Grice e Capra – del corpo animato – delo
l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic] -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo. Grice: “Plato, who never fought,
thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of
Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the body; he thinks the
‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly.
The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the conceptual
intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most general
spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he
philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley
of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to
self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary
Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s,
and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of
Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to
SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio –
un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o
club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina.
Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero
per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica
del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste e
descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici
causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un
volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi
filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e
considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro
Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro
saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica
funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di Marcello Capra
non si conoscono esattamente il luogo e la data precisa della morte. Uomini illustri della Sicilia. Dizionario
biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo
umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio; che noi non
vogliamo, ne dobbiam difendere l'Immortalità dell? animo Umano con tanto
pericolo. E a chi domandi, l'immortalità dell'animo è vita futura? rispondiamo,
esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale
diffusa in tutta la mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità
dell'animo alla mortalità del corpo, mostravano, che questa immortalità
intendeano, come una permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale
si possa pensare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando
l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non
quella, in cui si è fantasticamente irretita la mitica. L'uomo adunque, come
egli è creato in mezzo fra l ' Angelo, e la bestia, cosi alcuna cosa comunica
con gli Angeli, cioè l'immortalità dello spirito, e in alcune cose comunica con
le beftie, cioè la. mortalità della carne insino, che la carne... Sulla sede
dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta
adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando de Sede Animæ rationalis
disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere firum, qui exigit
distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque competit corporibus, sed,
ut Scholastici nuncupant... Dialogus de
instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti
Bufalini, Marcelli Caprae,... de Immortalitate rationalis animae juxta
principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. —
Panormi, apud J. F.... De Immortalitate rationalis animae juxta principia
Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum il Capra,
nicosioto, il quale nel 1589 inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae
et mentis ad Ari stotelis praecepta, adversus Galenum, l'altro De Immortalitate
A nimae rationalis, justa principia Aristotelis, adversus Epicurum, Lucretium,
et Pythagoricos; Caprae Marcelli, nicosiensis, De sede animae et mentis ad
Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum. Panormi 1580 in 4. De
immortalitate animae rationalis, iuxta principia Ari stotelis, adversus
Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi 1589 in 4. Qualche
relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal Capra in
quel torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta,
adversum Galenum. Quaesitum (Panor., 1859 ); — De immortalitate. Capra,
filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro
esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o
animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da
cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia
generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di Capra,
si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO --. Nel “De sede animae et mentis
ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don
Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, Capra dà ampio saggio
delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della
psicologia aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae si presenta
immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima
come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e
corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un
principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis).
Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna,
ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo
sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae
quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae
venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto
all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e
responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è
rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei
principi psichici nel corpo. Capra distingue anzitutto tra “principato”
(principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda
l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in
determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale
presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno
due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo,
oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono
però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In
generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato
aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima
deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum
consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus
extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset
per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus
privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus
esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in
spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et
insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur
corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia
reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum;
cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse
temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc
non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per
universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si
una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus
sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto
all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di
un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad
alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale
dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle
forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle
sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla
legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla
sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et
authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus
quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae
privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus,
in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset
tota in quavis parte. Ma essi, secondo Capra, evidenziano anche come l’anima
abbia la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene
interrotta o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò
dimostrando la sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa
nella sua totalità in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello,
differisce in questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa
recupera la totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò