo, cercando di conciliare tutti gl'interessi; la qual forma presenta delle somiglianze coi governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è quellalodatapure dal Machiavelli. I due grandi statisti fiorentini discor rono dei governi secondo le idee di Polibio, ma il Guicciardini, profondo conoscitore delle condizioni dei suoi tempi,con acume più pratico parla dei varî re gimi e delle passioni e appetiti che muovono iprin cipi, i nobili e il popolo ad impadronirsi dello Stato.   1Op.cit.,pag.44,45 ec. 2 Op.cit.,pag.14,15,16 3 Op.cit.,pag.42,43. CAPITOLO SECONDO.  sare.'> Crede il Guicciardini di non saper bene ciò che voglia dire la questione presentata da Machia v e l l i, s e s i d e v e p o r r e l a g u a r d i a d e l l a l i b e r t à n e l p o polo o ne'grandi. Se intendesi discorrere di chi deve partecipare al governo,ciò spetta,nei governi misti c o m e quello di R o m a , tanto ai patrizî c o m e ai plebei , che salvarono spesso la libertà della patria. «Ma quando fosse necessario mettere in una città o un governo meramente di nobili o un governo di plebe, è manco errore farlo di nobili, perchè essendovi più prudenza ed avendo più qualità,sipotràpiùsperare si mettino in qualche forma ragionevole,che in una plebe,la quale essendo piena d'ignoranza,di confu sione e di molte male qualità, non si può sperare se non che precipiti e commetta ogni colpa. > Lo stesso disprezzo per il popolo lo rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere stati i Romani meno ingrati degli Ate niesi verso iloro cittadini più illustri.Ciò accadeva per chènellanaturadeiRomani nonfulaleggerezzadegli Ateniesi e anche per la diversità del governo.In Atene poterono i cittadini con le arti popolari salire presto in potenza e farsi grandi : m a i capi, in questo g o verno popolare, caddero più facilmente in sospetto e con più leggerezza e meno considerazione furono op p r e s s i . L a p l e b e r o m a n a t r o v ò il c o n t r a p p e s o d e l l a n o biltà,poichè nel Senato si trattavano le cose più gravi. La qualità quindi del governo dei Romani,più tempe rato e prudente, fu causa che icittadini ebbero meno degli Ateniesi aperta la via alla tirannide e vi furon m e n o b a t t u t i . M a q u a n d o il G u i c c i a r d i n i v u o l d i m o strare che la costanza e la prudenza sono qualità meno del popolo regolato da leggi e più del principe e degli ottimati regolati dalle leggi,egli diviene aspro e quasi violento contro il popolo : « Perchè dove è   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 23 minor numero,èlavirtùpiùunita,epiùabileapro durre gli effetti suoi ; vi è più ordine nelle cose, più pensieroedesame,ne'negozîpiùrisoluzione;ma dove è moltitudine,quivi è confusione; e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono varî giudizî,varî pensieri, varî fini, non può essere nè discorso ragionevole,nè riso luzione fondata, nè azione ferma. Però non senza cagione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare,lequalisecondoiventichetiranovannoora in qua ora in là, senza alcuna regola, senza alcuna fermezza.'  I principi e con essi i più eminenti statisti della Rinascenza avevano la convinzione essere le istitu zioni un trovato dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere senza badare alla responsabilità delle azioni, nè alla violenza che isovrani avrebbero esercitata so pra i soggetti. Essi non sospettavano che il governo di un popolo dovesse sgorgare direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno nelle tradizioni del paese. Il Guicciardini soltanto in parte era di ciò persuaso ; vagheggiava un governo misto, ma inten deva accordare al popolo la minore ingerenza possibile in esso:pure ilregime desiderato da Firenze,eche era stato la gloria della repubblica,era il democra tico, malgrado gli errori in cui era caduto.Tuttavia a lui, osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle cose e dice che un popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con difficoltà mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia stato libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo caso si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos sedette, ed essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche la difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal caso 1Op.cit.,pag.54,55.   necessita fondare un governo temperato,opprimere i nemici, lasciando sicuri quelli che vogliono vivere bene.E più avanti:un principe che ha inimico il popolo,per la oppressione male esercitata, vi rime dierà levando via le ingiurie e governando giusta mente,ma non vi rimedierà se si trova davanti un popolo che vuole essere libero per aver mano al go verno,perchè in questo caso sono vane le dolcezze.? Al Guicciardini, nel meditare sulle vicende storiche del passato, appariva vana la speranza di ritrovare il buono assoluto nelle forme di governo,perciò ne cer cava il buono relativo che potesse reggersi in mezzo al trambusto degli avvenimenti tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli stranieri.La società trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi bisogni che occorreva seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi estremi col cercare l'armonia dei varî interessi. M a , ripetiamo, egli accordava al popolo una piccola partecipazione al governo,mentre l'aveva avuta grandissima, e quindi urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura delude con le sue leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione di dominarla, non cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione sul capitolo X V I , già da noi ricordata,ilGuicciardini mostra la differenza fra l'in dole sua e quella del Machiavelli, il quale assicurava che in Roma antica non si poteva trovare mezzo più efficace per cementare la libertà che ammazzare ifigli diBruto.IlGuicciardini,rispondendogli,riconosce la necessitàdituffareasuotempolemaninelsangue, tuttavia fa voti perchè « non desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la severità ;perchè se bene è necessario in 1Op.cit.,Considerazione sul cap.XVI.  24 CAPITOLO SECONDO. 1   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 25 simili casi mettere mano nel sangue, sarebbe stato meglio non avere avuto necessità, e che Bruto non avesse figliuoli, che averne per avergli ammazzare.'> Nell'agitare la quistione sulla bontà dei governi, si discute,dal Guicciardini e dal Machiavelli,non solo intorno ai mezzi di ringagliardire la repubblica,ma a n c h e il p r i n c i p a t o . S e u n p r i n c i p e , s e c o n d o il G u i c ciardini, si trova di fronte a un popolo che ami la li bertà,ilsolo rimedio sarà quello « o di farsi dei par tigiani di qualità, che siano potenti a opprimere il p o p o l o , o v v e r o , c o l b a t t e r e e a n n i c h i l i r e il p o p o l o d i sorte che non possa muoversi,introdurre nuovi abi tatori e di qualità che non abbino a avere causa di d e s i d e r a r e l a l i b e r t à .? » C o s ì , s e n z a p a r e r e , e g l i s e m braaccostarsimoltoalleideediMachiavelli,ma tosto cerca di rendere meno cruda e assoluta la sentenza emessa. « Però bisogna che il principe abbia animo a usare questi estraordinarî,quando sia necessario; e nondimeno sia sì prudente che non pretermetta q u a lunque occasione se gli presenti di stabilire le cose sue con la umanità e co'benefizî, non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra modo e rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il Machiavelli è d'opinione che a fondare una re pubblica bisogni essere solo e che per questo fece bene Romolo ad ammazzare ilfratello.A luirisponde ilGuicciardini: «Non è dubbio che uno solo può porre migliore ordine alle cose che non fanno molti, e che uno in una città disordinata merita laude,se, non potendo riordinarla altrimenti,lo fa con la vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. M a è da pregare Dio che le repubbliche non abbino necessità diessereracconcepersimilevia,perchè glianimi  1 O p . c i t ., p a g . 3 4 . 2Op.cit.,pag.35. 3 O p . c i t ., p a g . 4 1 , 4 2 .   26 CAPITOLO SECONDO. degli uomini sono fallaci e può uno sotto questo onesto colore occupare la tirannide.> Inoltre « bi sogna prima bene leggere e considerare la vita di Romolo,ilquale,sebbene mi ricordo,sidubitò non fosse ammazzato dal senato,per arrogarsi troppa au torità.'> E mentre il Machiavelli entusiasmato parla della generosità d'animo del suo principe legislatore, che, compiuta l'opera, senza lasciare lo Stato ai figliuoli, lo affida alle cure vigili del popolo, ecco il Guicciardini interromperlo e osservare che « questi pensieri che i tiranni deponghino le tirannidi,e che i re ordinino bene i regni, privando la loro posterità della successione,si dipingono più facilmente in su'li bri e nelle immaginazioni degli uomini,che non se ne eseguiscono in fatto.”» Ammette,col Machiavelli, la frode, la violenza, l'inganno,per cementare salda mente uno Stato, ma vuole attenuare il fatto, e ne discorre con parole moderate e suggerite dal buon senso. Così pure non condivide gli entusiasmi del M a chiavelli sull'uomo destinato a dare nuova vita a un popolo, sebbene egli creda gli uomini meno cattivi di quelloche sono reputati dal segretario fiorentino. Dimostra il Machiavelli che si viene di bassa a gran fortuna, più con fraude che con la forza ;m a il Guicciardini osserva : « Se lo scrittore chiama fraude ogni astuzia o dissimulazione che si usa anche senza dolo, può essere vera la conclusione sua,che la forza sola,non dico mai,che è vocabolo troppo assoluto, ma rarissime volte conduca gli uomini da bassa a grande fortuna.Ma se chiama fraude quella che è proprio fraude, cioè il mancamento di fede, o altro procedere doloso,credo si trovino molti che hanno senza fraude acquistato regni e imperî grandissimi. Di questi fu Alessandro Magno,di questi Cesare,che di cittadino privato con altre arti che di fraude si 1-2 Op.cit.,pag.22,23,26.    CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. Presuppone il Machiavelli che tutti gli uomini sono cattivi ed essere necessario all'ordinatore di una re pubblica infrenarli con le leggi,perchè non operano mai ilbene se non per necessità.IlGuicciardini è con trario a questa sentenza eccessiva, e crede la maggior parte degli uomini inchinevoli più al bene che al male : e se alcuno ha altra inclinazione, è così diffe rente dagli altri e spoglio dell'istinto che ci porge lanatura,da doversipiùprestochiamaremostroche uomo.È adunqueogniuomoinclinatoalbene,ma, essendo la natura sua fragile, può essere deviata dal retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal l'avarizia:leleggisidevonofareinmanierada impe dirgli di fare il male di cui sente l'impulso, e nel tempo stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene il Machiavelli essere sempre la frode un mezzo di in grandimento : il Guicciardini talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata da parte,non in nome della morale, m a di un ben inteso interesse. Il Machiavelli sostiene che nel mondo fu tanto di buono in un'età quanto in un'altra,benchè varino i  condusse a tanta grandezza,scoprendo sempre l'am bizione sua e lo appetito di dominare . . . . M a ,quanto alla fraude, può essere disputabile se sia sempre buono istrumento di pervenire alla grandezza ;perchè spesso coll'inganno si fanno di molti belli tratti,spesso anche l'avere nome di fraudolento toglie l'occasione di con seguire gl'intenti suoi.'> Tutti e due eran d'accordo che l'inganno è necessario per riuscire ad un buon fine, però il Guicciardini non accetta in modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe renza della sua indole, molto più pratica,se si para gona a quella del Machiavelli ; più sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode conduce o non conduce alla meta agognata. 1 O p . c i t ., p a g . 6 6 , 6 7 . ? O p . c i t ., C o n s i d e r a z i o n i a l p r o e m i o d e l l i b . I I , p a g . 6 0 , 6 1 .   luoghi, la qual cosa equivale a dire che sempre nella u m a n a f a m i g l i a il b e n e e il m a l e si e q u i l i b r a n o . A l l ' i n contro il Guicciardini, con mirabile penetrazione, e v o cando dinanzi a sè le età passate,risponde di no :e a n che riconoscendo che l'antica non è superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che la somma del bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli esempî : « Chi non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de'Greci e poi de'Romani la pittura e l a s c u l t u r a , e q u a n t o d i p o i r e s t a s s i n o o s c u r e in t u t t o il m o n d o ; e c o m e d o p o e s s e r e s t a t e s e p o l t e p e r m o l t i secoli siano da centocinquanta o dugento anni in qua ritornate in luce ? Chi non sa quanto a'tempi antichi fiorì non solo appresso a'Romani,ma in molte pro vincie la disciplina militare, della quale i tempi n o stri e quelli de'nostri padri e avoli non hanno veduto in qualunque parte del mondo se non piccoli e oscuri vestigî ? Il medesimo si può dire delle lettere, della religione, che senza dubbio in alcune età sono state sepolte per tutto, in altre sono state in molti luoghi eccellenti e in sommo prezzo. Ha visto qualche età ilmondo pieno di guerre,un'altra ha sentito e go duto la pace ; dalle quali variazioni delle arti, della religione,dei movimeti delle cose umane,non èm a raviglia siano anche variati i costumi degli uomini, i quali spesso pigliano il moto suo dalla istituzione, dalle occasioni,dalla necessità.?» Pel Guicciardini è indispensabile ai popoli la reli gione, in ispecie quando viene usata come elemento di forza nello Stato, e ad esso sottomessa : tuttavia non condivide col Machiavelli l'opinione che iRomani abbiano dovuto alla religione una sì gran parte della loro potenza, e dimostra avere le armi maggiormente contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla terra. Alla questione sulla religione dei Romani si collega  28 CAPITOLO SECONDO. 2 1 Op.cit.,Considerazioni al proemio del lib.II,pag.60,61. Op.cit.,pag.26,30. e e 2   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 29 quella particolare circa l'influenza del papato suide- '. stinid'Italia,in cuiidue eminentipensatorihanno punti di contatto e altri che li dividono. Afferma il Machiavelli avere la Chiesa cattolica di Roma tenuta l'Italia divisa, ed essere stata causa che non potesse venire sotto un capo e rimanesse sotto a più principi e signori, dai quali le venne tanta disunione e debo lezza da cadere preda dei barbari potenti e di chiun quel'assaltasse.IlGuicciardinirisponde:«Non si può dire tanto male della corte romana,che non m e riti se ne dica più,perchè è un'infamia,un esemplo di tutti i vituperî e obbrobrî del mondo.» È con vinto essere stata causa la grandezza della Chiesa che l'Italia non sia caduta in una monarchia. Pure è dubbioso se il non essersi organata nella monarchia sia stata felicitào infelicità di questa nostra terra, poichè la divisione sua in tanti dominî, malgrado le sofferte calamità, produsse le sue glorie comunali. Osservazione profonda e vera,poichè se l'Italia fosse caduta sotto il dominio di uno solo, le varie regioni, in cui si divise,non avrebbero prodotto l'energia in dividuale dei comuni, che creò tanti tesori in molte parti dello scibile e della attività umana, nei com merci e nelle industrie,preparando gli splendori della Rinascenza,che furono fiaccola alla civiltà del mondo . Il Guicciardini rimaneva ad osservare la realtà delle cose che aveva d'attorno e non voleva seguire ilM a chiavelli,che lanciava il suo guardo di aquila oltre i c o n f i n i d ' I t a l i a , a o s s e r v a r e il f o r m a r s i d e l l e n a z i o n i u n i t a r i e , g i o v a n i e f o r t i, a v e n t i u n v i v o s e n t i m e n t o p a trio. Secondo il segretario fiorentino,l'Italia,divisa e debole,non poteva difendersidalle loro cupidigie d'in g r a n d i m e n t o , e g i à c a d e v a s o t t o i l o r o c o l p i b r u t a l i, mentre nei secoli passati, senza la piaga del papato, essa pure avrebbe potuto divenire di mano in mano una nazione unita e forte sotto i suoi legislatori, ed ora non si sarebbe trovata immersa in tante infelicità.    Nella quistione sulla lotta fra la plebe e la nobiltà, che agitò Roma e Firenze,non vanno d'accordo. Il Machiavelli osserva che le divisioni di Firenze furono esiziali alla città, perchè la vittoria del popolo porto larovinadeigrandi:quellediRoma inveceriesci rono di grandezza allo Stato,perchè ilpopolo,rima sto a combattere sulla via della legalità,si accontentò di rivendicare isuoi giustidiritti;e,conseguitili,di vise coll'aristocrazia il governo. A queste giuste e originali osservazioni risponde ilGuicciardini,e com batte la maniera assoluta con cui sono dette : « Se da principio o non fosse stata questa distinzione tra patrizî e plebei, o se almanco si fosse data la metà degli onori alla plebe come si fece poi, non nasce vano quelle divisioni,le quali non possono essere lau dabili,nè si può negare non fossero dannose,sebbene in qualche altra repubblica manco virtuosa avrebbero fatto più nocumento. Laudare le disunioni è come laudare in uno infermo la infermità,per la bontà del rimedio che gli è stato applicato.?» E ponendo mente all'ambizione di uominicospicui, che approfittarono delle lotte fra popolo e nobiltà per impadronirsi del governo,ilGuicciardini dice come Appio Claudio fu rovesciato dal potere non per essersi unito ai grandi a combattere ilpopolo,mentre doveva fare altrimenti, m a perchè tentò di rovesciare la repubblica, la quale era allora governata da ottime leggi,piena di santis simi costumi e ardentissima nel desiderio della li bertà.Manlio Capitolino,sebbene procedesse contro ilSenatoconartemeramentepopolare,purefuop presso dal popolo medesimo, appena capì che cercava di spegnere la libertà. Silla occupò la tirannide a Roma elastabiliconl'aiutodellanobiltà;ilDuca d’Atene si fece tiranno a Firenze col favore dei grandi, che non seppe mantenersi fedeli per la sua impru O p . c i t ., p a g . 1 2 , 1 3 .  30 CAPITOLO SECONDO. 1   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 31 denza e leggerezza. Cesare si fece signore di Roma col favore della plebe.Così nell'una parte e nell'al tra si trovano molti esempi e ciascuna parte ha le sue buone ragioni. « I partiti non si possono pigliare con una regola generale, ma la conclusione s'ha a cavare dagli umori della città, dall'essere delle cose che varia secondo le condizioni dei tempi e altre oc correnze che girano.'> Secondo il Guicciardini chi ha seco la nobiltà ha un fondamento più gagliardo di riuscita : chi ha il popolo dalla sua parte ha più s e g u a c i , m a l a p o t e n z a s u a è m e n o s i c u r a , p e r il m u tarsi degli umori della moltitudine. Il principio annunziato dal Machiavelli che sono lodevoli i fondatori di una repubblica o di un regno quanto vituperevoli quelli di una tirannide, è dal Guicciardini trovato giusto. Però,egli dice con rettitu dine,non bisognaconfonderegliesempî,perchè qual che volta può darsi che le forme della libertà sieno così disordinate e le città ripiene tanto di discordie civili,da condurre qualche cittadino,non potendo sal varsi altrimenti,a cercare la tirannide o ad aderire a chi la cerca.Mentre è detestabile in Cesare,pieno dialtavirtù,ma oppressodall'ambizionedeldomi nare : accade pure al governo della plebe di diventare tirannico e allora,dai perseguitati,si desidera la m u tazione dello Stato. Il Guicciardini,quando siferma a meditare sulla storia di Roma antica, vi guarda dentro con l'occhio del politico,non con quello dello storico.Non si cura di ricercare se i re sono esistiti veramente ovvero se simboleggiano le varie età che si succedettero presso la gente romana così famosa : questi dubbî,già balenati alla mente degli umanisti delsecoloXV,nonlatoccanonemmeno.Egliguarda soltanto ai caratteri della politica romana,e,contro il parere del Machiavelli, afferma che, eccettuata la  2 1 O p . c i t ., p a g . 5 2 . O p . c i t ., p a g . 2 3 , 2 4 .   disciplina militare, Roma ebbe un governo in molte partidifettoso,come,peresempio,lafacoltà accor data ad un uomo di fermare le azionipubbliche e le deliberazioni della città,come feceroiconsoli,anche togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei consoli fu il diritto di privare dell'autorità senatoria uomini onorandicomeMamercoEmilio.'Eglièpuredelpa rere del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî fu occasione grande a chi volle occupare la repub blica, perchè era istrumento a farsi amici i soldati eseguitocoire.Mailfondamentodeimalifulacor ruzione della città,la quale,datasi all'avarizia,alle delizie,era in modo degenerata dagli antichi costumi che ne nacquero le divisioni sanguinose della città, dalle quali sempre ne'popoli si viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu corrotta,la prolungazione degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei tempi difficili usò molte volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che « se non fussino state le pro lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli altri che occuparono la repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per altra via,essendo la città c o r r o t t a .? »  32 CAPITOLO SECONDO. Non ostante la loro somiglianza,idue grandi po litici fiorentini avevano tendenze intellettuali diffe renti, e spesso si trovavano in disaccordo.Nelle m a s sime che risguardano laguerra,ilMachiavelli sostiene che si deve fare col ferro e non coll'oro :ibuoni sol dati soltanto sono il nervo della guerra e non l'oro : occorronocertoidanari,ma insecondoluogo,essendo impossibile che abbino a mancare ai buoni soldati. Il Guicciardini, che si attiene alla vita reale del se coloXVI,incuinonc'eranoarmiproprie,sesiec c e t t u a il t e n t a t i v o f a t t o i n F i r e n z e s o t t o il g o n f a l o n i e r e Pier Soderini, per impulso generoso del Machiavelli ; 1 O p . c i t ., p a g . 5 4 . 2 O p . c i t ., p a g . 7 8 , 7 9 .   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 33 ilGuicciardini,ilquale era stato governatore di pro vincie, commissario generale negli eserciti e cono sceva la venalità dei capitani e delle milizie, che per il danaro calpestavano la fede giurata e rinne gavano sin anche la patria,non poteva essere dello stesso avviso,sapendo per esperienza che occorreva danaro per avere illustri capitani, milizie e buone fortezze. Del resto, se egli sostiene che il danaro è il nervo della guerra, non intende che i danari soli bastino a fare la guerra, nè siano più necessarî dei soldati, perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi cola. All'incontro intese « che chi faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo di danari e che senza quelli era impossibile a sostenerla, perchè non solo sononecessarîperpagareisoldati,ma per provve derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni e tanti istrumenti che si adoperano nella guerra ;iquali ne ricercano tanto profluvio,che a chi non l'ha pro vato è impossibile a immaginarlo. E sebbene qualche volta un esercito scarso a danari con la virtù sua e col favore delle vittorie li provvede,nondimeno ai tempi nostri massime sono esempli rarissimi :e in ogni casoeinognitempononcorronoidanaridietroagli eserciti, se non da poi che hanno vinto.'» A questo disaccordo si aggiunse l'altro intorno alle fortezze e alle armi da fuoco,che ilMachiavelli, per stare troppo attaccato all'esempio dei Romani, non tiene in nessun conto,dicendo le fortezze più dan nose che utili. Il Guicciardini lo riprende con ragione e dice : « Non si deve lodare tanto l'antichità che l'uomobiasimituttigliordinimodernichenon erano in uso appresso a'Romani, perchè la esperienza ha scoperte molte cose che non furon considerate dagli antichi,e,peressereinoltreifondamenti diversi,con vengono o sono necessarie a una delle cose che non Op.cit.,pag.61,62.  1 3 ZANONI.   convenivano,o non erano necessarie all'altre.Però se iRomaninellecittàsudditenonusaronoedificarefor tezze,non è per questo che erri chi oggidi ve le edifica : perchè accadono molti casi,per i quali è molto utile avere fortezze. E quella ragione che si adduce nel Discorso, che le fortezze danno animo a'principi a essere insolenti e fare mali portamenti, è molto fri vola,perchè se s’avesse a considerare questo,avrebbe un principe a stare senza guardia, senza esercito, senza armi. Dipoi le cose che in sè sono utili,non si debbon fuggire, sebbene la sicurtà che tu trai da loro tipossa dare animo a essere cattivo:verbigra zia,sideve biasimarelamedicina,perchègliuomini, sotto fidanza di quella, si posson guardare manco da 'disordini e dalle cagioni che fanno infermare ? ' Certo si deve deplorare che queste fortezze il Guic ciardinilestimasseutilisoltantoaiprincipiper guar darsi dai popoli,desiderosi di cose nuove,e tenerli obbedienti col terrore. Però, come è maraviglioso questo duello tra due ingegni grandissimi che s'incontrano sul campo del l'antica sapienza governativa:sono due gigantiuguali di forze, muniti delle stesse armi,che si contendono una gloriosa vittoria nel più difficile conflitto.IlGuic ciardini, come uomo di Stato, supera d'assai il M a chiavelli,e bastano a dimostrarlole osservazioni che di mano in mano contrappone ai Discorsi del celebre segretario sulla prima Deca di Tito Livio,nelle quali, colla fredda acutezza della sua mente calma,colpisce sempre il lato debole dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile,i ragionamenti poetici ed entusiastici,mettendone a nudo ora la fallacia, ora la indeterminata incertezza. Nella storia dei pen satori italiani non si trova una figura che possa reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia Op.cit.,pag.70,71.  34 CAPITOLO SECONDO . 1 >>   CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 35 mancato al Guicciardini per continuare il suo esame intorno ai discorsi del Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio,perchè ci avrebbe rivelato maggior mente la potenza della vigorosa argomentazione del suo genio pratico di fronte a quello idealista del se gretario fiorentino.Francesco Guicciardini. Guicciardini. Keywords: implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guicciardini: l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Guzzi – la lingua inaudita, la lingua inaudibile, la lingua audita -- (Roma). Filosofo. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue – with a foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al Liceo classico statale Giulio Cesare. Direttore dei seminari del Centro studi Eugenio Montale. La poetica di Guzzi, fin dall'inizio, si è concepita come un'esperienza spirituale, una ricerca di stati più dilatati della coscienza, sulla scia della linea che da Hölderlin, e attraverso Rimbaud, arriva fino al nostro migliore ermetismo. La ricerca teoretica di Guzzi ha affrontato, in particolare nel saggio filosofico La svolta, significativamente sottotitolato "La fine della storia e la via del ritorno", il tema del cambiamento epocale che a suo avviso l'uomo è chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e fuori di sé. Opere: Raccolte di poesia Anima in vetrina,  Il Giorno, Scheiwiller, Teatro Cattolico, Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza, Jaca,  Preparativi alla vita terrena, Passigli, Nella mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline,  Saggi di filosofia e di religione La Svolta, Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio, Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità, Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine all'inizio, Paoline,  Dodici parole per ricominciare, Ancora  Il cuore a nudo, Paoline,  Buone Notizie, Ed. Messaggero  Imparare ad amare, Paoline  L'Insurrezione dell'umanità nascente, Edizioni Paoline,  Fede e Rivoluzione, Paoline  Il profilo dell'Uomo di Dio, Paoline  Alla ricerca del continente della gioia, Paoline  “Dizionario della lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with ‘lingua inaudita’ – literally ‘unheard of’ – but ultra-literally turns his dictionary into a magical oxymoron! Marco Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Guzzo – pagine di filosofi per i giovani italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Napoli). Filosofo.  Grice: “I admire Guzzo; he founded ‘Filosofia,’ a philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected ‘pagine di filosofi per i giovani italiani.’ He wrote interesting essays on “Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a very systematic philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes sphynx – that says it all!” Si laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e Pisa. Fonda "Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo di Gentile. È considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo. Saggi: “Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”; “Idealisti ed empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo” (Brescia, Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”; “Religione; “Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario Biografico degli Italiani, Treccan.  AUQUSTO GUZZO   L’ISAGOGE DI PORFIRIO  E I COMMENTI DI BOEZIO EDIZION   B . i   697 I  . 173 '   aa    TORINO   I DE “L’ERMA,- X I I    T^37  AUGUSTO GUZZO    L’ISAGOGE DI PORFIRIO  E I COMMENTI DI BOEZIO     TORINO   EDIZIONI DE “L’ERMA, X I I  &   ,173   Ù‘ì ESTRATTO DAGLI Annali delV Istituto Superiore di Magistero del Piemonte. Voi. VII  XII TORINO -XII   TIPOGRAFIA DPIGLI ARTIGIANELLI (G. RoSSIj  VIA JUVARA, 14    445'/^59   L’Isagoge di Porfirio  e i Commenti di Boezio    SOMMARIO   1. Il Commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele. — 2-5. Questioni su le Categorie. — 6. L’Isagoge. Il prologo. — 7-9. Il  primo commento di Boezio al prologo dell’Isagoge. — 10-12.  Il secondo commento di Boezio. — 13. Le cinque voci. — 14. Il  genere. 15. La specie. 16. La differenza. — 17. La qualità.   — 18. L’accidente. — 19. Quel che hanno di comune le cinque  voci. — 20. Comparazione del genere con le alti e quattro voci.   — 21. Comparazione della differenza con le altre quattro voci.   — 22. Comparazione della specie con le altre quattro voci. —  23. Comparazione della proprietà con le altre quattro voci.   — 24. Comparazione dell’accidente con le altre quattro voci. —  25. Il primo commento di Boezio alla dottrina delle cinque voci.   — 26. Il dialogo premesso al primo commento di Boezio. — 27.  Divisione della filosofia. — 28-33. Il secondo commento di Boezio.   — 34. Conclusione. (*)    (*) Queste esposizioni di antichi testi molto famosi ma poco letti co-  stituirono l’argomento del corso di Pedagogia da me professato nell’Istituto  Superiore di Magistero del Piemonte nell’anno accademico 1927-28. Volevo  dare una conoscenza possibilmente precisa di quel che era l’istruzione c  la cultura nell’alto medioevo : ed esposi i testi che in quei secoli erano più  meditati lumeggiando, di scorcio, anche lo sfondo d’idee su cui sorse più  tardi, sui primi periodi déìVIsagoge, la disputa degli universali. Testi di     1. — Porfirio, che è autore della celebre « Isagoge, o In-  troduzione alle Categorie di Aristotele » , è anche autore di un  meno noto Commentario alle medesime Categorie. Sarà utile  studiare almeno la prima parte, cioè la parte introduttiva di  tale Commentario: forse si troverà in essa la spiegazione del  punto di vista dal quale si pone Porfirio nella « Isagoge » .   Questo Commentario ci è pervenuto mancante delPultima  parte - quella riguardante le ultime quattro categorie e i  post-predicamenti - e assai scorretto e guasto anche nella parte  precedente. Lo si trova in un codice modenese miniato del  secolo XIII, in un codice della Marciana del secolo XV, in uno  delPEscuriale del secolo XVI, in uno parigino dello stesso  secolo XVI, in uno della Laurenziana del secolo XV. E' però  dimostrato che di tutti questi codici il primo, da cui tutti gli  altri dipendono direttamente, è quello modenese.   Di sul codice parigino il commento fu stampato a Parigi nel  1543 « apud Jacobum Bogardum ». Su questa edizione, che è  Pedizione principe, del Commentario, fu condotta la versione  latina di Feliciano, stampata in Venezia « apud Hieronymum  Scotum ». L’ « edizione critica » è del 1887, e si deve alle cure    logica che, ad esporli, si può tutt’al più riescire chiari; ma avviciuarli  alla comune cultura può forse essere utile. Anche questo corso, che era  rimasto inedito, va messo tra i lavori da me preparati per l’Istituto Supe-  riore di Magistero del Piemonte. Mi sia permesso enumerarli : Apologia  dell’idealismo (Discorso inaugurale dell’anno accademico 1924 25), Torino,  Paravia, 1925; Introduzione e Commento al i^edone di Platone, Commento  alla Repubblica di Platone, Agostino: dai Contra Academicos al De Vera  Religione^ Firenze, Vallecchi, 1925; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro-  duzione, Commento e Appendici, Firenze, Vallecchi, 1926; Tommaso  d’Aquino, Il maestro, Traduzione, Introduzione e Commento, Firenze,  Vallecchi, 1927; Giudizio e azione, Venezia, «La Nuova Italia», 1928;  Agostino e il sistema della grazia, Torino, «L’Erma», 1930 (1934®); Il  concetto di individuazione e il problema morale (Discorso inaugurale del-  l’anno 1930-31), Torino, « L’Erma », 1931; La « Summa contra Gentiles »,  Torino, « L’Erma », 1931 ; I Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma », 1932.   di Adolfo Busse, nell’edizione dei commenti greci ad Aristotele,  promossa dall’Accademia Prussiana (Voi. I, pars. I « Porphyrii  Isagoge et in Aristotelis Categorias commenta rium edidit Adolfus  Busse. — Berolini, Typis et impensis Georgii Reimer —  MDCCCLXXXVII »).   Il Commento procede per yììx di domanda e risposta. E’, in  londo, un dialogo, ma in cui le persone degli interlocutori non  hanno alcun rilievo ; la « domanda » parte da uno che non sa  e chiede spiegazioni : la c Risposta » enuncia, evidentemente, la  soluzione che Porfirio crede si possa e si debba dare alle varie  questioni. Le quali se, da un certo momento in poi, riguardano  il più giusto significato da attribuire alla lettera del testo aristo-  telico, prima vertono su problemi che investono rimpianto stesso  del piccolo scritto aristotelico.   2. -- Prima questione. — « Categoria » in greco vuol dire   € accusa », « denunzia ». Come mai Aristotele chiamò Categorie  l'essenza, la quantità, la qualità, ecc.? La risposa è che il filo-  sofo, costretto talvolta a coniar parole nuove, tal’altra a dare  un significato nuovo a parole consuete, adoprò la parola « Cate-  goria » per indicare le « espressioni enunciative delle cose »  (tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv TUpaYixatcov xat-   YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice espi*essione enunciativa,  quando sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si dice  categoria. Per esempio: se la cosa che vien mostrata è questa  pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo:  «questa è pietra», l'espressione «pietra» è il categorèma,  giacché indica la cosa e vien detta di essa.   3. — Seconda questione. — Aristotele chiamò il suo scritto  « Categoi'ie » o, come altri, « Le dieci Categorie » ?   Porfirio risponde respingendo tanto questo titolo dello scritto  quanto gli altri : « Prima della Topica », « dei generi dell'essere »   « dei dieci generi > . Non « Prima della Topica » perché in tal  caso sarebbe stato più esatto dire «Prima degli Analitici»,  anzi « Prima deU’interpretazione » : chè il libro delle Categorie  è il più elementare e introduttivo a tutte le parti della filosofìa,  E piuttosto sarebbe < Prima della parte fisica della filosofia » .  anziché « Prima della Topica » : chè è opera della natura « l’es-  senza, il quale e simili » .   Nè lo scritto potrebbe in nessun caso intitolarsi « Dei generi  dell’essere » o « dei dieci generi » « perchè gli esseri e i loro  generi e le specie e le differenze sono cose e non voci » : e  invece Aristotele, enumerando le dieci categorie, l’essenza, il  quale, il quanto e le rimanenti, dice: «ciascuna delle dette si  dice per sé stessa, non per attribuzione, mentre l’attribuzione,  0 affermazione, avviene mediante connessione di esse tra loro ».  Or se è la connessione delle categorie quella che dà luogo alle  asserzioni, e se le asserzioni consistono in voci indicative e  discorsi dimostrativi (èv oyjaavrix-^ xai àTio^avTixij)), lo   scritto aristotelico non può riguardare i generi dell’essere, nè  in generale le cose: chè non la connessione delle cose costi-  tuisce asserzione, bensì la connessione delle voci significative  che indicano le cose.   E Aristotele stesso dice: « ciascuna delle categorie dette  senza alcuna connessione significa o l’essenza o il quanto », con  quel che segue. Ora, se Aristotele parlasse di cose, non direbbe  « significa l’essenza », chè le cose non significano, bensì sono  significate. _   Ciò che significa è la voce, la parola: di voci, di parole  dunque, tratta Aristotele nelle Categorie.   Perchè, poi, debba essere questo il titolo dello scritto, sarà  chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il contenuto  proprio del libro.   4. — Terza questione. — Quale è dunque il contenuto  proprio delle Categorie?   Porfirio risponde rifacendosi di lontano.     • L’uomo - egli scrive - giunto a indicare e significare le cose  circostanti, pervenne a nominarle con la voce e a indicare con  questo mezzo ciascuna di esse. Il primo uso che egli fece delle  parole fu rivolto a mostrare ciascuna cosa per mezzo di voci  e di parole; col quale riferimento delle voci alle cose questo  chiamò sedile, quello uomo, quell’altro cane e quell’altro sole:  e ancora questo colore chiamò bianco, quello nero; e questo  chiamò numero, quello grandezza ; questo due cubiti, quello tre  cubiti; e cosi per ciascuna cosa stabili parole e nomi signifi-  cativi di esse e indicativi mediante determinati suoni della voce.   Stabilite dunque per le cose, come contrassegno, talune  parole, Tuomo, passando ad una seconda impresa e riflettendo  sulle parole stabilite, quelle che si uniscono agli articoli chiamò  nomi, e quelle come « io passeggio, tu passeggi » chiamò verbi.  Di modo che, se nella prima imposizione » di nomi questo chiamò  oro e quello sole, nella seconda la voce < oro » chiamò nome  e la voce < passeggio » verbo.   Ora il contenuto delle Categorìe d’Aristotele è precisamente  il primo stabilimento delle parole, quello che mostra le cose:  giacché studia le voci significative semplici, in quanto signifi-  cative delle cose, distinguendole non l’una dall’altra individual-  mente, chè, di numero, le voci sono infinite come le cose che  significano, ma distinguendole secondo il genere a cui appar-  tengono. Ora l’infinità degli enti e delle parole che li significano  si lasciano ridurre a dieci generi: giacché dieci sono le diffe-  renze di genere degli enti, e dieci anche le voci che le indicano.  Ma questo fatto che le voci, simili a messaggere, prendano le  differenze dalle cose che annunziano, non toglie che la ricerca  principale sia, nelle Categorie^ intorno alle voci significative,  e non intorno alle differenze di genere degli enti.   Dieci sono i generi delle parole in quanto significative di  cose: ché significano o l’essere (la sostanza), ó la quantità, la  qualità, la relazione, ecc. (i nove accidenti della sostanza). Due,  invece, sono le parole che significano il tipo a cui appartengono ;   giacché tutte le voci sono di due tipi: o nomi o verbi. Alla  quale seconda ricerca - grammaticale, non logica, diremmo  noi > appartiene anche distinguere la espressione propria dalla  metaforica e dagli altri tropi.   Presentata cosi la ricerca delle Categorie come una ricerca  nè metafìsica, nè grammaticale, nè retorica - non metafìsica  perchè secondo Porfirio, è incidentale il riferimento ai generi  delPessere, essendo Pattenzione rivolta ai generi delle parole  significative, in quanto appunto significano questo o quello; non  grammaticale, perchè nelle « Categorie » non si distinguono  tra loro le varie parti del discorso, che è distinzione tardiva  rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò che signifi-  cano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. - Porfirio  osserva che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca  delle Categorie come una ricerca, noi diremmo, di filosofia del  linguaggio, e gli antichi dicevano di logica, comunemente iden-  tificando col pensiero la sua significazione verbale, si schieravano  tanto quelli che ritenevano oggetto principale delle Categorie  la ricerca metafisica intorno ai generi dell’essere, quanto quelli  che. credendo oggetto delle Categorie la ricerca retorica delle  espressioni proprie e delle figurate, ritenevano la distinzione  aristotelica delle Categorie o insufficiente o incomprensiva o,  al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per esempio, i  seguaci di Atenodoro e di Cornuto, studiando le espressioni  proprie ed improprie, e volendo sapere a quali categorie esse  appartenessero, non trovando nello scritto aristotelico risposta  a tale domanda, ritennero manchevole e difettosa Penumerazione  aristotelica, come non comprensiva di tutte le voci significative.  Invece, secondo Porfirio, rettamente intesero lo scritto d’Ari-  stotele Poeto nel suo commento alle Categorie, e più brevemente  Erminio. Il quale dice che la ricerca non verte nè su quelli che  in natura sono i primi e generalissimi generi (che non sarebbe  insegnamento adatto ai giovani), nè studia quali siano le prime  ed elementari differenze delle parole, come se la trattazione riguardasse le parti del discorso; ma piuttosto verte sulla spe-  cie di parole che risulti appropriata a ciascun genere di enti:  onde fu necessario toccare in qualche modo dei generi, a cui  le parole si riferiscono : chè non si intenderebbe la significazione  propria di ciascun genere se qualcosa intorno ad esso non s’an-  ticipasse.   Poiché dieci sono i generi, dieci sono le categorie. E si  potrebbe magari anche intitolare lo scritto aristotelico Dei  dieci generi » se con ciò si significasse solo un riferimento ai  dieci generi, giacché non di essi si occupa principalmente il libro.   5. — Quarta Questione. — Perchè il libro verte su le « Cate-  gorie > e s’inizia con una trattazione su gli omonimi e i  sinonimi?   Perchè queste sono distinzioni delle quali Aristotele deve  fare uso in tutto l’Organo: perciò le premette ad ogni altra  considerazione.   Tralasciamo, ora, il seguito del Commento Porfiriano; ma  ci gioverà aver visto come Porfirio intendesse quelle Categorie  alle quali s’assunse lo storico compito di « introdurre » .   6. — La celebre « Isagoge » di Porfirio tratta del genere,  della differenza (che, entro ciascun genere, distingue l’una  dall’altra le specie), della specie, della proprietà (che caratte-  rizza ciascun genere e ciascuna specie) e dell’accidente (che,  senza essere intrinsecamente « proprio » d’una sostanza, le si  attaglia in talune circostanze).   La trattazione del genere è, però, preceduta da una famosa  introduzione, nella quale Porfirio si rivolge a Crisaorio, patrizio  romano suo discepolo, dicendo:   « Poiché, 0 Crisaorio, è necessario anche per la dottrina  « aristotelica delle Categorie, sapere che sia genere e che diffe-  « renza, e che sia specie e che proprietà e che accidente;  « siccome e per assegnar le definizioni e in generale per quel  « che riguarda la divisione e la- dimostrazione è utile l’indagine  « di tali cose: io, facendo per te una compendiosa trattazione,   < tenterò brevemente, come a mo’ di introduzione, di spiegare  « il pensiero degli antichi, astenendomi dalle ricerche, più  € profonde e investigando, invece, opportunamente le più  « semplici » .   Le ricerche più profonde, da cui Porfirio professa di astenersi,  riguardano la realtà dei generi e delle specie, in una parola  degli universali. Difatti Porfirio continua:   « Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o invece  c stiano solo nel pensiero e, dato che esistano, se siano corpi  « 0 incorporei, e se separati o esistenti nei sensibili e non  « fuori di essi, io eviterò di dire, profondissima essendo questa  « questione e richiedendo essa altra maggiore ricerca » .   Onde Porfirio conclude dicendo che si limiterà a cercare  d’esporre a Crisaorio ciò che gli antichi meditarono intorno a  questi argomenti, e tra essi specialmente i Peripatetici.   Porfirio, dunque, tratterà dei generi e delle specie senza  determinare se siano idee, cioè enti metafisici, o semplici  concetti, esistenti solo nella mente che li pensa. Ma, per conto  suo, per quale di queste dottrine propende?   Grià si è visto che egli considera generi, specie e differenze  « cose, non voci » e che, in generale, ritiene che le distinzioni  logiche trovino la loro ragion d’esseie in altrettante distinzioni  metafisiche di cui si fanno espressione. Per Porfirio dunque,  generi e specie riguardano l’essere, e se egli prelude alla Logica  aristotelica trattando di essi, in fondo egli ridà alla Logica  d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica, tutta diretta  a distinguere generi e specie e valida, nel pensiero di Platone,  tanto oggettivamente, come metafisica, quanto soggettivamente,  come logica.   Questo punto di vista realistico da cui è scritta l’intera   < Isagoge » non sfugge, nonostante tutto, al commentatore  Boezio, il quale torna sulla importante questione cosi nel primo  come nel secondo dei suoi commenti all’Isagoge.  È noto che i due commenti son diversi tra loro in quanto  il primo si dirige ai principianti e quindi evita le discussioni  troppo complicate e sottili, il secondo, invece, vuol indurre i  discepoli già provetti a una ginnastica mentale adatta alle loro  ‘forze e alla loro preparazione. Non è meraviglia, quindi, che  la « questione degli universali » — giacché ormai di essa si tratta  — sia impostata diversamente nei due commenti, sebbene la  trattazione giunga a risultati assai affini.   7. — Il primo commento di Boezio giunge a interpretare  il prologo deirisagoge solo al decimo capitolo, e mostra chiaro  lo sforzo di ricorrere alle argomentazioni e dimostrazioni più  semplici, affinchè i principianti possano intenderle ed afferrarle.   In verità Porfirio pone e rinvia tre questioni:   1) - se generi e specie esìstano davvero o stiano solo  neirintelletto e nella mente;   2) - se siano corporei o incorporei;   3) - se siano separati o uniti con i sensibili.   Rispetto alla prima questione « se generi e specie esistano  davvero, o stiano solo nell’intelletto e nella mente », Boezio  sembra interpretarla in un modo che forse non coincide inte-  ramente con ciò che intendeva Porfirio. Questi, forse, intendeva  domandarsi: generi e specie sono idee platoniche, cioè enti, o  invece concetti aristotelici, cioè universali puramente mentali  nati nel pensiero e dal pensiero? Se sono idee platoniche, si  intende che sono, non solo incorporee, ma separate. Se invece  sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella mente, a  forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili.  La questione, dunque, è : gli universali vanno concepiti plato-  nicamente, ante rem, o aristotelicamente, post rem, giacché in  re essi esistono, ma intimi alle stesse cose particolari ?   Se questo è ciò che intende domandarsi Porfirio, si capisce  come egli preferisca rimandare questa controversia prò Platone  0 prò Aristotele a un momento in cui il suo discepolo Crisaorio  sia già innanzi negli studi filosofici. Ma Boezio intende la que-  stione in maniera assai diversa. Egli non intende i generi e  le specie se non come universali mentali post rem, come con-  cetti aristotelici. La conoscenza si inizia con la sensazione:   per sensuum qualitatem res sensibus subiectas (animus) intel-  legit Dalla sensazione lo spirito parte per concepire le specie  ed i generi: et ex bis (le cose sensibili) quadam speculatione  concepta, viam sibi ad incorporalia intellegendapraemunit,,. Così,  quando vede i singoli individui umani, sa d’aver visto uomini,  sa che sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito sale  a discernere la stessa specie « uomo », incorporea perchè non si  concepisce che con la mente e rintelligenza. Ma, come movendo  dalla sensazione lo spirito giunge a comprendere le cose incor-  poree, così, movendo dalle stesse sensazioni, lo spirito arriva  a immaginarsi, per esempio, i Centauri, la cui fallace imma-  gine si compone di elementi della forma umana ed elementi  della forma equina. Or si domanda: generi e specie sono con-  cepiti con verità, sicché comprendiamo la specie uomo giusta-  mente ricavandola dai singoli uomini coi'porei, o invece sono  immaginati con finzione mentale pari a quella di cui parla  Orazio nell’Arte Poetica, quando dice: « fiumano capiti cer-  vicem pictor equinam iungere si velit » ?   Come si vede, Boezio non crede che la domanda di Porfirio  sia rivolta a sapere se gli universali siano reali o puramente  mentali, ma se siano concetti veri o pure finzioni delPimma-  ginazione. Il che significa porsi già su terreno prettamente  aristotelico, giacché tutto si riduce a domandare se gli uni-  versali post rem siano rettamente pensati o fallacemente imma-  ginati, o, con altre espressioni, se siano concetti o puri sogni  e chimere.   La risposta che Boezio dà a questa domanda è, se non er-  riamo, singolarmente infelice. Per lui non è dubbio che i generi  e le specie « sono veramente»: «difatti, come tutte le cose che  veramente sono senza queste cinque: non possono essere, così non si può dubitare che anche queste cinque son concepite  con verità (vere intellectas) » . Che è una strana maniera di  presupporre gli universali reali nelle cose sensibili, quando  proprio la domanda è se gli universali siano reali o fallaci-  Per Boezio generi, specie, differenze, proprietà, accidenti, queste  cinque distinzioni nelle cose sono « conglutinatae et quodam-  modo coniunctae atque compactae ». Difatti, perchè Aristotele  parlerebbe delle prime dieci espressioni (sermonibus) signifi-  canti i generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro diffe-  renze e proprietà e toccherebbe degli accidenti, se non li avesse  visti nelle cose intrinsecati e in qualche modo riuniti ( <' in  rebus intima et quodammodo adunata » ) ? In base a questa  argomentazione Boezio conclude che « se è cosi, non c’è dubbio  che siano veramente e sian tenute (le cinque distinzioni) con  giusta riflessione («certa animi consideratione >).   Ma si vede chiarissimo che Boezio dà per certa e dimo-  strata la concezione aristotelica degli univeisali come forme  immanenti nelle cose particolari, onde conclude che lo spirito,  pensandoli, è nel vero e non neirerrore delle pure finzioni  immaginarie. Ma se la questione era per Porfirio se gli uni-  versali fossero reali o puramente mentali, e per Boezio se fos-  sero concetti veri o mere finzioni immaginarie, nè la questione  porfiriana, nè quella boeziana possono essere risolte con Tappel-  larsi alla concezione aristotelica di universali reali nei parti-  colari, e quindi veri, post rem, nello spirito umano. Questo è  un affermare il temperato realismo aristotelico, non un l isol-  vere la questione con un procedimento dimostrativo. Boezio  presuppone dimostrato Taristotelismo per decidere in senso  aristotelico e su V autorità di Aristotele la questione da lui  posta.   Senonchè Boezio trova un’altra conferma realistica- della  sua opinione nell’assenso, per quanto tacito, dello stesso Porfirio.  Giacché, egli dice, Porfirio, come se già fosse risaputa e pro-  vata la realtà degli universali, domanda se siano corporei o incorporei. La quale domanda sarebbe troppo frivola e assurda  se non si fosse prima assodata, per gli universali, quella realtà  che ora si domanda se sia corporea o incorporea. Ma anche  qui forse Boezio, neirinterpretare Porfirio, va lontano da quello  che egli intendeva dire. Porfirio forse domandava: — generi e  specie sono reali o puramente mentali? Se reali, nel senso  platonico, sono enti incorporei; se meramente mentali, non si può  ad essi attribuire altra realtà che nei corpi stessi. Vale a dire,  se reali, nel senso platonico, sono separati: se meramente men-  tali, non possono concepirsi che immanenti nei corpi, congiunti  con essi e da essi inseparabili, tranne che per astrazione nel  pensiero umano.   Se questa che qui proponiamo fosse una interpretazione  plausibile del celebre prologo porfiriano, le domande ivi contenute  in realtà non sarebbero tre, ma una sola: gli universali sono  reali, o mentali? vale a dire, sono incorporei, o esistono nei  corpi? cioè, sono separati, o intrinsecati nei corpi e da essi  inseparabili ?   Ma Boezio le intende come tre domande, ciascuna delle quali  presupponga già risolta in un determinalo senso le precedenti.  Difatti, egli dice: solo se alla prima domanda « se gli universali  siano reali » si risponde affermativamente, si può poi domandare  se esistano come corpi o come incorporei ; e parimenti, solo se  a questa domanda si risponda affermando Tincorporeità degli  universali, si può domandare se, essendo incorporei, esistano  separati dai corpi o siano da essi inseparabili.   8. — Rispetto alla seconda questione « se gli universali siano  corpi 0 incorporei » Boezio tratta separatamente il genere dalla  specie.   Quanto al genere egli dice, « quia incorporeorum prima  natura est», può una cosa incorporea essere madre di una  corporea, ma non viceversa, giacché, la sostanza essendo il  genere, e corporale e incorporale le specie, il genere non può  essere corporale, chè, se fosse tale, la specie incorporea non  potrebbe subordinarglisi. Dal che discende che il genere non  deve essere nè corporeo nè incorporeo, si da poter avere per  specie così il corporeo come Tincorporeo.   (E qui Boezio solleva una questione di grandissima importanza.  Se il genere non può avere nessuna delle determinazioni che  costituiscono le proprietà delle specie e le loro reciproche  differenze, donde nascono nelle specie queste differenze che nel  genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? - Non si può  pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della  ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse-  dere in sè due contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che,  per poter dare luogo cosi alBuna come alEaltra delle due specie,  il genere non abbia nè Buna nè Taltra delle due differenze  specifiche: non sia nè Tuna nè l’altra specie, pur contenendole  entrambe « vi sua et potestate » .   Ed anche questa è, come si deve, una soluzione prettamente  aristotelica della questione: il genere è «in potenza» le sue  specie, senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui  il caso di saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile  tentativo di spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del  nascere delle differenze, le presuppone già esistenti, e tuttavia  non ancora reali, giacché sono potenziali, virtuali).   Si è visto dunque che per Boezio il genere non è nè corporeo,  nè incorporeo : il che significa, su questo punto, non rispondere  alla domanda di Porfirio, ma sottrarsi ad essa. E la ragione di  tutto ciò è chiara. Porfirio è tutt’ altro che convinto che gli  universali siano puri concetti: ecco perchè egli tende ad affer-  marli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali sono  semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto con  Platone ed anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura,  prima del corporeo, pure è costretto, dalla sua concezione mera-  mente logica e non metafisica degli universali come concetti e non  come idee, a pensare il genere come privo delle determinazioni  che saranno proprie delle specie: a costo di non sapere più d  donde derivino alle specie queste differenze, che sono estrai  alla sola fonte delle specie che è il genere.   Ma Boezio si illude che ammettere la potenziale presei  delle differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà: (  inoltra nella considerazione meramente logica del genere co  semplice concetto, adatto esclusivamente alle classificazi  scolastiche dei concetti secondo la loro estensione, mentre, ]  Platone, il genere era pregnanza di realtà o idea.   Quanto alle specie Boezio ne ammette di corporee e di ine  poree: specie corporea Puomo; incorporea: Dio.   Parimenti le differenze: «quadrupede» è differenza cor  rea ; < ragionevole * differenza incorporea.   Cosi anche le proprietà: corporee di cose corporee; ine  poree di cose incorporee.   E lo stesso è degli accidenti: accidente incorporeo è nello s  ritolascienza: accidente corporeo èsul capo la capigliatura cres   Insomma per Boezio, solo il genere è neutro, nè corpor  nè incorporeo: ma le specie, le differenze, le proprietà e  accidenti sono corporei se appartengono ai corpi, incorporei  appartengono allo spirito.   Senonchè, in questa teoria, lo stesso Boezio, che non  potuto riconoscere incorporeo il genere per la sua conside  zione meramente logica di esso, ammettendo corporee le spe(  le differenze, le proprietà e gli accidenti delle cose corpor  rinunzia a considerare specie, differenze ecc. come distinzi  meramente logiche, e non solo le pensa metafisicamente intr  secate nelle cose singole, ma fatte una cosa sola con esse,  da ricevere la loro stessa natura.   Torna, bensì, a una considerazione meramente logica de  distinzioni porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora espos  una seconda teoria, che peraltro egli presenta come una teo  altrui. Secondo questa teoria il genere va considerato coi  genere, come pura determinazione logica o concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere considerata come una sostanza,  ma come un genere, cioè come qualcosa che ha delle specie  sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo saranno  specie della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure  specie, cioè come concetti che stanno sotto un genere. Pari •  menti le differenze: bipede e quadrupede sono differenze in  quanto Puno contrapposto all’altro : vanno, dunque, considerati  non come un bipede e un quadrupede, ma come pure differenze  logiche. Similmente le proprietà non vanno considerate nel loro  contenuto, ma come pure caratteristiche logiche della specie.   Così intesi, generi, specie, differenze e proprietà, come pure  distinzioni logiche, non possono essere, secondo la teoria che  Boezio espone senza aderii-vi, se non incorporei. Mentre gli  accidenti avrebbero la natura delle cose a cui accadono: sareb-  bero quindi corporei o incorporei a seconda delle sostanze.   Sia qui notato subito che questa affermazione metafìsica  della incorporeità di quattro fra le cinque distinzioni porfiriane  proprio perchè distinzioni meramente logiche, è una afferma-  zione cosi male impostata da non poter resistere alla più sem-  plice critica. Come semplici distinzioni logiche esse non hanno  nessuna natura: il loro contenuto ha una determinata natura,  non esse: nella specie < uomo », l’uomo è corporeo e ragionevole,  ma € la specie » nè corporea nè ragionevole. Affermare quindi  la incorporeità della specie come distinzione logica, come con-  cetto, è impossibile; per dirla incorporea bisogna considerarla  come idea, come ente metafìsico, non come determinazione lo-  gica. Ma dirla incorporea perchè logica è un abuso inammis-  sibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo oscillar e  tra logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella ti'adizione  aristotelica. Pensati gli universali come concetti, essi non sareb-  bero più suscettibili di nessuna considerazione metafìsica: in-  vece continuano a essere dichiarati, metafìsicamente, incorporei,  primi per natura, ecc., mentre, come puri concetti, essi non sono  che vuoti termini classifìcatorii.  Ma Boezio continua a esporre la teoria della incorporeità  delle distinzioni logiche, dicendo che coloro i quali sostengono  tale teoria s’appoggiano all’autorità di Porfirio stesso, il quale,  come se fosse già dimostrata la incorporeità dei generi, delle  differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti alle cose  sensibili: chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo domandare  se siano disgiunti dalle cose sensibili o congiunti. Boezio, in-  vece, dà tutt’altra interpretazione a questa domanda porfiriana,  in quanto la intende come se suonasse: «gli universali sono sempre  separabili dai particolari sensibili, o a volte inseparabili?», e  però non gli sembra che la domanda porfiriana presupponga,  come se già fosse risaputa e dimostrata, l’incorporeità di tutte  le specie, differenze, proprietà, ecc. in quanto pure determina-  zioni logiche.   9. — Egli passa perciò a interpretare direttamente la terza  domanda, lasciando da parte la teoria della incorporeità dei  concetti, ed ha l’aria di averla riferita a puro titolo di infor-  mazione, ma ritenendola infondata e insostenibile. Per lui,  dunque, le specie sono talune corporee, talune incorporee. Si  domanda se siano sempre congiunte alle cose particolari, o pos-  sano a volte disgiungersene.   Boezio, per chiarire la domanda porfiriana, distingue tre  specie di cose incorporee:   1) — Cose incorporee affatto insuscettive di corpo, come  lo spirito e Dio;   2) — Cose incorporee inconcepibili senza i corpi, come  lo spazio vuoto che è immediatamente oltre i termini di una  figura geometrica ;   3) — Cose incorporee che sono corpi e possono essere  senza corpo, come l’anima.   Si domanda se generi, specie, differenze, ecc. siano di quegli  incorporei sempre separati da corpo, o di quegli altri che mai  non possono separarsene, o infine di quelli che a volte si uni-  scono, a volte si separano.   La risposta di Boezio è che possono congiungersi e possono  separarsi: che nelle cose corpoi'ee son congiunti a corpo, nelle  incorporee disgiunti da corpo.   Ma non bisogna credere che tutte le specie, le differenze,  le proprietà, ecc. siano congiungibili o disgiungibili dai corpi;  al contrario quelle delle cose corporee sono inseparabili da tali  cose corporee, come lo spazio è inseparabile dai corpi che  limita; e quelle delle cose incorporee, come le proprietà dello  spirito non si trovano che nello spirito, che è perfettamente  separato dal corpo. Boezio ribadisce la sua concezione : ci sono  due ordini di realtà: corporee ed incorporee; le incorporee sono  per natura e dignità anteriori alle corporee, e andrebbero  considerate come loro fonte: senonchè Boezio concepisce le  corporee e le incorporee come tra loro coordinate, e le subordina  entrambe ad un genere nè corporeo nè incorporeo, che avrà  magari in sè la potenza delle une e delle altre, ma che intanto,  così astratto e sopraordinato ad esse, è il vertice di una clas-  sificazione logica da scuola, non la genesi del reale.   10. — Nel secondo commento di Boezio le domande di Porfirio  sono presentate ed interpretate come nel primo: ma ne è diversa  la trattazione.   Le questioni « et perutiles et secretae, et temptatae quidem  a doctis viris nec a pluribus dissolutae», non trattate ancora  da Porfirio per non ingenerare oscurità nel lettore impreparato,  ma tuttavia accennate affinchè il lettore, una volta rafforzato  dal sapere, sappia che domandare, sono da Boezio formulate  così :   1^. Lo spirito 0 , con Pintelletto, concepisce, afferra quello  che realmente esiste in natura e, con la ragione, lo copia in  sé stesso; oppure, con vuota immaginazione, dipinge a sé mede-  simo ciò che non esiste. Si domanda dunque come sia Pintendimento che noi abbiamo del genere^ della specie, ecc. : se  intendiamo generi e specie come cose esistenti delle quali  prendiamo vera comprensione, o se invece noi stessi ci ingan-  niamo immaginandoci con vano pensiero cose che non sono.   2». Che se si ammette che dei generi, delle specie, ecc.  abbiamo un vero concetto, rimane da determinare se siano  corporei o incorporei: giacché tutto ciò che esiste deve essere  corporeo o incorporeo, e non si intenderà bene cosa siano i  generi e le specie finché non si sappia se porli tra le cose  corporee o le incorporee.   3». Che, se si ammette che generi, specie, ecc. siano  incorporei, rimane ancora da stabilire se, pur essendo incorporei,  esistano nei corpi, o se invece sembrino essere sussistenze  indipendenti anche senza corpi. Giacché ci cono due specie di  cose incorporee (qui Boezio sopprime la terza specie da lui  distinta nel primo commento: quella delle cose incorporee che  a volte si uniscono ai corpi, a volte se ne separano, e la fonde  senz’altro con la prima specie): ci son cose incorporee che  possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano  nella loro incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose  incorporee, invece, non possono esistere senza i corpi, come  la linea, la superficie, il numero e le varie qualità, che noi  diciamo incorporee perchè non si estendono nelle tre dimensioni,  ma che esistono nei corpi siffattamente da non poterne essere  strappate o separate, o da svanire se separate dai corpi.   Come si vede, le questioni sono impostate come nel primo  commento. Ma qui Boezio si propone di trattarle altrimenti:  < primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate proponam,  post vero eundem dubitationis nodum absolvere atque explicare  temptabo. »   Insomma, prima egli moverà un attacco, che vorrebbe essere  a fondo, contro ogni concezione platonica o aristotelica degli  universali, sia come reali, sia come concetti: poi giustifi-  cherà la concezione aristotelica tentando di dimostrare che son veri, nel pensiero, gli universali, pur non essendo reali, in  natura, se non nei particolari.    11. — Boezio scrive: i generi e le specie o sono e sussistono,  o si formano con Tintelletto ed esistono solo nel pensiero, ma  non possono essere generi e specie.   Anzitutto, generi e specie possono essere considerati reali?   Una cosa che nello stesso tempo sia comune a più altre, non  può essere una: specialmente se sia tutta in molte contempora-  neamente. Ora il genere dovrebbe essere uno in tutte le sue  specie : e non nel senso che ogni singola specie prenda per sè  una parte del genere, ma nel senso che ogni singola specie ha  in sè tutto il genere. Or questo genere che è tutto in ciascuna  delle sue specie contemporaneamente, come può essere uno?  giacché, se è tutto in più specie, in sè non può essere uno di  numero. E se non può essere uno, non è nulla assolutamente,  perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo stesso va detto della  specie. Che se si dice che la specie o il genere esiste, ma  molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo, bensì  avrà sopra di sè un altro genere, che includa quella moltepli-  cità nella propria unità.   E, daccapo, se questo nuovo genere sarà a sua volta molte-  plice, non uno, rinvierà ancor esso a un altro genere: e cosi di  seguito, airinfinito, senza che sia dato trovare un genere che  sia uno di numero pur essendo comune a tutte le sue specie.   Che se si dice che il genere è uno di numero, non potrà  essere comune a molti. Giacché una cosa può essere comune  a molte, ma solo in uno di questi tre casi:   1) — che ciascuna sua parte si applichi ad un particolare  diverso: sicché il genere non stia tutto in ciascuna specie, ma  in ogni specie una sola parte del genere;   2) — che più persone abbiano in comune l’uso di alcunché,  ma l’usino, beninteso, ciascuna in tempi diversi. (Esempio : più   persone hanno un solo servo o un solo cavallo: si capisce che  non possono servirsene tutte con temporaneamente, ma l’una  prima, Taltra dopo);   3) — che qualcosa sia comune a molte persone, ma senza  costituire la loro essenza. (Esempio : il teatro è luogo comune  a tutti gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e comune  ad essi tutti).   Ma il genere non è comune alle specie in nessuna delle tre  forme ora dette : giacché deve essere tutto in ciascuna specie,  deve essere contemporaneamente in tutte le specie, e deve costi-  tuire Tessenza delle specie a cui è comune.   Ora, se il genere non è nè uno (giacché è comune), nè molte-  plice (giacché, se fosse tale, richiederebbe un genere ulteriore),  il genere non è per nulla. E lo stesso va detto delle specie,  delle diiferenze, delle proprietà e degli accidenti.   Se genere, specie, ecc. non sono, resta che siano còlti solo  con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto si torma da una  realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente da  esso. Se conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo  nel pensiero, ma anche nella realtà, e risorge la domanda come  possano essere uni e molteplici ad un tempo, con la conclusione  di pocanzi, che cioè, genere, specie, ecc. non sono. Se difforme-  mente, non possono essere che vani e falsi dei concetti difformi  dalla realtà nel suo vero essere.   Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono, nè, quando son  pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio  che si debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distin-  zioni porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè  su qualcosa di cui sia possibile farsi un vero concetto.    12. - A questa obiezione che mirerebbe, come si vede, a  scalzare tutta intera la dottrina porfiriana delle cinque primis-  sime distinzioni logiche, Boezio risponde, appellandosi all’autoritàdi Alessandro di Afrodisia, di cui accetta e riproduce Targo -  montare.   Non è vero — scrive Boezio — che sia falso e vano ogni  concetto che si scosti dalTessere reale delle cose. Se la mente  mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi una  immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si inganna,  come quando si immagina i Centauri, componendone mental-  mente la figura con elementi del corpo umano e delTequino.  Ma quando la mente procede non per composizione, ma per  divisione ed astrazione, il concetto non corrisponde a nulla di  obbiettivo, e tuttavia non è falso.   Esempio: — la linea non è concepibile che in un corpo:  staccata da qualsiasi corpo, la linea non è nulla; e difatti chi  potè mai cogliere con un qualsiasi senso una linea separata da  ogni corpo? Ma ciò non esclude che possa separarla lo spirito  e pensarla per sè sola, fuori di qualsiasi corpo. Onde risulta,  nel pensiero, incorporea e separata quella linea che nella realtà  è inseparabilmente unita al corpo e confusa con esso.   Ora, i generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti: esistono  nei corpi singoli, ma possono essere separati dai corpi, come  puri universali. E come nessuno può dir falso il concetto della  linea perchè si pensa separata da ogni corpo mentre essa fuori  dei corpi non sussiste, cosi non si deve ritenere falso il concetto di  genere, specie, ecc. perchè si isolano come puri universali mentre  essi non esistono che nei particolari. Gtli è che è prerogativa  delTintelletto cogliere la somiglianza dei vari particolari sensi-  bili, fissarla per sè sola e farne una specie; e poi ancora, cogliere  la somiglianza delle varie specie, fissarla e farne un genere.  Sicché la specie è un concetto ricavato dalla somiglianza d’es-  senza di individui diversi numericamente Tuno dalTaltio: e il  genere è un concetto ricavato dalla somiglianza delle specie.   Ma questa somiglianza, quando è nelle cose singole, è sensi-  bile; quando nelle universali, è intelligibile. 0, che è lo stesso,  sentita, è nelle cose singole; pensata, è universale. Sicché generi.  specie, ecc. esistono nei sensibili, son còlti e pensati fuori dei  corpi; universali quando son pensati, singolari quando son  sentiti nei corpi in cui hanno esistenza.   Rimane cosi risolta Tintera questione: giacché generi e  specie esistono in un modo - nei particolari - e son pensati in  un altro - fuori dei particolari - come se esistessero per sé stessi  e non avessero nei particolari Tesser loro.   Ma questa soluzione è aristotelica, e Boezio Tavverte espli-  citamente: giacché per Aristotele generi e specie son pensati  incorporei ed universali, mentre esistono nei particolari sensi-  bili. Platone invece - Boezio ama rammentarlo - ritiene che  generi e specie non solo siano pensati come universali, ma  anche siano tali ed esistano separati dai corpi. E Boezio dichiara  espressamente d^aver presentato la soluzione aristotelica della  questione non perché egli la approvi di più, ma perché un  lavoro, come il suo commento, destinato a servir di introdu-  zione alle Categorie aristoteliche, aveva il dovere di adottare,  in questa questione, preliminare importantissimo, il punto di  vista aristotelico.   13. — Dopo il prologo del quale si é ampiamente discorso,  T « Isagoge » - alla quale ci conviene ormai ritornare - può  intendersi divisa in due parti: la prima studia separatamente  il genere, la specie, la differenza, la proprietà e Taccidente;  la seconda paragona prima il genere alla differenza, alla specie,  alla proprietà e alTaccidente ; poi la differenza alla specie, alla  proprietà e alTaccidente; infine tra loro la proprietà e Taccidente.   Cominciamo ora lo studio delle cinque distinzioni logiche prese  separatamente ad una ad una.   14. — Porfirio osserva che la parola genere si usa con  significati diversi.   Primo significato é quello per il quale genere (o piuttosto  gente) vuol dire stirpe.  Esempi: « Oreste è delle gente di Tantalo », cioè discende  da Tantalo; < Pindaro è della gente tebana », cioè è tebano  di nascita. Nel primo caso è indicato il progenitore, nel secondo  la patria; in entrambi il termine da cui la stirpe, o gente, o  genere proviene.   Secondo significato è quello per il quale il genere (o gente,  vuol dire quella collettività che è stretta da un’origine comune   Esempio: « Gli Eraclidi costituiscono una gente (o genere)  perchè discendono tutti da un comune capostipite: Eracle».   Terzo significato è quello per il quale si dice genere quello  a cui si subordinano le specie, la cui moltitudine esso contiene  sotto di sè. Questo terzo significato, che è quello che la parola  «genere » ha per i filosofi, è probabilmente imitato dai primi due  in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri casi  si dice piuttosto stirpe, cioè Torigine da cui le specie derivano,  da essa prendendo il nome e con tal nome distinguendosi da  tutte la altre specie che rientrano sotto altri generi.   In questo terzo significato « genere » è quel che si predica di  più cose, differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse sono.   La quale definizione ha bisogno di essere chiarita punto per  punto. « Quel che si predica di più cose » : difatti, i predicati  0 si riferiscono ad una cosa singola o a più cose. Ad una cosa  sola si riferiscono gli individui, come quando si dice: «questi  è Socrate », e anche a una cosa sola si riferiscono: « questi »  e « questo ». Invece a più cose si riferiscono i generi, le specie,  le differenze e le proprietà e quegli accidenti che risultano  comuni, non propri di una cosa sola.   Esempio di genere : « animale » . Esempio di specie : « uomo » .  Esempio di differenza (che contraddistingue Tuomo dagli altri  animali): « ragionevole ». Esempio di proprietà (dell’uomo): « la  capacità di ridere » . Esempi di accidenti (dell’uomo) : « bianco,  nero, muoversi » .   Ora il genere differisce dall’individuo perchè si predica di  più cose, non di una.  Ma la definizione precisa è: « Genere è ciò che si predica  di più cose differenti tra loro per la specie », in quanto anche  la specie si predica di più cose, ma di cose differenti tra loro  per numero, non per specie.   Esempio: - la specie «uomo» si predica di Socrate e di  Platone, che differiscono numericamente in quanto Socrate e  Platone sono due individui diversi, mentre il genere « animale »  si predica delPuomo, del bue, del cavallo, differenti tra loro  non solo numericamente, ma per specie.   Inoltre: « genere è ciò che si predica di più cose differenti  tra loro per la specie, e indica cosa esse sono. » Giacché anche  le differenze si predicano di cose differenti tra loro per la  specie, ma indicano qitali esse sono, non cosa sono.   Esempio: — < se ci domandano che cosa è Puorao, rispon-  diamo indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: « Puoino  è animale > ; ma se ci domandano le qualità delPuomo, rispon-  diamo indicando i suoi caratteri differenziali, la ragionevolezza  e la mortalità.   Com’è chiaro, il genere differisce dalla proprietà, perchè  questa si predica d’una sola specie e degli individui di essa,  mentre il genere si predica di più specie.   E differisce dagli accidenti comuni perchè, sebbene questi si  predichino di più cose differenti tra loro per specie, ne indicano  la qualità, non Pessenza (come, ad esempio, il color nero).   Ricapitolando: il predicarsi di più cose divide il genere  dagli individui; il predicarsi di più cose differenti di specie  lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare la quiddità  0 essenza lo divide dalle differenze e dagli accidenti comuni  che indicano la qualità. E questa trattazione del genere non  contiene nulla nè di superfluo, nè di manchevole.   15. — Anche « specie » ha più significati : significa « forma »  e significa, in logica, ciò che rientra in un genere (« uomo » è  specie compresa nel genere « animale » ; « bianco » è specie del  genere «colore*; «triangolo» è specie del genere «figura»).  Beninteso, come il genere è genere solo rispetto alle sue specie,  cosi le specie sono specie solo rispetto al loro genere. Genere  e specie cioè sono concetti correlativi. Cosi la specie vien defi-  nita: «ciò che è posto sotto il genere, e di cui il genere si  predica per indicarne l'essenza o quiddità » . Ma questa defi-  nizione conviene solo alle specie specialissime che sono sempre  specie e non mai generi, mentre le precedenti definizioni con-  vengono anche alle specie che non sono specialissime.   Sono generi generalissimi quelli al di sopra dei quali non  esiste altro genere, come ad esempio « sostanza ». Sono specie  specialissime quelle al di sotto delle quali non esistono altre  specie, come, ad esempio, « uomo », che ha sotto di sè imme-  diatamente i vari individui umani.   Tra i generi generalissimi e le specie specialissime inter-  corrono generi subalterni, come ad esempio « sostanza animata »,  « sostanza animata sensibile » , « sostanza sensibile ragionevole » .  Ciascuno di questi concetti, intermedi tra «sostanza» e «uomo »,  è specie rispetto al concetto più ampio nel quale rientra, è  genere rispetto al concetto più ristretto che in esso rientra.   Ad esempio: «sostanza animata» è specie rispetto a « so-  stanza », è genere rispetto a « sostanza animata sensibile ». Ai  due estremi della scala c'è la « sostanza», genere generalissimo  che non è mai specie, e !'« uomo », specie specialissima che non  è mai genere, mentre in mezzo i generi subalterni sono a volte  generi, a volte specie.   Ora, mentre le genealogie famigliari, risalendo di proge-  nitore in progenitore, raggiungono il comune capostipite di tuttele  famiglie, Giove, non è dato rinvenire un genere generalissimo  unico, a cui tutti i generi subalterni si lascino ridurre. Al con-  trario, secondo Aristotele sono dieci i generi generalissimi, asso-  lutamente primi e irriducibili: uno è la sostanza e nove gli acci-  denti (qualità, quantità, luogo, tempo, ecc.). Nè è valida obie-  zione che se questi dieci predicamenti sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo unico, Ve^%ere\ chè, dice  Porfirio, Ve^senza si predica in senso assai diverso della  sostanza e dei vari accidenti, sicché Tunificazione delle dieci cate-  gorie neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il  significato essere dalPuno all’altro predicamento.   Ora, se i generi generalissimi sono dieci, i generi subal-  terni sono di numero assai grande, ma tuttavia finito : infiniti,  invece, sono gli individui che vengono dopo le specie specia-  lissime, e di essi non si dà scienza.   Platone insegna a dividere, mediante le differenze specifiche,  ciascun genere in due, e poi ancora in due fino a raggiungere  le specie specialissime, che si dirompono negli individui. Chi  discende dai generi generalissimi alle specie specialissime  divide, cioè moltiplica l’unità. Chi, al contrario sale dalle specie  specialissime ai generi generalissimi, raccoglie la moltitudine in  unità. Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune  aduna.   Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di  esse. Giacché i concetti più estesi si predicano dei meno estesi  (il genere si predica delle specie), i concetti equipollenti si pre-  dicano l’uno dell’altro e l’altro dell’uno (la proprietà di nitrire  si predica del cavallo nella proposizione: «Il cavallo è l’ani-  male che nitrisce», e il cavallo si predica del nitrire nella  reciproca: < L’animale che nitrisce è il cavallo »), ma non mai  i concetti meno estesi si predicano dei più estesi (la proposi-  zione : « l’uomo è un animale » non può convertirsi nella reci-  proca: « l’animale è uomo »). Così i generi generalissimi si pre-  dicano di tutti i generi subalterni o specie, delle specie specia-  lissime e degli individui ad esse sottoposti; i generi subalterni  si predicano di tutte le specie ad essi inferiori, delle specie  specialissime e degli individui ; le specie specialissime si pre-  dicano degli individui, e gli individui d’un solo particolare. Gli  individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è tota-  lità, mentre rispetto al genere è parte.    16. — Si parla di differenza nel significato comune della  parola, in senso proprio, e in senso rigoroso.   Nel significato comune < differenza » esprime la diversità  d’una cosa da un’altra o da sè stessa. Socrate differisce da  Platone e differisce da sè stesso bambino.   In senso proprio, una cosa si dice differire da un’altra  quando ne differisce per un accidente inseparabile. (Accidente  inseparabile è, per esempio, avere il naso curvo, essere ciechi,  avere una cicatrice causata da una ferita).   In senso rigoroso una cosa si dice differire da un’altra  quando se ne distingue per differenza di specie. Ad esempio,  un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a specie  diverse, l’uno essendo ragionevole, Taltro no.   In generale dunque, ogni differenza altera ciò a cui si in-  nesta: ma le differenze comuni e proprie si limitano a renderlo  alterato, le rigorose lo rendono addirittura altro. E queste dif-  ferenze rigoi-ose che rendono altro ciò a cui si applicano,  si dicono < differenze specifiche » , le altre si dicono semplice-  mente « differenze » . Queste non producono che un’alterazione  o un mutamento di stato (per esempio, il muoversi rispetto  al giacere), quelle, invece, dal genere fanno le specie, le quali  si definiscono appunto col genere e le differenze.   Altra classificazione delle differenze è la seguente: differenze  separabili^ come il muoversi e lo star fermi, l’essere sani o  malati, e differenze inseparabili^ come l’avere un naso aquilino  0 camuso e l’essere ragionevoli o irragionevoli.   Le differenze separabili si dividono ancora in differenze per  se e differenze per accidens. Differenza per se è, nell’uomo, la  ragionevolezza, la mortalità, la capacità di apprendere. Diffe-  renza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso.   Le differenze per se entrano nel concetto della cosa e la  rendono altra (la mortalità entra nel concetto di uomo e lo  differenzia dall’altro essere animato sensibile e ragionevole, ma  immortale che è Dio); invece, le differenze accidens, anche se insensibili, non entrano nel concetto della cosa e non la ren-  dono altra, ma solo alterata (il naso camuso non entra nel  concetto di uomo, e altera un individuo, ma non lo rende altro  dai rimanenti uomini).   Parimenti le differenze per se non ammettono aumenti o dimi-  nuzioni (tutti gli individui umani sono uomini egualmente),  invece, le differenze per accidens ammettono aumento o dimi-  nuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più o meno  curvo, ecc.).   Fra le differenze inseparabili per se talune servono a divi-  dere i generi in specie, tali altre, invece, a specificare i generi  già divisi. Differenze inseparabili per se sono « animato » e  < inanimato » , « sensibile » e « insensibile » , « ragionevole » e  «irragionevole», «mortale» e «immortale». Di queste dif-  ferenze, « animato » e « sensibile » sono differenze costitutive  della sostanza « animale » ; « mortale » e « ragionevole » sono,  invece, divisive della sostanza < animale » in quanto per esse  si giunge dal concetto del genere « animale » al concetto della  specie « uomo » .   Senonchè quelle differenze che son divisive pei generi, sono  costitutive per le specie: difatti, nelPesempio ora addotto, le  differenze « ragionevole » e « mortale » , introducendo una di-  visione nel genere «animale», costituiscono proprio cosi la  specie «uomo». Divisive e costitutive poi sono tutte le dif-  ferenze specifiche, utilissime per le divisioni dei generi e le  definizioni delle specie, mentre a ciò non giovano nè le dif-  ferenze inseparabili per accidens, nè, molto meno, le separa-  bili (sarebbe ridicolo dividere gli uomini secondo che abbiano il  naso aquilino o camuso — differenze inseparabili per accidens  — 0, peggio ancora, secondo che stiano in piedi o a sedere).   La differenza viene anche determinata come quella che la  specie ha in più del genere. L’uomo, ad esempio, ha in più  delhanimale Tessere ragionevole e mortale, qualità che il con-  cetto di «animale» non include. (Or si domanda: se il genere  non ha in sè le differenze che caratterizzano le varie specie,  queste donde le traggono? — Giacché le specie non derivano  che dai generi, e questi non posseggono le differenze, nè pos-  sono possederle, chè, se le possedessero, potrebbero riunire in  sè differenze opposte tra loro, come sono quelle che contrad-  distinguono runa dalbaltra le varie specie. La soluzione di  questa difficoltà è che non è necessario ammettere nè che le  differenze specifiche nascano dal nulla, nè che il genere aduni  in sè differenze contraddittorie, perchè il genere ha in potenza  le differenze che da esso nascono, senza averle in atto.)   Altra definizione della differenza è: «ciò che si predica di  più cose differenti tra loro per specie, per indicarne la qua-  lità ». - Infatti, se uno ci domanda: « che cosa è Tuomo? », noi  rispondiamo indicando il genere a cui la specie umana appar-  tiene, e diciamo: « l’uomo è un animale » ; ma se uno ci domanda  la qualità delbuomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri  differenziali, e diciamo: «L’uomo è ragionevole e mortale».   Porfirio paragona così il genere alla materia e la differenza  alla forma, e dice che come la figura rende statua il bronzo,  cosi la differenza rende specie il genere.   Altra determinazione della differenza è : « ciò che è atto a  dividere le cose che sono sotto il medesimo genere » . Difatti,  « ragionevole » e « irragionevole » sono differenze atte a dividere  l’uomo dal cavallo, entrambi compresi nel genere animale.   Altra definizione: « differenza è quella per la quale differiscono  fra loro le varie cose», giacché per il genere non differiscono.  Per esempio: siamo animali mortali noi e gli irragionevoli: la  differenza « ragionevoli » vale a separarci da essi. E ancora:  siamo ragionevoli noi e gli Dei : la differenza « mortali » ci  separa da essi.   Definizione più profonda è la seguente: « Differenza non è  una qualsiasi di quelle determinazioni che valgono a dividere  le cose che sono sotto il medesimo genere ; ma quella determi-  nazione che riguarda l’essere ed è parte dell’essere d’una cosa. »   Per esempio: poter navigare, è particolarità esclusivamente  umana, e tuttavia non è differenza che costituisca la sostanza  delPuomo. Differenze specifiche sono quelle che fanno altra la  specie e sono accolte nel concetto di essa indicandone la qualità.   17. — Ci sono quattro sorte di qualità:   1) - Proprietà che convengono ad una sola specie, sebbene  non intera, come per Tuomo essere medico o geometra. (Solo  gli uomini sono medici e geometri; ma non tutti gli uomini  sono tali).   2) Proprietà che convengono a tutta una specie, sebbene  non solo ad essa, come per Tuomo essere bipede (sono bipedi  anche gli uccelli).   3) Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta  la sua estensione, ma solo in un determinato tempo, come per  Puomo imbiancare nella sua vecchiezza.   4) Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta  la sua estensione e sempre, come per Tuomo poter ridere. (Non  importa che non rida sempre: importa che abbia natura di poter  ridere).   Sono queste ultime le vere proprietà giacché possono con-  vertirsi con ciò di cui sono proprietà. (Chi è cavallo, può nitrire ;  chi può nitrire è cavallo).   18. — Accidente è quello che può essere presente o assente  senza che il soggetto si corrompa.   Ci sono intanto accidenti separabili e accidenti insepara-  bili. Separabile è dormire; inseparabile il color nero. E tuttavia,  per quanto inseparabile, rimane accidente perchè, sebbene corvi  e Etiopi siano neri, si può sempre pensare un corvo e un Etiope  bianchi.   L'accidente è definito anche « ciò che può contingentemente  esserci e non esserci * ; oppure « ciò che senza essere nè genere  nè specie nè differenza nè proprietà, tuttavia sussiste in un  oggetto » .   19. — Determinate ormai tutte e cinque le distinzioni logiche,  bisogna paragonarle tra loro per vedere cosa hanno di comune  e cosa hanno di diverso.   Di comune hanno il potersi predicare di più cose ; ma il  genere si predica delle specie e degli individui ( « animale » si  predica dei cavalli e dei buoi, e di questo cavallo e di questo  bue); la differenza similmente delle specie e degli individui  ( « irragionevole > si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo  cavallo e di questo bue); la specie degli individui che sono sotto  di essa ( « uomini » si predica solo degli individui umani) ; la  proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli indi-  vidui di tale specie ( « poter ridere » si predica tanto deiruomo  quanto dei singoli uomini); l’accidente cosi della specie come  degli individui (« nero » si predica cosi della specie dei corvi  come dei corvi particolari, ed è accidente inseparabile; « muo-  versi » si predica deH’uomo e del cavallo, ed è accidente sepa-  rabile), ma anzitutto si predica degli individui, e in secondo  luogo delle specie che contengono gli individui.   Ma conviene ora paragonare a due a due le cinque distin-  zioni logiche.    20. — Comparazione del genere con le altre quattro roci.  a) Genere e differenza   Cosa hanno di comune:   1) — Il genere e la differenza entrambi contengono specie.  Bensì la differenza non contiene tante specie quante ne contiene  il genere.   Esempio: la differenza «ragionevole» contiene due specie:  uomo e Dio ; mentre il genere « animale * contiene e le due  anzidetto e tutte le altre specie animali.      2) — Quel che si predica del genere come genere, si  predica anche delle specie comprese in tale genere : e quel che  si predica della differenza come differenza, si predica anche  delle specie comprese in tale differenza.   Esempi: del genere « animale » si predica Tesser sostanza  e Tessere animato: che si predicano anche delle specie del genere  « animale » e perfino degli individui di tali specie. Della diffe-  renza « ragionevole » si predica Tesser provvisto di ragione :  che si predica anche delle specie comprese sotto tal differenza  [uomo e Dio) e degli individui di tali specie (i singoli uomini  e gli Dei).   3) — Tolto il genere o la differenza, son tolte contempo-  raneamente le specie che sono sotto di essi.   Esempio : tolto il genere « animale > , è tolta anche la specie  « uomo » ; tolta la differenza « ragionevole », non ci sarà più  nessun animale provvisto di ragione.   Cosa hanno di diverso:   1) — E’ proprio del genere predicarsi di più cose che non  la differenza, la specie, la proprietà e l’accidente.   Esempio: il genere «animale» si predica egualmente del-  l’uomo, del cavallo, dell’uccello e del serpente, mentre la diffe-  renza « quadrupede » si predica solo degli animali di quattro  piedi, la « specie > uomo solo degli individui umani, mentre la  proprietà del « nitrire » solo della specie cavallo e dei cavalli  particolari, e l’accidente « star in piedi » ancora di più poche cose.   2) — Il genere contiene la differenza in potenza.   Esempio : il genere « animale » si divide in specie animali   « ragionevoli » e specie « irragionevoli » , « ragionevole » e « ir-  ragionevole » essendo le differenze che dividono il genere « ani-  male » in specie diverse.   3) — I generi sono anteriori alle differenze poste sotto di  essi: tolti i generi, son tolte contemporaneamente anche le diffe-  renze, ma non viceversa.    Esempio: tolto il genere « animale », son tolte tutte le diffe-  renze (« ragionevole » e « irragionevole »); mentre, tolte tutte le  differenze, si può ancora pensare la sostnza animata sensibile,  cioè Tanimale.   4) — Il genere riguarda Tessenza (o quiddità) d’unacosa:  la differenza la sua qualità.   Esempio: Cos’è l’uomo? - un animale. Com’è l’uomo? - ragio-  nevole.   5) Ogni specie ha un sol genere, ma moltissime diffe-  renze.   Esempio : il genere dell’uomo è « animale » ; le differenze  sono: ragionevole, mortale, suscettibile di intendere e d’impa-  rare.   6) — Il genere è come la materia, la differenza è come  la forma.   Giacché è la differenza che determina il genere, come la  forma determina la materia.   b) Genere e specie   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto il genere quanto la specie si predicano di più   cose.   2) — Entrambi sono anteriori a quelle cose delle quali si  predicano.   3) — Cosi il genere come la specie costituiscono ciascuno  un tutto.   Cosa hanno di diverso:   1) — Il genere contiene la specie sotto di sè, le specie sono  contenute, non contengono i generi.   Giacché sono i generi che, determinati da differenze spe-  cifiche, producono le specie: onde sono naturalmente ad esse  anteriori, e, tolti, tolgono anche le specie, ma non viceversa,  chè, posta la specie, è posto anche il genere, ma posto il ge-  nere, non è posta con ciò stesso la specie.       2) — 1 generi si predicano univocamente delle specie: non  cosi le specie dei generi.   3) — I generi sono superiori per le specie che comprendono  sotto di sè, le specie per le differenze che le determinano.   I generi possono anche essere contemporaneamente specie,  ma non specie specialissime ; e le specie possono essere contem-  poraneamente generi, ma non generi generalissimi.   c) Genere e proprietà   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto il genere quanto le proprietà seguono le specie.   Esempio: Se uno è uomo quanto alla sua specie, è ani-  male quanto al genere; e se di specie è uomo, ha la pro-  prietà di poter ridere.   2) — Egualmente si predicano il genere della specie e la  proprietà di quelli che ne partecipano.   Esempio: — L’uomo e il bue sono animali allo stesso titolo;  e cosi Catone e Cicerone hanno egualmente la proprietà di  poter ridere.   3) — Si predicano univocamente il genere delle sue specie  e la proprietà di quelle cose di cui è propria.   Cosa hanno di diverso:   1) — Il genere è anteriore; la proprietà posteriore.   Esempio: — Bisogna che ci sia il genere ahimale, poi sia  diviso dalle differenze e dalle proprietà.   1) — Il genere si predica di più specie, la proprietà di  una sola specie, di cui è propria.   3) — La proprietà si predica di ciò di cui è propria, cosi  come ciò di cui è propria si predica di essa : mentre il genere  non si converte con nessun suo predicato.   Esempio: La proposizione « L’uomo è l’animale che ride »  si converte: esanimale che ride è l’uomo*. Ma la proposi-  zione « l’uomo è animale * non si potrà mai convertire: c l’ani-  male è l’uomo * .        4) — La proprietà è in tutta la specie di cui è propria,  in essa sola, e sempre: mentre il genere è in tutta la specie  di cui è genere, e sempre, ma non in essa sola.   Esempio: la proprietà di ridere è di tutti gli uomini, solo  degli uomini, e sempre rimane in essi : il genere animale è in  tutta la specie umana, è costante in essa, ma si trova anche  in molte altre specie oltreché neirumana.   5) — Poiché la proprietà e ciò di cui é proprietà si con-  vertono, tolta la proprietà é tolto ciò di cui é proprietà, tolto  ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà.   Esempio: tolta la proprietà del ridere é tolto l’uomo: tolto  Tuomo é tolta la proprietà del ridere.   Al contrario, tolte le specie non sono tolti i generi.   Esempio : tolta la specie umana non é tolto il genere ani-  male.    d) Genere e accidente   Cosa hanno di comune:   Si é già detto che ci sono accidenti separabili^ come il muo-  versi, e accidenti inseparabili come, ad esempio, il color nero:  ora, cosi gli accidenti separabili come gli inseparabili hanno  di comune col genere il potersi predicare di più cose.   (Neri sono i corvi, ma anche gli Etiopi e talune cose ina-  nimate).   Cosa hanno di diverso :   1) — Il genere é avanti le specie, mentre gli accidenti  sono posteriori ad esse, anche se si tratti di accidenti inse-  parabili, giacché prima è ciò a cui accade, poi é Taccidente.   2) — Del genere tutte le specie che partecipano, parte-  cipano egualmente; mentre degli accidenti si partecipa più  o meno.   3) — Dii accidenti sussistono principalmente negli individui,  mentre generi e specie sono, di natura, anteriori alle sostanze  individuali.     4) — Il genere dice quel che è una cosa. L’accidente quale  è e come è.   Esempio: - Come è l’Etiope? Nero.   21. — Comparazione della differenza con le altre quattro   voci.   a) - Differenza e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme genere  e differenza.   b) - Differenza e specie   Cosa hanno di comune:   1) — Della differenza e della specie si partecipa egual-  mente.   Esempio: Gli uomini singoli partecipano egualmente della  specie « uomo » e della differenza < ragionevole » .   2) — La differenza e la specie sono sempre presenti in  ciò che di esse partecipa.   Esempio: Socrate è sempre ragionevole e sempre uomo.   Cosa hanno di diverso:   1) — La differenza dice sempre la qualità delle cose, la  specie la loro essenza o quiddità.   Esempio: - « Uomo » non è qualità, se non per le differenze  che, determinando il genere ♦ animale », costituiscono la specie  « uomo » .   2) — La differenza è in più specie.   Esempio : - la differenza « quadrupede » è in vari animali  di specie differente.   La specie è solo negli individui che sono sotto di essa.   3) — La differenza è altra cosa dalla specie a cui dà  luogo.   Difatti, se si toglie la differenza « ragionevole » , si toglie la  specie « uomo » : ma se si toglie la specie « uomo », non si toglie  la differenza « ragionevole » , perchè vi è Dio.    4) — Una differenza si combina con un’altra (« ragionevole »  e «mortale» compongono la sostanza deiruomo); mentre una  specie non si combina con un’altra per produrne una terza.  (Un cavallo e un’asina generano un mulo; ma non la specie  < cavallo » con la specie « asino * generano la specie « mulo *).   c) - Differenza e proprietà.   Cosa hanno di comune:   1) — Della differenza e della proprietà le cose partecipano  egualmente.   Esempio: gli esseri ragionevoli partecipano della diffe-*  renza « ragionevolezza » , quanto gli esseri che possono ridere  partecipano della proprietà di poter ridere.   2) — Differenze e proprietà sono sempre presenti nelle  cose che le hanno.   Si potrebbe obiettare: se un bipede perde una gamba, non  ha più la sua differenza di essere bipede. Ma l’obiezione non é  giusta: l’amputazione non toglie la natura di bipede al monco.  Del resto, anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura'  umana, senza che gli uomini ridano sempre.   Cosa hanno di diverso:   1) — La differenza si predica di più specie (ragionevole si  dice dell’uomo e di Dio), la proprietà si predica di quella sola  specie di cui è propria.   2) — La proprietà e ciò di cui è proprietà si convertono.   (La proposizione « l’uomo è l’animale che ride » ammette la   reciproca: «l’animale che ride è l’uomo).   Mentre la differenza segue quella cosa di cui è differenza,  e non si converte con essa.   (Posto l’uomo, è posta la ragionevolezza; ma, posta la ragio-  nevolezza, non è posto l'uomo, perchè ragionevole è anche Dio).      d) - Differenza e accidente   Cosa hanno di comune:   1) — Differenza ed accidente entrambi si predicano di  più cose.   Esempio: Tanto la differenza della «ragionevolezza» quanto  l’accidente del « muoversi > si applicano a molte cose diverse.   2) — Tanto la differenza quanto gli accidenti insepa-  rabili sono presenti sempre e in tutte le cose di cui si predicano.   Esempio: Tanto la differenza < bipede » quanto l’accidente  inseparabile « nero > riguardano tutti i corvi e li riguardano  sem'pre.   Cosa hanno di diverso :   1) — La differenza contiene, non è contenuta.   (La ragionevolezza contiene l’uomo perchè non è solo di lui).  Gli accidenti, invece, per un verso, contengono perchè sono in  più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo) ; per un altro sono  contenuti, perchè il soggetto aduna in sè parecchi accidenti  (l’uomo, oltre al « muoversi », è anche « bianco », < alto », ecc.)   2) — La differenza non ha aumento e diminuzione, gli  accidenti sì.   (0 si è ragionevoli, o no; ma si è più o meno alti).   3) — Le differenze contrarie non possono mescolarsi,  bensì si mescolano gli accidenti contrari.   ( < Bipede » e « quadrupede » si escludono ; ma « bianco >  e . « nero » si mescolano a produrre il < grigio » ).   22. — Comparazione della specie con le altre quattro voci.   a) Specie e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere  e specie.   b) Specie e differenza   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Diffe-^  renza e specie.     c) Specie e proprietà   Cosa hanno di comune:   Specie e proprietà si predicano Tuna deiraltra (se è uomo,  ha la proprietà di ridere ; se ha la proprietà di ridere, è uomo) ;  giacché le cose partecipano egualmente delle specie a cui  appartengono e delle proprietà che le caratterizzano.   Cosa hanno di diverso:   1) — La specie può essere genere ad altre specie ; la  proprietà non può essere di altre specie oltre quella di cui è  propria.   2) — La specie sussiste prima della proprietà, poi la  proprietà ha luogo nella specie.   Esempio: bisogna essere uomo per avere la proprietà di  ridere.   3) — La specie è sempre presente in atto, nel soggetto;  la proprietà, a volte, vi è presente solo in potenza.   Esempio: Socrate è sempre uomo in atto, ma non sempre  ride sebbene abbia natura di poter ridere.   4) — La specie sempre è sotto il genere e si predica di  più cose, differenti tra loro numericamente, indicandone l’es-  senza 0 quiddità; mentre la proprietà è solo in ciò di cui è  propria, e in esso è sempre, e inerisce a tutta la sua estensione.   Esempio: la proprietà del ridere è di tutti gli uomini, solo  negli uomini e sempre negli uomini.   d) Specie e accidente   Cosa hanno di comune:   Si predicano di più cose.   Cosa hanno di diverso:   1) — La specie dice il « che > di una cosa, l’accidente  il « quale > e il « come » .   2) — Ogni sostanza può partecipare di una sola specie,  ma di più accidenti separabili ed inseparabili.   3) — La specie si concepisce prima degli accidenti, anche   se inseparabili (chè bisogna ci sia il soggetto, perchè qualcosa  gli accada); gli accidenti invece sono posteriori e avventizi.   4) — Della specie si partecipa sempre in egual misura,  ma deiraccidente, anche inseparabile, in misure diverse.   Esempio: un Etiope è più nero di un altro.   23. — Com/parazione della proprietà con le altre quattro   voci.   a) — Proprietà e genere   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Genere  e proprietà.   b) — Proprietà e differenza   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Diffe-  renza e proprietà.   c) — Proprietà e specie   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Specie  e proprietà.   d) — Proprietà e accidente   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile  sono indispensabili a ciò in cui si osservano.   Esempio: Come senza la proprietà del ridere non esiste  uomo, cosi senza color nero non esiste Etiope.   2) — Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile  sono sempre presenti a ciò che li possiede, e in tutta la loro  estensione.   Esempio: Tutti gli Etiopi sono neri, e sempre.   Cosa hanno di diverso :   1) — La proprietà è presente in una sola specie. Tacci-  dente inseparabile in molte.   Esempio: La proprietà del ridere è solo delTuomo; Tacci-    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    43    dente inseparabile del color nero è deirEtiope, ma anche del  corvo, del carbone, deirebano, ecc.   2) — Sicché la proprietà si converte con ciò di cui è  proprietà, non cosi Taccidente con ciò di cui è accidente.   Esempio : c L'uomo ha la proprietà di ridere > si converte  in « Chi ride è l'uomo » ; ma « l'Etiope è nero » non si converte  in: «Chi è nero è l'Etiope», perchè anche il corvo, il carbone,  ecc. sono neri.   3) — Della proprietà si partecipa sempre egualmente, degli  accidenti in diversa misura.   Si è più 0 meno neri.    24. — Comparazione delV accidente con le altre quattro   voci.   a) — Accidente e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere  e accidente.   b) — Accidente e differenza   Furono già comparati quando si esaminarono Diffe-   renza e accidente.   c) — Accidente e specie   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Specie  e accidente.   d) — Accidente e proprietà   Or ora esaminati come Proprietà ed accidente.   L'Isagoge si chiude con Tosservazione che altri elementi  comuni o diversi tra le cinque voci oltre i già notati ci sono,  ma quelli notati bastano a distinguerli e ad intendere quel che  hanno di comune.   Tanto del primo quanto del secondo commento boe-  ziano abbiamo già esposto ciò che riguarda il celebre prologo  sulla realtà o meno degli universali.   Ci tocca ora dire qualche cosa sul complesso dei due com-  menti, che tanta autorità ebbero in tutto il Medio Evo, e tanto  contribuirono a dare alla mentalità delle nazioni di cultura  latina quella struttura rigorosamente logica che è rimasta loro  caratteristica.   Lo scopo da Boezio assegnato al primo commento è assai  semplice, giacché non va oltre la illustrazione del testo. Boezio  evita di accendere questioni, anche se il testo vi si presti. Solo  quando le obiezioni vengono cosi spontanee che non risolverle  vorrebbe dire non comprendere quel che dice Porfirio, solo  allora Boezio interviene per chiarire il pensiero delPautore, giu-  stificare le sue espressioni, e quindi, sgombrate le difficoltà,  tornare alla illustrazione del testo.   Dove Porfirio propone più classificazioni, Boezio cerca di  connetterle tra loro, in maniera da renderle più facilmente assi-  milabili al lettore. E dove Porfirio accenna appena a teorie  assai note fra gli studiosi, ma forse poco possedute dai princi-  pianti, Boezio interviene a rammentare tali teorie, e a trattarle,  sebbene compendiosamente, in modo da fornire al lettore princi-  cipiante, al quale il primo commento è diretto, le nozioni neces-  sarie per intendere il testo di Porfirio.   Così Boezio torna due volte sulla teoria della definizione, la  quale, facendosi per genus et differentianij è possibile solo per  gli individui (definiti entro la loro specie), per le specie (definite entro il loro genere!, e per i genej-i subalterni (definiti  entro il genere immediatamente superiore, fino ai generi gene-  ralissimi), ma non per i generi generalissimi, i quali, non avendo  nessun concetto più elevato sopra di sé, non possono essere  definiti, cioè determinati entro Pambito di un concetto più vasto.  Onde, non potendosi definire, possono solo descriversi, con Pin-  dicarne le proprietà. Un accenno, abbastanza ampio, è fatto da Boezio, come già  da Porfirio, alla teoria platonica della divisione, che da ciascun  genere generalissimo, mediante dicotomia, cioè divisione in due,  giunge fino alle specie specialissime.   Abbiamo già detto che Boezio cerca di rendere più evidente  il nesso che stringe talune classificazioni che Porfirio presenta  runa dopo l’altra, senza unificarle in un solo quadro comprensivo.  Questo avviene specialmente per le classificazioni che riguar-  dano le differenze.   Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze  in differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni,  tutte le differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi  stessi (tu cammini, io seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino);  'proprie le differenze individuali (capelli crespi, occhio cieco,  ecc.); rigorose^ le differenze che riguardano tutta la specie (ra-  gionevole, irragionevole, ecc.). Le quali ultime differenze sono  le differenze specifiche, con le quali si procede a dividere i  generi in specie. Ma questa prima classificazione può semplifi-  carsi quando si avverta che tanto le differenze comuni quanto  le proprie si limitano a rendere alterato il soggetto, mentre  solo le differenze specifiche lo rendono altro.   Si può dire dunque che le differenze si dividono in differenze  che rendono alterato il soggetto e differenze che lo rendono altro.   A questa prima classificazione Porfirio fa seguire la seconda;  le differenze sono o separabili o inseparabili. Questa seconda  classificazione si può collegare con la prima osservando che  solo le differenze comuni sono separabili (il sedere, il correre,  ecc. sono diff'erenze che non persistono, e sono quindi separabili  dal loro soggetto), mentre le differenze proprie e più proprie,  cioè quelle che riguardano l’individuo persistendo in lui e quelle  che riguardano l’intera specie, sono inseparabili (tanto un occhio  cieco quanto la ragionevolezza sono caratteri differenziali perma-  nenti, e quindi inseparabili dal soggetto che li possiede). Senon-  chè, di queste differenze inseparabili, le individuali o proprie alterano il soggetto, ma non lo rendono altro (la cecità altera  un uomo, ma lo lascia uomo), mentre le specifiche o più proprie  rendono altro il soggetto (la ragionevolezza rende Tuomo altro  dai bruti).   E inoltre, delle differenze inseparabili, le individuali sono  partecipate in misura diseguale, le specifiche sempre egualmente.  Ad esempio, i capelli biondi son carattere differenziale di indi-  vidui che sono Tuno più biondo, Taltro meno biondo; mentre  la ragionevolezza è carattere differenziale della intera specie  umana, i cui individui, in quanto sono uomini, sono tutti egual-  mente partecipi della ragione.   Terza classificazione è quella per la quale le differenze si  dividono in differenze divisive del genere e differenze costitutive  delle specie. Son le medesime differenze che, prese in modo  diverso, risultano una volta divisive del genere, un'altra costi-  tutive delle specie. Se prendiamo le differenze contrarie « ragio-  nevole e irragionevole > , esse dividono il genere «animale»;  e se, dopo, prendiamo le differenze contrarie « mortale e immor-  tale », esse dividono l'inferiore genere « animale ragionevole ».  Ma se prendiamo le differenze subalterne < ragionevole » (con-  cetto più ampio) e « mortale » (concetto restrittivo), queste  differenze subalterne costituiscono la specie dell'animale ragio-  nevole mortale, cioè dell'uomo.   Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo commento  boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente  nel secondo commento.   26. — Ma forse più di queste particolari delucidazioni, che  tuttavia contribuiscono alla elaborazione della salda logica  medievale, riesce interessante il breve schizzo che del sapere  del tempo Boezio premette al suo commento.   Nel dialogo filosofico che egli immagina si fa chiedere dal  giovane Fabio una illustrazione e prima una introduzione al-  l'Isagoge di Porfirio. L'introduzione indicherà delPIsagoge VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa germano; la ragione  del titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca. Sei punti,  dunque, tratterà Boezio, sulle orme di quel che già aveva fatto  il greco Ammonio nel suo commento alllsagoge.   \Jintenio è trattare del genere, della specie, delle differenze,  delle proprietà e degli accidenti.   futilità deirisagoge è anzitutto quella d’introdurre alle  Categorie di Aristotele, ma è anche più vasta.   Occorre, però, per intenderla, avere un chiaro concetto di  che sia la filosofia. Essa è amor di sapienza, che, non bisognosa  di nulla, « vivax mens et sola rerum primaeva ratio est >. E  questo amore di sapienza è illuminazione dello spirito che conosce  da parte di quella pura Sapienza, e in qualche modo è un richiamo  che questa fa deU’animo umano perchè torni ad essa, di maniera  che il desiderio di sapienza è desiderio e amore della divinità  e amore della pura mente divina.   È questa sapienza che riconduce alla forza e purezza natu-  rale le anime umane. Da essa nasce la verità delle specula-  zioni e dei pensieri e la santa e pura castità delle azioni. Il  che mena direttamente alla divisione della filosofia, che è il ge-  nere, in teoretica o speculativa, e pratica^ o attiva. (0 e II sono le  due lettere che spiccano su la veste della Filosofia nel Be Conso-  latione Philosophice). La teoretica, poi, ha tante parti quanti sono  gli oggetti che considera: si divide quindi in:   1) — Teologia o dottrina di ciò che è sempre uno e me-  desimo, fermo sempre nella sua divinità, non accessibile ai  sensi, ma solo alla mente ed all’intelletto: la quale specula-  zione studia Dio e la incorporeità dello spirito;   2) — Dottrina che si occupa di tutte le opere celesti del-  la suprema divinità, di ciò che nel mondo sublunare ha animo  più beato e sostanza più pura, ed infine delle anime umane:  tutte cose che, fatte di sostanza intelligibile, al contatto dei  corpi, da intelligibili divennero soltanto intelligenti, in maniera  che possono ora divenire più beate per purezza ed intelligenza  quando si volgano ed applichino alle cose intelligibili ;   3) — Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura  e le passioni dei corpi.   Di queste tre parti della filosofia teoretica la seconda è meri-  tamente collocata nel mezzo perchè ha da una parte Tani-  mazione e vivificazione dei corpi, dalFaltra la considerazione  e conoscenza delle cose intelligibili.   27. — Anche la filosofia pratica si divide in tre parti:   1) — VEtica^ che s’orna ed accresce di virtù, nulla am-  mettendo nella vita di cui non possa essere soddisfatta, e niente  facendo di cui debba pentirsi;   2) — la Politica, che assumendosi la cura dello Stato prov-  vede alla salvezza di tutti con la saldezza della sua 'preveg-  genza e prudenza, con Tequilibrio della giustizia, con la sal-  dezza della fortezza e la pazienza della temperanza;   3) — V Economia, che si occupa del buon andamento della  vita famigliare.   Alle quali parti già descritte della filosofia si aggiunge da  vicino queirarte che i Greci chiamano Logica: parte della filo-  sofia 0 suo strumento?   Boezio rimette la trattazione di questa questione ad una  altra opera, che è poi il secondo commento. Intanto osserva  che questa disputa sul genere, la specie, la differenza, la pro-  prietà e l’accidente prepara la via a tutto lo studio della filo-  sofia. Col dire cosa sia genere e cosa sia specie ci fa inten-  dere che la filosofia è genere, e teoretica e pratica sono specie.  Col dire cosa sia differenza, ci rende possibile di intendere se  la logica sia una specie della filosofia, differente, quindi,  dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci spiega la na-  tura propria di ciascuna differenza della filosofia. Col dire cosa  sia accidente ci guarda dal mettere tra le cose principali ciò  che è secondario. Cosi la conoscenza di queste cinque voci  spande i suoi rami in tutte le parti della filosofia.   Utile alla grammatica a cui insegna che il discorso è il ge-  nere e otto sono le sue parti o specie; utile alla retorica, a  cui permette di distinguere tre generi di causa, ciascuno diviso  in specie a seconda dei soggetti: utilissima alla logica, che  nulla potrebbe definire (per genere e differenza) se non sapesse  cos'è genere, cos’è specie, cos’è differenza, ecc. ; nulla potrebbe  dividere se non fosse guidata dalla conoscenza delle cose che  divide (i generi e le specie); e nulla potrebbe dimostrare giacché  la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si divide  o qualcos’altro mediante le cose che si son divise.   E l’Isagoge di Porfirio precede tutta la logica aristotelica,  perchè senza di essa non si intenderebbero la sostanza e i nove  accidenti di cui è parola nelle Categorie. Le quali voci signi-  ficative sono quelle di cui si compongono le proposizioni, di  cui si tratta nel « De interpretatione » . Le quali proposizioni  sono quelle di cui si compone il sillogismo, il cui ordine, la  cui struttura e le cui figure sono studiati negli « Analitici  Primi », perchè sia poi possibile studiare il sillogismo dialet-  tico nella « Topica * e il sillogismo dimostrativo negli « Ana-  litici Secondi » .   Cosi l’Isagoge di Porfirio è la base prima di tutta la logica  aristotelica.   28. — Come nel corso del primo commento non sono rare  le occasioni in cui Boezio è costretto a notare le imperfezioni  e le oscurità della versione di Mario Vittorino, cosi nel seconc^o  commento Boezio presenta una traduzione propria, che indubbia-  mente è assai più scorrevole e chiara dell’altra. La versione  è intercalata nella esposizione, che procede meno pedestr e che  nel primo commento, e che, specialmente nei primi fr a i cinque  libri, mostra un vigoroso proposito di rendere più robusta, più  rigorosa ed organica la trattazione porfiriana. Il secondo commento si inizia con alcuni paragrafi dedicati  alla filosofia in generale, alle sue parti, alle sue utilità, ecc.   Se la filosofia - dice Boezio - è il più alto bene degli animi,  converrà precisamente muovere dalle facoltà delFanima. Una  forza deH’anima è quella vegetativa, comune anche alle piante,  che non hanno sensi; un’altra è la sensitiva, che dove sorge  assume la prima come sua parte; una terza è la intellettiva,  che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche esplica  e conferma, con pieno atto di intelligenza, quel che Timmagi-  nazione sopperisce. La qual potenza della ragione si esercita  a indagare, anzitutto, se una cosa sia, poi che sia, poi quale sia,  infine perchè sia.   Ma, perchè il pensiero sia preservato dal pericolo di cadere  nel falso, occorre anzitutto una disciplina che, studiando le  maniere di disputare e gli stessi ragionamenti, possa additare  qual ragionamento risulti ora falso, ora vero, quale sempre falso  quale non mai falso. Della quale scienza - la logica - è duplice  l’uso nell’inventare e nel giudicare: topica e dialettica, trattate  entrambe da Aristotele, ma la prima trascurata dagli Stoici.   Ora, questa logica è una parte della filosofia o è solo il  suo strumento? - Quelli che la considerano parte della filosofia  ragionano così: delle proposizioni, dei sillogismi, ecc. solo la  filosofia si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma, delle  due grandi parti della filosofia, la speculativa che si occupa  delle cose naturali, e l’attiva che si occupa della morale, nessuna  tratta del discorso, dei giudizi, dei ragionamenti: dunque quella  disciplina filosofica che d’essi si occupa non può non essere  considerata una nuova parte della filosofia; donde la triparti-  zione di questa in: logica, fisica, etica. Coloro i quali invece so-  stengono che la logica sia strumento della filosofia, non sua parte,  osservano che questa scienza della ragione è diretta o a conoscere  le cose (fisica) o a trovare quei principi di morale che producono  la beatitudine. Dunque, essi, dicono la logica serve sempre o  alla fisica o all’etica. Boezio è del parere che le due teorie non si escludano a vicenda: niente vieta che la logica sia ad un  tempo parte e strumento della filosofia; parte in quanto ha  innegabilmente un fine proprio, distinto dalla fisica e daH’etica;  strumento in quanto, altrettanto innegabilmente, essa serve così  all’una come aH’altra. Del resto, nel nostro corpo, ciascun  organo è al tempo stesso parte e strumento : la mano rispetto  all’organismo intero è strumento; per sè, intanto, è parte.   29. — Ma veniamo allo scopo di questa introduzione porfi-  riana alle Categorie di Aristotele. Queste sono i dieci generi di  predicamenti: può intenderli dunque chi sappia che sia il genere.  Di ciascuno di essi si dànno varie specie (varie specie di so-  stanza, di qualità, ecc.): ed anche ciò presuppone si sappia che  sia specie, e che sia la differenza per la quale ciascuna specie  si allontana dall’altra e l’un genere dall’altro. Inoltre, ogni  genere ha le sue proprietà, mediante le quali può essere descritto.  E dei dieci predicamenti, nove sono accidenti. Donde la neces-  sità di saper bene che sia proprietà e che sia accidente per  intendere le Categorie aristoteliche.   Ma Porfirio spesso indica l’utilità della sua introduzione per  le definizioni, le divisioni e le dimostrazioni, oltreché, come già  si è visto, per l’intendimento delle Categorie aristoteliche. Per  le definizioni, perchè bisogna ben distinguere il genere prossimo  e la differenza specifica per fare una giusta definizione; per  la divisione in tutte le varie sue specie, giacché vanno distinte  divisioni dei concetti presi in sè stessi e divisioni accidentali.  Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono di tre ordini :   1 ) — divisione del genere nelle sue specie ;   2) — distinzione dei vari significati di una parola;   3) — partizione d’un tutto nelle sue varie parti. '   Le divisioni accidentali sono anche di tre ordini:   1) — divisione di un accidente secondo i soggetti che lo  ricettano ( c dei beni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo » )     2) — divisione di un soggetto secondo gli accidenti (« dei  corpi, taluni sono (bianchi, altri sono neri » ) ;   3) — divisione di un accidente secondo altri accidenti  ( « delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide, altre  molli >).   Per tutte queste divisioni occorre sapere che sia genere e  che sia differenza, quando luna parola abbia un significato solo  (univoca) e quando più significati (equivoca), e che sia una  parte e che una specie; occorre inoltre ben distinguere sostanze  ed accidenti.   Infine, Tintroduzione porfiriana è utile per le dimostrazioni,  giacché queste si fanno o da cose già note, o da cose conve-  nienti, 0 dalle prime cose, o dalla causa, o dalle cose connesse,   0 dalle cose inerenti. In ciascuno di questi casi bisogna sapere  che sia genere e che sia differenza, e che sia specie, giacché sono   1 generi quelli che sono anteriori per natura alle specie, e  quindi di esse più noti, e sono i generi e le differenze le cause  delle specie.   30. — Il secondo libro .tratta del genere con un manifesto  desiderio di porre più rigore nella trattazione .porfiriana, magari  rifacendosi da teorie più vaste, che sembrano essere presup-  poste da ciò che dice Porfirio. (Cosi, per esempio, per illustrare  i significati, che Porfirio espone, della parola genere, che si  riferisce a volte al progenitore da cui una gente deriva, a volte  al luogo da cui una gente proviene, Boezio richiama la celebre  dottrina aristotelica delle quattro cause, efficiente, materiale,  formale e finale, alle quali aggiunge due principi accidentali,  il luogo e il tempo. Quando si parla del genere dei Romani,  cioè dei discendenti da Romolo, si indica in costui la causa  efficiente della stirpe; quando invece si dice: «Pindaro Tebano»,  si indica in Tebe il luogo da cui Pindaro i proviene).   Boezio insiste ancora sulla differenza tra descrizione e defini-  zione: 'il genere non può essere definito, chè, per essere defi-    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    53    nito, dovrebbe avere un altro genere sopra di sè, e, quando  avesse un genere sopra di sè, sarebbe specie, non genere; sicché,  non potendo essere definito, il genere è descritto, cioè ne ven-  gono indicate le proprietà, che sono come i colori con i quali  si dipinge un quadro. L’intera teoria del genere, della differenza,  della specie, della proprietà e dell’accidente, è chiusa come in  un prospetto nelle seguenti classificazioni boeziane.    Ciò che si Ciò che si predica   predica di di più cose   una cosa sola |       S   ’o   'in   O ®   og O   ce 05  S  ce p!   ce    <e   •1-^   ' Ph   o   u   Ph    o   <v   Ph   m   'P —    ce ^    03   S   O -M   ■Tj ■  p P  ce P ■  cr  ^ cS   a ^      p   p   p   iJ}    OJ   co   a?   a;   pO   o   a   O)   G   *S   (p   o   S   *02   OO   ce    03   .3^ P  •'P P -  p cr    .2   P *o   p   ■| £• '   — xs ce   G 'P    ce P  np P  P P    U sé   ce N   .2 G   ’B ®   p 02  P m  — I a;    'p    03   rQ   O .P O   ■TP O  O (D   VP ce  ^ P. P  P    ce p    sostanzialmente accidentalmente    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    55    Boezio prosegue, poi, illustrando via via i passi poifìriani  che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni speciali, del  resto assai utili. (Per esempio : in che senso si dice che gli  uomini differiscono tra loro numericamente? - Nel senso che  si dice: « Socrate è un uomo, Platone è un altro uomo »).   31 — Il terzo libro tratta delle specie (e non prima della  differenza nonostante che la differenza, contenendo in sè più  specie, sia ad essa anteriore, perchè la specie è specie del  genere, come il genere è genere della specie, epperò vanno  studiati in connessione Puno con l’altra).   Le illustrazioni, per solito, non aggiungono nulla di nuovo.  Interessante può essere Patteggiamento di osseqio ad Aristotele  su le questioni delle dieci Categorie ; atteggiamento che è di  Porfirio e non viene mutato da Boezio. Nè i dieci predicamenti  possono ridursi tutti dXVente, perchè ente ha significati diversi  secondo che s’applichi alla sostanza, alla qualità, alla quantità,  ecc. Vale a dire è un nome di più significati, e non un genere  d’un significato solo.   Del resto, come ogni predicamento cosi ogni predicamento  è un predicamento ; sicché se ente fosse gen^ e, i dieci predi-  camenti avrebbero due generi: ente e uno\ e ciò è assurdo,  perchè non si può appartenere a più di un genere.   32. — Il quarto libro tratta della differenza, ripetendo lo  sforzo, visibile già nel primo commento, di dare organicità ed  unità alla trattazione porfiriana dell’argomento col connettere  insieme le varie classificazioni, tutte svolte da una distinzione  fondamentale, tra differenze sostanziali e differenze accidentali,  e col condannare più risolutamente di Porfirio quelle defini-  zioni che « idem per idem definiunt » quando dicono che < dif-  ferenza è ciò per cui una cosa differisce da un’altra», e che  non precisano davvero cosa sia differenza quando la definiscono  «ciò per cui una cosa dista da un’altra», potendosi una cosa    allontanare da un'altra per qualità del tutto accidentali che  non costituiscono diiferenze in senso proprio.   Il medesimo quarto libro tratta anche della proprietà, ri-  spetto alla quale osserva che, se Tessere di una cosa è espressa  dal suo genere, dalla sua differenza e dalla sua specie, le sue  proprietà non costituiscono la sua sostanza, ma qualcosa di ac-  cidentale, sebbene si chiamino proprietà, e che quando Porfirio  distingue proprietà di quattro sorte, non intende enumerare  quattro specie del genere proprietà, ma indicare i quattro si-  gnificati diversi nei quali si parla di proprietà.   Il quarto libro tratta infine delTaccidente, condannando, più  di Porfirio, la distinzione puramente negativa, per la quale « ac-  cidente è ciò che non è nè genere, nè differenza, nè speqie, nè  proprietà » .   33. — Il quinto libro illustra la comparazione che Porfirio  istituisce tra le cinque voci senza alcuna particolare osserva-  zione.   Notevole è tuttavia che Boezio non lascia passare la divi-  sione porfiriana delTanimale razionale in animale razionale  mortale (Tuomo) e animale razionale immortale (Dio) senza  notare che ciò si poteva dire quando si ritenevano il Sole e gli  altri corpi celesti animati e divini.   34. — Su questi testi si chinarono, per generazioni e generazioni, gli uomini del medioevo, come su libri di profondis-  sima sapienza. Se TEuropa uscì dal medioevo cosi fortemente  razionalistica, essa s'era fatta la sua potente quadratura logica  meditando su questi ultimi fra gli antichi, lungamente vene-  rati e studiati.  Grice: “I like Guzzo. For one, he spent a tutorial or two on the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s latinizing Porphyry!” Augusto Guzzo. Guzzo. Keywords: pagine di filosfi per i giovani italiani; il Vico di Guzzo, il Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile, Gli hegeliani d’Italia, Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato, Biblioteca Italiana di Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del principio e del uno, dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova per giovani italiani dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755357414/in/dateposted-public/

 

Grice e Hösle – l’intersoggetivo di Vico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Hösle – for one, he helped me understand Vico when stating that what Vico is after is a ‘science of the inter-subjective world;’ since I’m also into that I suppose I am Vico!” – Figlio di Johannes Hösle, direttore del Goethe Institut, e Carla Gronda –, vero «enfant prodige» della filosofia, precoce e profondo conoscitore delle lingue antiche (greco, latino, sanscrito, ma anche pali e avestico) e di numerose lingue occidentali (ne parla sette ed è in grado di leggerne dodici). Si laura con la tesi “Verità e storia: uno studio sulla struttura della storia della filosofia sulla base di un'analisi paradigmatica dell'evoluzione da Parmenide di Velia a Platone” (Milano, Guerini e Associati, A. Tassi, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Hegeliana). Alla «scoperta» di Hösle contribuì in modo determinante l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che lo chiamò a Napoli. Imposta in maniera originale il problema dei rapporti tra dimensione sistematica (unita latitudinale) e dimensione storica (unita longitudinale) della filosofia, analizzando lo sviluppo da Parmenide di Velia a Platone.  In “Il compimento della tragedia nell'opera tarda di Sofocle: un’osservazione storico-estetica” (A. Gargano, Napoli, Bibliopolis, Memorie dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) combina l'approccio estetico con l'approccio filosofico, cerca di individuare una logica di sviluppo nella storia della tragedia e, in contrasto con l'approccio consueto, considera Sofocle come il compimento sintetico di questa storia. Il pensiero fondamentale espresso nell'opera tarda di Sofocle è sintesi dei principi che sono alla base dell'arte di Eschilo e di Euripide, principi che vengono fatti valere insieme da Sofocle e così portati alla loro verità".  Alievo di Toth, si occupa anche del problema della matematica in Platone (“ I fondamenti dell'aritmetica e della geometria in Platone” – Milano, tr. E. Cattanei, Vita e pensiero). In “Interpretare Platone” (Milano, Guerini e Associati, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici),  e in “Il dialogo filosofico. Poetica di un genere” analizza il genere del dialogo mettendo in connessione il punto di vista filosofico con il punto di vista letterario. Al problema della tragedia è dedicato “La gerarchia dei tragici).  A Napoli tenne una serie di seminari sull'idealismo (“Lo Stato in Hegel”, La città del Sole). La riflessione sull'idealimo si sviluppa in stretta connessione colla "fondazione ultima riflessiva" e con la soluzione fornita a tale problema dalla pragmatica trascendentale. L'unica alternativa consistente al relativismo scettico, dominante nel panorama della filosofia contemporanea ed assurto oggi ad una sorta di principio dell'opinione pubblica, consiste nell'impostazione riflessiva presente negli idealisti, che è necessario sviluppare. Alla “pragmatica” trascendentale va riconosciuto il merito di aver riproposto la "fondazione ultima riflessiva". Tale fondazione va ripensata nella sua portata ontologica, superando il formalismo nella direzione di una formulazione ri-elaborata dell'idealismo (“La fondazione dell'idealismo” – Milano, Guerini e Associati, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Hegeliana). Della pragmatica trascendentale, in relazione al problema di questa “fondazione ultima riflessiva” Hösle torna in “La crisi della contemporaneità e la responsabilità della filosofia”. Apel viene analizzato all'interno delle più importanti tendenze della filosofia contemporanea, viene esposta in modo dettagliato la "prova" della fondazione ultima riflessiva ("prova apagogica") e vengono discussi questioni relative al linguaggio privato, alla controversia “spiegare-comprendere e alla fondazione dell'etica. Cura “La Scienza nuova” di Vico, compito affidatogli dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. La cura è preceduta da “Introduzione a Vico: l’inter-soggetivo” (Milano, Guerini, Istittuo Italiano per gli Studi Filosofici).  -- una introduzione filologica e teoretica in cui Hösle illustra il significato della concezione vichiana per una teoria delle scienze della cultura filosoficamente fondata. La rilessione culmina nella ri-formulazione dell'idealismo: “L’intersoggettivo” (Napoli, La Scuola di Pitagora). Sostiene che l'aporia di Hegel consiste nell'aver tras-curato l’inter-soggetivo nella logica, la parte fondativa del Sistema. Qesta lacuna comporta un grave squilibrio nella struttura complessiva del sistema, in particolare, nel concetto dello spirito oggettivo e nel concetto dello spirito assoluto, che restano scoperte sul piano logico, senza un co-rispettivo categoriale in grado di fondare la struttura inter-soggettiva di cui trattano. Questa aporia è alla radice di sub-aporie come, ad esempio, l'appiattimento del “dover-essere” sull'”essere” con la conseguente visione passatista e la questione della conclusione del sistema. Cerca di mostrare come l'idea fondamentale dell'idealismo sia indispensabile sia per fondare in modo rigoroso il“discorso” sia per superare la scissione tra scienze della natura e scienze dello spirito che caratterizza in modo aporetico il pensiero moderno e contemporaneo, promossa dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e per "La scuola di Pitagora", è uscita una Postfazione. Sposta la sua riflessione dalla "filosofia prima" alla "filosofia seconda", occupandosi di problemi morali e politici, tra cui ha un posto di rilievo la questione dell'ecologia (“Filosofia della crisi ecologica” – Torino, Einaudi). I suoi studi delle moderne scienze sociali, politologia ed economia soprattutto, sono poi confluiti “Morale e politica. Fondamento di un'etica politica”. Vanno ricordati, innanzi tutto, i lavori sul significato filosofico della teoria dell'evoluzione (“Portata e limiti della teoria evoluzionistica della conoscenza” – Napoli, La Città del Sole). Saggi: “Aristotele e il dinosauro” (Torino, Einaudi); “Sulla comicità” a riprova del costante interesse nutrito per le forme d'arte, come il teatro e il cinema, in cui l'inter-soggettività -- la categoria centrale della sua riflessione -- gioca un ruolo determinante. “Il concetto di filosofia della religione” (Napoli, La Scuola di Pitagora); “La legittimità del politico” (Milano, Guerini, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici); “Per una lettura non riduttiva di Platone” (Napoli, La scuola di Pitagora).  VITTORIO G. HÖSLE Personal Address 712 Forest Avenue South Bend, Indiana 46616 574-288-3547 • Eberhard Karls Universität Tübingen; Habilitation (accredited as an University Lecturer), January 1986; Philosophy. Habilitationsschrift: „Subjektivität und Intersubjektivität. Untersuchungen zu Hegels System“ • Eberhard Karls Universität Tübingen; Ph.D. summa cum laude, May 1982; Major: Philosophy; First Minor: Indology; Second Minor: Greek; Dissertation: “Wahrheit und Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Platon“ • Albert Ludwigs Universität Freiburg, 1981 • Ruhr Universität Bochum, 1980 • Eberhard Karls Universität Tübingen, 1978-1979 • Universität Regensburg, 1977-1978 Academic Books 1. Che cosa sono le scienze umane e a quale scopo si studiano, La scuola di Pitagora: Napoli 2017, 73 p. (=Italian translation of paper 4) 2. PerunaletturanonriduttivadiPlatone,LascuoladiPitagora:Napoli2017,111p. (=Italian translation of papers 59 and 60 with Franz von Kutschera’s reply) 3. Russland1917-2017.Kultur,SelbstbildundGefahr,Schwabe:Basel2017,103p. (=Reflexe 51) (=contains papers 7, 8, 12, 101) 4. EricRohmer.FilmmakerandPhilosopher,Bloomsbury:London2016,XVIII+194 p. 4a. Eric Rohmer, Regisseur und Philosoph der erotischen Liebe, appears Wilhelm Fink Verlag: Paderborn 2017 5. Idealismusheute.AktuellePerspektivenundneueImpulse,ed.by.V.HösleandF. Current Address University of Notre Dame Department of German and Russian Languages and Literatures 318 O’Shaughnessy Hall Notre Dame, IN 46556 574-631-5121 vhosle@nd.edu 08/24/2016    Education and Professional Qualifications Publications 1-VH  8/9/17 Suarez Müller, Wissenschaftliche Buchgesellschaft: Darmstadt 2015, 312 p. 6. Forms of Truth and the Unity of Knowledge, ed. by V. Hösle, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2014, 356 p. 7. Dantes Commedia und Goethes Faust: Ein Vergleich der beiden wichtigsten philosophischen Dichtungen Europas, Schwabe: Basel 2014 (=Reflexe 35), 76 p. (=extendend German version of paper 27) 8. ZurGeschichtederÄsthetikundPoetik,Schwabe:Basel2013(=Reflexe28),102 p. (contains papers 20, 29, 32) 9. Dimensions of Goodness, ed. by V. Hösle, Cambridge Scholars Publishing: Newcastle upon Tyne 2013, 441 p. 10.The Many Faces of Beauty, ed. by V. Hösle, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2013, VIII + 501 p. 11.God as Reason, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2013 (contains papers 24, 31, 36, 50, 58, 65, 71, 91, 94, 97, 98, 122, 133), XVI + 407 p. 12. Eine kurze Geschichte der deutschen Philosophie. Rückblick auf den deutschen Geist, C.H.Beck: München 2013, 320 p. 12a. Dokil Chulhaksa - Dokil Jeunghshinun Jonjaehanunga, Eco Livres: Seoul 2015, 437 p. (=Korean translation of 12) 12b. A Short History of German Philosophy, Princeton University Press: Princeton 2017, XXII + 275 p. (=English translation of 12) 12c. Chinese translation of 9, appears Bookzone Publishing Corporation Beijing 2017 13. Die Vernunft an der Macht. Ein Streitgespräch zwischen Boris Groys und Vittorio Hösle, ed. by L. Di Blasi and M. Jongen, Turia+Kant: Wien 2011, 110 p. 13a. La razón al poder, Pre-textos: Valencia 2014, 114 p. (=Spanish translation of 13) 14.The Idea of a Catholic Institute for Advanced Study, ed. by V.Hösle and D.L. Stelluto (Notre Dame 2010), 137 p. 15. Die Rangordnung der drei griechischen Tragiker. Ein Problem aus der Geschichte der Ästhetik als Lackmustest ästhetischer Theorien, Schwabe: Basel 2009 (= Jacob Burckhardt-Gespräche auf Castelen 24), 121 p. 16.Der philosophische Dialog. Eine Poetik und Hermeneutik, C. H. Beck Verlag, München 2006, 494 p. 16a. The Philosophical Dialogue, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2012, XX + 500 p. (=English translation of 16) 16b. Korean translation of 16, appears Eco livres: Seoul 2018 2-VH  8/9/17 17. Darwinism and Philosophy, ed. by V. Hösle and Ch.Illies, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2005, 392 p. 18.Platon interpretieren, Ferdinand Schöningh: Paderborn 2004, 165 p. (contains papers 56, 81, 87, 153, 155) 18a. Interpretare Platone, Guerini e Associati: Milano 2007, 228 p. (=Italian translation of papers 56, 69, 72, 81, 87) 18b. Interpretar Platão, Edições Loyola: São Paulo 2008, 243 p. (=Portuguese translation of 18) 19.Logik Mathematik und Natur im objektiven Idealismus. Festschrift für Dieter Wandschneider, hg. von W.Neuser und V.Hösle unter Mitwirkung von R.Brassl und in Verbindung mit dem Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004, 324 p. 20. Philosophie und Öffentlichkeit, Königshausen&Neumann, Würzburg 2003, 141 p. (contains papers 63, 77, 83, 84, 89, 100, 110, 119, 121 and the article for newspapers 22) 21. Metaphysik, hg. von V.Hösle, Frommann-Holzboog: Stuttgart-Bad Cannstatt 2001, 222 p. 22.Nachhaltigkeit in der Ökologie. Wege in eine zukunftsfähige Welt, hg. von L. di Blasi, B.Goebel und V.Hösle, C.H.Beck Verlag: München 2001 (=Beck’sche Reihe 1435), 289 p. 23.Woody Allen. Versuch über das Komische, C.H.Beck Verlag: München 2001 (=German translation of paper 93), 128 p.; dtv: München 2005. 23a. Woody Allen. Filosofía del humor, Tusquets Editores: Barcelona 2002, 135 p. (=Spanish translation of 23) 23b. Woody Allen. An Essay on the Nature of the Comical, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2007, XII + 96 p. (=enlarged English original) 24.Die Aufgaben der Philosophie heute, hg. von V.Hösle, P.Koslowski, R.Schenk, Passagen Verlag: Wien 1999, 86 p. 25.Darwin (together with Ch.Illies), Herder: Freiburg/Basel/Wien 1999 (=Spektrum 4760), 190 p., C. C. Buchner: Bamberg 2005, 159 p. 26.Die Philosophie und die Wissenschaften, C.H.Beck Verlag: München 1999 (= Beck’sche Reihe 1309), 236 p. (contains papers 96, 97, 98, 103, 104, 135, 139) 26a. 21saegiui gaeggoanjongoannyomron, Eco livres: Seoul 2007, 317 p. (=Korean translation of papers 64, 74, 79, 83, 86, 104, 106, 139) 27. R.Llull, Lo desconhort/Der Desconhort, auf Grundlage der Ausgabe von J.Romeu i Figueras und einschließlich der Varianten der Ausgabe von A.Pagès übersetzt und 3-VH  8/9/17 mit einer Einleitung versehen von J. und V.Hösle, Wilhelm Fink Verlag: München 1998 (=Klassische Texte des Romanischen Mittelalters in zweisprachigen Ausgaben), 128 p. 28.Objective Idealism, Ethics and Politics, University of Notre Dame Press: Notre Dame 1998 (paperback)/ St. Augustine’s Press: South Bend 1998 (cloth), VIII+227 p. (contains papers 103, 110, 114, 115, 116, 123, 132, 136, 140, 141) 29.Moral und Politik. Grundlagen einer Politischen Ethik für das 21. Jahrhundert, C.H.Beck Verlag: München 1997, special edition 2000, 1216 p. 29a. Morals and Politics, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2004 (=English translation of 29), XXI + 991 p. 29b. Об отношении морали и политики, in: ΠΟΛΙΣ Nr. 4/2013, 45-61 and Nr. 6/2013, 145-159 (=Russian translation of the second chapter of 26) 29c. Chinese translation of five lectures on the basis of „Morals and Politics“ with the replies of colleagues, appears SDX Joint Publishing: Beijing 2017; complete Chinese translation appears Commercial Press: Shanghai 2019 29d. Korean translation of 29, appears Eco livres 30.Portata e limiti della teoria evoluzionistica della conoscenza, La Città del Sole: Napoli 1996, 66 p. (=Italian translation of paper 139) 31. Philosophiegeschichte und objektiver Idealismus, C.H.Beck Verlag: München 1996 (= Beck’sche Reihe 1159), 277 p. (contains papers 109, 120, 122, 125, 131, 133, 136, 152) 32. Entwicklung mit menschlichem Antlitz. Die Dritte und die Erste Welt im Dialog, hg. von K.Leisinger und V.Hösle, C.H.Beck Verlag: München 1995, 264 p. 33. Contro lo scetticismo per la filosofia, La Città del Sole: Napoli 1994, 53 p. (contains papers 126, 142 and various articles and interviews in Italian newspapers) 34. I fondamenti dell’aritmetica e della geometria in Platone, Introduzione di G.Reale, Vita e pensiero: Milano 1994 (=Pubblicazioni del centro di ricerche di metafisica), 160 p. (=enlarged Italian translation of the papers 153 and 155) 35. Гении фнлософии нового времени, Nauka: Moskau 1992, 21995, 224 p. 36. Praktische Philosophie in der modernen Welt, C.H.Beck Verlag: München 1992, 21995 (=Beck’sche Reihe 482), 216 p. (contains papers 118, 123, 124, 127, 130, 132, 140) 36a. El tercer mundo como problema filosófico y otros ensayos, CEJA: Bogotá 2003, 141 p. (=Spanish translation of papers 75, 123, 127, 132 as well as a Spanish interview) 36b. Практична філософія в сучасному світі, Libra: Kiev 2003, 247 p. (=Ukrainian 4-VH  translation of 36) 37. Philosophie der ökologischen Krise. Moskauer Vorträge, C.H.Beck Verlag: München 1991, 21994 (=Beck’sche Reihe 432), 155 p. 37a. Filosofia della crisi ecologica, Giulio Einaudi editore: Torino 1992 (=Einaudi Contemporanea 11), 171 p. (=Italian translation of 37) 37b. Филосфия и экология, Nauka: Moskau 1993, 21994, 205 p. (=Russian translation of 37) 37c. Filozofija ekološke krise, Zagreb 1996 (=Croatian translation of 37) 37d. Science, Philosophy and Culture 14 (1995), 200-225 (=Korean translation of the second chapter of 37); Hwangyong ûigiui cholhag, Sogang University Press: Seoul 1997, 197 p. (=Korean translation of 37) 37e. Economie en ecologie, in: K.-O.Apel e.a., Het discursieve tegengif, Kampen 1996, 88-119 (=Dutch translation of the fourth chapter of 37) 37f. Les fondements culturels et historiques de la crise écologique, in: Laval théologique et philosophique 63 (2007), 385-406 (=French translation of the second chapter of 37); Philosophie de la crise écologique, Éditions Wildproject: Marseille 2009, 251 p.; paperback edition Payot & Rivages, Paris 2011, 223 p. (=French translation of 37) 37g. Los fundamentos histórico-espirituales de la crisi ecológica, in: Eikasia 75 (Agosto 2017), (online) (=Spanish translation of the second chapter of 37) 38. Hegel e la fondazione dell’idealismo oggettivo, Guerini e Associati: Milano 1991 (=Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Hegeliana 1), 208 p. (=Italian translation of the paper 141 as well as Italian lectures on the basis of “Hegels System”) 38a. L’idealisme objectif, Les editions du cerf: Paris 2001, 124 p. (=French translation of paper 141) 38b. Geggoanchok goannyomrongoa gugungochisgi, Eco lives : Seoul 2005, 119 p. (=Korean translation of paper 141) 39. Die Krise der Gegenwart und die Verantwortung der Philosophie. Transzendentalpragmatik, Letztbegründung, Ethik, C.H.Beck Verlag: München 1990, 21994 (=Ethik im technischen Zeitalter 1), 31997 (=Beck’sche Reihe 1174), 287 p. 39a. La crise du présent et la résponsabilité de la philosophie, Théétète editions: Nîmes 2004, 302 p. (=French translation of 39) 39b. Tagadnes krîze un filozofijas atbildîba, LU: Riga 2011, 364 p. (=Latvian translation of 39) 39c. Hyondeui uigiwa cholhagui chaegim (=Korean translation of 39), b Books: Seoul 2014, 400 p. 40. La legittimità del politico, Guerini e Associati: Milano 1990 (=Istituto Italiano per gli 5-VH 8/9/17  8/9/17 Studi Filosofici. Saggi 7), 87 p. (=Italian translation of the papers 136 and 143) 41.Giambattista Vico, Prinzipien einer neuen Wissenschaft über die gemeinsame Natur der Völker, übs. von V.Hösle und Ch.Jermann und mit Textverweisen von Ch.Jermann, mit einer Einleitung „Vico und die Idee der Kulturwissenschaft“ von V.Hösle (p. XXXI-CCXCIII), Felix Meiner Verlag: Hamburg 1990 (=Philosophische Bibliothek 418a/b), 2 Bde., CCXCIII+628 p. 41a. Introduzione a Vico. La scienza del mondo intersoggettivo, Guerini e Associati: Milano 1997 (=Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Saggi 28), 252 p. (=Italian translation of the introduction to 41) 41b. Vico’s New Science of the Intersubjective World, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2016, XVI + 266 p. (=enlarged English translation of the introduction to 41) 42. Die Rechtsphilosophie des deutschen Idealismus, in Verbindung mit dem Istituto Italiano per gli Studi Filosofici hg. von V.Hösle, Felix Meiner Verlag: Hamburg 1989 (=Schriften zur Transzendentalphilosophie 9), 163 p. 43. Hegels System. Der Idealismus der Subjektivität und das Problem der Intersubjektivität, 2 Bde., Felix Meiner Verlag: Hamburg 1987, Studienausgabe 1988, 21998 (with license edition Wissenschaftliche Buchgesellschaft Darmstadt), XLII+709 p. 43a.Il concetto di filosofia della religione in Hegel, La Scuola di Pitagora: Napoli 2006, 128 S. (=Italian lectures on the basis of Ch. 8.2. of 43); Il sistema di Hegel, La Scuola di Pitagora: Napoli 2012, 822 p. (=Italian translation of 43) 43b.O sistema de Hegel. O idealismo da subjetividade e o problema da intersubjetividade, Edições Loyola: São Paulo 2007, 802 p. (=Portuguese translation of 43) 43c. Iesulun chinchongchōngonul gōhessnunga?, in: Iesului chūkumgōa būhōal, ed. by M.Kim und D.Kūon, Seoul 2004, 173-238 (=Korean translation of Ch. 8.1. of 43); Hegelui chaegae, Vol. 1, Hangilsa: Seoul 2007 (=Hangil Great Books 88), 587 p. (=Korean translation of Ch. 1-4 of 43); Vol. 2 in preparation 44. Raimundus Lullus, Die neue Logik. Logica Nova, textkritisch hg. von Ch.Lohr, übs. von V.Hösle und W.Büchel, mit einer Einführung von V.Hösle (p IX-LXXXII, LXXXVII-XCIV), Felix Meiner Verlag: Hamburg 1985 (=Philosophische Bibliothek 379), XCIV+317 p. 45. Die Vollendung der Tragödie im Spätwerk des Sophokles. Ästhetisch-historische Bemerkungen zur Struktur der attischen Tragödie, Frommann-Holzboog: Stuttgart- Bad Cannstatt 1984 (=problemata 105), 181 p. 45a. Il compimento della tragedia nell’opera tarda di Sofocle. Osservazioni storico- estetiche sulla struttura della tragedia attica, Bibliopolis: Napoli 1986 (=Memorie dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici 16), 216 p. (=Italian translation of 45) 46.Wahrheit und Geschichte. Studien zur Struktur der Philosophiegeschichte unter 6-VH  8/9/17 paradigmatischer Analyse der Entwicklung von Parmenides bis Platon, Frommann-Holzboog: Stuttgart-Bad Cannstatt 1984 (=Elea 1), 774 p. 46a. Verità e storia. Studi sulla struttura della storia della filosofia sulla base di un’analisi paradigmatica dell’evoluzione da Parmenide a Platone, Guerini e Associati: Milano 1998 (=Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Hegeliana 24), 484 p. (=Italian translation of 46, however, according to my desire, without part 3 and with paper 120) Books for a broader public 1. Mein Onkel, der Latinist und Weltrevolutionär. Ein Nachruf auf Mario Geymonat, Allitera: München 2013, 88 p. 2. Nora K./V.Hösle: Das Café der toten Philosophen. Ein philosophischer Briefwechsel für Kinder und Erwachsene, C.H.Beck Verlag: München 1996, 21996, 31997, Special edition 1998, 22001 (=Beck’sche Reihe 4017; 1448), 256 p. 2a. Het meisje en de filosoof, Bert Bakker: Amsterdam 1997, Ooievaar: Amsterdam 1998, 221 p. (=Dutch translation of 2) 2b. Cholhagi algosipojo, Munhak Sasang: Seoul 1997, 21998, 300 p. (=Korean translation of 2); Chugin Cholhakchadurui khaphe, Woongjin: Seoul 2007, 320 p. (=revised Korean translation of 2) 2c. O Café dos Filósofos Mortos, Círculo de Leitores: Lisboa 1997, Temas e Debates: Lisboa 1997, 232 p. (=Portuguese translation of 2) 2d. El Café de los filósofos muertos, Grupo Anaya: Madrid 1997, 21998, 31999, 42001, 269 p. (=Spanish translation of 2) 2e. El Café dels filósofs morts, Editorial Barcanova: Barcelona 1997, 267 p. (=Catalan translation of 2) 2f. Aristotele e il dinosauro, Einaudi: Torino 1999, 225 p. (=Italian translation of 2) 2g. ..., Kawade Shobo Sinsha: Tokyo 1999, 267 p. (=Japanese translation of 2) 2h. The Dead Philosopher’s Café, University of Notre Dame Press: Notre Dame 2000, 166 p. (=English translation of 2) 2i. Ölü filozoflar kahvesi, Arion Yayinevi: Istanbul 2000, 224 p. (=Turkish translation of 2) 2j. ..., Athena Press: Taipeh 2001, 22001, 312 p. (=Taiwanese translation of 2) 2k. O Café dos Filosofos Mortos, Editora Angra: São Paulo 2001, 268 p. (=Brazilian- Portuguese translation of 2) 2l. ..., Shanghai Bertelsmann: Shanghai 2001, 302 p. (=Chinese translation of 2) 2m. Das Café der toten Philosophen. Minum kopi bersama Arwah Para Filosof dari Sokrates hongga al-Ghazali, Tannenbaum: Bekasi 2007, 278 p. (=Indonesian translation of 2) 2n. Mahfele filsoofane khamosh, Hermes: Teheran 1387/2008, 31392/2013, 286 7-VH  p. (=Persian translation of 2) Articles 1. Principles of morals, 2. Neoplatonic Philosophy of Mathematics, appears in: Handbook of Neoplatonism, ed. by Ch. Wildberg, Oxford 2018 3. 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Über Selbstliebe und Anforderungen an sich selbst, in: Information Philosophie 4/2014, 8-20 as well as, under the title “Unbedingte Verpflichtung und Eudämonismus. Idealität und Realität in der  natural law, and politics in dealing with refugees, appears  in a volume edited by J. Althammer 8-VH 8/9/17  Ethik,” in: Idealismus heute, ed. by V. Hösle and F. Suarez-Müller, Wissenschaftliche Buchgesellschaft: Darmstadt 2015, 254-270. 15. How did Western culture subdivide its various forms of knowledge? Historical reflections on the metamorphoses of the tree of knowledge, in: Forms of Truth and the Unity of Knowledge, ed. by V. Hösle, Notre Dame 2014, 29-69; German translation appears in: Objektiver und absoluter Geist nach Hegel, ed. by A. Kok and T. Oehl, Leiden/Boston 2017. 16.Charismatiker, Genie, Prophet und dynamischer Unternehmer. Zum inneren Zusammenhang der Elemente einer Begriffsfamilie, in: Scheidewege 43 (2013/14), 388-403 17. Philosophie als Beruf, in: Vereinigung der Schweizerischen Hochschuldozierenden Bulletin 39 (3/4), November 2013, 21-28 18. The Search for the Orient in German Idealism, in: Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft 163 (2013), 431-454 19. Can a plausible story be told of the history of ethics? An alternative to MacIntyre’s After Virtue, in: Dimensions of Goodness, ed. by V. Hösle, Newcastle upon Tyne 2013, 113-148; Portuguese translation in: Síntese 39/125 (2012), 345-378; German translation in: Vermisste Tugend? Zur Aktualität der Philosophie Alasdair MacIntyres, ed. by M. Kühnlein and M. Lutz- Bachmann, Berlin 2015, 39-96 20. Historical evolution of aesthetic theories, in: The Many Faces of Beauty, ed. by V. Hösle, Notre Dame 2013, 277-301 21.Why does the environmental problem challenge ethics and political philosophy?, in: Selected Papers from the XXII World Congress of Philosophy, ed. by M.-H. Lee (=Journal of Philosophical Research, Special Supplement), Charlottesville 2012, 279-292 22.Neun Reduktionismen in der Hermeneutik als Vereinseitigungen der Momente des Verstehensprozesses, in: Reduktionismen und Antworten der Philosophie, ed. by W. Grießer, Würzburg 2012, 175-194; English translation in: Understanding Fiction. Knowledge and Meaning in Literature, ed. by J. Daiber, E. Konrad, T. Petraschka and H. Rott, Münster 2012, 220-237 23. Reversals in Clint Eastwood’s Gran Torino (together with Mark Roche), in: Religion and the Arts 15 (2011), 648-679 24. Why teleological principles are inevitable for reason. Natural theology after Darwin, in: Biological Evolution: Facts and Theories, ed. by G. Auletta, M.Leclerc, and R.A. Martinez, Rome 2011, 433-460; German translation in: Post-Physikalismus, ed. by M. Knaup, T.Müller and P. Spät, Freiburg/München 2011, 271-305 as well as in: Evolutionstheorie und Schöpfungsglaube, ed. by H.Ph. Weber and R. 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Poetische Poetiken in der Antike: Horaz‘ „Ars poetica“ und Pseudo-Longinos‘ Περι υψους, in: Poetica 41 (2009), 55-74 33. Soziobiologie, in: Handbuch Anthropologie. Der Mensch zwischen Natur, Kultur und Technik, ed. by E.Bohlken and Ch.Thies, Stuttgart/Weimar 2009, 242-249; English translation in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 16/1 (2012), 112-128 34. Ich kann immer noch nicht anders als kompatibilistisch zu denken, in: Erwägen – Wissen – Ethik 20 (2009), 34-37 35. Inwieweit ist man dafür verantwortlich, sich über sich selbst zu informieren? Moral- und rechtsphilosophische Reflexionen im Zusammenhang mit der Aids- Pandemie, in: HIV/AIDS – Ethische Perspektiven, ed. by S. Alkier and K. Dronsch, Berlin/New York 2009, 13-35 36. Eine metaphysische Geschichte des Atheismus, in: Deutsche Zeitschrift für Philosophie 57 (2009), 319-327; English translation in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 14/1 (2010), 52-65; Hungarian translation in: Mérleg 46 (2010), 216-228 37. Did the Greeks deliberately use the Golden Ratio in an Artwork? A Hermeneutical Reflection, in: La Parola del Passato 63 (2008), 415-426 38. The Lost Prodigal Son’s Corporal Works of Mercy and the Bridegroom’s Wedding. The Religious Subtext of Charles Dickens’ Great Expectations, in: 10-VH  8/9/17 Anglia 126 (2008), 477-502; enlarged German translation in: Habitus fidei – Die Überwindung der eigenen Gottlosigkeit, hg. von J. Alberg und D. Köder, Paderborn 2016, 311-339 39. Variationen, Korollarien und Gegenaphorismen zum zweiten Band der “Escolios a un texto implícito” von Nicolás Gómez Dávila, in: Kritische Theorie zur Zeit. Für Christoph Türcke zum sechzigsten Geburtstag, ed. by O.Decker and T.Grave, Springe 2008, 94-108; Italian translation in: Nicolás Gómez Dávila e la crisi dell’Occidente, ed. by F.Meroi and S. 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Ein kooperativer Kommentar zu einem Schlüsselwerk der Moderne, ed. by K.Vieweg und W.Welsch, Frankfurt 2008, 627-654 44. Der Geist als Nostalgiker des Lebens. Was verbindet und was unterscheidet Grillparzers „Sappho“ und Manns „Tonio Kröger“?, in: Zeitschrift für deutsche Philologie 127 (2008), 177-198 45. Scheitern angesichts der Umweltvergiftung. Ein Vergleich von Henrik Ibsens En Folkefiende und Wilhelm Raabes Pfisters Mühle, in: Wirkendes Wort 58 (2008), 27-51 46. De eenheid van het weten en de werkelijkheid van de universiteit, in: Nexus 50 (2008), 677-688; German original in: Scheidewege 39 (2009/10), 43-57 47. Cicero’s Plato, in: Wiener Studien 121 (2008), 145-170 48. Pre-established harmony between parental and free choice of the partners. Masked encounters in Ludvig Holberg’s Mascarade, Carlo Goldoni’s I Rusteghi, and Georg Büchner’s Leonce und Lena, in: Komparatistik 2007, 145- 163 49. Apologie der Postmoderne, in: Kritik der postmodernen Vernunft. 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Wie sollte eine synthetische Platondarstellung aussehen? Einige Überlegungen angesichts von Kutscheras neuer Platonmonographie, in: Philosophiegeschichte und Logische Analyse 9 (2006), 175-211 60. Erwiderung auf die Replik Franz von Kutscheras in „Philosophiegeschichte und Logische Analyse“ 9/2006 auf meine Rezension seines Platonbuches, in: Wiener Jahrbuch für Philosophie 37 (2005), 272-276 61. Religion, Religionsverlust und Erzählstrategien in einer neueren Autobiographie. Zu Johannes Hösles “Vor aller Zeit. Geschichte einer Kindheit” sowie “Und was wird jetzt? Geschichte einer Jugend”, in: Zur Sprache gebracht. Philosophische Facetten. ... Festschrift für Peter Novak, ed by. N.Leißner und R.Breuninger, Ulm 2005, 91-103 62. Psychologie des Spielers und Ethik des Va-banque-Spiels. Zu Friedrich Schillers Die Verschwörung des Fiesko zu Genua, in: Wege zur Politischen Philosophie und Politik. Festschrift für Martin Sattler, ed. by G. von Sivers und U.Diehl, Würzburg 2006, 41-64 63. Philosophy and its Languages. A Philosopher’s Reflections on the Rise of English as Universal Academic Language, in: The Contest of Languages, ed. by M.Bloomer, Notre Dame 2005, 245-262 64. Was kann man von Hegel objektiv-idealistischer Theorie des Beriffs noch lernen, das über Sellars’, McDowells und Brandoms Anknüpfungen 12-VH  8/9/17 hinausgeht?, in: Allgemeine Zeitschrift für Philosophie 30 (2005), 139-158; English translation in: The Dimensions of Hegel’s Dialectic, ed. by N.G. Limnatis, London 2010, 216-236 65. Reasons, emotions and God’s presence in Anselm of Canterbury’s Dialogue Cur deus homo (together with Bernd Goebel), in: Archiv für Geschichte der Philosophie 87 (2005), 189-210; German translation in: Die Frage nach dem Unbedingten. Gott als genuines Thema der Philosophie, ed F.Resch and M. Klinkosch, Dresden 2016, 351-383 66. Die Philosophie und ihre literarischen Formen – Versuch einer Taxonomie, in: Das Geistige und das Sinnliche in der Kunst, ed. by D.Wandschneider, Würzburg 2005, 41-55 67. Berufsethik der Geheimdienste und Krise der hohen Politik. Philosophische Betrachtungen zum literarischen Universum von John Le Carrés Spionageromanen im allgemeinen und zu Absolute Friends im besonderen, in: Deutsche Vierteljahrsschrift 79 (2005), 131-159 68. Replik auf Ursula Hoyningen-Süess’ Kommentar, in: Pädagogik und Ethik, ed. by D.Horster und J.Oelkers, Wiesbaden 2005, 333-339 69. Platons “Protreptikos”. Gesprächsgeschehen und Gesprächsgegenstand in Platons “Euthydemos”, in: Rheinisches Museum für Philologie 147 (2004), 247- 275 70. „Great Books Programs.“ Die Rolle der Klassiker im Bildungsprozeß, in: Kultur, Bildung oder Geist?, ed. by R.Benedikter, Innsbruck 2004, 117-133 71. Interreligious Dialogues during the Middle Ages and Early Modernity, in: Educating for Democracy: Paideia in an Age of Uncertainty, ed. by A.M.Olson, D.M.Steiner, and I.S.Tuuli, Lanham 2004, 59-83; German translation in: Dialog und Verstehen, ed. by G.Damschen and A.G. Vigo, Berlin 2015, 59-88 72. Eine Form der Selbsttranszendierung philosophischer Dialoge bei Cicero und Platon und ihre Bedeutung für die Philologie, in: Hermes 132 (2004), 152-166; English translation in: Graduate Faculty Philosophy Journal 26, No.1 (2005), 29-46 73. Wie soll man Philosophiegeschichte betreiben? Kritische Bemerkungen zu Kurt Flaschs philosophiehistorischer Methodologie, in: Philosophisches Jahrbuch 111 (2004), 140-147 74. Wahrheit und Verstehen. Davidson, Gadamer und das Desiderat einer objektiv- idealistischen Hermeneutik, in: Logik, Mathematik und Natur im objektiven Idealismus. 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Die grüne Lehre: Die Politik muss soziale Gerechtigkeit der Nachhaltigkeit unterordnen, in: Süddeutsche Zeitung of 16.4.2011, Nr. 89, p. 13 7. Ethik des Rücktritts, in: Rheinischer Merkur of 24.6.2010, Nr. 25, p. 9 8. Brauchen wir Eliten?, in: UNOFOLIO (Süddeutsche Zeitung) 1/2010, p. 22 9. Mysterium Mathematik. Polyglott: Zum Tode des Wissenschaftlers Imre Tóth, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 15.5.2010, Nr. 111, p. 39 10. Rahmenbedingungen verändern Prioritäten. Ansichten eines Weltbürgers, in: Das Parlament of 16.10.2006, Nr. 42, p. 14 11.Was die koreanische Orthographiereform unserer voraushat, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 9.9.2004, Nr. 210, p. 42 12. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Silvio Berlusconi, blendend schön, in: DIE ZEIT of 5.2.2003, Nr. 7, p. 50 13. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Nackte Studenten, in: DIE ZEIT of 18.12.2003, Nr.52, p.54 14. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Norbert Blüm, Rentner und Philosoph, in: DIE ZEIT of 23.10.2003, Nr. 44, p.50 15. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen. Diesmal für: Paul Wolfowitz, plaudernder Stratege, in: DIE ZEIT of 12.6.2003, Nr. 25, p.48 16. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Wahlbetrugsuntersucher, in: DIE ZEIT of 6.2.2003, Nr. 7, p.48 17. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal für Ludwig Stiegler, 22-VH 8/9/17  Deutsche Sozialdemokraten, in: DIE ZEIT of 12.12.2002, Nr. 51, p. 56 18. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal für: UN-Delegierte, zwischen Austern und Austerität, in: DIE ZEIT of 5.9.2002, Nr. 37, p.56 19. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal für: Grüne Pazifisten, Entscheidungsträger, in: DIE ZEIT of 22.11.2001, Nr. 48, p.56 20. Der Ethikrat. Philosophische Hilfestellungen Diesmal fur: Rudolf Scharping und seine Kritiker, in: DIE ZEIT of 30.8.2001, Nr.36, p. 44 21. Die Irrtümer der Denker, in: DER SPIEGEL of 16.7.2001, Nr. 29, p. 136-139; reprinted in: SPIEGEL SPECIAL 1/2001: Die Gegenwart der Vergangenheit, 139- 141 22. Heilung um jeden Preis? Wer einem Kleinkind Grundrechte zuspricht, kann sie einem Embryo nicht nehmen, in: DIE ZEIT of 1.3.2001, Nr. 10, p. 36; reprinted in: ZEIT dokument 1/2002, 92-95 23. Wenn Berlin Berlin bleibt, muss Deutschland Deutschland bleiben. Eine philosophische Analyse des Wahlspruchs der SPD, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 11.9.1999, Nr. 211, p. BS 3 24. Das Prinzip der Moral. Über die Zukunft der praktischen Philosophie, in: Basler Zeitung as well as in: Frankfurter Rundschau of 8.1.1999, Nr. 6, p. 10 25. Ist er nun zu Hause oder nicht? Die Moderne atmet auf: Koreas Philosophen holen den Weltgeist an seinen Ursprung zurück, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 19.7.1995, Nr. 165, p. N6 26. Zu Tode geheuchelt. Auf dem Weg zur Reue - Eine Tagung fragt nach den sowjetischen Lektionen, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 7.10.1992, Nr. 233, p. N5; English translation in: Religion, State and Society 21 (1993), 363-365 27.Verzweifelte Suche nach Sinn. Einblicke in die sowjetische Philosophie der Gegenwart, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung of 28.11.1990, Nr. 277, p. N4 28. Einstein filosofo, in: L’altra Campania V/Juni-Juli 1989, 16- 17 IntInterviews and Contributions to Discussions 1. Weil wir zur Wahrheit fähig sind. Ein Gespräch mit Ulf von Rauchhaupt, in: Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung vom 29.1.2017, Nr. 4, 60-61 2. Metafisica, luogo delle temporalità e in temporalità. Intervista a Vittorio Hösle, in: Exagere 1 (2016) (online) 3. Colloquio con Vittoro Hösle, in: L’Espresso 35 (LXII) of 28.8.2016, 72-74 23-VH 8/9/17  8/9/17 4. Interview in Chinese journal Legal and Political Philosophy Review 2016, 149-159 5. L’etica ambientale e la Laudato sì di papa Francesco.Intervista con Vittorio Hösle, in: Munera 3/2015, 29-35 6. Interview, in: Wenhui 2015/4/3, 6-7 7. A propósito de „la moral de la política“, in: Postconvencionales: Ética, Universidad, Democracia 7-8 (2014), 182-196 (online) 8. Die hohe Kunst des Verstehens. Interview, in: Die Furche 9 of 27.2.2014, 18-19 9. Interview, in: Cogito 3 (1/2014), 28-33 10. Ich freue mich über päpstliche Nähe (interview), in: Die Tagespost of 24.10.2013, Nr. 128, p. 9 11. Wenn die Moral Hobbes geht, in: The European of 4/18/2013 (online) 12. Respecting Posterity, in: Notre Dame Magazine 41/4 (2012-13), 21-22 13. Zur Lage der Philosophie, in: Zeitschrift für Ideengeschichte VI/2 (2012), 58-72 14. Der Kapitalismus ist alternativlos (interview), in: The European of 11/17/2011 (online) 15. Interview, in: Shanghai review of Books of 7/17/2011, 2; longer version in: Duli Yuedu 9/2011, 48-58 (online) 16. Die ökologische Krise der Gegenwart und die Philosophie, in: Denkanstöße. Dossier of 12/20/2010 (online) 17. Interests, values, and recognition as different dimensions in the efforts on nuclear disarmament and non-proliferation, in: Nuclear Disarmament, Non-Proliferation, and Development, Vatican City 2010, 195-204 (with Discussion, 205-215) 18. Introducing ... Vittorio Hösle, in: Symposium. Canadian Journal of Continental Philosophy 14/1 (2010), 3-21 19. Ein Gespräch mit Sven Drühl, in: Kunstforum 190/2008, 42-48 20. Platon heute, in: zur debatte 38/3 (2008), 27-30 21. The Idea of Justice and the Global Marshall Plan, in: Towards a World in Balance, Hamburg 2006, 115-118 22. Intervista a Vittorio Hösle, in: Phronesis 7/2006, 103-116 (online) 23. Wie klug sind die Grünen?, in: Grün. Lob und andere Wahrheiten, ed. by M. Grammatikopoulos, R. Hoogvliet, Berlin 2005, 114-117 24. (My answers), in: 100 Et’udov o Kante, Istoriko-Filosofsky Almanach 2005, 46, 81, 24-VH  110 25. Den objektiva moralen är förnuftig. Intervju in: Axess 3 (2004), 25-27 26. Was ist Kultur?, in: think on. Das Magazin der ALTANA AG 1 (2002), 12-19; English translation in: think on. The Magazine of ALTANA AG 1 (2002), 12-19 27. Zehn Thesen zur Universitätspolitik, in: Generationenvertrag in der Wissensgesellschaft, ed. by O.Franz, Köln 2001, 15-17 28. Größe nicht gleich Sicherheit, in: FAZ.NET of 17.9.2001(online) 29. Anima & corpo. Conversazione di Vittorio Hosle con Hans Jonas, in: Ragion pratica 15/2000, 53-64 30. Wider den Tod der Moral, in: Ethik-Letter LayReport 6/2 (2000), 2-4 31. (My answer), in: Quo vadis, Philosophie? Antworten der Philosophen. Dokumentation einer Weltumfrage, ed. by R.Fornet-Betancourt, Aachen 1999, 151-152 32. Zehn Thesen zum Sinn der Arbeit, in: Vom Sinn der Arbeit, ed. by O.Franz, Köln 1999, 11-13 33. Gesundheit und Krankheit: Elementare Begriffe mit großen praktischen Konsequenzen - Ein Kommentar zu Bernard Gert, in: Zukunftsentwürfe, ed. by J.Rüsen, H.Leitgeb, N.Jegelka, Frankfurt/New York 1999, 270-274 34. Thesen zum neuen Grundsatzprogramm für BÜNDNIS 90 / DIE GRÜNEN, in: Zur Politik zurück, ed. by BÜNDNIS 90 / DIE GRÜNEN, Berlin 1999, 33-35 35. Versuch einer politischen Ethik des 21. Jahrhunderts - Wem ist die Regierung verpflichtet?, in: VISIONEN 2000. Einhundert persönliche Zukunftsentwürfe, ed. by Brockhaus-Redaktion, Leipzig/Mannheim 1999, 372-375 36. Keine Kriegserklärung, in: Was die Republik bewegte, ed. by B.Hoffmeister/U.Naumann, Reinbek bei Hamburg 1999, 80-81 37. Mensenrechten: objectief idealisme. Interview met vooruitgangsdenker Vittorio Hösle, in: Filosofie Magazine 7/10 (1998/1999), 36-41 38. Optimist voor de tweeëntwintigste eeuw. Een interview met Vittorio Hösle, in: Krisis 73 (winter 1998), 38-48 39. „Das Café der toten Philosophen“. Interview mit Nora K. und Vittorio Hösle, in: Ethik & Unterricht 3/98, 25-27 40. Podiumsdiskussion „Kultureller Wandel durch Wissen - Ethik und Werte“, in: Zukunft Deutschlands in der Wissensgesellschaft, ed. by bmb+f, Bonn 1998, 92- 120 41.Podiumsdiskussion „Die Tatsache der „Globalisierung“ und die Aufgabe der 25-VH 8/9/17  8/9/17 Philosophie“ zwischen K.-O.Apel, V.Hösle, R.Simon- Schaefer, in: K.- O.Apel/V.Hösle/R.Simon-Schaefer, Globalisierung, Bamberg 1998, 75-122 42. Interview in: Munhak Sasang 2 (1998), 266-277 43. Norwegische Philosophie, in: Aletheia 11/12 (1997), 75-77 as well as in: Information Philosophie 1 (1998), 90-92 44. SPIEGEL-Gespräch „Wir brauchen moralische Energie“, in: DER SPIEGEL Nr. 46/10.11.97, 247-252 45. Podiumsdiskussion, in: Grenzen-los?, ed. by E.U. von Weizsäcker, Berlin/Basel/Boston 1997, 376-400 (mein Text: 376- 380, 388-390, 396-397) 46. Letzte Gewißheit. Fundamentalismus in der Philosophie. Eine Diskussion zwischen H.Brunkhorst, V.Hösle und Th.Kesselring, moderiert von G.B.Achenbach, in: Philosophie heute, ed. vy U.Boehm, Frankfurt 1997, 33-51 47. Three Interviews with Paul K.Feyerabend (together with R.Parascandolo), in: Telos 102 (1995), 115-148 48. Interview in: Science, Philosophy and Culture 13 (1995), 134-144 49. Interview in: Munhak Sasang 5 (1995), 255-287 50. Podiumsdiskussion: Wieviel Gentechnik, Tierexperimente, Umweltschutz brauchen wir?, in: Forschung in Chemie, Biochemie und Molekularer Medizin - Zukunftschancen oder Verzicht, ed. by Gesellschaft Deutscher Chemiker und Gesellschaft für Biologische Chemie, Frankfurt 1994, 37-56 (my text: 46-48, 55-56) 51. Absoljutnyi racionalism i sovremennyi krizis, in: Voprosy filosofii 11 (1990), 107- 113 52. E giusta la ricerca sugli embrioni? Un’intervista a V.Hösle, in: Figli della scienza, a cura di V.Lanfranchi e S.Favi, introduzioni di G.Berlinguer e L.Violante, Roma 1988, 189-194 PrPrefaces to the Works of Other Persons 1. Preface to: Maxim Kantor, Das neue Bestiarium/Le nouveau bestiaire, Köln 2016, 14-17 and 168-170 (German, French, and English) 2. Postscript to: Ludwig Steinherr, Flüstergalerie, München 2013, 131-137 3. Preface to: Ludwig Steinherr, Das Mädchen Der Maler Ich, München 2012, 5-10 4. Preface to: Maxim Kantor, Saint Petersburg 2012, 39-45 5. Preface to: I.Tóth, Fragmente und Spuren nichteuklidischer Geometrie bei 26-VH  Aristoteles, Berlin 2010, XVII-XXIV 6. Preface to: J.Hösle, Al bivio.Gli anni milanesi, Milano 2009, 9-12 7. Preface to: D.Wandschneider, Naturphilosophie, Bamberg 2008, 7-8 8. Überlegungen zur Reihe „Faszination Philosophie“, in: W.V.O.Quine, Philosophie der Logik, Bamberg 2005, 3-9 9. Preface to: G.Scherer, Philosophische Anthropologie, Bamberg 2005, 5-7 10. Preface to: F.Suárez Müller, Skepsis und Geschichte. Das Werk Michel Foucaults im Lichte des absoluten Idealismus, Würzburg 2004, 15-17 11. Postscript to: M.Kantor, New Empire, Bramsche 2004, 97-100; English translation, 111-113; French translation, 124-127; Russian translation, 141-144 12. Preface to: D.Wandschneider, Philosophie der Technik, Bamberg 2004, 7-9 13. Preface to: P.L.Oesterreich, Philosophie der Rhetorik, Bamberg 2003, 7-10 14. Preface to: G.Münnix, Anderwelten, Weinheim 2001, 9-10 15. Postscript to: M.Kantor. Ödland. Atlas, Ostfildern-Ruit 2001, 145-148, English translation, M. Kantor, Atlas, Ostfildern-Ruit 2001, 145-148 16. Preface to: A.Weston, Einladung zu ethischem Denken, Freiburg 1999, 9-16 (and 124-126) 17. Preface to: D.Nikulin, Wissenschaft und Ethik, München 1996, 7-9 18. Preface to: G. Stelli, La ricerca del fondamento, Milano 1995, 13-15 Dissertations, books, and articles dealing with my work (selection) 1. Mattia Coser, Macht und Moral im Ausgang von Vittorio Hösle, in: Disputatio philosophica. International Journal on Philosophy and Religion 1/1 (2017), 73-83 2. Michael Hackl, An den Grenzen von G. W. F. Hegels System. Die ökologische Bedrohung im Anschluss an C. L. Michelet, K. Rosenkranz und V. Hösle, in: Hegel-Jahrbuch 2015, 397-404 3. Dalja Matijević, Hösleovo povećalo: Modeliranje ekološke budućnosti ljudskoga društva, in: Društvena Istraživanja 24 (2015), 111-131 4. Mathias Schneider, Vittorio Hösles Umweltphilosophie im Kontext der Nachhaltigkeitsidee, Berlin 2015 (dissertation Freiburg 2014) 5. Charlotte Luyckx, Crise cosmologique et crise des valeurs: la réponse höslienne 27-VH 8/9/17  8/9/17 au double défi de la philosophie de l’écologie, in: Klesis – revue philosophique 25 (2013), 144-175 6. Ernst-Otto Onnasch, Vittorio Hösle, in: De nieuwe Duitse filosofie, ed. by R. Celikates et al., Amsterdam 2013, 516-522 7. DavidEngels,VittorioHöslesEinschätzungderVoreleatenalsVorlaufzum klassischen Zyklus griechischer Philosophie. Überlegungen zu einer kritischen Neubewertung, in: Revue de philosophie ancienne XXIX/2 (2011), 5-39 8. Wellistony C. Viana, Das “Prinzip Verantwortung” von Hans Jonas aus der Perspektive des objektiven Idealismus der Intersubjektivität von Vittorio Hösle, Würzburg 2010 (dissertation Munich 2010) 9. LuisCarlosSilvadeSousa,Ametafísicaenquantoteoriatranscendentalabsoluta em Joseph Maréchal e Vittorio Hösle, in: Síntese 33/107 (2006), 393-412 10. Manfredo Araujo de Oliveira, Filosofia política enquanto teoria normativo-material das instituições em Vittorio Hösle, in: Filosofia política contemporânea, ed, by M. A. De Oliveira et al., Petrópolis 2003, 333-363 11.Erling Skjei, Kritikk av den sistebegrunnende fornuft: et forsøk på å tolke og å vurdere Descartes’, Apels of Hösles gjendrivelser av skeptisismen, dissertation Trondheim 2003 12.Bernd Goebel/Manfred Wetzel (Eds.), Eine moralische Politik? Vittorio Hösles Politische Ethik in der Diskussion, Würzburg 2001 13. Manfredo Araujo de Oliveira, Ética intencionalista-teleológica em Vittorio Hösle, in: Correntes fundamentais da ética contemporânea, ed. by M. A. De Oliveira, Rio de Janeiro 2000, 235-255 14. Alexander Klier, Umweltethik: wider die ökologische Krise. Ein kritischer Vergleich der Positionen von Vittorio Hösle und Hans Jonas, Marburg 2000 15. Jürgen Sikora, Mit-Verantwortung: Hans Jonas, Vittorio Hösle und die Grundlagen normativer Pädagogik, Eitorf 1999 16.Gertrude Hirsch-Hadorn, Umwelt, Natur und Moral: eine Kritik an Hans Jonas, Vittorio Hösle und Georg Picht, Freiburg/Munich 1998 (habilitationsschrift Konstanz 1998) 17. Annette von Werder, Philosophie und Geschichte: das historische Selbstverständnis des objektiven Idealismus bei Hegel und bei Hösle, dissertation Aachen 1993 18. Неллн B. Moтрoшилова, Bитторио Хёсле: наброски к философскому портрету, in: Bитторио Хёсле, Генин философии нового времени, Moskau 1992, 172-218 19.Sergio Dellavalle, Soggetto morale o sostanza etica. Riflessioni sui recenti contributi di Vittorio Hösle alla fondazione di un’etica della società tecnologica e del 28-VH  rischio ecologico, in: Teoria politica VII/3 (1991), 99–117 Documentary films about myself 1. HansSteinbichler,DerMoralist–VittorioHösleentdecktAmerika,2003(BR) 2. UlrichBoehm,“EinganzgewöhnlichesGenie.”JungphilosophVittorioHösle,1988 (WDR) Papers 1. “On the conection between form and content in the philosophical dialogue” (at the 2. “On the Neoplatonic Philosophy of Novum in Frascati in April 2017) 3. “The study of language as tool of the reconstruction of values. Paul Thieme’s linguistic methododology and implicit philosophy of language” (at the conference “ 4. “Principles of morals, natural law, and politics in dealing with refugees” (at the conference “Solidarity in global societies” in Munich in October 2016; repeated at the Plenary Session of the Pontifical Academy of the Social Sciences in April/May 2017) 5. “How much is the interpreter of an artwork bound by the author’s intentions?” (at the 20th International Congress of Aesthetics in Seoul in July 2016) 6. “The Special Nature of the Soviet Revolution: An Evaluation from the Point of View of the Philosophy of History” (at the Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law and at the University of Passau in May 2016; repeated at the University of Bamberg in February 2017) 7. “Objective idealism as an alternative to both naturalism and constructivism” (at the University of Heidelberg in June 2015) 8. Five lectures on “Morals and Politics” (at Fudan university in Shanghai in December 2014) 9. “Vocation between self-love and demands regarding oneself” (at the Meckatzer Philosophy Award ceremony in Bad Hindelang in May 2014) 10. “What are and why does one study humanities?” (at the conference “Humanities” in Vienna in February 2014, repeated at the Gadamer conference in Santiago de Chile in April 2015, at the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in Naples (in the following: IISFN) in April 2015, and at the Albertus Magnus Forum in Regensburg in February 2016) 11. “Order and disorder in intercultural dialogue “ (at the conference “Order and Disorder in the Age of Globalization(s)” in Johannesburg in November 2013, repeated at the Goethe Institute Munich in April 2014) 12. “On the relation between Dante’s Commedia and Goethe’s Faust” (at the conference “Philosophia transalpina” at the University of Munich in August 2013) Academy Vivarium Novum in Frascati in April 2017) 8/9/17   Mathematics” (at the Academy Vivarium   “Indology Nowadays: A Winter School on the Legacy of Paul  Thieme” at the university Tübingen in February 2017) 29-VH  8/9/17 13. “What remains of Hegel’s theory of the social world?” (at the University of Jena in May 2012) 14. “How did 20th century philosophy contribute to the current crisis?” (at the conference “Volcano” at the University of Oxford in May 2012) 15. “How did Western culture subdivide its various forms of knowledge? Historical reflections on the metamorphoses of the tree of knowledge” (at the conference “Conceptions of Truth and the Unity of Knowledge” at the University of Notre Dame in April 2012) 16. “Reductionisms in hermeneutics” (at the workshop “Knowledge and Meaning in Literature” at the University of Regensburg in June 2011; repeated at the University of Vienna in July 2011, at Purdue University in October 2012, at Duke University in March 2014, at the University of Nebraska in Omaha in March 2015) 17. “Innovation and creative destruction” (at the Heidelberg conference “Genius and Charisma” in June 2011) 18. “Can a plausible story be told of the history of ethics? An alternative to MacIntyre’s After Virtue“ (at the conference “Dimensions of Goodness” at the University of Notre Dame in April 2011) 19. “Sociobiology” (at King’s University College in London, Ontario in February 2011) 20. “Ethics and Economics, or How Much Egoism Does Modern Capitalism Need? Machiavelli’s, Mandeville’s, and Malthus’s New Insight and Its Challenge” (in the XVI Plenary Session of the Pontifical Academy of Social Sciences in May 2010; repeated at the University of Regensburg in July 2011, at the Lumen Christi Institute at the University of Chicago in May 2012, at Michigan State University in January 2013, at the University of Munich in July 2013, at Yale University in November 2013, at Ulm University in May 2015) 21. “In which sense is the concept of spirit of German Idealism a legitimate successor of the concept of pneuma of the New Testament?” (at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in March 2010) 22. “Interests, values, and recognition as different dimensions in the efforts on nuclear disarmament and non-proliferation” (at the conference “Nuclear disarmament, non- proliferation, and development” in the Vatican in February 2010) 23. “What are the main steps in the historical evolution of aesthetic theories from ancient civilizations to the present and the driving forces behind this evolution?” (at the conference “Beauty” at the University of Notre Dame in January 2010) 24. “A metaphysical history of atheism” (at the University Bamberg in April 2009) 25. “On the rank order of the three Greek tragedians” (at the University of Jena in April 2009; repeated in Castelen near Basel in April 2009) 26. “Why teleological principles are inevitable for reason” (at the Evolution Conference of the Gregoriana in Rome in March 2009; repeated at the University of Vienna in February 2010, at Duke University in March 2014) 27. “The USA and the European Union as two modern forms of empire” (at the University of Bielefeld in February 2009; repeated at the University of Notre Dame 30-VH  in March 2009 and at the University of Uppsala in May 2009) 28. “Why does the environmental problem challenge ethics and political philosophy?” (at the World Conference for Philosophy in Seoul in August 2008) 29. “On the philosophy of history of the philosophy of history” (at the conference “Pneumatologia politica” in Trento in May 2008) 30. “Did Goethe influence Dickens?” (at Cambridge University in May 2008) 31. “Why do we laugh?” (at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008) 32. “Ethics and dialogue” (at the University of Urbino in April 2008) 33. “Childhood and philosophy” (at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008) 34. “The Idea of a Rationalist Philosophy of Religion” (at the Catholic Academy Berlin in March 2008; repeated at the University of Trento in May 2008, at the Antonianum in Rome in June 2008 and at the Divinity School of Yale University in November 2013) 35.“Expectations and Grace. On Charles Dickens’ Great Expectations” (at the Catholic Academy Berlin in March 2008) 36. “Gómez Dávila” (at the Karl-Rahner-Akademie in Köln in March 2008) 37. “Plato today” (at the Catholic Academy in Munich in February 2008) 38. “Dickens as a critic of Goethe?” (at the University of Bamberg in May 2007) 39. “Religion of art, self-mythicization and the function of the church year in Goethe’s Italienische Reise” (at the Theologische Fakultät Fulda in Mai 2007) 40.“Pre-established harmony between parental and free choice of the partners. Masked encounters in Ludvig Holberg’s Mascarade, Carlo Goldoni’s I Rusteghi, and Georg Büchner’s Leonce und Lena” (at the Goldoni conference of Saint Mary’s College and the University of Notre Dame in April 2007) 41. “Cicero’s Plato” (at the Cicero conference of the University of Notre Dame in October 2006; repeated at the MPSA in Chicago in April 2007) 42. “Politics of science and of immigration in the USA” (at the DAI Heidelberg in April 2006) 43. “Space and Time of the philosophical dialogue” (at the Theological Faculty Fulda in May 2005) 44. “On the forms of the philosophical dialogue” (at the University of Bamberg in May 2005; repeated at the University of Beijing in January 2015) 45. “On the history of the philosophical dialogue” (at the University of Halle in May 2005) 31-VH 8/9/17  8/9/17 46.“The role of the classics in education” (for the 500-year-anniversary of the Allbertus-Magnus-Gymnasiums in Regensburg in May 2005) 47. “Friedrich Schiller’s “The Conspiracy of Fiasco in Genua”” (at the University of Wisconsin in April 2005; repeated at the University of Bielefeld in February 2009) 48. “What can one learn from Hegel’s objective-idealist doctrine of the concept?” (at the University of Munich in January 2005, repeated at the University Valencia in April 2016) 49. “What are philosophical dialogues, and why do people write them?” (at the Institute for Advanced Study in December 2004; repeated at the University of Rome in June 2007) 50. “A form of self-transcendence of philosophical dialogues in Cicero and Plato” (at the New School University in October 2004) 51. “Intersubjectivity and subjectivity in Hegel” (at the University of Venice in April 2004) 52. Four lectures on “Interpreting Plato” at the IISFN in March 2004 53. “Plato’s Protrepticus” (at the Scuola di Heidelberg of the IISFN in March 2004) 54. “The superiority of the American university system” (at the DAI Heidelberg in March 2004) 55. “Philosophy and Its Literary Forms” (at the conference “Das Geistige und das Sinnliche in der Kunst” in Aachen in February 2004) 56. “Philosophy and its Languages. A Philosopher’s Reflections on the Rise of English as Universal Academic Language” (at Circolo Italo-Britannico in Venedig in January 2004; repeated at Ehwa University in Seoul in July 2008) 57. “Reasons, emotions and God’s presence in Anselm’s “Cur deus homo”“ (at the University of Notre Dame in November 2003) 58. “Hans Jonas’ position in the history of German philosophy” (at the Northern Institute of Technology in Hamburg in June 2003; repeated in Italian at the University of Venice in February 2004 and in German at the Evangelische Akademie Tutzing in May 2007) 59. “What can we learn from the interreligious dialogues of the Middle Ages and early Modernity?” (at the conference “Paideia and Religion” in Boston in March 2003; repeated in Italian at the IISFN in June 2003) 60. “The function of the classics in the process of education” (at the University of Vienna in December 2002) 61. “Davidson, Gadamer and the necessity of an objective-idealististic hermeneutics” (at the university of Vienna in December 2002; repeated at the Scuola di Heidelberg of the IISFN in January 2003 and at the University of Notre Dame in 32-VH  September 2005) 62. ”Globalization and US-American hegemony” (at the DAI Heidelberg in January 2003; repeated at the IISFN in June 2003, at the University of Urbino in March 2004 and in Imperia in May 2004) 63. “Platonism and Its Interpretations. The Three Paradigms and Their Place in the History of Hermeneutics” (in German at the RWTH Aachen in February 2002; repeated at the University of Heidelberg in January 2003 und in English at the conference “Eriugena, Berkeley and the Idealist Tradition” in Dublin im March 2002) 64. “Philosophy and the Interpretation of the Bible” (at Clemson University in South Carolina in February 2002; repeated at Holy Cross College, Worcester in September 2006 and at the University of Trento in April 2008) 65. “Hegel’s and Brandom’s inferentialism” (at the conference “Hegel contemporaneo” in Venice in May 2001) 66. “Platonism and Darwinism” (at the conference “The metaphysical implications of Darwinism” in Notre Dame in March 2001; repeated at the University of Vienna in April 2009) 67. "Is There Progress in the History of Philosophy?" (at the conference on "Hegel’s History of Philosophy" in New York in October 2000) 68. "Why Do We Laugh at and with Woody Allen?” (at New York University in October 2000; repeated at Ohio University in Athens in April 2002) 69. "Interpreting Philosophical Dialogues" (at the conference on Hermeneutics as Basic Discipline" at Notre Dame in September 2000; repeated at the New School for Social Research in October 2000) 70. "On the relation between metaphysics of life and general metaphysics. Reflections on Schopenhauer" (at the conference on metaphysics in Hildesheim in June 2000) 71. "The environmental problem in the twenty-first century" (at the lecture series "Gedanken zur Nachhaltigkeit" of the Forschungsinstitut für Philosophie in May 2000; repeated at the Casa Rosmini in Rovereto in April 2008 and at the university of Louvaine in May 2016) 72. "Llulls “Desconhort”" (at the University of Regensburg in December 1998; repeated at the Medieval Conference in Kalamazoo in May 2000) 73. ."On the philosophy of history of the social sciences" (at the University of Essen in October 1998; repeated at the University of Regensburg in February 1999) 74. "What constitutes the extraordinary value of the Russian literature of the 19th century?" (at the Freie Akademie der Künste in Hamburg in October 1998) 75. "Hegel’s Esthetics" (at National Seoul University in September 1998) 33-VH 8/9/17  8/9/17 76. "Darwinism as Metaphysics" (at Sogang University in Seoul in September 1998; repeated in English at the University of Stanford in April 1999) 77. "Religion, Theology, Philosophy" (at the University of Hannover in June 1998) 78. "Present and future tasks of a moral economy" (at the University of Hannover in June 1998) 79. "Chances and dangers of talent" (at the 50 years celebration of the Evangelische Studienwerk Villigst in May 1998 in Villigst) 80. "Theodicy strategies in Leibniz, Hegel, Jonas" (in Italian at the conference on monotheism in April 1998 in Jerusalem; repeated in Hannover in October 1998) 81. "Rationalism, determinism and freedom" (at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in January 1998; repeated at the University of Mainz in October 1998, in English at the University of Notre Dame in March 1999) 82. "Universal ethics and natural law" (at the second conference of the Universal Ethics Project of the UNESCO in Naples in December 1997; repeated at the Bucerius Law School in Hamburg in June 2003) 83. Five lectures on "The state and its history" [at the IISFN in February 1997 in Italian] 84. "Conditions of multicultural societies and states" (at the University of Bielefeld in January 1997, repeated at the Königsteiner Forum in September 1997) 85. "Philosophical foundations of a future humanism" (in Basel in January 1997; repeated in English at the University of Notre Dame in February 1997 and at the University of Oslo in September 1997, at the Tübinger Stift in July 1997, at the University of Erfurt in October 1997 and at the University of Essen in January 1998) 86. "Politics and morality facing global challenges" (at the Hochschule für Philosophie in München in November 1996; short version during the presentation of my book "Moral und Politik" in the European Parliament in Brussels in March 1998; repeated at the University of Essen in April 1998, at the Musikhochschule Hannover in July 1998, at the Korean Hegel Society in Seoul in September 1998, at the University of Greifswald in October 1998 as well as, in English, at the American Philosophical Association in Boston in December 1999, at the University of Urbino in March 2004, at the University of Bamberg in June 2011) 87. "Who has right?" (at the Hochschule für Wirtschaft und Politik in Hamburg in November 1996) 88. "Just wars" (at the University of Hamburg in November 1996; repeated in English at Loyola University in Chicago im Februar 2003) 89. "Ethics and history" (at the University of Nijmegen in May 1996) 34-VH  90. "Hegel and Spinoza" (at the University of Tübingen in April 1996) 91. "Biological presuppositions of moral behavior of humans" (at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover in January 1996) 92. "On the concept of cratology" (at the Kulturwissenschaftliche Institut Essen in December 1995) 93. "Rationalism, intersubjectivity and loneliness: Heraclitus, Lullus, and Nietzsche" (at the Ohio State University in October 1995) 94. "Philosophy in an age of overinformation" (at the Philosophy conference of the UNESCO in March 1995 in Paris, repeated at the Ohio State University in April 1996, at the Goethe Institute Ankara in September 1996, at the University of Leipzig in December 1996) 95. "What are presuppositions of a rational ethics?" (at the University of Essen in November 1994) 96. "Vico’s sources" (at the Naples conference in October 1994 in Bielefeld) 97. Five lectures on "Morality and politics" (at the IISFN in October 1994 in Italian) 98. "Ramón Llull’s rationalism" (in Spanish at the Lull conference in September 1994 in Trujillo; repeated in April 2002 at the University of São Paulo) 99. "On the indispensability of republican virtues" (at the European Colloquium in Regensburg in June 1994) 100. "Ought developing countries to develop? And if yes, how?" (at the University of Marburg and the University of Jena in June 1994) 101. "The intellectual background of Reiner Schürmann's Heidegger interpretation" (at the Reiner Schürmann Memorial Symposium in April 1994 in New York) 102. "Moral ends and means of global demographic policy" (at the symposium "Weltbevölkerung und Welternährung" of the Deutsche Welthungerhilfe in March 1994 in Bonn; repeated in English at the World Conference for Sociology in Bielefeld in July 1994 and at the University of Münster in November 1994) 103. "Sociobiology and ethics" (at the University of Essen in December 1993; repeated at the University of Mainz in January 1994, at the University of Witten- Herdecke in December 1994, at the ETH Zürich and at the University of Innsbruck in November 1995, at the University of Ulm in December 1995, in the Forschungszentrum Jülich in October 1996, in English at the Ohio State University in April 1996, at the University of Oslo in September 1997 and at the State University of Florida in Jacksonville in February 2002, in Italian at the University of Trento in March 2009) 35-VH 8/9/17  8/9/17 104. "How much genetic engineering, protection of animals and of the environment do we need?" (discussion at the Tagung der Gesellschaft Deutscher Chemiker in Bonn in October 1993) 105. "Philosophy and its media" (in English at the 19th World Congress of Philosophy in Moscow in August 1993; repeated at the Tübinger Symposium "Platonisches Philosophieren" in April 1994, in Hannover in November 1998 and in English at the University of Sankt Gallen in May 2001) 106. "Power and morality" (at the University of Zürich in June 1993; repeated in English at the University of Oslo in September 1993 and at the University of Bergen in September 1997; at the University of Hamburg in October 1993, at the University of Ulm in December 1995) 107. "Ethics and ontology in Hans Jonas" (at the University of Konstanz in January 1993; repeated at the Hofgeismarer conference on Hans Jonas in June 1993, in Italian at the Lateran University in Rom in January 1996, before the Wissenschaftlicher Verein Mönchengladbach in January 1997) 108. "Ethics and system theory" (discussion with Niklas Luhmann at the ETH Zürich in November 1992) 109. Four lectures on Socrates, Plato and "The essential differences between ancient and modern philosophy" (in English and Norwegian at the University of Oslo in October 1992; the last lecture was repeated at the University of München in November 1992, one of the lectures on Plato in French at the University of Tours in April 1997) 110. "Ethical principles of peace politics" (public lecture during the award of the price "The Glass of Reason" to C-F. von Weizsäcker in Kassel in October 1992; repeated at the Salzburger Humanismusgespräche in March 1993, at the University Witten-Herdecke in June 1993, in English at the University of Trondheim in September 1993) 111. "Individual and collective identity crises" (at the conference "Trauma and Tragedy" in June 1992 in Amsterdam; repeated at the Philosophisch-Theologische Hochschule Walberberg in October 1993, at Carleton College and at the Ohio State University in April 1994, at the World Conference "Medicine and Philosophy" in Paris in June 1994, at the University of Ulm in December 1995, at the University of Notre Dame in March 1996, in French at the Ecole Normale in Paris in May 1997) 112. "Ultimate foundation and categories" (at the conference "Letztbegründung als System?" in June 1992 in Prague) 113. "The idea of the university in face of the challenges of the 21st century" (lecture at the conference of the presidents of German universities in Rostock in May 1992; repeated in January 1993 at the University of Kiel, in May 1993 at the University of Kaiserslautern, in May 1996 at the University of Nimwegen, in English in September 1993 at the University of Trondheim) 36-VH  8/9/17 114. "Can Abraham be saved? And: Can Søren Kierkegaard be saved?" (in Norwegian at the University Oslo in November 1991; repeated in German before the Leibniz-Society in Hannover in July 1992, at the University of Köln in June 1994, in English at the University of Notre Dame in November 2007) 115. Five lectures on "Descartes and Spinoza" (in English and Norwegian at the University Trondheim in October 1991) 116. "Being and subjectivity. On the metaphysics of the ecological crisis" (at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen in June 1991; repeated at the University of Vienna in June 1991, at the ETH Zürich in November 1991, in English at the eleventh Internordic Conference in Odense in August 1995, in French at the University Laval in Québec in April 2011) 117. "On the dialectic of strategical and communicative rationality" (at the Dubrovnik Workshop "Diskurs und Rationalität" in April 1991) 118. "The Third World as a philosophical problem" (at the Ohio State University in February 1991; repeated at the conference "Transcendental Pragmatics and North-South Ethical Problems" in Mexico City in March 1991, at the University of Tromsrin September 1991 and in Spanish at the Javeriana in Bogotá and at the University of Fortaleza in April 2002) 119. "Ethical aspects of capitalism” (at the conference "Wirtschaftsethik" in November 1990 in Ulm; repeated at the Technische Hochschule Aachen in June 1991, at the Technische Hogeschool Twente in Enschede in June 1992 and in Spanish at the Javeriana in Bogotá and at the University of Fortaleza in April 2002) 120. Eight lectures on "Vico’s philosophy of culture" (at the Moscow State University MGU in March through May 1990) 121. Five lectures on "The philosophy of the ecological crisis" as well as five lectures on "The Essence of Modern Metaphysics (Descartes, Spinoza, Kant, Fichte, Hegel)" (at the Institute of Philosophy of the Academy of Sciences in Moscow during a visiting professorship from April till June 1990; two lectures each were repeated at the University of Rostov at Don in May 1990 as well as at the University of Minsk and at the University of Novosibirsk in June 1990; one of the ecological lectures was repeated at the New School for Social Research in New York in December 1990, at the IISFN in May 1991, at the University of Tromsö and of Trondheim in September and October 1991, at the Center for the Study of Developing Societies in Delhi in April 1992, at the Technische Hogeschool Twente in Enschede in June 1992, at the Wuppertalinstitut in March 1994, at the National Seoul University, the Yonsei and the Myongji Universität in Seoul, the Hannam University in Taejong and the Keimyung University in Taegu in March and April 1995, at the University Essen in October 1995; the lecture on Descartes was repeated at the University Essen in October 1990, the lecture on Spinoza at the Technische Hochschule Aachen in June 1992) 122. "Intersubjectivity and freedom of the will in Fichte’s System of Ethics"" (at the conference "Fichtes Rechtsphilosophie: Die ersten drei Lehrsätze der "Grundlage 37-VH  des Naturrechts"" in March 1990 in Frankfurt) 123. ."Heidegger’s philosophy of technology" (at the conference for the 100th birthday of Martin Heidegger in October 1989 in Moscow) 124. "Why has technology become a philosophical problem?" (at the University of Ulm in September 1989; repeated at the Technische Hochschule Aachen in February 1990 and at the ETH Zürich in December 1991) 125. Three lectures "Hegel’s System", "Morality and politics: Machiavelli’s problem", "Transcendental pragmatics" at the Goethe Institute in Porto Alegre in June 1989 (in Spanish; the first lecture was repeated at the University of Campinas, the third at the Goethe Institute in Sâo Paulo) 126. A three weeks seminar (12 hours a week) "From Kant to Hegel" as well as a three week seminar (4 hours a week) "Antinomies and dialectic" (together with Prof.Dr. C.Cirne-Lima and Dr.Th.Kesselring) (at the Universidade Federal de Rio Grande do Sul in Porto Alegre/Brasilien during a visiting professorship in June 1989; in Italian) 127. "Vico’s idea of the science of culture" (at the University of Vienna in April 1989; repeated in Italian at the IISFN in May 1989 and in French at the University of Tours in April 1997; short version at the presentation of the German and Spanish translations of Vicos "Scienza nuova" in the European Parliament in Strasbourg in November 1991) 128. "Nature and natural sciences in Vico’s new science of the spirit" (at the II. Colloquium "Natur in den Geisteswissenschaften" in April 1989 in Blaubeuren) 129. "The greatness and limits of Kant's practical philosophy" (at the conference for the 200th anniversary of "The Critique of Practical Reason" in December 1988 at the New School for Social Research in New York; repeated in German at the Technische Hochschule Aachen in January 1989 and at the Universität Ulm in February 1990, in English at the School of Architecture in London in March 1990, at the University of Louisville in January 1991 and at the University of Tromsö in September 1991 as well as before the Hegel Society of Korea in Seoul in April 1995, in Spanish at the Javeriana in Bogotá, the Centro de Extensno Universitaria in São Paulo and the University Fortaleza in April 2002) 130. "The philosophy of mathematics of Nicolaus Cusanus" (at the conference of the American Cusanus Society in October 1988 in Gettysburg) 131. "On the impossibility of a naturalistic foundation of ethics: Idealism and Materialism" (at the conference "Die ethische und politische Verantwortung des Wissenschaftlers" in April 1988 in Köln) 132. "Morality and politics: Machiavelli’s problem" (at the University of Saarbrücken in January 1988; repeated in English at the New School for Social Research in April 1988, at Pennsylvania State University in October 1988, at the New York State University in Purchase in November 1988; in Italian at the IISFN in May 1989; in German at the University of Regensburg in November 1989; in English at the 38-VH 8/9/17  University Trondheim in August 1991) 133. Four lectures on "Hegel’s Logic" (at the IISFN in March 1987 in Italian) 134. "Law and history in G.Vico" (at the University of Mannheim in January 1987) 135. "The figurative arts in the esthetics of German idealism" (at the Hochschule für bildende Künste in Braunschweig in December 1986) 136. "Hegel's idea of right" (at the New School for Social Research in December 1986) 137. "On the dialectic of enlightenment in Vico’s philosophy of history" (at the University of Frankfurt in November 1986; repeated in Italian at the Circolo George Sadoul in Ischia in May 1987) 138. "An attempt to locate the historical Socrates" (at Williams College in October 1986) 139. Sixteen lectures on "The development of German idealism" (at the IISFN on January through June 1986 in Italian) 140. "Foundational questions of objective idealism" (at the conference "Philosophie und Begründung" in Bad Homburg in May 1986, repeated in English at the University of Bergen in September 1997) 141. "Moral reflection and decay of institutions. On the dialectic of enlightenment and counter enlightenment" (at the conference of the International Hegel-Gesellschaft in March 1986 in Zürich; repeated at Princeton University in November 1986) 142. "What may and what must the state punish? Reflections based on Fichte’s and Hegel’s theories of punishment" (at the conference "Moralität und Sittlichkeit" in March 1986 in Hamburg) 143. Five lectures on "Hegel’s lectures on the philosophy of religion" (at the IISFN in December 1985 in Italian) 144. "Carl Schmitts critisism of the self-cancelation of a valuefree constitution in "Legalität und Legitimität"" (at the conference "Il pensiero politico di Carl Schmitt" in December 1985 in Naples in Italian) 145. "Tasks of philosophy between relativism and dogmatism" (at the conference "Per un pluralismo non relativistico in filosofia" in October 1985 in Napels) 146. "An immoral ethical life. Hegel’s interpretation of Indian culture" (at the conference "Moralität und Sittlichkeit" in March 1985 in Frankfurt) 147. Seven lectures on "The development of Greek philosophy from Parmenides till Platon", two lectures on "Principle of contradiction and dialectic" and one lecture on "The so-called Münchhausentrilemma" (at the Technische Hogeschool Twente in Enschede/Netherlands in January 1985) 39-VH 8/9/17  Q1 8/9/17 148. "Anthropology in Fichte" (at the II European-Latin American symposium for philosophical anthropology in October 1984 in Tübingen) 149. "The position of Hegel’s philosophy of objective spirit in the system and its aporia"; "Abstract Right"; "The State" (at the conference "Anspruch und Leistung von Hegels "Rechtsphilosophie" in March 1984 in Naples) 150. "Space, time, movement"; "Plant and animal" (at the conference "Hegel und die Naturwissenschaften" in October 1983 in Tübingen) 151. Four lectures on „The esthetics of Greek tragedy" (at the IISFN in March 1983 in Italian) 152. "Theories of the history of philosophy" (at the IISFN in December 1982 in Italian) At the University of Notre Dame: 1. Nietzsche 2. Political and Constitutional Theory: Ancient and Modern (Aristotle, Locke, The Federalist Papers) 3. Schopenhauer,TheWorldasWillandRepresentation 4. ThePhilosophicalImportanceofDarwin 5. ThomasMann 6. Philosophical Dialogues (Plato, Abelard, Ficino, Hume, Fichte, Kierkegaard, Feyerabend) 7. TheoryofComedy 8. PhilosophyofPower 9. Kant’sPoliticalPhilosophy 10. Core Course on Ecology and Ethics Heidegger, Jonas, Ibsen, Callenbach) (Brown, Malthus, Bacon, Descartes, 11.Philosophical Dialogues (Plato, Cicero, Anselm of Canterbury, Bodin, Diderot, Schelling, Murdoch) 12. Hume’s Practical Philosophy 13. Dramas on Political Conflicts (Aeschylus, Sophocles, Euripides, Goethe, Schiller, Büchner, Grillparzer, Hebbel, Dürrenmatt) 14. Plato before the “Republic” 40-VH  15. Goethe’s Lives 16. Aristotle’s “Nicomachean Ethics”, “Politics”, “Rhetorics” 17. Philosophy of mind in the twentieth century (James, Freud, Husserl, Ryle, McGinn, Kim, Chalmers, Searle, Dennett) 18. Ethics and Politics in Italian Renaissance 19. The German Quest for God from Goethe to Nietzsche and Kafka 20. Philosophical Autobiographies (Plato, Isocrates, Augustine, Abelard, Petrarca, Vico, Rousseau, Hume, Mill, Newman, Nietzsche, Feyerabend) 21. Faust (Marlowe, Goethe, Grabbe, Klaus Mann) 22. Hegel’s Political Philosophy 23. The Birth of the Humanities from the Spirit of German Idealism (Friedrich Schlegel, August Wilhelm Schlegel, Schleiermacher, Schelling, Hegel) 24. Vico (Autobiography, On the Method of Studies of Our Time, New Science) 25. Literary Criticism from Aristotle to Jakobson (Aristotle, Horace, Longinus, Dante, Boileau, Pope, Schiller, Hegel, Nietzsche, Adorno, Jakobson) 26. Kant’s Three Critiques 27. Faith, Hope, and Love: Thomas Aquinas and Kierkegaard on Christian Ethics 28. Plato, “Republic” and “Statesman” 29. German Philosophy in the 20th century (Husserl, Reichenbach, Gehlen, Habermas) 30. Thomas Aquinas on the Cardinal Virtues 31. Humanities in the 20th century (Dilthey, Freud, Ingarden, Panofsky, Strauss, von Wright, Foucault, Dworkin, Sontag) 32. The late Plato (“Cratylus,” “Theaetetus,” “Sophist,” “Philebus”) 33. The essay (Montaigne, Bacon, Hume, Kant, Schiller, Nietzsche, Th.S. Eliot, Hans Jonas) 34.The German Quest for God (Hartmann von Aue, Meister Eckhart, Luther, Grimmelshausen, Lessing, Hegel, Mann, Steinherr) 35.History of Hermeneutics (Philo of Alexandria, Origen, Augustine, Maimonides, Spinoza, Schleiermacher, Droysen, Ricœur, Grice, Auerbach) 36. Neo-Platonism: Plotinus and Proclus 41-VH 8/9/17  37. Plato, Laws 38. Making Sense of a Life: Biography and Autobiography (Plutarch, Tacitus, Hildegard of Bingen, Vasari, Boswell, Rousseau, Bismarck, Tolstoy, Henry Adams) 39. The late Husserl 40. Greek Drama (Aeschylus, Sophocles, Euripides, Aristophanes) 41. Ancient Drama (Aeschylus, Sophocles, Euripides, Aristophanes, Menander, Plautus, Terence, Seneca) At Heidelberg University in 2015 1. Hermeneutics 2. Hegel, Phenomenology of Spirit 3. Plato, Parmenides (together with Jens Halfwassen) At the University of Trento in 2008: 1. Morals and Politics At the Northern Institute of Technology in Hamburg since 2003 every year (with the exception of 2006 and 2009): 1. BusinessEthicsinaGlobalizedWorld At the Hamburg School of Logistics in 2005, 2007 and 2008: 1. EthicsofPower At Kampala International University in 2006: 1. Ethics of Development At the Research Institute for Philosophy in Hannover: 1. Classicsofthephilosophyofbiology(Aristotle,Leibniz,Kant,Darwin, Bergson, Portmann, Mayr) Driesch, 42-VH 8/9/17  At Ohio State University: 1. Hegel'sPhilosophyofRight At the Universität Essen: 1. MoralsandPolitics 2. Descartes,Meditations 3. H.Jonas'philosophyoflifeandethics 4. Aristotle,Physics 5. J.Rawls,Atheoryofjustice 6. Hermeneutics 7. Plato,ApologyofSocrates 8. L.Wittgenstein,PhilosophicalInvestigations 9. Kierkegaard, Either – Or 10. Ancient Philosophy 11. The fragments of Parmenides 12. Augustine, The City of God 13. Plato, The Republic 14. Sextus Empiricus 15. Epistemology 16. Locke, An essay concerning human understanding 17. Leibniz, Discourse on Metaphysics 18.Rationalism and negative anthropology: Descartes' "Les passions de l'âme," Pascal's "Pensées," La Rochefoucauld's "Maximes" (together with Prof. Dr. R.Galle) 19. H.G.Gadamer, Truth and Method 20. Montesquieu, The Spirit of the Laws 21. Concept and function of the beautiful in Schiller (together with Prof. Dr. R.Galle) 43-VH 8/9/17  8/9/17 22. Hegel, Philosophy of Right 23. Philosophy of history 24. Burckhardt, Considerations on World History 25. M.Heidegger, Being and Time 26. Early modern utopias (together with Prof. Dr. P.Münch) 27. V.Hösle, Morals and Politics 28. New texts on determinism (Austin, Chisholm, van Inwagen, Planck, Strawson) 29. Evolution, Knowledge, Ethics (together with Prof.Dr. F.Wuketits and Dr. G.Klauer) 30. K.R.Popper/J.C.Eccles, The Self and its Brain 31. Interreligious Dialogues in the Middle Ages (Abelard, Llull) 32. Philosophy of Religion of the Renaissance At the ETH Zürich: 1. EthicsandPoliticsfacingtheecologicalcrisis At the University Ulm: 1. TranscendentalPragmaticsandcontemporaryphilosophy 2. Aristotle,NicomacheanEthics 3. PhilosophyofTechnology:Heidegger,Gehlen,Habermas,Jonas At the New School for Social Research: 1. Plato'sUnwrittenDoctrine 2. FromKanttoHegel 3. Vico,NewScience 4. MoralPhilosophysinceKant 5. Machiavelli,Discourses;Prince 6. NicolausCusanus 44-VH  Honors and Grants As Tutor: 1. Horkheimer/Adorno,DialecticsofEnlightenment 2. Plato,Latedialogues 3. Theoriesofthehistoryofphilosophyinthe19thand20thcentury 4. Hegel,Encyclopediaofthephilosophicalsciences 5. Hegel,EncyclopediaofphilosophicalsciencesII 6. Fichte,Foundationsofnaturallaw 7. Schelling,Philosophyofart 8. Structural problems of objective idealism (2 Semester) After my Accreditation as University Lecturer: 1. Schopenhauer’sworkonfreedomasanintroductiontothedebateondeterminism 2. Vico,Onthemethodofstudiesofourtime 3. TranscendentalPragmatics 4. Lucretius,Onthenatureofthings 5. Aristotle,Politics 6. Spinoza,Ethics 7. Hobbes,Leviathan 8. Scheler,Essenceandformsofsympathy 9. Locke,TwoTreatisesofGovernment 10. Leibniz, Theodicy 11. Tocqueville, On the democracy in America !Member of “Ethics in Action,” founded, among others, by the Pontifical Academies of Sciences and of Social Sciences as well as by the UN Sustainable Development Solutions Network 7. Kant'sMoralThought 45-VH 8/9/17  !Visiting Professorship at the University of Heidelberg, 2015 !Meckatzer Philosophy Award 2014 !Appointed by Pope Francis as Ordinary Academician to the Pontifical Academy of Social Sciences 2013 !Taught Master Course at the University of Munich and Research Workshop at the University Duisburg-Essen, 2013 !Acquired together with Associate Director Don Stelluto 1,58 million dollars from the Templeton Foundation for fellowships at the Notre Dame Institute for Advanced Study 2012 !Offer to become Director of the Centro di Scienze Religiose of the Bruno Kessler Foundation in Trent/Italy 2011 (declined) !Offer to become member of the Strategic Committee of the Wissenschaftsrat for the second part of the German “Exzellenzinitiative”, 2010 (declined) !Best Teacher Award of the Northern Institute of Technology, 2008 !Research Achievement Award of 10, 000 USD from the University of Notre Dame, 2008 ! Rosmini Chair at the University of Trent/Italy, 2008 !Taught Master Course at the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover, 2006 !Member at the Historical School of the Institute for Advanced Study, Princeton, 2004/05 !Key Professor at the Northern Institute of Technology in Hamburg, 2002 ff. ! Fellowship at the Erasmus Institute of the University of Notre Dame, 2001-2002 !Offer of a chair position in Political Science from the University of Regensburg, 2000 (declined) !Offer of a Fellowship at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen, 1999 (declined) !Max Kade Distinguished Visiting Professor, Department of Philosophy and 46-VH 8/9/17  Service !Humboldt Professor at the University of Ulm, 1995 !Visiting Professor at South Korean universities, 1995, financed by DAAD !Fellow at the Kulturwissenschaftliches Institut Essen, 1995-1996 !Fritz Winter Award for outstanding academic achievements ( 50, 000 DM), 1994 !Visiting Professor at the Department of Ecology, Eidgenössische Technische Hochschule Zürich, 1992-1993 !Affiliation with the Sociology Department of the University of Delhi, 1992 !Affiliation with the Philosophy Department of the University of Trondheim, 1991 !Affiliation with the German Department of Ohio State University, 1990-1991 !Visiting Professor at the Academy of Sciences and at the Lomonossov University in Moscow, 1990 (financed by DAAD) !Visiting Professor in Ulm, 1989-1990 !Visiting Professor at the University of Porto Alegre, Brazil 1989 (financed by DAAD) !Heisenberg Fellowship, 1987-1993 !Fellow at the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1985-1986 !Visiting Lecturer at the Technische Hogeschool Twente in Enschede, 1985 !Research fellowship of the Deutsche Forschungsgemeinschaft, 1982-1984 !Fellowship of the Studienstiftung des deutschen Volks, 1978-1982 !Fellowship of the Bavarian Begabtenförderung, 1977-1982 !2014 Member of the Commissione giudicatrice della valutazione comparativa of the University Trento !2008-2013 Director of the new Notre Dame Institute for Advanced Study !2007 and 2009 Member of the two Strategic Academic Planning Committees of the University of Notre Dame !2004-2005—Member of the UNESCO/COMEST group on the precautionary Department of German, Ohio State University, 1996 47-VH 8/9/17  8/9/17 principle !2002-2003–Member of the Norwegian commission to promote candidates for full professorship in philosophy !2001 -- Organized with Christian Illies a conference on “The Metaphysical implications of Darwinism” at the University of Notre Dame !2000 – present -- Editor of the series “Faszination Philosophie” with the publisher C.C. Buchner !2000 – Organized a conference on hermeneutics at the University of Notre Dame !2000 – Organized lecture series on sustainability in Hannover in connection with EXPO 2000 !2000 – Organized conference on metaphysics in Hildesheim !1999 – 2002 -- Member of the Board of Trustees of the European College of Liberal Arts in Berlin !1999 – present -- Service in many committees at the University of Notre Dame (both departmental, college and university level, among which in the Strategic Academic Planning Committee) !1998 – Organized lecture series on Leibniz in Hannover !1998 – present -- Member of the Kuratorium of the Jakob-Kaiser-Stiftung !1998 – Responsible Director of the Forschungsinstitut für Philosophie Hannover !1997 – 2000 -- Member of the Kuratorium of the Stiftung fur die Rechte zukünftiger Generationen !1997 – 2000 -- Member of the Stiftungsrat of the Petra Kelly-Stiftung !1997 – 1999 – Member of the group “Coherence” of the Common Conference Church and Development !1993 – 1997 – Member of the Kuratorium of the Akademie Gesellschaft und Wissenschaft !1993 – 1996 – Member of the group “Economy and Ecology” of the state minister of ecology of Baden-Württemberg !1990 – 1997 – Member of the Fachbereichsrat and the Konvent at the University of Essen; Chair of the Magisterprüfungsasschuss des Fachbereichs !1990 -- present --Member of the Wissenschaftlicher Beirat and corresponding member of the Humboldt-Studienzentrum of the University of Ulm !1990 – 2001 – Editor of the monograph series “Ethik im technischen Zeitalter” with C.H. Beck publishing house, Munich !1988 – 2000 -- Advisor for several dissertations and master’s theses at the New School for Social Research, the University of Tübingen, the University of Essen !1991 – 1998 – Member of the DAAD-Kommission for Southern Europe 48-VH  Languages Employment History 8/9/17 !1990 – Member of the Commission on the Ethical Evaluation of the abortion pill (RU 486), Hoechst !1989 –2000 – Offered several seminars on the Ethics of Business to Top Executives and Managers of Beiersdorff, Hoechst, Bosch and other larger German firms !1987 – 1990 – Elaborated the general plan for the Multimedia Encyclopedia of Philosophy for the Italian State Television (RAI); directed interviews with leading philosophers such as Apel, Feyerabend, Føllesdal, Rorty, Thieme, Goodman, Hintikka, Jonas, gave myself many interviews on the history of philosophy and on systematic issues !1986 – 1990 – Participation in the administrative work of the Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, including the review of manuscripts and the planning of conferences !1986 – 1989 – Wrote four papers for the Office of the Chancellor, Federal Republic of Germany !1988 – Organized a Kant conference at the New School for Social Research Active knowledge of German, Italian, English, Spanish, Russian, Norwegian, and French; passive knowledge of Latin, Greek, Sanskrit, Pali, Avestan, Portuguese, Catalan, Modern Greek, Swedish, and Danish !2008 – present – Director of the Notre Dame Institute for Advanced Study !1999 – present – Paul Kimball Professor of Arts and Letters at the University of Notre Dame (in the Departments of German, Philosophy, and Political Science); Fellow of the Nanovic Institute for European Studies and of the Kroc Institute for International Peace Studies !1997 – 2000 – Director of the Research Institute of Philosophy in Hannover !1993 – 1997 – Full Professor, University of Essen !1987 – 1993 – Heisenberg Fellow, Deutsche Forschungsgemeinschaft !1989 –1990 – Visiting Professor, University of Ulm !1988 – 1989 – Associate Professor with tenure, New School for Social Research !1986 – Visiting Assistant Professor, New School for Social Research Birthdate: June 25, 1960 Personal 49-VH  Married, three children German and American citizenVittorio Gronda Hösle. Hösle. Keywords: “L’inter-soggetivo di Vico” “filosofia prima” “filosofia seconda”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Hösle: l’implicatura di Vico” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753865907/in/dateposted-public/

 

Iacono (Girgenti). Filosofo. Grice: “I love Iacono; for one, he has taken Marx’s chapter on cooperation in Das Kapital seriously; but as he notes, Marx subverts the order, the symbolic interaction becomes a super-structure! Iacono recognises the perplexities of shared intentionality, and finds ways to deal with them conceptually –Insegna a Pisa. Fra i filosofi che si sono interessati ai rapporti storici e teorici della filosofia con l’antropologia e la politica. Si occupa di epistemologia della complessità (“L'evento e l'osservatore”, Bergamo). Fonda “Ichnos,” Laboratorio filosofico sulla complessità. La sua ricerca mostra un costante confronto con la filosofia antica: al riguardo, si dedica all’analisi di nozioni quali feticismo, paura e meraviglia, e all'indagine epistemologica sul tema dell'osservatore. Tali ricerche gravitano attorno ad una riflessione sul tema dell'”altro” nelle relazioni storico-sociali e politiche: da qui i saggi sulle triadi concettuali autonomia, potere, minorità e storia, verità, finzione.  Ne “Il borghese e il selvaggio” analizza l'influenza la figura di Robinson Crusoe nei paradigmi filosofico-economici di Turgot e Adam Smith rilevando gli elementi di antropologia occidentalista là dove la rappresentazione teorica della società e della storia si mostrava nei suoi aspetti apparentemente semplici, ovvi e trasparenti tali da nascondere con l'evidenza i presupposti del punto di vista coloniale.  In “Il feticismo” (Milano) studia la genealogia del concetto dalla sua origine nell'illuminista Charles de Brosses fino a Marx, a Freud e al pensiero contemporaneo, ha contribuito, sul piano metodologico, all'idea di una storia della filosofia interpretata attraverso concetti e, sul piano interpretativo, alla messa in evidenza dei mutamenti semantici del concetto di “fetice”, di origine coloniale che si è trasformato con Marx e con Freud in due modi di operare, rispettivamente sul mondo storico-sociale e sul mondo della psiche, basati sulla pratica teorica di un'antropologia dall'interno. Le fétichisme. In “Paura e meraviglia: storie filosofiche” (Catanzaro) i temi storiografici dell'illuminismo e del fetice vengono ripresi e ridiscussi alla luce del pensiero contemporaneo.  Il problema filosofico e politico dell'antropologia dall'interno è stato sviluppato attraverso la questione epistemologica dell'osservatore. Influenzato da Marx, ma anche da Foucault e da Bateson, analizza le teorie della storia di Bossuet, Vico e Droysen attraverso il tema del ruolo dell'osservatore che interpreta gli eventi sociali e naturali nella loro storicità. Interessato alle teorie contemporanee dell'”auto-organizzazione” biologica (Atlan, Maturana, Varela), cercato di reinterpretare il senso epistemologico della storia, la parzialità dei punti di vista impliciti dell'osservatore e delle sue visioni del mondo, la questione dell'altro, il rapporto tra scienze storico-sociali e scienze naturali, alla luce del concetto di complessità. In questa chiave, in “Tra individui e cose” (Roma) raccoglie i risultati di ricerche che, all'interno dei rapporti fra filosofia, antropologia e politica, si interrogava attraverso Bateson sull'idea del ‘pensare per storie' come momento metodologico e critico di un'antropologia dall'interno in una società come quella occidentale moderna dove le cose si sostituiscono feticisticamente agli uomini e il conformismo si mostra incessantemente e paradossalmente come l'irrompere del nuovo.  Il problema della critica sociale e dell'autonomia individuale come decisivo in una società occidentale che domina il mondo dichiarandosi libera e democratica è al centro di “Autonomia, potere, minorità” (Milano). Partendo dallo scritto di Kant “Che cos'è l'Illuminismo?, Iacono si chiede perché in una società istituzionalmente ‘libera' e ‘democratica', all'indomani della fine dei regimi socialisti, il desiderio di uscire dallo stato di minorità non riesce a vincere il contrastante desiderio di rimanere nello stato di minorità, perché in sostanza è così forte la paura di essere autonomi.  La questione dell'autonomia lo ha portato a interessarsi ai temi della verità, dell'illusione e dell'inganno. Per un'antropologia dall'interno occorre vedere con altri occhi e per vedere con altri occhi è necessario acquisire uno sguardo d'altrove. I temi dell'universalismo e della questione dell'altro sono discussi in quest'ottica in “Storia, verità, finzione” (Roma). La meraviglia che connota il tono emotivo della conoscenza filosofica deve passare attraverso lo straniamento: essere straniero a te stesso affinché l'altro non sia straniero a te. L'autonomia può realizzarsi soltanto nella relazione con l'altro e non, come se l'è immaginato il pensiero moderno, recidendo ogni legame per poi andarlo a costituire da padroni. Ma un'antropologia dall'interno è continuamente in tensione con un senso comune che, conservando le verità condivise ovvero i pregiudizi, tende a mostrarle come ovvie, naturali, eterne, uniche, a renderle dunque salde e indiscutibili. Ci si dimentica allora che viviamo in molti mondi, in mondi intermedi (“Mondi intermedi e complessità” -- Pisa), e che siamo capaci, con la coda dell'occhio, di percepire sempre un mondo altro da quello in cui siamo immersi. Perdendo questa percezione perdiamo la nostra capacità di uscire da noi stessi e dunque la facoltà di essere autonomi. L'illusione, attraverso cui ci si approssima alla verità, che è consapevolezza critica di un'illusione stessa (Nietzsche, Pirandello), si trasforma in inganno e in auto-inganno, sulle cui basi si produce il rischio della costituzione delle regole del consenso, in una società libera ma senza autonomia. Un'altra direzione di studi riguarda  le genealogie dell'immagine della finestra e del concetto di illusione nella storia del pensiero occidentale. In quest'ambito di riflessione Iacono realizza Con altri occhi.  Iacono dirige il bimestrale di politica e cultura Il Grandevetro. Ha collaborato per anni al quotidiano il manifesto. Fa parte del Comitato scientifico della Scuola di formazione e ricerca sui conflitti Polemos. Fa parte del comitato scientifico della Fondazione Collegio San Carlo di Modena.  Ha laureato molti studenti al polo universitario universitario penitenziario della casa circondariale Don Bosco di Pisa e tuttora collabora a progetti e iniziative per un'effettiva opera di recupero del detenuto che sconta la pena. Saggi: “L'illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare” (Mondadori, Milano); “Il sogno di una copia. Del doppio, del dubbio, della malinconia” (Guerini, Milano); “Storie di mondi intermedi” (ETS, Pisa); “Marx. La cooperazione, l'individuo sociale, le merci” (ETS, Pisa); Filosofia alle elementari”; “Le domande sono ciliegie, Manifestolibri, Roma, Per mari aperti. Viaggi tra filosofia e poesia nelle scuole elementary (Roma); Filosofia alle scuole superiori”; “La giustizia è l'utile del più forte? Incontro con gli studenti del Liceo classico «Empedocle» di Agrigento, Pisa; Ra Racconti L'accelerato, in Favolare Antonia Casini e Giovanni Vannozzi, MdS editore, Pisa,  La scelta, in Gabbie, Michele Bulzomì, Antonia Casini, Giovanni Vannozzi, MdS editore, Pisa  PSYCHOMEDIA JOURNAL OF EUROPEAN PSYCHOANALYSIS.  Alfonso Maurizio Iacono Studi su Karl Marx La cooperazione, l’individuo sociale e le merci  vai alla scheda del libro su www.edizioniets.com  Edizioni ETS  www.edizioniets.com  © Copyright 2018 Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884675158-4 ISSN 2420-9198 PREFAZIONE La notizia dei braccialetti che l’ingegner Cohn ha brevettato per il controllo dei lavoratori di Amazon (più educatamente e ipocritamen- te, per migliorare l’efficienza del lavoro) merita, al di là delle polemi- che contingenti, qualche riflessione su un mondo nascosto e dimenti- cato che tuttavia esiste su questo pianeta e non si vede: il mondo dello sfruttamento sul lavoro e la lesione della dignità di chi lavora. Mi serve un libro, vado su Amazon, lo cerco, lo trovo. C’è anche la versione ebook. Non è la stessa cosa del libro fisico, ma ha due vantaggi. Costa molto meno e, cosa importantissima, dopo avere pagato, lo ottieni in Kindle con un semplice click. Non è la stessa cosa del libro fisico per un’altra ragione. L’impaginazione è diversa e non corrisponde affatto a quella del libro. Questo complica le cose non tanto al lettore di un romanzo giallo, per esempio, o di racconti in generale, quanto allo studioso o, più in generale, a colui che ha bisogno del documento ori- ginale. Mettiamo comunque che voglia e trovi il libro fisico e lo ordini, magari con un sistema veloce che pago in sovrapprezzo. Devo supe- rare una frustrazione. Non posso averlo subito. Non ce l’ho lì davanti sullo scaffale di una libreria. Vedo la copertina online. Devo aspettare uno o qualche giorno. Peggio se lo acquisto nel week end. Una piccola frustrazione, senza dubbio, ma nel nostro pianeta, che è un’immensa raccolta di merci fisiche e virtuali, siamo ormai abituati ad avere tutto e subito, e aspettare non è facile. Ogni nostro desiderio è un ordine che il mercato può eseguire per soddisfarlo, e poter girare fra le merci, libri o divani o qualunque altra cosa, in modo virtuale, da un lato ti dà un senso di straordinaria, gioiosa potenza, dall’altro però ti produce una sensazione di mancanza. Vuoi mettere andare al negozio e provare la giacca, anzi peggio ancora le scarpe o i pantaloni per vedere se ti stanno? Certo, online risparmi. Inoltre, a ovviare a quella sensazione di mancanza derivata dal fatto che il desiderio dell’acquirente non si può soddisfare immediatamente, vi è la precisione rigorosa nella con- segna. Tutto sembra perfetto, ma a quale prezzo? Al prezzo dello sfruttamento di chi la merce la deve impacchettare, spostare, consegnare. Un prezzo che il cliente non vede. Non è una novità. Il braccialetto dell’ingegner Cohn è l’ultimo ritrovato di una lunga storia del lavoro. Karl Marx aveva fatto vedere bene come stavano realmente le cose nei processi di produzione delle merci. Quel genio che era Charlot aveva rappresentato una straordinaria parodia del sistema di sfruttamento del lavoro dell’operaio nel famoso film Tempi moderni, dove il lavorato- re doveva adattarsi alla velocità del sistema automatico di produzione. In epoca più recente ricordo che perfino zio Paperone cercò di usare le scimmie per il lavoro a catena, ma fallì perché perfino esse non riusci- vano ad adattarsi. Negli anni ’70 Michel Foucault scrisse Sorvegliare e punire, un’analisi cruda dell’organizzazione di un carcere, il cui sistema di controllo era simile a quello elettronico rappresentato dai braccia- letti. Lo sfruttamento del lavoro e la lesione della dignità dei lavoratori, checché se ne dica, non sono diminuiti negli anni, anzi, nonostante le leggi, sono probabilmente aumentati. Dietro la concorrenza e la libertà di mercato, dietro le luci dei supermercati reali o virtuali, dentro quelle nuove caverne di Platone che sono i centri commerciali di Los Angeles, Dubai, Shanghai, Milano e al di là della finestra dei nostri computer o tablet da cui acquistiamo online, vi è ancora il lato oscuro, materiale e psicologico, del dispotismo sul lavoro che oggi nessuno vuol vedere, talvolta nemmeno chi lo subisce. Fino a quando qualcuno di sabato sera, nel suo tempo libero, si siede al bar e chiede di bere, vi sarà sem- pre qualcun altro che dovrà preparare il cocktail e un altro ancora, magari extracomunitario, che lo porterà con un vassoio. Il tempo li- bero di uno è il tempo di lavoro di altri. L’idea che il lavoro sparisca e in particolare sparisca il lavoro manuale mi pare sinceramente, questa sì, una bubbola neoliberista. Meno si vede il lavoro sfruttato e meglio è per il neoliberismo. La tecnologia espelle il lavoro e toglie l’occupa- zione, ma non lo fa sparire. Lo disloca altrove e non lo concentra più in grandi spazi chiusi. Ed è questo che ha messo in totale confusione la sinistra nel mondo. Accade con il lavoro quello che accade con la merce. La compri ma non ti accorgi della quantità di lavoro sociale che ci è voluto per produrla e poi metterla sul mercato. Ti bevi il cocktail ma non vedi nemmeno in faccia il cameriere che te lo porta e che sta lavorando mentre tu ti riposi e a cui forse lascerai una mancia. Il primato del tempo libero è un buon modo per soggiacere al neoliberismo. Potremmo davvero vivere in ozio permanente nel tempo libero? È questo a cui aspiriamo? E perché allora, occupati, disoccupati, precari, siamo tutti depressi? Certo il lavoro troppo spesso è odioso, ma allora il problema è l’odiosità del lavoro, il suo sfruttamento, non la sua fine. Dietro l’ordine online che facciamo su Amazon vi sono la- voratori che con la testa e con le mani portano, impacchettano, spedi- scono, trasportano e ai quali si vuole mettere il braccialetto elettronico di controllo. Non credo che con tutta la tecnologia li si possa sostituire con dei robot, ma credo che con tutta la tecnologia li si possa usare schiavisticamente come dei robot. Una cosa è lottare per riappropriarsi del lavoro e della sua qualità, altra cosa è rifiutarlo. È nella chiave della riappropriazione del lavoro che è ancora valido, a mio parere, il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”, così come la gratuità della forma- zione scolastica e universitaria. In uno scritto recentissimamente pubblicato in Italia, Realismo capitalista (Nero, Roma 2018), ma uscito in lingua inglese nel 2009, nel bel mezzo dell’esplodere della crisi economica, Mark Fisher, scrittore, filosofo, critico musicale britannico, morto suicida lo scorso anno, ha cercato di rispondere alla famosa affermazione della Signora Marga- ret Thatcher secondo cui al sistema in cui viviamo non c’è alternativa. Un’affermazione vincente che, togliendo al futuro ogni possibilità di accompagnare la politica, lo fece a suon di licenziamenti e ristruttu- razioni aziendali che sarebbero diventati un modello per tutto il capi- talismo occidentale. A sinistra cominciarono i laburisti con il pentito Blair a fare propria la visione thatcheriana, e il modello neoliberista si diffuse quasi ovunque con l’accentuarsi vistoso e potente delle di- seguaglianze e attraverso l’ideologia oggi ancora dominante secondo cui tutto il mondo deve essere modellato come un’azienda. Ideologia che oggi paradossalmente trova quasi più critiche a destra che non a sinistra. Avere tolto ogni alternativa futura ha di fatto azzerato le si- nistre. Il loro ruolo è spesso diventato quello un po’ servile di tampo- nare più o meno malamente gli effetti collaterali del neoliberismo, del dominio della privatizzazione, dello sperpero del bene comune, della devastazione ambientale, senza neanche riuscirci. Scrive Mark Fisher: “Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di avere raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto”. Le sinistre non potrebbero accettare il neoliberismo come principio, ma se viene naturalizzato come un fatto compiuto allora è diverso. In fondo i dirigenti politici sono tutto som- mato abbastanza ben pagati e sufficientemente fragili culturalmente per scomodarsi a mettere in discussione ciò che è dato come naturale e scontato. “Nel corso di più di trent’anni, continua Fisher, il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di ontologia imprendi- toriale per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’e- ducazione, andrebbe gestito come un’azienda”. Oggi l’aziendalismo è un vero delirio ideologico. I lavoratori sono imprenditori di se stessi, così costano meno alle aziende e possono essere meglio sfruttati, le scuole e le università e gli ospedali invece di pensare alle loro rispettive missioni, affogano penosamente nell’ansia generalizzata della competi- tion, versione metropolitana e neoliberista della giungla. Benvenuti nel realismo capitalista! Questo libro raccoglie studi su Marx che ho portavo avanti a par- tire dagli anni ’70 sui temi della cooperazione e della sua ambivalenza, sul suo metodo, sulle sue concezioni antropologiche. Nonostante siano accadute molte cose nel corso del tempo, dalla fine dell’era industriale alla caduta del muro di Berlino, dalla crisi irreversibile dei partiti operai al trionfo del neoliberismo, alcuni punti, che molti, troppo spesso ab- bacinati dal mantra conservatore del nuovo e del cambiamento, hanno abbandonato, a mio parere, restano fermi. Primo fra tutti il lavoro e in particolare il lavoro cooperativo, grazie a cui, come sostiene Marx, gli uomini si spogliano dei loro limiti individuali e sviluppano la facoltà della loro specie e a causa del quale, nello stesso tempo, essi, dopo aver subito il dispotismo e il disciplinamento di fabbrica, introiettano oggi il dispotismo e il controllo della produzione. E ciò mentre vivono la condizione illusoria di essere imprenditori di se stessi, dopo che dal comprensibile desiderio della flessibilità si ritrovano nella miseria mate- riale e psicologica della precarietà del lavoro. Non hanno più né tempo né possibilità di progettare il futuro e, del resto, è proprio il futuro che è stato tolto, perché esso oggi si mostra al massimo e quasi soltanto come mantenimento dell’esistente, quando non come una devastazione catastrofica del presente. Nessuno ha il coraggio di guardare altrove, là oltre l’orizzonte, dove poter immaginare una vita diversa dalla libera, depressiva solitudine degli iperconnessi che convive con naturalezza insieme alla schiavitù del lavoro nella gran parte del mondo. Eppure è proprio quello che serve. In un libro di alcuni anni fa1 avevo cercato di affrontare il tema dell’autonomia individuale consapevole della lacuna che vi era e cioè del fatto che il tema dell’autonomia si deve porre dentro le condizioni della natura dell’uomo in quanto animale sociale e dunque all’interno delle relazioni sociali. Non vi può essere autonomia in senso proprio (1 A.M. Iacono, Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano) senza eguaglianza delle relazioni sociali. Forse, riprendendo l’argomen- to della facoltà cooperativa degli uomini e del fatto che essi devono riappropriarsene a partire dal lavoro, si potrebbe ripercorrere una stra- da che nel corso tempo ha cambiato il suo tracciato e il cui manto è attualmente pieno di buche. Desidero ringraziare Silvia Baglini, Giacomo Brucciani, Enrico Campo, Francesco Marchesi, Luca Mori, Giovanni Paoletti. Dedico questo libro alla memoria di Nicola Badaloni, Marco, che mi introdusse agli studi su Marx. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Versione largamente rivista di Divisione del lavoro e sviluppo della facoltà della specie umana in Marx, originariamente pubblicato in «Critica marxista», n. 3, 1977, pp. 109-114. Capitolo Secondo Sull’ambivalenza della cooperazione, in Ecologia, Esistenza, Lavoro, (Officine Filosofiche), a cura di M. Iofrida, Mucchi, Bologna 2015, pp. 33-50. Capitolo Terzo Versione modificata del saggio apparso originariamente con il titolo Sul concet- to di ‘trasparenza’. Un’immagine di asssociazione di uomini liberi nel ‘Capitale’ di Marx, in «Metamorfosi», n. 4, 1981, pp. 126-139. Capitolo Quarto Versione largamente modificata di un saggio apparso originariamente con il titolo Rapporti economici e rapporti sociali in Marx, in «Prassi e teoria», n. 6, 1980, pp. 137-156. Capitolo Quinto Versione modificata del saggio originariamente pubblicato in «Annali della Scuola Normale Superiore», vol. XVIII, 2, 1988, pp. 549-766 (relazione al semi- nario dedicato a Bachofen tenuto alla Scuola Normale Superiore e coordinato da Arnaldo Momigliano). Capitolo Sesto Versione modificata di Sul concetto di feticismo, in «Studi Storici», n. 3⁄4, 1983, pp. 429-436. Capitolo Settimo Versione modificata di Concezione antropologica e concezione storica in Marx. Il caso particolare del ‘feticcio della merce’, in aa.VV., Antropologia, prassi, eman- cipazione. Problemi del marxismo, a cura di G. Labica, D. Losurdo, J. Texier, Quattroventi, Urbino 1990. DIVISIONE DEL LAVORO E SVILUPPO DELLA FACOLTÀ DELLA SPECIE UMANA IN MARX 1. In un luogo del capitolo sulla cooperazione, Marx afferma: “Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della specie”1. La facoltà della specie umana consiste nella capacità che hanno gli operai riuniti insie- me e combinati secondo le figure della cooperazione di produrre una quantità di oggetti superiore a quella che lo stesso numero di operai sarebbe in grado di produrre se ciascuno di essi lavorasse isolatamente. Questa idea è già in Adam Smith, attraverso il famoso esempio del- la fabbrica di spilli, come ragione di superiorità del modo capitalistico di produzione, basato essenzialmente sulla manifattura, sui precedenti modi di produzione2. Sappiamo che, per Marx, la cooperazione è “la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico”3 e precisa- mente è la forma che attraverso le sue figure tende a svuotare le facoltà individuali degli operai e a trasferirle ai mezzi di lavoro. Nella figura più complessa di cooperazione capitalistica, quella del macchinismo, questo trasferimento si realizza completamente. La storia del passaggio dalla cooperazione semplice, alla manifattura, alle macchine, può essere letta come la storia della perdita delle facoltà individuali lavorative degli operai singoli in ragione dello sfruttamento derivante dallo sviluppo tecnico del processo capitalistico di produzione. Già in A. Smith, nel Libro V della Indagine ecc., si ritrova la descrizione della perdita delle facoltà degli operai sottoposti alla divisione del lavoro nella manifattu- ra. Questa perdita di facoltà è posta come ragione di inferiorità della classe operaia nei confronti dei popoli selvaggi, dove non sussiste la divi- sione del lavoro: rispetto ai selvaggi, lo sviluppo delle facoltà individuali degli operai appare in ragione inversa della crescita della quantità di 1 K. Marx, Il capitale, I, trad. D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 371. 2 Cfr. A. SMIth, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano 1973, Libro I, cap. I e A. SMIth, La ricchezza delle nazioni. Abbozzo, trad. V. Parlato, Editori Riuniti, Roma 1969. 3 K. Marx, Il capitale, cit., p. 377. AMBIVALENZA DELLA COOPERAZIONE Il ritorno dell’uomo come animale sociale Dopo anni di elogio dell’individualismo nel bel mezzo della glo- balizzazione, mentre ritornava in un modo piuttosto primitivo l’abusa- ta metafora della mano invisibile, qualcosa è cambiato. Dopo l’euforia degli anni ’80, un po’ di attenzione si è spostata da una filosofia inge- nua (ma estremamente vantaggiosa per alcuni) dell’individuo verso la facoltà collaborativa e cooperativa degli uomini. In un certo senso è tornata, se non proprio al centro, almeno lateralmente, l’immagine ari- stotelica dell’uomo come zòon politikón, dell’uomo cioè, come ebbero a tradurre Seneca e Tommaso d’Aquino, come animale sociale. L’elemen- to sociale è tornato a essere considerato come costitutivo della forma- zione dell’individuo sul piano etico, politico e cognitivo. Recentemente il sociologo Richard Sennett ha pubblicato un libro che significativa- mente ha per titolo Insieme ed è un’indagine sulla facoltà cooperativa degli uomini esplicitamente influenzata dalle teorie di Amartya Sen e Martha Nussbaum. “Le idee di Amartya Sen e Martha Nussbaum, egli scrive, sono state per me fonte di ispirazione e costituiscono il tema di fondo che orienta questo libro: le capacità di collaborazione delle per- sone sono di gran lunga maggiori e più complesse di quanto la società non dia loro spazio di esprimere”1. In sostanza la facoltà cooperativa degli uomini, nel nostro sistema sociale, non riesce ad esprimersi ap- pieno e in particolare non assicura la piena realizzazione delle capacità emotive e cognitive umane. Lo scenario che emerge da questa tesi è dunque in primo luogo che la società non riesce a realizzare la facoltà cooperativa umana e in secondo luogo che tale facoltà si realizza grazie alle capacità emotive e cognitive e viceversa, nel senso che, queste, a loro volta, si realizzano appieno soprattutto nella collaborazione e nella cooperazione. 1 R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri e politiche della collaborazione, Feltrinel- li, Milano 2012, p. 41. DIETRO C’È SEMPRE QUALCOS’ALTRO Un’immagine di associazione di uomini liberi e l’idea di trasparenza La trasparenza nasconde sempre qualcosa. Più precisamente na- sconde ciò che viene tolto per far sì che l’immagine renda trasparenti i rapporti che si vogliono rappresentare. Nell’economia politica, quel- le che Marx chiamava “robinsonate”avevano un importante significato epistemologico: semplificare e rendere per l’appunto trasparenti i rap- porti economici complessi del modo di produzione capitalistico. Que- sto processo di semplificazione presupponeva sempre una scelta in ciò che si voleva rappresentare o, in altri termini, un taglio nel quadro rap- presentativo che presupponeva un privilegiamento di una determinata struttura visiva invece di un’altra. Nell’immagine di Robinson ciò che Defoe vuol far vedere è il rap- porto tra il protagonista del suo romanzo e lo spazio naturale che egli deve trasformare per renderlo utile alla sua sopravvivenza. Il comporta- mento di Robinson è il comportamento del borghese nel suo rapporto con la natura attraverso il lavoro. Ed in effetti, da questo punto di vista, il rapporto tra Crusoe e le cose è chiaro e trasparente: “Il suo inventario dice Marx contiene un elenco degli oggetti d’uso che possiede, delle diverse operazioni richieste per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di questi diversi prodotti”1. L’effetto di trasparenza appare dato da alcune condizioni complesse che già decidono i contorni dell’immagine e dunque la par- zialità di una rappresentazione semplificata del comportamento di un individuo alle prese col proprio lavoro. Baudrillard ha osservato che la trasparenza della relazione di Robinson con le cose è truccata2, ma la chiave del trucco è rintracciabile già nella stessa immagine descritta da 1 K. Marx, Il capitale, cit., p. 109. 2 L. baudrIllard, Per una critica dell’economia politica del segno, Mazzotta, Milano 1974, p. 148. IL METODO DI MARX E L’USO DELL’ASTRAZIONE 1. A più riprese Marx ha sottolineato che il porre l’uomo isola- to all’origine dello sviluppo sociale e del processo storico è un assur- do. Nelle Forme che precedono la produzione capitalistica, egli osserva come sia semplice raffigurarsi che un uomo potente possa servirsi di un altro uomo “come di una condizione naturale preesistente della sua riproduzione”1, e fare dell’esercizio del dominio il suo specifico lavoro allo scopo di far lavorare altri uomini per lui; presupporre cioè una divisione del lavoro tra signore e servo prima che siano state poste le condizioni originarie, comunitarie per la riproduzione della vita de- gli uomini. “Ma una simile idea è assurda – per quanto possa essere giusta dal punto di vista di certe organizzazioni tribali o collettività – in quanto essa parte dallo sviluppo di uomini isolati. L’uomo si isola soltanto attraverso il processo storico”2. La questione posta da Marx non è, ovviamente, nuova. Ferguson, per esempio, aveva già sostenuto la necessità di considerare la specie umana in gruppi e di condurre l’indagine storico-sociale avendo come oggetto la società intera e non gli uomini separatamente presi3. In generale tutta la cosiddetta “scuola storica scozzese” aveva posto il problema di uno studio della storia umana a partire dagli uomini riuniti in società ed aveva sottolineato che il fattore chiave per comprendere lo sviluppo delle diverse società era il “modo di sussistenza”4, da cui si potevano spiegare costumi, leg- gi, forme di governo. È stato sostenuto, a questo proposito, che Marx 1 2 3 Bari 1999, 4 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II, cit., p. 123. Ibidem. A. FerguSon, Saggio sulla storia della società civile (1767), Laterza, Roma- p. 6. Cfr. W. robertSon, History of America (1777), in Works, Hill, Edinburgh V, p. 111; e J. MIllar, The Origin of the Ranks (1771), ristampato in W.C. 1818, vol. lehMann, John Millar of Glasgow, Cambridge University Press, Cambridge 1960, p. 175 (trad. it. J. MIllar, Osservazioni sull’origine delle distinzioni di rango nella società, Fran- coAngeli, Milano 1989). BACHOFEN, ENGELS, MARX La pubblicazione ad opera di Krader degli estratti etnologici, l’ultimo lavoro di Marx, rimasto incompiuto, impone di discutere del ruolo di Bachofen nell’Origine della famiglia di Engels, che segnò la fortuna del Mutterrecht nel marxismo, tenendo conto di questo labora- torio. La ragione è semplice: il libro di Engels è basato su tali appunti, e certamente, comparando lo scritto di Marx con quello di Engels, balza subito agli occhi il ben diverso peso che Bachofen ha nei due casi. D’altra parte la frammentarietà degli appunti marxiani non rende sem- plice il lavoro, ma non ci si può accontentare di segnalare le differenze di Marx e di Engels su Bachofen senza fare almeno un tentativo di interpretare il senso della ricerca di Marx al momento della sua morte. Si tratta di provare a capire, se è possibile, quale significato abbia la grande presenza di Bachofen nell’opera di Engels, laddove la cosa non è affatto riscontrabile nel Marx che sta lavorando su quel Morgan che, a sua volta, sarà la base dell’Origine della famiglia. Ma, data appunto la frammentarietà del testo di Marx, l’unica via praticabile sembra quella di considerare in primo luogo il contesto teorico entro cui Marx stava operando e riflettendo. 1. Il laboratorio di Marx L’Origine della famiglia, la cui prima edizione è del 1884, fu pre- sentata da Engels come l’“esecuzione di un lascito”1. Marx, morto un anno prima, aveva lasciato ad uno stadio rudimentale il suo lavoro su Morgan, Phear, Maine, Lubbock, Kovalevskij2. Si trattava in gran parte 1 F. engelS, L’origine della famiglia, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 33. 2 The Ethnological Notebooks of Karl Marx (Studies of Morgan, Phear, Maine, Lubbock), cit.; L. krader, The Asiatic Mode of Production. Sources, Development and Critique in the Writings of Karl Marx, Van Gorcum, Assen 1975 pp. 343-412: K. Marx, Excerpts from M.M. Kovalevslcij. Sugli appunti di Marx; cfr. inoltre, L. achenza, Sui Taccuini etnologici di Marx, in «ASNP», S. III, XIV, 1984, pp. 1385-1416; P. greMIgnI, SUL CONCETTO DI «FETICISMO» IN MARX Il concetto marxiano di feticismo delle merci è stato analizzato da due punti di vista: quello del suo rapporto con il concetto di alienazione e l’altro della sua connessione con la teoria del valore. È possibile tut- tavia affrontare il problema in modo diverso, forse più ovvio: a partire cioè dalla fonte usata da Marx per la formazione di questo concetto. Si tratta dell’opera di Charles de Brosses, Du Culte des Dieux fétiches, pub- blicata anonima a Parigi nel 1760, che Marx aveva studiato a Bonn nel 1842 in una traduzione tedesca di Pistorius del 1785, e di cui aveva fatto degli estratti1, come del resto di altri testi, tra i quali quello di Meiners sulle religioni2 che riprende il tema brossiano. Considerato il problema da questo angolo visuale, si potrà vedere che il concetto marxiano di feticismo, che diventerà successivamente il concetto di feticismo delle merci, è carico di implicazioni che forse consentono di precisare alcune questioni teoriche ad esso connesse. 1. Il concetto di feticismo ripropone, come è noto, il problema delle apparenze, cioè dello scarto esistente tra l’essere sociale e le im- magini “nebulose e fantastiche” attraverso cui l’essere sociale è visto e concepito dagli uomini. Un tema che percorre la riflessione di Marx nel corso di tutta la sua biografia intellettuale, ma che nel feticismo delle merci assume un valore specifico. Ed è proprio per questo che appa- re necessario percorrere specificamente la strada dello sviluppo di tale concetto, anche perché, inoltre, in esso si possono rilevare due momen- ti importanti del procedimento teorico di Marx, certamente carichi di 1 K. Marx, Fetischismus, MEGA 2, vol. IV/1, Dietz, Berlin 1976. 2 C. MeInerS, Allgemeine kritische Geschichte der Religionen, 2 voll., Hannover 1806-1807. Su Meiners come volgarizzatore di de Brosses, cfr. M. daVId, La notion de fétichisme chez Auguste Comte et l’oeuvre du présidente de Brosses ‘Du culte des dieux fétiches’, in «Revue de l’Histoire des Religions», t. CLXXI (1967), n. 2, e S. landuccI, I filosofi e i selvaggi, Einaudi, Torino 2014. ANTROPOLOGIA E STORIA IN MARX. IL CASO PARTICOLARE DEL «FETICCIO DELLA MERCE» La nozione di carattere di feticcio della merce costituisce un momen- to particolare e privilegiato per un’analisi del rapporto fra concezione antropologica e concezione storica in Marx. Le ragioni di questa parti- colarità e di tale privilegio risiedono principalmente nei seguenti fatto- ri: a) nell’uso stesso del concetto di «feticcio» mutuato dalla tradizione etnologica e storico-religiosa a partire dal colonialismo; b) nella torsione teorica che il concetto di feticcio e la nozione di «feticismo» giocano nel corso dello sviluppo del pensiero di Marx; c) nel fatto che il «carattere di feticcio della merce» costituisce un aspetto molto specifico e comples- so dell’idea di rovesciamento provocato dalla coscienza ideologica nei confronti della realtà; d) nel fatto, infine, che la nozione di «feticcio» ap- plicata alla merce viene a definite la funzione simbolica dell’oggetto eco- nomico-sociale e, all’inverso, la funzione economico-sociale dell’oggetto simbolico. Di questi quattro fattori, lo svolgimento dei primi due con- sente di capire come l’applicazione del concetto di «feticcio» alla merce capitalistica significhi, almeno per quel che riguarda questo punto, un radicale mutamento strategico e teorico del concetto stesso rispetto alla sua storia e all’accezione fino ad allora comune e dominante in campo filosofico, etnologico e storico-religioso. E lo sviluppo del pensiero di Marx conferma, a mio parere, il senso di tale mutamento. I secondi due fattori aprono molte questioni interpretative, in particolare riguardo al rapporto fra condizioni reali della forma di vita sociale e forme della coscienza e dell’ideologia, alla specificità ed eccezionalità storica del si- stema capitalistico, al problema dell’osservatore che si trova ad operare e interpretare in quel groviglio che è il sopraddetto rapporto fra condizioni della vita sociale e ordine simbolico e culturale. Ma, soprattutto, possono forse aiutare a comprendere il senso della separazione fra la struttura ca- pitalistica delle relazioni fra gli uomini e gli individui in quanto tali; cioè del modo particolare in cui le relazioni si autonomizzano dagli individui, e la «comunità», originariamente concreta, deposita i rapporti nelle cose, andando a costituire un astratto sistema di vincoli sociali. INDICE Prefazione 5 Riferimenti bibliografici 11 1. Divisione del lavoro e sviluppo della facoltà della specie umana in Marx 13 2. Ambivalenza della cooperazione 35 3. Dietro c’è sempre qualcos’altro 55 4. Il metodo di Marx e l’uso dell’astrazione 67 5. Bachofen, Engels, Marx 85 6. Sul concetto di «feticismo» in Marx 101 7. Antropologia e storia in Marx. Il caso particolare del «feticcio della merce» 111 Indice dei nomi 119 philosophica  L’elenco completo delle pubblicazioni è consultabile sul sito www.edizioniets.com alla pagina http://www.edizioniets.com/view-Collana.asp?Col=philosophica  Pubblicazioni recenti 208. Alfonso Maurizio Iacono, Studi su Karl Marx. La cooperazione, l’individuo sociale e le merci, 2018, pp. 124. 207. Imre Toth, Le sorgenti speculative dell’irrazionale matematico nei dialoghi di Platone, a cura di Romano Romani e Paolo Pagli, prefazione di Romano Romani. In preparazione. 206. Alessandra Fussi, Per una teoria della vergogna, 2018, pp. 164, ill. 205. Alberto Pirni, La sfida della convivenza. Per un’etica interculturale, 2018, pp. 308. 204. Matteo Galletti, Reciprocamente responsabili. La responsabilità morale tra naturalismo e normativismo, 2018, pp. 296. 203. Linda Bertelli, L’utopia nell’estetico. Tempo e narrazione in Ernst Bloch, 2018, pp. 152. 202. Andrei Pleșu, Pittoresco e malinconia. Un’analisi del sentimento della natura nella cultu- ra europea, traduzione e cura di Anita Paolicchi, prefazione di Victor I. Stoichita, 2018, pp. XII-216. 201. Danilo Manca, La disputa su ispirazione e composizione. Valéry fra Poe e Borges, 2018, pp. 176. 200. Russo Maria Teresa, Esperienza ed esemplarità morale. Rileggere Le due fonti della mora- le e della religione di Henri Bergson, 2017, pp. 100. 199. Filieri Luigi, Vero Marta [a cura di], L’estetica tedesca da Kant a Hegel, Prefazione di Leonardo Amoroso, 2017, pp. 176. 198. Flamigni Gabriele, Presi per incantamento. Teoria della persuasione socratica, Prefazione di Maria Michela Sassi, 2017, pp. 144.  Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di maggio 2018. Di consequenza, e la cooperazione, cosi come di dispiega nella conversazione, a determinare que moni intermedi che presuppongon non un io ma un noi. Alfonso Maurizio Iacono. Iacono. Keyword: feticismo conversazionale. Il Vico di Iacono. Il Pirandello di Iacono, la cooperazione. Imitare, imago, imaginario collettivo di Jung --  Luigi Speranza, “Grice ed Iacono: l’implicatura dell’intermezzo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Illuminati – il filosofo all’opera – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Illuminati, especially his essay on Rousseau, between solipsism and conversation!” -- La città e il desiderio. Viene meno un modo di fare in cui la soggettività potente si appropria il mondo subordinando le altre potenze soggettive e realizza la sua essenza destinale mediante adeguati meccanismi di rappresentazione e manipolazione tecnica. (108-109) Come utilizzare regole pubblicamente valide senza colpevolizzare e controllare dall'altro le forme di vita degli uomini è precisamente l'antinomia della cittadinanza. La politicizzazione di sfere inabituali va insieme alla diserzione di istituzioni sclerotiche. Una ricaduta pratica ne è l'integrazione delle strutture rappresentative con nuove lobbies o la richiesta di quote per minoranze Nel lasciar-essere che si contrappone alla tracotanza istituzionale convivono cosi l'ancora-non-rappresentato che cerca lobbisticamente rappresentazione, e rifiuto radicare di rappresentazione. Professore associato di storia della filosofia politica, dall'anno accademico ha assunto la cattedra di storia della filosofia, dove è stato chiamato come straordinario. Insegna a Urbino. Fa parte anche del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in antropologia filosofica e fondamenti delle scienze e del Collegio dei docenti del Dottorato di Ricerca in Filosofia Moderna e contemporanea (Bari-Ferrara-Urbino). E' inoltre presidente del Corso di laurea in filosofia.  Ha scritto:  Sociologia e classi sociali, ed. Einaudi, Torino); “Kant politico, ed. La Nuova Italia, Firenze); Società e progresso nell'illuminismo francese, ed. Argalia, Urbino); Jean-Jacques Rousseau, ed. La Nuova Italia, Firenze);  J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, ed. il Saggiatore, Milano); Antologia con introduzione (pp. V-XXX) e note) di J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, ed. La Nuova Italia, Firenze); Gli inganni di Sarastro, ed. Einaudi, Torino);  Il potere "disseminato", in Aa.Vv., Lavoro Scienza Potere, ed. Feltrinelli, Milano); Winterreise, ed. Dedalo, Bari); Racconti morali, ed. Liguori, Napoli); Sentimenti dell'aldiqua (in collaborazione con Aa.Vv.), ed. Theoria, Roma-Napoli); La città e il desiderio, ed. manifestolibri, Roma); Aa.Vv., Democrazia difficile, Roma, ed. il Passaggio);  Nuove servitù (in collaborazione con Aa.Vv.), ed. manifestolibri, Roma); Introduzione a P. Nizan, Aden Arabia, ed. Fahrenheit, Rom);  Esercizi politici —quattro sguardi su Hannah Arendt, ed. manifestolibri, Roma); Averroè e l'intelletto pubblico –antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, introduzione (e cura, ed. manifestolibri, Roma); Il teatro dell'amicizia –metafore dell'agire politico, ed. manifestolibri, Roma);  Quasi una fantasia. Funzioni cognitive dell'immaginazione nei commentatori di Aristotele in Aa.Vv., Imago in phantasia depicta. Studi sulla teoria dell’immaginazione, a cura di Lia Formigari, Giorgio Casertano, Italo Cubeddu, ed. Carocci, Roma, Quasi una fantasia. Funzioni cognitive dell'immaginazione nei commentatori di Aristotele, in Materiali per una storia e teoria dell’immaginazione, “Quaderni dell’Istituto di Filosofia-Urbino” Il filosofo all'Opera, -- Bellini, Verdi -- ed. manifestolibri, Roma); Completa beatitudo: l'intelletto felice. Tre opuscoli sulla. congiunzione con l'Intelligenza Agente. Ed. l'Orecchio di van Gogh, Chiaravalle);  Del comune -cronache del general intellect, Roma, manifestolibri, Bandiere.   Dalla militanza all'attivismo, Roma, DeriveApprodi. Grice: “I enjoyed Illuminati’s treatment of Rousseau’s myth of the social contract, since I made use of it!” – ‘Imagine is a good thing, but is there such a thing as co-imagine?” -- Augusto Illuminati. Illuminati. Keywords: il filosofo all’opera. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Illuminati” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752902177/in/dateposted-public/

 

Grice ed Incardona – Questo è l’uomo – filosofia italiana – filosofia siciliana – gl’inferi del principio -- Luigi Speranza (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Incardona; for one, he gave seminars on ‘la costanza dell’io,’ as I did! Second, he used Greek freely, as I do! Third, he is slightly incomprehensible, as I am SAID to be!” Insegna a Palermo. Studia nel Liceo classico Ruggero Settimo. Direttore del Giornale di Metafisica, fondato da Sciacca. La tematica fondamentale di Incardona è la "filosofia del principio", un percorso nella storia della filosofia sul volto all'interrogazione riguardo al fondamento e all'archè. Le due categorie concettuali attraverso cui legge la storia della filosofia sono l'arcaicità, identificata con Aristotele, e l'arcaismo, identificato con Hegel. Aristotele ed Hegel sono infatti nella filosofia del principio le due porte, l'inizio e la fine, l'elemento e il compimento della filosofia. Il percorso della filosofia e un percorso aporetico, in cui la dialettica assume l'aspetto di un dialogo senza soluzione fra tensione naturale alla conoscenza e fallimento destinale dell'impresa conoscitiva. Ha influenza che nel campo dell'ermeneutica. Il suo contributo determinante è stata la sua riflessione non scettica ma aporetica sull'archè. La questione aristotelica del ‘principio’ (ontologico ed epistemologico, di non contraddizione e teologico come Dio) viene colta ed elevata da questione logica a questione esistenziale. Compagni di strada naturali, sebbene fortemente criticati da Incardona, sono, in questa sorta di teologia negativa, Derrida e Heidegger. In essi è infatti rintracciabile la tematica privativa e mistico-antirazionale del rapporto con l'assoluto. L'unica cosa che si può dire dell'assoluto è che esso non è alla nostra portata, esso nasconde al filosofo il volto come all'esule è nascosta la patria. Sebbene veda nella filosofia post-hegeliana una sorta di "pleonasmo" che non ha più alcuna utilità nella società contemporanea (antifilosofia), sembra che le sue intuizioni più originali e più feconde nascano proprio da una rielaborazione personale delle tematiche ermeneutiche di Heidegger. Saggi: “Idealismo della filosofia ed esperienza storica” (Epos, Palermo); “Idealismo tedesco ed italiano” (Epos, Palermo); “Gl’inferi del principio. Interrogazione e invocazione” (Epos, Palermo); “Karpòs” (Epos, Palermo);  “Meditatio in curriculo mortis” (Epos, Palermo); “Kéntron” (Epos, Palermo); "L'inclusione dell’altro. Profilo di Giuseppe Nicolaci", Epekeina. International Journal of Ontology, History and Critics. Grice: “I used to use ‘principle’ very freely until I met Incardona. My conversational principle of cooperativeness became an ‘imperative’ – the conversational imperative – ‘let’s cooperate!’ – under which the different conversational maxims fall. Incardona says that talk of ‘principle’ usually leads you to an aporia, or to hell! “l’inferi del principio’!”  Nunzio Incardona. Incardona. Keyword: Questo è l’uomo, principio, principio conversazionale, arcaismo, arcaico, arcaita – principium – imperative – Kant – Hegel – Aristotle -. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Incardona” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752880912/in/datetaken/

 

Grice ed Infantino – diada conversazionale – il rischio dei solidali -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Gioia Tauro). Filosofo. Grice: “I like Infantino: for one, he prefaced an essay on ‘the perils of solidarity,’ which is all my conversational pragmatics is about!” Insegna a Roma. La sua filosofia si svolge infatti nel solco tracciato da  Hayek che coniuga le acquisizioni di Mandeville e dei moralisti scozzesi con quelle della Scuola Austriaca di Economia. Cura Menger, Boehm-Bawerk, Mises e Hayek. Pubblica “L’ordine senza piano: le ragioni dell’individualismo metodologico” (Roma, NIS) “Ignoranza e libertà” (Soveria Manneli, Rubbetino); “Individualismo, mercato e storia delle idee”; “Potere. La dimensione politica dell’azione umana” (Soveria Manneli, Rubbettino). Vede nelle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali l’oggetto delle scienze sociali, che vengono in tal modo affrancate da qualsiasi psicologismo. È il tema sollevato da Mandeville e dai moralisti scozzesi, ripreso poi con forza da Menger e Hayek. Non sono le intenzioni dei singoli (o quelli che sono stati infelicemente chiamati “spiriti animali”) a spiegare i fenomeni sociali. Occorre piuttosto individuare le condizioni che rendono possibile o impossibile un dato evento. Tale tradizione di ricerca ha come suo presupposto il riconoscimento dell’ignoranza e della fallibilità umane. Da cui discende l’abbattimento del mito del “Grande Legislatore”, il cui posto viene occupato dal processo sociale, cioè dalla co-operazione volontaria. Questa costituisce un procedimento di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. Ed è su tale teoria della società che Infantino si muove per spiegare il fenomeno del potere, da lui studiato come potere infra-sociale, derivante cioè dall’inter-azione, e il potere pubblico, ossia il potere d’intervento dello Stato nella vita sociale. La competizione minimizza il potere infra-sociale, perché non c’è un unico agente che offre o un unico agente che richiede. Il potere pubblico si minimizza o si limita, attribuendo allo Stato un’esclusiva funzione di servizio nei confronti della cooperazione sociale volontaria. Pubblicato “Cercatori di Libertà” (Soveria Mannelli, Rubbettino, ), in cui è ospitato un suo scritto che ha fatto da introduzione a “A proposito di Rousseau”, dedicato da Hume alla rottura dei suoi rapporti con Rousseau. Gli altri saggi della raccolta si occupano di Constant, Mises, Hayek (Luigi Einaudi). Cubeddu e  Reichlin hanno curato “Individuo, liberta, e potere: studi in onore di Infantino” (Rubbettino Editore) di scritti in suo onore, a cui hanno contribuito numerosi studiosi di ispirazione liberale. Altre opera: Sociologia dell'imperialismo: interpretazioni liberali, Milano, FrancoAngeli); “Dall'utopia al totalitarismo: Marx, Dio e l'impossibile, Roma, Borla); “La societa aperta, Roma, Quaderni del Centro di metodologia delle scienze socialiLUISS Guido Carli; “Metodo e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Destra: una parola ormai inutile” Soveria Mannelli, Rubbettino); “Scuola austriaca di economia: album di famiglia, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le ragioni degli sconfitti: nella lotta per la scuola libera, Roma, Armando); “Le scienze sociali” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Individualismo, mercato e storia delle idee, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee di libertà. Economia, diritto, società” (Soveria Mannelli, Rubbettino); Cercatori di libertà, Soveria Mannelli, Rubbettino);Potere: la dimensione politica dell'azione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli.Grice: “Pure il nostgro piu spontaneo desiderio di aiutare gli altri “esige un patto anticipato fra almeno due persone”, chi propone e chi accetta. Come avviene in ogni altro rapport intersoggetivo, amicia e amore compresi, c’e nella solidarieta uno ‘scambio,’ in cui devono essere presenti la disponibilita a dare e la disponsibilita a ricevere.  Étymol. et Hist. 1. 1584 dr. obligation solidaire (J. Duret, Commentaire aux coustumes du duché de Bourbonnois, § 35, p. 274); 2. id. « se dit des personnes liées par un acte solidaire » (Id., ibid.); 3. 1739-47 « se dit des personnes qui ont une communauté d'intérêts ou de responsabilités » (Caylus, Œuvres badines, X, 41); 4. 1834 « se dit des choses qui dépendent l'une de l'autre » (Béranger, Acad. et Cav. ds Littré); 5.1861 mécan. « se dit des pièces d'un engrenage dont le fonctionnement est lié » (M. Cournot, Traité de l'enchaînement des idées fondamentales dans les sc. et dans l'hist., t. 1, p. 80). Dér. de solide*; suff. -aire1*, pour rendre compte du lat. jur. in solidum « pour le tout », « solidairement ».  Fréq. abs. littér.: 436. Fréq. rel. littér.:xixes.: a) 358, b) 277; xxes.: a) 947, b) 829. Società di mutuo soccorso associazioni di lavoratori sorte per sopperire alle carenze dello stato sociale Lingua Segui Modifica Le  Società operaie di mutuo soccorso (SOMS) sono associazioni, nate in Italia intorno alla seconda metà dell'XIX secolo.[1]   Cesare Pozzo (1835 - 1898), pioniere del mutualismo italiano  Targa della SOMS sull'esterno della sede ad Arquata Scrivia Le forme originarie videro la luce per sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa, trasferendo il rischio di eventi dannosi (come gli incidenti sul lavoro, la malattia o la perdita del posto di lavoro).  StoriaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia dello stato sociale in Italia: l'età liberale (1861-1921). Le SOMS nacquero come esperienze di associazionismo e mutualità, coeve alla protoindustria, per rispondere alla necessità di forme di autodifesa del mondo del lavoro. Dopo l'ondata rivoluzionaria del 1848 la loro diffusione subisce un notevole incremento grazie alla concessione di costituzioni liberali negli antichi Stati italiani. Prima di tale data la libertà di associazione era fortemente limitata ed ostacolata dagli ordinamenti nati nel clima poliziesco della Restaurazione.[1] Il funzionamento delle SOMS venne regolato con la legge 15 aprile 1886, nº 3818.   Giuseppe Moricci, L'artigiano cieco e la sua famiglia, 1851[2] All'epoca della I Internazionale (1864), erano già sorte le prime Società di Mutuo Soccorso o di mutuo appoggio, nate con lo scopo di darsi solidarietà e/o chiedere aiuto ad altri ceti sociali. L'"età d'oro" delle società di mutuo soccorso è nei due decenni tra il 1860 e il 1880. In particolare, nel periodo dal 1871 al 1893, le Società si unirono tra loro nel Patto di fratellanza, di ispirazione mazziniana e saffiana.  Successivamente a questo tipo di esperienza che alcuni (tra i quali Bakunin) consideravano paternalistica, si affiancarono altri tipi di organizzazione di lavoratori che sostituirono alla concezione mutualistica e solidaristica quella sindacale e partitica. Le società di mutuo soccorso continuarono tuttavia ad espandersi sia come numero di associazioni (che toccò il picco di 6722 nel 1894)[3]che di associati (il culmine è nel 1904 con 926.000 soci)[4].  Le società di mutuo soccorso svolgono un grande ruolo agli esordi delle prime organizzazioni sindacali. Nel 1891 saranno le SOMS a creare la Camera del Lavoro di Torino[5][6]. A Milano il 2 e il 3 agosto 1891, si radunarono i delegati di 450 Società Operaie di Mutuo Soccorso che decisero di costituire sindacati di categoria riuniti in Camere del Lavoro.[7]  Il biennio 1898-99Modifica Il 1898 fu in Italia l'anno di una grave crisi politica sfociata in una sommossa in molte città d'Italia, in particolare Milano. La reazione governativa fu particolarmente pesante, furono sciolte molte organizzazioni socialiste[8] e quelle cattoliche facenti capo all'Opera dei congressi[9][10] Il clima di diffidenza investì anche le società operaie, accusate di svolgere attività sindacale. Gli ambienti più aperti reagirono al clima di pesante controllo da parte del governo presieduto da Luigi Pelloux (che ricopriva anche l'incarico di ministro degli interni) sulle associazioni di carattere sindacale e politico,[11] fondando nuove associazioni che svolgevano compiti di aiuto economico ai piccoli imprenditori. In questo clima nella frazione Ronchi San Bernardo fondarono una Società Agricola operaia. Per ribadire il valore dell'associazionismo ripiegarono su attività sociali che non potevano essere accusate di avere valenza politica.  Le società agricole-operaieModifica Il 1898 era anche un anno caratterizzato dalla grande crisi agraria: le zone vinicole erano state devastate dalla fillossera e dalla peronospora. La formula trovata dai settori più progressisti ed illuminati fu quella del rilancio di strutture che assicurassero agli agricoltori la fornitura dei mezzi di produzione (sementi, concimi, macchine agricole) a prezzi calmierati e di buona qualità. Il governo, che non prendeva nessun altro provvedimento a favore del mondo agricolo, dovette tollerare che iniziativa come quella dei piccoli proprietari di Courgnè avevano intrapreso, sotto il modello di fratellanza delle "società operaie" dopo aver chiarito che l'oggetto sarebbe stato il sostegno alla produzione e non attività politica. Pertanto fu chiarito che per essere ammesso come socio, occorreva dimostrare di essere proprietario sia pure di un piccolo appezzamento di terreno agricolo.[12]  L'autorità di polizia aveva provveduto nel maggio 1898 allo scioglimento di molte società di mutuo soccorso, al sequestro del loro patrimonio, e da una interrogazione parlamentare dell'onorevole Bertesi, sappiamo che nel dicembre successivo non era stato dissequestrato.[13]  L'eccezionalità della costituzione della Società Agricola Operaia Ronchi San Bernardo di Courgnè è dato che persino nell'anno seguente il giornale La Stampa segnalava che le Società operaie venivano chiuse senza che avessero dato alcun pretesto[14] Di altro esempio di costituzione di Società Agricola Operaia c'è l'anno successivo a Trapani[15]  Al fiorire delle iniziative sparse a livello locale corrispose, poi, uno sforzo unificante. Il ruolo di acquisire i mezzi di produzione agricola si spostò a livello provinciale nei Consorzi agrari, coordinati a livello nazionale dalla Federconsorzi Le iniziative locali, quando sopravvissero, ebbero solo la valenza di meri circoli che gestivano il massimo centro di aggregazione delle piccole località rurali: l'osteria, ma salvando a volte una valenza associativa.[16][17] La società di Cuorgnè riuscì così a raggiungere i 120 anni, continuando a svolgere attività di carattere sociale e filantropico[18][19]  Il NovecentoModifica Il 5 settembre 1900 nasce la Federazione italiana delle società di mutuo soccorso. L’articolo 1 dello Statuto di allora recitava così: “È costituita la Federazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso al fine di provvedere alla tutela degli interessi delle Società federate e contribuire a migliorare moralmente e materialmente la condizione delle classi lavoratrici a mezzo della previdenza". Fin dalle origini la Federazione fu al fianco del movimento cooperativo e del movimento sindacale, formando un’alleanza allora fondamentale per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e della legislazione sociale.  Con decreto prefettizio, la Federazione italiana delle società di mutuo soccorso fu sciolta nel periodo fascista insieme alle SOMS, anch'esse sciolte o incorporate in organizzazioni fasciste. Nel 1948 la Federazione fu ricostituita e assunse la denominazione di Federazione italiana della mutualità (Fim).    La sede della SOMS di Villa del Foro (Alessandria) durante il periodo fascista Verso la fine degli anni cinquanta, quando le SOMS ripresero ad espandersi, la società italiana era profondamente cambiata: i lavoratori avevano ottenuto maggiori tutele, erano state introdotte le pensioni ed era stata estesa la protezione nel campo sanitario(almeno per il lavoro dipendente), mentre scarsa era la "copertura" per professionisti e lavoratori autonomi; nei loro confronti si spostò quindi la maggior parte del lavoro svolto dalle SOMS.  A seguito della rinnovata attenzione alle forme di mutualità integrativa al welfare pubblico, dopo il congresso del 1984, la Fim diventò Federazione italiana della mutualità integrativa volontaria (Fimiv).[20] A partire dagli anni 2000 le SOMS hanno poi rivolto la loro attenzione soprattutto verso l'assistenza sanitaria integrativa. Alla fine del 2007 viene costituita la Società Generale di Mutuo Soccorso Basis Assistance che nel 2012 incorpora per fusione prima Mutua 1886 e poi Mutua Sarda, diventando la più grande mutua sanitaria italiana per numero di assistiti.  Il 25 ottobre del 2011 prende forma l'Associazione Nazionale Sanità Integrativa (ANSI) nuova realtà capace di tutelare, aggregare e sostenere le diverse forme mutualistiche operanti in Italia. L'ANSI è frutto dell'unione di 8 tra fondi sanitari e società di mutuo soccorso, tra cui Mutua Basis Assistance, fondo C.A.S.P.I.E., Cassa di Assistenza Basis Assistance, Mutua Unica e Mutua Sarda.  Nel 2015, il Fondo FASV – Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa di Assolombarda – ha approvato il progetto di fusione per incorporazione nella Società Generale di Mutuo Soccorso, Mutua Basis Assistance che diviene effettivo il 1º gennaio del 2016. Nell'aprile del 2017 l'Associazione Nazionale di Sanità Integrativa cambia denominazione sociale, trasformandosi in Associazione Nazionale Sanità Integrativa e Welfare, con l'intento di dare voce a tutte quelle realtà che si affacciano al mondo del welfare aziendale.  Sono oltre 500 le società di mutuo soccorso attualmente aderenti alla Fimiv, collegate direttamente o attraverso i coordinamenti territoriali associati, per complessivi 953.000 tra soci e assistiti, questi ultimi intesi come familiari dei soci e iscritti ai fondi sanitari gestiti in mutualità mediata. Nel 2016 le società di mutuo soccorso della Federazione hanno partecipato all’integrazione dell’assistenza sanitaria pubblica mediante prestazioni e sussidi erogati ai soci e assistiti per un valore di 95 milioni di euro, pari a oltre il 78% dei contributi raccolti. A garanzia della capacità di copertura delle prestazioni, gli accantonamenti complessivamente destinati dalle società di mutuo soccorso a riserva indivisibile ammontano a oltre 100 milioni di euro.[21]  La Fimiv svolge il ruolo di rappresentanza, promozione, sviluppo e difesa delle società di mutuo soccorso e degli enti mutualistici che vi aderiscono, fornendo loro assistenza e servizi di sostegno e organizzando convegni ed eventi pubblici come la Giornata nazionale della Mutualità giunta alla sua IX edizione. Si adopera per la diffusione e la tutela dei principi della mutualità ed esige il rispetto del Codice identitario della mutualità da parte delle sue associate.[22]  La Fimiv Aderisce alla Lega nazionale delle cooperative e mutue, al Forum nazionale del Terzo Settore e all’Associazione internazionale della mutualità (Aim). Nel 2001 è stata riconosciuta dal Ministero dell’interno quale Ente nazionale con finalità assistenziali, ai sensi della legge n. 287/1991 e dei decreti del Presidente della Repubblica n. 235/2001 e n. 640/1972. Lorenzo Infantino. Keyword: co-operazione. Il diadismo metodologico, diadismo conversazionale, statalismo, tottalitarismo, liberalism, partito liberale italiano, collettivismo, cooperazione, competizione, solidale, solidario, solidarii, solidali, le code francais, obligatio in solidum, oligatio in solidum and solidarity, obbligazione in solidum e solidarieta, J.Vincent, L’extension en jurisprudence de solidarite passive. I. Mazeaud, Obligation in solidum et solidarite entre codebiteurs delictuels.’ Infantino. Keywords: diada conversazionale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Infantino: il diadismo conversazionale” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754325374/in/dateposted-public/

 

Grice ed Iorio – torna a Sorrento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seravezza). Filosofo.  Grice: “The line and the circle is what Chomsky would call a NP, but there’s two books on it by Italian philosophers! Oddly, I visited Sorrento on my way to Greece!” Si laurea a Pisa con Campioni. Studia filosofia antica. Opere: La linea e il circolo” (Genova, Pantograf). Genesi, critica, edizione; D'Iorio e N. Ferrand, Pisa. ffetto da numerosi problemi di salute e da un disturbo agli occhi, nel suo viaggio verso il Sud dell’Italia, da Napoli raggiunge Sorrento via mare, alloggiando nella pensione Allemande-Villa Rubinacci, ospite di Malwida von Meisenburg, una ricca mecenate delle arti. Ne rimase subito folgorato, tanto da restare per più di sei mesi. A suo dire, questo soggiorno fu uno dei più felici della sua tormentata vita. The influence of philosophical irrationalism upon Mussolini’s fascism is evident from his readings and studies. Mussolini read avidly from the works of Schopenhauer, Nietzsche, and Sorel. The works of Marx were also an influence on Mussolini. One must remember from the outset that all of Mussolini's readings serve only to enhance his own pragmatic theories, and that Mussolini values action and experience more than doctrine; nevertheless, the trend of Mussolini's thoughts and actions clearly shows that the greater part of whatever influence previous philosophers had upon him falls within the realm of irrationalism. Christopher Hibbert, II Duce (Boston, Toronto); Chester C. Maxey, Political Philosophies (New York); Herman Finer, Mussolini's Italy (London)’ Benito Mussolini, My Autobiography, translated by Richard Washburn Child (New York). Mussolini derived from the pessimistic philosophy of Schopenhauer and the irrational theories of Nietzsche and Sorel the basic idea that a human life as such has no sacred value. This evaluation of human existence is expressed by the Fascist theorist Giovanni Gentile, and Mussolini heartily concurred with his spokesman.'* With this general attitude toward humanity, the more complex doctrines of Fascism attained greater palatability for Mussolini and his generation of Italians. The influence of Nietzsche on Mussolini is quite obvious. Certain passages from the two men's writings are almost interchangeable. Nietzsche's ideas are perverted by Mussolini, and the Italian dictator uses Nietzsche's terminology more than he used the true essence of Nietzsche's thoughts. However, the general influence of Nietzsche on Fascism remains apparent. In general, Nietzsche's concepts of the transvaluation of values, the eternal struggle for power, the moral value of violence, elitism, and the supremacy of the super-man are the most important aspects of Nietzsche's philosophy that influence Mussolini. William K. Stewert, "The Mentors of Mussolini," American Political Science Review, XXII. In general, Mussolini's thinking was greatly influenced by the wave of irrationalism which had swept the European intelligentsia of the nineteenth and early twentieth centuries. This fact is important in two respects. Primarily, an understanding of philosophical irrationalism provides an opportunity for an insight into Mussolini's thoughts. Many of the irrational concepts were incorporated in toto into the Fascist ideology. In addition to this, philosophical irrationalism in its several manifestations had imbued the post-World War generation with a detestation of the values of the current European order, and had originated new possibilities for trans-forming these values into something more worthwhile. This gives Mussolini a whole generation of dissatisfied and disillusioned Italians to mold into Fascists, and it also affords him the advantage of speaking to this culture in terms which it already understood and held faith in. The development of philosophical, irrationalism in Continental Europe permeated philosophy and political thought in Italy. Responsible Hegelianism represented in Italy by Croce is a polemical anathema to any philosophy espousing myths and the blind struggle for power as determinents in the course of history.^ Mussolini and his spokesmen used Hegelian terminology as an ad hoc rationalization for totalitarian terror. The irrational theories of action, elitism, and instinctual knowledge are more philosophically congruent with Fascist thought, and that part of Italy's intelligentsia which acknowledged this symmetry were at least on firmer ground philosophically than the Fascist Hegelians. The segment of Italy's scholarly community which contributes to the irrational doctrines of Fascism was in-exorably linked in both thought and action to the politics of Benito Mussolini. Several Italian men of letters owed a debt to philosophical irrationalism, and some of these scholars' theories were woven into the attitudes of Mussolini. This connection between the irrationalism of part of Italy's intelligentsia and the career of II Duce represents yet another link in the chain of thought reaching from philosophical irrationalism in Continental Europe to the dictatorial terror of Italian Fascism. Reactionary authoritarianism had been promoted by many Italian intellectuals around the turn of the century. The Nationalist Party was founded by intellectuals of this political posture. The Nationalist Party favored imperialism and opposed democratic representative government. Among the members of this party were the philosopher Alfredo Rocco and Annunzio. Rocco later became a prominent Fascist spokesman. Annunzio was the most renowned literary figure in Italy. This reactionary philosopher fed the Fascist myth with exaggerated expressions of the glories of ancient Rome and incorrect racial doctrines concerning the origin of the Italian people. in the growth of Italian extremism, and he was joined by Mussolini in the loosely-knit Nationalistic movement which solidified into the Fascist Party. Prior to his active participation in the Fascist drive to power, Mussolini travels and studies in Switzerland. He attends lectures given at Lausanne by the respected social economist Vilfredo Pareto. Pareto's social theories had strong overtones of irrationalism, and his primary emphasis is on the preponderance of irrational human behaviour within the political process. This irrational conduct, according to Pareto, manifests itself in various "residues" such as traditional mores, folkways, political ideologies, and established social values. 13 ^S. William Halperin, Mussolini and Italian Fascism (Princeton), William Bolitho, Italy under Mussolini {New York).  Annunzio became a popular rabble-rouser . The course of events in any society is characterized by constant conflict, and order is achieved only when an elite governing class exercises control over the irresponsible masses. The elite gains control and exercises power through a combination of force and the use of the "residues," which adopt a mythological character. These theories of Pareto were a strong influence on Mussolini. He was especially impressed by Pareto's emphasis on the elite as the only body capable of restoring and preserving the social order that incompetent administrators had allowed to disintegrate. Pareto and Sorel shared the ideas of elitism, myths, and 19 the use of force as integral parts of social existence. Mussolini's admitted respect for Sorel as a teacher correlates with the avid interest of Mussolini in the lectures of Pareto. The common irrational theories, especially those of Pareto con- cerning the use of force for political purposes, made a lasting *0 impression on Mussolini. Pareto and Mussolini came to respect each other's ideas in a reciprocal manner. Less than ten years after Mussolini attended Pareto's lectures, the renowned social economist was writing articles which lauded Fascism. Mussolini returned this common ideological admiration by appointing Pareto to a seat in the Fascist Senate in 1923- active participant in the totalitarian regime of Mussolini. Rocco's involvement in reactionary and extremist political movements culminated in his role as an important Fascist governmental official and spokesman. Rocco helps found the nationalistic journal Politica. which published. The respected academician ended his days as an serious scholarly articles by Nationalistic theorists. was named Under-Secretary of the Treasury by Mussolini in the first Fascist government, ' and he eventually became the Fascist Minister of Justice. address expressing the basic statement of doctrine formed Fascism. It was later reiterated and expanded by II Duce and his other Fascist spokesmen. Rocco delivers an tenets of Fascism. This initial the basis of the philosophy of Rocco's Fascist Manifesto, entitled The Political Doctrine of Fascism, incorporates the arbitrary ideas of the movement (Herbert W. Schneider and Shepard B. Clough. Making Fascists (Chicago)» Roy MacGregor-Hastle, The Day of the Lion (New York), Rocco   into a single body of thought. This document contains numerous reverberations of philosophical irrationalism, and interwoven with these reverberations are most of the concepts of Italian Fascism. The relationship is so close that the two schools of thought are, in most cases, indistinguishable from each other. Rocco proclaims the value of emotional and instinctual action which is so reminiscent of Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, and Sorel. Fascism is, above all else, action and sentiment. Were it otherwise, it could not keep up that immense driving force, that renovating power which it now possesses. Only because it is feeling and sentiment, only because it is the unconscious reawakening of our profound racial instinct, has,.it the force to stir the soul of the people. The biological nature of man's participation in society, a concept emphasized by Nietzsche, Bergson, and Sorel, is used by Rocco as a justification for the subordination of human beings to the growth of the Fascist state. He says that individual men and groups of men are given life by the organic nation, and that the development of the nation results in a greater collective life and growth that transcends the existence of mere individuals. The individual existence has Rocco, excerpts from The Political Doctrine of Fascism, reprinted in Communism. Fascism, and Democracy, edited by Carl Cbhen (New York) value only in the contribution which it makes to the life of the organic state. The valuation of man as an element that must contribute to the growth of the state culminates in the justification and glorification of war. The survival and improvement of the organic nation require a sacrifice which may be inimical to the interests of an individual. The sacrifice and destruction of individuals in war are necessary for the sustenance of the nation. The negation of an individual's worth necessitates the existence of an elite force to govern society. The masses are too involved in their own selfish interests to be trusted with the reins of government. Only a chosen few are capable of ignoring their own interests and devoting their lives to the greater needs of the whole society. There exists in each culture a natural elite which, because of its superior intelligence and cultural background, is capable of administering the governmental functions of a nation. The most important gift of this elite is its ability to decide matters of state through instinct and intuition. almost identical to that found in the philosophies of Sorel and This theory of elitism is Pareto, and the members of the theoretical elite bear a striking resemblance to Nietzsche's superman and Schopenhauer's creative genius. The collective life of the individual, according to Rocco, makes him an active participant in the panorama of Italian history. The individual is sustained by the myth of Imperial Rome. The authority of the state and the primacy of its ends constitute the legacy of Rome. Rome is the greatest and most powerful state in the history of the world, and it maintained its eminence through the sacrifice of its citizens' blood and its citizens' lives. The myth of Imperial Rome is rejuvenated and sustained by Fascism; Rocco admonished the Italian people to honor their heritage. Fascism restores Italian thought in the sphere of political doctrine to its own traditions which are the traditions of Rome after the hour of sacrifice comes the hour of unyielding efforts. To our work, then, fellow countrymen, for the glory of Italy. Rocco obviously took heed of the theories of Sorel and Pareto on the necessity of a myth to inspire a people. Rocco's The Political Doctrine of Fascism reflects the obvious influence of philosophical irrationalism. In this Fascist document are echoes of Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, Sorel and Pareto. The concepts of blind, struggling will as a sustainer of life, the biological nature of man, the value of instinct over the intellect, elitism, and the myth are the same in irrational theory and in Rocco's statement. The Political Doctrine of Fascism is an excellent illustration of the debt which Fascist thought owes to philosophical irrationalism and its primary spokesmen. The Fascist movement had no dearth of gifted spokesmen for its doctrines. Gentile contributed to the theory and practice of Mussolini's totalitarian ideology. Educated at the University of Pisa, he taught at the universities of Palermo, Pisa, Naples, and.iRome. Gentile served in several capacities within the Fascist regime, and he was eventually appointed as Minister of Education. irrationalists, and his writings reflect the use of these two philosophies for Fascist propaganda. His Philosophic Basis of Fascism reflects the influence of philosophical irrationalism on the Fascist ideology. In the Philosophic Basis of Fascism. Gentile elaborates the Fascist concept of the relativity of values. Despite the fact that a given Fascist program might be based on a specific idea or concept, that idea would be abandoned as soon as the -- David Cooperman and E. V. Walter, Power and Civilization (New York) -- Gentile was influenced by both Hegel and the -- need arose. No idea is of lasting significance, and its value is measured only by the degree to which it furthers the Fascist program. the needs of the Fascist state demand it, according to Gentile. The value of instinct is greater than that of reason, and this necessarily makes Fascism anti-intellectual. Gentile expresses this anti-intellectualism by saying that Fascism is hostile to all science and all philosophy which remain matters of mere fancy or intelligence. By virtue of its repugnance for intellectualism, Fascism prefers not to waste time constructing abstract theories about itself. There is scant need for intellectualism in a system in which the dictator makes all the decisions for the state on impulse. This is the function of II Duce. His ideals consist of whatever arbitrary decision he makes at any given moment, and his decisions made instinctively are the supreme law of the nation. The myth of the nation's supremacy causes the individual to be of no value except in his function as an appendage of the Fascist state. He realizes his existence only through -- Gentile, excerpts from The Philosophic Basis of Fascism, reprinted in Power and Civilization, edited by David Cooperman and E. V. Walter (New York) -- The "transvaluation of values" is exercised when   the state, and he is only a consequence of the life and growth of the state. The state controls him and decides for hirn the course of his life. The individual has no freedom except in his role in the organic state. The state binds him to this position, and in it he lives and dies. Gentile's Philosophic Basis of Fascism contains the same irrational overtones found in other Fascist documents. It seems, however, to express more fully the negation of the individual. This negation of the individual became more pronounced as the Fascist government entrenched itself in power, and the irrational base of its ideology was expressed with increasing authority over the individual. Perhaps the deepest exploration into Fascist ideology was attempted by the Italian philosopher Mario Palmieri in The Philosophy of Fascism. This work, completed when Italian Fascism had reached a certain degree of maturity, involves a deeper insight into Fascism than most of the other works of Mussolini's spokesmen. It contains, however, the same basic doctrines which bear the stamp of philosophic irrationalism. Palmieri elaborates the values of the Roman Empire in eloquent language. He says that the legacy of Rome is authority, law, and order, and that Rome must again be the center of civilization which dispenses morality and virtue to the rest of the world. This is th® historic aissioe @f lapsrial Home, and it aust be fulfilled.3^ The masses, states Palmier!, are not capable of governing themselves, this being due to the fact that they cannot understand the ultimate reality of the universe which does not reveal itself indiscriminately. This ultimate reality may only be understood by a superior leader. Palmieri describes the leader in colorful language. The divine essence of the hero, of the soul, is in a more direct, a more immediate relationship with the fountain-head of all knowledge, all wisdom, all love. Man has wandered astray for many centuries, and civilisation has seta darkness due to the lack of authority, law, and order. Despite this disorientation of mankind, the ideas and moral values of Rome have continued to exist. It is through dictatorial Fascism that Imperial Rome will be reborn and end the woes of humanity; in fact, Fascism may finally furnish man with the long sought solution to the riddle of life (Mario Palmieri, excerpts from The Philosophy of Fascism, reprinted in Communism. Fascism and Democracy. editeH~"by Carl Cohen (New York), Palraieri carries the Roman myth to an extreme, ana within his romantic ideal of Fascism the ideas which originated in Continental European irrationalism take on the colour of a holy- crusade; however, Palroieri's work is merely another contribution to the Fascist attempt to cloak violence with an aura of respectability. The Philosophy of Fascism, extolling the same values which wreaked havoc on a generation of Europeans, is a vivid documentation of the influence of philosophical irrationalism upon Italian Fascism. While Italian Fascism had numerous gifted spokesmen, the preponderance of responsibility for the creation of its doctrines belongs necessarily to Benito Mussolini. History points to II Duce as the most important individual man in the era of Italian Fascism. Mussolini, as an agent of history, islargely responsible for the propagation and ascendency to power of the Fascist movement. Throughout the course of this ascent, Mussolini's political pronouncements, political speeches, and his autobiography document his intellectual debt to Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, Sorel, Pareto, and the entire body of European philosophical irrationalism. The expressions of the dictator's thoughts are living proof of his debt to philosophical irrationalism. The influence of the philosophies of eternal cosmic conflict is overtly evident in the writings and speeches of Mussolini. The following passage is taken from a speech made while Mussolini was still involved in the struggle for political power. The words of this speech could almost be mistaken for an excerpt from Nietzsche's “Will to Power”. Struggle is at the bottom of everything. Struggle will always be at the root of human nature. It is a good thing that it is so. The day in which all struggle will cease will be a day of melancholy, will mean the end of all things, will mean ruin. Struggle and conflict, in the opinion of Mussolini, are integral parts of human existence. The endless struggle for survival and power is reflected in the vital biological nature of man's social and political actions, according to Nietzsche, Bergson, and Sorel. This concept echoes through the words of Mussolini, and is used to justify the individual's role as biological necessity for the nation. In The Doctrine of Fascism, which is Mussolini's written program of the aims of the Fascist movement, one of the stated goals is to "make the people organically one with the nation so that the state may use them to achieve its ends. Mussolini is constant in his belief that the people must be used to nourish the state. They are, says Mussolini in his autobiography, "the vital food needed to reach greatness.  Individuals are the food and -- Benito Mussolini, "The Tasks of Fascismo." Mussolini as Revealed in his Political Speeches. translated and edited by Bernardo Q. di San Severino (London and Toronto), Benito Mussolini, The Doctrine of Fascism (Firenze),Mussolini, Autobiography --  blood of the body politic, and as such are entirely dispensable to the process of the growth and sustenance of the organic state. The organic state, which is nourished by the sacrifice of individuals, is susceptible to infection like any living body. In the Fascist state controlled by Mussolini, infection consists of any political dissent. II Duce had a cure for this type of illness. Speaking of Fascist violence in his regime, Mussolini said: It is necessary to cauterize the virulent wounds to have strength. It was necessary to curb political dissent. The health of the organic state depended on the constant vigilence of Fascism against political opposition. Fascism, writes Mussolini, has to perform surgery—and major operation against succession”. Thus Mussolini corrupts the theories of man's biological nature in order to justify totalitarian terror. Nietzsche *s theory of the transvaluation of values which he based in part on the nature of man within the eternal biological struggle in a turbulent cosmos, influences Mussolini. This influence is evident throughout Mussolini's writings and speeches. He constantly emphasized the need to abolish traditional morality and replace it with the arbitrary values of his refine. The Fascist state is endowed with a supreme will, and is therefore ethical unto itself. The state must not clinc to traditional values lest its progress be impaired. Brotherly love, humanitarianism, and symphatetic kindness are inferior to other values of a higher nature. The higher values espoused by Mussolini resemble the hearty, pagan values that Nietzsche advocated. These values involve conflict, the shedding of blood, and dying, and they are morally justifiable when done in the service of the Fascist nation. The concept of the transvaluation of values contributes to Mussolini's doctrine the idea that violence and bloodshed are not only morally justifiable but are the highest virtues to which a people may aspire. The influence of the theories of Sorel and Pareto in regard to the use of violence for political purposes is reflected in the writings aid speeches of Mussolini. The -- Mussolini, Doctrine of Fascism, Mussolini, "Either War or the End of Italy's Name as a Great Power," Speeches, Mussolini, Autobiography -- Italian despot had found in Nietzsche a moral justification for the use of violence. This enabled Mussolini to claim that "violence has a deep moral significance.” In addition to this moral justification, Mussolini also rationalizesthe use of violence as a legitimate and even desirable expedient within the political process. His mentors Sorel and Pareto had ascribed this role to violence in politics and society. The excesses of Fascist terror were excused as being morally valuable and of logical political necessity. In a speech a Milan Mussolini described the relationship between his party and its political opponents. The Fascisti have gone forth to destroy with fire and sword the haunts of the cowardly Social- Communist delinquents . This is violence of which I approve  and uphold. It is necessary, when the moment comes, to strike with the utmost decision and without pity. War is the ultimate expression of bloodshed and violence, and Mussolini accordingly placed the highest esteem upon war. It enabled him to gain "I  an understanding of the essences «51 of mankind."-^ n Duce's adoration of war became an integral part of the theories of Fascism, and in the official Doctrine  ^Mussolini, "The Fascisti Dawning of New Italy," Speeches, Mussolini, Autobiography, p. T Fascism, Mussolini expressed the hi/rh regard which Fascism has for war: war alone keys up all human energies to their maximum tension and sets seal of nobility upon those- peoples who have the courage to face it. All doctrines which postulate peace at all costs are incompatible with Fascism. The conflagration v/hich visited tragedy upon millions of Europeans was made more acceptable by Fascism's theory of war, a theory which is the logical outcome of placing a moral and political value on the shedding of human blood. The question comes to mind as to who may decide the time and degree of the use of violence, and Mussolini's speech to the citizens of Bologna in the spring of 1921 provides an answer. The moral and politically expedient violence of the state, said Mussolini, "must have a character and style of its own, definitely aristocratic. The "aristocratic" bloodletting of the Mussolini regime was administered by a group of "aristocrats" well suited to the task—"the Fascist!, whom I considered and considerthe aristocracy of Italy. The Fascist Party that Mussolini considered to be his own aristocracy (or elite) owed much to the terrorist squads that 'Mussolini, Doctrine of Fascism, Mussolini, "How Fascismo was Created," Speeches, Mussolini, Autobiography.aided the party in its rise to power. Mussolini held these crude street fighters, the "Black Shirts," in especially high esteem. After he had gained total power in Italy, Mussolini refused to consider suggestions to the effect that he disband his elite brawlers who had, as he stated, “a deep, blind, c, and absolute devotion. Their intrinsic merit sprung from the fact that these brawling hooligans through intuition and in r. . . their instinct were led not only by strength 56 and courage, but by a sense of political virtue. . first elite to be inspired by philosophical irrationalism were the Black Shirts of Fascist Italy. Mussolini's elite possessed the hearty pagan values of Nietzsche, and true to the theories of Pareto and Sorel, they used violence as a political expedient to raise their party to power. Mussolini was brutally frank in expressing the function of his elite. Their task, he wrote, was . that of ruling 57 II Duce's elite began by using violence as a means to attain power, and they continued to use it"to maintain themselves in power. This development was not out of keeping with the concept of values which characterizes the irrational doc- trines of Fascism. the nation by violence, for the conquest of power." The   The elite which rules by force must have a sense of di- rection, even though its action is arbitrarily guided to the attainment of divergent goals. Mussolini traced the pattern of this guidance in describing how victory was achieved by the Fascisti. The group intuitively realizes the necessity of violent action, and it readies itself to strike. When the moment to attack has come, the instinct of the leader has al- ready made victory inevitable. He has organized his men for battle and his intuition has provided him with the proper strategy by which his forces may emerge triumphant. Success through violence is achieved when the elite forces, led by the instinct of their duce, crush the opposition. At this particular juncture in the description of Mussolini's thought, a combination of several ideas originat- ing in philosophical irrationalism may be observed. The superiority of the instinct over the intellect, the effective- ness of the elite, the value of the forceful pagan virtues, such as heroism and bloodshed, the use of force, and the power of the leader are all component tenets of Mussolini's doctrine. They culminate and are fused together in Mussolini's attitude toward himself as the embodiment of the principles of power. Mussolini firmly believed in his own indispensability to Fascism. In regard to the Party's debt to its leader, Mussolini wrote: the party could not have existed and lived and could not be triumphant except under my command, my guidance, my support and my spurs.59 Mussolini felt that the Party and the State were inexorably bound to him. He believed himself to be the vessel of the 60 moral and spiritual powers of the state. Mussolini's image of himself was developed under the influence of the elitist theories and Nietzsche's concept of the superman. Mussolini shared with Nietzsche a contempt for the European bourgeoisie, and Mussolini blamed the philistine middle-class for all of the social problems which plagued European society. Italy's deliverance from this situation had been contingent upon her willingness to shed her blood, and the prospects for this occurring were hampered by the cowardice of the middle-class bourgeoisie.^" Mussolini's instinct told him that "Italy would be saved by one historic agency righteous force . . The one in- dividual capable of guiding the nation in its historic quest for power was, Mussolini knew, himself. The victory of his party and the regeneration of Italy had been achieved, ac- Mussolini, Doctrine of Fascism, Mussolini, Autobiography, cording to Mussolini, because "Violence . . . had been controlled by my will." Mussolini solidified the totalitarian Fascist regime by actualizing his irrational theories of instinctive action, elitism, and violence. II Duce blended these various themes together to create, true to his mentor Sorel, the myth of Imperial Rome. This myth held that a violent reformation of civilization would be achieved through the rebirth of Imperial Rome. In a speech in Trieste, Mussolini laid the groundwork for his myth. He spoke of Rome's illustrious history as the leader of world civilization, and stated that the task of Fascism must be to recreate this Empire to fulfill the Italian destiny of world leadershipFascism alone could fuse the values of ancient Rone with the reality of current political trends, for "it is a-faith. It is one of those spiritual forces which renovates the history of great and 6s enduring peoples." ' Mussolini continued to dwell on the theme of Imperial restoration throughout the years in which he held power. The creation of this Roman myth, a tactic reminiscent of the theories of Sorel and Pareto, was used to sustain a people who were suffering from the actualization of other less glorius irrational theories. Mussolini, "The tasks of Fascismo," Speeches, Mussolini.Autobiography. While the Imperial myth was an abstract and Romantic ideal, the concepts of syndicalism and the corporate state bore some resemblance to Mussolini*s economic dictatorship. II Duce acknowledged Sorel's ideas of the syndicalist myth as a source of Italian syndicalism. In a statement made at the founding of the Fasci di Combattimento. Mussolini ex- pressed the necessity of corporate syndicalism as opposed to representative government. Democratic representation, he stated, is less acceptable and effective than direct repre- 67 sentation of economic interests before the Government. The idea of Italian syndicalism, while closer to reality than the chauvinistic Imperial myth, was nevertheless another means for perpetuating authoritarianism. Based on Sorel*s philosophy of the irrational myth, it served as a facade for the dictatorial control of Italy*s industries and unions. In retrospect, the influence of philosophical irrational- sim on Italian Fascism in general and upon Mussolini in particular is undeniably and overwhelmingly significant. A question exists as to what extent Mussolini followed the doc- trines from which he drew, and to what degree he used them for ad hoc rationalizations for totalitarian violence. An answer may lie in the juxtaposition of two of the dictator's pro- nouncements within the same year. On June 8th, 1923, Mussolini ^^Mussolini, Doctrine of Fascism, made the following statement before the Italian Senate: The more I know the Italian people, the more I bow before it. The more I come into deeper touch with the Italian masses, the more I feel that they are really worthy of the respect of all the representatives of the nation it would not matter if I lost my life, and I should not consider it a greater sacrifice than is due. My ambition isthis: IwishtomaketheItalianpeoplestrong, prosperous, great and free. Eight months before this speech, Mussolini had said: The masses are a herd, and as a herd they are at the mercy of primordial instincts and impulses. The masses are without continuity. .They are, in short, matter, not spirit. We must pull down his Holiness the Mob from the altars erected by the demos. " Using the conduct of the Fascist Government as a yard- stick by which to measure the sincerity of the public state- ments made by Mussolini, it is feasible to conclude that the Italian Senate was treated to an enactment of Mussolini's belief in the relativity of values in relation to the political gain to be derived thereof. The second statement is quite in keeping with Mussolini's adherence to elitism. Neither of his statements is out of keeping with the doctrines which he promulgated. The fact that this paradoxical situation is possible does not speak well for the theories upon which, misinterpretations and rationalizations notwithstanding, Laura Fermi, Mussolini (Chicago. 1961), p. 68 Mussolini, "The Internal Policy," Speeches, Mussolini based his doctrines. Fascism is not far removed from philosophical irrationalism, one of the dominant philos- ophies of the period. Mussolini may be looked upon as an oppressor of the Italian people. II Duce's foreign and domestic policies cer- tainly visited bloodshed and death to the masses of Italy and other nations as well. One must remember, however, that Mussolini's speeches advocating violence, elitism, and sub- servience to the state were cheered by millions of Italians during his regime. Members of all the various classes within Italy supported Mussolini's drive to power. This support is quite understandable in view of the fact that their leader spoke to them in terms which had permeated their intellectual milieu for almost a century.Iorio. Keywords: torna a Sorrento, Villa Rubinacci, Malwida von Meisenburg. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Iorio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753667201/in/datetaken/

 

Grice e Jaja – filosofia italiana – Luigi Speranza (Conversano). Filosofo. Grice: “I like Jaja – of course you cannot understand Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and Gentile! The quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a sensualist, like me.” –Grice: “My favourit essential Italian philosopher. Figlio di Florenzo Jaja (a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano). Si trasferì a Napoli, dove studiò sotto la guida di Fiorentino. Si sposta a Bologna, dove si laurea per seguire il suo maestro.  Il suo incontro filosofico principale fu con Spaventa. Col trasferimento di Jaja a Napoli i rapporti con Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa.  Jaja non è stato mai considerato un filosofo particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre Gentile allo studio di Spaventa, merito che l'allievo riconoscerà sempre.  Opere: “Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura” “Studio critico sulle categorie e forme dell'essere”; “Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza,” “ L'unità sintetica e l'esigenza positivista,” “Sentire e pensare,” “Identita e Semiglianza ed identità”’“ Sentire, pensare, conoscere,” “ L'intuito nella coscienza.” Cesare Preti, Jaja filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca.repubblica,. treccani. Jaja: neoidealismo italiano, su orthotes.com.  Jaja, Giovanni Gentile, Memoria su Donato Jaja, su sba.unipi, Bertrando Spaventa Giovanni Gentile Idealismo italiano, Jaja, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Giovanni Gentile, Memoria su Donato Jaja, su sba.unipi. Donato Jaja. Grice on “Sentire” e Pensare. Rupert Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is a, is a LIKE a” – a knife is not like a knife, but something that is  not a knife can be like a knife.” Implicature!” JAJA, Donato. - Nacque a Conversano da Florenzo e da Elisabetta Pinto. Comincia gli studi al seminario in vista di una futura carriera ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli, dove studia sotto la guida del filosofo neokantiano F. Fiorentino, e a Bologna, per seguire il maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna al liceo di Caltanissetta, quindi a Chieti. Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta A.C. De Meis e per suo tramite B. Spaventa che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una figura chiave per la formazione intellettuale dello Jaja. Con Spaventa i rapporti dello J. divennero regolari quando egli si trasferì a Napoli per insegnare al liceo Genovesi. Conseguì la libera docenza  ottenne la cattedra di filosofia teoretica a Pisa, dove rimase per il resto della sua vita. Tra i suoi allievi ebbe G. Gentile, che gli successe poi sulla cattedra, e G. Lombardo Radice.  Nella dissertazione di laurea, data alle stampe con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura di E. Kant (Bologna), colloca Kant all'origine di una nuova scena del pensiero che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli articola la storia della filosofia moderna successiva a Cartesio: da una parte il filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e della necessità (Malebranche, Spinoza, Leibniz); dall'altra la tradizione francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica (Locke e Hume). Kant pone il problema, ritenuto centrale dallo J., del debito che il pensiero ha nei confronti sia dell'esperienza, sia dell'universale. Tuttavia lo J. ritiene che Kant non abbia dato una soluzione adeguata e definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in una prospettiva che egli derivava da Fiorentino. Secondo lo J., Kant pone il problema della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma non lo risolve: "La manchevolezza", sostiene, "è nell'intima natura del sistema kantiano: in quest'ultimo lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e spontaneità, entrambi irriducibili", mentre la soluzione consiste nel mettere in luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente soggettivo ma oggettivo e pertanto corrisponda alla realtà. Compare qui un interesse dello J. per il modo in cui l'intelletto proviene dal senso (cfr. Plebe, in Guzzo - Plebe), che mostra anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze empiriche e che in seguito lo portò a confrontarsi con il positivismo e l'evoluzionismo. Pesavano in questo probabilmente sia gli interessi positivistici di Fiorentino, cui egli dedicava questo volume, sia l'ambiente intellettuale bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di De Meis. Ha modo di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e forme dell'essere di  Serbati. Qui critica Serbati della Teosofia in quanto non dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere, mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: "È necessario studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui passa nel formarsi". Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia ha finito con il postulare una irriducibile alterità della cosa rispetto alla mente. Fichte, e quindi Hegel, hanno invece compiuto il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è fuori della mente è il risultato di ciò che la mente e il pensiero hanno rivelato.  Gentile ha modo di considerare a questo proposito che la lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse inadeguata sul piano interpretativo: e uno Hegel mediato in primo luogo da Spaventa, che ne aveva sottolineato l'aspetto soggettivistico, e che lo J. aveva letto in modo ancora più immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero umano. Temi e ispirazioni filosofiche - in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani, e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero lo J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer. In una prima memoria, “Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J. nell'esaminare e nel correggere il Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione, rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La sensazione non è solo stimolo che proviene dall'esterno ma è anche modificazione. E interna all'atto del sentire e alla sfera spirituale. In questo da una parte valorizza l'importanza dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo, ma dall'altra mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico. Tornato su questi temi in “L'unità sintetica kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana, che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La trattazione di questi temi prelude al “Sentire e pensare”. Scrive lo nella prefazione: "È mio fermo convincimento, che il problema speculativo, in tutta la sua ampiezza, resterà un labirinto senza uscita […] finché non solo non sarà studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia moderna in genere e dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per esso della coscienza, ma più ancora finché nello studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il senso finisce e la coscienza incomincia, o dove il senso non è più solamente senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi germogli".  Lo J. è interessato a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono. Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degli evoluzionisti, fino a spingersi ad affermare che "il principio assunto oggi a base delle scienze naturali, l'evoluzione" è vero e fecondo, un'affermazione non priva di interesse in un autore che eserciterà il suo influsso nella formazione di una filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella sensazione degli elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini è interessato a conciliare una comprensione scientifica della natura, che prescinde da una descrizione in termini intenzionali, e che l'evoluzionismo ha esteso anche agli organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica, chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. "La sensazione è foriera della coscienza, e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio, non salto. Gli elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.La vita della coscienza è due cose; è la continuazione della vita del senso, e per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme"  L'immagine evolutiva è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita, che  intende come una "forza" che si dispiega. "Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che nel sentire si raccoglie tutto il mondo naturale sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce ancora. E non intendiamo dei soli individui, che compongono il grande regno animale. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti (forniti delle capacità, della forza di sentire) non vivono soltanto, assimilandosi e trasformando gli elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza rappresentativa. Nella rappresentazione la forza naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno sopra di sé, nel cui compimento è il suo possesso, e la sua integrazione”. Puo già leggere in H. Spencer una concezione dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si liberò mai. Ma egli chiude subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza: "Non resta dunque, che sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come era e poteva esser dato nella logica formale […] potranno trovare dura questa conclusione" (ibid., p. 76). L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo senso, J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia.  Una conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo dello J.  L'intuito nella coscienza. È qui affrontata la questione se l'intuito abbia una parte nella ricerca scientifica. J. risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano solo "quando il pensiero indagatore ha sentito il bisogno di ricorrere alla conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore"  e cioè quando vi è perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti,  J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che "i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà" . "La realtà storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior modo nell'universale e per l'universale". I fatti e la storia sono testimoni cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (I, Pisa), insiste sul concetto del pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Come egli scrive, "si tratta di salire nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni interpreti hanno ritenuto che in quest'opera  traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto, una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato all'idealismo italiano. Come notò, a tal proposito, lo J. "qui non muove più dal senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è dato dalla coscienza, per spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero" (Gentile).  Oltre agli scritti menzionati, si segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica nella quale principalmente si discorre dell'articolo 73 dello Statuto in rapporto a' poteri supremi dello Stato, Bologna); Saggi filosofici, Napoli  (raccoglie scritti già pubblicati e l'inedito La virtù e i suoi elementi costitutivi); la prefazione alla raccolta di Scritti filosofici di B. Spaventa, a cura di G. Gentile, Napoli; Enigma della coscienza, in Rivista filosofica; L'insegnamento filosofico universitario ed il regolamento nuovo, Pisa.  Fu membro della Società reale di Napoli e cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia.  Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero toscano,  (C. Sgroi); Corriere toscano,  (G. Tarantino); G. Gentile, Lettera a D. J., in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici,  (lettera di Gentile giovane laureato al maestro); F. Battaglia, Lettere di A.C. De Meis a D. J., in Memorie dell'Accademia di scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali; G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze; S. Miccolis, Dieci lettere inedite di D. J., Firenze s.d.; G. Gentile, D. J., Pisa Id., Le origini della filosofia contemporanea in Italia, III, Messina  G. Alliney, I pensatori della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; B. Croce, Conversazioni critiche, s. 2, Bari pp. 30 s.; A. Guzzo - A. Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova G. Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi storici, VA. Cristallini, Il pensiero filosofico di D. J., Padova  (con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); V. Carcuro, Polemiche filosofiche antirosminiane: Terenzio Mamiani e D. J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze , s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc. filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli autori italiani contemporanei, I, sub voce. Grice: “Jaja is especially important for the fact that he tutored Gentile. He wrote on the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian at heart, as a collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani d’Italia: Tocco, Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds that the Hegelian absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as Jaja calls them, is the maximum!” Donato Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords: implicatura, I potere supremo dello stato, la virtu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689402446/in/photolist-2mLyVqx-2mKw3hq-2mKBGvU

 

Grice e Javelli – filosofia italiana – semantica del segnare, segnante e segnato -- Luigi Speranza (S. Giorgio di Canavese). Filosofo. Grice: “I love Javelli – he is, like me, an Aristotelian; being a northern Italian, he is a Thomstic Aristotelian, which I’m not sure I am!” Grice: “One good thing about Javelli is that he commented on MOST works by Aristotle!” -- Essential Italian philosopher. Studia a Bologna. Fu esegeta. Argomenta contro Lutero. Opera omnia” (Lione, Giunta). Partecipa al dibattito sul Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi, di cui scrisse, su richiesta di Pomponazzi stesso una confutazione. Partecipa al dibattito sul divorzio di Enrico VIII, esponendosi a favore della scelta del sovrano. M. Tavuzzi, in "Angelicum", DBI. Casale Monferrato -- modum  definiendi, dividend et demonstrandi, Tu tamen aduerce licet fiteadem realiter, ratione tamen diftingui turinquantu doccn$, &inquantu utens. Namin quantu docenscofideratur in (e, in quantu utens relpicit alias scientia. Tertia divisio est hoc. Logica  docens fufficienter  diuiditur  in tres partes. Prima est  jn qua tradatur de terminis  incomplexis, & hxc  ditiiditur  in  duas.  In  prima  confidc-  ratur  de  terminis  secundx  iutentionis, &  ifte  eft  liber  prardicabilium.ln  fecunda  confideraturdc  terminis  primx intetionis, &  ifte eft  liber prxdicamentorum  , & post  praedicamentorum. Secunda est in  qua  tradatur de terminis  complexis, id est  de oratione et propositione et hic est  liber “Peri Hermenias”. Tertia est in qua tradatur de argumentatione et hoc dividitur in quatuor. In  prima agitur de argumentatione syllogistica absoluta etsimplici, idefi noh applicata alicui  materiae  & hic est  liber  pnorunviln secunda  agitur  de  syllogifmo  demonftratiuo,&  hic  cft  liber  pofterio  Tum. In  tertia  agitur  de  fyllogifmo  topico,ideft  probabili,  flthic  cft  liber  topicorum. In quarta agitur de syllogifmo  fallaci, quem  dicimus  fophifticum,co  q* per  ipfum  folum  gc  iteratur  deceptio, & hic  eft  liber  clcnchorum. Hoc eft  funtma  librorum,  quos  tradidit  nobis  Aristoteles inuenror  logicae. Reliquos  autem  minores  tradarus  quos  appellamus  parua  logicalia, non habemus  formaliter ab Aristotele. Sed  posteriores  traxerunt  virtualiter ex  praedictis  libris  Aristotelis, ita  <y  eorum  principia iam habuimus ab Aristotele,  ut  tibi  declarabitur, quando agemus de consequentiis et suppositionibus &c. Et aduerte q? (ufficientia  praedictae  divisionis fumitur hinc, Argumentatio (ut dictum est supra Jeft pn cipalc confideratum a logico ueluccius finis, non enim logicam quaerimus nifl ut acquiramus habitum faciliter & ra de argumentandi ad quancuncp conclusionem.  Argumentatio  aut est  quoddam  totum  conflans ex  propofitionibus,  ut tibi  declarabitur  loco  (uo, propofitio vero  confiant  ex  tcrminis. Cum  igitur  eadem  (cientia  fit  confidcrariua  totius  & partium, necefle efi logicum  uerfantem  circa  argumenta  tionem, confiderare de argumetatione & partibus  eius, partes  autem  cius  fune  duplices.f. propinquae  & remotae propinquae sunt  propofitiones remote  autem  termini  in complexi, nam  propofitiones componunt  immediate  argumentarionem. Tcrmini aurem  incomplexino  componut  eam,  nifi  quia  ingrediuntur  propofitionem. Ex  quibus  conflat, pars  prima, in  qua  confiderantur  termini  in complexi, ordinatur  ad  fecundam, in  qua  confideratur  propositio et secunda  ad  tertia,  in  qua  confidet  atur  argumentatio, & in  ca  completur  intentio  logicj. Conftar  igitur  quomodo  dinl  denda  fit  logica, &  quae  fint  cius  partes  fufticienrcr  ipsam  di  nidcntcs. Hoc de praesenti cap. dicta  fint.   A quo fit incipiendum in logica et quis ordo prosequendus ne confundatur ingenium nouicii.  In septimo capite investigandum est a quo primo incipiendum fit tractare in logica, et quis ordo m tractandis lcr- uandus fit, ne nouicii ingenium confundatur. Quantum  ad  primum  aduerte  q*  nonulli  confidcrant  logicam  inquantum  est  dialectica, id est  disputativa, alii  autem inquantum uersatur circa argumentationem, quae  non  lolu  poteft  fieri  uoce  fed&  mente  & feripto « Primi  confiderantes difputationcm  non  fieri  fine  fcrmonc, nec  fermonem  fi-  ne uoce, nec  uoccm  fine  Tono, ideo a sono  tanquam  a priori  & communiori  dcfinitiuc  & diuifiuc  dicunt  inchoandum. secundo  loco  a ovce  dcfinitiuc  & divisive. tcrtio  loco  a nomine et uerbo  ut  habent  c(Tc  in voce & componut  orationem et propofitjoncm vocalem, ex  quibus  componitur syllogifmus siue argumetatio uocalis, qua sit dispuratio inter duos. Hunc ordinem lcruat Petrus Hispanus et ratio ad hoc movens cum  fuit, quia considerauit Aristoteles in suo  libro “Peri Hermenias” acturus  dc  propositione  definit  nomen et verbum  utfunr cius partes intcgrales per vocem, quafiq? non confideret de nomine et verbo et oratione et propositione et argumentatione, nifi ut deferuiunt disputationi, cui non deferuiunt nisi ut sunt in voce reliquit ergo omnia praedicta ut sunt in mente et in scripto et intendit de modo magis famoso ac notiori ad sensum, qui est modus in voce.   Alii autem  aduertentes  <f  licet modus  ific  famofior  &  uulgarior  fit, tamen experientes q* omnia praedicta habene efle in anima, in voce et  in  scripto, nec  unquam  proferuntur uoce, nec  feribuntur  nifi  prius  mente  concipiantur, unde et dixit  Aristoteles  in  primo “Peri Hermenias” , q'  ea quae sunt in voce, sunt earu quae sunt in anima PASSIONUM id est conceptuum notae i signa, ideo arbitrati non sunt incipiendum a uoce  nec  a sono, sed  a termino, id  est  dictione.  Nans  terminus  ut  est  in  mente  componit  propositionem  mentalem et ut  est  in  voce, componit propositionem vocalem et ut est  in scripto, componit propositionem in scripto, & quo  niam  nomen  erbum  et oratio  poliunt  ede  in  mente  et in voce et in scripto, ideo dicunt  melius elfe  q>  definiantur  p er. Ti  terminum utpote  magis  communem  § per vocem. Hancjg!  cur viam  uc universaliorcm sequemur et prateipue quia no concrariacur  priori  sententiae. Nam  sicut  est  verum  dicefe'.  Socrates est  homo  ergo  Socrates est animal, sic est verum dicere ,  nomen  estvox significatiua, ergo  est  terminus significatiuus. In  plus enim fc habet terminus q vox, qm vox non evrificacur de nomine nifi ut eft in voce. Terminus  autem  uerificatur  de  nomine, in mente voce et scripto. lncipiemus  ef  go  a termino  definitiue  &diuifiue. Quantum  ad  iccundum  aduerte  tp  cum  termini in complexi  fxnc  priores  fit simpliciores oratione et propositione in via compositionis et propositiones fine  priores  syllogismo, qm  componunt syllogifmum, & non cconucrfo, ordo foientix requireret  q* prius tradaremus de praedicabilibus et praedicamentis, & fecudo  loco  de  propositionibus utrra  dat  Ariftoteles in  libro “ Peri Hermenias” et  tcrtioloco  de  syllogismis  formalibus  & topicis  & sophifticis  & demonftratiuis  eo  ordine  quo  de  eis  tradat  Ariftoteles  in  tota  arte  noua.  Verum  quia  nouus  logicae  auditor  tranftt  immediate  ab  arte  grammatica:  ad  logicam, & logicus  accipit  a grammatico nomen et uerbum et aliquas  alias  partes  orationis uc dicemus prout componunt  propofitionem,  & propofitio componit syllogifmum, ideo ne nouicii ingenium  inuolua^  tur, expedit  f>us  tradare  de  gtib9oronis, deinde  de oratide  & cmltiatione,  ficut  etiam  tradat  grammaticus  modo  grammatico et focundo  loco  tradabimus  de  fyllogilmo  formali & tertio loco de  praedicabilibus, & quarto loco de praedicamentis. Nam  abfqj  notitia  propofitionis et syllogifmi,n<» pollet  nouitius i illis erudiri  modo  logico  , ut  tibi  tinanifeftu  erir. Deinde  procedemus  ad  alios  tradatus  eo  ordine  que  tibi  nianifeftabimus  loco  fuo. Conftat  igitur  tibi  a quo  incipere intendimus, & quem  ordinem  foruare,  ne  nouitii  inge  nium  inuoluatur.Hxc  de  praefenti  cap.dida  fint*   Explicit  trac.primusqui Tuit  de  praecognofcendis  ordinatus per  authorcm,&  reuifus  per  eundem secundus  qui eft  de  partibus  propositionis. N rradatu  iecudo  agendu  cft  de  par  t;bus, pp6nis,quae  apud Logicu  praecipue (une  nomen,  & uerbuin  & qtr»  fcire  non  poteris  quid  & quotuplex  fit  nomen  apud  logicu,  fifr  & uerbu  nifi  prius noueris  qd fit  terminus,  &  quotuplex  fit. Et  qd  dico de termino intellige  de voce. Primu.n.qd  poni£  in  definitione  nomini et  uerbi  cM terminus  apud  coitcr  tradatores  de  logicalib apud  aut  Aristotele vox, ut tibi declarauim9  i tradaru pcedeti, c.7. io huc  tradatu  diuidem° i.4.capita.. Primum, Quid et quotuplex sit  terminus. Secundum, Quid « quotuplex sit nomen et uerburn. Tertium, Quid & quotuplex sit oratio. Quartum. Si logico sufficiunt  duae partes orationis, (ciliccC  nomen rectum et verburn rectum. Quid & quotuplex fit terminus. IN pino cap. inueftigadii est qud sit TERMINUS et quot fine vitares divisiones cius. Hic igitur duo ageda sunt pmo definiemus trerminu dcclarates singulas definitionis particulas secundo asfignabimus coes, & vies  divisiones  termini.  Quatu ad  prnii  aduertc,q?  hic  no  intedimus  loqui  de  oi  significato  in  quo fumit  terminus in doctrina  Aristotelis. Sumii at  eribus  modis, Prlo  funii! maiori, & minori  extremitate^ medio, & dnr  tres termini  ex  qbus  coponi!  oisve  rus syllogifiruis &  de hoc  ino  loquemur  I trac de  fyllogifmo  formali, & abfoluto. Secundo  iiimitur  pro  definitioc  rei,  quae  dicitur  apud  Ariftotcle  terminus  qm  in  fe  claudit , 8C  terminat  totam  rei  definitae  cflentiam  & de  hoc  modo  lo-  quemur in  trac. de syllogifmo  topico et demoftratiuo. Tcr  tio fumitur  pro  omni  co  ex  quo  propincp  conftituitur  ora-  tio, & propofitio,  & in  q uod  refoluitur. Et  dico  propinque  quoniam  ficuc  apud  gramaticum  dictio  componitur  ex  ali-  quibus remote, & c x aliquibus  propinqj. sic  apud  Logicum  oratio  & propoficio  ex  aliquibus  coponitur  utrocj)  modo. Nam  apud  grammaticum  dictio  componitur  propincp  cx  fyllabis, quoniam  fcipfis  & non  mediante  alio, comfonitur  aurem  remote  ex  literis, quoniam  non  ex  fcipfis  fed  medii  te  fyllaba.Sic  in  propofito  apud  logicum  oratio  & propofitio componutur propinqj ex terminis, qm ex  fcipfis  & non  mediante alio, componuntur autem remore ex  syllabis  5C  literis, liter enim componut  fyllabas, &  fyllabc  terminos,  & termini orationcm. Ec in hoc  tertio  fcnfu  folum  intendimusin hoc  trac. Ioqui ac definire terminum. Sed aduerte <jf in tertio sensu adhuc tripliciter fumi  p6t.f. communitcr, ftrl de & ftrictisfimc. Comuniter  fumitur  pro  omni  didionc  p pinqj  componente  orationem,  &fic  non  folum  nomen  dC  uerbum,fcd  etiam  alis  orationis  partes, ut  pronome,  prx  politio,  aduerbium &c. dicuntur termini. Stride  fumitur p  omni eo quod eft  uel poteftefle fubiedum et praedicatum  & copula in propofitione. In quo fcnfu nec figna uniuerfalia nec particularia, nec adverbia funt termini, qm no sunt nec poffunt e(Tc per se ipsa praedicatum aut fubiedum, sed modi Huc dererminatioes eorum, fifr aduerbia sunt determinationes verbi ut “bene currit”, hodie ucnit  &c.  Srridisfime autem fumitur pro omni eo quod eft uel poteft efle extremum propofitionis, extremum autem dico subiedum  & praedicatum, &*n  hoc sensu copula non est terminus, quia non est extremum, sed unitiuum cxtrcmoru, unit et copulat praedicatum et subiedum et in  hoc  fcnfu  definiuir eum Aristoteles in libro priorum diccns, (? terminus eft in quem rcfolujf propofitio ut in subiedum et praedicatum. His praepofitis  adrerte qr hic habemus diffinire terminfl non ftridc nec ftritisfime fumptum,  sed comunircr, aliter non potiemus ipfum diuidere ut diuidemus infra. Nam una ex diuifionibus erit haec, terminorum unus est PER SE SIGNIFICATIVUS, alius non per se significatiuus. Constat autem ex prxdidis quod terminus non per se significatiuus, non cil tf terminus ftricte nec ftrictisfimc fumptus. Definientes igitur  terminum coicer & abfolute fumptfl dicimus quod eft pars  propinqua conftitutiua ofonis et propofitionis. Dicitur pars propinqua immediata  ofonis & politionis ad differentiam literarum et syllabarum, qu* non  nifi mediante termino componunt oronem.  undeaduerte sicut fe habent lapides et ligna et fundamentum,  &p aries  ad compofitioncm domus,  fic liter ac et syllabae et termini ad constitutionem orationis,  nam lapides & ligna  non componunt immediate domum, sed componunt imediate fundamentum parietem et tectum, hacc  aurem  imme  diate  dotnumrideo  illae  rcmotac,hae  autem  propinquae  nucupantur. Sic  in  propofito, literae  wt syllabae  non  componut  immediate  ofoncm, sed  terminum,  tcrmiifos  autem  immediate  oroncm. patet  ergo  terminum  cfle  immediatam  & p  ximam  partem  ofonis ad differentiam  literarum  et syllaba  rum. Df  conftitutiua  ofonis, quonia  hic  procedimus  ex  po- ri:ad  differentiam  relolutionis  quae  fupponit  conffitutum  ex  partibus. Df  ergo  conftitutiua  ofonis, quoniam  hicinte-  dimus  praeparare  materiam  fyllogifmi, quae  eft  propofitio  ideo  inueftigamus in primis, ex  quibus  conftituitpr  immediate propofitio, & in  tractato de syllogifmo  aperiemus ex quibus  propinque et immediate conftituitur syllogismus.  Haec autem  definitio  conucnit  termino, in  mente, in  uocc,in  feri  F to:quoniam  terminus  in  mente, eft  pars  propinqua  oratio  nis  mentalis, & in  uoce, eft  pars  propinqua orationis uoca-  iis  & in scripto ,eft  pars  propinqua  orationis  feriptx.   Vifo quid sit  terminus  apud  logicum  cSmunitcr  & absolute  fumptus, asfignandae  funt  generales  diuifiones  eius,  uc  Idamus  iuxta  ouod  membrum  ponendus  eft  in  definitione  Hominis  et uerbi et orationis. Prima  diuisio. Terminorum, aliquis est PER SE SIGNIFICATIVUS, aliquis  nihil per se, id eft per se  fumptus significativus. Terminus per se significativus est ille qui ultra se ipsum aliquid intellectui  re-presentat, ut “homo”, “animal”, “lapis”:  representat  enim homo itellectui animal rationale et “animal” re-praesentat animatum sensitivum et per se motiuum, et lapis corpus terreum durum offendens pedem.  Nam signifcare est aliquid intellestui re-praesentare.  Vnde idem eft terminum esse per se significatiuum et esse  per  se  re-praefentati uum alicuius apud  intellectum. Dicitur  ultra  feipfum,  qm  repraefentarc  feipfum  intelleftui eft commune  omni  terrni no, cum fit intelligibilis  ab  Itelletfu,  cuius obieftum est ens communisfitnum ut seextendit ad ens reale et ens rationis  ut  dicemus  alias. Terminus nihil per se significativus eft ille qui per se sumptus ultra se ipsum nihil intellectui re-praesenrat, ut  “buf” et “baf” et “biltris”. Dicoper  fc  fumptus, ut  excipia  quando  proferuntur  ex  intentione  irridendi.  Tuc  enim  ex propofito irridentis fumunrur  ut  per se significativi, sed  id  non  est  ordinarium. Nam pleruncp proferuntur aut exeunt ex ore fine propofito  aliquid  ultra  feit  fum  fignificandi. Ad hoc autem q*  fit per se significatiuus, oportet  ut  naturaliter uel AD PLACITUM in aliquo idiomate ordinarie et consuetudine firmata, sic vel sic ultra se ipsum significct. Secunda divisio eft haec.  Dimisfo termino nihil per se significativ, utpote inutili propofito noftro, quando non componit orationem ordinarie ut subiectum & praedicatu,  nec  est  pars  nec  determinatio  eorum  ad  differentiam signorum uniuerfalium et particularium, diuidendus  est  terminus per se  fignificatiuus. Et  prima  diuifione  diuiditurin  terminum per se  significatiuum  naturaliter et in  terminum  PER SE SIGNIFICATIVUM AD PLACITUM. Terminus  per se significatiuus naturaliter est ille, qui apud omnes homines idem uitra se ipsum re-praesentat intellectui, ut “homo” et “animal” in mente. sft autem homo in mente species, sive similitudo,  sive conceptus hominis. Se habet enim huiuf modi similitude sive conceptus ut vera imago, puta Caesari , quae  apud omnes ex sui natura re-praesentat  Caesarem.  Sed  adverte  quod non solum terminus in mente est significatiuus NATURALITER sed  et quidam  termini  dum  proferuntur, etquaedam  animalium signa, ut  dum infirmus GEMIT,  apud  omnes repraesentatur DOLOR, & dum canis latrat apud  oes re-praefentatur IRA. Terminus autem PER SE SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM, est ille qui non apud omnes idem, sed in diverso idiomate diversa re-praesentat, vel tatum in uno idiomate aliquid  detet;  minate teprzlentat, in alio autem nihil. Et causa huius est,  quia huiul modi termini non significant  ex  inftindu  naturae sicut interiediones quae non sunt bene trasferibiles ex uno idiomate in aliud, sed impositi sunt ad sic significandum EX DECRETO ET AUTHORITATE primorum instituentium, quibus sic placuit rationabiliter  tamen, in  uno  quoqj  idiomate  res  lingulas sic uel fic  nominare. Et  aduerte  quod ultra  hoc q* terminus ad  placitum  differt a significativo naturaliter in hoc  q^  non  apud  omnes idcin  repraefentat, dum  profertur,  nec significat  ex  instintu naturae, sed  decreto primi  authori: in  duobus aliis  diffcrt. f. in  modo proferendi et in significato. Nam terminus ad placitum perfede & diftinde profertur,  modo non adiit ineptitudo linguae exparte proferentis.  Termini autem naturaliter significatiui propter impetum passionis,  amoris, aut  timoris, aut  gaudii, aut  irae, ut in pluribus truncate proferuntur, etiam  remota ineptitudine  Iin  guae. Differunt etiam ex parte significati,  quoniam  termini ad placitum significant conceptum intellectus: illi autem magis indicant affedum appetitus, quam conceptum intellectus. Sed ne novitius inuoluatur, hic fifto, donec fiat capaxfolidioris dodrinae. Tertia divisio est haec. Dimiflo termino per se significati — non naturaliter pro nunc TERMINUS SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM  multas  sub  se  continet  divisiones, quarum frequens est  udis in  doctrina  peripatetica, ex  quibus  una  eft  q?  quida  eft  categorematicus, quida syncategorematicus. Categorematicus est ille qui tam  g se sumprus  quam cum  alio, tam  in  ppone  quam  extra, aliquid ultra  se ipsum intclleduircpftntat, ut homo, lapis, curro, amo. na  homo  g le  folutn  significat  animal rationale,  lapis  tale corpus, curro  adum  currendi, amo  aduin  amandu syncategorcmaticus est ille qui per se solum sumptus nihil extra seipsum apud intelledum significat. Si autem sumatur cum alio, puta cum nomine substantivo c  ucl  cum ucrbo, simul significat, inquantum determinat nomen aut verbum. Et sic signa univerfalia et particularia et prepofinoncs et aduerbia, & coniundiones  funt  termini syncategorematici.i.cofigmfieatiui.  Nam signa  uniuerfalia  determinant nomen substantivum politum in fubiedo ad ft a dum pro omnibus, aut pro nullo, ut omnis homo currit,  nullus homo currit. Signa autem particularia determinant fubicduin particulariter, ut quidam homo currit,  quida homo non currit. Praepositioncs aurem determinant nomen ad conrrftrudioncm  pro cerro  cafu,  puta  ablatiqo  ucl  accusative. Aduerbia  determinant  uerbum  f>ro  determinato  Io  co, ut aduerbia  localia, ucl pro determinaro tepore,  ut  adverbia temporis , uel  pro  determinato  modo  quatiratis ucl qualitatis tut  aduerbia  quantitatis  & qualitatis. Coniundiones autem  determinant  terminos et orationes, secundum,  modum copulariuum, ucldifuindjuum  ucl  illatiuum.  exeplum  primi,  & ,arcp  exemplum secundi,  uel, aut , exemplu  tertii, ergo, igitur, iracp.  Inter syncategorematicos  termi-  nos non  comprehenduntur  intcricdioncs:quoniam  ut  docuimus figmficant  naturaliter, nec pronomina primitiua,  quoniam fumuntur loco proprii nominis & certam significant personam. De denuatiuis autem uidetur quod fic,  qm funt  ut  determinationes  nominum  fubftantiuuoif, ut  meus liber, tuus pater, nostra patria  &c»Similirer  participium  ji5 cft terminus syncategorematicus  ,compleditur  enim  no-  men subftantiuum et verbum,  ut legens  loquiTUni»  homo  qui  legit  loquitur. Ex  his  omnibus  fequitur, quod  cum  line  odo  partes  orationis, tantum  nomen  et uerbum  fumendo  cum  nomine  pronomen  primitiuum,  & cum verbo  partici  pium, funt  termini  categorcmatici,  alix  autem  partes  fune  termni syncaregorematici  apud  logicum, & caulam  huius  dicemus  poftq  definierimus  nomen et uerbum.   Quarta  diuiflo. Terminorum  categorematicorum  qui dam cft  primat intentionis, quidam  lecundae. Prima  intentio apud vueros  peripateticos  eft  primus  conceptus  fundatus immediate in re, quz  eft  cnsrcale , ut  primo  apprathenditur  prxhenditur  ab  intcllc&u, ut  animal  rationale  est  prima  in  tcntio  quam  format  intelleftus, &  immediate  fundatur, iit  natura  hominis. Secunda  aurem  intentio  eft  fecundus  con  ccprus  formamus  ab  intelledu, fundatus  in  re  non  immedia  ce  fcd  mediante  primo  conceptu, ut  efle  praedicabile  de  pluribus differentibus  numero  in  quid, est  fecundus  conceptus  quem format inrellc&us  de  homine.Nam  poftquam  apprae  hendit  cp  homo  eft  animal rationale, aduertit  ut  eft  ani-  mal rationale, conuenit  omni  contento  fub  homine, &fic  eft  praedicabilis  de  quolibet  luo  indiuiduo  in  quid, &  tunc  format  fecundum  conceptum, dicens  q natura hominis  e eo  q* eft  animal  rationale  eft  praedicabilis  de  pluribus  diffe-  rentibus numero  in  quid & quod dico de homine incellige de qualibet natura specifica cotenta sub animali. Terminus igitur primz intentionis eft terminus significans  pmum conceptum, fundatum  immediate  in  eftentia  rei, ut  homo, ca-pra, leo. Terminus autem secunda: intentionis  eft  terminus significans seccundu coceptum  fundatu  in  natura  rei  median  re pmo conceptu,  ut  genus,  fpccics, differetia, fingulare, &c;  Et  ne  cofundatur  itellcdus  nouitii  hicfifto.  In  tradaru  autc  de  uniuerfalibus  siue  pdicabilibus  diffufius  & altius  de  terminis pmx, & feciidx INTENTIONIS loquemur. Et aduerte q*  diuifio termini in terminos  pmz  impofitionis, &  fecundx  pofitionis  apud  nos, qui  fcquimur  uiam  realium  non  differt  a praecedenti. Nam  homo  in  mente  excogitatus, et uoce  probatus, & in feripto  poli  tus,  significat (>mum  conceptum  ideo est  terminus  pmz  intentionis in mente, in voce,  in feri  pto. Et  ifte terminus species ex cogitatus in mente et in voce et in  scripto et secundae  intentionis, quia significat  lecun  dum  conceptum  modo  quo  diximus. Non ergo eft neccfle ultra diuifionem faftam inter terminos f>mx, 8( secundae  in  rentionis, af!ignare eam quae dicitur'  pmz, & secundx impe»  fitionis ut penitus diftinftam aprxcedenti, qux fuit inter  m x , &  fecundx  intcntionis.Hxc enim continetur  in illa.   Quinta diuifio. Terminorum quidam cfimunis,  quidam  fingularis.Cdmunis  eft  q de pluribus  pradicatur, ut  homo, animal, lapis, & apud  grammaticum  dicitur  nomen  appellatiuum,qm  pluribus  conuenit. Terminus  fingularis  eft  qui  de  uno  folo  praedicatur, ut  piato, & fortes, & apud  grammaticum dicitur  nomen  proprium, qmuui  foli  conuenk,  & ad  «erte  <y  terminus singularis  apud  logicum  pot  fieri  quatuor  modis, primo  per  nomen indiuidui, ut  plato'ftudet,  secundo per nomen  coe adiun&o  pro  nomine  demonftratiuo, ut  hic  homo  ftudec, tertio  per  nomen  circtinlocutum.i«miil-  tas circunftantias  fingularizatum, ut  Sophronifciprimogc  nitus  filius  feribit, quarto  per  ly,quod  apud  logicum,  & philofophu  est  signutn  demonftratiiiu, ur  ly  homo,ly  alal  &c. Sexta  iiuifio. Terminorum  quidam  magis  uniuerfalis,  quidam  minus  uniuerfalis , & utrunq;  membrum  contine-^  tur  fub  termino  communi. Magis  uniuerfalis  eft  qui  praedicatur de  pluribus  q minus  uniuerfalis, nam  magis  uniucrfiilis  praedicatur  de  omnibus  de  quibus  praedicatur  minus  uniuerfalis , &1n  hac  diuifione  continetur  animal  & homo,na  animal  praedicatur  de  omnibus  de  quibus  praedicatur  homo et de  aliis  pluribus  ut de omni animalium  fpecie, homo autem  tantum de  contentis fub homine  indiuiduis, & iuxta  hane diuifionem  asfignabimus  ordinationem  conten  Corum  io  quolibet  praedicamento, procedendo  a generali! Cmoadfpcdalisfimum.  Septima  divisio. Terminorfim  tam singularium  q communium  quidam eft  finitus, quidam  infinitus, finitus  eft  determinati & certi significati: qui  scilicet  fignificat unam  ccr  tam ac determinatam  naruram, &  de  nulla  alia verificatur, ut homo significat solam naturam rationalem,  animal  foli  naturam  fenfitiuam,&c .Infinitus  est  qui  negat  unam  natu-  ram,eam, scilicer  quam  fignificat  terminus  finitus , & ucrifi  catur  de  quacuncp  alia, ideo  dicitur  infinitus, id est indeterminatus in significando, & terminus  finitus  fit  infinitus per appofitionem  non, ut  non  horno, non  lapis, non  animal.  Nam  non  homo  negat  naturam  hois, $( verificatur  de  qua-t  Cunc$alia«Vndc  lapis  eft  non  homo, leo  eft  non  homo  &c.  Et  aduerte  q'  quando  terminus  finitus, infinitatur  per  non.    iS  fit  tota  una  diftio,ut  non  homo, fi  autem  ftet  non, per se, &  homo  per se, dicitur  terminus  non  infinitatus  fcd  negatus  t  ut  non  homo  currit, & per  terminum  negatum  fit  propofitio  negatiua  haec  enim  cft  negatiua  non  homo  currit, haec  autem  eft  affirmatiua,non  homo  puta  leo  currit-  Oftauadiuifio. Terminorum  quidam  eft  pofitiuus,quid priuatiuus .Pofitiuus  eft qui  fignificat  aliquam  formam  fiuc  habitum  perficientem  fuum  fubiedum,ut  uifus  perficit  ocu  lum  «Lux  aerem, iuftitia  animum  &c«Priuatiuus  eft  qui  (i-   i gnificat  negationem  talis  formae, relinquens  taroe  aptitudj   k ne  in  fubiedo, eo  q* cft  aptum  hre  talem  forma ut  caecitas,   » tenebra, iniuftitia, mores  furditas  &c. Caecitas  enim significat negationem  uifus  in  oculo  apto  here  uifum, modo, &  te   * porc  quo  cft  aptus  uidere. Dicitur  notanter  quod  eft  aptum  habere  talem  formam, qm  fi  non  eft  aptum , no  uerificacur   ii  de  eo  terminus  priuatiuus  , fed  terminus  pofitiuus  negatu?   aut  non  uidcns,non  lucens, non  audiens* V nde  de  lapide  haec  est falsa. “Lapis  est  caecus,” vel  surdus, uel  tenebrosus, haec  autem  est  vera. Lapis  est  non  uidens, non  audiens, non  lucens. Nona diuifio. Terminorum  quidam  abftradus,  quidam   a concretus.  Abstractus  eft  qui significat  formatu  per  fe  fine   f-  connotatione  (ubiedi,ut  color,  fapori,albcdo,  dulcedo,  anima, iuftitia, &c. Concretus eft  qui  fignificat  formam  conno  i-  tado subiedum,uc  colorat\im,album,nigrum^animatumt   iuftum,&c .Et  aduerte  q* haec  diuifio  coincidit  cum  illa, dc  :t  qua erit  fermo  in  ante  praedicamentis,fcilicet  Terminorum  r,  quidam est denominans, ut grammarica, hic  cft  idem  q»  ab li ftradus,  quidam denominatiuus, ut  grammaticus  hiccR   idem  q»  concretus. Decima dinifio. Terminoit quidam in complexus,  quidam complexus. Incomplexus  eft  ille, qui  est  terminus simplex,   er vel  copoficus, uel  uniens  in  fe  plure?  terminos  per  fc  fignifi   il,  catiuos  ad  placitum, ita  tamen  q»  habent  uim  unius  exem-  ,a«  pium  primi  homo, capra, leo, exemplum secundi.  Scuti-   K.  fer, armiger  exemplum  tertii  paterfamilias , primo  geni-  n,  tus Sanftus Georgius, summus  pontifex. Comple-Jtu«  eft  ille, qui  in  fc  aggregat  plures  terminos  per se  significatiuos  ad  placitum, qui  non  habent  uim  unius, sed  fiue  aggragati, fiue separati recinet  fuum  proprium  fignificatum. Et  nccerminus  complexus semper  eft  orario,  aliquado sine verbo, ut homo albus, animal uolatilc, in  qua secunda  pars  determinat, & limitat  primam, aliquando  cum verbo, ut  homo  eft  albus. Vnde logici  uniuerfaliter  dicunt  q»  terminus  incomplexus  eft  ut  di&io. Complexus  autem  ut  oratio. Tuta men aduerte q> terminus ceplexus coitcr nominatur per orationem infinitiuam, ut deum ede trinum hominem efle rifibilem, quae oratio dicitur e(Te quid coplexum, & enunciabile, ut ibi manifeftabitur, cum  loquemur  de  modalibus.   Vndedma  diuisio. Terminorum quidam significant fine tempore quidam  cum  tempore. Significare  sine tempore  est  significare rem  abfolurc  fumpram  non mensuratam aliqua  differentia  temporis, cuius  differentis sive  partes  funrprz-  fens, praeteritum, & futurum, & hoc  modo  fignificar  nome  & pronomen fumptum loco nominis.  Nam  dum  dico  ho-  itio, aut animal, homo significar  rem  quae  eft  homo  abfolutc,  &  non  inquantum  praefert tem, aut  praeteritam, aut  futu-iram. Tu  tamen  aduerte  q>  licet  nomen significet  fine  tempore, nihil tamen prohibet aliquod nomen fignificare  tem-  pus, aut partem  temporis, ut haec nomia,  tepui, hora,  dies  ebdomada, mcnfis, annus. Nain  licet fignificet tempus,  non tamen aliquid diftinftum  a tempore, & menfuratum tepott. Per  oppofitum  autem  fignificare  cum  tempore  eft  figni  ficare  rem  adiunda  aliqua  differentia  remporis.Et  hoc  mo-  do uerbum, &  participium  fignificar  cum  tempore.  Verbi  gratia  curro et currens, significant  curtum  pro tempore  prae  lenti, & non  aliter, cucurri  pro  praeterito  &c. Unde significare sine tempore, ut  dicemus  infra, proprie  conuenit  nomini,  oppofitum  autem  conuenit  uerbo.   Duodecima  diuifio. Terminorum quidam univocus, quidam aequivocus, quidam analogus. Univocus est qui fubvna definitione naturam unam significat, siue sit una specie, sive ana  geacre, ut homo sub hac definitione, est animal rationale, significat natura humanamquae eft una spe, &aul fub hac definitione, est corpus animatum sensitivum, significac naturam animalis quae eft una genere. Aequivocus est qui sub distindis ronibus, & abfqj ordine, & immediate  plures  naturas  fignificat  diftindas  fpe,  ut  canis fignificat  im  mediare  canem  coeleftcm  fub  hac  definitione  q*  cft  fydus  in  ore  figui  leonis, & canem latrabilem fub hac definitione qs cft animal iracundum et canem marinum fub hac definitio  ne  q* eft animal aquaticum simile cani  tcrreftri. Analogus est qui sub diffindis  ronibus  ucl sub una inaequaliter participata plures naturas quodam ordine prioris, & pofterioris  fignificat. Excmplum  primi.  Sanum sub  hac  rone  q?  est esse  adaequatum  in humoribus  fignificat  animal  fanum,  fub  hac  f one  q' eft  e(Tc  caufatiuum  (imitatis  fignificat  medicinam  Isi  nam, sub  hac  rone quod cft ede indicat iuum faniratis, significat urinam sanam.  Prius tamen  dr de animali,  pofterrus  autem  de  medicina, & urina: quoniam nonnifiin ordine ad animal sanum.  Exemplum (ccundi. Ens fub hac rone q» cft cui debetur eflfc, significat primo substantiam,  deinde acens quoniam substantia est ens fimpfr,  & accidens eft ens secundum quid, et solum  in  ordine  ad substantiam.  Hic  termini  cur  uniucrfaliorcs  diuifiones quae  in  dodrina  peripatetica  frequenter  funt  in  ufu,ta  i libris  termino logices, q pbiae.  pr aepofirae  aut  funt, ut  nouiti9paulatim  a(Tucfcat, &  nc  fim coadi  frequeter  fingulas  repetcre. Haec  dc.  i .cap. dida  fint. Quid & quotuplex est nomen et verbum apud logicum. In secundo capite inueftigandum est quid & quotupleg fit nomen et verbum apud logicum, funt enim principales partes propofitionis, ut tibi manifeftum erit, primo igitur agendum cft de nomine secundo de uerbo. Et  quonia  hic  intendimus  agere  dc  partibus  propofitioni£us,&  de  g>-  pofirione, & de syllogifmo, non  folum  in  uoce,  fed  & in  me  rc, &  in  feripto, ideo  definiemus  ca  non  per  uoccm, fcd  ter*  minum  qui  cft  communis  nomini  & uerbo  in  mente,  in voce, in  feripto. in  reliquis  autem  no  recedemus a uia,  & me* do dcfinitiuo fcruato a Petro Hispano, qui logicam Cui formauic ut compendium logicae totius traditae nobis ab Aristotele , excepro  libro  poftcriorum. Non.n.  Petrus  hilpano  formauit  tra&atum  aliquem  correfpondentcm  libris  poste riorum, hac  forte  rone,  qmcxiftimauit  nouitium  penitus  incapacem  fyllogifmi  demonftratiui, Nos  autem faciliori  modo  quo  poterimus  particularem  tra&atum  formabim ut  paulatimalluefcat  nouitii  ingenium, & ne  fubito  auditu  libri  pofteriorum  confufus  retroccdat. Licct  autcm Aristoteles in  libro “Peri Hermenias”, et  Petrus  cius  imitator  definiant  no  nien  & uerbum  per  uoccm,&  nos  per  terminum, tn  no eri  mus  oppofiti,nifi  in  hoc,q?  nos  magis  ample, illi  autem  magis  ftriftc  definierunt,*  Cofidcrarunt.mpartes  oronis  folurti  ut  (untuocales,nos  autem  ut  poflunteife  mentales,  & uo-cales, & fcriptx. Vndeficut  dicit  Aristoteles & Petrus  cf  nomen  cft  uox,fifr  & uerbum, dicemus nos  i terminus,  fiib  quo continetur terminus  uocalis  qui  dicitur vox  &c. Primo  igit  agentes  de  nomine definiemus quid sit apud logicum, & fi  multiplex eft. Quantum  ad  primum  aduerte  cp  nomen  ad  mente  Ari-  ftotelisinuoce, in  scripta  est  TERMINUS PER SE SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM sine  tempore, cuius nulla pars separata  aliquid  fignificat  finita  & reda. Primo dr  q»  est terminus, qm nomen eft  pars  propinqua  ofonis & proponis,u t patet. Et qm terminus eft quid magis commune qfit  nomen, ut patet ex  op.praecedenti.  Nam & uerbum  eft  terminus, non tamen  cft  nome,  ideo  in  haedefi  nitide  ponif  terminus  ut  genus.Na  ut  declarabimus  trac de  syllogifino  dialc£lico,pmus  terminus  in  de  finitione  pofi  tus, eft  loco  generis,  qm  eoior  eft  ipfo  definitor,  reliqui  aqte  ponuntur  loco  differentiae  ut  declarabimus Secundo dr  p (e aisnificaticus, ut  excipiantur  termini  no perfc significatiui, ut  “buf” et  “baf” et terrmni syncatcgorema  Cici  ut  figna  uniucrfalia  & particularia, uc  omnis, nullus, ali-  quis,quae  licet  apud  grammaticum  fint  nola:,  non  tamen  apud  logicum, quoniam  g (e fumptanon  polfunt  efle  praedicarum  ncc  fubic&u  proponis,  fcd  tm  determinant  fubic-  . Au aur pdicatu uc  docuimus in rertia  diuillonc tcrminoif. Tertio dr  ad placitum  ad  driam  termini  fignificatis  nata  ralitcr.ut  intericdiones,quz  condant  non  clfe  noia  qm  no  declinantur  per  calus, nec fune fubicdumaut  przdicacutn  proponis  nifi  in suppofitionc materiali, ut  heu  e interie&io,  heu  eft  bifyllabum,&  ad  driam termini J.conccp cus  in  mente, qui  naturaliter  fignificat  ut  declaratur  in.i  periher*  t Quarto  dr  fmc  tempore  ad  driam  uerbi , quod significae  cum  ege, quid  fit  fignificarc  fine  rge,&  cum  tge  iam  docuimus  in  undecima  diuifione  terminorum , & diximus  q?  no  «nconucnit  aliquod  nomen  fignificarc  tempus, ucl  partem  tgis,ut  dies, hora  non  th  cum  tgc.Vidc  tu  illic»   Quihto  dr  cuius  nulla  pars separata  aliquid  lighat.idi  no  men  diuidaf  in  partes  fiias, quz  (int  fyllabz  ut  pr,  & omne  nomen  nmplex,ucl  quz  fint  didioncs,ut  in  noic  compofi-  10, ut  eft  pr  familias,  uel  Icutiferus , & fumant  g fe.i.  extra  totum  nomen  nihil  fignificant. Quod  fic  intclliges,aut  nihil  orno  fignificant  ut  marc.Na  nec  tnamee  re,  g fe  fumpta  ali  quid  fignificant.Vel  fi  aliqd  fignificant , non  th  habent  illuti  lignatu, quod  hnt  in  toto  noic.V.G. Hoc  nomen  dhs  fignac  |»ncipem. Si  ante  refoluat  in  do  & in  minus,do  uciqj  fignat:  ;f*aftum  dandi, & minus  signat oppositum magis,  sed  ut  co ponunt  ly  dhs nihil  fignificant.f.dc  fignificato  ly  dhs. Idem  intclligc  de  nomine  compofito , cuius  partes  feparatz  & (i  aliquid  fignat, non  tn  illud  quod  fignat  totum  nomen  ccm  pofitum, ut pr familias significat  re&orcm  familiz. Pater  autem  per  fc  fumptus significat  genitorem et familia familiam, ica  q in  toto significant  ur.um, fcparatz  autem signiS  eant  duo. Ethzc  expofitio  cft  communis  apud  ueros  logi-  cos* Vndc Avicenna  recitat  in  logica  fua  aliq uos  dixifle, q* verbum  incomplcxum est  cuius  nulla  pars  feparata  aliqd significar. fi quod  fic  de  intellc&u  et significato totius  qm  nl  hil  ,phibct  aliqd aliud  fighare,ut  magifter  nam  magis  aliqd  fignificat:&  ter, fcd  non tetinent significatum  quod  fignificat magifter nec in totum nec in partem .Er  fic  paret  q*  hzc definitio  conucnic  nomini  cam  timplici,  quam  compotito,  tam primiriuo,  qua deriuatiuo,dum  ntodo  intdligatur, uc  cxpo  luimus. Sexto dr  finitus  ad  differentiam  nominis  infiniti, quod  &  fi  apud  grammaticum  fit  nomen, non  came  apud  logicum,  quoniam  apud  ipfum  nomen  cft  illud, quod  poteft  elie  fub-  icdum  & przdicatum in propotitioc. Subiectum autem et praedicatum oportet, ut determinate aliquid significent,  afr propotitio effec inutilis, nec deferuirct syllogismo formado ab intellcdu pro inquirenda ucritatc.Vndc  & terminus  acq  liocus  inntilcm  facit  proponem, niti fumatur determinate.  Verbi  gratia  canis  coeleftis  lucet.  Sed  uc  docuimus in divisione septima  terminorum, terminus  infinitus  nihil  determinate tignat,ideo  cum  non  postit  effc  fubicdum  & praedi  catum  proponis  non  cft  nomen  apud  logicum  niti  fecundi!  quid, ut dicatur nomen non  fimptf  r sed nomen infinitum, sicuc solemus dicere quod “chimera” non est nomen reale sed nomen fidum, quia nihil significat sed imaginarie. Sed dices, apud logicum hzc cft propotitio.  Non homo currit, ergo poteft  effc  fubicdum, & per confequcns  nome.  Refpondccur. Tales  propoticiones sunt inutiles ti teneatur  nomen  infinitum in sua infinitate & in  deccrminationc. Si  autem  determinetur  ticdiccndo.Nonhomo.i.afinus  currit  tunc  propotitio  erit  utilis,fcd  nomen  infinitum  non  rema-  net infinitum, fed  zquiualet  finito.   Septimo  dicitur  redus  ad  differentiam obliquorum , qui non fune nomina apud logicum. Nomen enim est apud  ip-  Ium  quod  f m fe aliquid significat, 8(  f m fe  poteft  effc  fubic-  dum  propotitionis. Sed  obliqui  neutrum  habent  ex  fe. No primum, quia  tigni  ficatum  trahunt, a redo  ticur,& deriuan tur ab co. Redus autem ticut non deriuatur ab alio tic non accipit tignificatum ab alio  cafu sed habet afe. Non secundum, quia ti apud logicum formatur propotitio perucrbif impcrfonaIe, ut Platonis intereft legere: ly Platonis no eft subiectum, niti refoluatur in redum tic.  Ille cuius eft legere eft Plato.  Sic intclUgc de aliis. Prztcrca solus redus  fufficit 1 t1 1 K Ir  O \t. i115  s io  i ur  Si   rii  a fr-   io mn. A  re 3t n ad formandam prop6ncm pcrfedann &maxime de secundo adiaccntc, ad quam non  sufficit nomen obliquum. Haec  enim  cQ  perfcda. Deus  cft, homo  eft, hacc  aurem  imperfe*  da. Dei  eft, hominis est. Non ergo obliqui moerentur dici nomina sed  fmc  cafus  nominum.  Hoc de  definitione  nomi*  nis  apud logicum  rcalem  & peripateticum dida  fint. Quantum ad secundum. f*  quotuplex  fit  apud  logicum,  Ideft  inquantum  poreft  c(Tc  fubiedum  & praedicatum, ppo  fitionis, conftat,ex  didis  quod  non  eft  multiplex, quoniam solum nomen rectum et finitum  poreft  clic secundum  le subiedum et praedicatum in propone modo quo expofuumus.Vnde logicus a grammatico sumit  fibi  redum  ut  nc«  cellarium  ad  fomandum  abfolutam  proponem  significativam veri  & falsi Reliquos auccm cafus lumir adbencclfc, & magis propter feruandam congruitatcm quam ucritate sermonis, ne uideatur logicus delpicere regulas grammatices. Haec de nomine  dida  finr. Quantum aduerbum aduerte quod ad mentem Arifstotele verbum cam in voce  quam  in  scripto sic  definiendum est verbum est terminus per se significatiuus ad placitum cum tempore, cuius nulla pars separata aliquid significat,  finitus & rectus extremorum  unitiuus. Terminus ponif loco generis ficutin  definitione  nols,  quia  eft  eoior  uerbo.  Nam  omne verbum  eft  rerminus:fcd  non  cconuerfo  p fe  fignariuus  ponitur  eadem  rone  ficut  in  definitione  nols  fifr  ad  placitum  ad driam  interiedionuni,  & uerbi  mentalis, qrh significat  naruralV, ut  diximus in definitione nois, Cum tempore  ponitur  ad  differentiam  nois,  & pronominis, & conuenit in hoc cum  participio  quod  uc- nit a uerbo. Quid fit significarecum tempore, 8c quare uorbu et participium signifi.ar cum tempore, uidc  in diuifione undecima rerminoru. Cuius nulla pars separata aliquid sfignificar, intelligcndum est de verbo tam simplici quam composito, sicut expofuimus in  definitione nominis, in hoc enim uerbum conuenit cum nomine, finirus ponitur ad differentiam uerbi infiniti.  Infinitatur aute uerbum sicut et nomen  per appofitioncm negationis,  ut non curro non laboro. Quod quidem apud logicum no eft verbum, qm nihil determinate significac^ficur nec nomen infinitum.  Undefacc rct proponem inutilem: nili determinetur licut diximus de nomine infinito, sic dicendo, fortes,  non currit»  I « feribie» Re cius ponitur ad differetiam uerbiobliqu^cft autem uerbum obliquum apud logicum uerbum prztcriti & futuri temporis, & verbum cuiuslibet modi przter  modum  indicativum.Vnde  quaedam  fune  uerba  obliqua  ex  tempore  ra  tum,ficut  uerba  praeteriti  temporis, & futuri  indicativi  modi, ut “amavi”, “amabo”. Quaedam autem ex modo rantum uti imperativa tempore  przlenri. Quzdam  ex  modo,  & tem-  pore, ut  uerba  optatiua, et subiunctiua et infinitiva temporis praeteriti et futuri. Ideo autem apud logicum non fune verba, quoniam non faciunt primo et perfcipfa propofitionem veram aut falsam, sed per redudionem ad verbum indicatiui modi & temporis przfcntis. Nam  hzc  non  cft  uera  Czfar  fuit,nifi  quia  aliqii  fuit  uerum  dicere  Czfar  cft»  Sifr*  hzc  non  cft  uera.Eclipfis  crir,nifi  quia  aliqh  erit  uerum  dicc  rcrcclipfis  eft. Quoniam  igitur  folum  uerbu  redum,»i»mo-  di  indicatiui  przlenns  temporis  facit  per se ipfum  propofitionem  ueram  & falfam,&  fola  propofitio  indicatiua pinis temporis facit syllogifmum dcmonftrariuum .i.fcicntialcm ut tibi declarabitur in rrac. De syllogifmo demonftratiuo,i® dignatur logicus recipere a grammatico solum verbum indicatiuum praesentis temporis, & przcipucfum, es, cft:quo  niaminipfum  ut dicemus  refoluuntur  omnia uerba dida  adiediua.Excremoru  uilitiuus  ut in  hoc diftinguatur  a nomine & pronomine fumpto  loco  nominis, nam illa  funt ucl  poffunt elTc extrema in propofirione,ideft  fiibiedum  & pdf  catum, verbum  autem  non, fed  habet  unire  extrema. Unde  dicitur  apud  logicum  copula, qm  copulat  przdicatum  cum  fubiedo. Item  in  hoc  diftinguitur  a participio,  q»  licec significet  cum  tempore  ut  uerbum  tn  non  poteft  effe  copula, nec  facit  g feipfum  oronem perfedam, dicendo  fortes  Ic  gens,  sed  cft  necefle  fubintelligerc  uerbum»  Verbi  gratia   foftcs  eft  legens, ucl  fortes  leges  eft  ftudiofus. Conftac  igiC quid fic  uerbum  apud  logicum, & quare  folum  uerbum  i e-  dum. i. quod  no  deriuai  ab  aliquo  priori:  quale est uerbum  lotum  indicatriui  modi  tgis  prxfcntis,vnocrctur  dici  abfolu-te  uerbum.  Reliqua  aut  tga; &  modi  dicantur  obliqui  fiue  cafus  uerbi  refti, quoniam  defcendunr,  & deriuatur  ab  eo. Quotuplex  auc  fit verbum  apud  logicfi,non  cft  immora  dum  ex  quo  folum  ucrbu  rciftum  moeref  apud  ipfum  dici nierbum  ex  rone  ia  di&a.Sed  apud  gramaticu  ideo  eft  mul  tiplex  uerbum, ut patet  in  coniugationibus  uerborum,  & I  regulis  fiiis, quoniam non attendit  ad formadum propone  veram  aut  falsam sed congruam, et uitare incongruam et quoniam  per  oes tgis  drias, &  oes  modos  uerborum  for  mari  por,& alio  modo  g uerbum  aftiuum,aIio  modo  g paf  fiuum  &c.ideo  apudgramaticum  uerbum  mulcipfr  diuidic.  Nam  gramaticus  concedit  iftaurpocecongruazho  eafinus  f|  negat  logicus, ut  falfam. Hxc  de.2.cap  dida  fmt, Quid  fit  & quotuplex  fic  oro  apud  logicu.  IN  tertio  cap. poftqua  a&um  eft  de  partibus  oronis  age»  dum  eft  de  ipfa  orone  ut  de  toto  conftitutot cuius praecognitio ideo nccciraria eft quoniam feire non possumus qd fit enunciatio  & propo, ut tibi manifeftabitur infra,  nifi pus notum fuerit quid, & quotuplex fit oro.  Hic igitur tria age da funt, primo quid fit, secundo quotuplex fit ^ tertio  qua’  orationis species  fit  propofitio. Quantum  ad  primum  aducrtcip  ad  mentem  Ariftotelis  oratio  in voce  & in  feripto, fic  definiri  debet, Oratio  cft  ter_  minus  per  fe  fignificatiuus  complexus  ad  placitum  , cuius  partes  feparatx  aliquid  fignificant.   ' Primo  dicitur  eft  ter  g le significa  rone,  qua  didum  eft  de  nole  & uerbo  & ponitur  loco  generis,  quoniam  eoior  e.  Nam  ols  oro  cft  terminus  per  fe  fignificatiuus : fed  non  ccd  uerfo  . Difhim  eft  enim  cp  nomen  & uerbum  funt  termini per,fe  fignificatini,non  tamen  funt  oratio. Secundo  dicitur  complexas  ad  differentiam hominis  &  uerbi, quo*  nullum  fiuc  fimplcx,fiuc  copoficil , e termiiim complexus. Quid  autem  fit  terminus  complexus  nide  indi  uifione  decima {terminorum  , & illic  inucnics  quomodo  proprie  conuenic  orationi»   Tertio  dicitur  ad  placirum, ad  differentiam  ofonis  men  talis,qux  fignificat  conceptum  mentalem  complexum, qui  conceptus  lignificat  naturalr,  ficut  diximus  de  nomine  ^ &  uerbo  mentali. Praeterea, oro  in  uoce,&  in  feripto  fignificet  ad  placitum, probatur  fic.Partcs  fux.f.  nomen, & uer  bum  fignificat  ad  placitum, ut  docuimus  in  cap.prxccdentJ  ergo  & ipfum  totum  confoturum  ex  eis, quod  cft  oratio.   Quarto  di  cuius  partes  feparatx  aliquid  fignificat, id  po-  nitur ad  differentiam  nominis  & uerbi, quorum partes, uc docuimus in eorum definitionibus, non fignificat aliquid fc  parate, modo quo illic expofuimus, partes aute ofonis  fune  termini caregorematici, intclligendo de partibus principalibus ficut intendit Arift. Si  non  de  partibus  fccundariis, quae  polfiint  eife propones  aduerbia  &c.  Termini  autem  catcgo  rematici  tam  in  oronc , q extra  retinent  fuum  lignatum,  ut  docuimus  in  diuifione  tertia  terminorum.  Vn  fi  fiat  hxc  oro, homo  albus  currit , ho  extra  hanc  oronem  fignat  aial  ronale, ficut  & in  oronc, & albus  fignificat  habens  albedine. Tu tamen aduerte cp licet fit commune omni orationi haberepartes qux separatx aliquid significant,  non tamen id  fit  uno modo  i omni  oronc, nam  fi  oro  fit  fine  uerbo, ut  ho  nio  albus, partes  fux  aliquid fignificant  modo,  quo  fignificat diftio. Si  afit  fiat  oro  fimplex  per uerbum, uc homo  cft  animal, partes fux separatx eodem modo significant. fut  didio. Si  aurem  fiat  oro subiuctiva,  ut si veneris  ad  me  dabo tibi equum, partes lux funt dux ofones ut patet. Unde si separentur, fignificabunt non ut diftio, sed ut ofo. Vcrura quia refoluitur m duas orationes, & dux orationes in terminos  componentes, ur ego dabo, tibi equum, ideo commune est omni orationi quod partes fux separatx aliquid significent, aut ut dictio, aut ut oratio. Sed dices. Quare in hac definitione non apponitur finitus et rectus, sicut in definitione nominis et verbi, prxeipue a quia dictum  eft q nomen  infinitum  nori  poteft  efle  fubiecti! nec  praedicatum,  nec  uerbuni  infinitum  poteft  cflc  copula,  fimiliccr  nec  nomen  obliquum  nec  uerbuni  obliquum.   Reipondetur  q*  ideo  non  opponitur,  quia  in  definitione  non  debent  poni  nili  quae  conucniunt  omni  contento  fub  definito, non omnis autem oratio formatur ex nominee et verbo finito, & redo. Nam haec eft  oratio, non  homo  currit  & haec, Catonis  est  legere, &  haec, homo  currct. Qn aut diximus q> nomen  infinitum et obliquum  non  poflimt  ee  subicdum, no  fumus  locuti  de  orone  sed  de  propositione, qm  sola oratio  indicatiua  praetentis  teporis  ut  dicemus  eft  propofitio.  Qm  igitur  aliqua  orario  poteft  coponi  ex  nomine  iufinito, &  obliquo, fitr  ex  uerbo, & aliqua  non, puta  propo  firio,idco  non  dicitur  redus  neque  finitus , fed abftrahit ab  utroque.  Conftat  igitur  quid  fit orario apud  logicum,   Quantum  ad  fecundum  aduerte, q* apud  logicum  oratio  prima  diuifione  diuiditur  in  orationem  perfedam  & imper  fe&ani, deinde  utruncp  diuifionis  membrum fubdiuiditur,  nidebis  infra. Oratio  perfeda  eft  illa  quae  perfedum  fenfum  gencraf  in  animo  audietis , ideft  qu*  audita  quietat,quo  ad  fignifi-  catum  intentum  a proferente  uel  feribente,  animum  auditoris, Verbi  gratia. Sortes  intendit  notificarc  Platoni  ftatfl  regis, & dicit. Rex  ualet  fortis  in  bello  contra  hoftes, Hac  ratione  audita  quiefeir  animus  audientis.  Quod  fi  dicar.  Rex  contra  inimicos, & non  ultra  procedat , imperfedum  fenfum  generat  in  animo  audientis, ideft  non  quierat  ipfum  ideo  dicitur  oratio  imperfeda.  Nam  audiens  rex  contra  inimicos, ultra  non  proceditur, dubitare  incipit  uti£  prae  ualeat,an  fuccumbat  contra  inimicos  fuos,  patet  igitur  ora  tionis  prima  diuifio  apud  logicum.   Oratio  perfefta  continet  quinque  (pecies,quae  funt  indi*  catiua  temporis  praetentis, & omnium  temporum  modi  in  dicatiui,ut  “Petrus  amat”, amabat  amauit, amaucrat, amabit  imperatiua , ut  fac  ignem  deprecatiua , ut  ora  deum  pro  me.optatiua, ut  utinam  te  uideam  doftum. coniunftiua. ut  fi  ucncris  ad  mc,  honorabo  te. Omnes ifte dicuntur pcrfic auditae quierant animum audientis quo ad  earum  significatum, nec  ipfum  fufpenfum  tenent.   Tu  tamen  aduertc,q?  imperantia, & dcprccatiua  non  dit  fefunt penes  modum  nec tps  uerbi, sed  penes  appofitos  re-  fpeftus.Nam utracp  fit  per  modu imperatiuum,  fed deprecatiua  fir proprie  ad fuperiorcm, imperatiua  aOt  ad  inferio  rem. Item aduerte q* coniunftitia ad hoc q» fit oro perfecta oportet, ur coplcfiatur duas orones, aliter no quierat animfi audientis, ut parer,  reliquae uero spes per unicam ofonem quictant audientem, ideo  per  feipfasfunt  perfe&x.   Oratio  autem  imperfeda  tres  cotiner  fpecies  fecunduqs  tribus  modis  poteft  formari.  Nam  formatur  per  nome  fub  ftatiuum  cum  adie<fiiuo, ut  homo  albus  animal  rifibile.  uel  per  duo  fobftantiua  per  appoficione,  ut  animal  homo, deus  pater, Deus  filius. Et  hacc  eft  prima  species & formatur  per  foliim  infiniriun,  ut  fortem  currere. Si autem apponatur fum,  es, eft, cum termino modali  cricpcrfectarut  forte  currere eft  posfibile.i  t haec eft  fecunda fpecies*,  & formatur per verbum  Jcipir, &  definit, ut fortes incipit,  fortes definit. Siautem apponatur ifinfriuum efficitur perfecta,  ut fortes incipit conualefcere, fortes definit  fcriberc, & hoc  est  ter  tia species.  Item aduerte <y oratio perfecta  poteft  fieri  per  unicum  nomen, tielunicum  ucfbum,&  maxime  quando  fic  refponfiua  inrcrrogariuc  Vt  fi  qtiis  a te  petat. Quis  uenit  do  rnum?&  refpondeas, Pctus,Vel  fic, nunquid  fortes  uenit?&  rcfpondeas:  uenit.  Confiat  igitur  quo  diuidenda  fit  oratio  apud  logicum.   Quantum  ad  tertium  aduerte  q* sola  orario  indicatiua  eft  pmo  & per  (e  propofitio. Dico  pmo  & per  (e  qm  alie  (pe  cies  non  fiunt  propofitio, nifi  reducantur  ad  indicatiuam.  Vnde ifta, fi  homo  uolaret, haberet  alas, non  eft  propofirio,  nifi  reducatur  in  iftam,fi  homo  uolat  habet  alas.  Et  indicari  u • prxreriti  aut  futuri  temporis, non  eft  propolitio  nifi  re-  ducatur ad  indicatiuam  praefenris  temporis.Nam  ifta, Ad a  fuit, ideo  eft^iera,quia  Aquando  fuit uerum  dicere. Adam  eft  fciliccc quando Adam cxiftcbar. Ratio autem propter quam apud logicum sola oratio indicatiua eft primo & per se propositio, eft, quia intentum logici eft uti oratione ad investigandum verum etfalsum, ergo cam proprie recipit, quae secundum  fe  significat verum et falsum, &hxc est indicativa.  Nam alis potius deferuiunt affectui mentis qua quod sint ordinatae ad enunciandum verum et falsum conceptum animi aut intellectus. Quod pacet hinc. Imperativa indicat voluntatem superioris per imperium,  optativa indicat desiderium sive affectum optantis. Praedicatiuc indicat affectum inferioris erga fuperiorem per supplicationcm.  Coninndiua autem licet uideatur exprimere uerum aut falsum conceptum mentis, non tamen determinate, fed fufpc fuic, eft enim conditionalis quae ut  dicemus  in  cap.de  hypotheticis nihil  ponit  in  ede.  Indicativa autem dcterm.nate  di  cic verum  aut falsum. Nam hxc eft determinate vera, homo est animal, &haec determinate falsa homo est lapis, ideo. sola'm ceretur  dici japofitio. Proponicur enim imelledui  ut  per  eam  formet syllogifmum, &  per syllogifmum  deueniat in  ucram conclufionis  nociciam. Conflat igitur quae orationis perfeda species mcerctur logice dicipropofitio. Unde aduerte, q? logicus non tantum magni facit oronem  con»  gruam  &ornaram, quantum veram, ita  etiam  fi eflfct  incongruam  & inornata, modo uerii & falfum cnuncict, accepta eft  apud  logicum,,ppterea  logicus  acceptat  iftam,  deus  feruitur ab hole licet  cam reprober  grammaticus  negans  feruior  inueniri  pasfiuum.Hxc  de  prxfcnti  cap.dida  fine. OlnUli/  Si  logico  fufficiunt  dux  orationis  partes scilicet nomen  re» verbnm  redum.  Caput  quartum.   IN  cap. quarto  inueftigadum  eft fi dux  orationis  partes  fciliccc  nomen  & uerbum  redum  fufficiunt  logico. Tu  igitur  aduerte , quod  logicus  rationabiliter  reripjt  tan-  tum duas, ut  fibi  neccflarias,grammaricus, autem  odo*  Ratio  uero  djfferenrix  eft  hxc. Logicus et grammaticus  dififerunt  fine.  Intendit  enim  logicus  fcire, difcerocrc  ucrum a falfo, grammaticus  autem  intendit  fcire  difccrncre  congruum sermonem  ab  incongruo. Ad  confequendum  pri-  mum fufficiunt  nomen  & uerbum  , quoniam  fufticiuncad  componendum  .ppofirfone, quae eft  significans  verum uel  falfum,ut  tibi  manifeftabiturin  trac.  lequeti  ad  formandi!  congruum sermonem, & diftinguendum  ab  incongruo  no  (iiHiciunt  nomen  & uerbum, (ed  oportet  uti  praepoficiqnibus, &  aduerbiis  & coniunftionibns,S(c.  Et  ideo  ut  gram-  maticus habeat  omnem  modum  formandi  fermonem  con  gruum, nccc(Tarix  funt  fibi  plures  partes  orariois,  quam  nomen  rectum et verbum  rectum. Et qm ifte dux fibi sufficiunt, ideo appellat eas categorcmaricas, id est per se significatiavs, alias autem syncategorcmaticas, id est simul significativas. Quis autem fit terminus categoricus et syncategoricus diximus  in  divisone  tertia  terminorum.   Sed  dices. Logicus  indiget pronomine demonftratiuo, ut  quando  dcfcendic sub  (ubic&o  propofitionis uniuerfalisaf*  firmatiue  uel  negatiue  dicendo, omnis  homo  cft  animal,  cf   50  & hic  homo  est  animal, & hic  eft  animal  &c.  Item  in-  iget participio, ut  dicemus  in  trac.fequenti, quando  rcfol-  uit propofitioncm  fa&am  de  uerbo  adicdiuo  in  fuum  parti  cipiurn  & Ium  es  eft, ut  fortes  currit, fortes  eft  currens, ergo  faltem  quatuor  partes  orationis  funt  ei  ncccftariae.f.nomcn  & pronomcn,uerbum,&  participium.   Refponderur  nomen  & pronome  apud  logicum  funt, uC  una  pars, qm utitur  pronomine loco nominis, & participii!  ftar cum nominee et uerbo. Cum  nomine  quide, qm  poteft  efte  fubiedum propofitionis  ficut  & nomen, ut  legens  cur-  rit,& ftat  cum  uerbo, qm  fignificat cG tepore, ut docuirmrt  fupra,&  ideo  apud  logicum  identificanrur  nomini  & uerbo licet apud grammaticum remaneant diftinfte.  Conflat igitur  cp  fint  partes orationis  necclfariae  dialc&i  co ad  formanda  propofitioncm et ex propofitionibus  syllogifmum. Hoc dc prxfcnti  cap.dida  fint. Explicit  rradatus secundus copcndii logices peripateticat ordinatus per authorem et fuit de partibus propofitionis. Incipit QVT eft de propofitione et speciebm cius. Nhoc tertio tracta, agendum est de propofitione, gratia cuius praemifimus tradatum praecederem, in quo a&uin est de partibus eius, et de genere per quod definienda eft, et hoc eft oro ut tibi manifcftabitur. Diuidemus autem ipfumin fex capita. Primo agendum eft de propofitione definitiue & diuifiuc prima diuifione. Secundo agendum est de categorica simplici et de olbus eius diuifionibus. Tertio agendum eft de, pp6ne hypothetica & eius spebus. Quarto agendum eft de propone categorica modali. Quinto agendum eft de aequipollentiis propofitionum categoricarum fimplicjuni, qux funt oppofitx contrarix,  fubcontrariae, conrradiftoriae, &fubaltcrnx. Sefto  agendum  eft  de  aequipollentiis  modalium  oppofitaif. De  ppone, quid  fit  & cius  prima  diuifione.  In primo  capitulo  agendum eft  de propofitione  quid  fit  & quotuplex in genere sive prima diuifione. QuStum ad definitionem  aduerte,  <y sic  definitur de me te Ariftotelis. Propofitio  eft  oratio  uerum  uel  falfum  fignifi  cans  indicando. Primo dicitur  oratio, loco generis, eft  enim  in  plus  oratio quam propofitio:  di&um eft enim  in tract.  praecedenri,  oratio perfcfta  diftinguitur  in  quinque  (pccics, ex  quibus sola indicatiui modi eft propofitio, ergo omnis propofitio eft oratio perfecta, sed non econuerso, ex consequenti est genus propositionis, propofitio autem est species orationis jjcrfe&c. Sicut animal est genus hominis, homo autem est species animalis. Nam omnis homo est animal, sed non econuerfo. Secundo dicitur verum vel falsum fignificans,  pro cuius notitia aducrte, cp cum proponum alia iit affirmatiua, alia negatiua, ut declarabimus infra. Significare ucr u in affirmatiua est significarc  rem  sicut  est.  Verbi  Gratia  haec  cft  ucra,  homo  eft  ronaiis,quia  fic  eft  ex  parte  rei.  Vnde  hoicm  e(fe  fonalem cft  ucrum Significare uerumin negatiua eft fignificare rem ficut non  eft.  Verbi  Gratia  haec eft  ucra,  homo non  cft  afinus,quia  fic  eft  in  re. Vnde hominem non esse assimum est verum. Significare falfum in propone atfirmatiua  eft  figni.  6carc  rem  aliter  q fic.V.G.hzc  est falsa, homo est lapis, qih significat hominem esse lapidem, & tamen aliter eft.  Significare falsum in propone negatiua, eft  non  fignificarc  rem  sicut  cft.V.G.hatc  eft  fal(a,homo  non  cft  animal,  quia  non  figni  fjcac  ficut  eft.Nam  homo  eft  animal, ergo  fallinn  eft  ipluin  non  efte  animal. Dicitur  ergo in diffone,  uerum  uel  falfum.  fignificans  ad  differentiam  oronum  imperfeCtarum, ut  ho-  mo albus, afinus  rudibilis, & oratio infinitiua,ut  fortem  cur  rcrc,&  oratio  famularis, ut  Sortes  incipir, nifi. n.aliudadda  tur,non  folum  non  quierant  animum  audientis, fed  nec  di-  cut  aliquid  devero  aur  falfo  nifi  copleantur  per  aliud.  V.G*  Si  ly  homo  albus  addatur  homo  eft  albus.Si  ly  fortem  cur  rerc  addatur , eft uerum  uel  posfibile  uel  contingens.  Si  ly  fortes  incipit  addatur, e(Te  bonus. Conftat  ergo  g fc  funi   ptz  nihil  dicunt  de  uero  aut  fallo.   T ertio  dicitur  indicando  quod  dupliciter  exponitur, pri-  mo fic, indicando, id  eft  cft  oratio  modi  indicatiui  ucru  uel  faUbm  fignificans. Vnde alii definiunt propofitionem dicen te$,quod propofitio cft oratio indicatiua uerum uel falfum fignificans. Et id ponitur ad differentiam orationum  perfe-  rarum quae  fiunt  per  alios  modos, per  itnpcratiuu,  optati-  «um, &c.Nam  ifte  ut  docuimus  in  trac  przcedcnti  in  capi trrtio  potius  dclcniiunt  nobis  ad  manifcftandum  affectum  mentis, quam  uerum  aut  falfum  coceptum  intellectus  Orationes  etiam  modi  indicatiui  temporis  prztcriti  & futuri  %  non  fignificat  primo  & per se verum etfalsum, nifi reducantur ad unam temporis przfentis indicatiui ut in eode loco docuimus. Sola ergo oro indicatiua temporis praelcntis moe-retur dici propo, quia fola lufficit ad formidum syllogitmu  aliae  autem  non, iuli reducantur ad illam:  ut  tibi  mamfcftii  erit  in  trac. de  slyllogifmo  formali:  iccudo  ab  aliquibus  ex-ponitur ly  indicando.i.aflercndo.V erum  id  non  vf  convenire omni  propofitioniilcd  tantum  propolicioni in materis naturali, quae  neceflario  cft  uera, &  in  materia  remota,  quae  de  necessitate  est  falsa.  In  materia  autem  contingenti  cum  posfit  elle  ucra  & falia,  non  pot  dici  afiertiue fea opinatiuc quod  fignificct  uerum  aut  falfum,  ideo  melius  eft  ftarc  in  p  ma  expone, quae  etiam  eft  de  mente  Aristotele in.i.perihcr.  Quid  aut  fit  & quo fiat  propo  in  materia  naturali  $(  contingente  & remota  dicemus  infra  in  hoc  met.tradtatu.  Con^  itat  igitur  quid  fit  propofitio  apud  logicum.   Quantum  ad  primam  diuilioncm  proponis  aduerteqj  ad  metem  Ariftotelis  in  primo  periher. diuiditur  primo  in  categorica & hypothctica, dicilcategorica  gratee  pr^dica»  tiua  latine, categorizo  enim  graccc  & praedico  latine.  Df  hypothetica  graece, suppositiva  latine, est  enim  graECe  hyp. fub  latine, & thefis  graecc, positio  latine. Ratio  autem  divifionis  est  haec, quia  omnis  propofitio significat verum  aut  falsum,  & eft quid  compofitum &  omne  compofitum  cft  refolubi  Ic  in  lua  immediate  componentia.  V el  ergo  propofitio  com  ponitur  ex  terminis  immediate, & in  cos  relolujtur  imme-  diate^  non  in  aliud  immediate. Et  fic  eft  categorica  , quae  coponitur  immediate  ex  fubiefto  & praedicato  & copula  ,  modo, quo  dicemus  infra.V el coponit  I mediate  ex  duabus  oronibus  per  aliq  coiudione  puta  ergo, fi, & uel, 3t  imedia-  te  in  eas  rcfoluit, &  ille  imediate  i terminos,  & fic  eft  hypo  thctica, ut  dicemus  in  ca.tertio  huius  tradatus.  Catcgorica  pero  diuiditur  in  fimplicem  & modalem. Simplex eft in qua praedicatum fimpfir dicitur dc fubiedo, ut homo  eft  ani  mal. Modalis eft in qua  pdicatum  dr  de  fubiecto  non  fimpflr  fed  cum  modo  & determinatione, ut  homo  eft  aial  ncccfla  rio, homo  cft  albus  contingenter.  Et  de  modali  agemus  in  cap.quarto  huius  trac.Hsc  deprimo  cap.difta  fint. Dcpropofitionc  carcgorica  & omnibus  cius  diuifiombus.  IN  secundo  cap.inueftigandum  eft,  quid  fir  propofitio  ea  tegorica  & quot  fint  cius  diuifioncs,&  de  fingulis  agen..  du  eft  excepta  modali,de  qua  agemus  loco  luo, primo igitur  definiemus  eam, deiiide  accedemus  ad  diuifioncs.   Quantum  ad  definitionem  aduerte  , q* ad  mentem  Aristoteles sic  definitur  Propofitio  categorica  eft  propofitio  j qux  habet  fubiedum  praedicatum  & copulam taquam principia es partes fui. Ponitur propofitio loco generis. Omnis enim popofitio categorica, est propofitio, led non econ- uerfo. Nam  & hypothetica  eft  propofitio, & tame  non  eft  categorica.Dicitur  quae  habet  fubiedum  &c. hoc  totum  po  nitur  ad  differentiam  hypotheticae,  cuius  partes  principales  funt  dux  orationes , in  quas  immediate  refoluiturtut  patet  in  jfta.  Si  tu  curris, tu  tnoucris, principales  partes  & imme-  oiarxnon sunt termini, sed  iftx  dux  orationes:  tu  curris,  &  tu  moueris.prim autem  & niediatx  funt  termini  ex  quibus hxc  orario  componitur , tu  curris , & hxc  tu  moueris*  Dicitur  igitur  q*  principales  partes  categoricx  non  funr  ora  tiones,(cd  termini, ex  quibus  immediate  componitur,  quo  - rum  unum  eft  fubiedum, alterum  prxdicatum, alterum  co  pulatut  homo  eft  animal, homo  eft  fubiedum, animal  praedicatum, eft  copula, coniungit  enim  prxdicatum  cum  fub»  iedo. Sed  aduerre:ut  fcias  quomodo  in  omni  categorica  eft  fubiedum  copula  & prxdicatum, quod  fit  tribus  modis, p„  mo  per  uerbum  fum,  es,  eft,  de  tertio  adiacente .Eft  autem  categorica  de  tertio  adjacente  quando  poft  fum,  apponitur  alius  terminus: ut  fortes  eft  animal. In  hac  conftat  de  fubie-  do  & prxdicato  & copula, fecundo  fit  per  uerbum  adiedi-  uum  . Eft  autem  apud  logicum  omne  uerbum  adiediuum,  prxter  lum, es, eft, in  quod  relbluitur  omne  uerbum  adie-  diuum  & in litum participiumtut fortes currit fic  reloluit. Sortes eft currcns. Socrates est subiedum, currens  praedicatu  est  copula, tertio  fit per verbum fum, es, eft, de fecundo  adiacente.Eft  autem  categorica  de  fecundo  adjacente, qn  poftum, es, eft, alius  ccrminus  no  fcquit,ut  deus  eft,  coelu  eft  &  in  hac  eft  allignarc  tubum  praedicatu  & copula, alio  mo  q in  praedicis, afljgnat  auceduplV ,pmofic, deus  eft.i. deus  cft  habes  cire, deus  cft  fubum, habes  etTe  cft  pdicatu, eft  copula, fc  cudo  fic  Deus  cftd.deus  cft  exiftes. Dens  cft  fubieiftum  exi-  ftens  pdicacum,eft  copula. Nonulli  dicunt  tp  in  caregorica  de  fccudo  adiaccntc,eft  gerit  uicem  copulat  & prxdicaci,  &  id  uidetur  innuere  Ariftoccles in pmo perihcr.ubi definient uerbum inquit &cft iemper eorum qux de altero praedica  tur  nota, ideft  uerbum semper  (e  tenet  a gte  prxdicati. Con  fta:  igitur  quid  fit  propofitio  categorica  iimplex. Sed  dices quare magis  dicitur  categorica,  ideft  prxdicatiua  quam  fubicdiua, cum  tam  fubiettumq  praedicatu  fmc  partes  cns. Prxtcrca  quare  terminus  praecedens  uerbu  fum  cs,eft, dicitur  fubie&um,fubfcqucns  autem  dicitur  prxdica  tum, &  ipfum  uerbum  fubftanciuum  dicitur  copula»  Refpondetur  ad  pmum, cp  oe  copofitum  denominandu  eft  a parte  fua  digniori,  V ndc  homo  dicitur  rationalis  & intellectualis ab anima intellectuali, qux  dignior cft in eo  qui sensitiva  et vegetatiua. Prxditatu aute dignius eft fubicfto qm cftficut forma, fubiectu vero  sicut  materia, & dicemus  intra  cp talia  funt  fubiefta, qualia, permittutur  a praedicatis. Cogrucigicdicn categorica.i.prxdicatiua &no fubieftina Ad  lecundu  dfp  ideo  terminus  praecedens  uerbum  df  fu  bic<ftum,quia  de  eo  df  prxdicacum  ira  cp  fubiicitur  prxdica  to, V ndc  & gramarfeus  appellat  ipm  fuppofitu. Terminus  uero  fubfeques  uerbu  df  prxdicacum, quia  prxdicatur  & df  de  altero. i.dc  fubie&o. Vnde  apud  gramaticum  df  appofi tum. Et  aduerte  q?  totale  subieftum  est  ois  terminus  prxee  dens  copulam, fiue  unus  fiue  plures  fint.V «G.homo  eft  ani-  mal,homo  eft  fubm,homo  magnus  & honoratus  e pneeps  in  ciuitarc, fubieftu  funt  oes  illi  termini  prxcedetes,  pars  au  tem  liibicCti  quilibet  eorii. Ide  intcllige  ex  parte  prxdicati. Sed dices.Quarc  fubieftu  & pdicatum  per  fe  inuice  notifi  eant  fiuc  definiunt, cu  definitio  circularis  uideatur.  inutilis*   * Refpondetur  quia  hntrefpedum  ad  inuice, fubiedtum. rtfpicit  praedicatu  & praedicatum  rcfpicit  (ubic£tum,ficut  ft  lius  rcCpicic  patrem, & pater  filium.Refpediua  aute  conue-  nienter  per  fe  inuicem  norificantur  & definiuntur, qm  mutuam habent  dcpcndentiam. Sed de  hoc  alrius  loqucmur  in  trac. de  praedicabilibus,  p  nunc  fuftine  tu  iuuenis  ne  inuolua  ris. Conftat  igitur  tibi  quid  (it  propofirio  catcgorica. Quantum  ad  cius  diuifiones  aduertc,ut  habeas  plenam  de  cis  notitiam, fic difponendae  funt. Prima diuifio. Propofitionum  categoricarum, alia affirmativa, alia negatiav. Secunda. Alia uera, alia falfa. Tertia. Alia  cuius  quantitatis, alia  nullius.   Quarta.  Alicuius  quantitatis  alia  uniuersalis, alia  particularis, alia indefinita alia singularis. QuIta.Alix  gticipacvrrocp  rermio,  aliae  altero,aliae  nullo.   Sexta. Participantium  urroqj  termino, aliae  participant  qtroqj  termino  eodem  ordine, aliae  ordine  conucrfo.  Septima. Participantium  utrocp  termino siue  eode ordine (iuc couerfo  quxda  formantur in  materia  naturali,  quaedam in materia  contingenti, quaedam  in  materia  remota.  Odaua. Participanrium  utroqj  termino  eodem  ordine  tam  in  materia  naturali  q in materia contingenti & in materia remota quaedam sunt contrariae quaedam subcotrariae, quaedam contradiftorix, quxdam fubalternx.  Nona. Participantiu utrocg termino ordine couerfo &I n triplici materia (iuc naturali fiue contingenti fiuc remota quxdam conuertuntur conuerfione fimplici, quxdam converfione per accidens quxda couerfioneg contrapositione Omnes iftx diuifiones dantur de, ppofitione catcgorica fimplici qux dicitur de inefle.i.in qua prxdicatu simplicicci4 & fine determinatione facta g alique fex modo^.( ucrfi falsum nccefTariil cotingens, posfibile imposfibile, dicit de subiefto Quae aut ex his diuifionibus coueniat et categoricati modali dicemus in cap. quarto  huius  trac.  De singulis aut divisionibus agedu  c(t in fpe &ordine, quo prxpofitx  funt. Verum antedcfcedamus in (pe^nl aliqua prxdi&artMi diuiltonu datur  de substantia, pponis, aliqua de qualitate, aliqua dc qtitatc ut cibi declarabit infra, ideo ad viem notitia diuifionu, quae fiet toto hoc noftro opere, ne funus coadi idem faepius repetere, praeponendi fune omnes vfes  modi,  quibus folct  fieri  diuifio.  Tu igitur  aduerte  <y  indodrina  Ariftotelis  diuifio  fit  quatuor  modis  generalibus. Primo  generis  in  Ipccics.   Secundo  totius  in  partes. Tertio vocis significata. Quarto diuisio secundum accidens. Diuifio  gnis  in  fpes, fit  duobu  modis  pmo  gnis^n  (pes  (ut>  alternas, ut  qndiuiditeorpus  p alata  & inaiatu, &aiatu  per  fenfitiuu  St  no  (cnfitiuu, fecundo  gnis  in  (pes  fpalisfimas, uc  qii  diuiditur  color  per  albedinem  & nigrcdinem. Et  hac  di-  uifionem  cognofces  in  trac.de  praedicabilibus.   Diuifio  totius  in  gtes  fkqncp  modis, pmo  qntotu  diuidif  in  ptes  fubicdiuas  indiuiduales,ut  qn  diuidit  ho  in  forte Pia*  Ioanne. Pecru,&c.Scdo  qn  totu  diu.ditur  in  partes  eflcntia  lcs, uc  ens  naturale  copofitu  diuidif  in  materia  & forma,  fi-  cut  diuidit  ho  in  alam  & corpus, tertio qn diuiditur  totu  co  tinuu in partes fuas  intcgralcs,uc  domus  in  fundametu,tc»  dii, &  pariete, & corpus  animalis  in  partes, qufe  funt  mebra  fua,cx  qbus  integrat  corpus, quarto  qn  diuiditur  totu  dito  tinuu  in  partes  fiias, inter  quas  & fi  no  fit  cotinuitaseft  rame  ordo  & .pportio.Hoc  rao diuidif  exercitus  in  mtlitcs,cqtcs  peditcs, 8(c.quinto qn diuidif totu poretialc fiue poteftariufi  in  partes  fuas  poreftatiuas  qn  diuiditur  anima  per  potentias  fuas  & virtutes  fuas, ut  tibi  manifeftabitur  i libro  dc  anima,  & ifra  mani fcftabi mus  tibi  in  libro  de  fyllogifino  Thopico*  Diuifio  uo cis  in  fua  fignificata  fit  tribus  modis  primo  uo  cis  uniuoce  in  fignificata  uniuoce,ut  qn  diuidif  ho  in  fortem  & platone  &c, secundo  uocis  aequiuoce  in  fignificata  &qui-  uocata,ut  qn  diuiditur  cancer  in  ftclla  fiue  fignum  ccelefte,  & aquaticum  aial,&  morbum, tertio  uocis  analogicae  in significata  analogata,ut  qti  diuiditur  fanu,iu  alal  (anu , urina  lana, medicinam  fanam, cibum  fanum,aercm  fanum, excr-   D (HI    V-.  ritii5Tanu, &c. Et  hancdiuifionecognofccsin  trac.de  pntis.; Diuifio  fccudu  accidens  fic  tribus  modis , primo  fubiefti  in  accidentia, ut  holum  alius  paruus, alitis  magnus1  alius  albus,alius  niger,  alius  medio  colore  coloratus, (c3o  acciden  tis!in  fubie£ta,ut  accidentifi,qux  funt  m hoie, aliud  in  aia,ut  (eia, aliud  in  corpore,  ut  agilitas  &c.tertio  accidentis  in  acci  dentia, ut  accidcntiu,quarda  dura, quaedam  liquida , qnada  lucida, quaedam  tenebrofa , & hxc  diuifio  manife ftabit  tibi  in  philoiophia  naturali  & praecipue  in  libro  de  generatione*  Ifti  igitur  funt  iqodi  uniuerfales  famofiores  apud  Arido  tilem, quibus  fieri  confutuit  diuifio»   Quantum  ad  pmam  diuifionem,quac  eft  per  affirmatiua  & negatiuam  aduerre,q*  affirmatiua  dupfr  definitur  , pmo  fic,Categorica  affirmatiua  eft  .ppofirio  in  qua  praedicatum  affirmatur  de  fubiefto, ut homo eft albus.  Sed  aduerte  cj» tuc  praedicatu  affirmatur  de  fubie&c  quando  negatio  no  p  cedit  copula, q?  fi  praecedit  negatio, negatur  pdicatum  de  lu  biefto,&  efficitur  negariua,ut  hic  Sortes  non  eft  albus. Si  au  tem  fiibfequitur  no  efficitur  negatiua, fed  permanet  affirma  tiua , ut  homo  eft  no  albus.  Ire  aduerte  «p  alio  modo  affirma! pdicatum  de  fubiecto  in  affirmatiua  uera  & in  falfa,  na  in  uera  affirmatur  re  & uoce  quia  fic  eft  in  re,ficut  dr , ut homo re &uoce eft rifibilis. In falfa atite affirmatur uoce  tm  & non  rc. Nam licet dicam q» homo est afinus tarhenonfic eft in re, secundo definitur fic.  Affirmatiua eft in qua verbum pncipale affirmatur de fubiedo, ut homo est aial.  Dr in qua nerbum principale affirmatur ad differentiam uerbi secundarii qtiod fi  negattiruel  affirmatur, propter  ipfum  non  fit  propofitio  affirmatiua  nec  negatiua.  Vnde  ifta  non  eft  nega  tiua. Socrates  qui  non  currit  , mouetur,nec  ifta  eft  affirmatiua*  Sortes  qui  currit , non  monetur.  Nam  In  prima  licet  uer-  bum  fecundarium, quod  eft, currit, negetur,  tamen  princi-  pale quod  eft  mouetur, affirmatur, ideo  permanet  affirmatiua. In  IccQda  autem  fit  oppofito  modo,  ideo  permanet  negatiava. Et  ratio  huius  eft, quia  ticrbii  fecundarium fe  tenet  a  parte  fubicfti, q3 paret  refoluedo  in  fuu  participiu  fiuc  afti-  uum  fiue  pasfiuu,ut  hic. Sortes  qui  non  currit,ideft. Socrates  a9   non  carrcns  mouccur, (ortes  qui  currit, id eft (ortes curreni  non mouerur: Subie&um  autem  coniunctum  participio  at-  firmatiuo  negatiuo  no  facit  propofitionem  dic  affirmatius  ucl  ncgariuam, tcd  negatio  cadens  fuper  uerbum  principale  fiue  immediate, ut  quando  lubfequitur  fubiedum,ut  hotno  non  eft  afinus,fiue  mediate, ut  non  homo  cft  animal , dum  modo  fumatur  negatio  negans, & no  infinitam  terminum,  cui opponitur, nam  fi  infinitarer, non  faceret  negatiuam.  Vnde  lixc  non  clt  negatiua»  Non  homo  currit, qm ly non homo clt nomen infinitum, &c. Vnde non homo curru,  xquippollet  ifti, afinus  qui  ft  no homo currit. Coftat aut hanc elfe  affirmatiua Patet igitur quid  fit  categorica  aftirmatiua. Categorica  negatiua  dupliciter  definitur. Primo  lic, categorica  negatiua  eft  propofitio  in  qua  praedicatum  negatur  de  luolubicfto,auc  ho  non  eft  lapis. Secundo  fic,eft  pro-  pofirio  in  qua  uerbum principale  negatur  . Dicitur  uerbum  principale  ad  differentiam  uerbi  fccundarii,  quod  ut  docuimus fiue  affirmetur  fiuc  negetur, non  facit  propofirionem  affir.aut  nega. Et aduertc,quod  propofitio  poreft  fieri  afflr.  uel  nega. dupliciter  lcilicet explicitc  & implicite. Si  explicite, fit  per  nomen et uerbum indicariui  modi, ut  hotno  eft  ri  fibilis.  Si  implicite  poteft  fieri  per  unicum  terminu,ut  quan  do  dicimus, homo  cft  rifibilis ,&  econucrlo, ly  econuerlo  aequippollet  uni  propofitioni,qux  elf  hxc,&  rifibile  eft  homo.Item  aduerte  quod  diuifio  per  afflrmatiuam et negativam  non  foium  conuenit  categoricae sed  etiam  hyporheti  cac  & moduli, quomodo autem  fiat hypothetica  affirmative et  ne  gar. similirer  modal  s, dicemus  agentes  de  eis.  Nunc  autem  fuftine, ne confundaris ut nouus auditor. Hxc de prima diuifioncdi&afint»   Quantum  ad  fecundam diiiifionetn categorica:  fciliccc  perneram  & fallam , aduerte quod  cartgorica ucra , tam affirmatiua quam negatiua dupliciter definitur. Primo fic, uera eft, qua: significat  uerum , id eft significar rem sicut  eft,  si est affirmatiua, vel significat rem sicut non est, si est negatiua. Sed de hac  latis  diximus  in  ca. pr scedenti  in  dedaran-     «lo  definitionem  propofkionis secundo autem  fir defiintur. Vera  cft illa, cuius fignificatum primarium est verum. Significatum autem primarium cft illud quod exprimitur p oro nem infinitiuam. Verbi gratia hxc eft ucra Deus eft bonus qm deum clfc bonum, est verum. Sic.n. eft in re. Dico cuius primarium significatum est uerum ad differentiam secunda  rii.  sccundarium autem eft quod continetur in primario 8c fcquitur ad illud. Verbi gracia primarium huius, homo est rationalis, eft eftc rationalem ad hoc autem fcquitur  cfte  ani  mal, clfe  animatum, ede  corpus  efie  fubie&am.  luxta  igitur significatum  primarium & fccundarium  indicanda  eft  pro-  pofirio  uera,qm  cft  ucra  primo  & per  fe  ex  eo, ex  fccunda-  rio  autem  eft  tantum  confequenrcr. Nam  bene  fcquitur  qcf  fi  fortes  eft  homo,for.cft  animal. fcd  non  ceonuerfb, ut  de-  clarabimus in  trac. dc  confequentiis. Similiter falsa dupliciter definitur. Primo sic, falfi eft qux  aliter significat quam fit in  re, ut  hxc  cft  falsa, homo  est  ansinus, quia significat  hominem esseasinum, &  tamen aliter eft  rn  re, quia  in  re  no  est  asinus, sed  homo  siue  rationalis, & de  hac  definitione  iam  di  ximus  in  cap. prxccdentiin  definitione  propofitionis. Sccun  do  fic, falsa  cft  illa  cuius  primarum significatum est falsum. Verbi  gratia  hxc  est  falsa  homo  est  afinus, quia  holem  esse asinum  est falsum, cu  fic  ronalis,&  afinus  irratroalis. Quodfi fiereciudicium fecundu fccundarium fignificatum, quod  eft  dfe  animal, effet  uera-Nam  hxc  cft, ucra homo est animal  v non  tamen  fcquitur, ergo cft afinns, ut  declarabitur  tibi  in  trac. De consequentiis Hxc de fecunda diuifioncdiftafint, Quantum ad tertiam diuifionem fcilicet quod aliqua eft  alicuius qiiamicari$, aIiquanulliu$.Alicuius quantitatis eft illa, cuius fubieftum ftat pro aliquo ucl pro aliquibus uel pro omnibus uel pro nullo, ut declarabitur in diuifione sequenti. Nullius quantitatis cft illa cuius fubicftum fufpcnditur a propria denoiationc, ronc, pbationis termini prxcedetis ip  Ium quails eft exclufiua  cxceciua reduplicatiua, de  quaif  ,p-  Satiqne  a<fturi  fumus  in  trac.de  probationibus  ter  tuc.n.ap  arebit  tibi  qflo  ifte  probatur  no  rone  fubicfti,uc  , pbaf  universalis  particularis  &c.fcd  ronc  figni  fiuc  fyncategdfcma*  ris,ut  exclufiua  g tm,reduplicatiua  g inqtum cxccpriua  p p ter, &c. T uigr fuftine donec exercitat0 magis fueris, & ad ji di&u  erae*  dcuencrim9. H*c  de  tertia  diui., p niic dida  fint. Quantum  ad quarta diui.f.q*  proponum  alicuius  qtitatis  alia  eft  vPis, alja  particula  .alia indefi.alia  fmg duo ageda fut  primo  declarandum  eft  qflo  hxc  diuifio  eft  (ufficiens,  fecun  do  pertradadum eft de quolibet eius  membro. Quantum  ad  pmum  aduerte  q»  qtitas proponis  atteditur*  penes  fubm  prout  ftat,p  pluribus  aut  uno  lolo.Pot  igituf cofiderari fubin  dupTr. Primo fi ftat  pro uno folo. Secundo fi  pro  pluribus  fi  pro  uno  (olo, {ira  cp  uni  (oli  couenit  facie  ponem  fingu.fi  pro  pluribus, hoc  dupfV,quia  uel  pro  pluri-  pus  indeterminate  uel  determinate, fi  indeterminate  fic  fam  cit  ,pp6nem  indefi.fi  determinare  duplr  quia  hacc  determi*  natio  fubti  uel  fit  per  fignum  vle  affirmatiuu  uel negatiuu,  ut  ois  nullus,  & fic  eft  propo  ul’is,uel  fit  per  fignum  parti*  pulare  affir-uel  nega  & fic  eft  propo  particularis*  Coftat  igit  hxc  diuifio  eft  liifficiens.Et  fi  quxras  quid  fic  qtiras  , pp6*  nis.Hkiideo q*  ficut  Qtiras  fubx  proprie  accipit  iuxta  mensuram  longitudinis, &  latitudinis  & , pfundicaris, fic  quantitas , pp6nis  (umit  iuxta  menfuram fubiedii, prout  uerificatur  p«  dicatiue  de  uno  uel  plunbus. Conftat  igitur quo hxc diuifio eft sufficiens, & quid  fit  & unde  fumitur  qtitas  propofitiois. Quartum ad secundum  aduerte, q* propofitio  uniucrfalis dupliciter definiriH-. Primo fic, propositio viis tam affirmativa quam negativa est  illa, in  qua  fubiicitur  ter. communis  figno  uniucrfali  determinatus. Prinio  dicitur  in  qua  fubiicitur  ter*c6is.i*ponitur  in  fubie  fto  ter.cois.i.q  por  coucnire  & pdicari de  pluribus, & apud  gramaticum  dr  nomen  appellatiuum,ut  homo, capra, leo»  Secundo  dicitur  figno  uniucrfali  dctertninatus figna uni uer Talia (untquxdam affirmatiuaut omnis quilibet quifcp’, negatiua (unt, nullus, nihil,  neuter , dicunt uniucrfalia quia faciunt  ftarc  fubicdum  pro olbus  aut pro  fnullo  ut  ifta  rft  uniucrfalis  affir.omnis.homo  eft  animal. Vcrificatur  enim    fubiedum  pro quolibet  homine  in  fingulari.  Nam  fi  omni homo est ammal ergo  & ifte, &  iftc, &  ifte , & fic de omnibus alii eft  animal. Tertio  dicitur  determinatus. i. modificatus fiue limitatus ad standum non ablolure ,lcd  pro  omnibus aut (p  nullo-diximus.n  in  tertia  diuifionc  tci minor  u, quod signa ufia fune termini lyncatcgorcmatici, qm  fumpticum  alio, id  eft  cum  nomine lubftantiuo  determinant  ipliim  in  propofitione  ad  dandum  pro  omnibus aut  \ ro  nullo»  Sed  aduerte,  quod signum uniucrfale  ad  hoc  quod  faciat propofitionem  uniucrialem  fimplicirer  & proprie  debet  ap  poni  fubiedo  in redo & explicite  Nam  fi  apponitur  iiibic-  do  in  obliquo, non  facit  eam  uniuerfalem  (impliciter, sed secundum  quid.Vndc  ifta eu uflibet hominis afinus, currit,  noneft uniucrlalis abfolute, quoniam signum  non  apponitur ly afinus, quodest principale lubiedum, lcd  ly hominis,  quod  quoniam  est  obliquus  eft  secundarium fiue parrialc‘fu  bicdum.  V ndc  pratdida propofitio  abfolute  eft  indefinita,  ut  tibi  dcclarabitur.Dicitur  explicire, quoniam  fi  ponitur  i-  plicire  uel  uirtualiter  ucl  cum  diftindione,non  facit  propositionem uniuerfalem  forma)itcr, sed  tantum  interpraetati-  ue»Sicut  funr  iftar,  totus  fortes est minor forte, totum  est in mundo  est  in  oculo  meo. Non  homo  currir, &c.   Quomodo  autem  fint  uniuerfales interpracatiuc  declarabitur tibi  i trac. de probationibus terminorum, ubi diftinguemus de toto, & quo ifta  aequipoleat uniuerfali nega citi ac non homo currit declarabitur tibi in  cap. de acqujpolenriis catcgoricarum. Nuncautem fifio nete inuoluam. Similiter aduerte, <y uniuerfalis affirniatiua poteft  fieri  duplici  ter,  fex—  licet  collcdiue ut  omnes apostoli sunt  duodecim,  & diftributiue, ut  omnis  homo  eft  rissibilis.  Et  iterum  diftributiue  poteft  fieri dupliciter, fcilicct abfolute et accommode. Verum quomodo  fiant  & quo verificentur,dcdarabitur{tibi  in  rrac.de  fuppofirionibus, pro  nunc  fuftinc  Haec de  propofitione uniueriali  dida  fint. Propofitio  particularis  eft  illa,  in qua fubiicitur  ter  mi- communis signo particulari determinatus. Dicitur in qua tubiicitur ter communis, ea ratione qua  &  in propofitionc uniuerfali.  De signo parti. determinatus, ad differentiam proponis uniuerfaliszcft autem signum particulare determinatio  termini cois  qui  cft  fubicdum  in hac  propone,  per  quod  defignatur  fubiednm  accipi  non  pro  oibus  fub eo  corcntis, fed  pro  aliquibus  ucl  pro  aliquo: ut  quidam  homo  currit  ergo  uel  ifte  uel  ille, ucl  ille  currit:  & fufficit  quod  uerificctur  ,p  aliquo  pofito  quod  tantum  unus  currat.   Er  aduerte, quod  propofirio particularis  poteft fieri  mul Cis  modis. Primo  quando  fubie&um  eft  ter.  cois  cum  ligno  particulari  tam  affirmatiue  quam  negatiue : ut  quidam  ho-  mo currrir, quidam  homo  non  currit.  Secundo  per  ly  aliqd  fumptum  adie<ftiuc:ur  aliquid  eft  I manu  tua.  Haec  eft  parti-  cularis uirtualiter, quoniam  ly  aliquid  fic  exponitur  aliqua  res  eft  I manu  tua.  Dico fumptum adjeftiue quoniam sumptum subftantiue facit propofitionem  indefinitam  ut  dicemus. Tertio  quando fubiicitur  ter. cois  cum  figno  uniuerfa  li, fcd  figno  pratponitur  ncgario:ut  no  omnis  homo  currit  haec  enim  aequipollet  huic: quidani  homo non currit. Quarto  quando fubiicitur  termi.cois  cum  figno  uniuerfali  affir-  mariuo,fcd  praeponitur  negatio  & poft  ponitur:ur  hic, non  omnis  homo  non  currit, arquipollet enim huic, quidam homo cnrrir. Sed  tertium  & quartum modum declarabimus  fic  effein  cap. de aequipollentiis categoricarum. Haec de propositione particulari  diffa  finr.  Propofirio indefinita eft illa in qua fubiicitur terminus communis, nullo signo uniuerfali uel particulari determina rus: uc homo currit.   primo dicitur in qua fubiicitur termi. communis eadem ratione, qua diifhim est in definition propofirionis universalis  et particularis.   Secundo dicitur nullo signo ad differentiam propofirio* nis nniuerfalis & particularis. Tertio  dicitur  nullo  figno  uniuerfali uel  particulari  ad differentiam  cxdufiue,in  qua  ponitur signum:  cantum,  & in reduplicatiua, inquantum, qua:  ligna  quoniam  non tunc  uniuersalia, ncc particularia, ideo non  faciunt  propofitione  alicuius  quantitates. Sed  dices, quare  dr  indefinita, cum  aequipollcat  particula  ri* Na ide fenlus eft dicere, aliqs homo currit, & ho currit. Rndetur, dr indefinita.i. indctcrminata, quia  acceptio fu? fubicdi  non  determinatur  ad  certam  quantitatem  fecundu  modum  enuntiandi  per fignum  uniuerfalc  ucl  particulare: licet  fupponat  fubicdum  determinatciut  dicemus  in  traft*  de  fupptofitionibus: &  quando  dicitur  idem  fenlus  eft  di-  cere: quidam  homo  currit  & homo  currit, conceditur quo ad  luppoticioncm  & uerificacioncm, fcd  non  coceditur  quo  ad  modum  enunciandi,&  fic  intendimus  ipfam  effeindefini  tam  & non  quo  ad  ucrificationem  &i  luppoficionem.Scd,p  nunc  liiftinc, donec  trademus  de  fuppofitionibus. Haec  de  propofitione  indefinita  difta  fine propofirio singularis eft illa in qua fubiicitur terminus ai  fcrccus vel  termi. communis cum pronomine demonftrati 110 primiriuc speciei, ut  Plato  currit. Iftc  homo  comedit.  U   le  homo dormit. Primo dicitur in qua fubiicitur  ter  . dilcretus, ad  differens  Ciani  propoficionis  uniuerlalis  & particula*  & indefinitae,  in  quibus  fubiicitur  ter.  cois  opponitur  aute  ter*  dilcretus  ter.  .coi , quoniam  di  fererus  deunofolo  eft  aptus  pr*dicarioC  grammaticus  appellat  nomen  proprium  q?  uni  loli  conue-r  nit,ut  piato. Cois  autem  eft  aptus  de  pluribus  praedicari, ut  homo  & animal, & grammaticus uocatipfum nomen appellatiuum, quod pluribus conuenit. Secundo vel termi communis  cum  pronomine  demon  ftratiuo. Nam  licet  termi. communis  de  feftet  pro  pluribus camenper pronomen demonstratiuum reftringitur ad ftan dum pro uno  folo  indiuiduo,  ideo  atquipollet  ter.  difcretcL  Vnde  iftapropofitio: hic  homo  currit , dcmonftrato  (orte;   scquipollct  ifti. Socrates currit. Tertio  dicitur  pri mitius  fpecic,  ad  differentiam  pronominum deriuatiux  fpccici. Sunc  aucem  pronomina  dcmoi)  ftratiua  primitiux  fpeciei  ergo, tu, liii, ille, ipfe,ifte,hic, & is.  Deriuatiux  autem  lunc  meus, cuus, luus,noftcr,. uciltr,  no»  ftras,ucftras. ldeo  autem  e a,  quae  iiint  primatiux  (peciei  co  flituunt  propofitioncm  Cingulare  qm  trahunt  lubictf  uni  ad  fajpponcndum pro  uno solo, ut  ifte  homo  dcmoftrato forte currit, & ego. f Petrus  curro, & tu. i Piato curris. Ea  uero  qua  funt  deriuatiux  lpei,ut  meus,tuus,non  confticuunr  ,p-  pofuioncm  Cingularem, non  n.rcftringunt  fubm,  cui  apponutur  ad statum uno  io lo, fed  pot  ucrifkari  de  pluribus.  Verbi  gratia Petrus het dece  afinos, &  dicit  meus  aiinuscur  rit, ly  alinus  no stat  pro  ifto  tm, ucl  pro  illo  tm  fcd  # oibus difiuftiux. Nam  fi  meus  afuius  currit, & habeo  decem, ergo  uclifte, ueljfte  qui  cft  meus  currit.  Pronomina  auc  demon  ftratiua  primitiux  fpei  reftringur  tcr.coem  ad  ftadu  , p  uno solo  demonftrato, ut  ego.f.Petrus  lcribo,Tuuero.l. Plato dormis. Conftat  igitur  quid  fit  propositio sngularis.   Tu tame  aducrte,quod  no  Loluni  pot  fieri  per  ter.  dilcre  tum,  & per  tcr.coem cum pronomine demonftratiuo primi tiux  Ipeciei,  fcd  & per  tcr.r clariuum , ut  pofito  quod  lo  phronifcus  habet  tantu  unum  filium,  cuius  nomen  ignore  tur, ftdico  Sophronifci  filius  ftudet  Papix,  cft  fingularis,p-  pofitio  fimiliter  fi  dico. Pater Calix uenir,e  lingularis,  quo uiam ifti ter.relatiui xquipollcnt termini dilcretis.Irem  potcft  fieri  per  rer dilcrctum  circunlocutum,ut  fi  dico.  Vir  cri  Ipus  rubeus, & claudus  cantat  in  platea. Iftc  enim  circunfta  tix  mani  feliant  talem  hominem  & non  alium,  ideo  reddut  propofitioncm  fingularcm.patet  igitur  quid  fit  propofitio  lingularis  & quot  modis  fieri  contingit»   Item  aducrte, quod  fi  quis  te  intrrogat  de substantia  fitie  natura  propofitionis,dicendo. Qux  propofitio  eftifta.  Sor  C<s  eft  homo,refpondcre  habes, catcgorica, &  qux  eft  ifta. Si  tu  curris, tu  moveris, refpoderc  habes  hypothetica. Si  au  ecm quis te interrogat  dc  qualitate,  propofitionis  dicendo. Qualis  eft  ifta  fortes  currit  refpondere  habet  affirmatiua,&  Qualis  eft  ifta, homo  non  cft  afinus, relpondendum  est,  negatiua. Si  ucro  quis  te  interrogat  de  quantitate  proponis  di  Ccndo. Quanra  cft  ifta; ois  homo  currit, refpondendum  eft,  uniuerfalis, &  fic  de  aliis. Vnde  logici  pro  hoc  triplici  quaefi-  to  formaucrunr  hunc  ucrfum.Quac.ca.uel  ip. qualis. ne.  uel  af.v.quanta.par.in  fin  i.  Quae categorica,  uel  hyporetica. Qualis, negatiua, uel  affirmatiua. V «quanta. i.uniucrfalis  uel  particularis  indefinita  uel  fingularis. Sed  dices. Quae est subftantia propofitionis, & quae  cius  quantitas, & quz  eius  qualitas. Refpodetur  fuba  cft  cius  natura sive  edentia,  puta  qft  fit  quid coinpofitum  ex  talibus  partibus. f.  cx  fubiedo  praedi-  cato & copula  ut  catcgorica:ucl  ex  duabus  oronibus  p ali-  quam coniundionem  coniundis:ut  fi  tu  curris,  tu  moueris  ut  hypothcrica. QuStitaseius est  extenfio  fubicdi ad ftandu  pro  uno  vel  aliquibus  uel  omnibus  uel  nullis.  Qualitas  eius est  secundum  quam  dicitur  qualismt  affirmatio, negatio, veritas, falfitas, necesfitas, contingentia, posfibilitas, imposfibilitas. Nam  omnia  ifta  qualificant propofitionem. Unde interroganti qualis  fit  ifta, homo  est  animal,  respondcre debemus, quod rft affirmatiua ucramon solum possibilis sed etia necessaria. Quarum ad quintam divisionem, quae eft hac, proponu categoricarum, quaedam participant utroqj termino, quaedam altero, quaedam  nullo, aduerte,  quod cum termini  componcnrcs categoricam  fint  fubiednm  & praedicatum: quae Ctjam dicuntur  extrema  propofitionis, parridparc termino uel terminis, eft conuenirc in subiedo  uel  in  praedicato,  uel  in  utroque.  Non  participare  autem  eft  non  conuenirc. His  prxnv.sfis aduerte, quod duas catcgoricas  participare  utro-  que termino, eft  eas  conuenire  in subicdo  & praedicato,  ita  subiednm  prima est subiedum secundae et praedicatum primae est praedicatum secundae, nec in alio differunt  nili quod una eft affirmatiua, altera negatiua,  ut sunt iftae duae,  homo eft animal, homo non eft  animal,  participare  in  alte  ro  termino  tantum  fcilicct  uel  folum  in  fubiedo, ut  hic:  homo cft  animal, homo eft  rationalis,  uel in praedicaroratum ut hic: homo eft animal, asinus est animal.  Participare nullo termino, est non  conuenirc  io subiecto nec in praedicato, ut hic, homo est rifibilis, afinus eft  rudibilis. Et aduerte quod hic loquimur de participatione formali virtuali, quod dico, quoniam licet iftae duae coueniant uir rualitcr: homo est animal, risibile est animah non tamen for malitcr, quoniam formaliter non lunt idem homo et risibile, dato  quod  eflent  idem  re, quod  tamen  non conceditur in via thomistica.   Iterum  aduerte, quod  haec  diuisio data  eft, ut  cognoscatur oppositio contraria, subcontraria, contradidoria, subalterna propositionu categoricarum de quibus aduri lumus infra. Namilla fupponit participationem, ppofitionum oppofitarum urroqj termino formaliter & non solum uirtualircr ut tibi declarabitur in diuifioneodaua.  Quantum ad diuifionem lextarn, quae cft q*, ppofition5' categoricarum participantium utrocg termino formaliter,  quaedam  participant  utroq?  termino  eodem  ordine, quaeda  ordine  conucrfo.  Aduerte  igitur  quod  duas  categoricas  par  ticipare  eodem  ordine  utrocp  termino, eft fic, quod est subiedum in prima est subiedum in secunda et quod est praedicatum in prima est praedicatum in secunda, ut hic. Socrates est homo. Socrates non  est homo,  et semper intelligedum est formaliter et non virtualiter  tantuin. Duas autem categoricas participare  utrocp termino ordine coucrfo,  est sic,  quod est subiedum in  prima  est  praedicatum  in fecunda, & quod est praedicatum in prima eft subiedum insecunda, ut hic,  homo est animal rationale, animal rationale eft homo. Et haec diufio deferuiet quando loquemur de couucrfionibus propofitionum categoricarum, ut tibi  manifeftabitur.   Quantum  ad  feptimam  diuifionem, quae  eft  haec. Propositionum participantiumvtrocg termino  fiue  eodem  ordine  fiue  conucrfo  quaedam  fiunt  in  materia  naturali,  quardam contingenti, quaedam  in  remota, aduerte, qnllat  fiunt  in  ma  reria  naturali  in  quibus^raedicatum  femper  & infcpai  abii:ter  conucnit  fubiedo, & id  fit  multis modis , primo  quando genus, aut  differentia, aut  definitio, aut, pprictas,  aut  quali,  eas  naturalis  praedicatur  de  re.  Exemplum  primi, homo est animal, fecundi,  homo  cft  rationalis.  Tertii, homo  eft  animal rationale, quarti  homo  cft  rifibilis  quinti  Ignis  cft  cali.  «Ius, mei  eft  dulce, nix  eft  alba,  Item  quando  idem  praedicatur de  lcipfo:ut  fortes  est fortes.  Ille  aut  fiunt  in  materia  contingentium  quibus praedicatum  poteft  aduenire  & remoucri  a subiecto, abfqj  hoc  <y  corruni.  patur  fubiedum ,&  gg  hoc  diftinguuntur  a ,ppofitionibus  i ,  materia  naturali, quoniam  in  illis  li  auferatur  pdicatum, no  pmanet  fubiedum. Nam fi homo cedat ede animal,  aut  rationalis, aut risibilis et fi ignis  cedat  ede  calidus  &c.  nec  ha-,  mo nec  ignis permanent, led  corrumpuntur et definunt  ce»  Tu  igitur  aduerte, c? omnis  jjpofifio, in  qua  pdicatum  eft  accidens commune  & fcparabile,&  etiam  infeparabile,  mo  do  non  fluat  a principiis fpccici, fit in materia  contingenti,  utiftae, homo eft albus, ethiops est niger, aqua est calida &c. Dico rnodo non fluat a principiis fpeciei: ut pferuem rerum. j>prietates: ut eft rifibilitas in homine, par et impar in numero, curvum et rectum in linea, fumum calorem in igne* lite nancg faciunt ppofirionem in materia naturali. Quid ne. ro fit fluere apneipiis specjci declarabitur tibi in trac. de praedicabilibus in cap. de proprio etaccidente. Illae vero fiunt in materia remota,  in quibus praedicatum non potest verificari de subiedo, Imo  id  inuicero repugnant. Iftae autem funt in  quibus fubicdum & praedicatum sunt opposita contraria vel contradidoria vel  prfuatiue  ucl  relative  opposita. Exemplum  primi. Album  est nigrum. Secundi homo est non homo. Tertii. Caecus  est  uidens. Quarti, pater  est  filius. Et  aducrte , q?  dicuntur  fieri  i|i  materia  remota,  scilicet  repugnanti, qm natur fubiedi&i pdjcatiin oibus p didis repugnant adinuioem, nec fc compatiuntur. Inde eft q1 omnis affirmatiua in materia remota ferng & de neccsfiUtate eft falfa, negaciua autem femg  & immutabiliter ucra. In materia uero naturali cft oppofifomodo. Nam affirmariua femg  est  vera, negatiua fepig falfcM  Jn nuter» cotingeti ?4 est medio m6, qm  tam affirma,  q nega,  aliqn  e vera aliqn falsa, nam qn praedicatum incft liibiedio, affirmatiua est uera, negatiua  falsa, qn  praedicatum  remouctur, affirmatiua eft falsa, ncgariua eft uera. Hoc de septima diuifione difta fint. Quantum ad  oAauam  diuifioncm, quae fuit haec,  Propofitionum carcgoricarum participatium utroqj termino eodem ordine triplici materia. Cnaturali contingenti et remota aduerte, q* inter eas sit quatruplex oppofitio. f. contraria subcontraria, contradicloria, subalterna. Oppositio contraria sit inter eas quarum una eft universalis affirmatiua & altera uninerfalis negatiua, de eifdcm fubieflis & prodicatis univoce &aeque ample & aeque strictca cceptis. Primodf quarum una est uniuerfalis &c. Nam ut diftinguantur a contradictoriis, debent efle eiufdem quantitatis & diuerfae qualitatis. Si eiufdem  quatitatis,  ergo  utraqj  eft  uni  ucrialis  uel  particularis , non secundum quia noneffient contrariae sed subcontrariae: ut dicetur infra ergo primum.  Si,  diversae qualitatis,  ergo i&fca eft affirmativa et altera negativa.  Secundo dr de ei (dem subiectis et praedicatis: uc ois homol albus, nullus homo est albus,  & dcfeftu huius iftaeduae non funt contrariae ois homo eft albus, nullum rifibilc eft albu^ Tu tn  aduerte  q* subiectum et praedicatum  pnt  effe  idem  tripliciter, pmo  fm vocem  tm  & non  fm  signatum, secundo  t m. signatum  tm  & non  fm vocem, tertio  fm vocem et secundumsignificatum. Exemplum primi  omnis canis  latrat: nullus canis latrat. Secundi. Omnis  homo  currit, nullum  ronale  currit. Tertii. Omnis  homo eft  alal  nullus homo eft  alaU  Prima identitas non  fufficit  adeontrarietatem,  ideo  dicitur  in  definitione, acceptis univoce, conftat  aut  q*  canis  eft  ter.  aequiuocus , fecunda aut fufficit  ad contrarietatem virtuale  leu  aequiualente, sed  no  ad  formalem, tertia vero sufficit ad contratietate  proprie diCta & formale, unde licet  iftx duae, omnis homo currit, nullu  rationale  currit, fint  cotrariae  uir  rualiter eo  q* secudum significatum homo et rationale fune idem  non  tamen forma\itct, qm  formalitcr non participat  E ii utroqj termino secundum uoccm et secundum significatu. Tertio dicitur aeque ample &aeque ftrufie acccptis. Dcfe* du huius apud multos iflae dux non sunt contrarix. Omnis homo est animal, nullus homo est animal, quoniam in prima poteft teneri tam pro mafculis quam pro fccminis,in secunda solum pro masculis.  Tu  tn aduerte,  q' secundum usum i utracp  accipi  confucuit  pro  mafculis ideo  acceptantur:ut  ue  rz  contrariZj Item  defedu  huius  iflae  dux  non  lunt  contra  riae. Omnis  homo  cft  albus, nullus  homo  fuit  albus,  quia  in  prima  reftringitur  adprxfentcs , in  fecunda  autem ampliatur ad przfentcs uel  prxreritos. Scd pronunc fuftinc, donec pertrademus de ampliationibus & appellationibus. Tu tn aduerte, q* prxdldx non sunt contrariae non solum ronc di da, sed quia copula non tenetur eodem modo in prima set secunda. Nam in prima eft ly eft, in  fecunda  cft  ly  fuit. Unde in  definitione  intelligendum eftq' contrarix  debent  c(Te  de  ctfdem  fubicdis  & prxdicatis  & copulis. Hzc  de  contrariis  dida  fint.   Oppofitio  contradidoria  eft  inter  eas, quarum  una  cft  viis  affirmatiua,  altera  particularis  negativa , ut  omnis  homo est animal, quidam  homo  non  eft  animal, uei  altera  cft  vfis negatiua, & altera particularis affirmatiua, ut nullus homo currit, quida homo currit, dccifdcm fubicdis  &pdicatis & copulis, uniuocc  & zque  ample, & xque  ftride acceptis. Omnia  debent  intclligi  ficut  expofitum  eft  dc  contrariis.   Ut  autem  habeas  maiorem  noticiamdccontradidione  aduerte  ex  dodrina  Ariftotclis, quatuor condidioncs requirit, & defedu cuiullibct carum enitatur contradidoria oppofitio. Prima eft q» fit affirmatio eiufdem de eodem & negatio,  dummodo  fumatur  idem  secundum  rem et vocem, ut Socrates currit. Socrates non currit. Defedu cuius ifta apud logicu non sunt contradidoria formaliter sed virtualiter sive equipollenter tantum ex parte rei. Cicero currit. Marcus no currit, pofito enim q» fint sinonima ex parte significati quia ide homo  didus  cft  Marcus  et Cicero, tame  diftinguuntur  uocc  icas  isb   ffffi   futc: ctu   OOP*   uiJ'   ipl>   lo«  Taa   jnci  u$   yra (Tei.   t&   il* ra^ jsi» iC30  is.   io»  srt-   t&   itio,   Sa ?   t<p , cof jii UOC  *f  sive termino, qm  duo  fune  termini,  Marcus  et Cicero, ideo  non  funt contradictoria  formaliterfcd  xquipolleter.  Aequipollenter  quidem, qm idem  indiuiduum  intclligitur  pcrMar  cum  & Ciceronem, formaliter  autem  non, qm  logicus  obseruat  oppofitionem de virtute sermonis, philosophus aute  qui  est  artifex  rcalis, dc  uirtute  rei  & fignificati.  Vnde  apud  phyficum  ifta  contradicunt. Materia prima est ens in poten tia. Primum  fubic Ctum  non  eft  ens  in  potentia.  Pro  eodem  enim  accipit  materiam  primam  & primum  fubiectum.   Secunda  eft  q»  duae  propofitioncs  contradictoriae  refe-  rantur ad  idem  ut  fecundum  idem  , & propter  huius  defe-  flum, illae no contradicunt, Ethiops estalb us detes.  Ethiops  non  eft  albus  pedes, non enim sit praedicatio secundum eandem partem»   Tertia est. Quod  teneatur  fimilirer, ideo  ifte dux non  contradicunt, nullum  animal  est  genus, animal est genus.  Nam  In negatiua stat  animal  pro suppofitis , in affirmatiua ftat  p  natura  communi.  Sed  id  non intelliges  donec  in  traCta.  suppositionum  exercitatus fueris, ideo fuftine. Quarta eft q* referantur ad idem tempus. Et defeCtu  huius, iftx dux non contradicunt, fortes uenit hodie, fortes no ucnit heri. Et aduerte q* omnes iftx conditiones  exprimuntur  in diffinitione contradictionis, quae extrahitur ex doctrina Ariftotelisprxcipuc in quarto metaphyficae, & eft hxc. Contradictio eft affirmatio et negatio, id eft propofitio affirmatiua & negatiua  eiufdem  prxdicari  de  eodem  subieCto,  ad  idem secundum idem, fimiliter  & pro eodem tempore Hxc de contradiCtoriis diCta fint. Oppofitio subcontraria eft inter eas, quarum una eft particularis affirmatiua vel indefinita, altera autem est particularis negatiua vel indefinita de eisdem prsrdicatis et subiectis  & copulis  uniuocc  acceptis, & eodem modo supponentibus.   Primo  dicitur  propofitio  affirmatiua negatiua particularesaut indefinitx, ut  excludamus  duas singulars. Nam  Illxfunt contradictorix  secundum rem et significatum licec. Eiii TRACTATVS tertivs non in figura, quoniam in figura  uc  declarabitur tibi infra. oportet unam c(Tc uniuerfalem affirmativam vel negativan alteram autc particularem affirmativam uel negativam ut patebit in figuris quas in ira deferibemus. Quare autem duae singulares non sunt subcontrariae ratio est haec, quia due subcontrariz poliunt ede fimul verae, ut quidam homo currit, quidam homo non currit. Due autem singulares non poliunt ede simul uerae nec fimul falfz, sed una vera et altera falsa in omni materia, uc fi hzc est vera fortes non eft afinus, hzc neccesario est falsa Socrates est ansinus. Ergo sunt contradictori. Secundo dr de cildcm subieftis  &c. inrclligendum est eodem modo sicut diftum eft in oppofitionc  contraria. Tertio dicitur univoc e tentis, defectu  cuiu»  iftz no fune subcontrariz. Quoddam sanum est  animal. Quoddam  fa-  num non est animal.  Quarto dicitur eodem modo supponentibus, dcfeftu cuius iftz, non sunt subcontrariz homo est speties, homo non est species, nam in prima homo supponit pro natura communi, in secunda pro natura partita in suppositis.  Sic quide dicimus pro nunc. In  trac.autem  fuppolitionum  manifefta  bimus  quomodo  ifta  non  eft  indefinita  homo  eft  fpecies, sed singularis, & ideo  manifeftius  tibi  erit, <y no sunt subcontra riz, non solum quia non supponit homo in prima et secunda eodem modo, fed quoniam sunt singulares quas ncccdc est ut diximus c(Tc oppofitas contradictori secundum  rem  et s significatum. Oppositio subalrerna est inter eas, quarum una est vflis affirmariua et altera particularis aut indefinita aut singularis affirmatiua. Vel una est viis negatiua et altera  est  parti  «auc  inde. aut  fingularis negativa  de  cifdem  fubie&is  & przdicatis  8c  copulis  &c.ut  diftum  eft  in  aliis  oppofirionibus.   Hic  Htofunt  declaranda, primo  quare  dicuntur  (iibalrer-  ne,fecudo  quare  du*  singulares aftirmativa et negatiua  fune  liibalternz  & non  fubcontrariz. Ad  prim Utn  dicituny  ideo  uniuer  falis  affir.& particula-  ris affirma tiua  dicuntur  fubalternz-quia  una  fub  altera  ponimr.i4particu.rub  uniucrfali.Vndc  uniucrfalis  fe  habet,  ut  an$  particu ut  pns. Nam  bene  fcquitur.Omnis  homo  eft  ani  mal  ergo  quidam  homo  eft  animal, & homo  eft  animal, 8t  ifte  homo  cft  animal, ut  tibi  manifeftum  erit  in  fuppofitioni  bus. Non  autem  fcquicur  cconuerfo, quia  ab  inferiori  diftributiuc  ad  fuperius  affir.non valet  consequentia, non  enim  iequitur, aliquis  homo est stultus ergo omnis homo esst tultus.  Et  aduerte  ficut  dicuntur  rubaltcrnae  per  rcfpedum suppositionibus, quem habet particulares ad universales, fic dici pollent fuperaltcrnx, pcr relpe&um super pofitionis,  que habet uniuerfales ad particulares. Scd primis placuit fic denominare ab*infcrioribus, quorum eft subiici et supponi superioribus. Ad secundum dicitor q? ideo dux fingu.affir. &ncg.fune  fubalternx  qm  ficut  ualet  confequentia  abuniuerfali  affir, uclnega. ad particu. &  inde  affir. &  nega. fic valet  adfingu.  Affir .&  nega. Nam  fi  hxc  consequentia valet  ols  homo  currit, ergo  aliquis  homo, &  homo  currit, fic  ualet, ergo  ifte  &  ifte  currit, quoniam, ut  declarabitur  tibi  in  trac. fuppofitio-  num, signum univerfale affirmatiuum 8 (negatiuu diftribuit terminum immediate fcquentem & licet  dcfccndere  ad  fua singularia  diuifiuc. Sed  pro  nunc  fuftine  ne  confundaris, do  nec  habebis  de  luppofitionibus  notitiam. Et  ideo funt fubal ternx  ficut  particu.&  indcfi.Non  autem sunt subcontrari ratione  iam  difta,  quoniam subcontraries contingitellc simul veras, dux autem singularis negativa et affirmatiua, in omni materia ita fe habent y fi una eft vera altera est falli, & non poliunt efie fimul uerxnccTimul falfx, & ideo, ut dt ximus non fiint fubcontrarix cd contradiflorix.  Conftae  Igitur  tibi  quo  propofitiones categoricx  participantes  utro  que  termino  & eodem  ordine, conftituunt  quatuor  geifepa  oppofitionum.Et  quoniam  possunt  formari in materia  natu  rali  & remota  & cotingenti,idco  figurabimus  tibi  tres  figu  ras. Prima  erit  de  oppoficis  in  materia  naturali, secunda  de  oppofitisin  marcria  remota, tertia  de  oppoficis in materia  contingenti, ut  patet  infra. LOGICAE compendium. Peripatetica ordinatum per Reuerendum Maglftrum Chiifoftornum Iauellutn .anapicium ordimsprxdica, nunc tandem 8C d'U“°P“Pro' ditin lucem» A Continet aute undecim tractatus uidelicet* Primus eft de prarcognofcendis. Secundusde patribuspropofitionis. Terrius de propofirione. Quartus de quinque uniuerfalibus. Quintus de praedicamentis. Sextus dc fyllogifrnis formalibus. Seprimus de fuppofirionibus. c OcAta^unuKs ampliationibus& V’-> V V^lArii* « ' * Jj; ii .I' d appdlationibusJ IN/onus dc conicquentiis. Dccirnus dc probationibus terminorum. Vndeamusdefyllogifinodacmonfitrraarniuo,.in quo quo continetur Ariftorelis dodrina in lib.pofter. QjiaE Gmma recenti hac noftra editione uiligentifsime, expolita fiint, atque elaborata*Grice: “For all their subtleties I lizii, or peripatetic logicians never cared about formulation. Consider Javelli: the dog barks, anger is represented, ‘canis latrat raepresentatur ira, gemitus infirums raepresentatur dolor. No care is taken to represent the proper signification. It is still the ‘anima’ if the vegetative one, it is still the dog’s spirit. If the dog barks, he means that he is angry. If the infirm moans he means he is in pain, and so on.” Grice: “Javelli is one of the most careful Italian philosophers. He had a fascination for two little tracts by Aristotle towards which I also felt an attraction: De Interpretatione and Categories. His comments on De Interpretatione are brilliant in that he reduces all to ‘re-presentare’. The infirmus who groans or moans represents ‘dolor’. The dog that barks represents ‘anger’. These are ‘signs’ of the natural kind – and rather than dark clouds meaning rain he is into ‘phone’ – vox – here it is vox signifying that p or q naturaliter. (my example of groaning of pain). From there he jumps to the institutional meaning, ad placitum, ex decreto et authoritate – e consuetudine, -- a system which superseds the previous one. Giovanni Crisostomo Javelli. Iavelli. Giavelli. Javelli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Javelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753886743/in/dateposted-public/

 

Grice e Jerocades – filosofia della massoneria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo. Grice: “I would consider Jerocades more of a poet than a philosopher, but then he was a priest and a Mason!” Essential Italian philosopher. Scrisse il saggio “Dell'umano sapere”, di stampo illuministico, che verrà successivamente pubblicato a Napoli, e “La partenza delle Muse”, edito na Messina.  Si trasferì a Napoli. Dietro raccomandazione di Genovesi, col quale era entrato in corrispondenza, venne assunto al "Collegio Tuziano" di Sora come maestro d' “ideologia”. Frequenta gli ambienti massonici. Secondo il clero sorano, tuttavia, quelle opere non si attagliavano ai giovani del collegio, tant'è che prima della rappresentazione di “Il ritorno di Ulisse” -- che conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di stampo anticlericale, in particolare il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise un editto di censura: ne seguì un processo per eresia e sedizione, con la reclusione di Jerocades nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore. Fu in Calabria: qui si dedicò alla composizione delle raccolte Quaresimale poetico e La lira focense, testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a Napoli. Fonda la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali esponenti del giacobinismo e dell'antigiurisdizionalismo partenopeo (ovvero che miravano a costituire una repubblica), cosa che determinò la sua incarcerazione a Castel dell'Ovo e il processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà, avendo deciso di ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una siffatta scelta, sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono nuovamente il carcere, e quindi l'esilio a Marsiglia.  Ritornato a Napoli razie all'amnistia prevista dalla pace di Firenze compose l'elogio di suo padre e di suo fratello, motivo che indusse a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini di Tropea. Saggi: “Esercizii spirituali in compendio ossia il filosofo in solitudine” Napoli); “Il Paolo, o sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso Giuseppe Maria Porcelli, Inni di Orfeo esposti in versi volgari, Napoli, La gigantomachia, ovvero La disfatta de' giganti, Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto e Sofronia, dedic. Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio, Napoli, Orazione recitata ne' funerali solenni di Marcello Accorinti morto in Messina nel terremoto. Napoli, Fedro, “Esopo alla moda, ovvero delle favole di Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli: Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte in versi volgari” (Napoli); “Le odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari” (Napoli: Russo); Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B. Croce, La rivoluzione napoletana Biografie, storie, racconti, Laterza, Bari  L. Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, Sora, A. Piromalli, Illuminismo massonico, La letteratura calabrese,  I, Pellegrino editore, Cosenza, B. Croce, D. Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e reazione, in A. Cestaro A. Lerra, Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il Decennio francese, Atti del Convegno, Maratea, I, Venosa, B. Croce, La rivoluzione napoletana, Biografie, Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano sapere, D. Scafoglio, Vibo Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese,A. Jerocades, La lira focenseː un abate poeta in loggia, A. Piromalli e G. Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  1. T) Indaro , figliuolo di Diifanto,e di Mirto, J» nacque in Tebe , città capitale della Beozia. Mono il padre , eh’ era sonator di tibie , la ma- dre , eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino , e , quindi , dopo la morte di lui , sposò Pagonida , ambi professori di musica. Di qui è,ché al no- stro Poeta si danno tre padri , de' quali due nel vero sono patrigni . Or questa sua sorte fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e morì tra le Muse, le quali a quel t&mpo erano e ric- che, e nobili ,ed onorate. I suoi primi studj fu- rono la musica, e la poesia, che apprese da Laso Ermìoneo, e che peifezionò sotto Simonide , ed Eschilo i quali' fiorivano in quella età. Indi , , dato l'animo allo studio delle scienze, seguì la , tutta la sua v»ta al modello della pietà . Tra gii altri numi venerava spezialmente Pane, Rea, e Febo e siccome la sua casetta era vicina al tempio ; , propagata per la Beozia , e non la scuola Italica J mica ; onde fu scolare di Pittagora , e non di Talete. La sua dottrina dunque divenne sacra, e tnis ica in modo , che pieno di queste idee, formò di Rea , egli era o uno de' sacerdoti , o almeno il compagno e il partecipe de' sacri misteri. , a. La sua dotta e saggia pietà fu P ornaménto, e'1 retaggio della sua industre e faticosa famiglia. Imperciocché , ricevuti da Timossena , sua consor- te , un maschio , chiamato Diofanto', e due fem- mine, per nome Protomache , e Polimeri trasfu- , se col sangue la sua virtù per modo ne’ figli che gli mandava il giorno e la notte al tempio dej padre, e della madre de’ numi. La sua casetr A9 me • #- , § Digitized by Google   a medesima era un tempietto dtvoto, in cui con vi- cenda soave si passava dai coro alla mensa , e dalla cetra atta tazza , cioè dal travaglio al riposo, e dal - ripeso al travaglio. Non senza ragione gli Spartani prima, e qnndi i Macedoni, liberarono dall'in- cendio comune l'albergo di lui riguardato qual ,, saero asilo delle Muse , e di Febo . Di fatti la faina di Pindaro era sparsa per tutta la Grecia , e al di là della Europa; già che Serse nella sua famosa spedizione n' ebbe ancor del rispetto , co- me dipoi n’ ebbe Alessandro gloria del re della Persia» 3. Or qual si fu la vita civile di Pindaro? Ap* plicato alla poesia , e alla musica , non cantava , che numi , ed eroi . L'antichità vide e lodò i suoi carmi , Inni , Ditirambi , Treni , Peani , ed altri Lirici,e Melici componimenti, rapportati da Sm- ela , che non vinsero la forza vorace dell' igno- ranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali so- lo si mostrano alcuni frammenti, da Stefano va- riamente, e con diligenza raccolti , Restano dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj , Pizj , Ne- mei , ed istmici , de' quali Aristofane . grammatico di gran nome , ne fece una raccolta , ordinata a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi , che tra le opere di Esiodo si è serbata la Teogonia , e si è perduta 1’ Erogonia ; ma tra quellf di Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi , e gl* Inni degli Dei si sono perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del nostro Poeta, siccome le guerre, e i viaggi fanno la vita d’A- chille^ d' Uhsse. Ma benché Pindaro per forma- re i suoi carmi divini dovea menar i giorni nella pace , nel silenzio , e nell’ozio, e vivere con se stesso , col mondo , e co’ numi ; non potea di- spensarsi dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci- ,1 , quasi emulando la Dìgitized by Google   5 pi del suo tempo, e dal conoscimento di varj po- poli , e di varj costumi senza i quali so'corsi ; non si può essere, nè si può fare il Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e quanto il mediterra- neo (eh* eia il viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide Coma , Siracusa , e Cirene , e familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza trattò nelle Corti. , Nelle giostre festive fu più volte e spettatore, e spettacolo , e sceso al paragone con Corinna , pian- se la v.irtù della Musa vinta dalla beltà del- la Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore visse la sua vita dividendo le ore fra , lo s'adio,ei! teatro, le due scuole dell’antica vir- tù : e così finalmente morì , cadendo nelle brac- cia di Teosseno giovanetto di Tenedo, dopo , avere ascoltato con sommo piacere una festa teatra- le, ed armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp.36. di anni 84.,bìochè altri narrino altri- menti e la vita, e la morte di lui. La vita de* saggi , sempre disputata , non è il corso di peri- gliose avventure gravi di speciosi e nobili avve- 1 nimenti. Ella si legge ne loro libri , e tutti i qua- dri d’ un Poeta formano il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede a’ suoi carmi di qua- , dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagi- ne , simulacro , o per la varia sorte de’ versi Li- tici ; o perchè tal è la poesia, cioè pittura, e ri- tratto o perchè siccome ad ogni vincitore si al- $, zava una statua col nome dell'eroe, della pa- tria, e del giuoco $ e’ gliene voleva alzar un’altra di versi , di quella più perenne ed eterna . E' fece u- so del dialetto Dorico che più confassi con lo sti- , le sublime. Ma quello, che più distingue Pinda- ro dag i altri Poeti si è P uso smoderato degli , Episodj imitato non sempre felicemente , da ,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à Lirico-tragico, A3 e tal %  e tal volta Lirico-comico; imperciocché , siccome in Omero ci ha favole, e favolette , co>l in Pindaro ci ha canzoni, e canzonette. Per questa ragione nel tradurle , ed esporle si è tenuta una maniera diversa, secondo che oggi è fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è in pregio solamente la poe- sia , e la musica Lirica , e questa è o tragica detta altrimenti Pindarica , e Alcaica ; o comica , altrimenti detta Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce l'uno e l’altro stile Lirico , onde so- no i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma l’Epica, e la Drammatica , tanto tragica quanto , comica , è poesia disgiunta oggidì dalla musica , ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del seco- li . Ecco la ragione, onde ho tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all' uso del Guidi ; e tal volta , ma di raro , all’ uso delle cantate da sce- na. Nèmisi parlidistrofe, d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni , e quinternioni ,j che oggi sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le usanze antiche , si ha dato una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col prezzo di tante gloriose fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari , e Gauter ? E pochi sono , che apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno errato per necessità di consiglio . Or la- sciando a tutti e traduttori , e cementatori di Pindaro la gloria immortale del nome; io ho ardito d’ incominciare ad uso mio questo faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a mio mo- do. Se questa è una lode , io la confesso ; poiché mi è grato un onore, che mi venga dal merito. Sog- giungo ancora d'aver letta, a quest’ uopo , Plutar- co , Eliano , Pausania , Clemente , Stobeo , Euse- bio Quintiliano, Orazio, fra gli antichi ; Suida, , GiraJdi , Motóri , ">• Baile , Fabbiicio , Schmid io , A\ Be, ,  6 Digitized by Google  1 Pindaro, il quale, quando è gustato, è conosciu- to • |o confesso ancora di aver vinto la causa , di cui la questione si fu: Se gl’inni Cristiani so- no da più , o da meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi, son già molti anni passati, che sono da più ; e per dimostrarne l'assunto col fatto, tra- dussi ed esposi gl’inni Cristiani , e gl'inni Paga- ni, e lasciai la causa alla fede, e alla ragione de* - giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e di altri e ,, quindi le Odi d’ Orazio, non restavano, che gli Inni di Pindaro al compimento dell’opera. Ecco la iuta fede legata già sciolta. Chi legge , se ha sénno vegga e conosca la 4; ,, verità . A non voler dir altro , basta il dire che , negl'inni Pagani o manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è la virtù., E se dicesi, che ap- presso i Pagani tal era la persona reale , e tale il soggetto dell* inno; io dico che cangiate le idee, , dubbiamo venerare le nostre. Ma le Liturgie, per una sorte comune sono ignorate da chi le , adora, e conosciute da chi le disprezza. Quindi è , che questa causa spetta al giudi ciò de’ posteri come accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poe- ta. Nel resto non può negarsi, essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra età, in cui quel che si legge, si vede, e quel che si vede , s’ intende . Per me m’inebbrio di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare un inno Pagano , sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di dolce pietà. £ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campio- ni» -gli atleti r , gli atlanti, gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f , e Ja lotta, sono le virtù del- Benedetti, Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne tratto profitto ma , di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso .*** A4 . la , ; ,  , Digitized by Google   la Chiesa . Si legga solo F inno di Venanzio gio- , vanetto, e santo deli’ Umbria, e si vegga, quai sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti Pindaro vi sono le più belle sentenze e mo- , lali, e politiche che il suo stile spesso è orien- ; tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e di Ossian; ma queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’ nostri sono e profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su i Giuochi, che formano F argomento dell’ opera • I Giuochi , dette ancora feste giostre certami agojii , con- (,,, trasti ) erano o ginnici , o musici . I musici eran prode del conto, del suono, della poesia, della storia, e della eloquenza; e tal volta erano dispu- te circolari da scuoia. Questi si davano d' ordina- rio neU’Odèo, nel Musèo, nel Licèo, nel Tea- trone di rado assai nello Stadio, infra il romor delia turba, il vincitore avea la corona, la sta- tua, e il soldo pubblico,e forse Finno della vit- toria. Mi questi giuochi non eran molto famosi. I Giuochi ginnici erano o sacri , o profani . £ profanieranolascherma,ei! bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’ rei., I sacri & solenni eran cinque, la corsa , la lotta, la pugna , la danza , la palla , detti in generale Pentatlo da' Greci , da* Latini Qoinquerzio , e tal volta Pan- crazio , benché il Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la lotta* La corsa era a piedi, a nudo', o armato a cavallo , o frenato , o senza ; freno ; e col carro , tirato da due.> o da quattro cavalli £ Il premio della ,virtù eia kt stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro , d’ apio , di rame , o di ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un inno di lode, ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria* 11 Digitized by ,   1 luogo di questi Giuochi era lo Stadio , in tre par-* t» diviso, e distinto con tre colonnette. Vi prese* devanoi pubblicimagistrati cometestimoni egiu- ,, dici delle contese. Tali feste, instituite da Ercole, da Pelope , da Enomao da Ifito e p;ù volte tralasciare , e più volte riprese si celebravano , nel principio d' ogni cinque anni piade non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli antichi Romani. Questa città, eh’ è stata sempre la madre degl randó altre insegne e divise , onde vivano ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi fra * morti , e mprti fra i vivi , passano in pace la vira e fanno il lor nome risonare nel silenzio , della virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano Ancora Napoletano giovane d’ alti ta- ,, lenti , e di aurei costumi . E’ rubando agli alti , affari politici, e al vigor giovanile, e alle ombre notturne poche ore del tempo le consacra a quel ,, profondo studio , che da' primi anni coltivò , d* una maschia e robusta Letteratura, Ebrea Greca, , e Latina , e va di quando in quando esponendo una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro delia età vetusta si serba come un sacro depost- , ,, <5. Molte,evarienotiziesisonodamericavate 11 da Pausania , da Natale de Conti , e da saggi scrittori delle Greche antichità , Ma disperando di poterne qui dare un Saggio compiuto che ser- , visse di scorta alla legione di Pindaro, ho prega- to il mio doke amico, e maestro Gaetano Anco- ra y il quale, tra le gravi cure della Corte, cori va . con applauso universale i più severi studj della Letteratura, oggimai quasi moribonda e spirante.- 1 ingegni , e la scuola di tutte le Muse non ar- , 1 disce più di onorare il nome de suoi gran figli col titolo di saggi e di dotti e va lor proccu- ,, , onde T Olim-  JO to della umani , e divina ragione . Quindi la Re- pubblica delle lettere gode di tante dissertazioni dilui, chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento , e che raccolte si daranno a. suo tem- po al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente al- , le mie premurose preghiere, ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di Grecia, il quale, stampa- to alla fine del libro la erudizione comune , , pagina 227. , serve al- e al rischiaramento delle ©ni di Pindaro. Perciò son io contento delle mie fatiche , le quali con questo lume compariranno , come spero , meno oscure , e meno importune $ e la Musa Dircèa sarà più sacra, e più venerata. A vero dire non deve un Poeta ri sublime , e sì sacro , come colui , che canta da eroe le virtù degli eroi giacersi nell' ingrato obblìo d' una fa- , cile indifferenza , o d' una criminosa ignoranza? eseiohofattosì, cheil suonomesiatranoi p ù conosciuto , ed imitato almeno nelle sentenze, * se non si può-nello stile, ^Sublimi feriam sidera  Tropea. Palazzo Sant'Anna. odierna sede del Municipio ed ex Collegio dei Gesuiti    L'ULTIMA PRIGIONIA  DI ANTONIO JEROCADES     di Pasquale Russo  PREMESSA  L'abate Jerocades visse da cristiano inquieto una esistenza drammatica. Pur affascinato dalle idee di libertà di cui si è fatto assertore e promotore, non smise mai di produrre opere di natura religiosa e devozionale, anche pervase di amore e tenerezza, soprattutto verso la Vergine Maria. E' un ecclesiastico che non sovrappone il livello della politica a quello della fede, ma tenta piuttosto un equilibrio che apparirà fortemente precario e non convincerà nè il potere politico nè il potere religioso. Dall'una e dall'altra parte fu perseguitato per tutta la vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede cristiana, nè resistette fermamente al tiranno fino alla morte.  Quest'uomo che le istituzioni hanno più volte punito secondo i loro statuti con il carcere e con l'esilio fu un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al martirio.  Io mi fermerò a considerare l'ultima prigionia dell'abate Jerocades. Fu la conclusione di una vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel collegio dei Padri Redentoristi, il 19 novembre 1803, non si chiudeva solamente una vita, si spegneva il tentativo di conciliazione di un credente massone e giacobino con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA  L'abate Jerocades non aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una tuonante avversione al mondo clericale.  Il terremoto del Capo, questa operetta indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti fossero i suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola per colpire, offendere, insultare.  La parola fu la grande arma che Jerocades usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi lo contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici.  Dotato di grande facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle stampe i suoi scritti senza rileggerli.  L'ultima prigionia a Tropea, nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie religiose e politiche: penso a Gioacchino da Fiore, a Tommaso Campanella, profeti perseguitati per i loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di fondo che ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del cristianesimo.  Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione ecclesiastica di Antonio Jerocades e sulla sua formazione, perchè ci consente di cogliere elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più rilevanti del giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della massoneria: tutti più o meno di provenienza culturale e ambientale non solo cattolica, ma specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao, Padula, Angherà, Nudi o altri meno noti).  Il valore culturale, etico, sociale di queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva Maria Mariotti, e stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non sempre superano del tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente l'aspetto contestativo soprattutto in chiave di apertura alle novità, al progresso contro l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo degli am bienti ecclesiastici. Pare sia più maturo un ripensamento, almeno su alcune complesse personalità: anche per capire meglio il dramma umano, religioso, morale di questi uomini, spesso condizionati dal disagio di una vocazione non autentica, talora esasperati da situazioni realmente invivibili; e per cogliere, al di qua dell'asprezza delle manifestazioni, la radice autenticamente cristiana e cattolica di certe esigenze e critiche, nello spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di Ludovico Antonio Muratori sulla Regolata devozione dei cristiani, di Antonio Rosmini su Le cinque piaghe della chiesa."  Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli, detta da Antonio Jerocades, questa riflessione si riveli quanto mai opportuna. Egli, rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un ignoto villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla pesca, alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i remi e le reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del dolore, dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi e travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in filosofia, e con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia."  E' altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano influire su una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i collegi per i laici, mentre i chierici in genere erano formati con un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare del 3.XI.1802 per la diocesi di Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci. Si trattava di una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali che per quelli pastorali.  Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava soltanto una carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il notabile, circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto nella linea delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di ogni quadro pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti. I sinodi sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti ideali, dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli spettacoli, al cicisbeismo.  Del resto va notato che il Concilio di Trento aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i candidati agli ordini ad entrarvi.  La cura animarum suprema lex era molto disattesa, pur essendo un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto come capisaldi della vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi nel '700 diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato di Ibanez nel 1702: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento e fino al vescovo Vaccari nel 1883.  La preoccupazione per il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi ossessiva in un vescovo latitante come Gerardo Gregorio Mele nella corrispondenza col suo vicario don A. Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima della sua unione con Nicotera nel 1818. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni che hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato morì a Tropea Antonio Jerocades.  Sugli anni compresi tra il 1799 e il 1803 sembra prevalere un grande silenzio su Jerocades nei documenti vescovili o comunque tropeani.  Mentre il Martuscelli, primo biografo del Jerocades, ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria, vol. III, p. 181 e ss, Cosenza, 1877), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono molto scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia della santa chiesa tropeana, Napoli, 1852; Michele Paladini, Notizie storiche sulla città di Tropea, Catania 1930 - ed. anastatica a cura di S. Di Bella). Quasi irreperibili nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti è la mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni...  Gli archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite pastorali:  20.03.1784 - Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca Jerocades;  17.03.1794 - Visita Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. Jerocadi;  09.09.1795 - Visita Monforte: absens...: A. Jerocadi;  05.05.1799 - Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens.  Negli archivi privati si è trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone 8 Nov. 1837 a Don Giuseppe Meligrana ricorda che "le cose di Jerocades [per lui trascritte] non sono che ordinarissime composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di Jerocades (Raffaele) "un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia, attraverso don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di Jerocades, che dice di conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.).  L'archivio più fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani Sava nel 1977, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E. Meridionale, 1981, pp. 635-713).  Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che corrisponde agli ultimi anni di vita di Jerocades sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a una avversione profonda, soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di gravi accuse di immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le idee giacobine dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o che, come dice Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli Affaticati. Jerocades viene ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha colpito duramente.  Forse non e esagerato pensare che si aspettava il momento giusto per presentargli il conto.  LA SOLITUDINE DELLA MORTE  Il Martuscelli racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita di Antonio Jerocades e la sua morte. "Nel 1799 fu mandato in Francia", egli scrive: in realtà, più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli erano stati uccisi. Il Jerocades figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti del 1799 e, nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una descrizione fisica dell'abate.  A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia il 4 Novembre 1801. Dopo dieci mesi (settembre 1802) "fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò fu per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre di suo fratello Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo.  L'ordine era di tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella quiete", scrive il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia; il quale aggiunge che, cominciando (il Jerocades) al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei religiosi".  In realtà la situazione appare più complessa, come risulta dalla lettera del P. Giacomo Migliaccio, successore del Pappaona, inviata al vescovo Gerardo Gregorio Mele il 3 agosto 1803, e conservata a Tropea nell'archivio Toraldo Di Francia:  Ecc. Rev.ma  con ven.ta carta del dì 21 del passato giugno V. E. Rev.ma partecipò al mio antecessore che il sig. Preside della Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Luigi Calenda le avea scritto che il superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità, potrà far uscire a camminare il sac. D. Antonio Jerocadi di Reale ordine qui detenuto, in compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire, nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo, ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi. Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia degl'individui di casa. All'incontro il Jerocadi fa delle premure presso di me, rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna benedizione.  Collegio di Tropea 3 Agosto 1803  U.mo e obblg.mo servitor vero e suddito  Giacomo Migliaccio del S.mo Red.re  Di V.E.Rev.ma  Mons. Mele Vescovo di Tropea  "In quel soggiorno - scrive ancora il Martuscelli - molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno scrisse molte cantate, sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il salterio. Finalmente logoro dai disagi e dalla improba applicazione allo studio munito dei santi sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio... Da colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei sacerdoti".  Muore il 19 Nov. 1803 e non il 18 nov. 1805 come scrive il Martuscelli e dopo di lui tutti gli studiosi di Jerocades.  L'atto di morte si conserva nel registro della parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della parrocchia di Parghelia.  Li riporto entrambi, oltre che per precisare e definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle differenze:  Anno 1803 - Parghelia - Parrocchia di S. Andrea Apostolo  Atto di morte  Rev. Sacerdos D. Antonius Jerocades, annum sextum ac sexagesimum cum attigisset, sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum fuit.  A.  arch.  Taccone  TROPEA - Parrocchia di S. Demetrio - Anno 1803  Atto di morte  Sacerdos Antonius Jerocades casalis Pargheliae hujus Diocesis utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in Universitate Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis poenitentiae et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit, eiusque cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum fuit.  Franciscus Antonius Grillo  Vito Capialbi, precisando che Jerocades fu sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche vicissitudini, involuto nelle tristissime vicende dal 1793 al 1799, e fino al 1802 andonne ramingo in Francia, ed in altri Regni d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del trattato di Firenze del 1802. Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore di Tropea, morissi ai 18 novembre 1805".  Per concludere che "più copiose notizie di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno nelle nostre Centurie degli scrittori calabresi".  Di questo periodo della vita esausta dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle esagerazioni (il tetro carcere - la cella - le punizioni - le torture... il veleno - cfr Didier), non suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e dicerie, ma tante altre cose sono state taciute.  Stupisce però che il vescovo Mele, nella visita ad limina del 1804, presenti una visione idilliaca del clero e della diocesi, mentre nella visita pastorale del 1808 e in altri documenti conservati nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota abbiamo potuto rintracciare relativa al caso Jerocades, tranne tracce indirette nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo Mele...  Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero possa essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere il P. Giuseppe Orlandi, storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum CSSR-A.XLII.1994.FI "I Redentoristi napoletani tra ricoluzione e restaurazione" dedica pagine interessanti all'abate Jerocades.  Era comune che le autorità inviassero dei condannati al soggiorno abbligato a scontare la loro pena in qualcuna delle case della Congregazione. "Per quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava di un compito assegnatogli dal dispaccio regio del 22 marzo 1790:  'Qualora i vescovi diocesani o vicini per correzione volessero mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi spirituali nelle loro case, dovranno sempre riceverli, con esigere anche per compensare del loro incommodo quell'oblazione che non venga eccedere il tarino al giorno, pel tempo della dimora che da quei preti o chierici si sia fatta presso di loro' "".  L'ordine reale veniva poi eseguito dai vescoli.  Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era sempre immune da rischi, come nel caso Jerocades."  Nella lettera del P. Migliaccio si afferma con forza: " Il superiore passato non dovea pure firmare quell'obbligo, ch'egli non era fatto castellano, o carceriero".  Il Padre Giuseppe Orlandi, storico dei Redentoristi, riporta un passo di Giuseppe Capasso (Un abate massone del secolo XVIII, Parma, 1884).  "Che in questa nuova relegazione il Jerocades abbia continuato a mostrarsi secondo i casi massone e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche perchè è certo che non cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico. Ma l'esilio, quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo cervello, di già a bastanza indebolito".  Naturalmente, se a Jerocades era sgradito soggiornare a Tropea, ai Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare:  "Durava da un anno quello stato di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura, accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di teologia, non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti alle impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il frate sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per il frate che riuscì a scansarlo".  La lettera del padre Migliaccio sopra riportata conferma quanto scrive il Capasso.  Il padre Orlandi conclude che "invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere liberati dalla sgradita presenza di Jerocades che rimase a Tropea fino alla morte".  Il teologo Raffaele Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del vescovo Monforte] D. Antonio Jerocades di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa; volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta, la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte di Jerocades: "Morì ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades.  Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio dopo il 1799, fu denunziato da Giuseppe Costanzo, da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello, dove parlava male del Cardinale Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il rettore Pappaona.  Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi.  Caduto infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e il Teologo Paladini a ricevere la sua professione di fede.  Egli, invitato a ciò, diè segno di approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in Parghelia."  Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo.  Sul versante laico il racconto di Charles Didier (1805-1864) in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, 1835, appare assai ricco di anticlericalismo e di spirito romantico: Jerocades, autore della Lira focense "fu crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale nel 1815 (sic!), ebbe per prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana.  La terra sia loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!"  La fonte del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di creare i martiri. Questo spiega anche la data errata del 1815 e il riferimento alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a Parghelia.  Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza nel 1812, Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano che l'oprimeva chiuse i suoi giorni".  A parte i comprensibili toni romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà. Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non trovava più motivi al suo canto.  La sua voce, un tempo bellissima e ammirata, adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi senza rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo colse dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha trovato un uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha trovato l'ultimo motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del cuore.  UN DIGNITOSO CONGEDO  Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella sua inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori, non soccorse l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale apparteneva.  Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di fiducia.  O Regina, il Ciel ti salvi.  Di Dio madre, e sposa, e figlia,  Volgi, ah volgi a noi le ciglia,  Bella madre di pietà.  Mostra vita, e nostro bene,  Nostra speme, e nostro amore,  Volgi a noi quel tuo bel core,  Ch'è la stessa carità.  Figli di Eva, abbandonati,  Dell'esiglio a' lunghi affanni,  Dal furor dei rei tiranni  Chi ci salvi, oh Dio! non c'è.  Senti il grido, ascolta il pianto  Di chi giace in ree catene,  Bella Madre, in tante pene  Ci volgiamo afflitti a te.  Dunque o nostra Protettrice,  Volgi a noi quel tuo bel ciglio;  Mostra a noi quel tuo bel figlio,  Quando ha fine il lungo error.  Tu sei madre assai pietosa,  Bella Vergine Maria;  Tu sei dolce, e tu sei pia,  Tutta pace, e tutta amor.     E mi appare persino commovente la Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo nipote, figlio del fratello Vincenzo:  "Nel Castello dell'Ovo, villa un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle nie cure e delle mie preci che la Madre di Dio.  Serbando fede alla patria, l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo conveniva ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle battaglie si cerca un asilo, impaziente di altra dimora:  "Ch'io son vivo al desir, morto alla spema".  Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto questa Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual debito.  Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei miei talenti. Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta anche a voi quando non disdegnaste di dirvi mio nipote".  A me quest'ultima frase appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è dell'altro che Antonio Jerocades dice ancora come credente e come sacerdote:  "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io, che vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo donarvi della religione e fede di Cristo?  A te, Raffaele, e all'eredità del padre e dell'avo aggiungerete la mia.  A te, e nella Chiesa di Porto Salvo fra i suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora s'è degna questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da noi venerata sotto il nome di Madonna di Porto Salvo".  Il senso di verecondia che traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo, di un credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita tormentata fa un bilancio coraggioso e definitivo?  "Dopo Dio non ho altro obietto delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio" 

Antonio Jerocades. Jerocades. Keywords: filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense, giaccobinismo,  ‘repubblica romana” “repubblica partenopea”le odi di pindaro – Grice on Plato’s Republic. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754276139/in/dateposted-public/

 

Grice e Jervolino – ermeneutica del dialogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo.  Grice: “I like Jervolino, but then I like any philosopher of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential Italian philosopher. Allievo di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con diverse riviste specialistiche di filosofia (Filosofia e Teologia, Studium). Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur, tra cui:  la ricerca di un filo conduttore unitario all'interno della sterminata ermeneutica (“Il cogito e l'ermeneutica: La questione del soggetto e la inte-azione” (Procaccini, Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato e auto-trasparente.  Ricoeur appare nei suoi studi come caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito che, ferito e spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso attraverso un lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della trans-ductio, trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla co-ospitalità conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre saggi:“Il cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui interazione” (Procaccini, Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena, Napoli) – cfr. H. P. Grice, “Absolutes” --;  “Logica del concreto, logica dell’astratto” -- “Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel, Piovani, Morano, Napoli); “L'amore” (Studium, Roma); “Il segno della prassi. Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura” (Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica ed implicatura” (Guerini, Milano); La traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana, Brescia, “Etica e morale, Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli, Milano);  Quei ragazzi di nome Fausto Bertinotti Boys – Archivio Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino. You see, Calvino, a rather unimaginative writer, wrote a collection of things he titled, in the whole thing and in the first part, “Glia mori difficili” – People would have forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who brilliantly played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’, sic in the singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective film. Jervolino is having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and himself as the soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which he stupidly agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin – who could have checked with the etymology of ‘difficilis’!”   Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords: ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”. “Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51753615386/in/dateposted-public/

 

Grice e Jommelli – musicista filosofo – filosofia italiana – muovere l’aria – l’azione melodrammatica -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo. Essential Italian philosopher. Mattei riporta il seguente aneddoto sul suo soggiorno in questa città. Andato in visita a Martini (già considerato come uno dei più sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a lui come allievo, chiedendo di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga che egli trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete burlarvi di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è Jommelli, sono io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro di questa città» - «È un grande onore per questo teatro avere un musicista filosofo come voi, ma vi auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like Jommelli. Like Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are thought to be too avant-garde, too. I especially recall with affection how I would trio with my father on the violin and my younger brother Dereck on the cello. Dereck became a professional cellist with Hampshire. My obituary might well read, “Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a professional cellist. With Jommelli we never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco Affektenlehre) può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione che la musica potesse suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere della musica sulla psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi propagandistici. Durante il '400 Marsilio Ficinoapprezzava di più le forme semplici e comunicative rispetto alla polifonia poiché la prima era maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o placare le passioni umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa e innaturale. Dello stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica greca per le sue capacità affettive.  Tra il '500 ed il '600 la teoria musicale identificava ogni affetto con un diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia) identificati da specifiche figure musicali definite figurae o licentiae (licenze). La loro particolarità era contraddistinta da anomalie nel contrappunto, negli intervalli e nell'andamento armonico, appositamente inserite per suscitare una particolare suggestione. Athanasius Kircher – gesuita matematico, musicologo ed occultista tedesco – nel suo Musurgia universalis (1650) afferma:  «La retorica [...] ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo incita all'ira, poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle passioni violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta infine l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo stesso modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove l'animo con vario esito.»  (Athanasius Kircher, Musurgia universalis, Cap II, 1650) Questo trattato, conosciuto durante tutto il secolo XVIII, fu stampato anche a Roma nel 1650 e tradotto dal tedesco nel 1662. Tra le classificazioni e distinzioni degli affetti umani compilate nel Seicento, è da menzionare quella di Cartesio che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649, ne distingueva sei ritenuti principali, quali meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza.  Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (Venezia, 1600), attacca questa nuova forma musicale che utilizzava intervalli "così assoluti et scoperti", poiché trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio le dissonanze non sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di un'altra). Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica nell'Avvertimento del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e devono essere viste in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione musicale di Gioseffo Zarlino. Già dal Libro Terzo di madrigali infatti Monteverdi con le dissonanze intensifica e rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal testo.  Il Vologeso was written in 1766, using a wordy libretto by Mattia Verazi, itself an extensive reworking of Apostolo Zeno's Lucio Vero (1700). The plot deals with the constancy of love in the face of great obstacles, in this case the love of Vologeso, king of the Parthians, and his wife Berenice. The Roman general Lucio Vero has defeated and captured Vologeso, fallen in love with Berenice, and spends most of Acts I and II seducing and bullying her into abandoning her husband. When Lucilla, daughter of the Roman emperor and Lucio's fiancee, turns up, she and the Roman emissary Flavio are disgusted by his behavior; Flavio, assisted by Vologeso, leads a revolt that results in Lucio's capitulation and the restoration of their freedom and their kingdom to Vologeso and Berenice. The plot allows ample opportunity for dramatic movement and spectacle, e.g., in Lucio's importunities and their rejection by Berenice, Vologeso's confrontation with lions in an arena, and the revolt that ends the opera.  The music is conventional in its use of recitative followed by arias, but forward-looking in that many of the recitatives in Acts II and II are accompanied by the orchestra rather than the traditional basso continuo - the arias are often in abbreviated da capo form so that they do not slow up the action, and the chorus and orchestra play a more considerable part in the proceedings than is usual in Baroque operas. Jommelli had no great gift for melody and the opera offers few memorable tunes, but he had a talent for brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The total effect is imaginative, lively, and attractive.  The casting is odd; with only one male voice and five sopranos it's hard to tell the characters apart. Odinius, Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are comfortable with Baroque style and ornamentation and expressive in their characterizations. Waschinski and Taylor are as good as most falsettists, though as usual their uneven voice production and unfocused tones set my teeth on edge, and Waschinski sounds much too feminine to make plausible the heroic figure of Vologeso. (I really do not understand why conductors and producers nowadays insist on using these voices in Baroque opera, a practice that has neither historical nor aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber Orchestra is alert and responsive, Frieder Bernius keeps everything moving along briskly, and the sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too well compared to the Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own terms and as presented here, it is thoroughly enjoyable  While Mozart may have claimed Jommelli’s musical style to be passé by the 1770s, Vologeso itself is a reworking of an already antiquated libretto by Apostolo Zeno, originally called Lucio Vero and first set by Carlo Pollarolo for Venice in 1700. Moreover, the version set by Jommelli and performed here by Classical opera is in fact a modification of a modified libretto. The new librettist Mattia Verazi had revised the by then popular version produced by Guido Lucarelli for Rinaldo di Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s original. The story is a familiar one, mingling political intrigue with love both unrequited and true. In the eastern provinces of the Roman Empire, Lucio Vero (Stuart Jackson) is victorious in battle and captures Berenice (Gemma Summerfield), wife of the Parthian king Vologeso (Rachel Kelly). Captivated by her beauty, Lucio Vero makes every effort to win her with the assistance of his minister Aniceto (Tom Verney). Meanwhile, Vologeso attempts to assassinate Lucio Vero but is recognised by Berenice, causing him too to be taken prisoner. Further complicating matters, Lucio Vero’s betrothed, Lucilla (Angela Simkin), has arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France), an ambassador from Lucio Vero’s co-emperor, Marcus Aurelius. After many separations of the faithful Vologeso and Berenice, increasingly cruel plots on Lucio Vero’s part to attain the latter, and the threat of civil war from Marcus Aurelius, all is resolved and the various couples are reunited without any blood being shed.  Although Zeno’s libretto is not remotely like those produced by later poets and composers interested in reforming operatic conventions, the play’s enduring appeal might well be attributed to its strong sense of spectacle, which coincided neatly with the objectives for reform. Indeed, the play contains on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted assassination, Vologeso’s fight with a lion in the arena, and at least one ‘mad scene’ for Berenice in addition to traditional opera seria ingredients of triumphal marches, grand armies, and the obligatory chorus announcing a lieto fine. Sometimes I felt that this element of spectacle was lost in the context of a concert performance. Though that is of course an unavoidable casualty of this mode of presentation, it was further compounded by Jommelli’s own reluctance to capitalise on these aspects of the play as did other contemporaries. Furthermore, artistic director Ian Page writes in the introduction to the programme that besides the expected editing of the recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their entirety, but also some arias’ middle-sections and their reprises in the interests of ‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of these, one was the opening chorus, which might have helped to restore some of this sense of grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of ‘[experiencing] what a typical eighteenth-century opera was like’.  Jommelli’s musical style in this opera has clearly moved on from the grand and expansive show pieces we find in his earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747 (performed in London in 2014 and also reviewed here). With the exception of one or two numbers which might be said to respond to a more traditional heroic opera seria style, such Crede sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the focus in Vologeso is instead on creating a more declamatory mode and ‘realistic’ rendering of the dramatic and emotional content of the text. As such, the use of coloratura is generally much reduced and arias very often feel more like ariosos, often to the point that it feels like accompanied recitative intrudes upon melodic lines. The music is nevertheless still imbued with grace and lyricism, and is marked by sometimes fussy, yet fine, delicate and lace-like accompaniments. And there are some really good and interesting numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s first aria Tutti di speme al core, the already mentioned Crede sol, as well as some very effective and attractive accompagnatos.  In spite of the title, this version (or at least as it has been presented to us with the cuts) nevertheless still focuses greatly on the character of Lucio Vero and his relationship with Berenice. Stuart Jackson’s performance came across as something of a slow burning affair, only really coming fully into the character after interval and reaching the apogee of dramatic intensity in his final aria. And yet it felt largely like Lucio Vero was being interpreted as being the youthful hero, the primo uomo role usually reserved for a castrato. This may well be due to Verazi’s redaction of the opera, which seems to me to result in a somewhat schizophrenic character, vacillating between tyrannical, or rather psychopathic, conqueror and lovelorn hero. This is effectively underlined by the kind of music with which Jommelli furnishes the character: languid arias with long, plangent melodic lines, such as his opening Luci belle and the cavatina Che farò? in Act 2, and a handful of arias which verge on aria di furia territory. To my mind, Lucio Vero’s actions are not driven by real love for Berenice but rather an overwhelming desire for power: not only in and of itself, but also power over others. To this end, his rejection of Lucilla is not merely an amorous choice, but a rejection of the power of Rome and the authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether. So too the psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to his will. Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous lead did not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant execution.  The performance otherwise had much working in its favour. I very much enjoyed Gemma Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to expect from Classical Opera.  My overall impression from the programme notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly great composers, to be sure…’. While undoubtedly there are countless flops littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And Jommelli’s legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that ‘…much of the music of contemporaneous composers… sounds quite like Mozart for much of the time’ should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness notwithstanding, who is effectively a product of his time!  A final note: a future Classical Opera concert this year is to feature some arias from Semiramide by Josef Mysliveček, another figure well known to the Mozart family and whose work has occasionally been misattributed to the young Wolfgang in the past. A full opera of his at some point, further showing how Mozart was fully integrated into the existing musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli. Keywords: musicista filosofo, Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jommelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754140329/in/dateposted-public/

 

Grice e Julia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acri). Filosofo. Grice: “Julia was more of a poet than a philosopher; but then for Heidegger, philosophy IS poetry and vice versa!” -- essential Italian philosopher. Figlio di Antonio e da Maria Giuseppa Balsàno. Studia a Cosenza sotto Focaracci. Direttore del Telesio, periodico. Strinse grande amicizia Padula. La temperie culturale in ambito locale vede la difficoltà della Calabria a integrarsi nella nuova entità politica. Area essenzialmente contadina, la regione ha una classe dirigente che preferisce assoggettarla al clientelismo e alla sua arretratezza piuttosto che metterla al passo con zone del Paese più avanzate e progredite; perciò il mondo intellettuale d'avanguardia, deluso dalle speranze del 1848 e conscio del sottosviluppo, si volge verso il positivismo e il socialismo. Vive tra il tardo romanticismo e l'affermarsi delle innovative correnti costituite dal naturalismo e dal verismo, nella scia di Carducci e Verga. Le contraddizioni della sua epoca lo formano come un intellettuale spiritualista che rifiutail materialismo e in parte il mondo contemporaneo, e d'altra parte un sostenitore degli ideali socialisti, del riscatto delle masse disagiate e della glorificazione del passato della Calabria a partire dall'assedio degli Aragonesi e dei suoi conterranei coevi illustri, fra i quali Miraglia, VPadula, Quattromani, Tocco, oltre a Campanella. Accostatosi in un primo tempo al misticismo di Gioberti, si converte al verismo, alla ricerca del pragmatismo e di un modello di poesia di alto civismo che lo stesso Julia proclama nei suoi Sonetti e liriche. Parte dai miti popolari e dalle ballate della tradizione romantica per marcare orgogliosamente la storia della sua terra. Considerato il padre della letteratura calabrese, si interessa alle origini della cultura letteraria della regione analizzando anche alcune opere a lui precedenti. Il suo impegno regionalistico si concretizza in uno studio su Selvaggi, nel quale si individua un collegamento fra Galeazzo di Tarsia e le produzioni romantiche. Vi fu poi un saggio su Padula e un esame delle liriche riferibili all'Accademia Cosentina. Sa però spaziare oltre i confini delle sue terre, fino a richiamare Milton nel suo scritto dedicato a Padula. Oltre a uno studio su Monti, produce dei lavori anche su Mazzini, Poerio, Correnti, legati dall'attenzione alle tematiche relative al Risorgimento e perciò in convergenza con il proprio pensiero, che dal punto di vista della poetica si richiama ai modelli che il letterato individua in Leopardi, Berchet e Giusti, oltre che in Prati. A. Piromalli, La letteratura calabrese” (Pellegrini, Cosenza); Monografia su calabriaonline, su calabriaonline.com. Digital Storytelling su Vincenzo Julia a cura degli studenti del Liceo V. Julia di Acri, CS. Ovvero delle Famiglie Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai Sedili di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia.      Famiglia Julia A cura del Dott. Francesco Paolo Dodaro  Socio Corrispondente dell’Accademia Cosentina  Arma: d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata nel capo da un destrocherio di carnagione tenente un uccello di nero e in punta da un albero radicato al naturale(1). Titolo: Nobile di Acri. Arma Famiglia  La famiglia Julia, in origine nota come de Giulia (2), figura fra le antiche e nobili casate di Acri (3) (Cosenza), città dove risulta presente sin dal XVI secolo. I Julia godettero sempre nella locale società di un buon livello di prestigio sociale come testimoniato dalle alleanze matrimoniali contratte con diverse famiglie patrizie fra le quali ricordiamo le seguenti: Benincasa, Candia, Capalbo, de Simone, Dodaro, Falcone, Fusari. Simbolo della condizione privilegiata della famiglia è il grande palazzo sito tra il rione Casalicchio ed il quartiere Piazza. Tale edificio, al cui interno si conserva la ricca biblioteca di famiglia, è abbellito da un portale lapideo sul quale spicca un mascherone sormontato da un’antica riproduzione in pietra dello stemma del casato. Il suddetto blasone è timbrato dalla classica corona a cinque punte che identifica i Julia come nobili. Acri, Palazzo Julia, portale  Nel 1506, con atto del notaio Gaudinieri, il sacerdote Nicola Maria Julia fonda una cappella privata sotto il titolo dell’Immacolata Concezione all’interno della chiesa di San Nicola di Bari in Acri (4) (situata nel rione Casalicchio). Nel 1706, Fabrizio Julia vende a Giuseppe Leopoldo Sanseverino un terreno dove e edificato l’imponente complesso del palazzo acrese dei principi di Bisignano, permutandolo con la casa e il fondo Macchia(5). Dal matrimonio fra il dott. Raffaele e la N.D. Giuseppina Capalbo nacquero Salvatore ed Antonio dei quali il primo (deceduto nel 1851) fu rinomato avvocato mentre Antonio viene ricordato come “Medico illustre” che “in età provetta, in pochi mesi, studiò leggi presso il Focaracci e ne apprese quanto ne anno i più maturi; onde s’incentrarono in lui il medico e l’avvocato” (6). Fra i personaggi celebri di questa famiglia ricordiamo il citato Raffaele, Governatore di S. Giorgio e Vaccarizzo. La figura cui si lega maggiormente la fama del casato è quella di Vincenzo Julia, filosofo, letterato e poeta. Allo stesso è intitolato il Liceo Classico e Scientifico di Acri. Nacque da Antonio e Maria Giuseppa Balsano (7), svolse gli studi presso l’istituto Molinari di Acri ed il seminario di S. Marco Argentano (8). Frequenta il seminario di Bisignano dove ebbe come insegnante il Canonico acrese Francesco Saverio Benvenuto, quest’ultimo colto latinista nonché teologo, filosofo e parroco maggiore di Santa Maria in Acri (9). Intraprese gli studi giuridici e per alcuni anni esercita la professione di avvocato poi accantonata a favore dell’insegnamento di materie letterarie, filosofiche e giuridiche (10).  Quanto alla sua produzione filosofica questa fu “quella del poligrafo (letteratura, filosofia, storia, cultura calabrese)” inoltre “Nei suoi studi predilesse la valorizzazione e la riscoperta di figure regionali poiché gli pareva che la Calabria fosse dimenticata e poco apprezzata dopo la raggiunta Unità”(11). Fra le sue opere ricordiamo: Saggio sulla vita e le opere di G.V. Gravina, Saggio di studi critici su Vincenzo Selvaggi e la Calabra poesia, Terenzio Mamiani e i suoi dialoghi di scienza prima, Francesco Fiorentino filosofo, Lettere al figlio Antonio su Cesare, De Sanctis in Calabria, Vincenzo Monti. Nel 1864 sposò Gabriella Fusari(12) e da tale matrimonio nacquero: Antonio, Francesco, Mariannina e Giulietta(13). Si spense il 4 maggio del 1894 in Acri. “Telesio,” rivista codiretta da Vincenzo Julia    Antonio Julia, figlio di Vincenzo, fu avvocato e raffinato poeta   sposa, in prime nozze (14), Mariantonia Dodaro, figlia dell’avv. Giovanbattista e di Cristina Benvenuto. Il loro fu un matrimonio felice e allietato dalla nascita di Maria Gabriella(15), Vincenzo (1896† 1924) e Antonietta(16) (1897 † 1978).  Antonio Julia e sua moglie Mariantonia Dodaro  Antonio Julia fu legato da sincero amore a sua moglie e quando questa prematuramente scomparve, riversò il suo dolore in alcuni toccanti componimenti poetici che rappresentano una struggente testimonianza del suo dramma interiore e assieme della sua spiccata sensibilità d’animo.  AL CROCIFISSO DEL SUO LETTO Non più le sue lucenti Pupille a te si volgeran la sera; non più per le dolenti mie stanze echeggerà la sua preghiera…  O tu, che pendi ancora, mistico Iddio, sul vedovo mio letto, volgi le luci ognora sovra i miei figli e sul paterno tetto!  Dimmi che ancor le rose Olezzano per te, vigile Iddio, le parole amorose che a te rivolse, ne l’estremo addio…  Dimmi che ancor tu senti La voce sua, ne l’ombre de la sera, e che, in soavi accenti, mormora pe’ suoi figli una preghiera!..(17) Note: (1) - Gli smalti dello stemma Julia sono noti grazie ad una raffigurazione del blasone in oggetto riportata dallo storico acrese Raffaele Capalbo (1843-1921) in un suo lavoro inedito sull’araldica delle famiglie nobili di Acri. Nella riproduzione del blasone dei Julia, visibile ancora oggi sul portale del loro palazzo in Acri, il destrocherio appare vestito. (2) - Per approfondimenti si rimanda a M. G. CHIODO, L’Archivio Privato della famiglia Iulia di Acri - Inventario sommario, in “Archivio Storico per le Province Napoletane” (3) - Per un elenco completo delle famiglie patrizie di Acri si veda R. CAPALBO, Memorie storiche di Acri, S. Giovanni in Persiceto (BO), Edizioni Brenner, (4) - R. CAPALBO, op. cit., p. 88. (5) - Ibidem (6) - Ibidem (7) - Quest’ultima, appartenente a una famiglia originaria di Rogiano Gravina, era sorella di Ferdinando Balsan,  letterato e deputato del regno d’Italia nonché preside del liceo Telesio di Cosenza. Lo stesso figura tra i maestri del nipote Vincenzo Julia.  A. PIROMALLI, La Letteratura Calabrese, vol. I, Cosenza, Pellegrini Editore, (8) Ibidem (9) - Ibidem  (10) - Ibidem (11) - Ibidem (12) - Per approfondimenti su alcune vicende storiche che interessarono la famiglia Fusari si rimanda a R. CAPALBO, op.cit.,  (13) - https://juliavincenzo.atavist.com  (14) - Alcuni anni dopo il decesso della prima moglie, si unirà in matrimonio con Maria Beatrice Antonietta Romano di Acri. (15) - Poi sposatasi con Carlo Giannice (1887 † 1966). (16) - Andata successivamente in sposa a Giuseppe dell’Armi (1877 † 1962). (17) - A. Iulia, Momenti, S. Maria Capua a Vetere, Casa ed. Della Gioventù, p. 36. Si veda anche il componimento intitolato “Alla Vergine della Sua Stanza”, Ivi p.37.  VINCENZO JULIA Questoegregio giovane,sucuifondiamo, abuondritto,non pic cola speranza, per le diverse prove del suo nobile ingegno fin'ora dateci, coltiva con forte, inteso amore le filosofiche discipline,tutto solo rannicchiato in piccol paesuccio delle Calabrie, Acri. Egli, da quello n'è sembrato, predilige la filosofia di quel sommo Torinese filosofo, che col suo Primato Civile e Mormale D'Italia fanatizzò tutti isuoi connazionali per la dupla autonomia del loroPaese,Libertà ed Indipendenza;econl'Introduzioneallostudio dellaFilosofia, la Pro tologicaed altre opere speculative ispirò nei cultori di questa no bilissima scienza l'amore delle nazionali dottrine. Vincenzo Julia a dunque è un giobertiano , un ontologo , e per lui quindi sta che l'Ente, il Primo Essere, Colui che dà l'essere a tutte cose, non però spezzandosi, non diffondendosi, nè emanandole dal suo seno, c o m e ilragnoilragnatelo;ma liberamente creandole;per luidico sta, che l'Ente, l'Assolutoreale, non astratto,quale il pose,il procla mò Giorgio Hegel, è il Primo Filosofico, cioè a dire è non solo il Primo Essere o Primo Ontologico ; ma anche la Prima Idea o Pria mo Psicologico. Sicchè non solo anno le cose tutte da Dio l'essere loro, ma anche la loro intelligibilità. Verità già insegnatadal fon datore dell'Accademia , il divino Platone , il quale disse che l'Idea di Dio è pelmondo intelligibile quello che il sole è pel mondo visibi le,e che l'essere assoluto dà alle menti nostre l'esistenza e spande su loro e sugli obbietti della scienza illume della verità« detí v 8.& Tlothuns oùoxv xai adnocías» come il sole, che non solamente rende vi sibili le cose , m a dona loro eziandio il nascimento , l'accrescimento e la maturita « τον ήλιον τοϊς ορωμένοις ου μόνον , οίμαι τήν του οράσθαι δυναμιν παρέχειν φήσεις , αλλά και την γένεσιν αυτών όντα ». Quindi pel'Julia sta quel metodo detto deduttivo,osillogistico, che dai principii va alle conseguenze,ma noncome pretendeva ilfondatoredelPeripato,ilqua le facea il sillogismo posteriore all'induzione, ed il cui scopo non c o n sisteva in altro che in applicare i principii alle cose particolari a meglio rifermarle. Il Julia ha capito bene , che l'induzione non può darci punto tanto iprincipii proprii a ciascuna scienza, quanto iprincipii co muni ed assolutamente universali.I principii sono ontologici edori ginalmente presenti alla intelligenza, secondo diceva ildivino Pla tone,e nongià puramente logicied astratti,secondo diceva Aristo tile, che livoleva prodotti la merce dell'intelligenza con gli elementi fornitici della sensazione. Nè debbe dirsi che il Julia neghi l'indu zione : ei l'ammette, e nel senso di venir essa provocata, sostenuta e guidata in noi dal lume di certe idee generali sempre presenti al l'anima nostra,essendoun impossibile elevarsi da qualche fatto in dividuale e variabile all'idea della legge generale e permanente, sen za averci di già nella mente, almeno in una maniera vaga e con    fusa, l'idea di ordine, di generalità e di stabilità. Laonde dice La foret nella sua Storia dellaFilosofia Antica,in parlando di Aristo tile « Comment s'élever de la perception de faet contingents et relatif à l'idée de principes nécessaires et absolus, si le necessaire et l'abso lu sont entieremant étrangers à l'intelligence? ». Dunque pel Julia , come per ogni giobertiano, si deve partire di Dio per costruire la scienza filosofica « ossia dalla idea somma ed improdotta , perché è quel principio supremo che illumina e rende conoscibili gli altri principiimeno generali e senza di cui non potrebbe aversi quella sintesiobbiettiva,cheargomentadinecessitànelsuomoto organico la gerarchia dei principii scientifici ; e deve radicarsi in un prin cipio assoluto,supremo,universale,immutabile, ilquale, reggendo colla sua virtù ogni singolar passo del procedimento razionale, ac corda ed unifica tutti imomenti del discorso ideale, e tutta insieme 1.umana enciclopedia. Laonde diceva saviamente nel suo dotto di scorso intorno alPanteismo il Prof. Enciro Attanasio, direttore del Periodico La Carità diNapoli« Sintesi senza gerarchia di priucipii io non intendo nell'ordine dell'idee, come non vedo nell'ordine u mano sociale e nell'ordine fisico di natura. E ingradamento di ge rarchie che ponga in atto una sintesi universale torna impossibile a concepire pur col pensiero senza un principio supremo, essenzial mente uno ed immutabile, che sia il centro immoto che governi i moti del multiplo e del diverso e tragga a sè ed accordi il multi ploedildiverso».Laonde,lasciandochel'induzionenon condu ca ai principii , a ciò che è universale , sia che dessa fosse posi tivistao come la intende ilPositivismo moderno, siache fosse anche nel senso di Aristotile, ci facciamo a lodare il Julia per avere ei scelto quel sistema, che parte dall'idea dell'Assoluto reale per co struirela scienza,non sipotendo,pertanteetanteragionidettee ridette,porsi per primo conoscibileciò che non è prima cosa; per chè sarebbe, seguendo questa via, un turbare l'armonia della scien za filosofica; giusta che vien fatto dai psicologi, i quali partono dal contingente, ed oșano spiegare l'assioma degli assiomi, la verità pri ma con la verità seconda, e separare l'ordine di esistenza da quel lodiconoscenza, ilprimopsicologicodalprimoontologico,dando que stoperprimofilosofico.Diquinonpotremmo essererimproveratiche atorto,sedicessimo,che iseguacidelpsicologismo diAristotile,(non però di quelle di S. Tommaso ch'è ben altro, siccome dimostrammo in un'articolo riguardante questo S. Dottore, già publicato nell'Ate neo di Torino ) siam lontani da una vera scienza; perché, come dicem mo di sopra, la scienza è con la sintesi, e la sintesi co'principii,e la gerarchia dei principii scienziali nel principio sommo, Dio, radica ta.Siechèscienzasull'analesiè scienzaeffimera,èscienzadinome, essendo disgregazione, e tale è la filosofia di Aristotile,siccome è conto da quei due principii ammessi da lui « Nihilest in intellectu,quod prius non fuerit in sensu » e che l'anima nostra si rassomiglia ed una tavolarasa« Δείδ'ούτωςώσπερενγραμματειωώμηθένυπάρχειεντελεχεία γεγραμένον.  82 È quantunque fosse vero,che Aristotile ammettesse l'intelletto at tivo profondamente distinto dalla sensibilità, essendo quello che opera   83 $¢%su ciò che ci vien porto dalla sensazione, per tirarne od indurne avec lemonde intelligible;sun intervention n'apportedonerien de now eri veau à ce qui est déposé dans l'àme par suite de la perception des 0C sens, il nepeut qu'exercer son activité et travaillier sur ce qui est racu dans l'intellect paseif. L'intellect actif d'Aristote nous semble jouer , redans la formation de la connaessance,un rôle exactement samblable à 1021"celui que joue la reflexion de Locke; ni l'un ni l'autre n'ajoutent ta rien à l'objet fourni par la sensation, toute leur action seborné à éla: )doaborer cet objet» Dunque nonpuò farsi ammeno di ammettere col ret.Julia e la scuola giobertiana l'apprensione diretta ed immediata , din cioè l'intuito dell'Assoluto, e ritenere essere questi la prima idea, la l'oprimaconoscenza,che,perla viadiun primo guardare,vieneal. into:l'intelletto umano nello stato d'intenebramento, che la riflessione di in poi, la quale èun secondo intuito od un ripiegamento dello spirito e sopra il primo intuito, chiarifica e fissa, e non già che la si acqui isti e conosca in forza del raziocinio, passandosi dalla cognizione a iilistratta, ottenuta per la via dell'induzione, a quella concreta del V e on& ro Assoluto, avendo ben dimosorato altrove, che i psicologi si tro fost vino in grande errore, credendo ed insegnando, che Dio siccome ve fosesritàassiomatica,essendouniversale,necersariaed immutabile,debba 18 essere astratta,e che vi bisogna di forza indispensabilmente il ra ley ziocinio per ascendere, mediante essa verità astratta, al vero primo buik ed assoluto, mentre, siccome facemmo notare in proposito del P. M i lone Insomma,senzamenarla piùinlungo,dellainsignescuola on anda tologica è il Julia, siccome l'ha mostrato co'suoi vari scritti di ar veratgomento filosoficoeconquello, veramentestupendo,Discorsointorno allavitaedalleoperediFernandoBalsano,incui,prendendoa consi ost: d e r a r e q u e s t o d i s g r a z i a t o d o t t o C a l a b r e s e , d i v e n u t o v i t t i m a d e l p u g n a ledi un assino, e,considerandolo non solo quale oratore egregio ed acutocritico,ma anche qualeillustre cultore dellescienzefilosofi cinc c h e , e f o r t e a m a t o r e d e l s i s t e m a o n t o l o g i c o , p a l e s a a c h i a r e n o t e i s u o i O. * p e n s a m e n t i i n f a t t o d i f i l o s o f i a , c h e s o n o i n d u b i t a t a m e n t e q u e l l i d e l P l a diotonismo, cristianizzato da S.Agostino,ammirato da S.Tommaso e på Dante, divulgato neitempi modernidalGioberti, ed abbracciatodalla th, maggior parte de'pensatori nostrani. Questo libro del Julia , che ci avemmo in dono da lui medesi i mo , palesa ad evidenza non solo la scuola filosofica cui appartie ne; non solo la lucentezza delle idee , ond'è corredata sua mente ; e nonsolol'affettoperlapatriagrandezzaquantoapolitica,governo e civile,scienze,lettereedarti;ma dàancheprovadellaperiziache l'universale ed elevarci sino alla concezione dei principii; pure non to bisogna dimenticarci che nella teoria dello Stagirita è desso affatto & vuoto, senza alcun rapporto diretto col mondo intelligibile,da potersi pelo d i r e c h e n e l l a c o n o s c e n z a e s e r c i t i l ' u f f i c i o n è p i ù n è m e n o d e l l a r i ostruflessionediLocke.Edice bene ilLaforet «Danz latheorieduSta ta, girite l'intellect actif est tout a fait vide et n'a nul rapport direct «Profilo Bibliografico pubb. nella Rivista Itoliana di Palerino ela:Anno IV,N. 11,nonci ha cosa più chiara, che essa verità assio -artormatica primitiva è obbiettiva in sommo grado,appunto per le sue veritacaratteristiche di universalità, necessità ed iminutabilità. COSS me adal tile. // ne    84 ha ei nell'idioma nazionale. Sicchè è a rallegrarci con lui dei buoni studi,dell'amoredellenazionalidottrine dell'eccellenzadelsiste ma che ha adottatonelle scienze speculative,anteponendo (fra idue sistemi che veramente possono dirsi i più perfetti, essendo ambo sin tesisti, cioè a dire razionalo-empirici od empirico-razionali ) l'onto logismo alpsicologismo,e,fuggendo, quelloche èpiù, gli eccessi del razionalismo e dell'empirismo,e quei tali sistemi erronei, idea lismo epositivismo,pei qualidelira lagioventù moderna,da cui cam minandosidiquestopasso,noncipossiamoattendere,senon un ar veniresventurato. ProsegvailgiovaneJuliaisuoistudii filosofici, e ci offra lavori speculativi di maggior lena, per poterlo vie meglio ammirarlo, e rallegrarcene con lui.  Delle dottrine filosofiche e civili di G. V. Gravina per Fer dinando Balsano, con saggio sulla vita e sulle opere del Gravinapelprof.VincenzoJulia.— Cosenza,Tip.Mi gliaccio, 1880 (un vol.di pag.CIV-410). G. V. Gravina di Rogiano (1664-1718) è considerato dai più come poeta e letterato segnatamente pel suo trattato della Ragione poetica,e come insigne giureconsulto, specie per lasua opera De ortuetprogressujuriscivilis.Ma eglime rita,sotto un certo rispetto,d'essere altresi considerato come filosofo e per le dottrine speculative che professava e per quei sommi principii a cui s'informano i suoi scritti di G i u risprudenza e di Filosofia civile, dovendo le scienze partico lari e d'applicazione, quali sono appunto le discipline giuri diche e pratiche.esser precedute ed illuminate da una scienza speculativa più alta ed universale,cioè dalla Filosofia pro priamente detta. A nostri giorni il calabrese Ferdinando Balsano si pro pose di far meglio conoscere le dottrine filosofiche e civili del Gravina, studiando accuratamente e con intelletto d'amore le opere del suo grande concittadino.Ma ilBalsano,non che pubblicarlo,non potècompiereilsuolavoro,perchè trafitto dal pugnaledell'assassino!Ilprof. Vincenzo Juliaha raccolto la sacra eredità del suo venerato maestro,dettando un'eru dita ed ampia monografia sulla vita del Gravina, e pubbli candola insieme al lavoro inedito del Balsano. In questa vita  e   troviamo uno specchio breve ma fedele dei tempi del Gra vina, specie riguardo agli studii; la pittura del carattere morale del pensatore rogianese,un cenno de'suoi numerosi scritti e de'suoi meriti letterarii. L'opera del Balsano,dettata in una forma quanto castigata altrettanto elegante ed elevata,contiene una larga esposizione dei pensamenti del Gravina diretti a coordinare tutte le sue meditazioni di filosofia speculativa e di morale , di religione edidiritto,diesteticaed'insegnamento,dipolitica edi civiltà.È divisainduelibri.Nelprimosiragionadelledot trine civili. Quanto alla filosofia, dal Balsamo si cerca dimo strare che il Gravina, studioso delle tradizioni dell'antica filosofiaitalo-greca,siattenne specialmente alla dottrinepla toniche(comeapparisceanchedall'OrazionesuaDe instaura tione studiorum),armoneggiandole col progresso della civiltà cristiana,delle scienze particolari e massime del Diritto,egli cheavevameditatoleoperedeisommi giureconsultiromani, e che aveva piena la mente ed il petto della grandezza di Roma antica. Le dottrine platoniche da lui professate gli fecero innalzare la mente ai principii sommi del Diritto, a meditare la riforma delle dottrine civili,ed a comprendere la sintesi el'armonia delle parti principalidel sapere.Difatti, il Gravina vedeva la scienza umana come un'armonia e ricordava la piramide in cui egli dice espressamente avere gli antichi savi simboleggiato la scienza umana e la natura delle cose : il che significa che per lui l'ordine della scienza risponde a quello della natura, l'idealità alla realità; e come il primo vero è l'idea divina nota da principio all'intelletto creato, così il primo essere è Dio creatore della scienza e dellanatura.Tutto l'ordinedeicontingentirealihasuacausa efficiente nell'Assolutoche licrea;tuttol'ordinedelle cono scenze empiriche ha sua origine nell'idea eterna, presente sempre all'intelletto umano e norma o tipo a cui si riscon trano le cose finiteapprese per esperienza sensibile(pag.162). E sotto questo aspetto può dirsi che ilGravina precorresse al Gioberti,che in cima del sapere e dell'essere doveva porre Diocreatore.Adunqueilcontemporaneo delViconon segui le dottrine del Locke, ma invece quelle più elevate di Pla Vol. XXII.  225 Disp. 2. 15   tone e del Cartesio, quantunque non și mostrasse sempre giusto verso Aristotile. Ma se al Gravina non può negarsi un certo valore filo sofico, i suoi veri meriti risguardano, più che la Filossfia elaLetteratura,laGiurisprudenza.Preceduto daAlberico Gentile, da Francesco Bacone e dal Grozio, il Gravina non solo ricercava l'origine del Diritto e ne indagava iprogressi (De ortu et progressu juris civilis), ma sapeva altresi elevarsi alle idealità o ai principii supremi del Diritto. Quindi è che a lui debbono molto la Storia del Diritto, specie,diquelloromanocheinsegnavainRomastessa,ela Filosofia del Diritto. Il Gravina, esaminando l'origine e la natura del Diritto, non lo separava dalla Morale come oggi fanno taluni, perchè nella legge morale,da cui scaturiscono tutti i doveri umani, trova pure il suo primo e vero fon damento il Diritto. Egli precorse al Savigny da un lato, al Vico e Montesquieu dall'altro, interpretando con larghezza di veduta la storia civile e giuridica di Roma. Il Balsano si era proposto di ritarrre ilGravina non solo qual eminente giureconsulto, sì ancora qual filosofo civile, mostrando com'egli additasse le norme eterne d'ogni società umana (che ammetteva come un portato della natura) nella vita privata e pubblica, nell'ordine privato e politico. Ma ripetiamo,ilBalsano non potè compiere l'opera sua;la quale delresto,merita di essere conosciuta e studiatadai cultori della Filosofia e delle scienze giuridiche, benchè ci sembri scritta con entusiasmo soverchio verso ilproprio concittadino risguardato come filosofo.  DISCORSO Recitato nella sala dell' Accademia Cosentina ). Piansi,o Signori,nella mia pensosa solitudine,la morte immatura del caro Fiorentino, che mi fu amico e fratello !; vengo ora a glorificarne l'ingegno nel tempio della scienza, innanzi al simulacro del vecchio Telesio, al cospetto di dotti Accademici,di fervidigiovani,dieletti ingegni,di distinti Professori, che meglio di m e , nato e cresciuto nelle m o n tagne, potrebbero valutarne i forti studi e la vasta intelli genza. Parlerò con franchezza, senza adulazioni rettoriche, senza intemperanze di lodi; dinanzi ad uomini gravi ed a u steri le apoteosi e la rettorica sono un fuordopera. La pa rola mendace sarebbe un insulto alle ceneri di Fiorentino, uomo sovero ed aperto, che disdegnò il lenocinio e le bel lezze oratorie, seppe dire con schiettezza di calabrese la v e rità ad amici e nemici, e fu audace demolitore del vecchio m o n d o ; inesorabile agl'ipocriti ed ai ciarlatani. Nella rioca personalità del Fiorentino grandeggia il filosofo ed il pensa tore;lascio,per ora,ad altri di me più competenti, esami nare il letterato, lo scrittore, ed il cittadino; io vi parlerò soltanto dell'Autore del Giordano Bruno;del Saggio Storico sulla Filosofia Greca ; del Pomponazzi e del Telesio; quat tro titoli di gloria , che basteranno a rendere immortale il nome di Francesco Fiorentino. 1 Vedi il mio articolo sul Fiorentino pubblicato nell'Avanguardia n u meri 101-102, riprodotto dalla Gazzetta Calabrese e dal Calabro in Catan zaro; dal Corriere del Mattino e dall'Ateneo, in Napoli.  74 GIORNALE NAPOLETANO   FRANCESCO FIORENTINO 75 L'Italia , o Signori, fu scossa nei principi del secolo, dopo la grande Rivoluzione dell'ottantanove , dalla parola del nostro Galluppi, che il Gioberti chiamò il Nestore della sapienza italiana. Senza mistiche intemperanze , senza voli metafisici, ei richiamò, nuovo Socrate, la mente degli Ita- liani ad indagare il m e e la coscienza ; a scrutare profon - damente ilsubbietto umano;e,rigettando lequiddità scola- stiche ed il sensismo di Condillac e di Tracy, contribui à rinnovare presso di noi il metodo naturale , e fu salutare reazione all'esorbitanze speculative del secolo decimottavo , Conscio della esigenza storioa del secolo decimonono,il Gal luppi iniziò presso di noi lo studio della storia della filoso. fia ; indovino , pur combattendola fieramente , l'importanza speculativa della sintesi a priori, che in parte accetto ; e, benchè avesse trascurata la Rinascenza,Telesio,Bruno, Cam . panella, può dirsi , il vero educatore dello spirito filosofico in Italia. La Calabria, terra delle grandi iniziative e delle magnanime audacie, si elevò col Galluppi all'altezza del pensiero moderno, e fu, sarei per dire, la squilla settimon tana del Campanella, che risvegliò in Italia il pensiero lai caleedumano,ilpensieropuro eduniversale.IlFiorentino, nella sua prima gioventù , studiò il Galluppi, ne comprese l'indirizzo storico, o gli piacque la nuova e socratica spe culazione, che un modesto filosofo iniziava nella estrema Calabria, sulle rive di quei mari, che ripetono ancor l'eco delle armonie pitagoriche. Il Galluppi, con le sue serene e casalinghe meditazioni, non bastava ad appagare il libero ed irrequieto ingegno del Fiorentino , aquila delle montagne , che volea spezzare le pastoie del vecchio mondo e della speculazione galluppiana. In mezzo a queste ansie intellet. tive sopravvenne il Gioberti a scuotere le menti dei Meri. dionali con la magica parola ; ed il Fiorentino, assetato di ideale e di patria, come tutti i forti ingegni di Calabria, accettò anch'egli la mistica speculazione giobertiana , o fu idealista platonico ed ortodosso. E chi potea, pria del ses    santa, resistere al fascino del Gioberti? Chi rinnegare la p a tria, ch'egli glorificò nelle pagine immortali del Primato ? Il Guerrazzi chiamò il Gioberti scintilla piovuta dal Vesu vio sulla cima delle Alpi : veramente ci è in lui l'audacia, la fiamma profetica, la divinazione geniale del Mezzogiorno; ci è Vico e Campanella , S. Tommaso o G. Bruno ; ci è la fede dei credenti, lo spirito ribelle dei tempi nuovi, l'ome rica fantasia di Platone , l'austero sillogismo di Aristotile. Nei dolori dell'esilio,egli scrisse la Teorica del Sopranna turale, ch'è l'apoteosi della vecchia ortodossia ; riassunge nella Introduzione tutto il passato teologico e tradizionale, rinnovò il realismo del Medio -Evo , sposandolo al pensiero moderno; risuscitò nel Primato, con l'entusiasmo del pro feta, i titoli della nostra grandezza, e lanciandosi col volo dell'Aquila alpigiana nel grembo dell'Essere , credette di averne interrogate le profondità, ringiovanito il vecchio Dio della Scolastica , e sciolti tutti i problemi con la formola ideale e con l'Ente creatore. Gioberti non arrestossi a metà; e,ringagliardito da nuovi studî, ingegno audace e progres · sivo, com'era, accettò gran parte della speculazione moder na, e, spastoiandosi dal vecchio teologismo, dalle utopie del Primato , inaugurò la nuova Italia col Rinnovamento ; la nuova Scienza con la Protologia, e la nuova Chiesa con la Riforma Cattolica , e con la Filosofia della Rivelazione ; sebbene non interamente emancipato dalla vecchia ortodos sia. Ai tempi che il Gioberti pubblicò il Rinnovamento, ed il Massari le Opere postume del suo grande amico, le C a labrie erano chiuse dalla muraglia cinese,ed ilnuovo pen siero laicale del Gioberti non potè penetrare nei nostri b o schi. La gioventù era ancora innamorata del misticismo e della formola ideale; i vecchi eroi della Rinascenza non erano ancora conosciuti tra noi ; o B. Spaventa , esule a Torino, dove pubblicò dal 54 al 56 i suoi stupendi Saggi Critici su Bruno e Campanella, era quasi ignorato in Calabria. Il Fiorentino, non bisogna nasconderlo,avea subito an.  1 FRANCESCO FIORENTINO 77 Scrisse allora a Napoli il Giordano Bruno , un Saggio giovanile, come schiettamente confessa l'Autore ; composto nel 1861 in tutta fretta nelle vacanze , e disteso in soli v e n totto giorni.Quel Saggio, benchè imperfetto, segna ilprimo momento della critica evoluzione del Nostro in filosofia, il passaggio , cioè , dal vecchio dommatismo giobertiano alla speculazione libera e laicale dei tempi moderni. Nello studio del passato il Fiorentino trovò la spiegazione dei posteriori sistemi;e,poichè non poteva valutare le teoriche del Bruno, senza risalire alle origini,guardò la Dialettica nelle scuole di Crotona , di Elea e di Alessandria , e ne rilevò con sa gace giudizio l'importanza speculativa nel gran dramma del greco pensiero.Si occupò,egli ilprimo,presso di noi,della stupenda Dialettica del Cardinale di Cusa, e ne indagò i le gami col sistema del Nolano , dove causa e principio sono una medesima cosa , e la esteriorità della causa e la inte 1 Leggeva i SS. Padri in una cella di monaci: ne trascrisse molto ; e ne pubblicò alcune opere nel 1858, a Messina, voltandole in italiano. 2 Stefano Cusani; G. B. Aiello; Giuseppe del Re; E. Salvetti; S. Gatti; i Fratelli Spaventa; P. E. Imbriani; De Meis; Tari; Savarese; Perez; M a n cini;De Sanctis;Marselli;Trinchera;Turchiarulo;Floriano Del Zio;F. Quer cia ed altri.  pen siero germanico, diffuso nel Mezzogiorno dal 40 al 60 dai più forti ingegni del Napolitano ?; indovinò la grandezza spe - culativa della Rinascenza , e si sentì attratto dall'eroica fi gura del Nolano. ch'egli l'influsso dei Santi Padri ',e,principalmente, come dicemmo, del filosofo Torinese, che da lui studiato profon damente in gioventù, non fu dimenticato nella età matura, in mezzo ai più splendidi trionfi del suo ingegno. Venne però il sessanta, con le sue titaniche audacie, e con le sue immortali demolizioni a svegliare il Fiorentino dalla sua fede dommatica e dal suo sonno ortodosso;e,benchè non ancora emancipato dal vecchio Gioberti,si volse a studiare il   riorità del principio si ricongiungono nell'Uno ,ch'è insie me causa e principio. L 'Uno nel sistema del Nolano, è to talità assoluta; vale a dire che come principio della forma zione dello cose è minimo,come totalità perfetta ó massimo; come identità delprincipioedellafinepigliailnome diUno, ove tutto si assorbe, come in vasto ricettacolo; ove il pensiero e la realtà si confonde in una identità suprema. In ciò con . siste il Panteismo di G. Bruno , che il Fiorentino rigetta, soggiogato dal vecchio Gioberti , confutando l' eccletismo poco omogeneo , gli ondeggiamenti e le contraddizioni del Nolano , che fonde insieme la Causa dei Pitagorici, l'Uno degli Eleatici , ed il Principio degli Alessandrini. E pure , ad onta delle prevenzioni ortodosse e giobertiane , il F i o rentino non disconosce le novità laicali, di cui è ricco il sistema del Bruno; la maggioranza del pensiero, la menta lità, che splende come intelletto divino, mondano , partico lare,ed ilconcetto direlazione,ch'è tanta parte dellaPro tologia del Gioberti , e costituisce il verace assoluto ; l'asso luto , cioè , della moderna speculazione. Dallo oscillare del Bruno tra la Scolastica e la Rinascenza deriva che il finito ora è una vana parvenza, ora la massima realtà; ed il N o lano ondeggia tra Eraclito e Parmenide , tra il flusso c o n tinuo e la rigida immobilità. Il Fiorentino mette Giordano Bruno in relazione con Spinoza e Schelling , ne nota col solito acume le differenze e le somiglianze, o conclude che i tre filosofi si rassomigliano nella prospettiva generale del sistema, hanno il medesimo intendimento di unificare la scienza e d'immedesimarla col mondo ; cercano fuori del pensiero il centro della loro unità , e costituiscono quella serie di Panteisti, che si dicono obbiettivi; l'Uno, la Sostan za,l'Assoluto sono tre creazioni parallele.Il Fiorentino ana lizza del pari la Dialettica di Hegel e di Gioberti , m o n u menti immortali della moderna speculazione, e nota che in Hegel e Gioberti contrastano due tradizioni, due filosofie, e due nazioni; la filosofia della creazione e la filosofia della   identità, il cattolicismo ed il razionalismo, l’Italia, patria di S. Tommaso o di Dante,e la Germania, patria di Lutero e di Göthe. Fiorentino, senza sconoscere la importanza della filosofia tedesca, glorifica la vecchia formola giobertiana, il cattolicismo e la rivelazione; rigetta quasi il pensiero m o derno, desidera il rinnovamento della antica filosofia italia, na,e,collocandosuglialtariilGiobertidella Teoricaedella Introduzione, chiude il Saggio con queste parole: «Giova « netto ancora,sognava che il nome di V. Gioberti suone « rebbe terribile sui campi di battaglia, e venerando tra le « arcale della Università. Quel mio sogno giovanile si è av « verato in gran parte e la indipendenza e l'unità della « mia patria,propugnata da quel grande statista, è presso « a compiersi ; mi sarebbe ora assai dolce il vedere una « scuola ed un'accademia iniziarsi, diffondersi , giganteg « giare in quel nome si caro ad ogni italiano, con quella « formola,che assomma la scienza e la fede dei nostripa. « dri. Da esse soltanto noi potremo sperare giovani, c o m « pagni di quelli che combatterono a Curtatone, e cacciarono « gli Austriaci da Varese e da Como.» Giordano Bruno portò il Fiorentino ad uno studio più accurato della greca filosofia, di cui è anche specchio e ri produzione,inbuona parte,laRinascenza italiana,dellaquale il Nolano è l'eroe ed il martire. Professore straordinario di Storia di filosofia a Bologna nel 1862, il Fiorentino si diede a studiare alacremente e con tenacità di calabrese Aristotile e Platone.Si fatti studii, come racconta egli stesso,gli apri rono nuovi orizzonti, gli allargarono la vista intellettiva, o gli fecero scorgere ildifetto fondamentale della filosofia gio bertiana. Fiorentino si allontano dal vecchio Gioberti, non colcuore,sibeneconlamente,ch:ifortiamori deigiovani anni non possono dimenticarsi.Rude e franco calabrese,intel lettoaustero,ilFiorentinosiemancipò dalla scuola filosofica ortodossa,quando si convinse che il mito e la leggenda pre valevano sulla pura speculazione, sul pensiero libero o lai  FRANCESCO FIORENTINO 79   cale. La critica, che Aristotile fa di Platone,a cui Gioberti si rassomiglia,fece schivo il Nostro dal mescolare immagini ad idee, e lo inimicò con le metafore filosofiche la severa, m a ineluttabile critica di Aristotile; non i Tedeschi lo c o n vertirono alla nuova filosofia , degna dei tempi moderni, si bene il rigido, inesorabile Aristotile !...' Cosi il Fiorentino scese, calabro atleta, nella arena della greca filosofia, e gio vine ardente fu trasportato lungo le sponde dell' Ilisso , tra gli alberi fragranti, che ne ombreggiano il margine ; sotto il bel cielo di Omero , tra le dispute di Socrate, i simposî platonici , e le austere meditazioni dell'Accademia. Sapeva egli fondere ed accordare insieme l'idea greca all'idea ca labra, rappresentata nei tempi antichi da Pitagora, e tutte e due al nuovo pensiero laicale del Rinascimento , rappre sentato presso di noi da Telesio e Campanella. Ringiovani così il pensiero , irrigidito nelle ferree strette della Scola stica e del vecchio Gioberti ; e farfalla , ch'esce a poco a poco dal suo involucro ; montanaro calabrese, che si trasfi guraman mano sottoilsoffiodeinuovi tempi,sisentìumano ed universale nei Dialoghi di Platone e nella Metafisica di Aristotile.La Grecia fu infatti la terra dove sbocciò ilfiore dell'Arte , e germogliò il seme dell'umana ragione ; fu la patria del pensioro speculativo, della Dialettica, e della C a tegoria, a cui metton capo ipiù vasti sistemi dell'antica e dellamoderna filosofia.Fu lapatriadiPlatone,cheperge nialità e divinazione speculativa, per universalità di pensa menti , per movimento drammatico , per colorito artistico e finezza di dialogo, grandeggia su tutti i filosofi; egli fonde in sè l'eloquio facile e maraviglioso di O m e r o e l'attica b e l lezza di Sofocle. La vecchia Grecia s'idealizza e si trasfigura nel gran discepolo di Socrate;la speculazione diviene arte e d r a m m a , e d il p e n s i e r o , c h i u s o n e i c a n c e l l i d i T a l e t e e d i Eraclito, abbraccia ilmondo, si fa universale ed umano,a n  80 GIORNALE NAPOLETANO 1 Vedi Filosofia Contemporanea in Italia, p. 152, 153, Napoli, 1876.   FRANCESCO FIORENTINO 81 ticipa ilCristianesimo e preludia all'età moderna Egli fonde, come disse bene il Ferrai, in una grande unità isofisti e i politici, gli artefici e i guerrieri ; uomini , donne , vecchi, fanciulli, schiavi e liberi, e in questo mondo in azione ti si fa duca e maestro, innalzandoti, migliorandoti, affinando le tue facoltà, spesso spirandoti nell'anima un sacro entusiasmo per il buono , per il vero ; quell'entusiasmo , aggiungo io , che crea i grandi fatti della storia, e quei capolavori del l'arte, che si chiamano Convito ed il Fedro, ove si spec chiatuttoilsorriso dell'Ionio mare,l'apollinea bellezzadei Greci , il fascino di Diotima e di Aspasia ; la morbida poesia dell'Attica e l'arguta ironia di Socrate ; divina bellezza , m u . sica arcana , che rende unica la Grecia tra le nazioni più civili e più artistiche del mondo . N o n volendo abusare della vostra bontà , o Signori , io m i restringo per ora a Platone ; che ci porterebbe assai lungi il voler discorrere completamente del Saggio Storico sulla filosofia Greca ; discutere ed esaminare Aristotele e quanto altro riguarda le Categorie ed i problemi della filosofia m o derna , di cui si occupa il Nostro nel suo stupendo lavoro. Il Fiorentino scrutò con animo libero e spassionato la vec chia speculazione ellenica;laGrecia anteriore a Socrate,ove campeggiano le grandiose figure di Talete, di Senofane, di Eraclito, di Parmenide , di Anassagora ; o dove si elabora a poco a poco l'idea platonica e la categoria aristotelica . È un quadro ricco di pensiero, ed anche di poesia,che con vivi colori ci tratteggia ilFiorentino con quella sua ge nialità, con quella lucida esposizione, che tanta grazia a g giunge ai suoi lavori speculativi; incantevole lucidezza, che ritrae i limpidi Soli diffusi sui patrî vigneti e sulle marine di Cotrone ... Il Saggio Storico sulla filosofia Greca sarà s e m pre, secondo il nostro debole parere, l'opera più bella, più geniale del Fiorentino ; ci è il profumo e l'entusiasmo della gioventù, ci è la vita artistica, anche in mezzo alle severe meditazioni del pensatore ; quella vita, che solo può dare la Giorn.Napol,Vol.I.- Gennaio 1885 (Nuovissima Serie).  6   gioventù , nella sua più rigogliosa fioritura ed espansione. Ciò nonostante,spassionati estimatori dell'ingegno del nostro amico , riconosciamo in quel saggio lacune ed imperfezioni, che l'autore medesimo, uomo schietto e leale,vi riconobbe, ricco di nuovi studi sulla lingua, sulla filosofia, sulla lette ratura greca ; dotto nel tedesco e conoscitore profondo dei moderni lavori alemanni su Platone ed Aristotile. Intanto facciamo notare che il cardine fondamentale della critica del Fiorentino furono le idee platoniche e le categorie aristo teliche , che sono e saranno sempre le colonne e le pietre granitiche dell'umano pensiero. La critica platonica (come nota il Chiappelli nel dottissimo studio sulla interpetrazione panteistica della dottrina platonica) si è a giorni nostri ri fatta da capo ; e la quistione si aggira sui fondamenti di tuttoilplatonismo,valeadire,sulgenuino valoredelladot trina delle idee, che forma il centro del sistema platonico. Dalla interpetrazione di codesta dottrina dipende quella di tutto il resto del sistema ; è il presupposto , da cui , come tanti corollarii, scendono tutte le altre parti di questo m o numento immortale del genio greco,che scosso dalla potente critica di Aristotile , travisato dal Neo -platonismo , rivive anche oggi , dopo le vicende di tanti secoli. Varie e con traddittorie in ogni tempo furono le interpetrazioni delle idee platoniche;furono scambiate,ora con gl’ideali estetici,che vagheggia l'artista, ora ritenuti come generi logici e c o n cetti intellettivi,ed ora come gli eterni paradimmi del divino artefice,modelli esemplari delle cose, e quindi esistenti per sė;laquale interpetrazione,che sitrova diffusatraiNeo platonici,traiPadridella Chiesa,ed in tuttoilMedio-Evo, anche oggi è sostenuta da valorosi critici. È certo poi che le idee in Platone sono trascendenti , immobili e separate dalla materia,e che carattere principale del Platonismo è la irreconciliabilità tra l'idea e la materia, tra l'intelligibile ed ilsensibile:Le piùingegnose interpetrazionideicriticimo. derni,e massime del Teicmuller,che fa di Platone un Pan.  82 GIORNALE NAPOLETANO   FRANCESCO FIORENTINO 83 teista,non han potuto colmare l'abisso,che nel greco filosofo separa l'idea dal cosmo, l'elemento intelligibile dall'elemento materiale. Relegate, come sono, le idee in un mondo inac cessibile, non possono esercitare nessuna influenza, nè sul l'essere, nè sul divenire delle cose sensibili, nė spiegare il formarsi delle cose medesime.Anche la relazione delle ideo con Dio, osserva il Fiorentino ', rimane indefinita; le idee non hanno causalità, perciò la causa efficiente deve trovarsi accanto a loro , o concorrere con loro alla formazione dei mondo ... Platone non tenta neppure di conciliare Iddio con le idee ; perciò accanto alla speculazione tu trovi ancora il mito, non come semplice ornamento,ma come elemento in tegrale del sistema... Solo è certo che l'altissima idea è per Platone quella del Bene ; la quale ora s'immedesima con la ragione divina, ora è quella, a cui guardando il Demiurgo dà forma al mondo ; se non che non si può risolutamente affermare che il Bene s’immedesimi con Dio,ch'è un dato della tradizione piuttosto che della filosofia , ed in Piatone non essendo chiara quella immedesimazione , non riesce perfetto il collegamento tra le idee e la mente divina, ed il sistema delle idee riesce poco coerente , e sempre o n deggiante ed incerto.Il Fiorentino nel Saggio slorico rigettò la interpetrazionedelle idee platoniche come riminiscenze di una vita anteriore, come modelli e paradimmi del mondo, come pensieri divini ; e ritenne che Platone non è sempre lo stesso ne'suoi Dialoghi ; giovane filosofo da poeta,m a turo senti bisogno di spiegare la scienza,e ricorse alle idee ; negli ultimi anni adottò il linguaggio pitagorico a proposito delle idee , e le considerò come numeri. La dottrina delle idee platoniche , trattata davvero scientificamente , consiste pel Fiorentino nei Dialoghi il Teeteto , il Sofista, ed il P a r . menide. Il Sofista prepara il Parmenide, a cui dà il fonda mento ed ilprincipio;ed ilParmenide sostituisceallame. 1 Manuale di Storia della Filosofia, Parte I, p. 61-65, Napoli, 1879.  1   84 GIORNALE NAPOLETANO tessi ed ai simulacri la relazione, ch'è la vera natura e la vera condizione di tutte le idee ; è la loro vita e fecondità . IlFiorentino,austero intellettoelibero pensatore,preferiva alla lirica del Fedro e del Simposio , alla epica narrazione del Timeo ildramma ideale del Parmenide.Fiorentino scrutò profondamente i tre dialoghi platonici , o ne rilevò il vero significato. La scienza, egli disse , non è sola sensazione e sola opinione, come vogliono iJonici, ed ecco ilsignificato del Teeteto; la scienza non è la sola cognizione dell'Uno,come pretende Parmenide,e neanco dell'essenze immobili ed ir relative dei Megarici;ed ecco ilsignificato del Sofista.La scienza è l'una e l'altra opinione e cognizione, relazione di entrambe ; ed ecco il risultato ultimo del Parmenide ; tanto vero che, senza la relatività delle idee, il Parmenide rimarra sempre un enimma, il sistema di Platone un leggiadro tes suto di favole, di reminiscenze oltremondane ed assurde, e di sperticate idealità. Scrutando meglio il Sofista ed il Par . menide, Fiorentino asserisce che il principio da cni muove Platone nel Sofista , ossia l'Ente , e quello da cui m u o v e nelParmenide,ossial'Uno,sonolostesso principio;senon che l'ento è rigido, immobile, indeterminato, e l'Uno è d e t e r m i n a t o , e p r o d u c e i M o l t i . L ' u n o è il m e d e s i m o e d il d i . verso del Molli; come viceversa il Molti si può dire mede. simo ed altro dell'Uno; tanto che, a parere del Fiorentino, abbiamo nel Parmenido esplicito ildiverso e l'altro; sebbene rimanga in Platone nell'ombra la causa della estrinsecazione della idea, e l'apparire della materia. Platone non colse la vera natura dell'altro,che non può essere nè un'essenza,nė un'idea;sìbene una relazione;egliperciò oscillò dall'uno all'altro di questi due termini,per trovarvi la materia, ed, irresoluto, la fè credere una volta essenza,ed un'altra idea. Pare che in tutte queste sottili ed ingegnose interpetrazioni del Fiorentino entrasse un po ' il sistema e la critica moderna dell’Hegel , sempre caro al Nostro , come quegli che fu la sintesi più stupenda del pensiero laicale tedesco,da Lutero    FRANCESCO FIORENTINO 85 a Kant. Felice Tocco, di cui tanto si onorano le Calabrie, nelle sue dotte Ricerche Platoniche, esplicitamente osserva che il Fiorentino interpetra il Parmenide di Platone alla maniera di Hegel , e che , ad onta delle argute considera zioni sulle stonature della Dialettica platonica, nou tenne iu conto il fare negativo di tutto il dialogo. Il trapasso, dalla teorica della metessi e degl’influssi a quello della dialettica assoluta,èun saltocosìsmisurato,chedifficilmentepotrebbe farsida un uomo,per vastissimo ingegno ch'egli abbia,sopra tutto nel tempo,in cui la speculazione è ancora sul nascere, ed i sistemi filosofici sono appena abbozzati.E ingiusto per ciò, conchiude ilTocco,ilraccostamento della dialettica pla tonica all’egheliana, e non bisogna interpetrare con Hegel Platone,etrasportare ilmondo antico nel mondo moderno!! Alla origine e natura delle idee è intimamente legata la Dialettica platonica ; essa non è altro , se non che la legge dell'intreccio ideale, il modo come si forma il Logo , o la Ragione universale ed assoluta. Il ritmo della Dialettica vera di Platone, secondo la interpetrazione del Fiorentino,è nel Parmenide ; il contenuto del quale si risolve in una trilo gia,di cui la prima parte presenta la idea solitaria dell'Uno, e l'annulla;la2.lamedesima idea appaiata con quella del l'essere, e con essa in contraddizione ; la 3. risolve la con traddizione nel momento, ch'è il diventare; momento e di venire,che sono mutuati dalla dialettica Hegeliana,e rendono infide e soverchiamente moderne le interpetrazioni del Fio rentino. Egli era convinto, quando scrivea il Saggio Storico, che la dialettica Hegeliana è modellata sulla platonica, e che le prime tre categorie del filosofo alemanno, l'essere,ilnon essere,ed ildivenire ricordano l'uno, l'ente, ed ilmomento del Parmenide. La Dialettica platonica , monumento gran dioso dell'umano pensiero, ispirò in ogni tempo gli Artisti ed i Filosofi; ed ilFiorentino conchiude che Goethe v'im  1 Op. Cit.pag. 132-133,Catanzaro, 1876.   Lo studio della filosofia greca fece rientrare il Fiorentino nel mondo moderno,ch'egli avea sfiorato col lavoro giova- nile del G. Bruno ; il greco pensiero, che più degli altri è pensiero umano ed universale, ricondusse il nostro alla R i nascenza,la quale, se inizia l'epoca moderna con le ribel lioni speculative del Bruno, del Telesio e del Pomponazzi , usufrutta con Telesio e con Bruno la parte viva ed immor . tale della greca filosofia,ilconcetto della natura,autonoma od assoluta, e l'idea dell'Infinito generante.Il Fiorentino,in gegno fecondo e progressivo,accettò i pronunziati, gli ardi menti , o ,le ribellioni della Rinascenza ; nelle fresche c o r renti della natura ei sentì ringiovanirsi, ed il suo 'pensiero divenne più ampio ed umano . L'epoca della Rinascenza è, o Signori , un'epoca gloriosa , battagliera , o titanica ; la Scolastica è assottigliata ; la cavalleria ed il feudalismo se ne vanno;la Teocrazia perde ilsuo prestigio,e la sua uni versalità ; la poesia si emancipa dai terrori mistici ; alle fo. sche pitture del trecento succedono i freschi colori del T i ziano e del Correggio ; nasce lo Stato laicale, e Machiavelli crea la storia moderna. I filosofi rappresentarono in questo gran dramma una parte gloriosa,e specialmente ilmantovano Pomponazzi,che per audacia speculativa,per energia di ca rattere è uno degli eroi più spiccati del Rinascimento ita liano. Il Fiorentino, che come fiero calabrese e libero pen satore,era naturalmente attratto verso i grandi precursori ed apostoli, si mise a studiarlo con coscienza di filosofo e p a zienza di critico; sgobbò sui polverosi volumi in folio, si chiuse come un vecchio anacoreta nella sua cella di Bologna; ed affrontó con leonino coraggio l'intolleranza e lo scherno degl'insipienti , le beffe dei gaudenti, che senza forti stu lii,  86 GIORNALE NAPOLETANO parò la movenza del Dialogo ; Hegel il severo ragionamento ; il Vico vi attinse lo schema della Scienza Nuova ; Rosmini il principio del Nuovo Saggio ; ed a quell'opera immortale bisognerà ricorrere ogni volta,che si vorranno scandagliare davvero le origini dell'umano pensiero.   FRANCESCO FIORENTINO senza accurato lavoro vogliono , con la veduta corta di una spanna,giudicare gli uomini serî ed austeri,gli uomini che sacrificano tutto sull'ara del pensiero e della scienza ; i n domiti o tetragoni nei loro propositi ; Capanei,che muoiono e non si arrendono... Il Pomponazzi insorse fieramente contro la Scolastica, e contro la greca filosofia; e nello spiegare la natura dell'a nima, ed il processo del conoscere non ha esitato punto,nè riprodotte, come altri fecero, le incertezze aristoteliche. Sgombrate tali perplessità, il filosofo mantovano si liberò dall' intelletto separato di Averroè , dell'intelletto agente dello Afrodisio , senza però emanciparsi del tutto dagl’in flussi e dalle intelligenze superiori; ondeggiante ancora , c o m e tutti gli uomini della Rinascenza , tra la Scolastica ed il mondo moderno ;tra S. Tommaso e Giordano Bruno. Stre mò , è vero, il Pomponazzi la trascendenza in filosofia; con siderò l'intelletto umano come sviluppato dalla potenza della materia ; ma non volle attribuire all'intelletto dell'uomo la concezione dell'universale ; e disconobbe la vera m e diazione,che l'uomo fa tra lecose eterne e caduche.Egli scruta insistente i più ardui problemi metafisici, religiosi e m o r a l i , la P r o v v i d e n z a , il F a t o , la L i b e r t à , la P r e d e s t i n a z i o n e e la Grazia ; e porta in tutte queste discussioni la novità e l'audacia,proprie dei filosofi del Rinascimento ;piega più dalla parte della determinazione fatale degli Stoici che da quella della vuota determinabilità dell’Afrodisio; che l'arbitrio non può essere primo movente;e l'aver compreso il difettodella dottrina della libertà , come è in Alessandro ed in Aristo tile; l'aver intravveduto nel fato stoico maggior ragione volezza costituisce uno dei massimi pregi della critica del Pom ponazzi . Disconobbe inoltre il valore assoluto delle R e ligioni; ne spiegò con ragioni naturali l'origine, il fiorire, la decadenza ; le riconobbe portato dello spirito, eterno ed irrequieto viaggiatore, che tutto rinnova e distrugge. Con questa divinazione il Pomponazzi fu anche precursore dei  1 87 4 1 1 4   88 GIORNALE NAPOLETANO nuovi tempi, e della scuola moderna ;se non che mancogli la perfetta coerenza nelle dottrine,e non si sollevò al con cetto profondo dello spirito, come lo intendono i moderni. L'ingegno del Pomponazzi , benchè novatore e ribelle, non si era completamente spastoiato dal vecchio mondo scola stico ed aristotelico ;ei non poteva ai suoi tempi cancellare del tutto il Dio di S. Agostino e di S. Anselmo; non po teva scartare intieramente la Provvidenza oltremondana , von poteva combattere a viso aperto le tradizioni della fede o r todossa. Ei però aveva intravveduto che al Dio estramon dano , collocato fuori la coscienza , dovea fra poco succedere il Dio intimo e vivente; che la vecchia forma religiosa do vea ringiovanirsi e al Motore immobile di Aristotile dovea succedere l'Infinito di G. Bruno. È questo il merito pre cipuo del Pomponazzi , che a buon dritto deve chiamarsi il precursore della Riforma e del mondo laicale moderno ; e l'averlo saputo rilevare con sagacia di critico coscienza di storico è gloria del Fiorentino. Ciò segna un altro m o mento importante nella evoluzione critica e speculativa del Nostro ; la quale avrà il suo compimento ed il suo massi - mo splendore nel Telesio,e negli studii sulla idea della N a tura nel Risorgimento italiano. Il Telesio infatti costituisce l'ultimo e più splendido momento speculativo e storico del Fiorentino, il quale rap presenta perciò in Calabria il più alto grado , la più alta manifestazione dellacriticastorica,edilcompletosvegliarsi presso di noi della coscienza laicale ed u m a n a ; rappresenta la continuazione della Rinascenza,ingrandita, però,trasfor mata e divenuta pensiero europeo ed universale coi Saggi critici di B. Spaventa. Fu primo lo Spaventa in Italia a dare la debita importanza a Bruno ed a Campanella , ed a tutta la filosofia del Rinascimento , rivendicando gli eroi del nostro pensiero, ed i martiri obbliati della ragione. « L ’ I talia, disse B. Spaventa , apre le porte della civiltà m o « derna con una falange di eroi del pensiero. Pomponazzi ,    FRANCESCO FIORENTINO 89 « Telesio,Bruno,Vanini, Campanella,Cesalpino paiono figli « di più nazioni. Essi preludiano più o meno a tutti gl'in « dirizzi posteriori , che costituiscono il periodo della filo « sofia da Cartesio a Kant ... Vico è il vero precursore di « tutta l'Alemagna... » (Prolusione alle Lez.di fil. nap.62).  Le austere parole e i forti ragionamenti del filosofo abruzzese eccitarono il potente ingegno di Fiorentino,e co.. ine il nostro schiettamente confessa , lo fecero orientare in quell' arruffio, ch'è la speculazione della Rinascenza , e lo innamorarono di quel periodo filosofico, che prima si con tentava di ammirare, senza averne perfetta e matura cono scenza,piuttosto,perseguire ifacili lodatori che per veder ne realmente l'importanza coi proprii occhi. Educato dalla critica nuova e poderosa dello Spaventa , Fiorentino percorso da padrone e da maestro il campo glorioso della Rinascenza italiana, e v'impresse orme da gigante.Gli uomini nuovi od audaci;imartiri dell'idea piacquero tanto a Fiorentino,ed eis'immedesimò loro,aspirandone l'immortale profumo,ed il soffio della giovinezza. La Calabria, che, senza conoscersi , spesso si vilipende e si schernisce,non era per lui barbara c selvaggia, covo di briganti, e nido di cannibali; era in vece terra di filosofi, di critici, di poeti ; culla di martiri e di eroi, terra artistica ed originale,a cui,ultimo tra gl’in gegni calabresi,consacrai tutto me stesso,e per la quale non cesserò di combattere, finché avrò forze, finchè in Italia vi saranno uomini senza coscienza storica e senza carità di patria. La Calabria (e perdonate questo amore indomabile alla mia patria nativa , alle mie care montagne ) seppe a n ch'essa indovinare e comprendere i tempi nuovi , uscire dal fondo de'suoi burroni,e mettersi a paro coi più grandi eroi della Rinascenzaitaliana.La Calabriaseppe anch'essa com battere con la sua selvaggia vigoria lo impero , la scuola , edilpotereteocratico.Ilcalabropensiero,che ancorasiac cusadiangustiaemunicipalità,è,com’iodimostrai,un pensie ro,non solo nuovo ed originale,ma eziandio italiano,europeo   90 GIORNALE NATOLETANO  ed umano . Universale in filosofia, inizid con Telesio lo stu dio dellanatura,sconosciutaaipadrinostri,velatapertanto tempo dalle ombre del Medio-Evo;nel tetro carcere della Vicaria creò col Serra la scienza economica ; con Galeazzo usci dal cerchio della poesia provinciale , e fuse nel calabro Sonetto la vigoria di Dante e la musica del Petrarca ; pre corse col Campanella a Descartes ; e con Gravina anticipo Vico e Montesquieu, o creò la nuova critica italiana. Fiorentino , che , com'egli stesso canto , avea Saldo il voler ne le virili imprese, E indomita la tempra calabrese, innamorato della vecchia Calabria, fa rivivere con magiche tinte le belle ed eroiche figure dei padri nostri, il P a r r a sio, A. Telesio, il Martirano, il Quattromani, il Tarsia, T. Cornelio,M. A. Severino,loSchettiniecc.;filologi,poeti e critici precursori , che usciti dal fondo dei nostri boschi illustrarono le prime Università, e diedero un potente i m pulso al Rinascimento italiano, col fondare e promuovere quella stupenda Accademia Cosentina, segno in tutti i tempi di odio inestinguibile e di amore indomato,la quale è tanta parte del dramma grandioso della Rinascenza;diede all'Ita lia grandi latinisti da emulare il Poliziano , il Sannazaro , il Fracastoro , e sorpassarne altri con Coriolano Martirano; porta scolpito il fatidico motto : Donec totum impleat orbem ; decrescit numquam ,nec fulmine laeditur;e servi di modello a tutta Europa col Telesio per la scoverta del vero metodo naturale. Sotto questo doppio aspetto la vide l'occhio sagace del Fiorentino, e stupendamente la illustrò , sollevandola a quel posto, che merita, e meriterà sempre, finchè le tradi zioni del pensiero laicale ed umano rimarranno vive in C a labria,e ne trasformeranno lavita,l'arte,elaspeculazione; finchè vi saranno uomini insigni come il Presidente Sca glione,ed ilSegretario Greco,che ne accresceranno le glorie e l'importanza , continuando l'esempio dei loro illustri a n tenati, che noi, gaudenti e borghesi , abbiamo dimenticati, sconosciuti , e fino scherniti.... Il Fiorentino , che il dotto   FRANCESCO FIORENTINO 91 Canonico Scaglione avea precorso con lo studio sul Telesio, pubblicato negli atti dell'Accademia fin dal 1843, studiando a fondo, al lume della nuova Critica, le opere del filosofo cosentino, proclama che il Telesio inaugura i tempi moderni , r i t i e n e l a N a t u r a , c o m e il p r i n c i p i o u n i v e r s a l e d e l l e c o s e , il ricettacoloditutteleforme,e,come schietto naturalista,ri. getta Aristotile e la Scolastica, la Teosofia, e la Magia . Il Telesio, evitando la contraddizione aristotelica , che rompe l'unità della natura,parte da una materia primitiva ed uni ca,e da una contrarietà universalissima, ilcaldo ed ilfred do , nature agenti , dalla cui azione sulla materia nasce la generazione e la corruzione. Telesio , pur ritenendo la necessità di un'opposizione universale e di un'unica materia, il che era anche ammesso d'Aristotile , ne ha profondamente modificato il valore. La forma aristotelica, ch'era sempre assoluta ed estranaturale, non gli parve principio naturale , e la sbandì , e la rigettò dalla sua filosofia, con la rude franchezza del calabrese . In una parola , la natura non ha mestieri per essere spiegata di principi, che non siano naturali; e così fu vinto e sor passato il Medio -Evo, e la Filosofia delle Scuole. Il soffio giovine e fresco delle nostre montagne spazzò lo nebbie sco. lastiche , e Telesio , meditando gli arcani della natura nel suo ameno podere, sito sulle rive pittoresche del fiume Co. r a c i , f u v e r a m e n t e il p r e c u r s o r e d i B r u n o e d i G a l i l e i , l ' u o . mo nuovo ed audace, che scrolla il vecchio mondo medie vale, ed inaugura l'epoca moderna. Telesio, rigettando l'entelechia aristotelica, vi sostitui una sostanza sottile , mobile , lucida, che per lui costituiva il principio della vita;semplificò inoltre ilsistema del natu ralismo,tolse ildissidioimmenso,che funel Medio-Evo tra la natura esterna e l'organismo vitale , e fuse insieme nel suo novello sistema la Fisica e la Biologia . Fiero ed i n e sorabilo calabrsse, rovescio tutto, non diè quartiere ad Ari stotile ed alla Scolastica , o combattė senza ipocrisia , ed a    fronte scoverta; diede una nuova teorica dell'anima, sorpas. sando il Fedone platonico, e l'intelletto universale di Ari stotile; fondò sul senso la conoscenza, ed ammise il mondo etico come un effetto e risultato naturale. Nel vasto dramma telesiano, che il Fiorentino stupen damente tratteggia, brilla di nuova luce il martire di Nola , il q u a l e , e b b r o d e l n u o v o D i o , d e l l ' I n f i n i t o g e n e r a n t e , e d e l l a Natura,allarga efeconda iconcetti delfilosofocosentino,éd accetta pienamente il naturalismo . Il vero assoluto rimane però in lui un punto oscuro,dove i contrarii si affondano e spariscono; il Nolano, più che cogliere con l'atto intellet tivo l'assoluto, vuole trasformarsi in lui, e divenire Iddio. E leroico furore, che lo trasporta in grembo dell'Infinito, non il sillogismo speculativo , e la serena meditazione ; • l'ebbrezza dell'amante, che lo trasfigura in grembo alla di vina Anfitrite.Bruno,uomo del Mezzogiorno, nato presso il Vesuvio,ha scosso in ogni tempo la mente dei pensatori, ed il cuore dei poeti... Eroe leggendario del pensiere, ca valiere errante della scienza , mistico 'o ribelle , inesorabile flagellatore dei cucullati pedanti , egli che avea vestita la bianca tunica di S. Domenico, ilBruno percorse,si può dire, da un capo all'altro l'Europa disputando, combattendo,af. frontando ilvecchio Aristotile,laciarlataneria delleScuole, e l'infallibilità dei dottori. Vilipeso e adorato, schernito glorificato , ora debole innanzi a'suoi carnefici, ed ora su - blime ; tradito a Venezia dal Mocenigo , suo discepolo ed ospite, è consegnato al Sant'Uffizio, dissacrato e condan . nato a morte. Quando in Roma gli fu letta la sentenza , G. Bruno,con calma eroica e tremenda ironia, ha ilcorag. gio di profferire innanzi ai giudici queste memorande parole: « Maggior timore provate voi nel pronunciar la sentenza contro di me,che non io nel riceverla .»Il 17 Febbraio 1600, l'eroe della verità, e del pensiero laico fu legato come un volgare malfattore ad un'antenna,e,bruciato vivo in Campo di Fiore, imperterrito il Bruno non mandò nè un sospiro,  92 GIORNALE NAPOLETANO .   FRANCESCO FIORENTINO 93 nè un lamento; le fiamme furono la sua apoteosi;e benchè le sue ceneri fossero state disperse al vento, corsero l'Eu ropa come polline fecondatore , e vi propagarono i semi del libero pensiero, e della filosofia moderna.... F. Fioren tino, pensatore e poeta,che dopo più maturi studî avea ac cettata in tutta la sua pienezza la Rinascenza , ritorna su G. Bruno , e lo vede nel Telesio sotto un nuovo punto di vista; e se prima,nel suo lavoro giovanile, lo avea rigettato, come panteista ed antimistico, ora lo guarda , e lo ammira come ilveroeroe delpensiero,l'araldoeilmartire della nuova e liberafilosofia;degno, come disse B. Spaventa,di avere un posto accanto a Prometeo ed a Socrate. Quel che Fiorentino scrisse di B. Spaventa , permettete , o Signori, che io lo riferisca al nostro fiero concittadino : « Il grande « ideale del filosofo per Fiorentino era il Bruno ; pari forse « avrebbero avuto il fato, se fossero vissuti nella stessa età. « Fiorentino avrebbe guardato il rogo con lo stesso corag . « gio; Giordano avrebb » disprezzato con la stessa serenità, « non il rogo, ma qualcosa di peggio,quella rete sottilissi. « ma di cabale, onde la turba ignara circonda gli animi al « teri;che tentano slacciarsi da maltesi agguati:non ilrogo, «ma lacalunnia divota:dopo ilTorquemada ilTartufo: < siamo ben progrediti noi. » Il vecchio Dio della Scolastica si assottiglia in G. Bru . no; in lui si fondono Dio e l'Universo; la creazione è svi luppo di Dio stesso, processo necessario , che rende cono scibile e reale l'attività di Dio : in una parola, il Dio del Nolano non vive se non per la natura,e nella natura:fuori e senza di lei sarebbe un'astrazione ed un fossile. La n e cessità della creazione, che il Bruno insegna a viso aperto, lo mette di accordo col futuro naturalismo spinoziano , e lo fa precursore della moderna filosofia alemanna. La filosofia del Rinascimento , incarnata in Telesio ed in Bruno , per avere considerato l'assoluto , come natura , ha preparato il grande avvenimento dello Spirito, la cui speculaziane inco  1 2 1   mincia con la coscienza cartesiana. L'infinita natura , ini ziata da un Sofo di Calabria,è la gran parola della R i n a scenza e dei tempi moderni !... Telegio e Bruno preparano inoltre la vasta speculazione di Tommaso Campanella,indo mito Frate, che sopporta,con la fiera costanza del Calabrese 26 anni di carcere,ed un giorno intero di torture. Permet tete,o Signori,ch'io m’inchini al martirio di Campanella, ed al rogo di G. Bruno ; martirio e rogo , che sono la gloria del Mezzogiorno,e del libero pensiero;la condanna più elo. quente dei feroci persecutori dell'umana ragione !... C a m p a nella, che sublimò alla dignità di principio speculativo la divinità latente del Bruno , è il vero tipo dell'uomo cala bro, ricco d'ingegno e di cuore, intemperante, battagliero, audace , iniziatore. È uomo originale e contraddittorio ; fa l'apoteosi della Teocrazia e della Spagna,della Scolastica , del Medio-Evo,e poi scrive laCittà delSole, e vagheggia la democrazia ed il socialismo, la sovranità del libero pen siero, e lo Stato laico moderno . Ei fonde in sè due età di verso , la età della fede , e l'età della ragione ; Platone ed Aristotile , Telesio ed il Cusano ; l'austero sillogismo del pensatore,e le vaporosità dell’Astrologo;le apocalittiche vi. sioni dell’Abate Gioacchino , o la fredda sottigliezza del M a chiavelli ; l'ossequio alle somme chiavi , e l'audace ribel l i o n e d i L u t e r o .... C a m p a n e l l a , s t u p e n d a m e n t e t r a t t e g g i a t o da Fiorentino , ritorna , come metafisico , a Platone , ed al Medio-Evo;come sensista e psicologo, anticipa,nella teorica del senso e della cognizione, Cartesio, ed il mondo moder no . Ei proclama la identità del pensiero e dell'essere ; se non che sì fatta unità non acquista la forza di vero prin cipio,e Campanella,ad onta delle sue stupende divinazioni, ondeggia ancora tra lo schietto naturalismo ed il sistema delle cause finali. Alla filosofia naturale , che tolse in p r e stito ed usufruttuò dal nostro Telesio,Campanella aggiunse una metafisica, che ne rimase staccata; mettendo ogni sforzo per levarsi alle categorie supreme della natura e dell'essere,  94 GIORNALE NAPOLETANO : >   FRANCESCO FIORENTINO 95 non seppe applicarle alla natura, e con tutta l'energia p o derosa di assurgere all'Unità, restò nella opposizione , ch'è il carattere principale del naturalismo. Il solo naturalismo, chiarendosi col Campanella impotente a spiegare la genesi della Natura,non potė, esso solo, sciogliere il gran proble. ma del mondo moderno,e conciliare l'universale col parti- colar :; ricomprendere il senso in una forma di pensiero più larga, dove l'opposizione riapparisse trasformata ed unificata in una sintesi suprema e dialettica. Tale fu il progresso a p portato nel naturalismo,o nella filosofia moderna da Galileo e Descartes; tali sono le glorie del nuovo pensiero, antimi stico e laicale , iniziato da due filosofi , nati tra i selvaggi burroni delle nostre Calabrie... Fiorentino,dopo aver richia mato alla memoria degli Italiani Tommaso Cornelio , e M. A. Severino , glorie dell'Università Napoletana , e filosofi telesiani; dopo aver valutato la importanza del Galilei e del Bacone , si arresta col Descartes alla soglia della filosofia moderna, lieto che la speculazione filosofica si stacchi dalle scienze naturali,preliminare,per altro,necessario nella evo luzione del pensiero moderno,e siposi nel Cogito cartesia no.La natura si emancipa, il pensiero si scioglie, e diviene più libero e più snello; lo Spirito , che tutto ringiovanisce e trasforma , fondo ed armonizza Telesio e Bruno , C a m p a nella e Galileo , Bacone e Descartes , e la silvosa Calabria entra co'suoi filosofi, e coi suoi profeti, co’suoi martiri, e co'suoi precursori nel dramma glorioso del mondo moder no... Vi rientra sotto l'impulso del Fiorentino , che, nato presso Stilo, tocca di nuovo la squilla dimenticata del C a m panella , annunzia ai giovani calabresi l'aurora di nuovi giorni, la completa emancipazione dalla Scolastica e dal Me . dio-Evo;larisurrezione delpensierodellaMagna-Grecia, fuso, ingrandito,trasformato nel pensiero moderno...La Ca labria e l'Accademia Cosentina non potranno dimenticarlo ; non potranno disconoscere l'austero filosofo, che ne illustrò stupendamente le glorie, e con magico pennello ne ritrasse    96 GIORNALE NAPULETANO gli apostoli , e gli eroi , rivendicando i padri nostri al c o spetto di un secolo banchiere eborghese ... La morte lo colse ancor giovine sulla soglia del tempio del Rinascimento; glo. ria al virile sacerdote della scienza,che muore,adempiendo il suo dovere , mentre si folleggia , deridendo gli eroi del pensiero,imodesti operai del mondo moderno,e sigittalo scherno sulle ossa dei grandi precursori della nuova Filoso fia e della nuova Critica.... Io ho fede che la gioventù ca labrese,così ricca d'ingegno e di cuore, cosi amante delle patrie glorie,avrà un culto per gli uomini,che muoiono sulla breccia , martiri della scienza e della patria ; per le anime generose,che non curano le amarezze della vita, l'esilio,la povertà, la carcere,ed accettano, fino le torture di Campa nella,finoilrogodiG.Bruno.....Ho fedechelaCalabria si rinnovi nel lavacro della Rinascenza e negli studii virili delpassato,elagentileedottaCosenza,riccaperme di care e dolorose memorie,prodiga di tanto sangue alla patria, di tanto contributo d'ingegno alla storia del pensiero ita- liano, s'ispiri nell'austera figura del più grande dei suoi figli, il cui busto parla tra il verde degli alberi la gran p a rola del Risorgimento alla nostra gioventù... Ho fede che l'austera parola del filosofo di Sambiase non suoni più nel deserto, e la sua tomba, su cui piansero amici e nemici,sia un'ara dove le novelle generazioni attingano iforti propo siti, e, quel che più ci preme,la serietà della vita, l'abne gazione,ilsacrifizio,ed illibero pensiero....Così,o gio vani, non sarò costretto a ripetere gli amari versi dell’au - stero poeta di Recanati : Oggi è nefando stile Di schiatta ignava e finta Virtù viva sprezzar lodare estinta!....Vincenzo Julia. Julia. Keywords: implicatura, filosofia calabrese, Campanella, Telesio, Sanctis, Leopardi, Mazzini, Garibaldi, Gioberti, Spaventa, Hegel, Aligheri, Serra, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Julia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688613097/in/photolist-2mPVkio-2mPysn2-2mKxDSr-2mJ4GHU-2mDUFSN-RkfqJ3-Bq5Z5y-CkaHMd-i7brtE

 

Grice e Juvalta – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo.  Grice: “At Harvard, I said I was ‘enough of a rationalist,’ but perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” – Grice: “Juvalta has explored the limits of rationalism, in connection with value and reason: if value is irrational, how can co-operation be rational in terms of an accord to follow conversational maxims?” essential Italian philosopher. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già riconosciuto il valore morale è dunque vano e illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare.» I genitori sono il barone Corrado Juvalta, cancelliere della locale pretura originario di Villa di Tirano, e Teresa Zanetti di Tirano. Dopo gli studi liceali trascorsi tra Como e Sondrio, si iscrisse a Pavia dove si laureò con una tesi su Spinoza, sotto la guida di Cantoni. Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza, Spoleto. Vinse il concorso per la cattedra di filosofia a Torino. Le tematiche accademiche prevalentemente trattate riguardarono soprattutto i valori di “libertà” e di “giustizia” con ampie riflessioni etiche. Convinto della loro generalità e universalità, arriva ad auspicarne una loro applicazione anche nello studio delle categorie politiche ed economiche. La filosofia di  Juvalta è una profonda riflessione sull'etica portata avanti con il metodo dell'analisi. Anche se, come risulta dalla sua, non troviamo nei suoi scritti importanti contributi sul piano gnoseologico ed epistemologico, dal momento che il suo principale campo d'indagine fu prevalentemente il Sistema morale, possiamo affermare senza dubbio che sia il kantismo che il Positivismo costituirono il nucleo di fondo della sua posizione, da cui sviluppò la sua impostazione metodologica.  Il positivismo, in particolare, è stato il primo grande sistema filosofico con cui si è misurato nella prima fase della sua elaborazione concettuale. Tuttavia Juvalta sarà costretto a prendere presto le distanze da una siffatta visione della morale. I motivi di questa rottura sono da imputare principalmente al suo fermo rifiuto di accogliere come sostenibile la pretesa positivistica di fondare l'etica sulla scienza. Il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità o la connessione modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta nella costruzione di una teoria ed in particolare di un sistema coerente di valori morali, il giudizio che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica deve configurarsi come “un giudizio originario” che ha una natura eminentemente etica, quindi non scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica scientifica appare insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un giudizio di valore, di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura fattuale, è indubbio che la costruzione di un sistema morale debba essere condotta con criteri di scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su criteri logico-deduttivi e viene definita dalle relazioni logiche che intrattengono in essa i propri elementi costitutivi, così anche la costruzione di un sistema etico deve seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente l'identica costruzione formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di mantenere al loro interno un imprescindibile grado di coerenza, se vogliono risultare sostenibili ed essere così accettati dalla ragione (pratica). Quando parla di ‘teoria’ dell’etica lo fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo dei valori all'interno di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza di un sistema morale nella misura in cui un coerente insieme di valori viene rigorosamente derivato (volitativamente) da un postulato, imperativo categorica, o assioma, di valore morale capace di fungere da premessa all'intero sistema (allora come insieme di massime universalisabili). Una volta prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente al Kantismo; in particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte delle posizioni assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero che ha come obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg riadattando i contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità” per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica. Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse.  Una volta riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout court la filosofia morale di Kant.  L'ambito della giustificazione e l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia, l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta  Juvalta a distinguere l'ambito della giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi valori.  La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo, asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione morale?  La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato, ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per sé…”  I valori ultimi di Libertà e Giustizia Tuttavia il messaggio di Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non secondario. Anche se esiste una pluralità di valori che la coscienza può scegliere come fini, i quali si costituiscono come le linee guida della nostra condotta individuale, una volta adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’ del valore è possibile intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che la ragione può immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa arbitrarietà della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti debbano essere visti come i fini supremi su cui improntare la nostra vita e organizzare le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale della libertà; secondo il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia costituiscono le pre-condizioni della vita morale e gli unici due valori morali, tra quelli possibili, che risultano “universalizzabili”. Essi sono le sole precondizioni che permettono ad ogni essere umano di realizzare il proprio fine e di raggiungere i propri beni (valori), in vista di una totale e piena realizzazione della natura umana, senza limitare la ricerca della moralità dell’altro. Libertà e giustizia rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema morale con i quali poter impostare se non un vero e proprio ripensamento di ogni pratica umana almeno una profonda critica ai modelli di società dominanti quali l'individualismo liberale, l'autoritarismo o la proposta socialista. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggettive necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di fronte ad ogni altro. La giustizia esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggetive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. Non fu un pensatore sistematico e non cercò mai di definire un sistema filosofico che rendesse ragione dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente contrario a ingabbiare la riflessione filosofica in grandi narrazioni o in arbitrari sistemi, dal momento che era fermamente convinto che il pensiero soprattutto etico sfuggisse per così dire all'idea di sistematicità e organicità che aveva così profondamente caratterizzato la maggior parte del lavoro filosofico ottocentesco.  D'altra parte questo non significa che non esiste un'evoluzione all'interno della sua riflessione, o che la sua proposta nel campo della filosofia morale non trovi una sua coerenza e una struttura di fondo ben definita. Saggi: “I due limiti del razionalismo etico: liberta e giustizia” (Einuadi, Torino). Contiene:“ Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia” (Bizzoni, Pavia); “Le dottrine delle due etiche” in «Rivista filosofica», “Per una scienza normativa morale”; in «Rivista filosofica», “Il fondamento intrinseco del diritto”; “Su i limiti della morale” (Bocca, Torino); “Il metodo dell'ECONOMIA pura nell'etica, in «Rivista filosofica»); “Postulati etici e postulati metafisici”; in «Rivista di filosofia»: “Postulati etici e imperativo categorico,” «Atti congresso di filosofia» (Bologna)(Formiggini, Genova); “Sula pluralità dei postulati di valutazione morale” in «Atti del congresso della società filosofica» (Genova) (Formiggini, Genova); “l vecchio e il nuovo problema della morale” (Zanichelli, Bologna); “In cerca di chiarezza”; “Questioni di morale”; “I limiti del razionalismo etico” (Lattes, Torino); “Il con-flitto morale”; in «Rivista di filosofia»; “La dottrina morale di Spinoza”; in «Rivista di filosofia», “D. Basciani, L’etica della giustizia” (Desclèe, Roma); F. Picardi, La morale in Juvalta” (Filosofia, Marzorati, Milano); M. Viroli, “L'etica laica” (Angeli, Milano); Juvalta,  «Rivista di storia della filosofia»,  Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini, Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that I had I been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they doubt as to how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s little book, “Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a baron, from the ‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool they wore --. ‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta PARTE PRIMA IL FONDAMENTO DELLA MORALE 4  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO PRIMO IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il «vero» fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie- vito, né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun problema gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare come e perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la preparazione necessaria a sostituirgliene degli altri. ** * Il problema del fondamento è ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme da una preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la sua autorità è legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre il problema presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di interpretazioni e di giudi- zio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa accettare o re- spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione pratica spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un problema radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia- scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri, che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione diversi: I. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. II. Dimostrare la bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi l'osservanza. 5  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta III. Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento: a) sia nella storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente. 6  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO IL FONDAMENTO CERCATO NELLA REALTÀ La persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme della condotta, non so- lo possano ma debbano avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse ap- pare piú chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte. Perché la «scienza» si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente valido; e la «metafisica» insisteva nel porre in evidenza la relativi- tà, la contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di do- veri. Ora l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non negabile per la sua massiccia eviden- za: che si trovano degli uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine. Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico A; se trovia- mo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconosce- re semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A? Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con prin- cipi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né sull'altro, cioè che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica, una certezza che non ci dovrebbe essere. «Tu qui! Ma è impossibi- le!» dice la metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia inattendibile, perché dove si avvera, manca la  7  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ma se questa fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di che si alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli «leggi» scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza, qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se non si riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale. Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima vista una pedanteria. — Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pe- na di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto profondo smenti- re la loro negazione? Ammettiamo senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so- ciologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce2. competenza richiesta. Un libriccino pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa (Précis raisonné de Morale pratique, Alcan, 1907) si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostan- za caratteristica: che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello che è un luogo comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accor- do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti «quali che siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Nota VI: Metafi- sica e morale. E il Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi alla «Metafisica... definitiva» si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica? 2 Neanche è da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia allontanata.  8  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Quel che non può dare una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà «intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando il Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose, e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in qualunque entità esso sia riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la realtà è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfe- zione come sintesi dei due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten- za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possi- bilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è tut- t'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della «concezione immaginaria di un ideale» (La Morale et la Scienze des mœurs, Cap. V). Questa «conquista metodica» della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti — se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il cri- terio di questo meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi? Questo criterio non può essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era dipartita». 3 Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da un interesse (l'interesse teorico) e come tale sia, anzi è senz'altro, un valore (intellettuale): ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata.  9  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di valutazione che essa non trova nelle cose se non per- ché ve l'ha già posto, e ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co, ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta non soltanto la molla che spinge a ricer- care e a trovare le distinzioni tra gli oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli uni dagli altri, di pretendere che un giudi- zio di ciò che è, possa servir di fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. ** * In breve (e trascurando le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive): La realtà si può interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono- scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della Provvidenza diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco. La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la moralità come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il fresco quei che vi passano l'estate. 10   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta za costante dell'«etica scientifica» a identificare il problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità come criterio di moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio. ** * Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi (nel senso piú bello della parola), ingenua, di derivazione dei valori da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso Kant si è ve- nuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono «vere», poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano un si- gnificato morale, se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni co- scienza riprende faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella riflessio- ne consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore. Il momento che nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chia- ro e consapevole e si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, a- scendente o discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali. 11  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO IL FONDAMENTO CERCATO IN UNA GIUSTIFICAZIONE FINALE Illusione poco meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi di tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie. Questo sommo bene, questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo di tutti i valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza empirica, un fine inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che domina ben- sì, ma trascende la vita e la natura umana, e subordina di diritto ogni altra forma di bene e ogni cri- terio di valutazione. Alle due diverse concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine morali, dei quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa di derivare la valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto; qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si suppone che debba essere ammesso inconte- stabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore ad ogni altro. Ora l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si escludono gli altri caratteri) in questa sua supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa alternativa: o di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora- le che si crede di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche per altri rispetti; cioè sarebbe un valore (di altro genere) anche se non fosse valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo (fine: la felicità, o il piacere) riescono di solito (quando e nella misura che possono) a quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino, l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre quel che credono di derivare. ** * Dell'utilitarismo in generale e delle sue diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la centesima volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu notato e che piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la derivazione è impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una petizione di principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito (e che non è sempre neppure per la stessa persona il medesimo) ma abbia un contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria, simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa dimo- strare davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia l'osservanza costante delle norme morali. 12  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Con ciò non si sarebbe dimostrato che ciò che fa il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida della felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono- logici; che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione (s'intende e deve esser quasi superfluo avvertirlo) la considerazione dell'efficacia pratica o esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra valutazio- ne. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o si identifichi con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera, potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma nessuno sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è determinato, né determinabile se non ad arbitrio4; e solo significato comune e costante del termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri, di soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover- si trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in effetto sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come possa avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali, e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie. Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica) del valore morale5. ** * Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come principio e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un elemento; o 4 Ne ho parlato altrove (La dottrina delle due etiche di H. Spencer e la morale come scienza, pp. e 120-121) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare della soddisfazione della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo sia legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla verità psicologica, considerarlo come il fine della condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel valore che la coscienza riconosce come morale; e non è l'altezza della soddisfazio- ne che se ne possa attendere, che costituisce il pregio dell'azione, ma è il pregio dell'azione che misura l'altezza della soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che non se ne faccia lo scopo dell'operare.  13  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una condizione, o un momento dell'attuazione, di quel- lo. E qui giova premettere due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza: 1° Che questo valore supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il valo- re religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive. Fondare la valutazione morale sui valori reli- giosi è dunque presupporre che siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può crearli6 o sostituirli. 2° Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene, soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della conservazione quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. ** * Se invece si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e caratteristico del sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso, l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo aggiungere che non penso neppur per sogno di negare una possibile efficacia all'insegna- mento religioso in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai (salvo forse agli occhi di chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione di notizie o di idee, ma è vigore di convinzione, calore di affetti, opera di formazione; insom- ma, educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni dell'educabilità. E si suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto grano di sale. 7 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici, p. 199.  14  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stico riesce impossibile di concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e soprattutto mo- ralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la perfezione che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che trova realizza- to in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione morale la cui validità è accettata e ri- conosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi non è quella perfe- zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per- ché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori di altro genere. Questa priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé, questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica manife- stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per sé. E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa. Quanto all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una sicura conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione morale non è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla connessione dei valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare i valori morali come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e quindi i pre- cetti morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa; importantissima dal punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma estranea alla questione presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel che si è accennato sopra della possibile importanza pratica di una valutazione edonistica. Dire che l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine dell'olmo, e nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo anche a chi ami soltanto la vite. ** * Quel che si è detto dei tentativi di una fondazione edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un inte- resse diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico (notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle forme miste e intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti, hanno però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú significative, le due forme, nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra brevemente analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista i piú lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una interpretazione edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita- rismo teologico) e un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria (altruismo comtiano, mi- sticismo umanitario). ** * Da quanto si è discorso pare si debba concludere che queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e suggestive) nelle quali si cerca la ragione del valore morale nella sua connessione 15  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza con altri valori, abbiano importanza solamente nel rispetto strettamente pratico o ese- cutivo; in altre parole una importanza parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione con- forta, sorregge o surroga con motivi di altra natura e sgorganti da interessi diversi il motivo specifi- camente morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato che si propongano fini morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano, di costituire il fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della supremazia dei valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è fuor di questione che, no- nostante il carattere di artificiosità che si trova piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte notevole di verità; verità s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà questo carattere specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri ri- spetti; come d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non possa diventare, diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra valori che non siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli altri con la speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di vista dell'inte- resse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò che è oggetto di valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qual- che differenza caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valu- tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e al di là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un aspetto particolare, e forse non il piú importante. 16  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO IL FONDAMENTO CERCATO NELL'AUTORITÀ Il carattere di autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si traduce, tendono a far derivare questi ca- ratteri, e, quando siano considerati essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione, consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale. L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a) Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura, degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle dottrine e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione. Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il «progresso» del senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispon- denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un criterio — quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen- te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. ** * 17  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Se a una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori). Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale. E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di- ciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo l'altra. ** * Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è, nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come siano pos- sibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una concezione unitaria della realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni, dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto 18  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capita- le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale comune, e segnano la crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto, orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si ac- compagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata. Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la conclusione di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbe- dienza a un'autorità inconcussa e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali espri- mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti. Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu- tazione. 8 È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e dedu- zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti- fica le premesse minori dei suoi sillogismi valutativi.  19  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta La valutazione morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po' attenta. ** * La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire, tra i quali non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz- zarsi l'uno senza che sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigri- zia. Il valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non possono attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono, anzi consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconosci- mento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà. Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale, l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante, cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la possibilità di impulsi contrastanti. 9 Di qui nasce la tendenza incoercibile, manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il «vero» volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa; non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù.  20  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Da quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché si- gnifica non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. ** * Ma dunque i «sordi morali», se ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno, di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. — Ma hanno tuttavia e possono avere degli obbli- ghi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente, cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili anche da una coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un po' di pazienza. ** * Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza — data nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale. Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone per tal modo il valore. 21  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Questa disposizione di spirito fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e vo- luti come garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura costrizione esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma cosí nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale. Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me condizione imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un interesse diverso. ** * Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza, l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi, viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita, un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazio- ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio stesso della valutazione. 22  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ma lasciando ogni questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si accordino con essa. ** * Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme principali nelle quali si presen- ta, e si è presentata storicamente, la dottrina del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto, neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia insieme irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unifi- cazione non è posta, o l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o parziale con la coscien- za della persona. a) Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale l'Hobbes riconduce ogni criterio di morale e di di- ritto, esclude solo in prima istanza, cioè in apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo tirannico che nessun governo. ** * b) La seconda delle vie indicate conduce a far riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle 23  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta persone: sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali, sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari. Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore diverso. I) Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un giudizio morale che non è valido se cor- risponde alla valutazione di n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico (cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune, e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una legge ma non a farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui tutte le co- scienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si riconoscono due cose: 1° che per cia- scuna persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della propria coscienza; 2° che la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscien- za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi l'autorità della coscienza collettiva. ** * II) Quando si parla di fini della società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o, peg- gio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si trascura di tener pre- sente che i fini della società non sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso, e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io. Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre. Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società, ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza morale. 24  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo, e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta in ultimo che di un «punto di vista diverso»; e che, se dal punto di vista dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali, e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale. ** * Più breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú sottile e compli- cata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello stato e fa dello stato l'organo dell'Etici- tà. Perché in quanto la volontà dello stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente da- to o presupposto, quel valore morale che legittima il primo e dà autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore. ** * Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o e- 25  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta semplari di una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali, posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del consenso universale coincidono con quella della co- scienza personale? E in che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo? È legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni esteriori) dei secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento del dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare la condotta alla valuta- zione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presen- te e momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nasco- no, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un Potere so- prapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella coscienza individuale. 26  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO LA INVERSIONE DEI PROBLEMI RELATIVI AL FONDAMENTO DELLA MORALE Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già ricono- sciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i valori morali o valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che valgono essi come morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri per esempio che un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre quell'azione a una classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come morale, o nel dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o mezzo di attua- zione di un valore morale. I valori morali diretti e immediati, apprezzati e voluti per sé, sono dunque dati di una espe- rienza morale non riducibile ad altre forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità diretta e immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione morale (postulati etici in pro- prio senso). E una dottrina morale in quanto è sistema di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o sottintesi, di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che siano dati immediati del- la coscienza morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei postulati etici, le costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e un significato diverso se non opposto; e forse considerate da questo aspetto rivelano meglio la tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo morale di cercare il fondamento morale in una realtà ob- biettivamente data, e, in una conoscenza di questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione, il criterio della valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto, un'espressione della tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della sua interpretazione; di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la ragione del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni altro, che ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi l'autorità, appare la convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda, de- ve accordarsi coi valori morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da questi. E quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della civiltà) per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel trionfo conquistato, i titoli di nobiltà che spie- ghino e legittimino l'autorità della morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sotti- gliezza delle indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di trovare nella sto- ria l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere storico un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. 27  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Come l'appello al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia, e costituiscono non il mio sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'Autorità si cerca il fondamento in una Volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali, sia nello stesso tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere. ** * La forma generale, con la quale si presentano da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso, postulare una Volontà in cui si a- degui il potere al volere, sul fondamento della certezza e validità immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posi- zione; se e quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la in- dipendenza, la autoassiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione morale.  10 L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa. Dove si ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? 28  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta PARTE SECONDA LA PLURALITÀ DEI CRITERI MORALI 29  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO PRIMO IL CRITERIO FORMALE DI VALUTAZIONE DEL KANT L'indipendenza e l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale; o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito, per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via), cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le conclu- sioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali; benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze della speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via per la quale il Kant l'ha cercata. ** * Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto, qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo «patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten- denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di qua- lunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità, che è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto. ** * 30  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in due significati diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida; o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale validità della massima senza disvo- lere l'universalità di una massima piú generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come legge. I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo. 1. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che: a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso: b) può darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca l'immoralità. a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (il 3° della Fondazione) in sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre- ferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopen- hauer contro il Kant) della ragione del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni- versalmente come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. b) Per converso, tra le massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen- za contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali, per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammi- ratori non metteranno in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare universalmente praticate cosí la seconda come la prima. 2. Ben diverso è il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di univer- salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità di questa u- niversalizzazione della massima con la volontà che la pone. Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima si viene a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con esempi. 2'. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in 31  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi. Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la possibili- tà che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho accolta. 2''. Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere come legge universale11. Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione, è, come si è det- to, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora esami- nati (2"). Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimen- to; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere ragionevole egli vuole necessaria- mente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione, Parte II). La medesima considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio (il 4°) in cui si fa l'ipo- tesi del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale princi- pio valga come legge della natura»12. ** * Per il Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una prova dell'accordarsi della mas- sima seguita nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge stessa morale13. Soltanto intesa cosí la formula (la 3a della Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime una legislazione universale, o nei termini della Critica della ragion pratica (op. cit., p. 30): «Opera in modo che la massima del 11 Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se non sufficiente, del ca- rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi giudizi. 12 La ragione di natura egoistica che Kant fa seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giu- stificare la simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come essere ragionevole» col volere del «caro Io». (Il corsivo delle parole sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola volere spa- zieggiata). Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni e C., 1910); per la Critica della ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R. Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, vol. V, G. Reimer, Berlin, 1908). 13 Kritik der praktischen Vernunft, I, 1, 1, §. 7, Folg. p. 31 32   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta tuo volere possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse (op. cit., p. 33). E soltan- to cosí si può intendere come egli creda di derivare dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma feconda in quanto dà un contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma): «Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo». Ma intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale con- formità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come principio di una legisla- zione universale, vale a dire, alla legge morale; e della universale validità delle massime come co- mandi, cioè dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara. ** * I valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teo- rica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'uf- ficio di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà con se stessa; esigenza necessa- ria e caratteristica di ogni uomo che sia persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esi- genza unificatrice della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori fondamentali sono dati dalla vo- lontà; né si può derivarne la natura dalla natura della trama; né dal disegno della tela. ** * Né maggior luce può venire dalla Volontà come il Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile, e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragio- ne, la ragione stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa medesi- ma universalità. 33  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quanto al concetto del Volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della leg- ge, sta però nella legge la ragion d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né sapere perché meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare so- stantivi. ** * Resta da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come fine in sé. Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di piú di quella onde è dedotta; o assume dav- vero un contenuto, e questo costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da cui si pretende dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma richiede un riferi- mento agli oggetti della valutazione; ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il rispetto della natura ragionevole. — Poiché la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto della ragione al ri- spetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo il Kant la sua forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevo- le, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza uno spirito (che la com- prende sí, ma è ben lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini, di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa persona- ragione vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e non anche per quel che vi è di 34  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta proprio originale, individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso risuona. Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde nella unità inscindibile del mede- simo e del diverso, del comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana, essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le esigenze, determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma di doveri. ** * Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conserva- zione l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con l'esempio (il 3° della Fondazione) a cui si riferi- sce: «Come essere ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi- luppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di fini possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole «necessariamente» lo sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contesta- zione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione del- l'operare è veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui attuazione fatta con purità di volere consiste la morali- tà? 14 E che veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le quali si prova — non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di universalizzare — ma l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale. Infatti la ragione per la quale non si può erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio) non è già l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li riconosciamo come morali, af- fermiamo e vogliamo il contrario. Così nel secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità sottintesa della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la con- seguente impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta universalmente quella superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si è detto, e si è accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso manifestamente il valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo ammettere sia subordinato al valore della propria quiete o dei propri comodi.  35  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Alla quale domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere? 36  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO LA DIVERSITÀ DEI CRITERI MORALI Non vi è una coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e validi indipen- dentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è riconosciuta l'esigenza che il criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo come norma costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma costante del giudica- re e del volere altrui; ossia come norma universale del giudicare e del volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei certi valori siano per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della coscienza morale, come una ed identica non solo di forma, ma anche di contenuto; se si ammette il contrario, si deve riconoscere una pluralità di coscienze morali piú o meno discor- danti e una pluralità di criteri di valutazione che si presentano alle diverse coscienze con la medesi- ma autorità di valutazioni morali, cioè con la medesima forma. Il fascino singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant viene non dal suo formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e purifica la moralità da ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni considerazione soggettiva, la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia salda e in- crollabile che si debba riconoscere o si possa dimostrare che dentro quella forma cape, e non può capire che un solo contenuto; dietro quella legge si debbano trovare infallibilmente i fini che la co- scienza morale riconosce come buoni, e quelli soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non essere, vano. Il criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un solo e unico contenuto, a certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la coscienza morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in ogni coscienza con lo stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il criterio formale non esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è leg- ge se non è valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se non a patto che ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è piú un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano costantemente con quello; se io non riconosco legittimo — fatto da qualsiasi altro — il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è un'illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i valori dai non valori; i valori morali dai valori non morali, a farci riconoscere — senza appello diretto o indi- retto a qualche dato o postulato non razionale — il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale. Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in ogni caso come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché riconosca legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel che faccia l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di bel- lezza, o l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca della verità. E quando si dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla ragione» non un giudizio apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma il criterio stesso come tale, non si può affermare o dimo- strare questa contrarietà se non perché si sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e deside- rati — altri valori diversi, superiori o non subordinabili a quello dal quale è tratto il criterio in que- stione; e si trova contrario alla ragione che non si tenga conto di quest'altri valori, che si giudichi e si operi come se questi non esistessero, o fossero inferiori mentre sono superiori, o incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri valori non siano tali per un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa irragionevole. ** * 37  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Adunque il criterio del Kant non supera, dato che ci siano, le differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della mia coscienza morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria coscienza morale un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime che rispondono alle due va- lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso una soluzione del conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter dimostrare che una delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza massima nella quale è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso inconte- stabilmente come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia possibile eluderla, la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti discordanti nella valutazione morale? C'è. ** * Si è osservato piú sopra (Parte I, Cap. 3°) che ogni oggetto ideale o contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso tempo valore per altri rispetti, cioè può essere considerato come un valore di altra specie. Anzi è per questa relazione dei valori morali con valori di ordine diverso che si è cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento della valutazione, la ragione d'essere del valore morale in una finalità di natura edonistica (egoistica o altruistica) o noetica o estetica o religiosa. Se si considera una tale rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere — con questa e per questa ragione — per morale, un valore che non sia già sentito come morale, il tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si considera, al contrario, come espressione di una finalità che può assumere in questa o quella coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe — all'infuori del carattere specifico di eticità per il quale è posto da quella stessa coscienza come valore morale — essere sentita come su- periore in pregio ai fini di ogni altro ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la ragione capitale della diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che pretendono di valere ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto proprio dei valori morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza per il quale i valori si ordinano da sé in una scala determinata dalle connessioni di inerenza e di condizionalità degli altri valori, con i valori e- stetici; e il mistico un ideale di santità, al quale subordina gli altri valori, accogliendoli e graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto disconvengono; e cosí lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la verità, e cosí l'egoista calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per essere morali, hanno già una validità e un'autorità intrinseca che li distingue dagli altri valori, si vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del mistico e cosí degli altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e riconoscere rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo; e se continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il contenu- to — soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante. Basta per convin- cersene badare alle differenze caratteristiche della motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto giustifica a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordi- ne che esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche quando non è in giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla transvalutazione notata, ma tende a indurre insieme un pro- cesso di transvalutazione inversa; cioè a dar colore e calore di convinzione e di apprezzamento mo- rale ai valori di quell'ordine, a riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti per tali anche dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli interessi sacrosanti della giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo piccolo cal- colo ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel Codice penale; e quello (sia pure 38  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta di dignità fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di colonna di- menticato. E si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí ciascuno degli orientamenti valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente la sfera dei valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non coestensivo al contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi sistemi di valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria, riconosce come morali; abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono nello stesso tempo valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al- meno non contrastano e non negano quella propria specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si intersechino fra di loro; dei quali è minima la superfi- cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte d'estensione rispettivamente comune a un nume- ro di cerchi minore; e in misura variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. ** * D'altra parte, anche la coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei valori estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale a quello del fattore che rimane: ethics, Cap. VII: Intrinsic value), si trova a dovere apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per es., od estetica. (Non è senza signifi- cato anche per questo rispetto che il Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il «finalmente» chiude ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il carattere di interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato quanto piú la coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus, il valore morale dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla valutazione, per riconoscere un pregio preminente alle note interiori di spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità intrinseca dei valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali splende un raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori morali da altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore e spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si traducono. ** * Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e trasmutabile per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri valori spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per le diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale cadeva il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a partire dalla «Dichiarazione dei diritti» della Rivoluzione francese, si delinea e si allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore differenza di contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e piú profondo il contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti come supremi. E i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un criterio intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire, paralleli di giustifica- 39  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto; essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune, che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda. Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado, tra quella e que- ste. 40  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO LA CONDIZIONALITÀ NEI VALORI MORALI Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé, l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità, simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre, saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri — astrazion fatta da ogni valutazione morale — dei valori, sia propriamente personali (doti della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del- l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile, in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. ** * Non occorre lungo discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto il filan- tropo potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle quali o non potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo, ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà possibile una di- stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia posto come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente necessaria permanente e insurrogabile. ** * 41  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Aggiungiamo ora un nuovo elemento all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali, quell'or- dine di valori che risponde alla direzione tipica della propria coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori nei quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno interiormen- te riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i valori posti e dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me normativo un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti questi medesimi va- lori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale è universalmente necessaria. Cioè dovrà ri- conoscere che, esteriormente alla propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come criterio morale e co- mune se non un criterio di valutazione che assuma, come universalmente validi e costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. ** * Si delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i valori la cui at- tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e costante per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui attuazione è un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come morali; tra i valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una legislazione esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una legislazione esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori che possono essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na, e i valori che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. ** * Gli esempi addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una determinazione rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora cerchiamo di fissare con precisione quali sono propria- mente i valori che lo costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una per- sona padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la giustizia esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in ogni altra persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i valori impli- citi in questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente valido, anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente universale. Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà non è una condizione di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente il Fichte, una conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che richiede sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da dire della giustizia che è lo spec- chio sociale della libertà. Ora se il valore della libertà e della giustizia (e la validità dei doveri che ne derivano) consi- ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto nel loro essere condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed inevitabile la possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in- tellettuale, dell'esteta, dell'altruista, tra l'interesse sempre presente, diretto della conoscenza o della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e indiretti della libertà e della giustizia; o, in termini ge- 42  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nerali, tra i valori diretti e per la coscienza individuale supremi, e i valori che per lei appaiono sol- tanto indiretti e strumentali. ** * Cosí obbiettivamente nell'ordine di una possibile legislazione esterna, sarebbero doveri pri- mari, soli veri doveri, quelli appunto che soggettivamente per la legislazione interna di molte se non di tutte le coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali soltanto in grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna tutela subordinatamente, ma non impone l'osservan- za. E resta in ogni caso la questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? 43  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO IL PRESUPPOSTO DI OGNI VALUTAZIONE MORALE E L'OPPOSIZIONE FONDAMENTALE DEI CRITERI La distinzione stabilita nel capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé e ricono- sce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario di preceden- za condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. ** * C'è, sottinteso, nella tesi del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori, diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la volizione la volontà, con l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma ed esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto, della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa volontà. Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale; perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità. Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e postulare come dato e fuori di ogni contesta- zione, qualche valore intrinseco, al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimedia- bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa di perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando si discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone neces- sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa. 44  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Bisogna dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire riconoscere valore morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è essenziale, e che la fa essere non la personalità astratta e comune che non sussiste per sé e non basta a costituire questa o quella persona, la mia persona; ma la persona individuata viva e concreta, in quel che ha di universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di individuale; l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto. L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come suprema, che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di essere perso- na, è posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è posta da lei. Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella medesima esigenza che la volon- tà di ciascun altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la medesima idealità. La mia volontà deve — per far di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può usci- re di sé per diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di quello spirito di cui è la volontà. ** * Ma quale è la prova che questa idealità non è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente legge delle mie valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e non può essere data se non a me stesso, da me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei valori posti da me non è contestabile da altri né control- labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e questa prova è il sacrificio. Ap- punto perché il sacrificio attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella volontà di attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti a sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti. ** * 45  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Le esigenze costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un contenuto spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di ciascuna coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono per cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con- tenuto la condizione o il mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale e concreto; la materia che si suggella di quella forma. E il valore morale di questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il tramite, per il quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto della personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge della valutazione morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale della sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che nella deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore solo strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori di libertà ap- pare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di ogni ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e sorgente di quegli stessi valori che valgono per le co- scienze singole come supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della personalità in astratto, come dei va- lori costitutivi delle diverse personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come dei valori propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza dell'uni- versale come l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o, meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espres- sione individuale e concreta dell'umanità. ** * A nessuno verrà in mente di credere che si intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare nuove intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di es- sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla parola. Le intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove intuizioni e nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino nell'apparente applicazione mo- notona di una medesima massima alla medesima classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela l'originalità morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio di una persona anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale si raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una «idiosincrasia». ** * 46  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Queste minori e, nella loro infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però, come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere, conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E qui sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di sistemazione. Come possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è qui il luogo di esaminare. Qui importa solo notare come questa indagine e sistemazione critica non potrà che presenta- re, nella forma tipica piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i contrasti che sorgono natural- mente dal prevalere, nella unificazione morale della coscienza personale, di uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e dalla misura di questa prevalenza. Ma la forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i valori universali morali — i valori di libertà e di giustizia — e quelli che valgono come supremi (cioè che pretendono, come i morali, la direzione suprema della valutazione), nella coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve essere, una conquista faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli, il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione di quei valori spirituali che non si presentano come necessariamente e universalmente morali. Problema formidabile anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di criteri non conci- liabili; antitesi che rende necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti- mare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra soluzione. Questa antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà libera consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi libero, e che vi tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten- sione e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che si facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili soltanto ad alcuni —, quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamen- te, incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano; ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre in es- sere quel che si dice. 47  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO15 L'ATTUAZIONE DEI VALORI MORALI E I RAPPORTI DELLA MORALE CON LA POLITICA E LA RELIGIONE 1. - Alla distinzione fondamentale che ha origine nel presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona umana), tra valori morali universali e valori morali pro- priamente personali, corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che as- sume rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri. Ai primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume tutta- via per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva; cioè la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo punto, che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono: l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e quello che prende impropria- mente nome dal socialismo16: — la giustizia è la costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre- tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della Fondazione di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di intendere la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale. Senonché, appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una legislazione esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzio- ne della ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non solamente e non tanto all'abbas- samento inevitabile che ogni idealità subisce nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua vali- dità. ** * 15 Questo capitolo presenta soltanto nei suoi lineamenti più generali una materia che deve essere trattata diste- samente a parte 16 Il quale dal punto di vista etico trova, e non potrebbe essere altrimenti, (come si è notato sopra, P. I, Cap. IV, B) la sua giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È individualismo; universalistico si, ma individuali- smo. Una prova di ciò assai significativa è appunto la deduzione che il Fichte fa dal dovere che ciascuno ha di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro. Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che là... sono detti in modo diverso.  48  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Nell'esemplificazione introdotta qui sopra (Parte II, Cap. III) si è supposto che l'idealità normatrice potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso, nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a veri- tà, non presenta quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché, si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i- dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato — s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista — considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione e di godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo, possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvi- sare nell'ordine giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in molte delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte- nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista; subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena) ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. ** * 49  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Di qui seguono due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e po- litica. Il primo è questo: che il Potere politico, in quanto è forza di coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni quali si siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé, direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi), sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla coscienza dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il Potere politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo, comune col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare orga- no promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o come elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel- lettuali, estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori spirituali. La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o le condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed elevazione spirituale di ciascuno. ** * Fin qui si è considerato il Potere politico soltanto come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci, dalla cui volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello stesso potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna. Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo. Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli stati ed eticamente incondizionata la sovranità di cia- 50  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta scuno; e la tendenza opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. ** * Si è avuto occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo col volere valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e voluto come valido per sé all'infuori di ogni inte- resse puramente soggettivo e accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede da noi, in noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale morale come un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attin- gere i partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella virtualità è sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la nostra devozione è religione. ** * Vi è dunque per questo rispetto una certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù divina rea- lizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla prima; cosí il Po- tere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa considera le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza stessa religiosa deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un dovere religioso in obbligo giuridico e dar- gli una sanzione materiale esterna, contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esi- genza della religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito, e la purità delle intenzioni. 51  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza diretta, cioè an- teriore a ogni prova, non meno delle «sensazioni». Ma al pari di queste non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le vive. Potrebbe parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento dell'intuizione) per il quale la co- scienza trapassa dalla intuizione sua, dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sotto- porre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in realtà qualche cosa di diverso. Ana- lizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per provare la validità della sua conclusione, una co- scienza che non senta già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri come conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è conclusione logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo medesimo carattere di evidenza immediata che rende la certezza del mistico invulnerabile ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni pos- sibilità di dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la individualità e la incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è accettata come tale per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e presuppone quella certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì un contenuto dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali, per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine divina, le prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma sono prove che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel divino, di cui ho la certezza. ** * Ma il riconoscere questo carattere interiore personale e insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle diverse credenze religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò che costituisce la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo, ciò che costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra), non è la medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni in- cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire. Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si arricchisce della potenzialità di sempre nuo- 52  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta vi valori nella esperienza dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire, dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a mutar senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma consueta, considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica: quello del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel modo di porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto di ciò che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come morale, sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si de- ve veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea, arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la verità, o la bel- lezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione di sé o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non tutte le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona non volgare e non ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di una sin- cera e severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi, contrasti e opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe di sussistere e di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso apparire nelle discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari dell'Etica di teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e che giungono a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni contraddittorie. E qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia portare su di esse bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare immorale una dottrina, se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello delle dottrine morali come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non pre- tendesse di valutare e regolare — in modo diverso — la medesima materia3. Ciò basta a confermare, se di conferma vi è bisogno, che il problema di una pluralità di con- tenuti della morale, ossia di una pluralità di criteri di valutazione, non è un problema di semplice possibilità astratta, cioè una curiosità scientifica e filosofica, ma è un problema d'attualità concreta e viva; è, veramente, a mio giudizio, il problema per eccellenza della coscienza morale contempora- nea. 1 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale; Il Vecchio ed il nuovo Problema della morale (Parte II, capitoli 2—4). 2 Questo modo di vedere è favorito, se non conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano. 3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una sentenza di condanna.   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui dà luogo — quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri, non è nuova questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini potente lo sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità, apparentemente raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e profonda pluralità o almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con Aristotele la duplicità di felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per lasciare l'antica e non mai del tutto superata dualità di vita attiva e di vita contemplativa, l'unità reale di criteri nella valutazione della condotta non è raggiunta se non in apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana anche nel rispetto della vita terrena finita, si sforza poi invano di ricondurre i precetti che re- golano questa al medesimo criterio di valutazione che è suggerito o imposto dal contenuto sopran- naturale del fine che la giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine invocato a giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è dissimulato ma non superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione religiosa. Perfino nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e l'identità di doveri e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo di consenso e di calore, indipendentemente da ogni par- ticolare dogmatismo confessionale, l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto perché se ne restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico, e si trascura o si la- scia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che tocca gli aspetti e le forme della vita inte- riore. E quell'unità parziale di contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo cri- terio di valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la possibilità di determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la condotta etica che sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della persona, e le forme della vita interiore. ** * Ma il romanticismo e lo storicismo, per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il razionalismo aveva lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando, illustrando ed esaltando la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo, superiore della vita spirituale e della attività interio- re, originale, spontanea; l'altro cercando nella realtà storica la ragione e la giustificazione delle for- me di vita sociale, religiosa, politica che in nome della natura e della ragione erano state condanna- te, avevano condotto a questo doppio risultato: per un verso, ad allargare smisuratamente l'ambito della vita interiore, raccogliendo e quasi contraendo in essa tutte le attività spirituali, facendone il campo piú degno, e, se non esclusivo, certo dominante della condotta morale, e comprendendovi della vita sociale, al più, quel che in essa si dispiega di spontaneo e d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta tendenza a distinguerlo non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate come esteriori, della vita politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare, non solo ogni realtà ed ogni fon- damento storico, ma ogni valore, alle costruzioni politiche e giuridiche del giusnaturalismo; alle dottrine dello stato di natura, del contratto sociale, dei diritti innati; e a considerare come un prodot- to storico le forme politiche e giuridiche; le quali trovano, nelle condizioni che le hanno generate e che le rendono adatte rispettivamente alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e tempi diversi, la loro giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a fare il diritto estraneo all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione morale, lasciando aperto il campo alle piú svariate forme di relativismo: biologico, sociologico, storico. Cosí quel che per il razionalismo del secolo XVIII era il contenuto comune della coscienza morale, finiva per essere considerato quasi estraneo alla morale. E mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco tra interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i valori morali e i valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e prendeva colore e calore di va- 4  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta lutazione morale una molteplicità sempre piú varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini di- versi. Per tal modo penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma in quella che si chiama piú propriamente letteratura, quella molteplicità di indirizzi, di opinioni, di ere- sie morali che è la caratteristica del secolo XIX, e che esprime, per dir cosí, la maturità storica del problema, prima dissimulato e trascurato. ** * Non si vuol dire, né sarebbe a priori probabile, che ad ogni novità di intuizione particolare, geniale o no, su questa o quella forma di vita e di attività individuale, su nuovi aspetti della cultura speculativa o religiosa o sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul valore dei tipi di istituti, familiari, politici, economici (reali o immaginati) corrisponda una diversità di criteri morali; né tan- to meno che ciascuno esprima una orientazione di coscienza morale radicalmente diversa dalle al- tre; ma neppure è possibile dissimulare che questa molteplicità è altra cosa dalla «dualità» notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza comune e nella dottrina piú largamente diffusa, raccoglie- va e, direi, polarizzava attorno a due termini contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali ai beni sensibili, e negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur fuori di questione ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di discorso, non perché anche su questo punto le que- stioni sieno escluse di fatto, o siano da escludere a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante di tale molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso dei beni razionali, che la diversità delle tendenze si è venuta delineando sempre piú spiccata. E i contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano anche, anzi soprattutto, nel campo di quei valori che era pacifico considerare come patrimonio, se non uno e indivisibile, almeno indiviso, e non costituito di parti discordanti. E mentre si venivan disegnando, cosí, conflitti di primato, se non contrasti irreducibili, tra i valori stessi tenuti tradizionalmente come superiori, si presentavano: di là, idealizzate, e sotto veste di valori razionali — o giustificate in nome di esigenze razionali — tendenze e forme di vita spon- tanee, passionali, o istintive, considerate già come estranee se non contrarie alla vita morale: e di qua si esaltavano come centro e culmine dei valori morali le forme religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse, almeno in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni modo si affermavano in atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si negava ogni significato etico — anche nella loro forma di idealità sociali e politiche — a quei principî razionali del diritto, nei quali il secolo precedente aveva visto ad un tempo il segno piú alto della dignità umana e il maggior trionfo della ragione. ** * Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità di contrasti tra criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può bastare a risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria — l'unità del contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è universale perché è ra- zionale, o è razionale perché è universale? Né è possibile fare appello alla ragione come autorità morale suprema quando i moralisti che se ne fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le armi, né a convincere né a vincere i de- trattori, se non argomentando ad hominem cioè facendo appello a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od ammesso. E i detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di condanna che abbia, non si dice un valore, ma un significato quale si sia, senza servirsi di quella ra- gione che coprono di contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare a meno, in materia di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si può trovare in essa la sorgente delle valutazioni morali. 5  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta E tuttavia non solo fu — nell'età aurea del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed accolta, non senza che la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato, l'idea di cercare nella ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di riferire a lei non soltanto l'esigenza della coe- renza, dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime, ma anche di certe leggi e di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel credere che la ragione obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato che se ne accettano certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe premesse; ma obblighi senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi stessi che fanno da premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto osservare le leggi della lo- gica, rispettare quei principi logici senza dei quali non è possibile nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma voglia dire essere obbligati a riconoscere "certe verità", ad ammettere certi principî; principî non logici o formali, ma materiali; dati o postulati che facciano da sostegno al ra- gionamento, e comunichino la loro certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché non è necessario qui, il campo dei giudizi propriamente teoretici e la distinzione che sa- rebbe necessaria tra giudizi condizionali e giudizi di esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In questo adunque la ragione sarebbe essa che pone ad un tempo l'esigenza della legge e la legge; cioè, non solo l'esigenza dell'unità e le norme da osservare per realizzarla, ma anche i criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che non si giustificano, ma che servono di fon- damento alla giustificazione. 6  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SECONDO LA RAGIONE E I GIUDIZI DI VALORE Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere in tre modi diversi: — O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno a fondamento dei giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o dimostrare o porre con la stessa necessità od evidenza con la quale si impone la validità delle forme logiche. — Oppure — se il dato o principio che sia a fondamento delle valutazioni è diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo ragionevole per- ché ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O finalmente è la ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che basta a determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del contenuto che essa incorpora in con- formità della sua esigenza, sia necessario riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che anche storicamente il Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. ** * La prima via, la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa, espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4 Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le- gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion pratica». 5 La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: 1°che il bene e il male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si conoscono le altre cose. 2°che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo, ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta in- dipendentemente dalla seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso giustamente, a merito di lui. 6 Vecchio e nuovo Problema, Parte I, Cap. II. 7   Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta qualsiasi vale piú di un qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità incomparabile con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la contraddizione è tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone pure ammesso da me e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere questo valore del pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse perché con ciò diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il rispetto e la stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx contiene dunque una contraddizione in termini? ** * Se si incalza che il giudizio sulla inerenza all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza oggettiva e che riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa cosa che riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione, è facile avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è in questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar- tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno, cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in realtà; tanto che il negar- gli questo valore non implica negare sia la realtà, sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'en- te; cosí come negare alla sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implicava per Galileo la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna qualesivoglia delle sue pro- prietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà, un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla ge- ometria; e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato del cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della «contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato (non per nulla nella scelta il Rosmini ebbe la mano felice) la repu- gnanza ci sia, è innegabile — sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della univer- salità del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza morale, non una incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura in cui è comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre: negando questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna delle differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego nessuno dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi sia il giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di quelle doti e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia maggior conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del cane, e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due enti, prova, 8  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta nel caso, che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque, riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. ** * La verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati, sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con questa circostanza, per dir cosí, aggravan- te: che, come s'è accennato, accade di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore (e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio7. Sfuggendo cosí all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile, dai giudizi teo- retici. ** * La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circo- stanza è questa: che una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú frequentemente valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici, senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi, avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse- guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione reciproca di due proprietà fra di loro.  9  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta te assunto insieme un giudizio di valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale, falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E non per nulla la diffamazione è puni- ta piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto, ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo sentono e tutti lo sottintendono. ** * Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o me- glio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un giudizio sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la vita non valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che qui è sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti. Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente, come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad essi, dei valori derivati. ** * È adunque chiaro che i giudizi di valore si legano fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del quale non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttu- ra; e che per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che figura come derivato in un si- stema diverso. Ma in qualsiasi processo di giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia un processo razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di ammettere. 10  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO TERZO RAGIONE ED EGOISMO Se si tien conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della razionalità o irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista, accettando il principio assiologico che assume come primario quando giustifica il suo sistema di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri- spondenti, rinneghi la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in contraddizione con se stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando da egoista non raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera8. O perché il criterio egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista non può fare a meno di accettare e di ammettere. ** * È certo che l'egoista spesso sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso; e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo. Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? — Naturalmente quando si è foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se, essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo. Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso frequentissimo e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella circostanza egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre sente dentro di sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme da quel modo di operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel modo di operare che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che egli stesso seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe fare così e sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio; il sacrifizio di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente qui (ed è il caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello scontento interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata dalla ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la costanza dei criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo razionale che rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta qui. Il contrasto segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo e deve riconoscere il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha operato bensí da egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia. Egli è in con- traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di valutazione che egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio sulle azioni altrui e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio di valutazione che egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se dato che non fosse sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un processo razionale farlo sorgere.  11  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta per gli altri, ma ammette e trova naturale e legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? ** * Si dirà che cosí facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione reci- proca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»; o al riconoscimento del valore supremo, della for- za come criterio ultimo della condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo; l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi, occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi è, se si guarda spassionatamente, concludente. ** * Cominciamo dal secondo. È bensì vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si possono contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della forza non si nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per tutti9, che la mia volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge la volontà degli altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú forte è un al- tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può riservare delle sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma non si può dire che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per un giocatore accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse, anche se queste sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza intrinseca del criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no di farne la sua legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden- za, forse non sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle speranze. ** * 9 Se si trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli individui, non c'è che da pensare al principio che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri, se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa tuttora - agli occhi di molti - come il solo impe- rativo «seriamente» politico. In questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina forse nella sua forma rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner formulò per i singoli individui - e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una caricatura ironica dell'a- narchismo di una società di egoisti, che vale fin che mi giova e dura finché mi piace? O si vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici, filosofi o no, che accettano e difendono questo crite- rio, non solo come l'unico criterio possibile, - in determinate circostanze storiche, - ma come il solo «razionale?» Se- nonché anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata su un presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato abbia un valore incondizionatamente supremo.  12  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Ed ecco l'altra alternativa: l'egoismo che si limita e si fa diritto10. Ma qui è ancora piú facile scorgere l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu- stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno, l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima) ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se faccia piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con questo nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal punto di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza di conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e- sigenza si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della società, il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da un punto di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso sforzo di giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività anche piú elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica, di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari. Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. 10 Chiedo scusa al lettore se adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad effetti stilistici che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo. Non bisogna dimenticare che in queste espressioni «l'egoismo che si nega», «l'arbitrio che limita se stesso» e molte altre somiglianti, il senso voluto significare è reso possibile perché e in quanto il termine in questione (egoismo o altro) è preso a indicare in una due significazioni diverse: nell'una è l'astratto (la connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il collettivo (l'insieme degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si contrastano). 11 Il quale è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano veramente utili soltanto le azioni che servono a certi fini e a certe soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a cui sono dirette, economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc. Che siano dette utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che abbiano vera importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si dimostra con molti discorsi che sono meno nobili degli altri.  13  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUARTO LA RICERCA DEL FINE SUPREMO Con ciò la tesi egoistica cerca di porsi su quella medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle scuole la via piú comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú semplice, si di- rebbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di ricondurre le norme a un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto o si debba riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da principio della dimostrazione da «assioma medio» o proprio della costru- zione morale, è il giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema del fine. Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come supremo e che si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla ragione di trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine supremo è dato e si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità di supremo; — di giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che non basti un ri- conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di diritto; che spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è, un tal fine, ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume, e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u- mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità (o Perfezio- ne, o altro Bene) della quale quel contenuto assume la veste, il titolo e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine. E cosí accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice: uno è il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua sovranità: ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire, l'altro a dar valore alla costruzione. ** * Ora finché si ammette che la felicità o quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della costruzione e il supposto che lo investe del 14  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta valore di fine, non ha luogo, o apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifi- co, che il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro. Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di "Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della natura; oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra semenza...» ** * E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono inconciliabili con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo il processo di deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il riconoscimento del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è difficile scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al quale la ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la subordinazione e la esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in ultimo da quelle stesse valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a giustificare. In realtà il giudizio della ragione è il frutto di un processo che è bensì esso ra- zionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il processo reale, palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale dice all'uomo quale è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua, che deve seguire. La ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto rigorosa e univoca, ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente e incontestabilmente suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi effetti, raggiunge un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e giustificativo dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il Bene morale; e poi- ché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene deve essere riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione lo giudica supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere come fine morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si- stema, che la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene a dire che il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio seguito nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere, di fine morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione dei giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di dato dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo come fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo. Adunque è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che ha il fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore morale di queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La ragione porta il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra la congruenza con le valutazioni morali. 15  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta ** * Se in questo proposito di ricondurre le valutazioni della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e, dato che possa, entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui può essere lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha valore supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per la quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e che la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una «natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità logica, la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o postulata 16  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO QUINTO «MASSIME RAGIONEVOLI» E «PRINCIPÎ RAZIONALI» Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si raccolgono e ai quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e non posti dalla ragione, come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla con fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone «ragione- voli» vanno d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno patente di irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di espressione senza inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'os- servazione notissima e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai notevole, e a cui si collega una considerazione d'importanza capitale per il modo d'intendere i rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le massime delle quali si discorre, esprimono o valutazioni primarie e- lementari, di cui è superflua, perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valu- tazioni nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo strade di origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei, edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in vista di fini diversi e anche opposti tra di lo- ro; e nel raccomandare l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano pie- namente d'accordo12; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta, deve ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque sia, tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta un principio bisogna accettare le conseguenze, que- sto è appunto, essere ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato, se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione, ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse- guenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale, finché sono considerati come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa irragionevole se chi usa pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma- zione del superuomo e che a formare il superuomo è necessario essere spietati. Questo esempio può parere poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità di essere riconosciuto e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe probativo anche se fosse del tutto ipotetico13, è da os- 12 Anzi su questa circostanza si fonda la considerazione, a cui ho accennato, di importanza capitale per l'etica e di cui ho trattato di proposito altrove (confronta Vecchio e nuovo problema, Parte I, Cap. II, Parte II, Cap. II): cioè che una qualità, una virtù, un modo di operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri rispetti diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore di utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: 1° come avvenga che la giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di natura diversa; 2° co- me sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima del problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale.  13 E non è, come tutti sanno. 17  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta servare che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata, richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché alcuni si dimenticano di esse- re, o credono di essere mentre non sono. ** * Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su questa idea che la costruzione giuridica del secolo XVIII — della quale l'espressio- ne piú nota è la Dichiarazione dei diritti dell'8914 — sia una pura astrazione razionale, è fondata la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua parte, e la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico (qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria costruzione un astratto (l'uomo- ragione) insufficiente a reggere l'edificio che si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e impre- scindibilmente, nel concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune, surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di uomo-ragione. Non si capisce la razionalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo che sia un dato razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come strumento della volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto dell'uomo come tale, e il postulato giuridico corrispon- dente, dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto per questo soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di fronte allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare Marx e sorridere l'ho- mo historicus. Né si dica che il Nietzsche è finito al manicomio; ciò non proverebbe nulla: l° perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti: e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una razza; 2° perché quando il Nietzsche la pensò non era pazzo; 3° perché anche se fosse stato pazzo, la teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria pazza; 4° perché in ogni caso sarebbe da dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle premesse, è ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno, accettare una o l'altra delle premesse, o ambedue. 14 Ma è tutt'altro che l'unica perché fu preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo inglese, ma anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana. E quanto al luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di rilevare che in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae moralis institutio com- pendiaria», stampato a Glasgow nel 1742, di un autore tutt'altro che ignoto, l'Hutcheson, si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro governo. 15 Un altro luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in disparte, è quello che vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre il riconoscimento di quei diritti esprime a parte singuli la garanzia della libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di ogni stato: la tutela della giustizia. E combattere le violazioni della libertà e della giustizia, fatte in nome  18  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Mentre, se si esclude quel supposto e si ammette che lo stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o se si ammette che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po- sizione sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti «naturali» non hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti. Ma il principio che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare la persona come mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di valore il principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga quanto qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere negati senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto dell'accettarli o negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non era. Perciò non è da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in quella costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la costruzione debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e non è, per chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di ragione non solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la coscienza mo- rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può dedurre da essi. ** * Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che fossero impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo ragionevole» volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che avesse torto nell'accettarli e nell'as- sumerli come degni di essere accettati). Ma se si ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione razionale che se ne ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che governerebbero qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come criteri supremi della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di loro —, non solo non è ille- gittima, ma è la sola legittima. E il suo valore etico, giova affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza che si osserva o si immagina intercedere fra uno stato conforme a quella esigenza ideale, e questa o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per chi assume quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri corrispon- denti all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i doveri fondamentali precedenti in au- torità e in obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e politici supremi indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità delle forme ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per converso, chi respinge questo postulato, non solo può, ma deve, ragionevolmente, nega- re ogni valore alla costruzione razionale corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo — in sede di di un preteso interesse della collettività e dello stato, non è negare l'interesse della Società, ma piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus del secolo XVIII è povero di contenuto appunto perché si esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va- lori giuridici e politici, e dimentica o trascura i valori propri della vita personale interiore. Il che prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini propri dello stato (uffici positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli; appunto perché domina e vince ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni universali e fonda- mentali - così per la vita individuale come per la vita sociale - della libertà e della giustizia. 16 Chiamare la concezione ideale di una forma di diritto una astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e non è giusto se non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle condizioni necessarie a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo dire che il diritto ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che sarebbero richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú astratto che un diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni storiche. Salvo che nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono reali, nel primo sono possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle condizioni che ne fanno o ne hanno fatto un diritto positivo, trova corrispondenza nella realtà, e nel concetto dell'altro l'idea delle con- dizioni che farebbero del diritto ideale un diritto positivo, non ha trovato o non trova più, in una forma storica di realtà, la sua corrispondenza.  19  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta morale — di chiarire quale postulato assuma al posto di quello che respinge, e quale sarebbe il si- stema etico-giuridico che ne discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi, quando pretende di confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in nome della realtà o della storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la stregua della attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma non del valore di questi rapporti. ** * Cosí il razionalismo assume erroneamente come dati razionali dei postulati di valore e si il- lude di poter imporre in nome della ragione dei principi che non valgono se non supponendo accet- tati quei postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà storica è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini non hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è fondata sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto diritti positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei diritti; e che non possa essere apprezzata e apprezza- bile una società ordinata in modo tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse costituita per contratto volontario di tutti i cittadini; o non possa essere piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e valga come tale un ordine di rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere queste questioni, il sapere storico non è competente. D'altra parte lo storico non potrebbe risolverle senza cessare di essere storico e diventare «moralista» o «ideologo», «reaziona- rio» o «rivoluzionario», «conservatore» o «riformatore». Perché non vi è altra via: O ricusa certi postulati di valore per assumerne altri diversi, pure di valore. O rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento della volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani. Perché ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria, implica una direzione verso un risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel «realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione pos- sono bensí essere ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione, né riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il che è la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di valore a cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto razionale, come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui si riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. ** * Resta da osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse ba- 17 A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da ricondurre, a mio giudizio, la que- stione del rapporto tra Spirito rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente il Mondolfo in un ar- ticolo del «Nuova rivista storica» (anno I, fasc. III). Il rivoluzionario (come del resto ogni innovatore di grandi o anche di piccole cose, anzi ogni uomo di iniziati- ve) è, o si pone, fuori della storia in quanto valuta, cioè giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è un pro- dotto storico, non è perché è un prodotto della storia che è stimato desiderabile, preferito e voluto). È nella storia e deve aver senso storico in quanto è uomo politico, cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie tra diverse direzioni concepite come possibili (cioè come tali da potere essere favo- rite e contrastate dalle nostre azioni), non è nelle storia, se non in quanto sono nella storia e della storia le sue stesse ide- alità morali. In quanto si rende conto della realtà sulla quale vuole agire e del modo col quale la sua azione può inserirsi efficacemente su tale realtà, è nella storia.  20  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta stare per fare accettare questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i pregiudizi», ragionare; come è nata per contrasto l'illusione inversa che per respingere le applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi postulati e dei criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far tacere la ragione o screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in sistema coerente, ma degli errori e delle violenze commesse da quelli che smentivano con l'opera i principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso senza cono- scenza degli uomini e delle cose, cioè senza tener conto della realtà concreta e della storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto di meriti non suoi, a una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la ragione è al di là di quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un compito inestimabile; necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito mai; di costruire incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo teoretico, l'unità del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare, come miravano gli antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un ufficio di continua eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi- rituale della persona analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la circolazione del sangue. Ma non si può pretendere di ricavare da essa il principio dell'esistenza, ossia il dato o i dati attorno ai quali si possa affermare la realtà obbiettiva di ciò che è oggetto del sapere; né si possono trovare in essa, o ricavare da essa i criteri sui quali si fonda la valutazione e attorno ai quali la ragione unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la certezza dell'esistenza, cosí non dà essa la coscienza del valore. 21  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta CAPITOLO SESTO RAGIONE E LEGGE Resta un'ultima via, la terza (vedi Cap. II); la piú audace e radicale. È la ragione che pone la legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come legge, senza che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche oggetto o risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da quello che gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del razionalismo morale. La prima delle vie indicate (Cap. II), quella del platonismo, e in modo particolare quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la morale alla ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede che la ragione dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la certezza morale è razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer- tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella legge che è essa la sola razionalmente necessaria. ** * Ma essendo incontrastato per Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col contenuto tre soluzioni: I. O si può intendere che la legge morale è una forma senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi determinazione del contenuto. II. O si può pensare che occorre bensì un contenuto che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di esserne investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso. Insomma: è necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché possa essere contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che possano essere piú, fra di loro diversi. III. Si può pensare che la forma razionale, la forma della legge morale conviene a un solo contenuto, quel contenuto che si concreta appunto in relazione con quella forma. Ossia, che l'esi- genza razionale basti a determinare univocamente il contenuto della legge18. La prima interpretazione che sembra la piú semplice e sulla quale s'è fatto un gran discutere, è insostenibile, perché si risolve in un circolo vizioso, dal quale non è possibile uscire in nessun modo. 18 Forse a queste tre interpretazioni, teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le tre formule note dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che ciascuna delle tre si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni possibili che alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra rendere possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse, pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la seconda formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda meglio alla terza interpretazione di un contenuto determinato inequivo- cabile.  22  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta Quella stessa illustrazione kantiana che sembra legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter (la possibilità di concepire la massima come legge universale dell'operare), ma che, nei termini precisi in cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche contenuto senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come norma di quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo quella formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io possa volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una massima valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè (che è tutt'uno) al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge, ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere che l'universalità, e altra applicazione che cer- care se il modo di operare corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il bra- v'uomo che non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa il Kant in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge universale della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un tale principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile? Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è incompatibile con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale tuttavia è pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole qualchecosa che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente. Insomma, il criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile confrontare la legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente, con una certa legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto. Senza questo riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile sapere se la massima dell'azione19 abbia o non abbia i requisiti necessari, perché si possa volere che valga come legge universale. ** * Con ciò il pensiero di Kant sembra escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda in- terpretazione (che la forma razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano pre- sentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva di legge, determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto che un solo ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragione- vole, non possa essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il pensiero di Kant credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è necessario rilevare come questa pretesa di deter- minare la legge, quella legge soltanto in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è sottinteso o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto nella forma, ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono soltanto le massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in modo univoco. E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente con quel contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente 19 E va da sé che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la massima, deve avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o disforme da una massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare, anzi neanche di un'azione qualsiasi.  23  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta il valore, di cui quindi si sa che è impossibile volere che valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque questa impossibilità non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa e- sigenza si trova essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una volontà che vuole cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità non emerge necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere ragionevole; la quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di cui la ragione formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga come assoluti e supremi quei valori, cessa o- gni ragione di volere quella legge piuttosto che un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga come legge una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un volere non voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere il Volere di un essere ragione- vole? Cessa di essere un Volere ragionevole quello che riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e unifica le massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso riconosce come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza razionale? ** * Questa ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea prova, come s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che l'analisi della formula rivela inoppugnabil- mente: che il dato iniziale, originario o primario della legge morale è presupposto dalla ragione, non posto; presupposto come oggetto o contenuto di una Volontà la quale è bensì razionale in quanto pone a sé come legge la norma dell'operare corrispondente; ma non è né razionale né irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei valori primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'o- perare, l'oggetto della volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in unità coe- rente di legge. ** * A una conclusione del medesimo genere riesce per altra via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua memoria densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il carattere formale della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva facendone la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto soprasensibile. Ma questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla concezione di questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che di questo mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto questo: che esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale, il mondo nel quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne diano altre de- terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre determinazioni, attua un certo ordine di rapporti, 20 Mi sia lecito riferirmi per la chiarezza a uno degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può volere erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita una tal massima universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel pensare che tutti quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche che non sia possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia indifferente per ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il piacere o la liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la superiorità dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge, non da un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità di sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali) sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una massima che smentisce questa superio- rità. 21 Sul formalismo della morale kantiana estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario del- la R. Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi, Libreria Editrice lombarda, Milano, 1929.  24  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta che non possiamo conoscere speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere certi e affermare e riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si ammette la prima tesi, l'affermare una realtà soprasensibile di cui non possiamo dir al- tro se non che è il contenuto della forma morale, non ci dice in che consiste questo contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi è un mondo conforme alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto questo mondo. Non ci illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a far capire quali sono le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge sia perfettamente os- servata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo vizioso di un mondo di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge morale, e di una legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo, bisogna dunque attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti, e come io credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra punto per punto nelle stret- toie della sua esposizione, come risponde all'intento fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione pratica e piú chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura22. In realtà «l'uso pratico» della ragione consiste nello spalancare all'esigenza morale quelle porte della metafisica che sono chiuse alla speculazione teoretica; nel lasciar libero alla fede il cam- po del soprasensibile vietato alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare espressioni corren- ti, piú che il diritto la necessità di credere, la necessità «razionale» di ammettere quel che la ragione, in quanto è garanzia di certezza teoretica, non può né dimostrare né affermare; di oltrepassare — per rendersi conto della possibilità del dovere — il campo dell'esperienza sensibile e postulare l'esi- stenza di una realtà che trascende l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza frutto23, se una certezza diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle porte del soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma apre per lei e in nome suo. Sulla soglia del soprasensibile la ragione sembra dire all'esigenza morale quel che Virgilio a Dante all'entrata del Paradiso terrestre: «...Se' venuto in parte Ov'io per me piú oltre non discerno». Ma la fede fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo, dinanzi al quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di fuori, questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in sé e sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È questo mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la legge morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo dell'esperienza si applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in quanto partecipa di questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua- le la realtà inferiore deve essere subordinata. ** * 22 Il concetto dominante di questa prefazione (che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la soluzione dei problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può considerare riassunto in questa, che direi confessione caratteristica: «Ich musste also das Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum Glau- ben Platz zu bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten Auflage, ed. Cassirer, vol. III p. 25). 23 Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che la critica della ragion pura porta alla ragione specu- lativa negandole la possibilità di una conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo perché permette l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai significativo che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo sarebbe come dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo compito principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno possa attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è mio).  25  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta In questa interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la legittimità della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta come incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi- denza razionale. ** * Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge morale implica accanto alla esi- genza razionale un oggetto della Volontà, un ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè azione in vista di un risultato, è il fondamento irredu- cibile dei giudizi primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà, delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del sentimento. 24 Non è il caso di cercare qui se e che cosa il Martinetti abbia messo di suo e di postkantiano nella sua inter- pretazione, né di vedere se e fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere. La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale, quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma, differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro ge- nere. E allora vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure «profano» la stra- nezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale rigorosamente mistica: forza, in quanto è intui- zione, atto di fede, certezza interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un distacco logico del genere di quello accennato sopra [Cap. I § 3°] tra il crite- rio usato a determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori invocato a giustificarle.  26  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta L'intento di Kant di liberare la legge morale da ogni mescolanza e contaminazione «patolo- gica» di sentimenti, di inclinazioni, di tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis- simi ma vani — forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se il Kant, meno preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine eudemonistiche del tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di fini, sia inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di- sposto a riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione intrinseca, cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento.  JVALTA, ERMINIO     JL M -jf, É..^ M...^ •     IL METODO  DELL'ECONOMIA     PLACE:     BIZZONI     DATE:     1907     COLUMBIA UNIVERSITY LIBRARIES  PRESERVATION DEPARTMENT   RTRTìOnRAPHIC MICROFORM TARGET     Master Negative #     Originai Material as Filmed - Exisling Bibliographic Record     r     .170   hi   V.2     ■ I l ■! ■ ■' I < I»     ■■ ■<■ '     » ■ " ' > t     mm'mm'^^mmt^i^n     <9 I tli i n     Juvalla, ]]r]iiiìio   Il netoilo doll'econonia pura noli 'etica. Pavia.  Dizioni, 1907. •   ?:ì p. 24 cn in ZG}: cn.   At head of title: E. Juvalta.   Estratto dalla Rivista filonofica, novcnbre-di-  cenbre 1907 •   VoluiTio of poinplilets     Restrictions on Use:     FILM SIZE: ZS^I^     TECHNICAL MICROFORM DATA     REDUCTION RATIO:     //x     IMAGE PLACEMENT: lA fllM IB IIB     DATE FILMED: J^mAj-_ INITIALS_?5_   HLMEDBY: RESEARCH f UBLiCATIONS, INC WOODBRIDGE. CT      e      Association ffor Information and Imago Management   1100 Wayne Avenue, Suite 1100  Silver Spring, Maryland 20910   301/587-8202      Centimeter   1 2 3   iiiiliiiiliiiiliiiiliiiilmilii     4 5   iliiiiliiiilii     6 7 8   iiliiiiliiiiliiiiliiiilii     10     11     12 13 14 15 mm     I I I I I I TTTTtTTTTTTTTTiTTTTi     r^TTj     Inches     1     ' ' I ' ' ' '     LO     LI     1.25     163     [ 2.8  3.2   4.0     I&     1.4     2.5     2.2     2.0     1.8     1.6      MRNUFfiCTURED TO PIIM SinNDfiRDS  BY RPPLIED IMRGE, INC.      "l^ \     r         là     E. JU YALTA     i^^j     ' \%\MA^<^^^     'A     \ -.r:        f      f     NELL' ETiea     lì       Ì\     PAVIA   PREMIATO STABILIMESTO TIPOGRAFICO SUCC. BIZZOSI  Corso Vittorio Em.inuele — Telefono 92   1907.     /     \^'     DELLO STESSO AUTORE     Ip^rolegomeni a una /Ifòoiale     f i * *     \^ I, ^%, i^     balla /Iftetatisica     Pavia - SUCCESSORI BIZZONI - L. 1. 50     Ì4-     Vi     iC^osstbilttà e i Ximtti     bella /Iftorale come Sciensa     I. —     II.  III.     La Dottrina delle due Etiche di H. Spencer e la Morale come  Scienza.   - Per una Scienza Normativa Morale.   - Il Fondamento Intrinseco del Diritto secondo il Vanni.   Un Volume in 8° - L. 3, 50     Toi-itio - I^RATELLI BOGGA — Torino   - 1907 -     É. 3uvalta     SI        I     ,%         w     NELL* ETiea       )     I   I   f      '^ >i     PAVIA   PREMIATO STABILIMENTO TIPOGRAFICO SUCC. BIZZONI  Corso Vittorio Emaniu'e — Telefono 92   1907.     ')     («|W*MB*«W%i»'SSS-»»lBiS«M«»«!.<f.     IL moo OEUECfliiOMm mi. mrmu     (1)     /,'     «"iJi!     hypotheses fingo.     ;i ì     I.     L'Economia Pura assume, come è noto, l'ipotesi che  gli xwmiìii nel produrrCy consiunare, distribuirsi e far  circola-re la -ricchezza siano 7nossi esclusivameìiie dal  desiderio di coyisegiiire la maggior possibile soddisfa-  zione dei loro bisogni mediante il minore possibile sa-  crifizio individuale. Alla costi-uzione deduttiva, che se ne  ricava, dei teoremi economici, ossia delle leggi della condotta  àeW Jiomo oeconoìnicus, è indiffei-ente la questione se il  postulato edonistico esprima vei'amente una condizione di  fatto; ossia se l'ipotesi — da cui si deduce ogni verità  economica — coincida o diverga ed in quale misui-a dai  motivi che effettivamente determinano le azioni umane '^2);  come è indifferente qualsiasi valutazione che e del postulato  assunto, e della condotta óeìV uomo econo77iico, e degli ef-  fetti di questa condotta, si possa fare da un punto di vista  morale.   In effetto il giudizio sul valoi-e di giustizia o di bontà  del motivo economico e delle leggi che ne discendono, variò,   (1) Fa parte degli Atti del Congresso Filosofico di Parma, al quale do-  veva essere presentato coi titolo più generale : € Condizioni e limiti di una  trattazione scientifica dell' Etica ».   (2 Cfr. Pantaleoni. — Principii di Economia Pura. - Capo I e li.      ^■     -il     \-     f     V     l\     \-     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA     come tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo piir  radicale; e il giudizio sulla coii'ispondenza delTipotesi colla  realtà varia del pari, da quelli che riconoscono nel motivo  assunto l'unico motivo di tutta quanta l'attività umana, a  quelli che lo considerano come uno dei fattori, non l'unico,  nel campo stesso dell'economia; i quali, appunto perchè  l'economia cosi intesa studia soltanto l'azione di un fat-  toi'e, isolato per asti-azione dal complesso degli altri la cui  efficacia si esercita in realtà simultaneamente, non ricono-  scono alle sue leggi che un valore ipotetico, correlativo al  cai'attere ipotetico dell' uomo economico e dello Stato eco-  nomico.   Ma qualunque sia cosi l'uno come l'alti'O giudizio, il  carattere scientifico della costruzione deduttiva rimane in-  contestabile. Nella misura che la corrispondenza colla realtà  psicologica è inadeguata, si dovrà riconoscere l'arbitrarietà  del postulato, e della costruzione che ne dipetide, in quanto  pretenda di porsi come scienza della realtà ; e a secoruìa  che si ammette o si nega che il postulato abbia valore  morale, si ammetterà o si negherà valore morale alla di-  sciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in ogni  caso restano incontestati questi due punti: 1.* che la ri-  cerca intorno alla corrispondenza colla realtà psicologica  e storica del motivo economico e delle condizioni nelle  quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla co-  struzione deduttiva dei teoremi economici ; la quale è va-  lida, 7iei limiti dell' ipotesi, sempre, qualunque sia il grado  di questa corrispondenza. 2° Che qualsiasi indagine valu-  tativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia pros-  simi sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è pa-  rimenti distinta, ed estranea alla costruzione scientifica     il metodo dell'economia pura nell'etica 6   <iometale; la quale rimane la medesima tanto se il motivo  economico è considerato come morale quanto se è tenuto  come immorale, o amorale, e quali che siano le ragioni  di questa valutazioue.        Supponiamo ora che il postulato edonistico sia ricono-  sciuto universalmente e accettato come postulato morale.  E chiaro che la disciplina precettiva derivata o derivabile  dall'economia pura avrebbe valore e carattere di precet-  tistica morale; sia che il valore morale del motivo econo-  mico fosse accettato per se come un dato primo e imme-  diato, sia che venisse derivato, ossia giustificato alla sua  volta, da un fine o da una esigenza ulteriore; e qualunque  fosse questa ulteriore giustificazione.   E opportuno su questo punto un breve chiarimento.  Nella supposizione ora fatta che il valoi'e morale <iel  motivo economico sia universalmente riconosciuto, non è  in alcun modo implicita l'aff'ermazione che sia riconosciuto  da tutti per la medesima, o per le medesime ragioni. Si po-  trebbe ammettei'e che esso si fondi per alcuni sulla legitti-  mità, senz'altro ammessa dell' « egoismo individuale » o del-  l' < egoismo di specie )>'come regola di condotta; da altri  sul cai-attere atti-ibuito alle leggi economiche di leggi na-  turali e necessarie e non modificabili dalla volontà del-  l'uomo; da altri sopra una interpretazione ottimistica delle  leggi stesse o degli effetti o risultati che l'osservanza piena  ed universale di esse produce o tende a produrre. E si pò-  irebbe del pari ammettere che V ordine di relazioni con-  forme al principio economico sia considerato come provvi-  denziale o divino e si riversi su di esso il prestigio e l'au-  torità di sentimenti e di credenze religiose o metafìsiche.        ^F^ ''fHli^i 'rfwff-'^ * ^" ' '''1*11:1 1 1. " *"••• " "• '' ""r"'- '     . rt5i» i n     •MM*.     .;4ih,»»>fa     ^'^^     ì     G     TI. METODO dell'economia PURA XELl'eTICA     A     Anzi si può affermare a priori che questa ulteriore giu-  stificazione o valutazione, dato che si faccia, sarà diversa  per le diverse coscienze a seconda delle opinioni religiose o  filosofiche diverse sulla «latura e sul fondamento della   moralità.   E tuttavia il valore morale della massima conforme al  motivo economico e delle norme che ne dei'ivano potrebbe,  nella disciplina precettiva supposta, essere legittimamente  assunto come un dato di fatto e trovare in questo la sua  giustificazione immediata, astrazion fatta dalla diversità  delle ulteriori valutazioni.   E in questo caso si avvererebbero le seguenti condi-  zioni :   1.0 Rimane fuori di discussione il carattere scien-  tifico della costruzione e della disciplina precettiva che se  ne ricava, il quale è dato dalla validità logica delle con-  clusioni, cioè dal rigore col quale sono dedotte dal po-  stulato.   2.° Rimane del pari fuori di discussione la elettiva va-  lidità inorale del postulato il quale è, per ipotesi, ricono-  sciuto universalmente conforme all'esigenza morale.   3.° Questa validità morale del postulato (e del sistema  di norme che ne dipende) sussiste così se il detto ricono-  scimento sia concepito indipendente, come se sia concepito  dipendente da un' ulteriore motivazione, e in questo caso,  qualunque sia il fondamento ultimo di questa valutazione   ulteriore.   E resterebbe perciò distinto dal campo della costruzione  deduttiva il campo delle indagini intorno alla natura e al  fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle condizioni  soggettive della sua validità e della sua efficacia : ossia il  campo «Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica e     IL METODO DELl'eCOXOMLV PURA XELl'eTICA 7   quello della ricerca propriamente psicologica e, nelle sue  applicazioni, pedagogica.   Ma, (,ui' avverandosi queste condizioni, anzi appunto per   il loro avverarsi, la costruzione scientifica in discorso non   potrebbe tuttavia sfuggii-e alle due limitazioni seguenti :   a) Non poti-ebbe dirsi la scienza della condotta morale,   ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to motivo   inorale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di fatto   la conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe sempre   da risolvere la questione; se quel motivo esaurisca tutto   il contenuto dell'esigenza morale, o questa non comprenda   altri motivi irreducibili ìì (|uello ; e quindi se le norme   contemplino tutta la condotta morale nella sua estensione   e nella sua complessità o ne contemplino solo una parte   od un aspetto.   h) Essa non esprimerebbe le norme di una condotta  attuabile sic et simpliciter in una forma reale storicamente  data di società; m:. di una condotta la cui piena attuazione  non è possibile se non nelle condizioni astrattamente sup-  poste ; cioè la condotta delT uomo morale ipotetico in una  società morale ipotetica.     II.     Oi'a il concetto che ho sostenuto e sostengo intorno  alla possibilità, al cai-attere e ai limiti della morale come  scienza (1) coincide, nei suoi lineamenti formali, con quello  che risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che sia   (1) Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ad altri  scritti precedenti: Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica.  Pavia, Bizzoai, 1901 ; e Su la possibilità e i limiti della morale come  Scienza. Torino. Bocca, 1907.     fm'mmme'9mmm>é'>f     A     s     IL METODO DELLPXONOMIA PURA NELL ETICA     * 7     ^-i^^7>     essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teo-  rica (ìi una trattazione morale, il costiruii'si di una scienza  Etica, nella forma e con un procedimento analoghi a quelli  dell' economia pura (1); e colla })ieiia consapevolezza che  la validità normativa e la applicabilità della disciplina pre-  cettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e dentro  i limiti che si sono oi- ora accennati.   Ma una costruzione etica analoga a quella dell'economia  pui'a presenta una difficoltà preliminare, che non si è su-  perata, ma soltanto lasciata in disparte, supponendo, corno  si è fatto arlificiosamente, riconosciuto valore morale al  motivo economico.   CI) Se qualche critico osservasse che é fuor di proposito voler traspor-  tare neir Etica un metodo e un procedimento che neir economia stessa é  « oramai superato », o almeno r ripudiato, dalla scuola storica in nome  della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle esigenze etiche,  potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione si dovrà tener conto  quando i moralisti avranno fatto nel fondare una trattazione scientifica  deir Etica tanto cammino, quanto ne lece nel campo dell'economia la Scuola  Classica ; e che a mettere in canzone le ipotesi e le « Robinsonate » degli  economisti si cominciò dopo che le ipotesi avevano già reso i più importanti  servigi e perchè si era preteso di scambiare senz' altro le astrazioni con  la realtà. iMa si può anche aggiungere che il metodo e il procedimento della  scuola deduttiva, accompagnati da una chiara coscienza delle condizioni e  dei limiti della validità delle loro conclusioni, sono i)iù vivi che mai nei  cultori né pochi né oscuri dell'economia pura; e che la scuola storica, se ha  il merito di cercare e mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle  categorie e delle pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i  quadri posti dalla Scuola deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi.  Gen. V) e ne presuppone le leggi determinandone le deviazioni e le limita-  zioni nelle diverse (orme storiche.   I.e scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare e correggere  i concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano il valore scien-  tifico nei limiti deiripotesi, ma ne negano il preteso valore morale : negano  cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità attril)UÌto arbitrariamente alle  leo-i/i economiche. Ed é facile avvertire che gli economisti di queste scuole  (con qualunque nome si chiamino) in realtà sono moralisti che cercano di     'il     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA 9   La difficoltà l'iguai'da la scelta e la determinazione del  postulato; il quale deve soddisfai-e a due condizioni : Tuna  comune all'etica e all'economia, F altra esclusiva dell'etica.  La condizione comune è l'applicabilità universale del po-  stulato come principici informatore di tutta la condotta; la  condizione propria dell'etica è che il motivo, di cui si po-  stula questa universale e incontrastata efficacia, abbia va-  lore morale.   Ora, VI è un motivo, del quale si possa legittimamente  presumere che sia riconosciuto universalmente il valore  morale, e del quale sia insieme possibile Tapplicazione uni-  versale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale  e collettiva ?   A questa domanda ho già cercato altrove di trovare  una l'isposta; esaminando prima in che consista l'esigenza  caratteristica di una norma morale ; e poi se vi sia e quale   volgere a uno scopo pratico (nella scelta del quale sono guidati da un criterio  etico) delle conoscenze fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche : e  la forma-limite di questa tendenza é una intera ricostruzione su basi etiche  dei rapporti eeonomici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero  dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di considerare l'esigenza  etica estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma anche economica  della società.   Ma ciò che più ini])orta di osservare a questo proposito é che una cri-  tica radicale — da un punto di vista etico — della realtà dei rapporti eco-  nomici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare all'economia pura non  un eccesso ma un difetto di astrazione. E il difetto di astrazione si rivela  in ciò: che mentre l'economia pura si propone di studiare l'azione isolata  del motivo economico, e perciò suppone ridotta l'azione dello Stato ada tu-  tela dell'uguale libertà per tutti, assume nello stesso tempo — come condi-  zioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p. es. la proprietà fondiaria, il  capitalismo e il salariato) che limitano o alterano T universalità o l'eflicacia  del motivo. Cioè o considera, per questo rispetto arbitrariamente, come ca-  tegorie necessarie^deWe categorie 5ioric/ie, o considera, pure arbitrariamente,  come eonforrni all'ipotesi delle condizioni disformi.     *-> -f     V " ■*'**i     10     IL METODO 1)P:LLE('ONOMIA FURA NKLL ETRA     IL METODO DELL'ECONOMIA Pl'RA XELL'eTICA     11     poss.'i essere il fine che abbia il carattei'e <ìi uiìivei'sale e  pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto a «^nustificai'e il valore  normativo del motivo corrispondente. La conclusione di  questa analisi era la seguente^ :   — La desidei'al)ilità di un ordine di effetti, che si as-  suma come fine non viene tanto dalla desiderabilità che  gli si l'iconosca come bene, cioè come oggetto diretto e  immediato di godimento, quanto dalla desidei-abilità degli  effetti, lei (juali esso apjiarisca la condizione necessaria.  E perciò, inenti-e è vano andar cercando quale sia il fine  ultimo, il quale non si trov.a mai, o si risolve in una  pura espressione verbale, il fine che può valei'e come su  premo si deve cercai'e non nelT uno o nell'altro de: fini  a cui si riconosca valore per sé, ma in un ordiiM^ di  effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia assegna-  bih*, nel quale si possa l'iconoscere questo carattere ap-  [)unt() di condizione necessaria non di alcuni, ma di tutti  quei beni, ai quali si attril)uisce valore per se. E quimii  il fine che può avei'e universalmente una desiderabilità  superioi'e a ogni altro, non juiò consistere se non m  un ordine genei'ale e, si potrebbe dire, preliminare di  condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perchè  sia possiì)ile universalmente la ricerca ulteriore <li ([uei  beni. Non può essei'e cioè supremo nel senso di una gerar-  chia, della quale segni il culmine, nò nel senso di una  grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso  (iella precedenza necessaria o della indispensabilità; per  la (juale venga a l'accogliersi su di esso come in un unico  foco la luce e il calore di desidei-abilità che irraggia dai  fini ai quali apre universalmente la via.   E perciò, ammesso che qualsivoglia fìne lancino abbia,  come ha in l'ealtà, per condizione la convivenza e la coo-     perazione sociale, il fine che può avere questo valore di  precedenza necessaria sugli altri deve essere di necessità  il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni  di convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche  forma di società. Ma perchè a.] una forma di società possa  essere riconosciuto questo carattere universalmente, occorre  che le condizioni della sua esistenza abbiano per tutti un  valore potenzialmente uguale; ossia che nessuno dei fini  dei quali quella forma di cooperazione pone la possibilità  e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle  esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno dei  componenti la società. in altri termini che tutti i .socn  trovino nelle condizioni di esistenza della società la mede-  sima equivalente possibilità esteriore d\ rivolgere la loro  attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la  convivenza e cooperazione sociale è condizione — (Su la  possibilità ecc. L Gap. VII, 8).   Ora se si riconosce come esigenza della giustizia, questa  esigenza alla quale deve soddisfare una forma sociale perchè  abbia universalmente valore di fine prossimamente supremo,  determinare questo fine equivale a determinare un tipo di  società nel quale siano attuate le condizioni richieste d^lla  giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale - conforme a questa  esigenza - di homo iustus e di socielas insta. E ciò equivale  a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe effettuato  neU: ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia in-  dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o  di in/Iuenza che si eserciti cosi dalla società come da  ciascuno dei singoli, subordinassero universabne^ite e  costantemente qualsiasi altro motivo o desiderio al de-  siderio della giustizia.   E se supponiamo che con un procedimento analogo a     Ou     \ i     m   ,_.J. IH     (     Afa     12     IL METODO r)?:LlV ECONOMIA PURA NELL ETICA     r  ■ ■■'■'     J     quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema Hi l'elazioni  che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, fosse già detet-niinato, noi  avremmo una Scienza pura della Giustizia, una « Diceo-  logia » piD'a, alla quale sarebbei-o totalmente applicabili  le considerazioni fatte sopra (v. pag. 6-7) circa i cai'atteri  e le limitazioni che pi'esenta una costi'uzione siffatta.     Ili,     Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza pura  della giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole  sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali : di essere  una costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì, monca.   Di queste obbiezioni occoi're chiaiMre la portata.   1. — L'aid)itrarietà della costruzione supposta pU(') es-  sei'e intesa in due sensi : nel senso che la validità delle  norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postu-  lato, il cui valore è bensì assunto come un dato di fatto,  ma senza una ragione perentoria che obblighi ad accettarlo;  oppure nel senso che è difjbrrne dalla realtà e insussistente  r ipotesi di una condotta subordinata universalmente e co-  stantemente all'esigenza della giustizia.   a) Se si intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qua-  lunque dottrina etica è aidjitraria ; perchè il valore del  postulato fondamentale (ossia del motivo, o del tine, o del   (1) L'economia dà al postulato edonistico un contenuto materiale deter-  minato considerando come « soddisfazioni » le soddisfazioni di certi biso<'-ni.  e come « sacrifìci » certe privazioni e certe pene; mentre al postulato della  giustizia il contenuto materiale, al quale se ne deve fare l'applicazione, é  dato (la tutte le specie d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi sol-  tanto quelli la cui ricerca o proseguimento importano la negazione del prin-  cipio regolatort^ supposto) che in una società data sono possibili.     ili     IL METODO dell'economia PURA NELL'etICA 13   criterio di valutazione) quale si sia, è sempre ammesso  assunto, ossia si suppone o si ammette che sia ricono-  scinto come tale; e nessuna dottrina etica può compiere il  miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione pe-  rentoria - se è una ragione, - non può consistei-e che nel  ricondurre il valore del postulato a quello di un altro fine  o di un'altra esigenza ulteriore, della quale si ammette o  SI suppone ancora che la validità sia riconosciuta. E se si  dice che è prop.-io del fine o dell'esigenza morale il pre-  sentarsi alla coscienza come un valore che non si può di-  sconoscere, si auìmette che questo carattere è già dato nel  fatto stesso che l'esigenza è i-iconosciuta come morale;  anzi che il motivo vale assolutamente, appunto perchè vale  come morale; il che vuol dire che impone il proprio va-  lore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è  sempre in ultima analisi il valore morale dell'esigenza  che é preso come un dato primo o come un postulato. Se  si intende dunque in questo senso, qualsivoglia dottrina  etica è, perchè etica, arbitraria.   Se poi si pone come caratteristica del valore morale la  possibile validità universale della 7nassima corrispondente,  nessuna esigenza è piti radicalmente universale di quella  che esprime la condizione stessa di questa possibilità.   h) Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto in  effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda  o non corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato  della realtà psicologica rivelato dall'analisi della coscienza  moi-ale, è una questione diversa. E se l'arbitrarietà s'in-  tende in questo secondo senso, come difetto totale o par-  ziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro,  non nel considerare come morale l'esigenza della giustizia,  ma neir assumere questo motivo come il motivo morale.     fi     JH^ffriaililfffiìliilì" l'^Srftt'^i'-        !£?     |^iftU>&t-M»'^**'*>'*^'*WlWiiw3».W'.ifc^ 4     14     IL METODO DELI/FXONOMrA PURA NELL ETICA     IL METODO dell'economia PUKA XELl'eTICA     15     menti'e la realtà empirica ne pi*esenta anche altri ; e nel  considerai'lo isolato da questi, mentre nella realtà sono  più o meno strettamente connessi e coopei'anti o contra-  stanti con q ìlei lo.   Non ho nessuna ditlicoltà a riconoscere che la costru-  zione supposta è, anche per questo ris[)etto, arbitraria ; al  modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario qualunque  sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un' arbi-  trarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché  non si pretende che essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt)-  l'ale dato ; e la costruzione si dà per quel che è, cioè per  una scienza che sai-ebbe la « vei'a scienza » della morale  com' è , se le condizioni dell' ipotesi rispecchiassero la  realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè supporre  che il motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\  poniamo il motivo altruistico? 0, meglio, perchè non as-  sumere come motivi morali, o l'ispondenti all'esigenza mo-  rale, tutti i motivi che la realtà psicologica l'ivela valere  in effetto come tali? La l'isposta all'una e all'altra domanda  non è diffìcile.   L'assumere come rispondenti all'esigenza morale i cri-  tei'i molte[)lici che si i-ivelano nelle norme empiricamente  date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad assumere  l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a co-  sti'uire non una scienza, ma una veste da Arlecchino. Perchè  la morale empii'icamente data rivela criteri non di rado  opposti, e del medesimo ci'iterio le applicazioni più artifi-  ciose e vai-iabili (1). Ora, che l'esigenza morale possa   U) Tralasciando pure di insistere, come lio già osservato altrove, perchè  è cosa troppo nota, sull'antitesi fondamentale esistente tra le norme di con-  dotta che valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace e di  guerra, e sui contrasti, tragici talvolta, tra i « doveri » famigliari e i « do-     co„,poru,.e criter, ,ì,ver.i e anche opposti ,fi val,„az,one  senza cessare di essere morale, s, potrà aocl.e ammettere  (purché s, s.a disposti ad accettarne le conseguenze;; ma  che si possa, assumendo criteri contraddittori!, costruire una  <iotti'ina coerente, non si può sostenere.   Bisogna dunque scegliere; e la scelta ,iel motivo della  giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella ,U uno fra più  "on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della  scelt.. Poiché è facile rilevare che il motivo delia giustizia  e 'I solo al quale si possa supporre che risponda in effetto  universalmente e costantemente tutta la condotta senza  che l osservanza da parte degli uni richieda o presup.  ponga l inosservanza da parte degli altri. L'altruismo  come fu già notato, non potrebbe essere oss.Tvato univer'  salmente, se non a patto che fosse subordinato alla sua voka  a mia norma di giustizia. Infatti, affinché sia possibile  I abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé agli altri,   veri ,, sociali, bisogna osservare che le „or,„e date e accettate come morali  o.o,.o contemplare e contemplano realn.ente, almeno ,„ parte, de„e rela-   wL ; T ' ,•'" ' ^^■■»'°"» — P-"^i" "> S-iadi relazioni   pr.ma,,e e fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la ne-  gazione del crueno applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e „   ruiieTau: r"'T, '"^' t"'- '- ^ ^"""""^ ^'- "- ■-- - -'-   I iano i In ""'.T""" '""" ''"""■^"••^ '"■• '"" "-^-'^ cercare ,,uale   a qu le concila la minima fatica del primo col minimo disagio del secondo  crueno seguito qu, é un criterio d, equità; si riconosce ciocche non sa-   omodi;T'"'.° ""'°"° ° "'"^ '" ■-^^""° "«' "-■ " P--''-e tutte le  comodità per se senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se questo  crueno (seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata ,,uella conLol  <i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one t,-a i due p,Jl   Z^JT'"" '■'■^''-'™-"- P~« e portato, questa .:J^::Z  TorT "T"" '»™"'--'>^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la norma   nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non esis,e,.ebbe, o sai-ebbe  tutto d,verso, se essa fosse applicata al sorgere di quel .-apporto     NH     itì'i^tli^'^'iiÉi'Tiiii^i «ì.»lA:.m.iLlMiì-. Hif     ^••s«ì»?T<P7**     *3«iaw*»*jsf^wsw«/     tì-^      Ifi     IL METODO dell'economia PURA NELl'eTICA           / fttTi--'     bisogna chf^ gli nni si .saci'ifichii)0 e gli altri o qualche  alti-o accattino il sacnfi/io ; cioè bisogna che gli uni os^or-  vino la massima (lell'altruismo, e gli altri o qualche altro  quella dell'egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba  poter saci'ifìcarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di  osservare che in tal caso praticamente i sacrifici si eli<le-  rebber.)) fiisogna che la condottta altruistica di ciascuno  non impedisca una pari condotta altruistica degli altri ;  cioè bisogna che fattività altruistica alla sua \olta sia  governata da una norma di giustizia.   Ciò viene a dire che la famosa formula Kantiana, se  si considera nella possibilità della sua applicazione simultanea  per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è suscettiva d'altra  inter[)retazi()ne che di massima univeisale di giustizia nel  senso sopra chiarito (1).   (1) In un Saggio originale e sucrgestivo, che vale bene più di qualche  grosso volume inconcludente, Mario Calderoni illustrò recentemente una  concezione economica della morale (che non tocca in nulla, benché a prima  vista sembri antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva giu-  stamente come la maggior parte delle azioni « virtuose » non siano considerate  come tali se non perchè «sono prodotte in quantità inferiore alla domanda»;  e son per noi un « dovere » appunto perché gli altri uomini non le lanno,'  e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini capaci e vo-  lonterosi di imitarle. E trae da questa considerazione la conseguenza che la  formula di Kant è del tutto inapplicabile.   Ora è certo che il Kant intendeva di parlare di validità universale del  motivo a cui si informa Ta/ione. che può essere quindi variabile secondo le  circostanze, pur rimanendo il medesimo il motivo che la detta; e che non  può richiedere uniformità di condotta esterna se non nel caso che si tratti  della medesima attività esercitata nelle medesime condizioni esterne.   Ma (juando m supponga avverato questo caso, si troverà che T unico mo-  tivo, il quale comporti uniformità universale di condotta è il motivo della  giustizia; e che intesa così, la formula di Kant resisterebbe alla critica  anche dal punto di vista del Calderoni. {Disarmonie Economiche e Disar-  monie morali - Firenze, Lumachi. 1906. V.» Cap. Ili: La marginalità nella  Morale).     tt-"K        ^tkiìAtmm l i aiAl iì i ilfiW i r^Mftm i r m     \^^A>m»mtm\ì^iMu\,ìiimàai>im.'^ÌM<-ii^uéM'n^'^     ■■ -r I irr-* uriii^iiii     H. METODO dell'economia PURA XELl'etICA     17        2 - Assumetelo dunque, se cosi vi piace, codesto vostro  postulato, e costru.tevi la vostra . Scenza pura della  giustizia ». Cile ne farete poi? —   A che c<,sa propriamente potrebbe servire costruita  elle fosse, non si può con esattezza determinare ,n prece-  'lenza. Si potrà vedere, nel caso, quando sia fatta o pi ut-  "«to, a mano a mano elle si venga facendo. Troppe ricerche  . el resto non si farebbero se si aspettasse di averne diino-  strato 1 utilità; e ,li troppe altre , risultati portarono frutti  <lel tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che riu-  scisse inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é la prima „ó  u'iica ,n questo genere, specialmente nel campo della  morale. E t,.a le molte curiosità, perchè non dovrebbe  trovar posto anche questa : ,ii sapere come andrebbero le  faccende di questo mondo se gli uomini si decidessero ad  essere tutti e sempre e in ogni contingenza della vita so-  liratutto e prima di tutto giusti?   M.-i è pur naturale d'altra parte che debba intravederne  almeno qualche possibilità ,li applicazione eh, la propone  e che ne debba dire qualche cosa.   Le applicazioni possono essere principalmente due: come  mezzo di interpretazione o di sistemazione scientifica della  realta morale ,lata; e come fondamento di una disciplina  precettiva, ossia di un'Etica applicata della giustizia.   a) Se 1 osservazione psicologica dimostra che è arbi-  traria, nel senso che s'è detto, l'assunzione del motivo della  giustizia come unico motivo morale, dimostra pure <die  quel valore gli è però realmente riconosciuto: e che se  non ., riconduce ad esso effettivamente ogni valutazione     18     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA     ^nica, esso entra però come elemento o fattore di valuta-  zione in qualunque giudizio morale. Può essere dunque  opportuno, a uno scopo di sistemazione coerente delle norme  effettivamente vigenti, conoscere quali sarebbero se questa  esigenza operasse isolatamente, cioè se tutte si ispirassero  unicamente ad essa; e considerai-e, con un artifizio di cui  tutte le scienze offrono innumerevoli esempi, come devia-  zioni limitazioni risultanti dalla presenza di alti'i motivi,  le norme che non coincidono con quelle astrattamente  dedotce.   Sarebbero, per un vei'so, da considerare come tali le  norme della condotta politica interna ed esterna ispii-ate  dall'interesse dello Stato, o del maggioi- numero, o di una  classe, in quanto al rispetto di queste esigenze sia atti-ibuito  valoi'e morale (1).   E sarebbe, pei- un altro vei'so, possibile interpi'etare le  norme della beneficenza come espressioni della stessa esi-  genza della giustizia, in quanto si considerano rivolte a  sanare o a lenire gli effetti che ne accompagnano 1' inos-  sei'vanza, e le deviazioni o le limitazioni.   h) Ma l'applicazione più rilevante riguarderebbe l'Etica  propriamente intesa come disciplina normativa.   La < scienza pui'a della Giustizia » appunto perchè  considera già raggiunte e attuate tutte le condizioni richieste  dalla esigenza che essa postula, ossia, in termini equivalenti,  fa astrazione da ogni circostanza interna od esterna che  ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia, configura un sistema  di relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula   fi) Sarebbe possibile per questa via togliere — dico nella trattazione teo-  rica — certe contraddizioni o antinomie davanti alle quali si arrestano  solitamente i filosofi del diritto quando ne determinano le « esigenze razio-  nali ».     ••■<        IL METODO DELl'kCOXOSIIA PURA NELl'eTICA     19     •delle leggi, le quali possono valere come tali soltanto nelle  condizioni contemplate dall' ipotesi ,- vale a Hn^e non sono  suscettive ,li applicazione, sic et simpliciler, a condizioni  iliverse. Ma se si ammette che T onime di relazioni ipote-  ticamente costruito abbia valore di fine, cioè se si ammette  come normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà luo-^o a  cercare e a .leterminare (bencbè questa determinazlne  debba riuscire, come è facile prevedere, assai difficile e  complicata) quale sia in condizioni reali storicamente date  la condotta, die nei limiti imposti da queste, è ini, atta a  favorirne la trasformazione nella direzione segnala dalle  condizioni ideali contemplate nell'ipotesi.   Ossia si potrà ricavarne un'Etica applicata della Giu-  stizia, alla quale la realtà storica fornirà la conoscenza  delle condizioni tra le quali si deve spiegare e dei mezzi  ai quali deve ad.-guarsi, per essere praticamente efficace  la condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come darà la conoscenza  'Ielle varie specie di attività che l'esigenza .iella giustizia  e chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla forma  <lella giustizia il contenuto materiale.   E le norme, cosi ricavate da questa applicazione a una  realtà data delle leggi .Idia Giustizia pura, saranno valide,  se SI accetta come fine morale prossimamente supremo, cioè  precedente a ogni altro fine generale e speciale, l'attuazione  del sistema di relazioni contemplato da quella, e come mo-  rale la condotta corrispomlente.     IV.     3. Cosi questa Etica applicata, come la Scienza Pura  dalla quale essa si ricava, è indipendente da qualsiasi dot-  trina metafisica, ma non pretende di sostituirla. Ignora i     jl     '4i*f ••ti«3g-#^Bt 'mws--**smmm»pmmmmmmm.<mK^^''mm-Mmà     20     IL METODO DELl'fXONOMIA PURA NKIJ/ ETICA     problemi metafìsici ; ma nel senso che non no richiede e  non ne assume una certa soluzione piuttosto che un'alti*a;  non nel senso che ne neghi l'esistenza o ne escluda la trat-  tazione. Ilimane di fronte ad ossa iinpi'ogiudicata, e da essa  distinta, ogni questione sulla natura e sul fondamento ukinìo  delTesigenza stessa morale; così come rimane impi'egiudicato  il pi'oblema pratico, o pi'opriamente psicologico e pedagogico,  intorno al valoi-e e all' efficacia delle credenze religiose o  metafìsiche come condizioni o fattori sof^^-jcttivi dolla moralità.   Ma, ciò nonostante, o forse appunto pei'ciò, è verisimile  che sia giudicata, specialmente alla stregua delle tendenze  più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o contcmpoi'aneo,  doppiamente monca ; monca considerata come dotti'ina ;  monca considerata rispetto alla efficacia pratica.   a) Cei'tamente può parere strana se non ingenua Tnlea  di segnai'e una divisione di competetjza tra T indagine scien-  tifìca e rin(iagine proprianifMite filosofìca e metafìsica, men-  ti'e pai'e di assistere a una specie di «atto di coiitrizion<' »  delle stesse scienze speciali già formate ; le quali, dopo es-  sersi staccate e aver pi'oclamato la loro indipendenza dalla  filosofìa, sentono il bisogno di ritornare ad essa e di rin-  tracciare in lei le origini della loi'o vita e la ragione del  loro valore. Tuttavia una considerazione un po' più attenta  può mosti-are die il contrasto è soltanto a})parente e che  la tendenza delle scienze speciali all' inter|)retazione e alla  integrazione filosofìca dei loro presupposti e dei loro risultati  non esclude, ma piuttosto include, la legittimità di una di-  stinzione anche nel campo delia morale. Perche essa })re-  suppone appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati ,  i loro metodi i Ioì'O risultati, e che i sistemi speciali di  dottrine cosi edifìcati sussistano ed abbiano una validità  propria, sia pure limitata e provvisoria, all'infuori dell'in-     i,*~'     ;«*\ltj     IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA 21   terpretazione e della valutazione che ne debba o ne possa  ■ fare la metafìsica. In questa specie di Conferenza perma-  nente dell' Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è  la mutua collaborazione delle diverse discipline alla critica  e alla integrazione del sapere e del valere umano, sono  gli Stati che hanno territorio e giurisdizione propria che  possono far sentire la loro voce. I delegati della Corea  sono esclusi.   Intendo quello che si può dire: - La morale è essa  stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle quali è  subordinata la valutazione di tutte le altre discipline dei  loro principii e delle loro conclusioni. - Fosse pure, o, piut-  tosto, dovesse pure essere cosi. Quali sono queste esigenze  della morale ? Come si determinano ? Qual' è, fra i molti  sistemi diversi opposti e anche contraddittorii, quello auto-  rizzato a rappresentare « la morale *, e a far valere le  sue esigenze come esigenze ideila morale *ì E se si può  distinguere una esigenza immediala e caratteristica, dato  che SI trovi, della valutazione morale, dalle esigenze ulte-  non, argomentale o poste da questo o da quel sistema per  interpretarla o giustificarla, allora è nello stesso tempo data  la distinzione tra esigenza propriamente morale ed esigenze  avanzate ,ia una interpretazione o integrazione metafìsica  della esigenza morale; e si delinea insieme una separazione  legittima tra V indagine che cerca di risalire dall'esigenza  morale ai postulati metafisici, e l'indagine che ricava dal-  l'esigenza morale le applicazioni che logicamente ne discen-  dono.   - Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza,  valutazione morale e valutazione metafisica formano un  tutto unico; e separando l'esigenza etica dalla fede me-  tafisica colla quale è fusa e della quale si alimenta, s,     \ \     è     22     IL METODO dell'economia TURA XELl'eTICA     IL METODO dell'economia PURA NELL'eTICA     23     spezza r unità della coscienza , si oscura o si cancella  il signitìcato e il valore interiore della moralità, e si pre-  senta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo stampo  esterno e quasi l'impronta fossile dell'atto morale. —   Sarà verissimo; ma nessuna costi-uzione dotti-inaU può  sfuggire a questa obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e  che è fatto oggetto di conoscenza riflessa e i-agionata diventa  perciò stesso un tipo, uno stampo, un fossile; anzi stampo  è la parola, stampo ò la stessa rappresentazione artistica  se non è vivificata e i-isvegliata da chi la deve intendere  e gustare; anzi sono diventate ormai stereotipe, per colmo  di evidenza probativa, perfino le fi*asi e le immagini usate  a mostrare la « i-icchezza e la varietà inesauribile» della  coscienza e delle sue ci'eazioni.   E quanto al sepai«are nella teoria ciò che nella realtà  è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca è  prima di tutto distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto  stesso, ogni fatto (diceva già un chimico, il Chevreul,) è  un' astrazione. Ciò che importa veramente è di non dimen-  ticare che l'astrazione non è tutta la realtà.   Ora, sceverando dal complesso degli elementi, onde la  vita etica nella coscienza personale iMsiilta o può risultare,  quello che è suscettivo della più universale applicazione, e  costruendo il tipo di vita che ne risulterebbe, non si pre-  tende di esaurire il contenuto della coscienza, ma soltanto  di distinguere le norme di condotta a giustificare le quali  basta uu certo postulato, dalle norme e dalle forme di vita  morale che si fondano sopra altre esigenze ossia l'ichie-  dono altri postulati.   E chi crede che la chiarezza dei concetti e il l'igoi-e  del procedimento si debbano poi'iare, fin dove è possibile,  anche nella speculazione etica, ammettei-à che può essei-e           que-     utile allo scopo, se non anche necessario, il seguir(  sta via (].).   — Rimangono altri problemi. - E chi lo nega? Ma  prima condizione per cercar di risolverli con frutto è di non  confonderli tra di loro.   h) E nasce da una confusione di problemi diversi  l'obbiezione, che si potrebbe dire pragmatistica, del difetto  di efficacia pratica, o più esattamente parenetica o pedago-  gica, di una dottrina morale che faccia astrazione da ogni  valutazione metafìsica, e presenti un sistema di norme che  ha di necessità soltanto un valore ipotetico, cioè, nel caso  nostro, condizionato al valore che può avere nella co-  scienza il motivo impersonale della giustizia.   (lì Le espressioni di più d' un antiintellettualista indurrebbero 4uasi ad  ammettere che la morale sia una specie di grande imbroglio, nel quale a  voler vederci chiaro, si finisce per non credere più. Ora, altro è riconoscere  Cile ogni valutazione é in ultimo data alla intelligenza e non dalla intelli-  genza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento può far volere un  fine che non sia già voluto, o per sé, o come condizione a un altro fine- altro  è credere ed aOermare che T intelligenza o la ragione sia « in contrasto »  colla moralità.   Come potrebbe essere ? Non certamente in quanto si rivolge a determinare  1 mezzi necessari e convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma  ancella della volontà in generale, e, se la volontà é « buona ». della volontà  morale. Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la va-  lutazione del fine (cioè delP oggetto o contenuto materiale del motivo mo-  rale) mostrandone \^ connessione, prima ignorata o trascurata, con qualche  cosa d' altro, che sia oggetto di una valutazione diversa; diciamo, per co-  modità, negativa o repulsiva. E allora, poiché la valutazione di questo  qualcosa d'altro non può venire dall' intelligenza (la quale, come si sa. chia-  risce rapporti, non dà valori), manifestamente non si possono dare che due  casi :   ha origine nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto  che mettere in chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia  in realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non     ^'Ìitffl^-Él TBrti^tea^. JjW smÈj^i^ K     *"«Sf|i|s^->»^.f«^Pf«W'-;j»-t»f,     ■imN»iiiAi 4 ii ' ip » iii w - i WWM     m^SMÀJà^-'4i^^.&MÌ&     ^aJS^^lSM^SSLàZ.-^        yùtimLà      24     IL METODO DELL ECONOMIA PURA XELl'eTICA     ffi.     Poiché è uggioso a se e agli alti-i l'ipetere cose già  dette, e su questo punto ho insistito a lungo altrove, mi  restringo qui a riafTermare la legittimità, anzi la necessità  logica e la convenienza morale, di tenei- separata netta-  mente ogni ricerca che si volge a detei-minare quali siano  le norme di condotta richieste da un certo fine, dalla ri-  cerca delle condizioni e dei fattori dai quali dipende o può  dipendere Fosservanza delle norme (1). La legittimità delle  deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti rispetto  al fine sussistono indipendentemente dalla presenza o dalla  assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono l'os-  servanza, e dalla natura di questi motivi. Come il conte-  nuto e la giustificazione delle prescrizioni d'un medico non  dipendono dalla disohbedienza o dall' obbedienza dell' am-  malato nò dalle ragioni di questa obbedienza.   tocca in nulla il valore e l'efficacia del motivo morale. Ammettere il contra-  rio sarebbe come dire che cessa di amare la giustizia chi cessa di difendere  una causa che ha riconosciuto ingiusta.   ha origine in un motivo non morale (poniamo in un interesse egoistico);  e anche qui l' intelligenza non farebbe che rivelare una condizione di fatto :  la presenza e Tefficacia di motivi non morali nella valutazione dei fini e :lella  condotta. La conoscenza dunque, anche in questo caso, non altera il valore  del motivo morale; può eventualmente mostrare che il valore e T efficacia  sua non è esclusiva, o incontrastata come si supj)oneva. Ma correggere un  errore di giudizio non é cambiare uno stato di fatto.   Potrebbe dunque, tutt' al più, togliere un' illusione. Ma è nell' illudersi  d'esser morali che consiste la moralità?   (1) Questo conformarsi o non conformarsi si suole a torto, per abuso di  linguaggio, attribuire a una pretesa « efiicacia pratica » delle norme; men-  tre le norme - perse - hanno, a promuovere l'azione corrispondente, una  efficacia non maggiore di quella che abbiano i fanali di una strada a muo-  vere le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di linguaggio, che nasce  da un difetto d'analisi, ha alimentato la confusione tra esigenza giustifica-  tiva e esigenza esecutiva, tra l'obbligo e la giustificazione dell'obbligo, e la  pretesa illusoria che una norma possa o debba avere in sé forza obbligativa.  Cfr. Prolegomeni ecc. , e. I: (L'esigenza esecutiva) ; e Studi su la possibilità  I, Gap. III. (La pregiudiziale dell'imperativo categorico).        ^é^^l^ f à'K^m^,^ i^^'^tliÈ '^f^i     IL METODO dell'economia PURA XELL'eTICA     26     La reale presenza ed efficacia di motivi «ufficienii a  determinare T osservanza è in ogni caso si>,pposta , non  . posla da qualnnque costi-uzione precettiva; e il «„ppori-e  operativo d motivo della giustizia non esclude, ma piut- i  tosto include, una ulteriore valutazione del motivo stesso '  ogniqualvolta nella realtà esso derivi in tutto o in parte  la sua forza da questa sopravalutazioiie.   Ma anche in questo caso non bisogna dimenticare che  una tale efficacia .sarebbe sempre essa stessa posMata  come un dato di fatto, non comunicata o la,-g,la da una  fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione re-  ligiosa o metafisica non pone essa le credenze, ma le sup.  pone già viventi e .operanti. Il suo valore come motiva-  zione morale dipende dal valore reale che esse hanno  nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa appello  a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale ,,el-  i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei  dati assunti da lei. E se questa fede mancasse, una fon-  <iaz,one metafisica o religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla  condotta una efficacia non diversa né maggiore di qualsi-  voglia costruzione arbitraria.   Senonchè si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare  che SI ,ie^e appunto volere quella fede dalla quale si può  aspettarsi l'incremento del motivo morale, e che, poiché  SI tratta di « optare», conviene dal punto di vista' pratico  optare per una fede moralizzatrice. E compito del moralista  «ara perciò di affermare e suggerire quella fede come  presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia-  l'tà, e presentare la dottrina morale connessa e incorpo-  rata con quella fede.   Su un discorso di questo genere ci sarebbero da .lire  molte' cose; notiamone poche.   E prima di tulio convien pur ripetere che un tal compilo.     t^ 1         2i') IL METODO dell'economia PIRA NELl'eTICA     fc m     (lato che spetti al inoi-alista, ^Hi spetta in quanto è o pre-  tende (li essere educatore o apostolo, non in quanto si  propone di cercare quali concernenze ini[)liclii V accetta-  zione di un cei-t() postulato e si contenti di atierniare che  chi accetta il postulato deve accettai-e le hoimikì che ne  discendoiHi. I due uffici non si identificano ; chi ha slo//(i  di ricercatore può non avere stoft";i di a[)()stolo o di avvo-  cato ; e potrehhe in og"ni caso invocare aiiche qui il prin-  cipio delhi divisione del lavoro.   Ma dal [)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tut-  t' altro che incontestahile. Suggerire e infondere una fede!  E presto detto. Ma in che modo o per (jual via? Partendo  dall'esigenza pratica per arrivare alla credenza, cioè pre-  sentando la fede a[)punto come sostegno e guarentigia della  ni orai ita ?   Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non si nega in  effetto, neir atto stesso che si afferma, il valore assoluto  dei postulati religiosi o metatisici, dal inoinetito che essi  sono affermati o posti come condizioni o fattori nella pro-  <luzione di certi effetti, cioè sono valutati utilitariamente;  e se non si offende il sentimento religioso, considerandolo  unicamente come un motivo sussidiano invocato a sup-  plii'e alla fiacchezza del uiotivo morale. Un pragmatist.a  conseguente potrehhe non avere (ii «juesti scru[)oli.   Ma lo scopo stesso a cui mira il pragmatista vieti meno  in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò che si  vuol produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale  un sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza  di esso. Con un risultato non dissimile da quello che hanno  di solito le discussioni ; dove le rai'ioni usate a sostenei'e  un'opinione persuadono soltanto chi è già persuaso; cioè  hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è superfluo  servirsene.     ''^P^«^«f^^i^pS?R,fwpp«*f^9f?i^!wp|^r^^     IL METODO DELl'eCOXOML\ PIRA NELl' ETICA     27     Se si tiene invece una via diversa, e si intende di edi-  ficare la credenza su una educazione propriamente dog-  matico-religiosa, dov'è più la ^ opzione^, la affermazione  libera e spontanea della coscienza?   E come può il moralista educatore presentare o im-  porre come unica e definitiva una iede, o una credenza  religiosa o filosotìca^che egli sappia essere personale e « vo-  lontaria » ?     La vei-ità è che mentre nel valore morale (posto che  sia riconosciuto) del postulato che si assume a fonda-  mento della costruzione scientifica, è necessariamente im-  plicito il valore morale delle norme che ne esprimono  l'applicazione, non è necessariamente implicita l'accetta-  zione di certi piuttosto che di cert' altri postulati metafi-  sici. Mentre, accettato un postulato di cui sia possibile  r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica basta  a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la  coerenza logica n07i basta a porre come necessariamente  richiesta da quel postulato una determinata fede religiosa  filosofica ad esclusione di qualsiasi altra. La salita al  cielo dei postulati metafisici non si fa colle scale della lo-  gica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel fatto  che possono trovarsi concordi nelT accettare e nell' osser-  vare la medesima esigenza morale uomini di opinioni i-e-  ligiose e filosofiche diverse; come, inversamente, può la  stessa fede religiosa e filosofica presentarsi, nella realtà  storica e psicologica, connessa con norme morali discordanti).  E la « libertà dì coscienza > sarebbe una frase vuota  di senso o piena di immoralità^ se il voler la giustizia e  Tesser giusti richiedesse o l'esclusione di ogni fede o  l'accettazione della medesima fede.   E. JUVALTA.     \      ài ^     *l     fondata dal Prof. Sen. C;     Estratto dalla Rivista Filosofica     VRLO Cantoni (Novembre-Dicembre 1907)              17/      }     •t     !     « M      '■««*Sfe     ' ***        ■h '-     ^W.     r     ;'i-        "^■rt^'     7         ^     i Ja*»'*'.*'"'     •j»^».     .ii     ^     vy»     '^M      \     I     ^     \     V *  . JUVflliTfl     La Possibilità l     I e i Limiti    MORALE     STUDI     TORIflO   FRATELLI BOCCA EDITORI  1907                     A 1 / VERTENZA    In questo volume sono raccolti tre scritti pubblicati in  più riprese nella Rivista Filosofica diretta dal mio in¬  dimenticabile maestro ed amico Carlo Cantoni, al quale il  profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non  tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei di¬  scepoli, la lil>ertà e la sincerità.   Benché diversi di titolo, i tre studi che ora ripubblico  riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del me¬  desimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, cia¬  scuno dei successivi, i precedenti.   Anzi il primo dì essi è, alla sufi* volta, continuazione di  un altro pubblicato anteriormente col, titàlol « Prolegomeni  a una Morale distinta dalla Metafisica » ; nel quale è esa¬  minato il problema della possibilità di un’ Etica normativa  indipendente da qualsivoglia soluzione, positiva o negativa,  dei problemi di natura metafisica. E perciò spero di essere  scusato se mi riferisco qualche volta anche ad esso ; e se in  in questo volume sono lasciate in disparte, o trattate con bre¬  vità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni delle  quali s’è già discorso in quello.   Anche to' importa di avvertire, sempre a proposito dello  Studio « La Dottrina delle Due Etiche di H. Spencer e  la Morale come Scienza », che — se nella esposizione sia  generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho cercato      %   _ 2 —    studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero dello  Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto  di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico  che assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio  precedente. E per questa ragione ho tralasciato deliberata¬  mente non solo qualsiasi digressione, ma ogni discussione  che non fosse strettamente necessaria allo scopo mio parti¬  colare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di accenni  alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.   Pavia, Settembre 1900.    E. Jl’VAI/TA.            e la Morale come Scienza       INDICE    Introduzione .*   1. Movente etico-sociale dell’opera dello Spencer. — 2. Conse¬  guenze nella valutazione delle suo dottrine. 3. Scopo  dello studio presente.   PARTE I"   (Cap. I. e li.)   Esposizione.   Cap. I. — La Dottrina etica in yenerale .P“g- 15   1. 11 concetto informatore. — 2. La distinzione delle due Eti¬  che. — 8. Il metodo dell’ Etica. — 4. I dati dell’ Etica.   — 5. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo , e possi¬  bilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica.   Cap. II. — La dottrina delle due Etiche . P a g- 25   1. Due questioni fondamentali , attorno a cui si raccoglie la  dottrina. — 2. Il giusto assoluto. — 3. Il giusto relativo.   — 4. Errore comune nel modo di concepire la condotta  ideale. — 5. La priorità scientifica dell’ Etica Assoluta  «sull’Etica Relativa. — 6. n confronto colle altre scienze.   PARTE H“   (Cap. m.-V.)   Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto  dal quale hanno origine.   Gap. III. — La pregiudiziale dell’ imperativo cateyorico pag. 40  Partizione della Critica. — 1. L’imperative categorico. —  2. L’ obbligo e la giustificazione. — 3. La progiudiziale  dell’ obbligo categorico è estranea alla determinazione e  alla giustificazione della norma. — 4. In che consista la  differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni  precettive. Compito dell’ Etica.         — 6 —    Cai*. IV. — La pregiudiziale, .sul modo di intendere il   compito normativo dell’ Etica .P a S - *   5. La progiudiziale sul compito normativo dell’Etica. G. Co¬  me esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti. 7. Due  presupposti arbitrari comuni ad ambedue : a) che le norme  siano già determinate e note. — 8. b) che si accordino  fra di loro. -- Necessità di un criterio per la determina¬  zione. — 9. La soluzione dell’indirizzo sociologico - Suo  difetto capitale: non vale a giustificare le norme. — 10. La  soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. 11.  Difetto capitale : la costruzione metafisica postulata, come  qualsiasi costruzione metafisica, non serve a determinai e   10 norme.   Cap. V. — Il preconcetto fondamentale .P»g- G6   12. Presupposto comune ai due indirizzi. Da questo nasce l’an¬  titesi tra esigenza scientifica (determinazione) ed esigenza  etica (giustificazione). — 13. Legittimità di porre il pio-  bleina in una forma diversa. — 14. Conclusione della Cri¬  tica Preliminare.   PARTE III.*   (Cap. Vl.-IX.)   La dottrina delle due Etiche e le esigenze  di una scienza normativa morale.   Cap. VI. — Il criterio del limite dell' evoluzione e del¬  l’adattamento completo non serve a determinare   11 tipo di condotta cercato . l )a S- 71   Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità   dell’ una non dipende da quella dell’ altra. — 1. 11 tipo  di società giusta non è determinato dal limite dell’ evo¬  luzione. — 2. Nè dall’ adattamento completo. — 3. Su  quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga nella  costruzione dello S. il postulato dell adattamento com¬  pleto.   Cap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispondente  all’adattamento completo, non serve a giusti¬  ficare il tipo di condotta proposto .pag. 82          4 e 5. Il piacere puro non può essere il criterio della massima  desiderabilità. — 6. La questione del « fine » e dei fini -  Soluzione illusoria trovata nel termine felicità e altri equi¬  valenti. — 7. Equivoco nell’identificazione dell’ oggetto  dell’ attività col piacere. — 8. Quale possa essere il fine  che soddisfa alla doppia esigenza della determinazione e  della giustificazione delle norme.   Vili. — Il tipo di .società giusta dello Spencer . . pag. 94   9. Come concepisca la società giusta lo Spencer. Presupposto  illegittimamente assunto dalla biologia. 10. Difetto  fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c  il tipo della società giusta. — 11. Difetto che ne deriva  nella relazione tra giustizia e beneficenza. — 12. L’ in¬  dividualismo dello Spencer e il postulato della giustizia.   XX. — Ufficio e limiti di una costruzione scienti¬  fica dell' Etica .. • • P a S- 100   13. Come debba concepirsi un tipo ideale di società giusta.   _ 14 . Etica Pura ed Etica Applicata. — 15. Conclusioni   della Critica. — 16. Presupposto fondamentale, e carat¬  tere ipotetico dell’Etica come scienza normativa.         INTRODUZIONE    1. — Pubblicando nel Giugno del 1879 I dati  dell’Etica prima che fossero composti il II e il III  volume dei Principii di Sociologia, lo Spencer giu¬  stificava questa deviazione dall’ordine del suo pro¬  gramma col timore di non poter compiere l’opera  finale della serie: I principii di Etica.   « Degli indizi che in questi ultimi anni si ripetono con maggior  frequenza e chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non la  vita, mi può venir meno per sempre, prima che io compia l’ultima  parte del compito che ho assegnato a me stesso. Quest'ultima parte  è quella per la quale io considero come sussidiarie tutte le parti pre¬  cedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio proprio del Governo scritto  fin dal 1842 indicava vagamente il mio pensiero intorno a certi  principi generali di bene e di male nella condotta politica ; e da  quel tempo in poi il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i fini  prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai prìncipi  del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua estensione.  Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una preparazione  cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui proba¬  bilità non posso pensare senza sgomento^_e_sono ansioso di evitarla,  se non del tutto, almeno in parte ». (1).   (1) The Principles of Ethics. Pref. to Part. I. (wheu first issued  separately.) London 1892. Voi. 1. p. VII.         — 10 —    Qualche cosa di simile alla catastrofe preveduta  sopraggiunse infatti; perchè dopo un lento decadi¬  mento e indebolimento progressivo egli fu costretto  dal 80 al 90 a sospendere qualsiasi lavoro. Fortu¬  natamente nel 90 potè riprenderlo: ed anche allora,    la sua prima preoccupazione fu quella di compiere  i principi di Etica; e pose subito mano a quella  parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più  importante: la IV a (Giustizia) (1).   Colle parole e col fatto egli mostrava dunque  che Tintento supremo al quale consapevolmente  convergevano tutti i risultati della sua specu¬  lazione, era u n intento mor ale. Par che riecheggi  in lui la voce di Spinoza: Finis in scientiis est  unicus ad quem omnes sunt dirigendae (2). E in p   realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬  trano e illuminano tutti gli scritti suoi, anche i  minori, così vi circola dentro e li riscalda il soffio  vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina dell’evo¬  luzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto  la comprensione del processo naturale e necessario  che produrrà in un avvenire lontano ma sicuro una  umanità giusta e felice. Animata cosi di speranza,  la dottrina prende colore di fede. E veramente egli  la professò come una fede; non soltanto visse per  la sua dottrina, ma visse la sua dottrina. E i prin-     (1) Op. cit. Pref. to Part. IV. (wlien first iss. sep.) Voi. 2. p. Vili.   (2) De. Intell. Emend. II, 16 nota.     — 11 —    cipi che pone a fondamento della morale e del diritto,   € di cui vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse  dell’universo, ispirano e governano con indomita  costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue opinioni,  da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle  carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta  alle proteste contro il « br igantaggio politi co », dalle  ironie contro «la Sapienza collettiva» a quelle contro  « i diecimila sacerdoti della religione d’amore che!  non apron bocca quando la nazione è mossa dalla '  religione dell’odio. »   2. — Quell a unità e solidarietà di pr i ncipi teo¬  r ici e pratici , p er cui la sua mora le si presenta come  s cienz a ella sua scienza come una morale, e questo  continuo cimentare che egli faceva i suoi principi  con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la  sua dottrina pareva prender veste di programma so¬  ciale e politico, hanno certamente contribuito a pro¬  durre^ questo doppio effetto: che la preoccupaz ione , »  morali' si insinuasse anche nella critica delle sue  dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata  prevalentemente, se non talora quasi esclusiva-  mente, come l’espressione di certe tendenze e di  un certo indirizzo religioso morale economico poli¬  tico, apparisse, col prevalere di tendenze e di aspi¬  razioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più,  e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso.   E cosi potè facilmente accadere che anche certi   cì tu? ■fot** v* w                 — 12 —    principi, certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati  in disparte, o si stimassero superati e come logori  e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la  falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano con¬  nessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo  che si giudicavano superati.   Ora se è vero che a intendere il significato e il  valore di una dottrina particolare è necessario con¬  siderarla nelle relazioni col sistema di dottrine di  cui fa parte, non è perciò meno legittimo conside¬  rare se essa possa aver valore e segnare un acquisto,  anche all’infuori della validità di quel sistema e di  quelle altre dottrine, colle quali primamente si  svolse.   3. — L’intento di questo scritto ó appunto di  esaminare il valore teorico e metodico della distin¬  zione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la quale  ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante  del suo sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ra¬  gione di essere, indipendentemente dall’applicazione  che egli ne fa e dai postulati che l’hanno suggerita.   Perciò si divide naturalmente in due parti: espo¬  sitiva e critica; la prima rivolta a mettere in chiaro  le ragioni e il significato della distinzione nel pen¬  siero dello Spencer; la seconda a esaminare la pos¬  sibilità e la utilità di mantenerla e applicarla sotto  una forma diversa.   L’esposizione comprenderà pure necessariamente        due parti: una che richiama, in modo breve quanto  è possibile ma esatto, il concetto informatore e i  lineamenti fondamentali di tutta l’Etica; l’altra  che traccia più distesamente la dottrina particolare  esaminata.           Parte I    ESPOSIZIONE    Gap. I. — La dottrina etica in generale.   1. — Q uella legge di evoluzione , che si mani¬  festa nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare  come un tutto, nella terra come parte di questo,  nella vita in generale, e nella vita di ciascun orga-  nismo individuale, nei feno meni ment ali degli esseri  animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si  manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale  é quindi a nche in quei fenomeni della cond otta, dei  q uali tratta la morale . In conformità di questa legge] j^etWnr.<******  e delle leggi via via subordinate in cui essa si ri¬  frangevi produce una el evazione^progres siva nelle **   forme della vita sub-umana ed umana, la quale si  traduce in un a dattamento s empre migliore, più  esteso e più durevole alle condizioni da cui dipende  l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie;  e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza della  società. Per l’uomo adunque l’adattamento riguarda  tre ordini di condizioni; ossia è di tre forme; e,  benché si possa astrattamente considerare ciascuna  forma per sè, tuttavia, per la connessione naturale  e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le tre    V 1- 1 1 hu>«1J * •*» ^    ...J   ìS I f. .V> ( | w   •v.etrii < ut»   ■yjUÌ* Ij.h* fif   Tri Jr « 4* G   VY. »Y * l.    yJ* ^    ' n -r?                   — 16 —    b      ^ '• W\«    ab    yfa c f l<»   Hit , .  UsJS      a j^jr^w<Mitr /***yn«  mi l|«*i# uUli" »    forme d’adattamento nella realtà procedono di con¬  serva con mutue azioni creazioni continue; cosicché  a ogni progresso in una forma di adattamento cor¬  risponde un progresso nelle altre forme. 11_limite,   ver so il q ua le tend ^questo processo, è l’adattamento  completo a tutte le condizioni della vita umana più  elevata; per il quale il massimo svolgimento della  vita individuale, e della parentale, e della sociale,  non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda.   Questo adattamento completo implica non sol¬  tanto una perfetta conformità esteriore dell’operare  alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari  una conformità correlativa e della struttura, e delle  attività, fisiologiche e psichiche; è insomma ad un  tempo adattamento della condotta e adattamento dei  fattori interni della condotta. Quindi anche le idee,  i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e  intensità e gradi di subordinazione, pienamente  adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze della  vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle  forme di condotta corrispondenti il loro appaga¬  mento pieno e concordante. 11 che viene a dire che  l’adattamento completo attua in sé le condizioni  della massima felicità .   Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adat¬  tamento eoj puleto . m assima felicità, sono per lo  Spencer tre concetti che coincidono; o, meglio, sono  faccie o aspetti diversi di un medesimo risultato     ò'yrwrC         — 17    finale, ed esprimono il limite verso il quale tende  l’evoluzione della vita umana nello stato sociale.   2. — E’ appunto per q uesta ide ntificazione, che  sta in fondo al pensiero dello Spencer, tra evoluzione  e aumento di felicità, che egli può porre come ottima  la cpndotta rispondente al limite della evoluzione.  Perchè lo Spencer, come è noto, ammette esplici¬  tamente che il fine ultimo, espresso o so ttinteso,  d ell’operare, non può essere che una forma di co ¬   s cienza desiderab ile, cioè di piacere ; e che la con¬  dotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto  conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra di  sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri sui  dolori.   Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è  che la forma di condotta che coyà&ponde a quel  limite; ogni altra forma diversa, ossia adatta a  gradi di evoluzione più o meno lontani dal limite,  non può essere che imperfetta, ossia buona relati¬  vamente, non assolutamente. Quindi due Etiche :  Etica Assoluta che determina le leggi della condotta  ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per  a pprossi mazione quale sia la condotta relativamente  buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni  reali di svolgimento e di adattamento incompleto,  è la migliore, o la meno lontana dalla condotta per¬  fetta. E quindi la necessità, e la priorità logica del¬  l’Etica Assoluta; le cui determinazioni riguardano            <&• at*'*J)*    ch> i V* i rt -. < 'f*    (■    3>u7 PK<kJf   J* fattiti^ , r    f d f I ^ fa t o ^ if       y\               — 18 —    relazioni più generali, più semplici, più esattamente  definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa.   3. — Or come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia  quale sarà il metodo? L o Spencer si accorda cog li  Utilitarist i che lo precedono nell’assumere come cri¬  terio per giudicare la condotta e determinarne le  norme l a natura degli effetti o dei risulta ti. Ma se  ne distingue subito per il pr ocedim ento col quale  egli crede che questi effetti dei diversi modi di con¬  dotta si possano e debbano conoscere. Per gli Utili¬  taristi che lo precedono è l’induzione empirica, per  lui la deduzione.   Non si tratta per lo Spencer di trovare che, in  un certo numero di casi, certi danni o certe utilità  si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di in¬  ferirne che rapporti simili si manterranno nell’av¬  venire; si tratta invece di determinare comee^er-  chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri  utili; o più chiaramente, quale condotta debba essere  dannosa e quale debba essere utile. Non è dunque  sopra certe relazioni empiricamente osservate, ma  sulla connessione causale necessaria tra le azioni  ed i loro effetti che deve fondarsi la determinazione  delle norme morali. E, poiché questa connessione  deve essere alla sua volta una conseguenza neces¬  saria della costituzione delle cose, deve essere pos-  sib ile dedu rre da principii fondamentali quali specie  di azioni tendano a produrre felicità e quali a prò-            — 19      durre infelicità. E le deduzioni così ottenute deb¬  bono essere riconosciute come leggi di condotta e  aver valore indipendentemente da una estimazione  diretta (individuale e occasionale) del piacere e del  dolore.   Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che lo  Spencer chiama Razionale, dall’Empirico, e dà ca¬  rattere di rigore scientifico alla ricerca morale, è  il riconoscimento pieno e adeguato della causalità  naturale dei fenomeni della condotta; e il vero me¬  todo scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze  che abbiano superato lo stadio empirico, deve con¬  sistere nel cercare e nel costruire in sistema non  alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le re¬  lazioni necessariamente esistenti tra cause ed ef¬  fetti in tutta quanta la condotta.   4.— Ma se le leggi della condotta debbono de¬  terminarsi per deduzione necessaria, quali sono i  dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ? I  fatti di cui si occupa l’Etica non costituiscono un  ordine nuovo che si distacchi da un ordine infe¬  riore o precedente, come, per es., le formazioni or¬  ganiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni  sociali rispetto ai biologici : ma appartengono per  un verso alla biologia (1) in quanto sono effetti in-    UU 0 If-r'i    (1) Lo Spencer li considera anche come appartenenti alla fisica,  in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti e  combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma di           V-fT *    — 20 —    terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo  più elevato degli animali; e per un altro alla psi¬  cologia in quanto sono coordinamenti di azioni su¬  scitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza ;  finalmente in quanto queste azioni direttamente o  indirettamente riguardano esseri associati, appar¬  tengono alla sociologia. La condotta è adunque ad  un tempo una formazione biologica, una formazione  psichica, e una formazione sociale: e perciò è nei  risultati delle scienze corrispondenti che si devono  cercare i principii fondamentali, i dati dell’Etica. E  quindi i dati da cui si debbono dedurre le norme  dell’Etica Assoluta sono forniti dalle condizioni che  la biologia, la psicologia e la sociologia indicano  rispettivamente come proprie di un adattamento  completo.   Ora, in conformità alle leggi di queste scienze,  la condotta corrispondente a un adattamento com¬  pleto ossia la condotta ottima, è caratterizzata  dalle condizioni che si possono riassumere nei se¬  guenti tre punti :   I. Condizioni biologiche : Co rrispon denza per¬  fetta tra gli organi e facoltà umane e le attività  necessarie alla vita completa. Il che importa che  tutte le attività necessarie al massimo svolgimento   equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa considera¬  zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno essere tra¬  lasciata.          I    — 21 —    della vita per sò e per gli altri trovino il loro com¬  pimento nell’ esercizio spontaneo di facoltà debita¬  mente proporzionate e producenti quando entrano  in azione il loro quantum di soddisfazione (cioè di  piacere).   II. Condizioni psicologiche: Corrispondenza per-  fet ta dei sentimenti, come motivi deir operare, ai  I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i dolori, cui  danno origine i sentimenti distinti come morali,  siano, al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi  positivi e negativi proporzionati nella loro forza  ai modi di operare richiesti.   III. Condizioni sociologiche : Accordo perfetto  t rp le attività dei consocia ti. Il che importa che  tutte le attività conducenti alla vita completa di  ciascuno non solo non impediscano direttamente nè  indirettamente, ma favoriscano la vita completa di  tutti. (Stato di pace permanente; cooperazione vo¬  lontaria; nessuna aggressione diretta o indiretta;  scambio di servizi gratuiti (1).   La condotta ottima è dunque quella che sod-    (1) Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni sue¬  sposte equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate  tre antinomie che sotto varie forme compaiono , si può dire , in  tutta la storia della morale ; 1’ antinomia tra il piacere presente e  il piacere futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene  proprio e il bene degli altri, tra ciò che è richiesto dalla felicità  individuale e ciò che è richiesto dalla felicità generale ; e 1’ anti-  nojnia tra sentimenti egoistici e sentimenti altruistici, tra la ten¬  denza al piacere e la coscienza del dovere.             _ 22 —    disfa a tutte queste condizioni ad un tempo; e però  compito dell’Etica Assoluta resta quello di dedurre  da queste condizioni le norme a cui tutte le forme  di attività umana, a qualunque fine siano volte,  debbono conformarsi per essere totalmente buone.   5. — Per tal modo sono determinati i principi  o i dati sui quali deve costruirsi l’Etica Assoluta:  le condizioni della vita umana, individuale, paren¬  tale e sociale, proprie dello stato di adattamento  perfetto; è determinato il metodo: la deduzione;  ed è posto fuori di contestazione il fine ultimo clic  giustifica le norme così dedotte e dà alla condotta  proposta valore di ottima: la massima felicità uni¬  versale.   Ma restano d ue grandi difflcol tà : una incoc¬  renza, almeno apparente, da togliere, e una lacuna  da colmare. L’incoerenza è questa : Come si può  sostenere che il fine della condotta buona è la fe¬  licità, se le norme di essa condotta devono essere  dedotte dalle leggi necessarie della vita nello stato  sociale, e devono valere indipendentemente da ogni  estimazione diretta e individuale del piacere e del  dolore ì 0 , in altri termini, come si risolve l’antitesi  tra il fine assunto e il metodo proposto?   La lacuna è la seguente : Le condizioni che si  pongono come proprie della condotta ottima e che  la deduzione morale deve prendere come dati , sono  esse possibili, o non esprimono delle esigenze in    tvT* • **it/«* •>*» Vfi 1    «*»* ■   T^ e       — 23 —    tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma  quello stato finale di adattamento completo sotto  tutti i rispetti, nel quale le condizioni contemplate  sono raggiunte, in qual modo e per qual via può  ottenersi ì (1).   L’incocrenza è risolta così: Il fine è la felicità;  ma questa, a mano a mano che la vita si eleva,  dipende da una serie sempre più lunga e compli¬  cata di mezzi, ciascuna delle quali deve essere rag¬  giunta perché sia possibile il fine. Le norme mo¬  rali rappresentano la serie più generale e prelimi¬  nare di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie  più lontana dal fine, e quella che deve essere  osservata prima di tutte le altre; la condizione  delle altre condizioni. Ora siccome tutte le attività  necessarie alla vita tendono a diventare una sor¬  gente diretta di piacere, (perchè i piaceri sono  relativi alla struttura e questa si modifica se¬  condo le attività) così le fo rme di attività morale,  appunto perchè necessarie, debbono diventare una  sorgente diretta di piacere. Per tal modo, l’os¬  servanza delle condizioni che conducono alla fe¬  licità diventa direttamente piacevole, ed è adem¬  piuta. senza che essa felicità (che rimane il fine    (1) L’analisi e la soluzione di queste due questioni, le quali si  legano per parecchi nessi tra di loro, ma che per chiarezza bisogna  considerare a parte , occupano i cap. IX-XtV della I.» Parte dei  Principi di Etica.        ultimo) sia lo scopo diretto e immediato della  condotta ; ossia, (ed è un pensiero che fa ricordare  Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge  come una conseguenza, non direttamente voluta nò  chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle atti¬  vità morali divenuto per sè immediatamente gra¬  devole.   La soluzione della seconda difficoltà derivante  dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione  oggettiva , tra bene proprio e bene altrui, e nella  conciliazione soggettiva, tra egoismo e altruismo,  raggiunte per effetto e della solidarietà crescente tra  le condizioni di vita dei singoli e quelle del tutto,  e dello sviluppo concomitante della simpatia.   Colla soluzione di queste due difficoltà lo Spen¬  cer intende dunque che sia dimostrata la possibilità  — dal punto di vista scientifico — e la legittimità  dal punto di vista morale — della sua costruzione;  e con questa dimostrazione il pensiero che informa  la trattazione dell’Etica, è nelle sue linee generali,  compiuto (1).   Ed ora , tracciato il disegno in cui si inquadra   (1) La II. a Parte (Le induzioni dell’Etica), che nella traduzione  francese porta il titolo di Morale de* differente peuples, dall’esame  delle diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli rac¬  coglie la conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle  leggi della vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema  variabilità dei sentimenti morali, e della corrispondenza generale  di due tipi opposti di moralità ai due tipi di coesistenza e coope-      - 25 —    la dottrina particolare che più direttamente ci in¬  teressa, diciamo alquanto piii distintamente di que¬  sta.    Cap. II. — La dottrina delle due Etiche.    I. S’è visto come nel pensiero dello Spencer  la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta,  la condotta che c orrispon de al limite dell’evolu¬  zione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lon¬  tane da quel limite so no, di molto o di poco, meno  adatte, cioè meno buone; onde la distinzione di Etic  A ssoluta ed Eftej> (1). Ora si presentano   spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo  Spencer, contro il modo comune di comprendere  1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t ra Moral e  A ssoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica     (/    razione sociale (tipo militare e tipo industriale). Le altre quattro  parti, Etica della Vita Individuale (IH. a ), ed Etica della Vita So¬  ciale : la Giustizia (IV.»), la Beneficenza Negativa (V. a ) e la Be¬  neficenza Positiva (VL S ) contengono le dednzioni o applicazioni  particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al metodo ac¬  cennati, vogliono essere determinate le norme della vita privata e  deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle condizioni  contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’ Etica  Relativ a.   (1) Notiamo subito, benché l’avvertenza debba parer quasi inu¬  tile , che per lo Spencer la parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a vere  n ell’Etica un significato metafisi co ; le norme etiche per lui non  hanno ragione di essere all’ infuori dell’ esistenza animata quale  si manifesta fenomenicamente; all’infuori di esseri capaci di pia¬  ceri e di dolori.    2                   — 26 —    quello di stabilire le norme della condotta retta,  della giustizia pura, e, senza curare gli impedi¬  menti e le imperfezioni che i difetti della natura  umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale  di pe rfezio ne al quale ciascuno deve cercare di av¬  vicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e vi-  ziosa la distinzione ?   2.” Ammesso che dal punto di vista speciale  dello Spencer questa distinzione sia legittima, non  è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento  elle la realtà presente ci dà uno stato di adatta¬  mento imperfetto, ossia assai diverso da quello che  essa suppone ?   L’esposizione del pensiero dello Spencer intorno  -alle foie Etiche ( 1 ) mi pare si possa acconciamente  raccogliere in due parti, nelle quali trovi succes¬  sivamente risposta ciascuna delle due questioni. Co¬  minciamo dalla prima.   2. — Si crede comunemente che si possa deter¬  minare un tipo di condotta assolutamente giusta  in condizioni reali di esistenza imperfetta, mentre  questa determinazione non è possibile; e, se fosse,  non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei mo¬  ralisti, sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono  tacitamente accettati come veri; e pare infatti che  senza di essi non sia possibile giudizio morale, per-    (1) Op. cit. Ch. XV : Absolute and Relative Etkics.              — 27 —    che la distinzione stessa tra atti giusti e atti in¬  giusti sembra implicarli necessariamente. Sono que¬  sti: l.° Che in ogni caso vi sia un modo di operare / \  ^assolutamente giusto. 2.° Che sia possibile stabilire  quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni  dimostra che in casi assai numerosi non è possi¬  bile il giusto, ma soltanto un minimo ingiusto; e  in casi pure numerosi non è nemmeno possibile  determinare in che cosa questo minimo ingiusto  consista.   Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che  è il correlativo di qualche specie di male, di qual¬  che divergenza da quell’adattamento perfetto che  soddisfa pienamente a tutte le esigenze della vita  completa. Se il concetto di condotta buona è, in  ultima analisi (1), il concetto di una condotta che  produce in qualche parte un avanzo di piacere; e  di condotta cattiva, che produce un avanzo di do¬  lore; il bene o il giusto assoluto nella condotta  può esser quello soltanto che produce p iacere pur o,  pi acere non misto a dolore di sorta . E quindi la  condotta che produce qualche conseguenza dolorosa  ò parzialmente cattiva, e la forma più elevata che  una condotta cosifatta può raggiungere ò il mi¬  nimo ingiusto, il giusto relativo.   Ora le forme di adattamento incompleto pre-    (1) Per questa analisi v. op. cit. Parte I.» Cap. IV.                     — 28 —    WÙ («ino;   >1 'è ntiJj 1    sentano, più o meno vasto e grave, un doppio di¬  fetto : Discordanza od antitesi fra i tre ordini di  fini della vita, per la quale atti che producono uti¬  lità o piacere all’ individuo o alla prole portano  danno e dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza  anche nello stesso ordine tra fini immediati e me¬  diati, presenti e futuri ; per la quale 1’ azione ri¬  chiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di  dolore nel presente, o la soddisfazione di un desi¬  derio immediato può impedir di raggiungere un  bene lontano e mediato, o esser causa di un male  futuro. Nella misura in cui queste due specie di  incongruenze (le quali si incrociano e si complicano  fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni  devono produrre una certa somma di dolore sia  sull’agente sia sugli altri. Ora « finché v’ ò dolore  v ’è male ; e la condotta che apporta qualche male  non può esser giusta assolutamente ».   A chiarire questa distinzione lo Spencer cita  degli esempi di azioni assolutame nte giuste e di  altre solo relativamente giuste. Una madre sana  che allatta un bimbo sano, un padre che, dotato  di eccitabilità simpatica, partecipa ai giuochi del  figlio e li guida, sono esempi della prima specie;  nell’un caso e nell’altro l’azione produce piacere  a chi la fa e a chi la riceve; e aiutando lo svi¬  luppo fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro in¬  sieme, è utile al benessere futuro ; cioè produce di-      — 29 —    rettamente e indirettamente soltanto piacere senza  dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo  e con soddisfazione e utilità reciproca ; e gli atti  di benevolenza di chi fornisce una notizia o un  consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone un  dissidio tra amici, possono essere classificati come  giusti assolutamente per la medesima ragione.   Degli esempi addotti dallo Spencer di azioni  solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono  tipici anche per il contrasto che offrono col modo  di giudicare comune: La cura di molti figli cagiona  a una madre assai dolori, ma le sofferenze imme¬  diate e le lontane che l’incuria apporterebbe supe¬  rerebbero di gran lunga quei dolori. La condotta  giudicata buona in questo caso è quella che pro¬  duce minor male ; ma non è ottima. È la meno in¬  giusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’ allonta¬  namento dei clienti da un negoziante che esiga  prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi  la misura, fa diminuire il suo benessere e forse  apporta danni e dolori ad altre persone a lui con¬  giunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar  quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un  male assai più grave e generale. L’abbandono è  perciò giustificato: ma l’atto è solo relativamente  giusto.   3 — Riconosciuta così la verità che una gran  parte della condotta umana non è giusta assoluta-       — Bu¬  rnente, si deve riconoscere 1’ altra verità che in  molti casi non é possibile stabilire quale sia il mi¬  nimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si  considerano gli effetti che quella stessa discordanza,  già rilevata, tra i fini della vita, deve produrre.  V’ è un limite fino al quale é relativamente giusto  che un genitore faccia sacrifizio di sè stesso pel  vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale  l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli ap¬  porti non soltanto a sò ma a tutta la famiglia  danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende ad  impedire. Chi può dire quale sia questo limite?  Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni  delle persone in causa, non è neppure in due casi  il medesimo, e non può essere per ciascun caso più  che una congettura. Un commerciante che sia tra¬  volto nel fallimento d’un suo debitore e posto nella  necessità di fallire egli stesso se non è aiutato,  deve o no domandai^un prestito a un amico? Il  prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo  caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi credi¬  tori non chiederlo ? Ma fors’anco non lo salverebbe,  e allora non è una frode procurarselo? Benché in  casi estremi possa esser facile decidere, come sa¬  rebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il  più intelligente e competente non può calcolare le  probabilità ?   4 — Questo doppio errore del confondere il     r    — 31 —   giusto assoluto col minimo ingiusto, e del credere  che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce  dall’ errore che si commette nel concepire il tipo  della condotta, la condotta dell’ uomo ideale.   Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca  nelle condizioni sociali esistenti.   Ciò che si cerca determinare è, non quali sa¬  rebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme  mutate, ma quali sarebbero, date le condizioni pre¬  senti. E questa ricerca ò vana per due ragioni :  La coesistenza di un uomo perfetto e di una società  imperfetta è impossibile ; dato che potessero coesi¬  stere, la condotta che ne seguirebbe non fornirebbe  il tipo morale cercato.   « In primo luogo, date le leggi della vita come  esse sono, un uomo di natura ideale non può es¬  sere prodotto in una società composta di uomini-  che hanno una natura lontana dall’ ideale. Aspet¬  tarsi che tra uomini organicamente immorali ne-  sorga uno organicamente morale è come aspettarsi  di veder nascere tra i Negri un bambino di tipa  inglese. Se non si vuol negare che il carattere di¬  penda dalla struttura ereditata, si deve ammettere  che in ogni società ciascun individuo discende da  uno stipite, che risalendo a poche generazioni si  ramifica per ogni parte nella società e partecipa  della natura media di questa ; e che quindi, nono¬  stante spiccate differenze individuali, deve conser-    — 32 —    varsi una comunanza di natura tale da impedire  che un uomo, qualunque sia, raggiunga un tipo  ideale, finché il resto della società rimane di gran  lunga inferiore.   « In secondo luogo, la condotta ideale, quale è  contemplata dalla teoria morale, non è possibile  per P uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti  diversamente. Una persona assolutamente giusta c  perfettamente simpatica non potrebbe vivere e  operare in conformità alla natura sua in una tribù  di cannibali. Tra un popolo perfido e al tutto privo  di scrupoli, una intiera veridicità e franchezza deb¬  bono apportare rovina. Se tutti intorno a lui rico¬  nóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui  natura non gli permetta di inlliggere dolore agli  altri deve soccombere. Fra la condotta di ciascun  membro della società e la condotta degli altri vi  deve essere per necessità una certa congruenza.  Un modo di operare interamente diverso dai modi  di operare prevalenti non può continuare con buon  esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o  della sua discendenza, o di ambedue » (1).   Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di  tipo, egli deve essere concepito non a sé, senza re¬  lazione colle condizioni che sono necessarie perchè  la condotta possa essere giusta, ma in corrispon-    (1) Ib. § 106 p. 279-80 dell’ed. cit.    — 33 —    denza con queste ; V uomo ideale deve essere con¬  siderato come esistente in una società ideale.   Perciò, secondo l’idea dello Spencer, il voler,  per esempio, stabilire quale sarebbe la condotta  deiruomo ideale quando fosse posto nel bivio o di  farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di men¬  tire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfet¬  tamente vano ; perchè le condizioni cosi supposte  contraddicono a quelle richieste dalla definizione  dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale  soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste  violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere  collisione tra i modi di sentire e di operare richiesti  dal bene proprio e della discendenza, e    chiesti dal bene pubblico.     Viene in mente, e lo ricordo perchè  può servire di commento al pensiero delloCéàencer,  ma perchè la somiglianza è significativa, queh^ udjko ^  dei Promessi Sposi, nel quale il padre Cristoforo  è invitato a far da giudice in una questione di  cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i com¬  mensali di Don Rodrigo su questo punto: se fosse  lecito a un cavaliere bastonare il messo che gli  consegna un cartello di sfida senza avergliene chie¬  sto licenza ; e il padre Cristoforo, chiamato in causa,  dopo essersi invano schermito, esce finalmente in  quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare  fuor di proposito, tutti quei dialettici della cavai-    S     — 34 —    leria : « 11 mio debole parere sarebbe clic non vi  fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate ».   Ecco riconosciuta nel caso particolare l’esigenza  fondamentale dell’Etica Assoluta dello Spencer:  Non vi può essere condotta giusta finché vi sono  condizioni contrarie alla giustizia.   Ma la realtà presente e viva è appunto così.  « Oh ! questa è grossa », risponde infatti il conte At¬  tilio. « Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede  che lei non conosce il mondo ».   E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a  fare, 1* ufficio dell’ Etica non sarà quello di stabi¬  lire quale deve essere la condotta nel mondo reale  presente, non in un mondo ideale avvenire? 0,  almeno, non ò inutile, anche ammessa la distin¬  zione Spenceriana, correr dietro al fantasma di  una condotta ottima, adatta a uno stato di perfe¬  zione, che l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che  per noi non esiste ?   5 — A questa seconda domanda risponde la di¬  mostrazione della precedenza necessaria — nell’or¬  dine della trattazione scientifica — dell’Etica As¬  soluta sull’ Etica Relativa.   In qualunque ordine di ricerche le verità scien¬  tifiche si sono raggiunte trascurando prima i fat¬  tori di perturbazione, che alterano ed oscurano  l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto  soltanto di questi.    — 35 —    Quando la estimazione di questi fattori fonda¬  mentali, non, come si presentano nella realtà, ma¬  scherati e complicati di elementi secondari, ma  quali si suppongono idealmente con un processo di  astrazione, ha aperto la via a conoscere e formu¬  lare le leggi generali, allora diventa possibile la  estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei fat¬  tori accidentali che nella realtà alterano i rapporti  i deali contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi ge¬  nerali, le verità fondamentali, solo per questa via  si possono ricercare e scoprire, e solo con questo  procedimento il sapere passa dalla sua forma em¬  pirica alla sua forma razionale.   Per ottenere la formula che esprime il potere -ifjicfip»tv*  della leva s i suppone N una leva che non si pieghi , iàz<Jbz   ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non  abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si  suppone che la potenza e la resistenza si esercitino  su un punto, invéce che su una parte più o meno  estesa della leva. Del pari la determinazione del  corso di un proiettile si ottiene trascurando dap¬  prima tutte le deviazioni prodotte dalla sua forma  e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo negli  altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa  possibile tener conto degli elementi dai quali si è  fatta astrazione, delle complicazioni risultanti dal¬  l’attrito, dalla plasticità, dalla coesione, dalla resi¬  stenza dell’aria : e ottenere così una determinazione     ' Jt- ^ "(VOM, P-O               — 36 —    sempre più esattamente approssimata al l'atto reale.  Qui è manifesta la re lazione tra certe verità assolute  della meccanica e certe verità relative che impli¬  cano le prime, come è manifesto che non si possono  stabilire scientificamente le verità relative finché  non sieno formulate indipendentemente da queste  le verità assolute. Il che equivale a dire che la   ! scienza meccanica applicala può svilupparsi soltanto  dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale.   Le medesime considerazioni valgono per la  scienza morale. È impossibile determinare con ap¬  prossimazione scientifica quale sia, date certe cir¬  costanze reali, il modo di operare meno ingiusto,  se non si conosce quale sarebbe il modo di operare  giusto ; e questo non si può conoscere se non si  suppongono eliminate tutte le circostanze che lo  impediscono o lo limitano e ne falsano i caratteri  ed i risultati: cioè, in breve, se non si suppongono,  scevre da ogni perturbazione, le condizioni ideali,  nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto.   A chiarir meglio questa relazione tra Etica As¬  soluta ed Etica Relativa lo Spencer ricorre a un  altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze  biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Pa¬  tologia. La Fisiologia, nello studio degli organi e  delle funzioni che combinate costituiscono e con¬  servano la vita, suppone l’organismo sano e le  funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli           — 37 —    eccessi, delle anomalie di cui si occupa la Pato¬  logia : e questa poi presuppone quella, perchè le  idee anche più rozze intorno alle malattie suppon¬  gono idee di stati sani di cui le malattie sono de¬  viazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi  anormali e morbosi può diventare scientifica sol¬  tanto quando vi sia già una conoscenza scientifica  di stati e processi non morbosi.   Si milmeste l a Morale Assolut a deve precedere  laJSl orak ^llclativa ; la quale non deve applicare  sic et simpliciter alle condizioni particolari della  vita reale le conclusioni dell’ Etica Assoluta ; ma  riconoscendo ciò che vi è di diverso nella condotta  che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta,  deve determinare di quanto essa si allontana dal  giusto e come si possa ottenere, date queste condi¬  zioni reali imperfette, la massima approssimazione  al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta.   6 — Questi confronti coi quali lo Spencer in¬  tendeva illustrare il suo concetto intorno alla re¬  lazione fra le due Etiche e alla priorità logica del-  1’ Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si direbbe che  abbiano servito ad abbuiarlo ; e però non è fuor  di luogo qualche breve chiarimento.   Dall’esposizione che precede deve essere apparso,  spero, che è per una esigenza inerente alla natura  della ricerca scientifica che lo Spencer sostiene la.      V |    necessità che l’Etica Assoluta prec^g la Relativa; lì           — 38 —    e appunto por chiarire questa precedenza neces¬  saria egli cita l’esempio della precedenza analoga  della Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica  Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto alla  Fisiologia Fatologica. Nel pensiero dello Spencer la  priorità dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione  a un campo particolare di ricerche di un suo cri-   <--- 7   terio metodico generale; del quale egli trova la  conferma in tutte le scienze, che hanno superato   10 stadio empirico. Il paragone non è dunque, pro¬  priamente, tra la sua Etica Assoluta e la Meccanica  Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la sua  Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisio¬  logia Patologica; non è, voglio dire, di quelle  scienze pure tra di loro, o di queste scienze appli¬  cate tra di loro ; ma è paragone tra le loro rela¬  zioni. E il significato del confronto è questo : che  tra le due Etiche, come le concepisce lo Spencer,  corre una relazione analoga a quella che intercede  rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo  così) e tra le due Fisiologie.   E in questo senso che il paragone deve essere  inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò,  quando la critica obietta che l’Etica ha caratteri  ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla Fisio¬  logia, può essere che abbia ragione, ma interpreta   11 confronto in un senso diverso da quello voluto  dallo Spencer. Perchè il concetto, per il quale il         — 39 —    paragone è assunto è, nella sua espressione più  semplice, questo: che anche per l’Etica la solu¬  zione scientifica o scientificamente approssimata  dei problemi più complessi richiede la soluzione  dei problemi più semplici. Il paragone non deve  dunque essere staccato da questo concetto e preso  con una significazione diversa; altrimenti si frain¬  tende e paragone e concetto ; e rimane oscurato  uno dei punti più importanti della dottrina par¬  ticolare ora esposta.   La quale non ebbe mai molta fortuna nò presso  i fautori di una morale scientifica, nè presso gli  av versa ri. Questi, preoccupati forse in generale dal  pensiero di mostrare la insufficienza dell’indirizzo  naturalistico, hanno veduto nella dottrina delle due  Etiche (illustrata da quei confronti!) sopratutto una  fi gliazione de l concetto meccanistico, e f’hanno com¬  battuta in nome delle esigenze della Morale; quelli  hanno notato nella affermata necessità di costruire  un’Etica Assoluta, una contraddizione colla teoria  dell’evoluzione, e col principio della relatività della  morale e del diritto: e l’hanno combattuta in nome  delle esigenze della scienza. Gli uni e gli altri hanno  considerato la dottrina particolare unicamente in  relazione colla dottrina generale colla quale si pre¬  sentava connessa, senza badare alle ragioni che la  possono legittimare all’infuori del sistema e della  forma speciale di applicazione che in esso ha trovato.      Parte IJ.    CRITICA PRELIMINARE:   LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI E IL PRECONCETTO  DAL QUALE HANNO ORIGINE.    Cap. III. — La pregiudiziale dell’imperativo categorico.   La dottrina esposta traccia il piano che lo Spen¬  cer si è proposto di seguire per soddisfare al compito  da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,  scientificamente le norme della condotta morale.]   Ma già intorno a questo modo di intendere l’uf¬  ficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le obbiezioni;  le quali devono essere, almeno nel loro contenuto  sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce  la legittimità del suo concetto sull’ufficio dell’Etica  è vano discutere della possibilità e legittimità del  piano proposto per attuarlo.   L’esame critico si distingue perciò naturalmente  in due parti; delle quali la prima potrebbe dirsi  critica preliminare.   » * «   1 — L’Elica può, o non può, essere scienza nor¬  mativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che,  a giudizio di un profano, (solamente dei profani ?) po¬  trebbe dare un’idea poco lusinghiera dei progressi  e dei frutti della speculazione morale.         — 41 —    L’opinione se non universalmente, certo gene¬  ralmente. dominante è che non possa. L’opinione  dominante par che si chiuda in questa alternativa:  l’etica o è scienza, e non è più normativa; o ò nor¬  mativa, e non è più scienza. La ragione dell’anti¬  tesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza  e le esigenze della morale, è nota. Dicono i puri  moralisti: — Una morale che non dia alla norma  carattere di obbligatorietà non può essere vera mo¬  rale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza  uscire dal campo della scienza. Nel latto, una con¬  dotta che si ponga scientificamente come morale, è  obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è  ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipotetica- ,  mente, non categoricamente. E se non c’è i m perat ivo  categorico, non c’è m orale. — E i puri scienziati  rincalzano: — La scienza è scienza delle cose e dei  latti come_sonq_e non come dovrebbero essere. Si  può cercare quali sono i caratteri e i fattori, la  formazione e le trasformazioni dei modi di operare,  dei sentimenti delle credenze distinti come morali;  si potrà anche, tracciati i lineamenti generali del  processo di formazione, argomentare induttivamente  una possibile evoluzione ulteriore con qualche pro¬  babilità; ma la scienza non sa di bene e di male;  cerca ciò ciò che è; tenta di prevedere, se le riesce,  quel che sarà; dimostrando che certi effetti dipen¬  dono da certe condizioni, ci fa capire che se vo-    3             — 42 —    gliamo gli effetti dobbiamo volere quelle condizioni,  ma non può obbligare nè à volerle nè a disvolerle.   Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere  che la scienza non possa dare un imperativo ca¬  tegorico, par che ammettano esplicitamente o im¬  plicitamente che la morale debba o possa essere  una dottrina che determina la norma obbligatoria,  ossia una teoria da cui si ricava il dovere. Ora.  se hanno ragione nell’ ammettere la prima cosa,  hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto  di credere che compito dell’Etica possa essere quello  di dimostrare l’obbligatorietà, e di supporre che  una dottrina religiosa o metafisica possa fondare  quel che riconoscono non poter essere fondato da  una dottrina puramente scientifica; possa fondare  il « tu devi » (1).   2 — 11 « tu devi » è un giudizio di constata¬  zione e non può essere altro. Dicendo « tu devi »  io non posso intendere che l’una o l’altra di queste  due cose: o « tu senti dentro di te qualchecosa che   (1) Ho già mostrato altrove, in un capitolo rivolto direttamente  a questo esame (Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metaf쬠 sica Cap. I. Pavia, Bizzoni 1901) come e perchè sia perfettamente  va no e illusorio credere che da una costruzione , teorica l sojjmtificn  n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma obbligatoria , se  l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta o supposta;  e come nasca e si mantenga 1’ illusione, e lo sforzo di credere che  non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza ; e ,  del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il mede¬  simo, è fatta da un punto di vista diverso.            — 43 —    ti spinge, senti di essere obbligato a non fare o a  fare »; oppure quest’altra: « c’è una volontà cbe  ha il potere di obbligarti ». Nel primo caso si fa  appello alla coscienza ; a uno stato o a un fatto di  coscienza che esiste o si suppone che esista ; nel  secondo caso si fa appello a un potere, che pari-  menti o esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno  e nell’ altro caso nessuno sforzo dialettico può ri¬  cavare l’obbligo dalla natura della cosa comandata  o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far  esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza,  nè questo potere.   Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un  senso improprio. « Tu devi » può voler dire: « È  giusto che tu faccia; è giusto che ti senta obbli¬  gato a fare, o che ci sia chi ti obbliga ». Ma se  vuol dir questo, l’espressione è equivoca. Che sia  giusto il fare e che sia giusto T obbligo di fare  (quando questo fare sia già sentito come un ob¬  bligo) si raccoglie d al contenu to, non dal tono del  comando: e non basta a porre l’obbligo, lo giusti-  fica dato die ci sia, e potrà far desiderare che  esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che  giustificano l’obbligo, non è porre in essere la forza  o il potere o l’impulso (con qualunque nome si  chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due cose  .sono diverse e non confondibili tra di loro, che  non si può ridurre 1’una all’altra senza togliere          44 —     L* <MìWM    una delle due. Non si può derivare l’obbligo dalle  ragioni che giustificano la norma, senza ricono¬  scere che l’obbligo vale solamente in quanto val¬  gono queste ragioni; fcioè senza assegnargli un va¬  lore ipotetico, non più categorico. Nè si può rica¬  vare la giustificazione della norma dall’obbligo ca¬  tegorico, senza riconoscere che la norma vale so lo  i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare qual¬  sivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il con¬  tenuto della norma non avrebbe nessun valore se  P obbligo mancasse.   3 — Gli è che quando si dice essere il dovere  condizione necessaria della morale, si scambia la  morale colla 'moralità, la norma colla conformità  alla norma. Ma l’obbligo riguarda l’osservanza,    <*/J» non ] a determinazione della norma. Ora, che del¬   l’osservanza della norma sia condizione necessaria      e caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non  potrà ammettersi, ma ha ad ogni modo un senso;  che sia essenziale alla determinazione della norma,  non è neppure discutibile, perchè non ha senso.  Sarebbe come dire che è essenziale alla costruzione  della scienza medica l’obbligo di prendere le me¬  dicine. È verissimo che sarebbero perfettamente  inutili le prescrizioni mediche se non si supponesse  che vengano osservate ; ma è non meno vero che  l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non mu¬  terebbe in nulla il contenuto e il valore delle pre-          scrizioni. L’obbedienza del cliente non muta la  scienza del medico. E le condizioni da cui dipende  l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che  giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le  scienze precettive si fa consistere nel cercare e de¬  terminare le relazioni tra certi mezzi e un certo  fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai-  fi infuori da ogni preoccupazione che riguardi la  reale esistenza ed efficacia del desiderio o dell’ ob¬  bligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissi¬  mamente in una scienza precettiva, che, a rigore,  costituisce un capitolo dell’ Etica ; nella quale la  questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ ob¬  bligo di questa osservanza) è rimasta perfettamente  distinta dalla questione della ricerca e della deter¬  minazione delle norme; forse appunto perchè fu  considerata e trattata indipendentemente dalla mo¬  rale; voglio dire nell’igiene. Dove a nessuno viene  in mente di pretendere' che sia una condizione della  legittimità o del valore delle norme dettate da lei,  questa: ch e il conformarsi ad esse sia sentito com e  un d over e. E se accade, come può accadere in ef¬  fetto, che l’osservanza di qualcuno dei suoi pre¬  cetti sia già tenuto come un dovere, il riconoscere  che questo precetto è ordinato a un fine, al quale  si dà valore di bene, fa che fi obbligo stesso ap¬  paia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che  la giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a •         — 46 —      questo : a dare un valore ipotetico all’ obbligo ca¬  tegorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osser¬  vare il precetto, anche se non ci fosse V obbligo.   Ora lo stesso vale, nè più nè meno, per la mo¬  rale. Altro è cercare quali siano le norme da os¬  servare per raggiungere un certo ordine di effetti  (quello che la morale ponga come fine) e altro è  cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare  queste norme possa essere sentito e posto come un  dovere. E l’importanza che questo secondo pro¬  blema può avere non toglie che esso sia diverso e  debba essere distinto dal primo.   La pregiudiziale dell’obbligo categorico non tocca  dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in  primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata  o si assume, e non si dimostra, nè si ricava da  una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè se  si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica  deve dare non V obbligo, ma la giustificazione del-  l’obbligo, questa giustificazione non può consistere  che nel mostrare come la norma abbia valore an¬  che indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sa¬  rebbe bene o sarebbe giusto conformarsi ad essa  anche se il conformarsi non fosse sentito come un  dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il va¬  lore di una norma vuol dire mostrar la deriva¬  zione di una norma da un fine a cui sia ricono¬  sciuto quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a       — 47 —    dire derivare la norma da un fine, il cui valore  si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’ ob¬  bligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea  la considerazione dell’obbligo e delle condizioni che  lo rendono possibile.   A — La caratteristi ca di una dottrina etica no n  sta dunque nell’ obb ligatorietà, ma sta nel valore  d el fine che si assume (1). Ed eccoci alla vera ed  j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni   precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza pre¬  cettiva si riduce a un sistema di relazioni e di leggi  che hanno valore di norme da seguire per chi si  propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di   effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni   $   ed i fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà  valore di fine a quell’effetto; ma non pretende nè  che questa desiderabilità sia riconosciuta univer¬  salmente, nè che essa sia, pure universalmente, ri-  conosciuta come superiore e preminente rispetto a  quella di qualsiasi altro fine. Ma questo appunto   (1) Sono lieto di notare che in un articolo dal titolo Ethic.s, a  xcience pubblicato nella Philo.sophical Review (Novembre 1903, Vo¬  lume XII, G) il prof. E. B. McGilvary insiste sul concetto, clip è  conforme a quel che ho sostenuto e sostengo , che 1’ Etica , come  scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per un verso, non  si capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il medesimo di  qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non tien conto  di quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la earat-  teristica dell’Etica.               — 48 —    pretende l’Etica. Onde il compito dell’Etica si spe¬  cifica in due punti, di cui il primo segna la sua  caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’ef¬  fetto o l’ordine di effetti che possa avere un tal  valore, cioè il fine del quale possa essere ammessa  la universale desiderabilità sopra ogni altro, 2." de¬  terminare le condizioni e i fattori da cui quell’ ef¬  fetto dipende. E, nel supposto che dipenda dall’azione  umana individuale e collettiva, determinare la con¬  dotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente.   Se il fine di cui può essera assunta questa uni¬  versale e preminente desiderabilità è umanamente  possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il  raggiungimento senza assumere o postulare nessun  intervento sopranaturale e sopraumano, la costru¬  zione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa o  metafisica. E quindi il problema della possibilità di  un’Etica scientifica assume questa forma: se si possa  assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente  possibile, al quale sia riconosciuto un valore supe¬  riore a ogni altro fine. La determinazione delle  norme morali sarebbe data dalle relazioni trovate  o da trovarsi tra quel fine e la condotta indivi¬  duale e collettiva da essa richiesta.   Ed eccoci a una seconda questione pregiudiziale.     Gap. IV. — La pregiudiziale sul modo di intendere   il compito normativo dell’ Etica.   5. — Non è improbabile che qualche lettore  trovi que sto modo di porre il problema intorno al  co mpito dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà.  Sento dirmi: «Nella realtà il compito dell’Etica è  concepito e proseguito in modo assai diversp anzi  opposto. Le n prme della condotta morale sono già  d ate e conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla deter¬  minazione concreta dei precetti particolari, di quelli  che si chiamano « d over i » e che si raccolgono nella  parte comunemente chiamata Morale Speciale, non  cadono sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i  filosofi della morale ne sdegnano quasi la tratta¬  zione o ne danno soltanto le linee generali. Nella  realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo  di cercare e determinare le norme ricavandole da  un certo fine; ma di costruire la sistemazione teo¬  rica di un codice di condotta già dato, raccogliendo  e unificando le norme particolari in una norma ge¬  nerale, della quale si cerca quale possa essere la  giustificazione; anche se la costruzione induttiva¬  mente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica  di una costruzione deduttiva. Quindi è antiscienti¬  fico e inutile andar cercando fuori della realtà, nel  campo di una possibilità, ipotetica, un fine — po¬  niamo pure che sia possibile trovarlo — il quale             — 50 —    risponda a quelle esigenze, per il gusto di ricavarne  delle norme. Le quali, o si accorderanno con quelle  riconosciute in effetto e vigenti come morali, o  discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che  la pretesa derivazione deduttiva delle norme da  quel fine nasconde una reale derivazione induttiva  del fine dalle norme; se discordano, questa discor¬  danza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco, di  norme elle contrastano con quelle riconosciute e  accettate, e a far respingere come non morali o  utopistiche le norme e il fine dal quale sono rica¬  vate ».   6. — Io non ho difficoltà a riconoscere che i due  indirizzi prevalenti nella speculazione morale con-  temporanea— l’indirizzo sociol ogico-storico. e l’in-  dirizzo idealistico-prammatistico — si accordano fon¬  damentalmente nel respingere le costruzioni etiche  razionali o pure, e nell’assumere come punto di par¬  tenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali  l’uno considera principalmente l’aspetto esterno,  sociale, e l’altro l’aspetto interno, psicologico. Ma  noto subito che la novità nel punto di partenza e  nel processo di costruzione, è soltanto apparente;  o, per essere più esatto, la novità consiste (1) nel-    (1) Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno quanto  al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento regres¬  sivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, il Kant  avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare.               — 51 —   l’assumere la legittimità di un procedimento, che  inconsapevolmente domina in generale la specula¬  zione etica, e che si scorge più evidente in quei  sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente nei  diversi tempi e luoghi più largo consenso; (consenso  non verbale, si intende, ma reale). In altri termini  non si fa che seguire in modo consapevole e riflesso  quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui ha  obbedito in generale la speculazione morale, almeno  nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi  tempi come ortodossa, o retta, o sana che si voglia  dire; la preoccupaziono di giustificare, il modo di  operare, di sentire e di giudicare già tenuto come  buono. Ora il rendersi conto che la costruzione  etica — sotto l’apparenza logica di una deduzione  progressiva di certi precetti particolari da una nor¬  ma generale e di questa da un fine posto come  supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai  precetti particolari alla norma' generale e da questa  ai principi che la giustificano), segna certamente  un progresso e un acquisto quanto alla conoscenza  del processo reale storico e psicologico di formazione  dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia  stato il processo realmente seguito, altro ò affermare  la legittimità del processo. Certo sarebbe un fortis¬  simo argomento di probabilità, se avesse fatto buona  prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto piut¬  tosto di pensare il contrario; di pensare, che la     52 —    speculazione morale sia viziata nelle origini appunto  dal preconcetto che la domina e dal procedimento  che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo pre¬  concetto che nasce, a mio giudizio, così il diletto  della soluzione a cui riesce l’indirizzo sociologico,  come di quella a cui fa capo l’indirizzo pramma-  tistico.   7. — In primo luogo importa notare che am¬  bedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune  il presupposto che compito dell’Etica sia quello di  unificare le norme già date, risalendo da esse ai  principi o ai postulati, sembrano ammettere questi  due punti: 1°. Che le norme morali siano già tutte  conosciute e determinate, o che dalle norme cono¬  sciute si ricavi il criterio per quelle non determi¬  nate. 2°. Che le norme date siano fra di loro con¬  cordanti o compatibili, o almeno non in contraddi¬  zione l’una coll’altra.   Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si  avvera nel fatto.   E prima di tutto non è esatto che le norme della  condotta siano già date e conosciute. Anche se lo  Spencer ha torto, come io credo e si vedrà più in¬  nanzi, di assumere a criterio del giusto l’adatta¬  mento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel  sostenere che in un gran numero di casi la coscienza  non ci dice quale sia il modo di operare giusto o  approssimativamente meno ingiusto. Ma, oltre ai      — 53 —    casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si  potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare  quale sia la migliore applicazione del criterio, sap¬  piamo però quale sia il criterio da usare) vi sono  sfere intere di azioni, per le quali la coscienza non  saprebbe suggerirci una scelta sicura, e per le quali  non ci dice, come per altre, «non è giusto» o «è  giusto». Difenderò io il divorzio o lo combatterò?  Approverò o non approverò l’allargamento del suf¬  fragio politico? Sarò conservatoreoliberale, monar¬  chico o repubblicano, individualista o socialista,  liberista o protezionista? In quali circostanze ed  entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro indirizzo?  Non serve rispondere che ciascuno deve operare in  queste materie secondo la propria coscienza. Si  tratta di sapere come una coscienza onesta deve  operare perchè alla bontà delle intenzioni (che è  presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E  abbandonando questo giudizio alla coscienza indi¬  viduale si riconosce o che possono coesistere criteri  morali diversi, o che lo stesso criterio morale può  legittimare ugualmente modi di operare opposti, o  finalmente che quelle parti della condotta escono  dal campo della morale.   Ma se possono legittimamente coesistere per certe  parti della condotta criteri morali opposti, quale  sarà il criterio superiore che serve a decidere fra  questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non     — 54    si ammette che possano del pari legittimamente  coesistere criteri contrastanti anche per le altre  parti della condotta? Se poi lo stesso criterio morale  può legittimare due modi di operare opposti, ciò non  può essere che per mancanza di determinazione delle  circostanze; e prova in ogni modo che le norme  particolari della condotta morale non sono tutte de¬  terminate e conosciute. E se finalmente quelle parti  della condotta escono dal campo della morale, quale  norma suprema è mai quella che non ha nulla da  dire intorno a una parte così grande dell’operare,  come è, per esempio, tutta la condotta politica del¬  l’individuo e della società? Si dirà che per questa  parte, per la quale le norme non sono date, il cri¬  terio si ricava de quelle già date e accettate come  morali? Urtiamo in una seconda difficoltà.   8. — Per ricavare dalle norme già date il cri¬  terio cercato, per unificarle cioè in una norma più  generale, occorre che le norme date concordino fra  di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto  questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di  insistere, perchè è cosa troppo nota, sull’antitesi  fondamentale esistente tra le norme di condotta che  valgono come morali rispettivamente nelle condi¬  zioni di pace e di guerra, o sui contrasti, tragici  talvolta, tra i «doveri» famigliari e i «doveri»  sociali, bisogna osservare che le norme date e accet¬  tate come morali possono contemplare e contemplano        realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi,  secondarie, le quali esistono e sono possibili in gra¬  zia di relazioni primarie e fondamentali, che le  norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito  spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice.  Se si suppone che un uomo sia saltato sulle spalle  di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a  cercare quale sia la posizione migliore per il por¬  tante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale  concilia la minima fatica del primo col minimo disa¬  gio del secondo. I l criterio seguito qu i è un criterio  d i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto,  o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere  tutte le comodità per sè senza tenere in conto le  comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito  nello stabilire la condotta migliore, data, quella con¬  dizione diversa dei due) fosse applicato a determi¬  nare la relazione tra i due ,prima che siano divenuti  rispettivamente portatore e portato, questa condi¬  zione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue  gambe. Ossia la norma morale regola nel caso sup¬  posto un rapporto che non esisterebbe se essa fosse  applicata al sorgere di quel rapporto. E può avve¬  rarsi, così, delle norme morali qualchecosa di ana¬  logo a quel che racconta di sé Senofonte, che all’o¬  racolo chiedeva quale via dovesse tenere per giun¬  gere più felicemente in Asia, guardandosi bene dal  chiedere prima se era bene o male che andasse.       — 56 —    Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e  osservare che è colla realtà data che bisogna fare  i conti, e che è ozioso andar cercando come sarebbe  giusto che essa fosse; non resta che acconciarvisi  alla meno peggio. — Vedremo ora come questa po¬  sizione di puro adattamento passivo sia, per forza  stessa della realtà, che diviene e muta, insosteni¬  bile: ma ò opportuno notar subito che quando si  renda palese un contrasto del genere notato, colla  consapevolezza di questo contrasto è inevitabile che  nasca nella coscienza morale l’aspirazione a una  realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modifi¬  care la realtà se essa appare mutabile, o a cercare  la ragione della giustizia fuori della realtà.   Queste lacune e queste incongruenze delle norme  in effetto vigenti come morali in un dato tempo e  luogo, dimostrano intanto due cose: che, quale sia  la condotta migliore in un determinato momento  storico, non è una semplice constatazione da fare,  ma è un problema da risolvere ; e un problema  assai più difficile e complicato di quel che possa  apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in  ogni caso è necessario assumere un criterio il quale  valga come guida a colmare le lacune, e a risol¬  vere o giustificare le incoerenze. Ma un criterio,  comunque assunto, a cui si attribuisca questo uf¬  ficio e questo valore, è un criterio alla stregua del  quale devono essere valutate anche le norme par-       titolari già riconosciute come certe, poiché deve  valere per tutta la condotta. E ciò viene a dire  che il processo di determinazione di tutte lo norme  si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso modo  che se le norme si dovessero tutte determinare ex  novo, astrazion fatta e indipendentemente dalle  norme in effetto già accettate e seguite. (Il che del  resto è precisamente quello che avviene in tutte  le scienze precettive; dove, se anche i precetti scien¬  tificamente stabiliti si trovano a coincidere coi pre¬  cetti empiricamente seguiti, la determinazione scien¬  tifica procede come se spettasse ad essa di deter¬  minarli e giustificarli). E allora il problema torna  ad essere quello del criterio che deve essere as¬  sunto.   9. — Ora il criterio che l’indirizzo sociologico  suggerisce è, come è noto, — e conforme al con¬  cetto , che esso pone in evidenza, della relatività  della morale e del diritto — la corrispondenza alle  esigenze sociali del momento storico che si consi¬  dera. Il codice morale di un dato tempo e luogo  delinca la forma di condotta richiesta dalle condi¬  zioni dell’ esistenza sociale in quel tempo e luogo,  e trova in esso la sua giustificazione.   A nessuno può venire in mente di negare la  reale ed effettiva dipendenza delle norme morali  dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esi¬  genze possono spiegare come si sia formato stori-           — òs¬    camente e psicologicamente il codice di condotta  correlativo finché sono inconsapevolmente identi¬  ficate colle esigenze della coscienza morale, esse  non bastano più, neppure a determinare quale sia  la condotta adatta in un certo momento storico,  una volta che siano assunte come criterio riflesso  e consapevolmente seguito; non bastano, tranne  che in un caso: nel caso che le condizioni di esi¬  stenza, da cui quelle esigenze emergono, siano con¬  siderate come immutabili o come assolutamente  sottratte ad ogni azione od efficacia che possa  esercitare su di esse la condotta umana , indivi¬  duale e collettiva. Perchè quando intervenga la con¬  sapevolezza di una possibile efficacia modificatrice  della condotta umana sulle condizioni sociali e sulle  esigenze che ne nascono, allora entra di necessità  nella valutazione della condotta la considerazione  di questa efficacia; la quale, richiede il confronto  tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno  stato reale e uno stato possibile. E la ragione della  scelta tra i due non può essere data dalla realtà  dello stato presente, ma dalla diversa desiderabilità  dei due stati messi a confronto; e quindi non sol¬  tanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche da  quelle dello stato possibile o creduto tale. Per con¬  seguenza, condotta buona apparirà non quella sem¬  plicemente che è richiesta dalle condizioni di fatto,  ma quella che, nei limiti imposti dalle condizioni     — 59 —    reali, tenda a modificarla nella direzione segnata  dallo stato più desiderabile (1). Soltanto in un caso,  puramente teorico, la condotta tracciata in confor¬  mità con questo criterio, coinciderebbe colla pura  e semplice corrispondenza alla realtà delle condi¬  zioni fiate; nel caso che lo stato reale presente ap¬  parisse universalmente e sotto ogni rispetto più de¬  siderabile di ogni altro. Ma anche in questo caso  la valutazione è data dalla desiderabilità, non dalla  realtà.   Insomma, altro è comprendere che una forma  di condotta è conforme a certe condizioni, altro è   (1) Di qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente  ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico,  che la condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa neces¬  saria dalle condizioni del momento; i quali poi sono spesso ardenti  e anche non di rado generosi fautori e propugnatori di riforme e  di innovazioni anche radicalissime nelle condizioni e nella strut¬  tura stessa della società. Sento 1’ obbiezione : « Gli è che noi pre¬  vediamo necessario e inevitabile il mutamento in quella direzione,  e ci affatichiamo , come la levatrice , a rendere meno doloroso il  parto del futuro dai fianchi del presente ». Lasciamo, per restare  nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro voler  affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo, questo  futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del presente ?  E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non appre¬  stare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che  altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste con¬  dizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’ opera  vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno  per questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della obiet¬  tiva ed esteriore necessità. — Cosi la condotta corregge la dottrina.   « Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati ».        — 60 —    aver coscienza della bontà di quella condotta ; la  quale non può nascere che dalla coscienza della  bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede che  sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe con¬  dizioni, altra è la loro desiderabilità; altra cosa è  la spiegazione storica, e altra la giustificazione etica.   10 — Di questa esigenza di una giustificazione,  alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo ri¬  flesso della comparazione e della critica, nessuna  costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa invece  il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente   successo si deve, come credo, in gran parte, alla  insu fficienza d el rel ativismo sociologico e storico  nel campo della morale. Esso è in sostanza, come  è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle  esigenze pratiche; la affermazione del diritto di cie-  dere alì’ esistenza reale di quelle condizioni che si  pongano come necessarie a dare un fondamento og¬  gettivo al valore delle norme e dei motivi morali.  In questa reazione a difesa della fede il nuovo idea¬  lismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze e  dalla debolezza degli avversari, è passato, come ac¬  cade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo af¬  ferma la legittimità del proprio indirizzo nel campo  della morale e della religione, o, come si dice, nel  campo dei valori pratici; ma anche nel campo della  scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo che in  ultimo anche il sapere teoretico, benché non se ne             accorga o si dia l’aria di non accorgersene, non ab¬  bia altra ragione per giustificare i principi e i po¬  stulati che assume a fondamento delle sue inter¬  pretazioni dei fatti e delle leggi particolari, se non  una ragione di convenienza ; il valore che quei  principi hanno come mezzi per la sistemazione del  sapere, cioè in ultimo per la soddisfazione di un  bisogno speculativo.   Qui non è il luogo di discutere ciò che nella  dottrina ci può essere di vero — più come intui¬  zione di un aspetto trascurato della realtà psicolo¬  gica, che come legittimazione di un metodo — per  quel che riguarda la ricerca scientifica (1); la con-   (1) Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che, a mio  giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione che  legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo in¬  voca a legittimare i principi pratici. L’ equivoco è questo : E ve¬  rissimo che 1’ im rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può  parlare di un sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo   cosi, grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e  in quanto possono servire. Ma servire a che ? A unificare e siste¬  mare le cognizioni delle cose dei fatti e dei rapporti come nono  n on come desideriamo che nan o ; a costruire non quella verità che  piace a noi di ammettere, ma la verità senz’ altro, sia o non sia  conforme ai nostri desideri e ai nostri capricci. Perchè il bisogno  teoretico o scientifico è appunto il bi sogno di .salier e le cose che  s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come le desideriamo. E  qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione « come sono »  esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’ espres¬  sione « come desideriamo che sieno ». Perciò non è il caso di ripe¬  tere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè  quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì soste-           sidero nel campo della morale, c soltanto rispetto-  ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto  la soluzione che essa dà del problema della giusti¬  ficazione etica, non dilferisce sostanzialmente dalle  altre soluzioni di carattere metafisico, se non per  il fondamento. A proposito del quale, siccome, se  anche se ne ammetta la validità, questa non toglie  il difetto che nasce dal 'carattere metafisico della  soluzione, mi accontento di osservare, per quelli  che credono di sfuggire per questa via all’utilita¬  rismo, che essa conduce a una forma, mistica se  si vuole, ma ad una forma di utilitarismo ; anzi  alla forma estrema e più radicale : la valutazione  delle stesse credenze metafisiche e religiose dal  punto di vista di un interesse umano ; sia pure  questo interesse il massimo, il termine di confronto  di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la  credenza come un sostegno della moralità, ossia in  ultima analisi come un mezzo pedagogico. E non    nere che questo è un modo nostro di formulare e unificare i fatti ;  ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di pensare che  noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in piedi.  E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per ca¬  varci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un  pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guar¬  dano dentro.   Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in que¬  stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con profon¬  dità e con chiarezza, c ome suole, il Varisco (V.* in particolare :  Introduzione alla Filosofia Naturale, e Studi di Filosofia Naturale,  Cap. I).      è escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel  mentre ehe si pone il valore della credenza, si venga  a togliere valore all’ oggetto della credenza.   11 — Venendo ora al nostro argomento, è certo  che l a soluzione del prammatism o, come in genere  le altre soluzioni di carattere metafisico, soddisfa  a quella esigenza della giustificazione etica, alla  quale non soddisfa il relativismo storico. Ma an¬  eli’essa presenta — dico all’infuori da ogni con¬  tesa sulla legittimità del fondamento e sulla vali¬  dità teoretica dei principi e dei postulati ammessi  — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche.  Ed è che il fine di ordine sopranaturale cosi po¬  stulato, non può servire a determinare le norme.  Non può servire, per la ragione perentoria che la  relazione tra un fine, che è al di fuori e al di so¬  pra della vita umana naturale e finita, e una con¬  dotta, qualunque essa sia, che si deve dispiegare  nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti de¬  terminabili sono contenuti nei limiti della vita  finita individuale e sociale, una relazione di questo  genere, dico, non può essere in nessun modo dimo¬  strata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto  che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costru¬  zione metafisica può essere assunta a giustificare  norme concrete di condotta non soltanto diverse,  ma opposte, senza che si possa ricavare da essa  nessuna ragione per la quale tra due forme di     — 64 —    condotta diverse, una possa o debba giudicarsi pre¬  feribile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di  preferenza nell’ ordine degli effetti, che le due con¬  dotte rispettivamente producono o tendono a pro¬  durre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta cor¬  relativa un valore che sussiste indipendentemente  dal fine sopranaturale, e diventa il fine naturale  della condotta medesima.   Con questa differenza tra i due fini: che mentre  dato il primo, non si può (se non facendo appello  a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a  una pura affermazione) ricavare da esso quale sia  la condotta atta a raggiungerlo; dato questo fine  naturale, le norme si ricavano appunto dalle con¬  dizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione  naturale tra la condotta e gli effetti della condotta.  Ossia un fine sopranaturale non può fornire esso  il criterio per determinare la condotta, se non a  patto che — implicitamente o esplicitamente — si  assuma, come subordinato ad esso e da esso richie¬  sto un fine, o un ordine di fini, naturale, in rela¬  zione al quale in realtà le norme sono stabilite.   Nè concluderebbe nulla in contrario l’osservare  che il criterio desunto dagli effetti che l’azione tende  a produrre, riguarda la condotta esterna, non la  interna, nella quale sopratutto consiste il valore  morale. In primo luogo anche se per le due con¬  dotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,      — 65 —    bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò  anche la condotta esterna conta pure qualchecosa,  sarebbe ancora necessario ammettere un criterio  che valga a determinarla. In secondo luogo, benché  siano, in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni  i sentimenti che hanno valore e danno valore alle  cose e alle azioni, e ogni valutazione si riduca a  valutazione comparativa di tendenze o sentimenti  diversi; non bisogna dimenticare che i sentimenti,  come le aspirazioni, si distinguono per il loro con¬  tenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui si  riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre  intenzioni di qualche cosa. E finalmente, una forma  di perfezione interiore che si consideri come fine, a  cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non può  essa stessa fornire il criterio per determinare quale  sia la condotta richiesta a questo scopo, se non in  quanto questa perfezione si consideri come un ef¬  fetto o un ordine di effetti che dipende natural¬  mente (in parte al meno se non in tutto) da certe  condizioni, ossia da certi mezzi. Le pratiche del¬  l’ascetismo non avrebbero senso se non si ricono¬  scesse a loro questo carattere di mezzi atti a pro¬  durre certi effetti. '   Concludendo: la soluzione metafisica a cui fa  appello l’indirizzo prammatistico, come ogni altra  soluzione di carattere metafisico, non può avere,  anche se non si ponga in dubbio la sua legittimità,    — r,o —    che un ufficio consolatore, non regolatore; può ser¬  vire a dare o aggiunger valore a certe norme e  ai fini umani connessi con queste, ma non può ser¬  vire a determinarle ; può fornire un principio di  giustificazione, non un criterio di derivazione. E  perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema  che riguarda la determinazione delle norme; il che  ò quanto dire che lascia sussistere il problema, e  la validità delle ragioni per le quali si pone, e se  ne cerca la soluzione.   Cap. V. — Il preconcetto fondamentale.   12 — Così dei due tipi diversi di costruzione  etica corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno  q « — quello del relativismo storico — se anche può   offrire un criterio di determinazione scientifica di  un sistema di norme, non soddisfa all’esigenza mo¬  rale, ossia non giustifica il valore che ad esse si  vuole attribuire. Perchè, alle norme stabilite in  conformità al criterio della corrispondenza alle esi¬  genze della vita sociale, non si può riconoscere un  valore superiore a ogni altra norma, se non sup¬  ponendo che la forma di esistenza sociale correla¬  tiva si riconosca universalmente e sotto ogni ri¬  spetto più desiderabile di ogni altra; presupposto  che non è per nulla legittimato, nè si può ricavare  . dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i dealism o             — 67 —   prammatistico — in quanto fa capo a principi e  postulati metafisici, serve a giustificare il valore  che si attribuisce alle norme morali, ma ò radi¬  calmente impotente a fornire un criterio di deter¬  minazione delle norme.   Il primo può determinare le norme, ma non  giustificarle ; il secondo può giustificarle ma non  determinarle.   L’uno e l’altro tipo di soluzione hanno comune  il preconcetto fondamentale che compito dell’Etica  debba essere quello di trova re le rag ioni sulle_quali  ò fondata la bont à o la giustiz ia di quella forma  di condotta, che già teniamo come buona. Ammesso  — tacitamente o esplicitamente — questo presup¬  posto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le  connessioni naturali tra quella forma di condotta  e i bisogni della vita sociale del momento storico,  e quindi ad assumere come criterio etico la corri¬  spondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o  giustificativa porta a cercare a quali patti o con¬  dizioni quella forma di condotta possa veramente  essere riconosciuta come buona, e quindi ad assu¬  mere come fine della condotta un bene il quale  soddisfaccia a quel requisito di universale e pre¬  minente desiderabilità, che non si trova in quel  fine , che è in realtà il fine naturale della con¬  dotta (I).    (1) E i moralisti che cercano di conciliarle ambedue, e soddi¬  sfare all’esigenza scientifica senza rinunciare alla esigenza giusti-       — 68 —    13 — E allora la conseguenza legittima è que¬  sta : che una scienza normativa morale è possibile  soltanto se il fine naturale che serve a determi¬  nare le norme vale anche a giustificarle.   Ma il fatto — che questa esigenza non ò sod¬  disfatta finché si cerca la giustificazione di un co¬  dice di condotta già dato, assumendo questo come  punto di partenza, e quindi come fine la forma di  convivenza e di cooperazione sociale alla quale esso  codice corrisponde, — non prova V impossibilità di  una etica normativa scientifica; prova al più la  impossibilità di una tale scienza finche si intende  £0 il compito dell’ Etica in quel modo,   [ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il  problema in un modo diverso: cercare quale possa  essere il fine che soddisfa a questa esigenza, e dalle  condizioni che esso richiede ricavare le norme della  condotta? Il porre il problema in questa forma non  è forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto  nascere dal porlo in forma diversa, e dall’analogia    ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo in conformità  all’ esigenza scientifica il criterio , e in conformità all’ esigenza  morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore metafisico al  fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal quale si  possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in  apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di  stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando  si tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare 1’ altro ;  senza che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere  cosi pronto a trovar giusto quello che 1’ altro suggerisce.    — 69 —    (che l’esigenza caratteristica della norma etica non  toglie) colle altre scienze precettive ?   Sento risorgere V obbiezione : Posto pure che  l’impresa riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò  facile la risposta. In primo luogo, anche se non  servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di  avere un valore teorico il sistema di rapporti che  per tal modo -si venisse a conoscere. In secondo  luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inu¬  tilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure  che riguardi dati ipotetici. (E quale cognizione  scientifica non contempla dati, almeno in parte,  ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni ge¬  nerali se ne può aggiungere una terza particolare.  Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col quale  può essere utile la conoscenza delle relazioni che  esistono tra forme diverse di moralità e condizioni  storiche diverse, non possa tornare utile la cono¬  scenza delle relazioni scientificamente stabilite tra  una forma di condotta possibile c un ordine di con¬  dizioni possibili ?   14 — Concludo : il problema, s e una scienza  normativa etica sia possibile, non è un problema  risoluto, ma è un problema da ris olve re. Se si possa  e si debba risolvere nel modo tenuto dallo Spencer,  è questione diversa e clic rimane da esaminare. E  questa critica preliminare mentre avrà servito, come  spero, a dimostrare che il presupposto fondamen-       — To¬    tale dello Spencer intorno al compito dell’Etica non  può essere a priori escluso, ha posto in chiaro le  esigenze fondamentali alle quali una scienza nor¬  mativa morale deve soddisfare.   E così ci fornisce una guida per la critica della  dottrina.       Parte III.    LA. DOTTRINA DELLE DUE ETICHE  E LE ESIGENZE   DI UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE    Cap. VI. — Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e  dell’ adattamento completo nm^se^e a determi¬  nare il tipo di condotta cercato.   Il p rogra mma che lo Spencer traccia e si pro¬  pone di seguire (non dico che in realtà gli sia ri¬  masto fedele) per costruire una scienza normativa  etica, si può raccogliere, in queste due te si: I.° La  necessità di assumere come tipo della condotta mo¬  rale la condotta dell’ uomo giusto in una Società  giusta ; e la necessità conseguente d ella disti nzione  'ìdfn fv** i ^ tra E tica Pura (Ji/icr Assoluta) ed Etica Applicata  parevo*)» f ( Etica_ Relativa) e della precedenza teorica della  prima sulla seconda. II. 0 La identificazione della  condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta, col  tipo di condotta che egli pone come proprio del  limite dell’evoluzione.   Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due  tesi siano solidalmente connesse, e la seconda sia                ilei'quadro del sistema la fondamentale e quella  che legittima e rende possibile ad un tempo la sua  costruzione, non ò difficile vedere come da un punto  di vista critico esse possono e debbono essere con¬  siderate a parte. La prima, infatti, formula una  veduta metodica ; la seconda esprime la speciale  applicazione che di quella veduta metodica lo Spen¬  cer ba creduto di fare. In altri termini, è astrat¬  tamente possibile riconoscere che il tipo ideale del-  1’ uomo giusto non possa determinarsi se non in  relazione con una società giusta e clic per deter¬  minare la condotta giusta relativamente a certe  condizioni reali, sia necessario aver prima ricono¬  sciuto quale sarebbe la condotta giusta in condi¬  zioni idealmente supposte, anche se non si accetta  che il tipo ideale di condotta giusta possa essere  concepito in quella forma e su quel fondamento  che lo Spencer crede di dovergli assegnare.   Anzi io penso che la veduta espressa nella prima  tesi non solo si possa, ma si debba accettare come  legittima e necessaria, e che in essa si racchiuda  come in germe un concetto fecondo. Certo, credo,  se una scienza normativa morale ò possibile, è pos¬  sibile per quella via; e i difetti della costruzione  etica dello Spencer nascono non dall’averla seguita,  ma piuttosto dall’ essersene allontanato. Cosicché la  critica stessa della seconda tesi riesce a confermare  la legittimità della prima.      — 73 —    1- — As sumendo come tipo ideale di condott a  ^ insta la condotta corrispondente al limite dellV vn-  ! azione, lo Spencer riconosce, esplicitamente o im¬  plicitamente, alla forma di vita individuale e so¬  ciale che segna quel limite, valore di fine morale.   Ora. lasciando la difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui  insistito, che uno s tato concepito come il risultato  necessario dell’evoluzione naturale possa aver va¬  lore di fine liberamente e deliberatamente voluto  e proseguito? difficoltà che non mi pare insupera- '  bile (1), io credo che questa identificazion e presenta He   due difetti capitali : essa non vale, per se, a for-      O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la possibilità e la  necessità. — Affermare la possibilità die si produca un fatto, non  è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei fattori,  l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli, produrrebbe,  secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel fatto.  Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si am¬  mette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui dipende, '  può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri l'azione  MI'uomo, cioè quando la « necessità . dell’effetto sia condizionata  dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti, aspira¬  zioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia adeguata  del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso che l’ef¬  fetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso elio  1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata appunto  al valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’ azione  corrispondente, della volontà di raggiungerlo.   Che questa interpretazione sia compatibile coi principii dell’evo¬  luzionismo Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane  estranea all’ intento di questo studio, e che i più risolvono nega¬  tivamente (cfr., tra gli altri, L. Zeccante : La dottrina della co-                  — 74 —    ni re un criterio per la derivazione delle norme  morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi, il  tipo ideale è determinato dallo Spencer sopra un  altro fondamento); e non è sufficiente come prin¬  cipio di giustificazione. Cominciamo dal primo.   Il concetto di evoluzione, come quello di tempo,  del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la tra¬  duzione in termini di causalità naturale, esclude  l’idea di limite, inteso almeno come termine fisso,  oltre il quale ogni processo di trasformazione, cioè  di causazione, si arresti. Il processo stesso di dis¬  soluzione che, secondo il pensiero dello Spencer, si  alterna a periodi indefinitamente grandi con quello  di evoluzione, non segna il termine di un periodo  e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista   scienza movale nello Spencer Cap. XXXI, p. 194; e G. V ijiaki :  Rosmini e Spencer p. 209 e seg. Di queste, come di tutte le ob¬  biezioni mosse all' Etica dello Spencer, a cominciare dal Guyau e  dal Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza  e ricchezza di notizie il Dr. G. Salvadori nell’opàra « L’Etica Evo¬  luzionista » che è una apologia entusiastica di tutto il sistema  Spencer iano).   Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi  da ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi, come  di altri critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore  il compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si connet¬  tono colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo  luogo perchè il punto di vista dal quale è qui considerata la dot¬  trina delle due Etiche è diverso, e diversa la via seguita ; in se¬  condo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione toccata di¬  scutere le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di un  breve scritto, tutta, o poco meno, la storia della morale.      — 75 —    di una valutazione umana o teologica. In realtà il  cammino non si arresta per tracciar di segni che  l’uomo faccia sulla via della natura. Nè, del resto,  quando lo Spencer parla di limite dell’ evoluzione  della vita umana, intende di significare il momento  in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello   in cui la vita raggiunge il massimo svolgimento.   Senonchò questo massimo svolgimento non può es¬  sere. necessariamente, che relativo a forme date e  conosciute o comunque determinate di vita, cioè  di organi, di funzioni, e di attività ; e, anche in¬  teso cosi, non può venir stabilito se non fissando   un grado che si consideri come massimo; cioè, in¬  somma, segnando nel processo (non importa ora  con quale criterio) un momento , che sia punto di  arrivo di una serie (della quale sia rappresentato  da punto di vista teleologico come fine), ma che  potrebbe essere preso, con un criterio diverso,  come punto di partenza di una serie ulteriore.  È sufficiente a segnare questo momento il criterio  dell’adattamento completo ai tre ordini di fini:  della vita individuale, della vita della specie e della  vita sociale?   2. — È subito chiaro che questo adattamento  completo non può bastare esso stesso, se non si  determina quali siano le sfere di attività e di fini,  l’adattamento ai quali serve di criterio per stabi¬  lire se il limite è raggiunto. Perchè se si intende    per adattamento completo un adattamento definitivo  a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso  e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale  non sorgano nuove aspirazioni e nuovi fini, noi  non potremmo argomentare nò che un tale limite  sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui im¬  porta di più) dato che si raggiunga, quale sia il  grado o la forma di vita, che un tale adattamento  sia per fissare e suggellare come definitivo.   Perchè i fini sono, come ognuno sa, correlativi  ai desideri o ai bisogni. Ora a mano a mano che  le forme di attività si moltiplicano c si differen¬  ziano, si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò  si può nò induttivamente, nè deduttivamente de¬  terminare a qual punto questo processo possa o  debba arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla  tesi evoluzionista, ogni adattamento implica dimi¬  nuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus, avanzo  di energia; la quale appunto perciò si viene di¬  spiegando in nuoA r e forme di attività, c quindi nella  ricerca di nuovi fini. Anzi il sorgere di ogni forma  più complessa di attività, — ad esempio ogni fun¬  zione più elevata — presuppone normalmente l’a¬  dattamento già avvenuto delle attività meno com¬  plesse e relativamente elementari, — funzioni più  semplici — di cui essa ò una nuova ordinazione.  Onde per questo rispetto l’adattamento a certi fini,  ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinita-        mente. Oltredichè il processo stesso del conoscere  portando a scoprire sempre nuovi rapporti di cose  e di fatti, viene continuamente riversando la desi¬  derabilità dei beni conosciuti su nuovi oggetti che  acquistano valore di utilità, c moltiplica così i beni,  cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare delle  condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bi¬  sogni già esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre  la via a nuove aspirazioni, alle quali la soddisfa¬  zione già assicurata dei vecchi bisogni, permette  che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adat¬  tamento raggiunto è condizione e stimolo a nuove  forme di attività al modo stesso che ogni cono¬  scenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e na¬  scere « a guisa di rampollo, appiè del vero il dub¬  bio ».   Si dirà che lo Spencer intende l’adattamento  completo nel senso di mutuo adattamento dei tre  ordini di lini fra di loro; intende cioè la concilia¬  zione c 1 accordo tra le esigenze della vita indivi¬  duale quelle della vita della specie e quelle della  vita sociale.   Ma lasciando di notare che la difficoltà sopra  notata risorge a proposito di questa conciliazione  perfetta, si presenta la domanda: A quali patti si  fa questa conciliazione ?   Perchè se è vero, come lo Spencer ha cura di  ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di esi-       — 78 —    stenza i fini di un ordine non possono essere pro¬  se-miti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale  dei fini di un altro ordine, bisogna evidentemente  perchè la conciliazione si faccia, che intervenga una  cessazione, o una modificazione o una sostituzione  nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini  considerati ; ossia una modificazione nei bisogni e  nelle esigenze dell’individuo, o della specie, o della  società. Supponiamo ora per semplicità di discorso  che i fini individuali e i fini della specie si possano  considerare fin dal presente conciliati; o, per usare  i termini dall’economia pura, che si possa assu¬  mere 1’ egoismo di specie come comprendente m se  l’egoismo individuale (il che è in gran parte con¬  forme alle vedute stesse dello Spencer); la conci¬  liazione resterebbe da farsi tra i fini della vita  individuale e i fini della vita sociale.   E allora il problema è il seguente: Nello stato  di conciliazione contemplato, fino a qual punto sono  i bisogni e i fini individuali da noi conosciuti  o immaginati che avranno mutato di specie, di  estensione, di intensità, per adattamento alle esi¬  genze sociali, e fino a qual punto si troveranno  invece modificate le esigenze sociali per adatta¬  mento ai fini della vita individuale? E manifesto  che per conoscere in che cosa la conciliazione sia  per consistere bisogna o che sia definita la sfera  delle esigenze individuali, in corrispondenza colla      aliale si possa determinare la sfera delle „  sociali che con quelle si accordi; o sia definii  sfera delle esigenze sociali per una determinazione  tersa; o finalmente siano definite certe corni z on  (qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1  H vacano, esse, a determinare ad un tempo ,   limiti «Ielle une e delle altro.   :ì _ Queste condizioni lo Spencer ricava dalle   esigenze del “r ■» ™<ità induetnale !«<*<»'   cui si suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?»   tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e> 4“““*  il limite dell'evoluzione è in realtà ,1 ^   della società industriale del suo temp ,  tamento completo consist co¬   struttiva biologica e psicologica 1  nenti la società umana a questo tipo d, convivenza  e di cooperazione (I). Per conseguenza non è un   (1) qua.» riatto «no «i *“   Spencer che qui il Etta , (cio4 quando que-   biella II. n edizione dei ‘ de i System of   et’ opera fu ^pubblicata come   Synth. Phil.) si trova aggiun e cbe eva stato   lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu   dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo gei-   sostituito da quello che figura ne . . ident ifi c hiuo   provare la possibilità che le attività ^«isMche ^   colle egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i di-   «e—. - * “           - 80 —    certo tipo di vita completa che serve a determi¬  nare il tipo ideale della società giusta, ma è il tipo  considerato come ideale di società giusta che de¬  termina la vita completa. Adunque, poiché la con¬  ciliazione dei diversi ordini di fini è subordinata  all’ attuarsi delle condizioni che definiscono il tipo  ideale di società ed è relativa a queste, è il tipo  ideale di società clic in edotto è assunto come fine,  e sono le condizioni proprie di quel tipo che ser¬  vono a determinare le norme.    benessere individuale non maggiore di quello che è necessario alla  conservazione della vita individuale ; ed esser possibile il formarsi  negli individui di una organizzazione tale che la ricerca delle sod¬  disfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle at¬  tività che il benessere della comunità richiede. (Voi. cit. p. 300-302).  Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo che contiene questo  passo, lo Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi dice espli¬  citamente che esso può servire a chiarire e compiere il pensiero  espresso nel testo (ih. p. 2S9).   Un altro luogo in cui è ribadito in forma diversa, ma non meno  recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova nella seconda let¬  tera di risposta alle critiche del Rev. J. L. Davies sull’ obbliga¬  zione morale, pubblicata col resto della polemica nella- Appendice  C. alla Giustizia : « Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale  ho altrove insistito : che appunto come il cibo è giustamente preso  quando è preso per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere  quando manca l’appetito implica uno stato fisico disordinato ; cosi  una buona azione o un atto di dovere è fatto giustamente soltanto  se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ; mentre se è  fatto per la considerazione di certi risultati finali in questo o in  un altro mondo, implica uno stato morale « imperfetto » — (A. Si-  stem ecc. Voi. X. App. C. « The Moral Motive p. 450. — Nella  trad. it. della Giustizia edita dal Lapi questa appendice è omessa).     — 81    Ma se così è, quanto alla determinazione delle  nolane il postulato dell’adattamento completo, posto  clic si possa assumose, non serve a nulla; equivale  semplicemente a supporre clic tutti gli individui i  quali compongono la società ideale abbiano una na¬  tura così latta, che l’osservanza della condotta cor¬  rispondente costituisca per essi un bisogno o un  desiderio superiore a ogni altro, senza possibilità  di conflitto con altri bisogni o desideri; cioè, tiene  nella costruzione etica lo stesso posto che nei si¬  stemi morali è comunemente tenuto dal dovere , e  nelle scienze precettive in genere dalla supposizione  che esista un desiderio o un bisogno specifico cor¬  rispondente al fine da cui si ricavano le norme.   E quindi allo stesso modo che l’esistenza e la  natura specifica dei motivi da cui può dipendere  l’osservanza di una norma, non hanno che fare  colla determinazione teorica di essa, così l’ipotesi  dell’ adattamento completo dei bisogni e desideri  individuali a certe condizioni di convivenza e coo¬  perazione sociale, non ha che fare colla determi¬  nazione di queste norme. Perchè le norme sono ri¬  cavate appunto da quelle condizioni, alle quali si  suppone avvenuto l’adattamento; e che perciò ser¬  vono esse di critetio e per determinare le norme  e per conoscere se l’adattamento è raggiunto.    — 82 —    Uljh&MJ?   Jabot*    Gap. VII. — Il criterio del piacere puro, corrispon¬  dente all’ adattamento completo, n on ser re a  giustificare il tipo di condotta proposto.   ì. — Ma perchè assume lo Spencer come pro¬  prio della Società ideale un adattamento completo,  che, mentre esclude arbitrariamente ogni evolu¬  zione ulteriore, non serve a definire questa Società  ideale perchè è definito esso stesso in relazione con  quella ?   Perchè soltanto quando esso sia raggiunto, la  condotta umana in tutta la sua estensione apporta  a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro pia¬  cere, piacere non misto a dolore di sorta ; e per  I l o Spencer, come s’è visto, il giusto assoluto e sclude  • il dolore . E perciò il tipo ideale contemplato dal-  1’ Etica Assoluta non può essere se non quello nel  quale la condotta apporta puro piacere.   L’ adattamento completo darebbe dunque al tipo  ideale di convivenza e cooperazione sociale quel  carattere di universale e preminente desiderabilità,  che deve avere il fine assunto dall’Etica. Lo dà  veramente ?   Benché a prima vista possa parere strano il  dubbio e inutile la discussione, bisogna riconoscere  che un tipo di esistenza individuale e sociale nel  quale tutta quanta la condotta in tutta la sua esten¬  sione porti sempre e soltanto piacere, non è, date      le leggi psisologiche conosciute, e non può essere,  un fine.universalmente desiderabile sopra ogni  altro.   Lascio di discutere se, supposta una condotta,  diciamo così per brevità, totalmente piacevole, il  piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato  di coscienza distinto, per mancanza di quel con¬  trasto e di quell’ alternanza fra gli stati psichici  (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding),  senza della quale anche i godimenti più forti il¬  languidiscono e vaniscono nella ripetizione abituale;  e di considerare se la forma di vita corrispondente  non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni  forma di coscienza riflessiva e di deliberazione vo¬  lontaria, cioè l’intelligenza stessa e la volontà, al¬  meno nelle loro forme più elevate riducendo la  vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale  corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli  d’ uomini meccanizza ti. Certo, se si bada clic l’at¬  tenzione attiva è sempre, in grado maggiore o mi¬  nore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato princi¬  palmente, se non unicamente, dal dolore e non dal  piacere, bisogna riconoscere che la capacità dello  sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a  svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’in¬  telligenza si affievolirebbe; come già si può osser¬  vare in quelle persone sfaccendate e sonnolente, le  quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura      — 84    tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo  di altri bisogni, e di aspirazioni diverse.   E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a maggior  ragione per la volontà.   Certamente le leggi psicologiche conosciute ten¬  dono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a  proposito dell’adattamento completo, che un tale  stato possa avverarsi ; ma, dato che potesse attuarsi,  non ci sarebbe nessuna ragione per negare, in  forza delle medesime leggi, l’eventualità se non  della soppressione, di un oscuramento progressivo  delle facoltà psichiche più elevate. E allora si  presenta subito la questione, se, ammessa pure  soltanto la possibilità che a un tale stato si accom¬  pagnasse questo effetto, potrebbe una forma di  esistenza siffatta apparire desiderabile sopra ogni  altra.   5. — Si potrebbe dire: Che importa l’oscura¬  mento e anche la soppressione dell’ intelligenza e  della volontà, purché sparisca il dolore? E quando  non vi siano altri bisogni e altri desideri che  quelli appunto che trovano già una soddisfazione  adeguata, ossia, quindi, non ci sia più nemmeno  la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni di¬  versi, non è una tal vita nel suo genere beata ;  anzi la sola beata perché é esclusa la capacità di  provare altri bisogni ?   Ora che un tale stato possa, anzi debba apparire    — 85 —    il più desiderabile quando si supponga l’adattamento  già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui  si tratta di vedere se un tale stato possa essere  preferibile per chi ne ò fuori, e dovrebbe proporsi  come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi esercita  certe forme di attività possa parere desiderabile  sopra ogni altro un tipo di vita, nel quale per  avventura quelle attività fossero oscurate o sop¬  presse. In questo caso possono valere l’osservazione  notissima del Mill e la ragione colla quale la con¬  forta ; che, certo, non avrebbero valore nel primo  caso (1).   Ma anche lasciando questo aspetto della que¬  stione, non bisogna dimenticare che appunto perchè  il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adat¬  tamento completo, la medesima condizione di una  condotta totalmente piacevole, — per le ragioni  dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero  e nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento    (1) « È meglio essere un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto :  è meglio essere So crate malcontento che un imbecille beato ». Ora  la ragione addotta dal Mill vale per l’uomo, ma non per l’animale,  e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice graziosa-  munte, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille. E nota  infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione in¬  tera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il  suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che  la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo  felice il « desiderio ardente di giungervi » che è appunto ciò che  <pii importa. (Hoffding - Morale, VII. 3 tr. fr. p. 116-119).         — 8(i —    potrebbe essere raggiunto — può concepirsi attuata  non in una sola ma in più forme di vita fra di  loro diverse ; e resterebbe sempre da trovare un  criterio comparativo della desiderabilità, o da am¬  mettere che tutti i tipi di vita, per i quali si  concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini  di fini (anche se la conciliazione fosse ottenuta  allo stesso modo che nelle società animali, cfr. la  nota qui sopra a pag. 79), siano ugualmente desi¬  derabili. Il che importerebbe la legittimazione a  pari titolo di forme di condotta fra di loro diverse  e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde  che dal piacere puro il fondamento della legitti¬  mazione.   E qui tocchiamo un argomento il quale si al¬  larga fuori del campo particolare della dottrina  dello Spencer e riguarda nello stesso tempo una  questione più generale: la natura del fine.   6. — Siccome il carattere che si richiede nel  fine assunto a giustificare le norme morali è, come  s’è ripetutamente detto, quello della universale e  preminente desiderabilità sopra ogni altro, si pensa  che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo  e supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e  al di là, non ci sia più nulla da desiderare e da  cercare. E allora non resta che questa alternativa :  o si cerca un fine il quale contenga e comprenda  in sò tutti i fini ; e prendono forma i fantasmi di         — 87 —    felicità, di beatitudine, di perfezione, noi quali si fd"-'.-  figurano definitivamente appagati tutti i desideri,  e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano  appagamento ; oppure si considera come fine la  forma colla quale si presenta alla coscienza la  soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il piacere  o la liberazione dal dolore.   Ma tanto 1’ una quanto l’altra delle soluzioni  non sono che apparenti, o si risolvono in una vana  tautologia. Porre come fine la felicità senza deter¬  minare quale sia o in che consista la felicità di  cui si discorre, è certamente un modo per conciliare  verbalmente tutte le differenze di opinioni e supe¬  rare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le  concilia e non le supera, più di quel che valgano  a togliere le diversità di opinioni politiche e a  raccogliere i partiti ad unità di intenti certi « or¬  dini del giorno » in cui si afferma all’ unanimità  essere fine supremo per tutti il « bene della patria »  o la « prosperità della nazione » o altre formule  somiglianti.   E se si determina in che si faccia consistere la  felicità, quali siano i fini che si comprendono nel  fine unico chiamato con questo nome, allora delle  due l’una : o i diversi fini così compendiati e com¬  presi nel fine unico, sono veramente unificati, e,  perchè ciò sia. occorre che essi possano ridursi ad  uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra    essi è causa o condizione degli altri, o che tutti  dipendono da una medesima condizione o ordine di  condizioni ; e in questo caso la felicità è caratte¬  rizzata o da quel fine o dal conseguimento di  questa condizione, che diventa esso fine, perchè su  esso si riversa la desiderabilità di tutti ; e il ter¬  mine felicità non è che.un duplicato di quel certo  fine o di questa condizione. Oppure i diversi fini  non sono clic sommati insieme, e giustaposti l’uno  all’altro, rimanendo in realtà distinti e senza che  si veda la necessità della loro connessione; e allora  1’ unità non è che verbale, e in realtà invece di  un fine, si hanno più fini, ciascuno nel suo genere  supremo.   Si dirà che si dà alla felicità non il senso di  un certo contenuto determinato che la costituisca,  ma il senso di appagamento dei desideri, di soddi¬  sfazione dei bisogni, senza clic si definisca quali  ne siano per essere il numero e le specie; nel qual  senso si può affermare che la felicità rimane sempre  il fine ultimo pur restandone indeterminato il  contenuto ? E si riesce allora alla seconda alterna¬  tiva, di considerare come fine ciò che si ammette  esservi di comune e di costante nel raggiungimento  di qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma  sotto la quale si presenta la soddisfazione di qua¬  lunque desiderio : il piacere o la liberazione dal  dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è       — 89 —   come dire che il line ultimo è il godimento che  accompagna il raggiungimento del fine o dei fini,  o che lo scopo dei desideri è.... la soddisfazione dei  desideri. E allora si vede perchè il puro piacere  non possa dare un criterio di legittimazione e di  valutazione comparativa dei fini e quindi delle  forme di condotta. Perchè o si prende come criterio  la quantità del piacere, la intensità della soddisfa¬  zione, senza badare alla natura del desiderio a cui  corrisponde, e non è possibile assegnare un solo  desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per  due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza  in momenti diversi. 0 si valuta la soddisfazione  secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che  distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfa¬  zione ma V oggetto a cui il desiderio si rivolge;  non l’effetto soggettivo gradevole, ma le condizioni  che lo producono, non è il godimento del bene, ma  il bene.   7. — Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco :  nell identificare il b ene col piacere ; il fine, cioè  l’ordine di effetti che costituisce l ’oggetto del  desiderio, collo stato soggettivo che è il godimento  (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero  che un bene di cui si concepisse che nessuno mai  potesse godere in nessun modo, non avrebbe valore  di bene; ma è non meno vero che un godimento  del quale non si sapesse assegnare nessuna causa   n      o condizione o mezzo atto a produrlo, non potrebbe  mai essere proposto o assunto come scopo di un'at¬  tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un  fine desiderabile sopra ogni altro al quale sia or¬  dinata la condotta, non si può intendere che un  bene, il quale sia bensì, direttamente o indiretta¬  mente causa o mezzo o condizione di godimento,  senza di che non sarebbe bene; ma che non può  consistere nel godimento stesso, ma in un certo  effetto o ordine di effetti determinabile e possibile,  che possa costituire l’oggetto di una ricerca attiva,  •cioè di una certa condotta (1).   Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso  e quivoco che conduce a riporre il fine nella feli -   cità o nel piacere ; l’equivoco che questo effetto  o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo,  uno stato definitivo, al di là del quale non siano  assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine di  effetti definitivo è contraddittorio non soltanto colle  leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col  presupposto stesso fondamentale che si assume di  necessità quando si voglia determinare scientifi¬  camente un sistema di norme. Perchè qualunque   (1) Non altrimenti avviene nel campo speciale dell’economia. E  bensì vero che se non si supponesse la possibilità del consumo,  cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la ricchezza,  questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ; ma  1’ oggetto a cui si volge 1* attività produttrice e del quale si cer¬  cano le leggi, è la ricchezza, non il consumo.      — 91 —    fine rappresentato come umanamente possibile, ap¬  punto perchè deve essere concepito come un effetto,  che si produce, date certe condizioni, è a sua volta  pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo  ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente pos¬  sibile che sia ultimo, è come pensare chiusa e fi¬  nita a un momento dato la serie della causazione,  abolita e spenta in un effetto che sia stato pro¬  dotto ogni efficacia causativa ; e allora vien meno  ogni ragione di pensare come dipendente da certi  mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto stesso  che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto  ogni fondamento a qualsivoglia determinazione di  rapporti tra mezzi e fini, e perciò anche a qual¬  siasi determinazione di norme.   Si dirà che si intende « ultimo » rispetto alla  salutazione, cioè talea cui si riconosca valore per sé,  indipendentemente da ogni considerazione ulteriore.  Ma se si ammette che da quel fine, quando sia rag¬  giunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che  lo si pensa condizione di tali effetti ulteriori, la  valutazione di questi (che non può essere esclusa)  •muta il valore del fine egli dà nello stesso tempo  valore di mezzo.   8. — Dal che nasce questa conseguenza assai  notevole: che la desiderabilità di un ordine di ef¬  fetti, che si assuma come fine, non viene tanto  dalla desiderabilità che gli si riconosca come bene.       cioè come oggetto diretto e immediato di godimento,  quanto dalla desiderabilità degli effetti, dei quali  esso apparisca la condizione necessaria. E che per¬  ciò, mentre è vano andar cercando quale sia il  fine ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve  in una pura espressione verbale, il fine che può  valere come supremo si deve cercare non nell’uno  o nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore  per sè, ma in un ordine di effetti, in un sistema di  condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si  possa riconoscere questo carattere appunto di con¬  dizione necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei  beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E quindi  il fine che può avere universalmente una deside¬  rabilità superiore a ogni altro, non può consistere  se non in un ordine generale e, si potrebbe dire,  preliminare di condizioni, la cui attuazione appa¬  risca necessaria perchè sia possibile universalmente  la ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè  supremo nel senso di una gerarchia, della qiiale  segni il culmine, nè nel senso di una grandezza  o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso  della precedenza necessaria o della indispensebilità;  per la quale venga a raccogliersi su di esso come  in un unico foco la luce e il calore di desiderabi¬  lità che irraggia dai fini ai quali apre universal¬  mente la via.   E perciò, ammesso che qualsivoglia fine umano     — 93 —    abbia, come ha in realtà, per condizione la convi¬  venza e la cooperazione sociale, il line che può  avere questo valore di precedenza necessaria sugli  altri deve essere di necessità il raggiungimento o  il mantenimento di certe condizioni ili convivenza  e di cooperazione sociale, cioè di una qualche  forma di società. Ma perchè ad una forma di so¬  cietà possa essere riconosciuto questo carattere uni¬  versalmente, occorre che le condizioni della sua  esistenza abbiano per tutti un valore potenzial¬  mente uguale : ossia che nessuno dei fini, dei quali  quella forma di cooperazione pone la possibilità e  dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto  delle esigenze di essa forma, precluso o impedito  a nessuno dei componenti la società. 0, in altri  termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone  cercato, ciascuno trovi nelle condizioni proprie di  quella forma sociale la medesima esteriore possibi-  bilità di rivolgere a quella ricerca l’attività pro¬  pria. che vi trova qualsiasi altro (1).   L’analisi ci ha dunque portato a queste con¬  clusioni : a riconoscere che il limite dell’evoluzione,  1’ adattamento completo, la massima felicità, nè for-    (1) Il che non implica, occorre appena avvertirlo, una ugua¬  glianza nei risultati ottenuti, o come si dice inesattamente, una  « uguale distribuzione di felicità » la quale supporrebbe, insieme  colla condizione notata, anche una uguaglianza di attitudini, di at¬  tività e di preferenze.      — 94 —    nisce un criterio ili determinazione delle norme,  nò basta come principio di giustificazione; a rico¬  noscere la legittimità del concetto, clic bisogna  assumere come fine un tipo ideale di società ; e a  stabilire le esigenze fondamentali, alle quali questo  tipo deve soddisfare.   Ed ora è facile vedere per quali ragioni i l tipo  sul quale in realtà lo Spencer ha modellato la sua  società giusta non soddisfaccia a queste esigenze.   Gap. Vili. — Il tipo di società giusta dello Spencer .    i). — In un articolo di risposta ad alcune cri¬  tiche mosse ai « Dati dell’ Etica » lo Spencer po¬  lemizzando col prof. Means così si esprimeva a  proposito del modo di intendere la giustizia: << A  molti sembra ingiusto che la dura fatica di un bi-  folcogli faccia guadagnare in una settimana meno  di quanto un medico guadagna facilmente in un  quarto d’ora. Molti sostengono essere ingiusto che  i figli del povero non possano avere i vantaggi del  l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e  defi cenze nelle quote di felicità che alcuni ritrag¬  gono dalla cooperazione, sicc ome clerivano da ere¬  ditata inferiorità di natura, o da inferiorità di  c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ^ ~ ^  cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io  la intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che               — 95 —     trasmette alla discendenza malattie c deformità,  l’ingiustizia che infligge alla prole le conseguenze  penose delle stupidità e della cattiva condotta dei  genitori, la ingiustizia che costringe quelli che  ereditano delle inc apac ità, a lottare colle difficoltà  clic ne derivano, l’ ingiustizia che lascia in relativa  p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or -  < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6  una specie di ingiustizia estranea alla mia tesi ».   il i cose stab ilii'-, quantunque in forza di esso, una '  inferiorità della quale l’individuo non ha colpa  produca i suoi mali, e una superiorità della quale  egli non può vantare nessun merito, apporti i suoi  benefìzi; e dobbiamo accettare, come possiamo,  tutte quelle disuguaglianze che ne deri vftrm     vantaggi che i cittadini si procacciane    rispettive attività » (1).   Ho citato questo passo, non perchè gli stessi con¬  cetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬  citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e  la morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun  altro luogo appare piu manifesto il presupposto che  vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬  mendo come elemento del concetto di giustizia —  accanto a quello dell’ uguale libertà — la condi¬  li) Replie to Criticism on « The Data of Etihcs » in Mitid  Jan. 1881 p. 93.                 zionc ricavata dalla biologia, che la vita progre¬  disce c si eleva soltanto a patto che gli individui  superiori godano i vantaggi della loro superiorità  e gli inferiori subiscano i danni della loro inferio¬  rità, egli identifica la inferiorità fisiologica e psi¬  chica colla inferiorità sociale; la inferiorità obesi  potrebbe chiamare nativa o costituzionale colla in¬  feriorità clic si potrebbe dire di posizione.   Ora, che un uomo debole non possa vincere le  medesime resistenze che uno forte, che un bambino  poco intelligente impari meno e peggio di un in¬  telligente, è naturale e necessario; ma non si può  dire che sia giusto nè ingiusto. Che i figli eredi¬  tino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità o l’in¬  sensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e  che i primi godano i vantaggi e i secondi sop¬  portino i danni che sono conseguenza rispettiva¬  mente di questa loro soperiorità o inferiorità ere¬  ditata, sarà del pari biologicamente necessario, ma  non è ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì  giusto o ingiusto rispettare o violare questa rela¬  zione naturale, soltanto se si considera questa re¬  lazione come condizione di una elevazione pro¬  gressiva delle specie che sia assunta come effetto  universalmente desiderabile, cioè come fine.   Ma che i figli del contadino non abbiano la pos¬  sibilità di venire istruiti o educati, non dipende  dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ere-    — 97 —    ditata o no, ma dipende da una inferiorità sociale,  la quale toglierebbe ad essi questa possibilità anche  se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attis¬  sima a questa coltura. Ora, mentre l’analogia della  selezione biologica importerebbe che i figli del con¬  tadino al pari di quelli del lord potessero porsi  allo stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro ri¬  spettive capacità e sforzi frutti maggiori o minori,  la diversità delle condizioni sociali esclude gli uni  dalla gara c toglie non solo la necessita ma la pos¬  sibilità clic l’opera di selezione si rinnovi tra i  superstiti di ogni nuova generazione sull’unico fon¬  damento delle loro rispettive attitudini e attività.  Sul che non è necessario insistere dopo le cri¬  tiche note e ripetute ; ma valga l’accenno per ri¬  levare che a torto lo Spencer identifica colla infe¬  riorità biologica, o meglio, costituzionale, l’infe¬  riorità clic deriva dalle condizioni sociali, e crede  che possa valere a giustificare le conseguenze della  seconda, lo stesso fine che invoca a giustificare le  conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla  sfera dei beni conseguibili che è imposta da con¬  dizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limi¬  tazione clic nasce dalla capacità e dalle doti in¬  trinseche; e se questa è giusta, posto che si prenda  per fine superiore a ogni altro V elevazione della  specie (e dato che ne sia condizione), quella è giusta  soltanto se si considera come fine superiore quella      certa forma ili cooperazione sociale che la rende  necessaria. Anzi quella limitazione d* origine so¬  ciale che si ponga come giusta per quest’ ultimo  rispetto, appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere  che sia giusta la condizione « che ciascuno sopporti  i danni della sua inferiorità e goda i vantaggi  della sua superiorità » non include, ma piuttosto  esclude 1 altra condizione, a torto dallo Spencer  compresa o conglobata con quella ; che ciascuno  sopporti i danni o goda i vantaggi che sono con¬  seguenza di una inferiorità o di una superiorità,  la quale risulta non dalle sue doti fisiche e men¬  tali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe cir¬  costanze esteriori.   E in verità sarebbe da meravigliare che lo  Spencer non abbia rilevato la differenza, o non ne  abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il  punto di partenza, il foco centrale da cui muove  e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è,  come s’ò detto in principio, un ideale etico, anzi  propriamente sociale e politico; onde l’intento prin¬  cipale diventa quello di trovare la giustificazione  del suo ideale nelle leggi della vita, e per esse  nelle leggi stesse dell’ universo.   l ( h Ora il suo ideale sociale e politico è in  sostanza quello stesso del liberalismo, in cui crebbe  e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto  e definito nelle sue parti quando uscì il « Pro-         — 99    spectus » (1800); e perciò nel costruire la sua « So¬  cietà di uomini giusti », per quel che si attiene  alla struttura sociale, egli non fa che supporre rea¬  lizzati i desiderati teorici, o già riconosciuti espres¬  samente, o ricavati logicamente dai postulati eco-  n omici e politici di quel liberalismo . 11 quale era  bensì arditamente coerente nella affermazione dei  principi e dei corollari riassunti nella formula della  giustizia (la uguale libertà per tutti), ma conside¬  rava o come anteriori ed estranee a questa legge,  o come naturali ad un tempo e conformi ad essa,  le dive rsità storicamente date di condizione econ o-  mica degli individui e delle classi socia li. Onde lo  Spencer non tenne conto della disuguaglianza ef¬  fettiva, che nell’ esercizio di quella libertà, formal¬  mente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di quella  diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi  biologiche . 1 frinii* •   Ne segue che mentre nella sua società ideale  egli costruisce l’individuo giusto facendo astrazione  da tutto ciò che nei fini individuali vi può essere  di incompatibile non solo colla cooperazione, ma  anche colla simpatia ; n el costruire invece la so -  cietà giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di  aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato  « lo stato di cose stabilito », ma non fa astrazione  da quelle con dizioni che importano una reale li¬  mitazione diversa nella sfera delle attività é dei                            100 —    fini conseguibili dei singoli ; e però la sua non è  una società giusto, ma una società di uomini giusti ;  giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia, cioè,  è modellata sulle esigenze di una certa struttura  sociale, nel configurare la quale egli non tien conto  di quelle condizioni che pur suppone soddisfatte nel  formare il tipo dell’ uomo giusto.   E cosi si avvera qui una i n eoe ronz a del genere  che si ò accennato più sopra (IV, 8): che le norme  della sua giustizia siano applicate a regolare delle  relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili  in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che  le norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle. Perchè mentre sup¬  pone che gli individui seguano nella loro condotta  una perfetta imparzialità subordinando alle esi¬  genze della giustizia o dell’ uguale libertà — fine  prossimamente supremo — tutti gli altri fini ge¬  nerali e particolari, suppone poi, come proprie di  una tale cooperazione di uomini giusti, condizioni  che sono in tutto o in parte la negazione dell’im¬  parzialità, e che non esisterebbero se lo stesso cri¬  terio dell’ imparzialità fosse seguito nel costruire  il tipo della società giusta.   E in questo senso che, accennando incidental¬  mente altrove all’Etica Assoluta dello Spencer, no¬  tavo come un vizio di essa non un eccesso, ma  piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli as-       — 101    suine abusivamente come esigenze costanti e uni¬  versali di ogni forma di cooperazionc, e quindi  anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di  un certo momento storico; e pone come dati fon¬  damentali di una cooperazione regolata dalla legge  della uguale limitazione per tutti, delle condizioni  che importano una limitazione disuguale.   Stando così le cose, il raggiungimento o l’ap¬  prossimazione a un tale tipo di società, non può  apparire come fine universalmente preferibile, nè  le norme che esprimono la condotta richiesta da  quel tipo possono avere carattere di universale os-  servabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio  punto di vista.   Agli individui delle classi sociali poste, per ef¬  fetto di quella disuguale limitazione, in condizione  di inferiorità, questa inferiorità che non è conse¬  guenza della propria condotta, deve apparire una  menomazione ingiusta dei diritti; agli individui  delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità,  questa superiorità, che parimenti non è conseguenza  della propria condotta, deve apparire, se la coscienza  si elevi a una imparzialità universale e coerente,  una menomazione ingiusta dei doveri,   il. — E nasce di qui quel se greto rancore in  chi riceve, e quel senso indefinito di malcontento e  quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano talvolta  dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità       — 102 —    della beneficenza, se la accompagni il dubbio che  essa non sia se non un compenso parziale e tardivo  di ingiustizie patite e di ingiustizie godute.   La simpatia non può essere schietta dove non  regna la giustizia (1); e non si possono definire  le forme e i limiti della beneficenza se non dopo  die siano definite, e siano o si suppongano osser¬    vate le norme della giustizia; onde la necessità  logica che il tipo ideale della società giusta sia  determinato all’ infuori da ogni supposta efficacia  modificatrice che la simpatia e la beneficenza eser¬  citino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli  e della società. Soltanto così è possibile accertare  se il tipo di cooperazione assunto come ideale possa  essere universalmente desiderabile, e soltanto così  è possibile determinare dove la giustizia finisca e  la beneficenza cominci ; dove finiscano le relazioni  di diritto e dove comincino le relazioni di simpatia.   * ^ _ Ora il tipo di società ideale dello Spencer pre-   i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva inevitabil-  mente dal primo; di supporre realizzate le condi-    yCH&Ue'ìt-   f    zioni della perfetta simpatia in una società nella   (1) Questo si riflette con tutta chiarezza nella pratica quando  si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei quali non cada  dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano relazioni  d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie che  sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e gli  obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e tingono  d’ altro colore i rapporti di simpatia.          103    quale non sono realizzate le condizioni della giu¬  stizia. La sua società è una società più o meno  ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla  quale egli ricava per un verso le norme della  giustizia, e per l’altro le norme della simpatia;  invece di essere una società giusta di uomini giusti,  quando si tratti di determinare le norme della  giustizia ; e una società giusta di uomini perfetta¬  mente simpatizzanti quando si tratti di determinare  le norme della simpatia e della beneficenza.   Ma anche supposto che per questa guisa la  perfetta simpatia venga a sanare gli effetti delle  inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il  tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo  difetto: che la ricerca e il raggiungimento di alcuni  dei fini, ai quali la cooperazione serve, apparirebbe  per una parte dei cooperanti subordinata alla be¬  nevolenza di un’ altra parte. Il qual difetto baste¬  rebbe per togliere, nel giudizio di una coscienza  imparziale, a quel tipo di cooperazione il carattere  di univers ale preferibilità.   12. — Ma il difetto era, come s’ò detto, dato il  presupposto dello Spencer, inevitabile. La simpatia  è pe r lui il m ezzo di conciliazione dell’egoismo  col l’altruismo. M a poiché i limiti rispettivi dell’e-  goismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze  del suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo  la condizione dell’adattamento psicologico dei sin-              — 104 —    goli a queste esigenze. Ed ò caratteristico a questo  riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta  dello svolgimento progressivo della simpatia come  l’attore della conciliazione , porta lo stesso titolo e  sostituisce nei « Dati » il capitolo smarrito e ag¬  giunto poi in appendice, che ho citato più sopra  (v. nota a pag. 70), nel quale si cita come esempio  di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo l’adat¬  tamento alle esigenze della vita sociale delle api  e delle formiche. Per questo rispetto direi, se non  sembrasse un paradosso, che il grande assertore e  propugnatore dell’individualismo, è in fondo, senza  che se ne accorga, un difensore della subordinazione  totale e definitiva dell’individuo a un tipo di coo¬  perazione sociale, che egli considera bensì come la  condizione necessaria alla vita più elevata delPin-  dividuo e della specie, ma che in realtà vincola il  grado di elevazione della vita di un gran numero  se non di tutti gli individui, alle esigenze di una  certa struttura economica.   E quando egli combatte l’intervento della società  nel regolare i rapporti economici, in nome dei  diritti dell’individuo, dimentica che una parte con¬  siderevole di quei diritti, sono in realtà diritti di  alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa dispa-  0 rità ha la sua radice nella costituzione economica,   che lo Stato, come egli lo vuole, interviene pure  a sancire e a difendere. La quale osservazione,            — 105 —    giova notarlo, non ■vale per sè nè prò nè contro  il cosidetto Socialismo di Stato; vale soltanto a  provare che l’individualismo dello Spencer non è,  come pare, un individualismo universale, ma un  individualismo particolare.   Cosi, i l difetto capitale del tipo di società dello  Spencer come in genere del cosidetto « Stato di  diritto » nasce non da quel che afferma, ma da  quel che dimentica ; non dal riconoscere e difendere  le esigenze della uguale libertà per tutti, ma dal  non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal-  1 omettere, come se fossero soddisfatte, mentre non  sono, le condizioni che rendono possibile 1’ uguale  libertà (1).   E, ad esprimerlo in termini kantiani, il difetto  si riduce a questo: Dove vi è cooperazione con  effettiva parità di diritti, ciascuno dei cooperanti  ha ad un tempo riguardo a qualsiasi degli scopi  della cooperazione, per un rispetto ragione di mezzo  e per l’altro ragione di fine. Se invece le esigenze  della cooperazione interdicono a qualsivoglia dei   (1) Nota il Loria che quando si grida contro la concorrenza come  causa di una infinità di mali, si attribuisce alla concorrenza la  produzione di effetti che nascono « dalla mancanza di concorrenza,  cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto nel  campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza benefica.  Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il ri¬  sultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza  di concorrenza fra lavoratori e capitalisti ». ( Cost. Ec. odierna  0. 11. 3. 6. ; p. 175, cfr. anche p. 60 e passim).    7           — 100 —    cooperanti la ricerca di una parte dei beni, a cui  ò condizione necessaria la cooperazione di tutti,  per questa parte 1’ escluso ha soltanto ragione di  mezzo, e non ragione di fine.   Il che avviene appunto, malgrado il riconosci¬  mento formale, o meglio, verbale, della uguale  libertà, anche nella società ideale dello Spencer.  La quale perciò non può aver valore di universale  e preminente desiderabilità perchè non soddisfa  alla condizione richiesta : che tutti i sodi trovino  nelle condizioni di esistenza della società la mede¬  sima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere  la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni,  ai quali la cooperazione sociale è mezzo.   Questo è il postulato caratteristico della univer¬  sale desiderabilità di una forma di convivenza,  ossia è il postulato caratteristico della giustizia;  e supporre una società giusta di uomini giusti  equivale a supporre riconosciuta e applicata uni¬  versalmente e costantemente in qualunque specie  di azione o di influenza che si eserciti, così dalla  società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza di  quel postulato.   Gap. IX. — Ufficio e limiti (li una costruzione scien¬  tifica dell’ Etica.   13. — La società giusta così intesa non rappre¬  senta dunque un tipo definitivo della vita più     — 107 —    elevata possibile, analogo ai tanti regni dell’Utopia  che la fantasia morale ò venuta fingendo nei  diversi tempi. Anzi per questo rispetto una mag¬  giore o minore elevatezza, complessità o intensità  di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita  nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può  concepire (e non ne mancano in effetto gli esempi)  una forma di società in cui sia, almeno parzialmente^   l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la  quale sia tuttavia meno giusta di un’altra più  semplice e meno civile. Appunto perchè la giustizia  riguarda la universale possibilità di cercare i beni,  ai quali è condizione la convivenza e la coopera¬  zione sociale, e non include che questi beni siano  di molte o di poche specie, di maggiore o di minor  pregio.   Onde è pienamente compatibile col postulato  anche la concezione pessimistica della vita ; perchè,  anche dal punto di vista del pessimismo, uno stato  di giustizia, che è la condizione necessaria della  universalità della simpatia e quindi della compas¬  sione, deve apparire preferibile a ogni altro. E se  anche si riguardasse come fine ultimo la negazione  universale della volontà di vivere, lo stato di giu¬  stizia apparirebbe la condizione più favorevole  perchè 1’ uomo prenda coscienza della necessità  naturale c inevitabile della propria infelicità, spo¬  gliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e                     — 108 —    contingente, ed effetto di malvagità degli uomini  o di iniquità degli istituti sociali. E questa desi¬  derabilità dello stato di giustizia anche rispetto al  pessimismo è forse una conferma non trascurabile  del valore di universale preferibilità che gli si è  riconosciuto, e a un tempo della sua indipendenza  da ogni particolare concezione metafisica.   Adunque, poiché uno stato di giustizia non è  caratterizzato da altro se non dall’ ipotesi che le  esigenze di quel postulato siano soddisfatte, non  si può nè si deve pretendere di ricavare dal po¬  stulato un contenuto determinato, ma soltanto la  forma generale delle norme. Il contenuto specifico  deve essere ricavato dai fini, ai quali si riconosce  o si suppone che la cooperazione sociale sia o  debba essere mezzo, e in relazione al quali si  possano definire le condizioni richieste dal postulato  della giustizia.   Quali siano questi fini non si può stabilire se  non o per constatazione o per ipotesi. Per consta¬  tazione, quando corrispondano alla osservazione  della realtà psicologica in un dato momento sto¬  rico, ossia in una forma di civiltà. Per ipotesi,  quando si voglia cercare preliminarmente quali sa¬  rebbero le condizioni richieste dalla possibilità di  ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo.  (Ed è inutile a questo proposito insistere qui sulla  eventuale opportunità o necessità di ricorrere a        — 109 —   tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come questa,  nelle quali non è possibile la sperimentazione).   14. — Ma tanto nell’uno quanto Dell’altro caso  le condizioni che se ne ricavino e che vengano sta¬  bilite come proprie del tipo di società giusta con¬  siderato, presentano questo carattere : che non sono  date, ma costruite, che non sono reali, ma ideali.  Ora, se noi determiniamo quali siano le norme di  condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste  norme esprimeranno quale sarebbe il modo di ope¬  rare nella supposizione che esse siano già date e  reali, e non quale sia il modo di operare che tende  a realizzarle, mentre sono date condizioni piu o  meno diverse.   La prima determinazione è oggetto di un’ Etica  Pura : la seconda di un ' Etica Applicata, nella quale  si consideri come fine il raggiungimento delle con¬  dizioni ideali che sono assunte nell’ Etica Pura, e  si stabilisca per approssimazione quale sia in un  dato momento storico la condotta sociale e indivi¬  duale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle  condizioni reali date, ò più atta a favorire la tra¬  sformazione di queste nella direzione segnata da  quelle.   Soltanto così l’Etica può evitare un errore del  genere di quello nel quale cadevano gli economisti  della scuola Classica ; i quali, dopo aver supposto  l 'homo oeconomicus mosso unicamente dall’interesse          110 —    personale, il che avevano diritto di fare, lo consi¬  derarono poi come reale e die dero valore di leggi  n aturali e necessarie alle conclusioni ricavate da  questo e dagli altri dati astratti supposti (1). Ora  appunto percliò le condizioni soggettive e oggettive  dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte  e non reali, le norme che esprimono quale sarebbe  la condotta dell’ homo iustus e della societas iusta  non sono immediatamente nè integralmente appli¬  cabili in condizioni diverse dalle supposte. I « do¬  veri » e i « diritti » dell’ uomo giusto nella so¬  cietà giusta non coincidono coi doveri e i diritti  dell’ uomo storico in determinate condizioni sto¬  riche; alla stessa guisa che i « diritti naturali »  dei filosofi dello stato di Natura non coincidevano  coi diritti positivi delle società in cui vivevano.  Ma se si dà valore di fine all’attuazione delle con¬  dizioni proprie della societas iusta, i doveri e i di¬  ritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al quale  si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi  il sistema di doveri e di diritti che vale come  giusto in una società reale data. Alla stessa guisa,  se la costituzione di una società foggiata in con¬  formità all’ipotesi dello Stato di Natura e del Con¬  tratto, si fosse riconosciuta (con verisimiglianza  maggiore ed evitando la confusione fra giustifica¬    ci) Cfr. Ch. Gide. Principes d’ éc. poi. p. 20-22.           - Ili —    zione etica e spiegazione storica) come fine da rag¬  giungere invece che come stato originario, il « di¬    ritto naturale » ricavatone sarebbe legittimam ente    apparso come il tipo idealmente giusto, al quale il  diritto positivo doveva avvicinarsi e adattarsi.   Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare  i dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione uto¬  pistica di applicare direttamente e integralmente  le conclusioni ricavate dai primi alle relazioni che  sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un  tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la prio¬  rità logica dell’Etica Pura surf mica Applicata (1).    15. — Raccogliamo in breve i resultati dell’ a¬      nalisi.   0   Una scienza normativa etica non differisce dalle  altre scienze precettive se non pe ^ il valore, che si ^  attribuisce al line suo: il quale deve essere des i¬  d erabile univ ersalm ente jyjjma e_a preferenza di    ogni a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo stesso    carattere alle norme ricavate da esso. Questo fine  universalmente preferibile non nuò essere che un  fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no  anche valore per sè) sia mezzo o condizione di tutti  i fini che si considerano come « ultimi » ; e quindi  non può essere che una forma di convivenza e di    */ . amw*    (l) Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra le due Etiche  cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito riferirmi a quanto  ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già citati.              — 112 —    coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli  possa riconoscere tale requisito. Ma una società  siffatta ò supposta, non reale, e le norme di con¬  dotta che se ne ricavano regolano delle relazioni  che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono  perciò applicabili direttamente a relazioni più o  meno diverse. Tuttavia la loro determinazione è  non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal  punto di vista scientifico alla determinazione delle  norme che debbono regolare le relazioni più com¬  plicate della realtà ; necessaria dal punto di vista  etico alla giustificazione di queste norme ; perchè  esse sono valide in quanto esprimono ravvicina¬  mento, nei limiti del possibile, di queste relazioni  reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire  che l’Etica Pura fornisce all’Etica Applicata il  criterio per determinare le norme, e il valore che  le giustifica.   16. — Ma non bisogna dimenticare che le norme,  sia dell’Etica Pura, sia dell’Etica Applicata, hanno  il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fonda¬  mentale che si accetti come valido e fuori di conte-  stazione il postulato della giustizia. Ossia hanno  valore se si suppone che ogni « socio » riconosca  che una forma di convivenza e di cooperazione  nella quale ciascuno abbia, quanto alle limitazioni  esterne, valore di fine a pari titolo di qualunque  altro è preferibile a una forma di cooperazione    — 113 —    nella quale una parte dei <? socii » abbia, per uno  o più rispetti, soltanto valore di mezzo e non di  fine.   Quindi, è bensì vero clic l’assunzione di quel  postulato è la condizione necessaria all’ universale  riconoscimento della norma, e clic perciò, se si  pone come caratteristica della norma morale 1’ u-  niversalità, rinunciare a quello vuol dire rinunciare  a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare  chiaramente e senza sottintesi che il sistema di  norme per tal guisa stabilito ha, come qualunque  altro sistema di norme, del quale si richieda una  giustificazione, valore ipotetico ; e che perciò questo  valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce  incontestabile il postulato.   Appare di qui che è vano e illusorio cercare  la giustificazione di una norma morale nelle leggi |  naturali (i). Perchè ciò che giustifica una norma  di condotta non è la naturalità, ma la desiderabilità  dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse  possono apparire giuste od ingiuste secondochè si  assumano come universalmente desiderabili o no  i resultati, ai quali la conformità della condotta    / ' fi 1   affo irafic-li itr [v  yJ.tA ttfilk t**'  he* ìtU 'o jqie j.    (1) La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi neces¬  sari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come-  yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar  valore di universale desiderabilità a un ordine di effetti, per il solo  fatto che ce ne riveli la produzione « naturale ».     — 114 —    a quelle leggi conduce, o ò creduta condurre. Può  essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere  o no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in  ultimo, l’essere o no presenti ed efficaci nella co¬  scienza umana certi bisogni, desideri, aspirazioni,  credenze), sia un portato necessario della natura  stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze  umane, si siano, rebus ipsis dictantibus, modellate  cosi da condurre a riconoscere nella osservanza  delle leggi naturali un valore di giustizia e di  bontà; ma anche in questo caso non ò la naturalità,  che ne fa ammettere la giustizia e la bontà, ma  è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità. Onde  per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano  possibili, almeno teoricamente, più Etiche diverse;  possibile, per esempio, (sebbene l’accoppiamento  esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiu¬  stizia, quando si assuma come postulato la prefe-  ribilità di una comunione sociale in cui una parte  non abbia che diritti e un’altra non abbia che do¬  veri. Benché allora 1’ Etica si sdoppierebbe in due  Etiche diverse, anzi opposte : l’Etica degli uomini-  fini c l’Etica degli uomini-mezzi; o, per usare le  parole del Nietzsche, la Morale dei padroni e la  Morale degli schiavi ; e la medesima condotta sa¬  rebbe, seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri,  ingiusta.   Che una « giustizia » di questo genere ripugni     — 115 —    alla psiche del socius per una ragione analoga a  •quella per la quale ripugna alla psiche dell’ uomo  logico ammettere che un rapporto tra due cose o  fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è  credibile; (sul presupposto di quella ripugnanza,  si fonda, io credo, la giustificazione etica della  coazione e delle sanzioni). E certamente rimane  aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno  ai problemi che riguardano il come e il perchè il  postulato che assumiamo possa e debba essere ac¬  cettato ; e se alla esigenza che esso esprime si  possa o si debba assegnare un ufficio, e quale,  nella interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo  e della storia. Ma da queste indagini, le quali sono  di natura metafisica, la costruzione scientifica del-  l’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi  indipendente, per una ragione analoga a quella per  la quale l’igiene è e si mantiene indipendente da  ogni questione intorno al fondamento e al valore  del postulato assunto da lei, e dal quale deriva il  valore normativo dei suoi precetti: — che un or¬  ganismo sano sia preferibile a un organismo ma¬  lato. —   Perciò, finché si rimane nel campo della ri¬  cerca scientifica, la sincerità richiede che, anche  nell’Etica, malgrado ogni interiore certezza, questa  condizionalità del valore delle norme sia esplicita¬  mente riconosciuta, e che anche nei termini si    «      — 116 —       eviti 1 ’ equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni  pretensione a un valore che non sia condizionato  al presupposto assunto.   Per questa ragione, oltreché per fissare rispetto  alla dottrina dello Spencer le differenze notate nel  modo di intendere il fine, e di concepire la società   *   giusta e 1 ’ uomo giusto, e la priorità non soltanto  logica ma giustificativa di un’Etica rispetto all’altra,  LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini « Etica Asso-  ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura    V'.',:r , ì '■ pvi n l iuta i v a » i ieri mmi «   e~=r . 1 ", della giustizia ed Etica Applicata della giustizia ». (^ 3 ;   n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od  'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le  norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate pre¬  liminarmente le condizioni della giustizia, fosse    assunto come fine l’adempimento delle condizioni  richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero  due ulteriori sezioni dell’Etica : l’ Etica Pura della  Simpatia e 1’ Etica Applicata della Simpatia.    della J    **1                              »                  —-PER UMA SCIENZA   FORMATIVA MORALE * -          \                   1                     PER UNA SCIENZA NORMATIVA MORALE    A leggere questo titolo, quelli che il Varisco ha  chiamato felicemente « i filosofi dell’ oramai» e  quegli altri che si potrebbero chiamare i girasoli  della filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma  non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno.  — Non è « oramai » pacifico che di una scienza  della morale non si può parlare? E vale la pena  di perdere il tempo attorno a un problema « oltre¬  passato »? — Io mi rassegnerò a lasciarli sorridere;  ma non son persuaso dell’ oramai, e trovo che il  problema è tutt’ altro che superato. La quale per¬  suasione per altro non garantisce nulla, pur troppo,  rispetto all’ altra faccenda del perder tempo ; per¬  chè il tempo si può perdere, e far perdere, come  sappiamo benissimo tutti, anche trattando di ar¬  gomenti non « oltrepassati ».   'Dico dunque che il problema, almeno nel modo  nel quale credo che debba essere posto e ho cer¬  cato di porlo, è più vivo che mai e di interesse  capitale così per l’Etica come per la Filosofia del  diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se do-    8      — 122 —    vrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più  spesso che le buone regole non consiglino, in prima  persona.   • •   1. — Quando sostengo la possibilità e la legit¬  timità di una scienza normativa morale, non in¬  tendo che una tale « scienza » possa o debba so¬  stituire la metafisica, e bandirla proprio da quel  campo che è il vero vivaio dei problemi metafisici,  il campo delle idee e dei sentimenti morali. E nem¬  meno che possa pretendere di costruire la morale ,  « F unica vera morale » erigendo a norme della  condotta certe leggi naturali cosmiche, o biologiche  o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si  presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho  sostenuto e sostengo è diversa. Una scienza normativa    etica, non può, al pari di qualsivoglia scienza pre¬  cettiva, consistere in altro che in u n sistema di re ¬  l azioni e di legg i, le quali hanno valore di norme da  seguire nell’ ipotesi che sia assunto come fine quel-  F effet to o quell'ordine di effetti, del quale esse  ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibo¬  sco dalle altre, perchè s uppone che al fine suo    [MJLjcTalfA   Ò)lCJUjLt> 'ittl-       , del quale esse    ’Sl'Kp tkf     si a rico n osc iuto un valore di universale pref eribilità    e precedenza sopra ogni altro fine.    Perciò una determinazione scientifica di norme    etiche richiede due condizioni : l.° Che il fine sia          — 123 —    umanamente possibile; cioò tale che se ne possa  stabilire la dipendenza condizionale da una certa  forma di condotta collettiva e individuale. Di qui  dipende il carattere scientifico della costruzione ;  perché la relazione che lega le norme con quel  fine potrà essere lunga, complicata e difficile, ma  non richiede ad essere conosciuta altri mezzi che  quelli di una indagine scientifica.   2.° Che sia ammesso come postulato che il ri¬  conoscere al fine assunto valore di universale pre-  feribilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro  fine umanamente possibile, è un 'esigenza morale.   É ovvio di per sè che se si ricusa di ammettere  questo postulato o se ne nega la legittimità, la de¬  terminazione delle norme di condotta richieste dal  fine contemplato non perde nulla del suo carattere  scientifico ; ma le norme non hanno valore morale.   •Ossia, il valore morale delle norme così ricavate  ò relativo alla accettazione del postulato; e la de¬  rivazione scentifica di un sistema di norme dal  fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza  della condotta morale; ma la scienza di una certa  condotta; la quale è la condotta morale, se si am¬  mette e in quanto si ammette quel postulato.   Ma è altrettanto ovvio che non avrebbe senso,  o sarebbe al tutto arbitrario e fuori di proposito,  l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nes- ’ v '’’   suno fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua   esigenza morale una esigenza che non trovasse nella */ r f>' r \ c < ’• '   a • fi «.e  ^ 0 $/» Uiv -        — 124 —      l Vt p*|Ut-U4«  ^vw *    realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho-  cercato di porre in chiaro in primo luogo quale  fosse l’esigenza caratteristica del valore morale di  una norma ; poi, se si potesse assegnare un fine  umano, e quale potesse essere, che rispondesse a  queste condizioni.   Non è il caso di ripetere il già detto (1); qui  ne ricordo soltanto le conclusioni : — che l ’esi-  genza che assum o, e, credo aver dimostrato, legit¬  timamente, come caratteristica di una norma mo-  r ale ò quella di una universale giustizia ; e che il  fine che soddisfa a questa esigenza non può essere  che una forma di società umana tale, che tutti i  sodi trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza  la medesima o equivalente possibilità esteriore di  rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivo¬  glia dei beni ai quali la convivenza e cooperazione  sociale è mezzo. — Supponendo dunque ammesso  il postulato sopra detto, non ho fatto e non faccio  una ipotesi arbitraria; poiché Tesigenza della giu¬  stizia, alla quale il postulato fa appello, è la più  profonda e più tenace e più incoercibile dell’uomo    in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto di  moralità e considera se stesso, ed è considerato,  come persona a pari titolo di ogni altro socio.    (1) Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a quello clie  che lo precede nel presente volume, e a un altro studio : Prolego¬  meni a una Morale indipendente dalla Metafisica, Pavia, Biz-  zoni, 1901.          — 125 —      Tuttavia per quanto possa parere ed essere le¬  gittimo prendere per concesso qu esto postulato, non  bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chia¬  ramente , che il fine e le norme corrispondenti  hanno quel valore che si attribuisce a loro, soltanto  nell’ ipotesi che lo si accetti come valido e fuori di  contestazione.   Se non 6 ammesso, ò vano pretendere clic la  costruzione normativa valga a farlo accettare o  possa obbligare ad accettarlo. Essa non può che  mostrare la coerenza delle norme proposte col fine  assunto, e di questo colla esigenza della giustizia ;  e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente  ammettere questa esigenza senza ammettere il va¬  lore di universale priorità attribuito al fine, e  quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata sia  ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato  di fatto che la costruzione normativa trova, se c’è;  ma che non pone essa, ne per sò vale a mutare.   2. — Adunque la scienza normativa morale così  intesa si riduce alla determinazione delle norme di  condotta valide per una coscienza che anteponga a  ogni altra esigenza l’esigenza della universale giu¬  stizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme  di condotta per una coscienza per la quale valga  come suprema l’esigenza egoistica, le norme risul¬  terebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il  medesimo ; la deduzione sarebbe, o si può concepire    *1 lyO           che potrebbe essere, ugualmente ragionata e scien¬  tifica. E del pari se si assumesse come regolatrice  l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incon¬  dizionata di sò agli altri, o qualsivoglia altra esi¬  genza e un fine possibile corrispondente.   Di qui si vede quanto sia superficiale c vuota  di significato l’opinione tante-volte ripetuta, e che  forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto  gran rumore, che la ragione non ci comanda che  l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla ;  né l’egoismo, nè l’altruismo, nè la giustizia. La  ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che  servono a conservar la vita a chi la vuol conser¬  vare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; ad¬  dita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie  della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli  uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè  più « razionale » dell’altruismo, nè il regresso più  razionale del progresso, nè la conservazione del-  l’individuo più razionale di quella della specie, nè  1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della col¬  lettività.   Razionali non sono i fini, ma le relazioni dei  mezzi ai fini (1). Ed è così ragionevole che dia la    (1) Dire che la ragione non consiglia che 1’ egoismo equivale a  dire che una condotta non egoistica non si può ragionevolmente  giustificare ; ossia viene a dire una di queste due cose : 0 che di  un fine non egoistico non si possono assegnare mezzi possibili, e     — 127 —    vita per un’idea chi pregia più l’idea che la vita,  come che taccia la verità per un ciondolo chi ama  più i ciondoli che la verità.   Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso  la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della  ragione può avere, come non dubito che abbia, una  efficacia indiretta nella valutazione dei fini, non è  dubbio che questa efficacia si esercita in favore di  quei fini e di quelle norme che rispondono alla   quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a rag¬  giungerlo ; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza  umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine  dell’ operare nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia  altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad  esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico non è mai fine  per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine egoistico al  quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo fine  egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può es¬  sere alla sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto  reale o supposto ; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni  ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in discorso è al¬  lora non che « la ragione consiglia l’egoismo » ; ma che « gli uo¬  mini sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai  quali soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici) ; e quindi,  finché sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole altra  condotta all’ infuori di quella suggerita dall’ egoismo ». Sapevhm-  celo ; ma non vuol dire che l 'essere egoisti sia più ragionevole die  il non essere.   D’altra parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti,  anche il precetto o il consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per  avere valore pratico, fare appello in ultima istanza a in fine egoi¬  stico, nè più nè meno di quel che farebbero nello stessè caso i con¬  sigli della ragione. Con questo bel risultato : che gli uomini rinun¬  cino ad essere ragionevoli per.... continuare ad essere egoisti.      tendenza caratteristica dell’attività razionale : l’uni¬  versalità. Ora nel campo dell’attività pratica il  fine del quale soltanto si può concepire universale  il raggiungimento, e la norma, della quale soltanto  si può concepire universale V osservanza, sono un  fine e una norma conformi all’esigenza della giu¬  stizia (1).   Ma, tornando al nostro argomento, anche il ri¬  conoscere che il fino e le norme determinate in  conformità al postulato hanno, e possono avere essi  solamente, la nota razionale dell’universalità, non  ne toglie il carattere necessariamente e insupera¬  bilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa  dipendere da questa loro universalità, si prende  per concesso che l’universalità sia assunta come  criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra-   (1) iSon trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione  che non solo l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una  regola di condotta, che si possa concepire nei rapporti tra gli uo¬  mini universalmente e costantemente osservata, senza contraddizione,  o senza che sia necessario supporla subordinata alla sua volta a  una norma di giustizia. Perchè sia possibile l’abnegazione e la ri¬  nuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli uni si sa¬  crifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio ; cioè  che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o qual¬  che altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba  poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a un  tacito scambio di servigi reciproci), bisogna che la condotta altrui¬  stica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altrui¬  stica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia  governato da una norma di giustizia.        — 129 —    zionalc e teoretica dell' universalità la coscienza  faccia una stima pratica, attribuendole un valore  e un’ autorità superiore ad ogni altra esigenza.   Concludendo: la scienza normativa etica, alla  quale mi riferisco, è la scienza della condotta ri¬  chiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se  si riconosce come caratteristica del valor morale  di un fine e delle norme che ne dipendono una  esigenza diversa, o se si pone come congruo ad  essa un fine incongruo, o si assumono come con¬  dizioni conformi all’esigenza di una universale giu¬  stizia delle condizioni clic negano o limitano questa  universalità, le norme riconosciute e accettate come  morali saranno diverse.   3. — Ma non concluderebbe nulla contro la tesi  che difendo l’opporre che le norme o alcune delle  norme in effetto tenute o seguite come morali sono  diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate in  conformità al postulato assunto. Perchè qui non si  tratta già di esporre (piali sono le norme accettate,  o di farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bi¬  sogna ammettere per accettarle; ma di determinare  quali sarebbero le norme della condotta morale nel-  l’ ipotesi che si accetti il postulato.   Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa  ne segua.   Ma per negare valore scientifico a una tale co¬  struzione ipotetica bisogna negare la dipendenza    — 180 —    condizionale del fine assunto da una certa condotta  collettiva e individuale; e per negarle valore mo¬  rale (1), bisogna negare il valore morale dell’esi¬  genza, o ammettere che essa è o dove essere subor¬  dinata a un’esigenza diversa. Finché non si giu¬  stifica nè l’una nè l’altra negazione, il dichiarare  « oltrepassato » il problema vale poco; e il sorri¬  dere vale anche meno.   Perchè esponendo questo concetto io non mi  sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possi¬  bili; sopratutto quelle che fanno capo alla afferma¬  zione comune della impossibilità di una determi¬  nazione di norme morali che non si fondi sopra  una dottrina metafisica. Questa questione anzi ho  esaminato di proposito, e le conclusioni di quell’ana¬  lisi non furono confutate. Avrei dunque, « in tesi  di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo  della prova.   Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi  dissente dalle opinioni stabilite che ha torto; e  deve rassegnarsi a battere e ribattere per tutti i  versi lo stesso chiodo.    ì. — E prima di tutto occorre qualche parola  su quella che si potrebbe chiamare la tesi scettica,   (,1) Che essa possa e debba aver valore anche dal punto di vista  del Diritto è cosa evidente ; ma come c quanto non sono questioni  da risolvere cosi di sfuggita.       — 181 —    della impossibilità di una qualsiasi determinazione  di norme morali.   — Il fatto etico è contingente, multiforme e va¬  riabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni ten¬  tativo di determinazione razionale. Oltredichè esso  dipende dal sentimento e dalla volontà e non dalla  conoscenza, e non si può ricavare da un processo  di deduzione logica. —   Questa tesi ha il grave torto di confondere la  morale colla mora lità ; confusione sulla quale dovrò  tornare anche più innanzi.   « Il fatto etico ò variabile ». Certamente. E il  fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò  esso pure variabile? E forse perciò non si stabili¬  scono nonne giuridiche determinate e precise, e  non si considera questa determinazione come un’e¬  sigenza della vita sociale, e non si misura dalla  sua precisione e coerenza il progresso della vita e  della coscienza giuridica ? E non è un luogo comune  la lode fatta a Roma di maestra del diritto ? Non  si venga a dire che il f atto "iuridico riguarda solo  la non, come   la inorale, anche e sopra tutto la interna ; qui si fa  questione, anche per la morale, appunto, della con¬  d otta ester na, nella quale la moralità interiore deve  pur tradursi ; ed è assurdo dire, per esempio, che  non ha senso il precetto « non frodare », e vano  cercar di determinare in che la frode consista, per-    La.    •H.              i tìtou -      — 132 —    w/# i-yW    t     Aj.oiU?    dolori*    ché la frode è, forse più che qualunque altra cosa  al mondo, contingente multiforme e variabile.   È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo  piuttosto che in un altro, dipende dal sentimen to  e dall a vo lontà, e non dalla co noscenza del pre-    1 CJA k> W <Mj aI*   VtU'f’N®    . j r ‘ r , * cetto ; e che non si può dedurre da nessuna com¬   binazione di premesse l’azione. Nessun congegno  di premesse, nessun processo logico, nessun sistema  di conoscenze pone in essere la benché minima cosa ;  .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre fin   g iudiz io, non un ’azion e ; nella morale come in qua¬  lunque altro campo; l’azione., potrà.. o non potrà  seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c.  volitiv e sono tali o tali altre; potrà anche seguire  senza che ci sia il giudizio. Verissimo e giustissimo.  Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui è  questione non di fare, ma di sapere quel che con¬  venga fare, chi si proponga e ammesso che si pro¬  ponga un certo fine. Ora lo stabil ire queste rela¬  zioni tra un certo fine_e certe operazioni necessarie  a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della  volontà ; e io spero che nessun voluntarista vorrà  sostenere che è indifferen te a chi vuol andare, po¬  niamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada  per arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza  nè di un certo effetto, nè dei mezzi, ciò che fa vo¬  lere l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla al-  Pufficio specifico della conoscenza; anzi, e appunto                      — 183 —    perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema  di norme di essere per sè inefficace a muovere Fa¬  zione non ha senso ; come non avrebbe senso pre¬  tendere che una formula chimica produca essa il  composto del quale indica la combinazione. L’ uf¬  ficio delle norme morali, come di ogni altro sistema  di norme qualesivoglia, non può essere che un uf¬  ficio informativo, non formativo ; di guida, non di  stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli  che adducono, per mostr are l a inanità di una co¬  s truzione norma tiva, l a dipendenza dell’ azione dal  se ntimento e dalla volontà , non si accorgono di  confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come'  s’è detto, la ni qrfllo_nnIlp mo ralità, la determina-  zio ne_delle norm e colla c onformità alle norm e.   Senonchò si può soggiungere che la determina¬  zione in questo campo non serve, perchè la cono¬  scenza delle norme si sprigiona volta per volta  come da sè fuor dalle circostanze, per un intuito  naturale che è più fine e delicato di qualunque de¬  duzione scientifica. E così viene in campo, accanto  alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità : —  l a cos cienza morale rende inutile la dottrina mo¬  rale. —   - '* -** '   Lasciamo per ora la difficoltà capitale che nasce   dal fatto stesso da cui è nata la riflessione critica  della morale: il fatto della diversità di contenuto  nelle coscienze morali diverse; e poniamo — senza    *                — 134 —    concedere — che 1*i ntuit o basti per tutti e sempre  a segnare caso per caso la via. Non ne seguirebbe  ancora l’inutilità di una ricerca che si proponesse  la determi nazione sistema tica del fine a cui .intui ¬  ti vamente tend e e delle norme che intuitivamente  segue la co scienza mora le. Come la guida istintiva  dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a rendere  inutile l’igiene; o come non basta a condannare  la conoscenza fisiologica, per esempio, della dige¬  stione, il fatto che digeriscono bene, anzi di solito  digeriscono meglio, quelli che non sanno di quelli  che sanno come la digestione avvenga.    E veniamo alle obbiezioni che toccano diretta-  mente la nostra tesi.   5. — In primo luogo si può osservare che la  p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso che  dichiara di voler tenersi estranea a qualunque af¬  fermazione di carattere metafisico, presuppone una  certa soluzione di un problema essenzialmente me¬  tafisico. Perchè, assumendo come fine morale un  ordine di effetti umanamente possibile, pone come  risoluto il problema se il fine supremo possa o  debba essere umano o sovrumano, relativo o asso¬  luto; risolve cioè, sia pure negativamente, un pro¬  blema metafisico.         — 135 —    Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe risoluto  il problema, se assumendo un fine (diciamo per  brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo  assolutamente, come definitivamente supremo; cioè  se gli si assegnasse un valore assoluto ; e si ne¬  gasse la possibilità di una ulteriore valutazione del  fine stesso ; di una sopravalutazwWe^Tciafisica, per  la quale sia creduto mezzo alla sua volta, o condi¬  zione o preparazione di un fine sopraumano. Ma  questa possibilità 1* ipotesi non la esclude.   Si dirà che in tal caso il fine umano non è più  il vero fine; e che perciò le norme debbono essere  ricavate da quello a cui si dà davvero valore di  fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente,  supremo; e che questa necessità riporta il problema  della determinazione delle norme in piena metaf쬠 sica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non  capire come da un fine assoluto si possano ricavare  delle norme per la condotta in condizioni finite, da  un al di là le norme per un al di qua; e dubito  che quelli i quali dichiarassero di capire, equivo¬  chino sui termini. Perchè non si potrà mai dimo¬  strare un legame di condizionalità tra un certo  modo di operare o un fine sopra natura le ; essendo  il proprio e caratteristico del sopranaturale c del  sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale  e umana. Se si considera il fine sovraumano come  un effetto che può essere condizionato da mezzi pu-      — 136 —    ramente umani esso cessa di essere sovraumano.  Ma se invece rimane tale, cioè trascende la effi¬  cienza umana, si potrà bensì credere ed affermare  che a raggiungerlo si richiede una certa condotta,  ma non si può assegnare una relazione di condi¬  zione tra la condotta ed il fine, cioè non si può  ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel  fatto, evidente ad ogni osservatore non del tutto  superficiale, che, anche nei sistemi di morale teo¬  logica o metafisica, quando si tratta di determinare  le norme che debbono regolare la condotta nelle  relazioni della vita comune, famigliare e sociale,  non è più il fine assoluto quello da cui si deducono  le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia re¬  moto; un certo ordine e un certo tipo di vita in¬  dividuale e sociale.   Le norme dedotte da questo fine subordinato si  presentano bensì come derivate aneli’esse dal fine  assoluto, perchè si assume quello come posto o vo¬  luto o necessitato da questo ; ma in che modo dal  fine assoluto si ricavi il fine relativo, come e per¬  chè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine  sopraumano, sia necessario tendere a questo fine  umano, non si dimostra nè si può dimostrare. E  quando par che si dimostri, gli è che si è assunto  tacitamente e come incorporato in modo surrettizio  nel fine assoluto il fine relativo, che poi se ne  deriva ; cioè in ultima analisi non si è fatto altro       che porre o assegnare un valore sopraumano al  fine umano; ossia si è fatta (fucila che ho chia¬  mata una sopravaluta;ione metafisica di quel certo  fine umano dal quale in realtà sono ricavate le  norme.   Xon è dunque vero che assumendo un fine  umano si risolva, o si postuli una certa risoluzione  di un problema metafisico. Non si la che ubbidire  a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva  positivamente, sia che si risolva negativamente il  problema intorno alla natura del fine assolutamente  ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale  non si può sfuggire: che un sistema di norme di  condotta individuale e sociale non si può stabilire  se non in relazione a un certo fine, esplicitamente  o implicitamente assunto, che dipenda condizional¬  mente dalla condotta, cioè che sia umanamente  possibile.   0. — Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza  propriamente morale, che il fine abbia un valore  assoluto e non soltanto relativo? —   Non discuto se sia o non sia ; perchè si tratta  in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e per  la constatazione di un fatto la discussione non ap¬  proda. Poniamo che sia. Forsechè le dottrine che  pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^ ~~di  me glio che postulare la possibilità di quel fi ne e  postularne il valore ? Cioè supporre che quella pos-        — 138 —       4t>    siljilità e questo valore siano dati nelle intuizioni  o nelle credenze, dalle quali li prendono, per dir  cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento ?  E se è cosi, e non può essere altrimenti, se la cre¬  denza nel fine e il riconoscimento del suo valore  assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei  fini relativi della vita finita, non possono essere  dati o fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti  o affermati, è facile vedere che la dottrina vale  per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già,  e che accetta Vaffermazione perchè la trova corri¬  spondere a ciò che è già dato in lei stessa ; ma non  vale essa, la dottrina, a far accettare queste sue  affermazioni a una coscienza che intuisca e senta  c creda diversamente. La costruzione dottrinale  metafisica non riesce dunque clic a fare appello a  un a intuizione o a una v alufazio ne di cui ammette  o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove  manca ; e quindi, di fronte a una coscienza diversa  da quella che essa suppone, si trova nella stessa  condizione della costruzione non metafisica. Cioè  vien meno alla ragione per la quale il valore as¬  soluto del fine è richiesto.   Questa ragione, se il valore assoluto del fine  non è già assunto come una constatazione di fatto,  consiste nella pretesa illusoria che la dottrina possa  e debba assicurare per questo modo alle norme  una validità universalmente riconosciuta ; e nasce         Mm&i   ^5_ 13<1   •da una preoccupazione pratica analoga a quella  dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’Etica  dia alle norme autorità imperativa.   7. — Ed eccoci all’argomento capitale: 1’ esi-  • gonza del carattere imperativo della norma. — Ho  già ripetutamente segnalato l’equivoco sul quale  si fonda la pretesa esigenza dell’obligatorietà della  norma morale. È in fondo il medesimo già notato  più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia  •della conoscenza a determinare l’azione ; l’equivoco  di con fondere la morale colla moralità, la norma  col la conformità alla norma : e quindi di preten¬  dere da una dottrina quello che nessuna dottrina  nè metafisica nè non metafisica può dare : la ga¬  ranzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia esecutiva. Il  linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’er¬  rore; e l’uso di definire 1’ Etica la scie nza o la  dottrina de i -doveri, contribuisce a ribadire il pre¬  concetto. nato dalla preoccupazione pratica, che  compito di una dottrina morale possa o debba es¬  sere quello di costruire o fondare delle norme ób-  hliyatorie. Mentre l’etica, dico qualunque dottrina  etica,__non può fare altro che dedurre, o indurre,  o comporre a sistema, delle norme o ilei precetti,  i quali hanno valore di doveri, se e in quanto la  coscienza concepisce, o meglio sente e vuole , come  dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la prose¬  cuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei precetti    Yi (yivuni   l&u vuxnrib I   nei         — 140 —    sono derivati. E se anche tutte le coscienze uni¬  versalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero  nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di una  certa norma, non per questo si potrebbe dire che  l’imperativo è un carattere della norma ; l'impe¬  rativo sarebbe sempre anche in questo caso un ca¬  rattere del motivo che spinge all’ osservanza della  norma ; un dato della coscienza che la abbraccia,  che la riveste e la investe di questo motivo, clic  la sente così.   Quale sia la preoccupazione pratica da cui nasce  e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il processo  per cui si viene ad assegnare alla costruzione nor¬  mativa un compito al quale essa non può soddisfare  in nessun modo, ho pure già cercato di mostrare  altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi  par privo di interesse mettere in chiaro con 1’ a-  nalisi come i modi, nei quali può essere interpre¬  tato e tentato il proposito di « fondare una norma  obbligatoria » si riducano a postulare l’esistenza  dell’ obbligo, quando non riescono a una forma più  o meno larvata di imperativo ipotetico. E come  poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo  categorico per dato o postulato, non se ne possa  ricavare la determinazione delle norme; ma si ri¬  chieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa di  un fine, o di un criterio di valutazione e deriva¬  zione, estraneo e indipendente da quello.    — 141    8. — Il compito di assegnare una norma che  abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in ef¬  fetto, inteso in più significati diversi ; i quali si  possono ridurre ai quattro tipi seguenti :   1. ° Dimostrare che la norma proposta corri¬  sponde a un sentimento, a un motivo, a una di¬  sposizione che si manifesta nella coscienza come  •obbligo. — Allora il senso reale ò, non già che la  do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e  norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o  formuli in norme i modi di condotta ai quali la  coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità  del precetto è constatata e assunta, non posta, nè  fondata dalla dottrina ; e la norma obbliga solo se  •ed in quanto i suoi comandi ripetono i comandi  della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco,  e vien meno se tace la voce della quale assume il  tono.   2. ° Presentare le norme come ordini di un  Potere (qualunque ne sia la natura) irresistibile,  che costringe volenti e nolenti a seguirlo. — In¬  tesa così l’autorità non viene nò dalla natura delle  norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate,  ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per dir  così, la presentazione ; anzi il suo ufficio si riduce      — 142 —    in realtà a quello di interprete ed araldo di quel  Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e  che suppone sia riconosciuto dalle coscienze alle  quali parla in nome suo.   Ad ogni modo l’espressione analizzata, se si  usa ad indicar questo ullìcio, è del tutto abus iva;  l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò  di determinare quale sia la legge imposta da quel  potere indis cutibile e irresist ibile, di cui si am¬  mette o si riconosce l’esistenza.   3." Dimostrare che ciò che la norma prescrive  dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra  cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di  essere come ò, 1’ uomo fosse diverso ; seguisse la  sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o realiz¬  zasse un certo tipo ideale.   Ma è chiaro che in questo senso non si là che  o determinare il fine in l'unzione di un certo tipo  ideale, o il tipo in funzione del line ; ossia, in al¬  tre parole, determinare la relazione che sussiste  tra una certa natura e una certa condotta. La qual  relazione per necessaria che sia, non si vede come  [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si  pensa di fondare in tal modo 1’ obbligatorietà, ma¬  nifestamente si suppone ebe il conformarsi a un  certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già  sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fon¬  damento di questo, nel primo dei casi enumerati.         — 143 —    Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo  davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo  fine o seguire una certa condotta, si avrebbe non  piii un imperativo categorico, ma un imperativo  ipotetico.   4.° Dimostrare che ciò che la norma prescrive,  dece essere voluto universalmenta e incondiziona¬  tamente. — Questo ò manifestamente il significato  che pare più proprio, e nel quale intesero e inten¬  dono l’esigenza i moralisti i quali credono di po¬  ter ricavare l’obbligo dalla natura del fine che  assumono come ideale etico. Ma l’intendere la tesi  così, implica che si ammetta la possibilità di una  di queste due vie : a) o derivare 1’ obbligatorietà  dal valore riconosciuto al fine, assumendo questo  riconoscimento come dato o postulato ; h) o deri¬  vare dalla natura del fine l’ obbligo di riconoscere  al fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di  queste due tesi deve essere considerata distinta-  mente e un po’ più a lungo.   9. — a) — Posto pure che al fine assunto fosse  riconosciuto in realtà universalmente valore di  sommo bene, non ne seguirebbe in nessun modo  che il sentirlo e riconoscerlo come sommo bene  porti con se il sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo.  Questo riconoscimento non genera la coscienza del-  Pobbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa  che la coscienza approvi l’autori tà ob bligante; cioè        • — 144 —    giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora una tale  giustificazione riesce a questa alternativa: o serve  a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente tro¬  var buona e seguire la norma anche se non si sen¬  tisse Vobbligo, perchè la norma è ordinata a quel  certo fine che è riconosciuto come sommamente  desiderabile. E in questa forma la pretesa fonda¬  zione dell’ imperativo categorico si riduce alla for¬  mulazione di un imperativo ipotetico, che si sosti¬  tuisce o si aggiunge al categorico. 0 riesce a un’ar¬  gomentazione di questo genere : Siccome è bene  sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e  poiché si ammette o si suppone che la coscienza  d’un obbligo assoluto sia necessaria a garantire  questa osservanza, l’imperativo categorico appare  la condizione sine qua non, acquista valore di mgzzo  indispensabile al proseguimento del fine.   Nel primo modo si viene a dire che l’impera¬  tivo categorico è giustificato perchè è bene ciò che  esso comanda; nel secondo che è giustificato per¬  chè è bene che esso comandi in quel tono. Ma nè  l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono  a fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè   10 giustificano gli tolgono il carattere di categorico.   11 che se nel primo caso è più evidente, non è meno  vero nel secondo. Infatti, posto pure che la cate¬  goricità dell’ imperativo sia condizione necessaria  all’osservanza della norma, non ne viene perciò    — 145 -    che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che sa¬  rebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: os¬  sia la pretesa derivazione che se ne fa, mostra la  necessità di una condizione, non la pone in atto  se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la sod¬  disfa. In secondo luogo la dimostrazione stessa di  questa esigenza è contradditoria, perchè a convin¬  cere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna  le ragioni ; il che equivale ad ammettere che ve¬  nendo meno queste ragioni verrebbe meno quella  necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come  categorico, finché è utile che valga; come chi di¬  cesse un’ autorità che si fa valere incondizionata¬  mente .. .. sotto certe condizioni (1).   Adunque, se la c Qscienza d’un obbligo asso luto  manca, la derivazione che se ne pretenda fare da  un fine, qualunque sia il valore che gli si attri¬  buisce, non può farla sorgere; se c’è, la giustifi¬  cazione riesce ad assegnare le condizioni della sua  validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo  incondizionato.   (1) Il che può però aver un senso, se si guarda bene ; ma in un  caso soltanto : nel caso che la coscienza la quale si rende ragione  delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’ im¬  perativo categorico, e la coscienza nella quale 1’ imperativo vale  come categorico, siano due coscienze diverse ; ossia nel caso che  una coscienza riconosca la necessità che 1’ imperativo valga incon¬  dizionatamente per un’altra coscienza.   Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere a  prima vista.        — 14U —    b) — Oppure finalmente si intende che ap¬  prendere ciò clic è posto come line equivalga per  ciascuno a dover riconoscerlo come tale; che non  si possa conoscere la natura del line senza sentirsi  obbligati a riconoscergli valore di bene supremo ;  cioè che la conoscenza generi la coscienza d’un  obbligo. — Questa che è in sostanza la tesi di¬  fesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro  Rosmini, è veramente l’interpretazione tipica, più  audace e radicale, del pensiero di derivare l’obbligo  dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento og¬  gettivo nella natura stessa di quello.   Ma — senza dilungarmi su questo tema in una  critica troppo nota — è inevitabile questa alter¬  nativa : o il dover riconoscere esprime una neces¬  sità puramente logica, e non può dare quello a  cui è invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di  riconoscere il valore; o vuol esprimere una neces¬  sità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè  pretende ricavare da una determinazione obbiet¬  tiva la constatazione di uno stato subiettivo, la  quale presuppone appunto resistenza di quella co¬  scienza dell’obbligo, che crede di far nascere e  senza della quale la constatazione non è possibile.  E per tal modo si ricade ancora una volta nel primo  tipo di interpretazione (V. p. 141); quando non si  voglia ammettere questa tesi : che è obbligo rico¬  noscere quel fine come sommo bene e volerlo, così        — 147 —    se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè  sia che la coscienza senta sia che non senta di  dover attribuirgli quel valore. Ossia non si am¬  metta la tesi dell’obbligo di credere anche senza  o contro l’attestazione della coscienza. Il che ren¬  derebbe inevitabile l’appello a una autorità esterna,  alla quale la coscienza si deve inchinare; e farebbe  della morale del bene oggettivo una morale dom-  matica, che rientra nel secondo tipo.   10. — Adunque l’analisi dei modi nei quali  può essere interpretato e tentato il compito di fon¬  dare una norma obbligatoria conduce a questa con¬  clusione: o si intende che « fondare una norma  obbligatoria » voglia dire derivare l’autorità della  norma dal valore del fine; e allora, come s’è visto,  c come avea notato chiarissimamente il Kant, non  si può per questa via riuscire che a un imperativo  ipotetico; o si intende che voglia dire assumere  come dato l’obbligo e determinare le norme in  conformità a questo dato.   Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è  soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta ,  non posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua  esistenza e validità sussiste all’ infuori della co¬  struzione dottrinale, che la postula, ma non la fa  essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come  esistente non la pone in essere, nè ne legittima  per sè l’assunzione.       — 148 —    IL — Per tal modo, se il difetto capitale di  una scienza normativa etica conforme al concetto  esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di  non^ poter presentare le norme col carattere di im¬  perativo categorico, questo difetto è comune, e non  potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz ione  dottrinale. die non si proponga di derivare le norme  da un imperativo categorico assunto come dato.   Ed allora resta da vedere se. prendendo l’impe¬  rativo categorico per dato o postulato, si possa ri¬  cavare da esso la determinazione delle norme; o  se non si debba ancora ricorrere all’ assunzione  espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio di  valutazione e di derivazione, estraneo e indipen¬  dente da quello.   CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in suffi¬  ci ente alla d eterni i nazione .-dei le jparmc morali è  manifesto, qualora si intenda con esso assumere  null a più che la forma destinata a rivestire un con¬  tenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è  pur manifesto che, appunto perciò, il dato dell’obbli-  gazione rimane estraneo alla costruzione dottrinale.   Ma non è altrettanto evidente, quando si ammetta  che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un  tempo la forma dell’ imperativo e la m ater ia del  precetto ; ossia che da questo dato si possa ricavare,   hjUifot vtA »pUóh UàwtiH             o ad esso debba conformarsi e subordinarsi sia la  determinazione del fine sia il contenuto delle  norme.   Senonchè, quando si prenda come dato non la  pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è  inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente  ha dimostrato, a fondare la morale .sull’autorità,  superiore ad ogni discussione, di una certa rivela¬  zione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica  1’ ufficio di espositrice e interprete di questa.   Rilevando questa conseguenza io non intendo  affatto di darle il valore di una dimostrazione per  assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò tut-  t’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in con¬  fronto dell’ affermazione generica e ambigua che  « la morale deve dare norme obbligatorie » il  pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma appunto  perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui  si trova di fronte.   12. — Tanto se si intende che la ri velazio ne  da interpretare sia in|£g^ quanto se si intende  che sia esterna, si presenta la medesima difficoltà;  quella difficoltà, antica e notissima, dalla quale          t ciu* oìaI   'R\)l£lp2:\0h/&   l'ileo ila.   £|Avh<*    venne il primo stimolo alla riflessione e alla cri¬  tica nel campo della morale: l a pluralità delle ri-  velazioni.   Poiché i responsi della cosc ienza morale sono  s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono di-             vèrse e in parte op poste le rivelazioni religio se,  resta, o che si riconosca a tutte la medesima auto¬  rità, cosi co me i l tono imperativo è. il medesimo;    o che si scelga.     f Quan to alle. religion i ò .troppo chiaro che nessun  criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere  a dimostrar l’autorità di una piuttosto che del-  1’altra, poiché t utte si danno come assolutament e  certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle quali  una rilevazione attesta la sua autorità sono ado¬  perate da ciascun’ altra per asserire la propria, e  da tutte risuona sui precetti morali diversi il me¬  desimo tono di comando.   Si cercherà il criterio della scelta nella natur a  del le cose co mandate o proibite, come avviene quando  si parla di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà  de i prec etti morali di una religione rispetto a quelli  di un’altra? Allora è i ^conte nuto dei precetti mo¬  rali che viene assunto come criterio dell’autorità  della rivelazione.   E il valore di questo contenuto, che è così usato  a provare la superiorità di una rivelazione sulle   altre, si può dunque riconoscere indipendentemente  dal suo presentarsi sotto la forma di un comando  rivelato, dal momento che è esso invocato a pro¬  vare l’autorità del comando. Ma allora I’ulhcio  dell’Etica lungi dall’essere quello di interprete e                  — 151 —    araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^   rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione  che tanto il fine quanto le norme morali si sup¬  pone che possano e debbano essere conosciute c de¬  terminate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione.    cioè all’infuori da ogni appello all’autorità.   Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione    esterna, vale per quella di una rivelazione interna.  Tra due coscienze, delle quali rispetto alla mede¬  sima azione una ponga come obbligo il fare e l’altra  il non fare, il criterio di valutazione comparativa  non può esser dato dal carattere imperativo, che  è comune ad ambedue, ma deve essere un altro.   Ed anche allora il criterio che serve alla valu¬  tazione comparativa sarebbe esso in realtà quello  da cui dipende cosi la determinazione come la giu¬  stificazione delle norme.    l i. — Non resterebbe che riconoscere ja mede¬  sim a autorità a tutte le rivelazion i. Il che importa  l’una e l’altra di queste conseguenze: o la asso¬  luta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo   -“ --   e tempo; o la limitazione a determinate condizio ni  storiche dell’autorità e del valore di ciascuna.   Se non si vuol accettare la prima (1), si pre¬  senta la domanda: Questa limitazione ha o non ha         Uva*»    (1) Mi permetto di non fermarmi ad esaminare la tesi della as¬  soluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel campo  della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma del              — 152 —    la sua ragion di essere nelle condizioni storiche,  dalla cui presenza è circoscritta la sua validità?   Se la limitazione non dipende da queste condi¬  zioni, ma essa pure non ha altra ragione di es¬  sere all’ infuori dell’ autorità o del carattere impe¬  rativo col quale hic et nunc si presenta, allora si  ammette che, astrazion l'atta da questo carattere  di obbligatorietà col quale una certa norma si pre¬  senta in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe  nessuna ragione di preferire nelle stesse circostanze  una norma ad un’ altra, cioè si giunge per un al¬  tra via all’indifferenza del contenuto (1).   Se poi questa limitazione ha la sua ragione di  essere nelle condizioni storiche stesse, entro le  quali è valida, cioè in una parola se__ò relativa a  queste condizioni, allora si ammette che sono queste  condizioni il criterio della limitazione ed è la corri¬  spondenza a queste condizioni storiche il criterio  della validità. Cioè si ammette che vi è qualche cosa  che dà alla norma il suo valore all’ infuori del-  1’ obbligazione e al disopra dell’autorità obbligante,    medico, e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono 1’ una  l’altra. E forse è ancor meno manifestamente falso questo che  quello.   Non sarà però inopportuno avvertire che ogni questione intorno  al merito dell’ agente rimane qui al tutto in disparte.   (lT E lascio^ le difficoltà che nascono dalla necessità di ammet¬  tere un’ altra rivelazione alla cui autorità si possa ricondurre la  limitazione in discorso.       — 153 —    dal momento che esso serve anche a stabilire i  limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta come  valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’ ob¬  bligazione non possa essere un dato sufficiente alla  determinazione e valutazione delle norme, e come  per essa non solo non possa essere negata, ma  venga confermata la legittimità di una scienza nor¬  mativa morale.   15. — Senoncliè a questo punto mi sento op¬  porre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque  non ^esiste la Morale Kantiana ? Non ricava egli  dalla volontà buona, dal dovere, dall’ osservanza  della l egge perda legge, la norma morale suprema,  nella notissima formula, nella quale, indipendente¬  mente da ogni particolare rivelazione storica, c  sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie  tutto un sistema di norme razionali ?   E s e la sua morale è f m^gle. cessa perciò di  avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere,  e, a fortiori, di essere possibile?   — Certamente a nessuno può venire in mente di  negare la possibilità di un sistema che ò esistito  ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di ne¬  garne il valore.   Così la grande costruzione razionale dei doveri  dell’ uomo del Kant, come la grande costruzione  razionale dei diritti dell’ 'uomo che piglia nome  dalla Rivoluzione Francese sono ben lungi dal me¬    lo         — 154 —    VFDFfiF sr   & )\<é   4   i'MSSfat    ri tare il facije compatimento col quale parlano di  astrazioni e di formalismo certi fonografi della so-  ciologia.   Ma qui al proposito nostro importerebbe vedere  la costruzione razionale del Kant sia fondata sul  d ato dell’ obbligazione, co me pare , o non ni ut trist o  sulbesigenza dell' universalitaTche nKanTcrede    bensì trovare implicita nel concetto del dovere, ma      v* /v T< ì»-^uAtv\  7 u-iC'    che è invec e caratteristica dell’ ide a_di  ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap-   p robazione interiore dell’obbligo, che è propria della  ^ -y j coscienza del dovere (1).   Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve al Kant  per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’uni¬  versalità, non è un elemento contenuto nel dato  stesso e che possa esserne ricavato analiticamente,  ma (L una sintesi nella qual e insieme coll’obbliga-  zioneè già assunta l’esigenza dell’universalità che  la giustifica.   Ed è questa e sigenza dell’ universalit à, non il  dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il cri¬  terio supremo della morale.   Ma a ben chiarire questo punto — come, anche  nella morale kantiana, l’imperatività non sia un  dato sufficiente alla determinazione delle norme, e  come in realtà venga assunto non solo un criterio   (1) Di questo argomento ho trattato di proposito altrove. Cfr.   Prolegomeni ecc. pp. 19-88.   ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL <.TKv tff» }rlv \ltj ’V- r ' P i* " I"," I   ]( Lo'h YcMufr Vvvt7 VX 0   u dU 'um^ìvc^ÌO p   c -‘ — ‘Oi "                      — 155 —    non ricavato da quella, ma implicitamente anche  un certo contenuto — occorrerebbe un’analisi assai  meno sommaria; poiché non è questo un argomento  da sbrigarsi così alla lesta.   Basti per ora non aver omesso 1’ accenno.               IL FONDAMENTO INTRINSECO DEL DIRITTO   secondo I il Vanni          Il Fondamento Intrinseco del Diritto   SECONDO IL VANNI (*)   -- Nota Critica -    Il volume dal titolo « Lezioni di Filosofìa del  Diritto », la cui pubblicazione fu curata con rive¬  rente pietà e con devota ammirazione dalla Vedova  e da alcuni tra i più valenti Discepoli poco dopo  la morte immatura dell’Autore, è forse tra gli  scritti del Vanni quello in cui la sua dottrina ap¬  pare più compiutamente ordinata a sistema, e nel  quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte  le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e ve¬  ramente si può considerare come il testamento  scientifico del celebrato Maestro. Certo, qualunque  giudizio porti sul fondamento e sulla validità in¬  trinseca del sistema, nessuno può disconoscere la  larghezza e la profondità della coltura filosofica e  giuridica, e la chiarezza della trattazione; e sopra¬  tutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica che  ò propria di chi medita e scrive per amore disin¬  teressato del vero.    (1) Icilio Vanni. — Lezioni di Filosofia del Diritto — Bologna,  Zanichelli, 1904.            La l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il  ^ tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca  sintetica o lcnomenologia giuridica ; e la ricerca  deontologica.   Nella prima egli comprende non soltanto la de¬  terminazione dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti  della filosofia del diritto colle scienze affini, ma  anche una indagine preliminare di critica gnoseo¬  logica. che il Groppa li accordandosi col Fraga pane  ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al  compito di questa disciplina. Giustamente, finché  si intende che la filosofia del diritto debba istituire  una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se  si intende anche di negare la opportunità di pre¬  mettere, come in fondo fa il Vanni in queste Le¬  zioni, quali sono i presupposti gnoseologici accettati.  Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una  o d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente.  Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere  e si applicano di solito nelle ricerche speciali taci¬  tamente. Ma compito del filosofo è appunto, come  osservava il Rosmini, di c omprendere e fo rmulare  elii aramente quello che gli altri sottintendon o.   Del resto il fatto che il Vanni voglia prender  le mosse da una v alutazione critica sulla natura e   al sapere giuridico, prova quanta larghezza di pen¬  siero, e direi, di coscienza filosofica egli portasse            nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo sentisse  l’obbligo di rendersi conto anche dei più lontani  e generali presupposti della sua dottrina.   La seconda ricerca si sdoppia in due parti :  statica, che determina la nozione logica del diritto,  inducendola dell’analisi del diritto positivo dei po¬  poli più progrediti, e similmente dello Stato; dina¬  mica (genetica o storica) che studia la genesi e la  formazione storica del Diritto e dello Stato; e si  potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del  diritto. Alle quali due ricerche corrispondono le  parti II® e III® del volume.   Finalmente la terza ricerca di carattere etico o  valutativo ha per oggetto il problema della Giu¬  stizia, ossia del fondamento intrinseco e delle esi¬  genze razionali del diritto. Questa, che costituisce  la parte IV® ed ultima, ò senza dubbio la più im¬  portante, perchè riguarda quello che è il problema  centrale della filosofìa del diritto; e nella cui so¬  luzione principalmente Si manifesta la nota carat¬  teristica delle diverse dottrine. E la dottrina del  Vanni, benché l’indirizzo e. direi, la moda oggi  prevalente la consideri oltrepassata, merita di es¬  sere ricordata e discussa; perchè mentre intende il  compito della filosofia del diritto non soltanto come  storico-genetico, ma anche come normativo, (nel  che si accorda coll’ idealismo) si propone di assol¬  vere questo compito tenendosi nei limiti d’una co-     16 2 —    struzionc puramente scientifica, ed escludendo ogni  postulato di natura metafisica; nel che consente  col proposito, se non col metodo, dello storicismo  c del positivismo.   Ora il difetto principale della sua dottrina, non  nasce, come può parere a prima vista, dalla pre¬  tesa e comunemente ammessa inconciliabilità tra  il compito normativo e la validità scientifica ; chè  anzi questo intendimento, chiaramente concepito  e tenacemente proseguito, di una costruzione nor¬  mativa scientifica del diritto, è a mio giudizio, un  alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato,  direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni  sia possibile una costruzione etico-giuridica che sod¬  disfaccia a un tempo ad ambedue le esigenze.    La jiottrina del Vann i, per quel che riguarda  il fondamento intrinseco del diritto e il metodo, si  può considerare come una forma di quella che lo  Spencer ha propugnato e difeso col nome di utili¬  tarismo razionale: e infatti, pur rilevando giusta¬  mente l’importanza e il valore del pensiero del  Romagnosi, egli la riconosce come il precedente  più immediato e più notevole della sua. Ma la trova  erronea per tre rispetti ; perchè ammette un diritto  naturale; perchè pretende di costruire una norma            etico-giuridica assoluta ; e perchè Analmente lo  Spencer intende le condizioni di esistenza da cui  le norme devono essere dedotte, in un senso pura¬  mente biologico. Principalmente su questo ultimo  punto egli accentua il suo dissenso, prendendo come  base, non le condizioni dell’esistenza individuale  e la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma  le condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento  dell’ etica sta dunque nella necessità per chi vive  in società (e la socialità è la esigenza suprema del-  1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni  ed alle esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica  dimostra intrinsecamente necessarie quelle forme e  quei modi di condotta che sono richiesti dalle con¬  dizioni della vita in comune. Fra queste condizioni  ve ne sono alcune che hanno un’ importanza fon¬  damentale e primaria, in quanto rappresentano  l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione;  e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia.  Ma poiché queste potrebbero non essere spontanea¬  mente osservate, è necessario che le azioni relative  ad esse non restino abbandonate alla buona volontà  e alla spontaneità e che « con una norma di con¬  dotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventual¬  mente coattiva s’induca all’osservanza anche il  volere recalcitrante. Quindi in altri termini la ne¬  cessità del diritto, il quale ci apparisce allora come  una norma che ha da garantire le condizioni fon-       — 164 —   (lamentali per la coesistenza e la cooperazione  umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il Di¬  ritto viene ad avere un fondamento intrinseco, e  viene ad averlo anche lo Stato, il quale è indispen¬  sabile alla funzionalità (tei Diritto » (pag. 314).   Xon è necessario un lungo discorso per vedere  che quando il Vanni crede di fondare in questo  modo F esigenza razionale del diritto finisce per  assumere in realtà come presupposto il principio  che egli vuole, e crede di dovere, derivare apodit¬  ticamente, e al quale appunto è subordinato il va¬  lore di necessità razionale assegnato alle norme  ideali che devono servire di modello e di criterio  di valutazione. Infatti la relazione naturale e ne¬  cessaria tra una certa condotta e certe condizioni,  necessarie alla loro volta alla convivenza e coope¬  razione sociale, serve bensì a stabilire che quella  condotta deve essere riconosciuta come un mezzo  necessario al fine di conservare e promuovere la  convivenza e la cooperazione sociale, posto che questo  sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale  a stabilire la necessità razionale di riconoscerlo  come fine; e fine precedente in valore e autorità  ad ogni altro.   Il \ anni par che intenda superare la difficoltà  osservando che la necessità puramente naturale in  quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto  in una esigenza ed in una necessità razionale. « Essa            — 105 —    allora esprime un principio logico fondamentale, il  principio di contraddizione ». Se in forza della na¬  tura stessa delle cose c dei rapporti causali, per  ottenere un certo fine è indispensabile un certo  mezzo, e per raggiungere un certo risultato è in¬  dispensabile un certo modo di condotta, impliche¬  rebbe contraddizione che si potesse impiegare un  mezzo diverso o seguire una condotta diversa  (p. 315).   Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione  vi è certamente tra il pensare che una condotta è  indispensabile a raggiungere un certo fine e pen¬  sare che questo stesso fine possa essere raggiunto  con una condotta diversa ; ma io non violo nes¬  sun principio logico e non sono punto in con¬  traddizione con me stesso se, ammettendo che un  certo fine dipende da certi mezzi, non voglio il fine  e non voglio perciò neanche i mezzi.   E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale  all’ ordine cosmico, considerandolo come la forma  più alta a cui riesce 'iì processo della^ evoluzione  universale. Perchè non si fa altro in questo modo,  che spostare il presupposto; cioè ammettere, an¬  cora e sempre, che si riconosca valore di fine su¬  biremo a questo adattamento all’ ordine cosmico.   Il quale presupposto potrà o non potrà venir  legittimamente assunto come dato o postulato ; ma  è e rimane un presupposto. E perciò le norme ideali        che se ne deducono hanno questo valore di nonne  nell’ ipotesi che si accetti come fine supremo quel-  P ordine di effetti dal quale sono dedotte.   «   Ma rilevando cosi il carattere necessariamente  ipotetico della costruzione, alla quale riesce anche  il « sistema delle condizioni della vita in comune »  del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo  carattere ipotetico costituisca per sò un vizio pro¬  prio di questa e di tutta una classe di costruzioni  etico-giuridiche, come pretende P idealismo metaf쬠 sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a  questo carattere ipotetico riallacciando quel tipo di  convivenza e di relazioni sociali, che assume come  modello e in conformità al quale determina le  norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che  abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare,  sia detto di passata, due circostanze, a mio giudizio,  decisive : Primo : che le norme ideali sono pur  sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo  od ogni apparenza contraria, dal tipo sociale as¬  sunto come modello, e non dal fine metafisico, della  cui autorità e del cui valore esso si riveste. Secondo:  che il valore assoluto di questo fine metafisico non  può essere che assunto aneli’esso o come dato o  come postulato.   La verità è semplicemente che un sistema di  norme giuridiche contempla di necessità un certo      — i<;7    ordino di vita individuale e sociale; e che la va¬  lidità dello norme dipende dal valore che si sup¬  pone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo  riconoscimento di valore, questa valutazione del  fine è dunque il presupposto inevitabile della va¬  lidità etica del sistema (la quale non esclude la va¬  lidità scientifica, ma non si esaurisce in questa);  e la questione si riduce a decidere se si pub o non  si può assumere legittimamente come dato o come  postulato questo riconoscimento del valore che nel  sistema è assegnato al fine.   Ora è nel rispondere a questa questione, non  nel carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza  del sistema del Vanni e dell’ indirizzo naturalistico  in genere; e alla quale del resto non riesce a sfug¬  gire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una ri¬  sposta adeguata alla questione esige che si deter¬  minino le condizioni richieste perchè a un ordine  di convivenza e di cooperazione si riconosca valore  di fine universalmente regolatore, valore, direi,  (piuttosto che di summum bonum ) di primum de¬  siderabile ; ossia perchè si possa ammettere che tutti  i soci consentano liberamente nel valutarlo e vo¬  lerlo come tale. E che si assuma poi, come modello  per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che  soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale con¬  figurato in conformità di quelle condizioni.   Ma non è rispondere alla questione il dimostrare          la naturalità della convivenza sociale in genere, o  di un certo tipo che si assuma volta a volta come  modello. Questa dimostrazione può servire a farmi  trovar buona o giusta o desiderabile P osservanza  dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto  o degno di essere voluto, quel tipo di vita sociale,  cbe si presenta come suo effetto ; ma non inversa¬  mente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi  a subirlo per la coscienza della sua necessità natu¬  rale. chi potrebbe legittimamente scambiare questo  subire con un volere . e la rassegnazione a un male  con la aspirazione a un bene ?   Nemmeno gioverebbe, d’altra parte, il ricorrere  a postulati metafisici. Posto che io non riconosca  l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema  come degno di essere voluto, in qual modo si può  presumere legittimamente che valga a farmelo ri¬  conoscere tale Vaffermazione (poiché qui di dimo¬  strazione non si potrebbe parlare) che esso .ha un  fondamento o una giustificazione metafisica, se la  ragione per la quale il sistema gli assegna questo  fondamento consiste appunto nel valore di fine che  esso gli attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli  riconosco ?    Ma il Vanni (per restringermi a lui. poiché al-  1 indirizzo metafisico non ho accennato qui se non  per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe       — 169 —    con tutta probabilità che per la via indicata come  la sola legittima si riesce a una costruzione pura¬  mente astratta, di un tipo utopistico di società  che non trova nella realtà storica nessuna corri¬  spondenza; e che si ricade nei difetti (ai quali ap¬  punto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica,  s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o  di un diritto assoluto valevole per tutto c sempre,  e senza riferimento possibile alla variabilità dei  rapporti sociali.   Mentre riponendo, come egli fa, il fondamento  intrinseco del Diritto n ella conformità della co n¬  d otta alle condizioni richieste dalla vita in comu ne,  questo riferimento non solo appare possibile ma  inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le con¬  dizioni della vita in comune non sfuggono al moto  dell’ evoluzione e della storia ; e se anche alcune  hanno il carattere d’una certa uniformità e co¬  stanza, altre invece variano correlativamente al  grado di sviluppo umano e alle forme di organiz¬  zazione sociale, e sono proprie di ciascun grado e  di ciascuna forma. Il che importa che debbono va¬  riare corrispondentemente le norme regolatrici ; os¬  sia che nell’applicazione « il sistema etico-giuridico  fondato sulle condizioni di esistenza va combinato  col principio di evoluzione e subordinato al criterio  della relatività storica » (p. 318).   Ora, lasciando di rilevare come con questa su-    /    it       bordinazione si assuma sempre per presupposto che  l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo so¬  ciale storicamente dato, abbia, per il solo l'atto che  la coscienza* ne riconosce la necessità storica, anche  valore di fine, importa notare come si venga con  ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa  delle diverse forme storiche del diritto. Perchè una  valutazione comparativa richiede di necessità un  criterio, il quale non può essere dato dalla corri¬  spondenza alle condizioni storiche. E se si prende  un criterio diverso, allora è la conformità a questo  criterio e non la necessità storica, che si assume  come esigenza razionale o come giustificazione in¬  trinseca del diritto.   È certo che se una costruzione etico-giuridica  per essere razionale dovesse rimanere sospesa,  come gli Dei d’Epicuro, tra cielo e terra, e fuori  di ogni possibilità di applicazione alla condotta in¬  dividuale e collettiva, bisognerebbe accettare la tesi  del fenomenismo, e negare alla filosofia del diritto  qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ am¬  bito della pura sociologia.   Ma esiste davvero questa incompatibilità? E  non potrebbe essa dipendere, invece che dalla ra¬  dicale sterilità di una costruzione veramente ra¬  zionale (1), dalla preoccupazione di giustificare eti-   (1) Se, e a quali condizioni, una tale costruzione sia possibile,  è argomento del quale s 1 è già discorso altrove e che non può es¬  sere toccato di sfuggita.      — 171 —    camentc forme di diritto che non sono eticamente  giustificabili, di assumere come condizioni richieste  dalla giustizia e conformi ad essa certe condizioni,  reali sì, e storicamente date, ma che sono la nega¬  zione di quelle richieste dalle esigenze ideali? Per¬  chè se fosse cosi, Ih conclusione da trarne sarebbe  non che la costruzione razionale ò inapplicabile  come criterio di valutazione e come modello nor¬  mativo, ma che, essendo le condizioni reali diverse  da quelle idealmente contemplate, le norme ideali  non possono essere applicate simpliciter a condizioni  diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi do¬  vranno ugualmente servire come criterio per de¬  terminare quale sia in un dato momento storico  la condotta sociale e individuale che, nei bifidi  delle esigenze reali necessariamente imposte dalle  condizioni in effetto esistenti, è più acconcia a favo¬  rire la trasformazione di queste nella direzione se¬  gnata da qualle esigenze ideali, ossia tende ad at¬  tuarle. il che importa che le esigenze corrispondenti  alle condizioni proprie di un certo momento storico  non siano assunte esse come esigenze razionali del  diritto, ma forniscano il criterio per stabilire entro  quali limiti sia possibile -tradurre in norme di di¬  ritto positivo le norme ideali.   Ossia in breve : l’esigenza razionale segna le  condizioni a cui deve soddisfare un ordino sociale  perchè possa aver valore di fine; la realtà storica         1      >       Indice Generale    1. ° La Dottrina delle Due Etiche   di H. Spencer e la Morale   come Scienza .... Pag. 3   ' * • ,   2. ° Per Una Scienza Normativa   Morale .„ 119   3. ° Il Fondamento Intrinseco del   Diritto secondo il Vanni    157Erminio Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords: implicature, il metodo dell’economia pura nell’etica --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Juvalta on the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689131181/in/photolist-2mLQdrQ-2mKbfaU-2mKAiSV

CHU CHU CHU

Grice e Labriola – implicature – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino). Filosofo. Grice: “Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential Italian philosopher -- Con particolari interessi nel campo del marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere, e da Francesca Ponari. Il padre, oriundo di Brienza, era nipote diretto di Pagano.  Si iscrisse alla facoltà di filosofia di Napoli, città nella quale la famiglia si era trasferita. Qui studia con Vera e Spaventa, il cui appoggio gli procura un posto di applicato di pubblica sicurezza nella segreteria del prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller, un'opera in cui osteggia il neokantismo contro ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Conseguì il diploma di abilitazione e insegnò nel ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una significativa presa di distanze dall'idealismo in favore del materialismo.  Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele”,  premiata dalla Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza in filosofia della storia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico nell'Università; scrive la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di G. B. Vico” e collabora con il giornale svizzero "Basler Nachrichten", al quale invia corrispondenze politiche, al quotidiano napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto da Rocco De Zerbi, futuro deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al quale Labriola aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di Napoli" e, nel febbraio 1872, in quella de L'Unità Nazionale, diretta da Ruggiero Bonghi, al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue dieci Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in psicologia e in morale, pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale, dedicata ad Arturo Graf e Morale e religione.  Trasferitosi a Roma, ove muore di difterite il figlio Michelangelo, supera  il concorso alla cattedra di filosofia e pedagogia all'Roma. Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia e l'anno dopo è direttore del Museo di istruzione e di educazione: sono anni in cui Labriola mostra un particolare impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la diffusione dell'istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s'informa sugli ordinamenti scolastici dei paesi europei: nel 1880 pubblica gli Appunti sull'insegnamento secondario privato in altri Stati e nel 1881 l'Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Contemporaneamente Labriola abbandona le convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni radicali: oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica l'intervento dello Stato nell'economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso al Parlamento. Ottiene la cattedra di filosofia della storia all'Roma e inizia un corso di storia del socialismo. A seguito di notizie che danno imminente la stipula del Concordato con il Vaticano, Labriola tiene all'Università la conferenza Della Chiesa e dello Stato a proposito della conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il  quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere «teoricamente socialista ed avversario esplicito delle dottrine cattoliche» e nella conferenza Della scuola popolare, auspica l'abolizione dell'insegnamento religioso.  Sul giornale Il Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni; tiene agli operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica e dichiara di desiderare un «governo del popolo mediante il popolo stesso» e la formazione di un grande partito popolare. Scrive che «I parlamenti, come forma transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo del proletario» e il 20 giugno tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso Del socialismo commemorando la Comune di Parigi.  Nell'ottobre Labriola saluta il congresso della socialdemocrazia tedesca a Halle scrivendo che «Il proletariato militante procederà sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze».  Nel 1890 entra in rapporto epistolare con Engels, che conoscerà a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei, Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprovera a Filippo Turati, il più prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degli avversari politici. Vuole che il Partito socialista, che deve nascere ufficialmente con il Congresso di Genova del 14 agosto 1892, sia un partito di operai e non di intellettuali positivisti borghesi. Vede nei Fasci siciliani un concreto esempio di socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a essere compreso in Italia.  Fa lezione sul Manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un nuovo corso «su la genesi del socialismo moderno» ma di non riuscire a risolversi a scriverne un saggio per l'ignoranza su tanti «fatti, persone, teorie, etc, che sono tante fasi, tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia», come ribadisce a Victor Adler che «il marxismo non piglia piede in Italia».  Su sollecitazione del Sorel, scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, il primo dei suoi saggi sulla concezione materialistica della storia, che esce in francese sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce a Engels in luglio, ricevendone le lodi. Anche il giovane Croceche ne promuove la stampa in Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di adesione al marxismo. Nei due anni successivi Labriola scrive altri due saggi, Del materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e di filosofia.  È sepolto presso il cimitero acattolico di Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e politico di Labriola in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore dell'idealismo hegeliano (influenzato da Bertrando Spaventa, del quale fu allievo a Napoli); successivamente, possiamo distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del realismo herbartiano, ed infine, il momento della maturità, in cui aderisce pienamente al marxismo.  L'approccio di Labriola al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart, per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Karl Kautsky. Egli vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla storia, ma piuttosto come una filosofia autosufficiente per capire la struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. Era necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo voleva considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze operanti nella storia. Il marxismo doveva essere inteso come una teoria ‘critica', nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e materiale "prassi" umana. La sua descrizione del marxismo come "filosofia della prassi" verrà ripresa nei Quaderni dal carcere di Gramsci.  In pedagogia Labriola avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione morale (e complessiva) delle classi subalterne.  Nella monografia Dell'insegnamento della storia, del 1876, dedicata alle più importanti questioni della pedagogia generale, Labriola aveva asserito la centralità dell'educazione alla socialità: il metodo pedagogico doveva essere quello della ricerca critica e di dibattito e di sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al confronto (non a caso i primi studi di Labriola erano stati rivolti a Socrate e al metodo socratico). Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per Labriola era necessaria un'attenzione maggiore ai prerequisiti logici piuttosto che alla struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che egli chiama un'epigenesi analitica.  Celebre fu una sua conferenza tenuta nell'Aula Magna dell'Roma,  discorso sollecitato dalla stessa Società degli Insegnanti della capitale, che poi ne curò la pubblicazione in opuscolo.  Era necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di condizioni ambientali. Per Labriola proprio l'azione dell'ambiente storico sociale sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione. Per cui « le idee non cascano dal cielo ». Il metodo deve partire dalla prassi, dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti.  Il nucleo essenziale della pedagogia della « prassi » sta nella percezione della connessione dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.  Trockij conobbe «con entusiasmo» l'opera di Labriola nel 1898, quand'era detenuto nel carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che «come pochi scrittori latini, Labriola possedeva la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'era impacciato, certo nel campo della filosofia della storia. Sotto quel dilettantismo brillante c'era vera profondità. Labriola liquida egregiamente la teoria dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i nostri destini». Trockij aggiunge che dopo 30 anni continuava a rimanergli in mente «il ritornello Le idee non cascano dal cielo». Opere Una risposta alla prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Napoli, Stamperia della Regia Università,  Della libertà morale, Napoli, Tipografia Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Tipografia Ferrante, Dell'insegnamento della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta,  I problemi della filosofia della storia. Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato per la commemorazione di G. Bruno in Pisa. Lettera, Roma, Aldina,Del socialismo. Conferenza, Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera ad Ettore Socci a proposito del Congresso democratico, Roma, La cooperativa,  Saggi intorno alla concezione materialistica della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma, Loescher, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo di socialismo e di filosofia. Lettere a G. Sorel, Roma, Loescher, B. Croce, Bari, Laterza,  Da un secolo all'altro. Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la libertà della scienza, Napoli, Tipi Veraldi, A proposito della crisi del marxismo, in "Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce, Bari, Laterza, Socrate, Benedetto Croce, Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di B. Croce sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia, Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Luigi Dal Pane, I, Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti di pedagogia e di politica scolastica, Dina Bertoni Jovine, Roma, Editori Riuniti, Saggi sul materialismo storico, Valentino Gerratana e Augusto Guerra, Roma, Editori Riuniti, introduzione e cura di Antonio A. Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Carlo Poni, Firenze, Le Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e introduzioni di Demiro Marchi, Firenze, La nuova Italia,Scritti politici. Valentino Gerratana, Bari, Laterza, Opere, Franco Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Franco Sbarberi, Torino, Einaudi, Lettere a Benedetto Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio. Nascita e lotte del socialismo. IV saggio, incompiuto, della concezione materialistica della storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici, Nicola Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori Riuniti, Roma, Editori Riuniti,  Lettere inedite. Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di Stefano Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti, Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI, Giordano Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni della Normale,.  Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,. Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di Antonio Labriola, istituita con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, A.Savorelli e A. Zanardo, Bibliopolis, I problemi della filosofia della storia e recensioni G. Cacciatore e M. Martirano, Bibliopolis, Da un secolo all'altro. Stefano Miccolis e Alessandro Savorelli, Bibliopolis,. Copia archiviata, su archividifamiglia-sapienza.beniculturali. L. Trotzkij, La mia vita,Carlo Fiorilli, Antonio Labriola. Ricordi di giovinezza, in «Nuova Antologia», Giuseppe Berti, Per uno studio della vita e del pensiero di Antonio Labriola, Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista, Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna, Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali, Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi, Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Franco Livorsi, Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi, Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Benedetto Croce, Firenze, Renzo Martinelli, Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini, "Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo", in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale  M. Guidi e L. Michelini, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A. Labriola, "Il Cronista", Antonio Labriola e la sua Università. Mostra documentaria per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007. Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica, Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis, Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica, Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,,  Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Antonio Labriola, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Antonio Labriola, su Liber Liber.  Opere di Antonio Labriola, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola, su Progetto Gutenberg.  L'Archivio Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Roma.  La personalità storica di Socrate I. Socrate o gli Ateniesi pag. 1-10. —II. Educazione e svi- luppo della coscienza di Socrate pag. 10-20. — III. Carattere di Socrate pag. 20-22. —Osservazioni su le fonti, pag. 22-23. II. —Orizzonte delia coscienza socratica I. Posizione di Socrate nella storia della religione greca pag. 25-33. —II. Elementi della coscienza di Socrate pag. 33-30. III. —Del valore filosofico di Socrate I. Formalismo logico pag. 40-43. — II. Determinazione del valore del formalismo logico pag. 43-46. —Osservazioni —1) Li- mitazione del sapere umano pag. 46-47. — 2) Socrate e i Solisti pag. 48-52. —Pretesa soggettività di Socrate pag. 52-54. — 4) Preteso misticismo di Socrate pag. 54-55. IV. —Del metodo di Socrate I. Presupposti storici e psicologici pag. 58-60. — II. Motivo e sviluppo del metodo socratico pag. 60-67. — Osservazioni.— 1) Imprecisione formale del metodo socratico pag. 68-70. — 2) Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del prin- cipio d'identità pag. 71-72. pag. 1- 23 V. — Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene . . • Osservazioni pag. 80-82. VI. — Conoscere e volere I. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv) pag. 85-89. — II. Fondamento della pedagogia socratica pag. 89-92. * » » 24- 30 37- 55 56- 72 73- 82 83- 92   VII. — Le forme concrete della vita elica È Socrale un riformatore? pag. 93-98. — I. L’individuo e le sue relazioni domC5tiche pag. 08-103. — II. L’ individuo e lo stato pag. 104-108. Vili. —Delle virtù Generalità pag. 109-112. — I. Il concetto delle virtù nell'o- rizzonte socratico pag. 112-113. — II. Identificazione della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali pag. 117-119. IX. — Di nuovo del bene, della felicità c del sapere I. Del bone pag. 121-120. — IL Della felicità pag. 12G-127. — III. Del sapere pag. 127-129. X. —Della Divinila e dell’anima umana nell’orizzonte socratico . I. Il Concetto della Divinità png. 181-138. — IL II concetto dell’ anima pag. 138-140. XI. — Riepilogo e conclusione La personalità storica di Socrate. . . 1-42   I. Socrate e gli Ateniesi pag. 3-18. —  II. Educazione e sviluppo della coscienza  di Socrate pag. 18-86. — III. Carattere di  Socrate pag. 37-39. — Osservazioni su le  fonti pag. 40-42.   II. — Orizzonte della coscienza socratica . . 43-68   I. Posizione di Socrate nella storia della  religione greca pag. 47-62. — II. Elementi  della coscienza di Socrate pag. 62-68.  II r. — Del valore filosofico di Socrate. . . 69-104   I. Formalismo logico pag. 77-82. —  II. Determinazione del valore del forma-  lismo logico pag. 83-88. — Osservazioni —  i) Limitazione del sapere umano pag. 88-  90. — 2) Socrate e i Sofisti. Pretesa soggettività di Socrate pag. 98-  102. — 4) Preteso misticismo di Socrate  pag. 103-104.  IV. — Del metodo di Socrate 105-135   I. Presupposti storici e psicologici pa-  gine 111-115. — II. Motivo e sviluppo del  metodo socratico pag. 115-127. — Osser-  vazioni. — i) Imprecisione formale del  metodo socratico pag. 127-133. — 2) Della  differenza fra rappresentazione e concetto, p^^-  e del principio d'identità pag. 133-135.   V. — Dell'etica socratica i?i generale, e del   concetto del bene 137-156   Osservazioni pag. 153-156.   VI. — Conoscere e volere 157-176   I. Equazione fra volere e sapere (yvttjtì-t.  aauxóv) pag. 163-171. — II. Fondamento  della pedagogia socratica pag. 171-176.   VII. — Le forme concrete della vita etica . 177-206   È Socrate un riformatore? pag. 179-189.  I. L'individuo e le sue relazioni dome-  stiche pag. 189-198. — II. L'individuo e  lo Stato pag. 198-206.   VIII. — Delle viriti 207-226   Generalità pag. 209-215. — I. Il concetto  delle virtù nell'orizzonte socratico p. 215-  217. — II. Identificazione della virtù e  del sapere pag. 217-223. — III. Igno-  ranza degli elementi naturali pag. 223-226.   IX. — Di nuovo del bene, della felicità e del  sapere ... 227-246   I. Del bene pag. 230-239. — II. Della  felicità pag. 239-242. — III. Del sapere  pag. 242-246.   X. — Della Divinità e dell'anima umana nel-   l'orizzonte socratico 247-267   I. Il Concetto della Divinità pag. 251-  263. — II. Il concetto dell'anima pa-  gine 263-267.   XI. — Riepilogo e conchcsione 269-279  Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditori ('). Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni. IV, 4, 6. Plat. Gorg. p. 490 E. (2) Lo Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale; vedi in generale op. cit., cap. II, pp. 72-115.   78 SOCRATE toria non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne (i) Lo Zeller ha molto bene criticata l'opinione or- dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare, op. cit., voi. II, p. 73; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore filosofico del dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica.   più tardi, le relazioni morali nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta- mente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi che avean raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di- scutere sul valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi presuppo- sti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della ricerca, e come presente alla co- scienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di • (i) Vedi su questo punto Hermann: Gescìiichte ecc., p. 257 e seg.; e lo stesso autore Prof. Ritler's Dar- stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, 1833. Hegel è stato uno dei primi a riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la determinazione del prin- cipio filosofico di Socrate, op. cit., voi. II, p. 105 e seg., e cfr. Biese: Die Philosophie des Aristoicles, voi. I, p. 28 e seg.   8o SOCRATE colui, che ragionando avverte per la prima volta, che il ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera corretta e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema logico della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi- cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira- zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui- stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza, per- Labriola — Socrate. !Hl<^3   82 SOCRATE che possa dirsi certa ed evidente. Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick- ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel, op. cit., p. 51. Da questo e da altri luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto più schietto della filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell'errore di Schleier- macher e di Brandis.  Determinazione del valore del formalismo logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale So- crate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto, dello spi- rito e così via (^). Senza la pretensione della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Ba- (i) Per es. Schleiermacher, op. cit. p. 300. , (2) La forma più esagerata è quella del Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit., passim.   84 SOCRATE sterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé stesso, come forma o attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione, ma si è poi obbligati a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica ('); mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che il valore filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta opinione, esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in apparenza sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e seg. che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complica- zioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confi-onto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('), si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giu- ; dizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il valore filosofico di Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della sua co- (i) L'Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico; vedi op. cit., p, 13 e seg.   86 SOCRATE scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono esclu- sivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura, il processo genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè l'ac- cettazione o la critica di una tradizione teo- retica; e per questa ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio logico della certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed incon- sapevole. Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni correnti: e quella naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza, la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la sua in- telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma costante dei giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti con- dizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un posto na- turale alcune opinioni, che incontestabilmente   88 SOCRATE gli appartengono, e che altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni, che si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto. Tocche- remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto dello Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue definizioni, il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi il Jacobs, Vermischte Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so, wie die Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des Schlechtesten in sich.   che correa fra la novità delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla conser- vazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il principio normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono- scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una legit- tima ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta notizia degli obblighi spe- (i) Mem., Ili, 5, 21 e 9, io; e cfr. ibid., I, 2, 9; e Plat. Apol., 31, E. (2) Mem., Ili, 6; e IV, 2, 6 e seg.   SOCRATE ciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza di questa massima in- novatrice ci fa apparire l'attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monar- chia e dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico della maoraioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevo- lezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie univer- sali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi- genze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come impreteribile ('); e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità (^); e considerando la sua at- tività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione dell'attività dello Stato (•^). L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l'esigenza di una per- (i) Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7, 9. (3) Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr. Phaed., 98 C e seg.   202 SOCRATE sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente nelle scuole socratiche; e special- mente in Platone, il cui ideale politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico ('), né come un segno pre- cursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al manteni- mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell' individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza (i) Come vuole l'Hermann. (2) Come vuole il Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller, Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati Vortràge ecc., pp. 62-82   incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaioedilgeneraleecc.,perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di que- sto o quel dialogo, perchè in tutti gli sva- riati casi non rileveremmo che una sola con- clusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l'esi- genza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili, cap. ii,   204 SOCRATE mento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve es- sere addotto a provare che la principale preoc- cupazione di Socrate fosse la ricerca dei con- cetti ('), né può essere inteso come interamente derisorio (^), perchè l'ironia è un momento ofenerale della conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socra- tico di un esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava allora gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica (^); anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Io Zeller, op. cit., p. 75, nota 2=*. (2) Questa è l'opinione di Brandis: Enhvickelun- gen ecc., p. 236, nota 49. (3) Vedi su questo argomento l'Hermann: Priva- talterthilmer, \ 29, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John : The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks, Londra, 1844, voi. Il, p. 42.   LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA 205 a quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo ('). E a terminare questo schizzo della co- scienza politica e sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costi- tutivi dello Stato e della famiglia. Questa ve- duta era allora qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particola- rismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole Senofonte (^), o per ingiusta come vuole Platone p), l'offesa arrecata al -nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti dai vari espositori noi non sappiamo affermare {*). Ad ogni modo, l'autorità di Senofonte ci par- (i) Vedi Jacobs: Vertnischte Schriften, IV, p. 379 e seg. (2) Meni., II, 6, 35 e cfr. Ili, 9, 8. (3)Crit.,49Aeseg.ecfr.Rep.,I, 334Beseg. (4) Questa è anche l'opinione dello Zeller, op. cit., p. 114.   2o6 SOCRATE rebbe da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners: Geschichte der Wissenschaften, II, p. 456 (*), pone una distinzione arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello che può toccareil suobenessereinterno,negandochequest'ul- timo sia incluso nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il pensiero di Socrate. Cfr. lo Strùmpell, op. cit., p. 179, che ha tentato supplire Senofonte col Gorgia, p. 481.Antonio Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia, dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo in Italia.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51686128490/in/photolist-2mRgKq7-2mQBLt7-2mQerAd-2mMQbzj-2mLP4Rj-2mLQdrQ-2mLGjg5-2mKw3hq-2mKjVho

 

Grice e Lagalla – filosofia italiana –la teoria geocentrica – la terra al centro del universe -- Luigi Speranza (Padula). Filosofo. Grice: “I love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian when everybody in Florence was a Platonist!” Figlio di Roberto, alto funzionario della burocrazia vicereale, e Vittoria Rosa. Studia filosofia. Ancora bambino, perdette i genitori e fu affidato con i fratelli alla tutela di uno zio paterno, Girolamo Lagalla, che lo avviò agli studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua formazione. Si iscrisse ai corsi di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri G. Stillabota, F.A. Vivoli e B. Longo. Affidato dal Collegio degli archiatri a G. Provenzale e G. Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare, nel 1589, i gradi accademici "nulla pecuniarum solutione". Nello stesso anno, grazie a Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con la quale si diresse verso le coste laziali, per giungere poi a Roma.  A Roma avrebbe conseguito una nuova laurea, in seguito alla quale entrò al servizio di Santori, per il cui interessamento ottenne da Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia presso la Sapienza romana. Cura per Facciottola stampa di un commento ad Aristotele, “De immortalitate animae ex sententia Aristotelis libri septem”, precoce manifestazione di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale Lagalla si interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia.  Altre opera: “La circuncisione di Cristo”. Al problema dell'anima Lagalla. dedicò corsi della lettura ordinaria di filosofia, che tenne alla Sapienza. Queste lezioni furono raccolte in un manoscritto dal titolo “De anima commentarii”. Allo stesso argomento è dedicato il penultimo volume dato alle stampe dal L., il “De immortalitate animorum ex Aristotelis sententia libri tres” (Roma). Lagalla, pur riaffermando le posizioni della tradizione tomistica sulla questione dell'anima umana, secondo le quali l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli, ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove eternamente, ma piuttosto come “forma informante”. Morto Santori,  si fosse avvicina a Pietro Aldobrandini, entrando al suo servizio. Conobbe Cesi, al quale fu legato da una cordiale amicizia. Se questa non diede luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa richiesta da parte di Lagalla., fu solo a causa della sua marcata professione aristotelica[. Cesi lo presentò comunque a Galilei quando quest'ultimo si recò a Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al giudizio degli autorevoli astronomi del Collegio romano, nonché di influenti membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni incontri, durante i quali Lagalla., incuriosito dall' "occhialino" galileiano, lo sperimentò e fu intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle "pietre lucifere di Bologna". Da ciò che vide, trasse spunto per due scritti, pubblicati in un unico volume, il “De phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. Gallileo Gallileo nunc iterum suscitatis physica disputatio… nec non de luce et lumine altera disputatio” (Venezia).  Atteso con impazienza da Galilei, che fu costantemente informato da Cesi dei progressi nella composizione, il libro deluse l'ambiente linceo.  Nel primo dei due scritti, pur difendendo la verità ottica di ciò che mostrava il telescopio,  cerca di spiegare l'irregolare (la scabrosità della superficie lunare) come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di un principio di regolarità (invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni inclusi in essi), cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense di "etere", più opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo scritto Lagala. racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, G. De Misiani e G. Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente o una qualità reale, tratta delle "pietre lucifere" e, contro l'interpretazione di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di luce, poi lentamente rilasciata; con ciò esclude che possa essere il prodotto della riflessione della luce solare sulla Terra da parte della Luna.  A proposito del primo dei due scritti, Galilei meditò di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso Lagalla, di cui le note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio. Tale risposta non arrivò, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche. In occasione dell'osservazione di una cometa, scrisse il Tractatus “de metheoro quod die nona novembris anni presentisin Urbe apparuit sopra collem Pincium” e poiché quest'opera pareva, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, fu attaccato di scarso aristotelismo. Si convinse così a chiedere a Galilei e a Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fece niente, ma anche in questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi.  Aumenta intanto la sua insofferenza verso gli ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto. La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento di Allacci. Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute (soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo portarono a rifiutare.  Continua a praticare la filosofia, l'astronomia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere Lagalla sulla Luna. Altre saggi:  “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 323; cfr. Kristeller, II,444 cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze, Biblioteca nazionale, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo [Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani, Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F.  Colangelo, Storia dei filosofi e dei matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina); G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani, Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini, Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno,  Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G. Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna, l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei.Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690418222/in/photolist-2mKGUth

 

Grice e Lamanna – il risorgimento fiorentino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo.  Grice: “I like Lamanna – a very systematic philosopher especially interested in the longitudinal history of philosophy – he wrote on economics during controversial times, too!” Linceo. Figlio di Angelo Raffaele Lamanna, calzolaio, e da Maria Bruna Pizzilli, filandaia. Fece i primi studi in seminario e poi nel Liceo classico della sua città. Si trasferì a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna a Messina e Firenze. Pubblicò un commento alla Dottrina. Autore di un fortunato manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei. Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito, per Lamanna, che la religiosità sia un'esigenza naturale dello spirito umano, egli rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e il dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la necessità dell'esistenza di Dio.  Analoga antinomia gli sembra esistere tra morale e politica che a suo avviso può essere risolta trasportando nell'attività pratica la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e divino, che è di per sé bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa etico ossia, secondo Lamanna, realmente politico, realizzandosi concretamente nell'ordinamento giuridico e, così come nell'operare razionale si concreta la vita morale, da questa si raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza. Saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La filosofia del Novecento, Firenze); “Il bene per il bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze); Scritti storici e pensieri sulla storia, Padova); P. Piovani (Torino); Pietro Piovani, Tra etica e storia, Napoli); G. Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», G. Calò, Il pensiero, Napoli, G. Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna was concerned about the idea of the state, which is not an easy thing. More specifically, the concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’. – The history goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He is the only philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism into FASCISMO, which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The third volume is ITALO-CENTRIC, from Vico onwards, Farlingieri, and notably Gentile to end with MUSSOLINI. The idea is presented by Lamanna as a ‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato liberale Borghese is in ruins – and although he plays with the ‘socialist state’ he does not consider it within the realm of the proper history of philosophy when he talks of French illuminism. So his concern is wht the idea of the state in the liberal party – the philosophy of the laissez faire. It provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And there is competition. Also as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly ‘equal’ for every member of society, so that liberalism only pays lip service to liberale. With the socialist state, the problem is the opposite: the state becomes a gestore – and there is this idea of an endless dialectic among the classes. So how does Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato fascista’ – Had Lamanna continued from Kant to Fichte and Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s idea of the state is Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE however, is MORE than the sum of its individui. Individui come and go – but the state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is machist and homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing is said about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel idea of the state (after la rivoluzione fascista of 1923) with a Kantian approach. Since Lamanna has only read Kant seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. Lamanna quotes from Cicero to the effect that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on th azione or prassi, which is understandable since the pupils are supposed to learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about this. In 1914, when ‘I all started it’ I did not know where I was going. It was the ANTI-PARTY movement --. Lamanna provides the editorial. During the ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government (polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to worthip the God of the Heroes.It is an ‘etica guerriera’ and it targets the giuventu – the youth or male youth --. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is interesting because this was conceived after the temporary successes in Africa – Mussolini romano e africano – and before the problems of the second world war. For the first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds were in the Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only provided negative freedom, and where the initial conditions were unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism, so the Congress is closed, and the only party is the national party. Jews are excluded from PUBLIC service (even if some wrote panegirici for fascism, like Mondolfo). The philosophical foundations are found in Hegel. If Hegel concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself. Gentile did not really help, although he was the official voice of fascist philosophy --. The student of philosophy then was taught the lessons of history (philosophy was IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the final stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is no idea of dissent. Lamanna however emphasizes that the stato fascista still recognizes the indidivuality and the personality of each member – as the stato comunista or socialista would not!” Eustachio Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il risorgimento fiorentino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51754314550/in/dateposted-public/

 

Grice e Lami – la ragione degl’antichi – la tradizione della polizia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo.  Grice: “I like Lami; he has written interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Saggi: "La ragione degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino, Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora -- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa, "Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia della storia Nuova Destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/ Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola. E’ davvero difficile per me, ricordare Gian Franco Lami. In questi giorni, ho dovuto farlo più volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare da domenica 23 Gennaio quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la presentazione di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come relatore, anche lui.  Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo incontro, quando io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di assistente di Augusto Del Noce. Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto professionale, in quanto Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo frequentavamo, l’amore per il sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza, in vita. Mi coinvolse immediatamente in un progetto ambizioso: quello di introdurre in un paese dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della storia Eric Voegelin, allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa ricerca, alla quale ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona, assieme a Giuliano Borghi e pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie voegeliniane (qui è bene rinviare a Eric Voegelin: un interprete del totalitarismo, Astra 1978), che fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da Lami, in questo ambito di studi, fu di individuare nel filosofo austro-americano, un diagnosta della crisi della modernità. In particolare, attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e storia, opera monumentale, Egli presentò l’esperienza classica della ragione, quale unica terapia possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a Eric Voegelin, Israele e rivelazione, Aracne 2004, ma anche G. F. Lami, Introduzione a E. Voegelin, Giuffré 1993).  Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Del Noce, secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli, scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico (Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani 1999), da cui si evincono tanto la gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali, dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro individua, nello specifico, il campo d’indagine della Scuola Romana di Filosofia politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, Adriano Tilgher e Julius Evola. Al primo, dedicò un volume significativo (Adriano Tilgher, un pensatore liberale, Seam 2000), nel quale evidenziò il tema della pluralità delle morali, come caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo Lami, lo avvicinava al filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individuava effettive vie realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo, dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo, dette alle stampe la prima monografia filosofica (Introduzione a J. Evola. Un passo per la vita e un passo per il pensiero, Volpe 1980). Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, ha curato diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a contestualizzare storicamente l’opera del pensatore romano e a coglierne il valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione.  E’ proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse Evola, tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo, interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizzò sempre negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà greco-romana tanto aveva insistito. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino 2005), nel quale tentò di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”, come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico, tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio, 2008).  Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me, gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”, o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti, come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno presente, di prossima pubblicazione per i tipi de Il Cerchio). L’università di Roma, con Lui ha perso una delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente, non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice: “Lami touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for mistranslating Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia --. Lami as a Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty is take in that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political organization of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione una. Espressione varie e tradizione una.  With the birth of Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean ‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all this – and more --. Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi,  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51752587207/in/dateposted-public/

 

Grice e Landi – semiotica economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I would call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato un notevole contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica (prassi, pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica romana e fiorentina  con quella oxoniense. Diplomato al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano. Studia a Pavia. Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può suddividere in tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica), nonché l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria della “produzione” del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento è l'omologia tra la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E. R. E.). La terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e teorizza l'”alienazione” dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica communicativa (Bocca, Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione e parlare comune,” – cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare, implicARE, -- ‘common’ is Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to extra-ordinario. Marsilio, Padova. La semiotica e  “Segnare” come lavoro e mercato, -- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with ‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational. Bompiani, Milano, Segno ed ideologia (Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia” (Mondadori, Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o teoria? – cf. Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology – ceteris paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology – “That’s why we call them ‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th.  (Bompiani, Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’ y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo, Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio  su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as did Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo, l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va   speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il  artista o un politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per  . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.   glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del  MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta,  W (rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta.  (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F ,  1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”.  Queste formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di  e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or ora  ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o, come nella guerra o il duello, negativi.  Se il progetto offre l'occasione di congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con (gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >.  Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di binomi: gr g+1 1 T   (go+ 1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library, Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza, “Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701883411/in/photolist-2mRkgtK-2mRcn9c-2mPVkio-2mPYy6p-2mPUHFB-2mPyn68-2mPiqeP-2mMRLT9-2mLHEEX-2mKKMt4-2mKCQBD-2mPtp3t-2mKQqs3-2mKiPND-R1eT5f-Fk4dhM-G768cb-G9rj7p-DndBhH-AcDUcp-T3H8P3-nNK6N1-o1cZ1Z-nYkP5S-nzsfjR-nsj5ZA-nuoDVU-ncSabS-nnvnLQ-nr43e9-nRpz1J-nRxV4g-nz47iC-nREe6x-nupBjR-nu822k-nupzLa-nsn1sJ-i65ZAc-i65CuK-hMNyRg

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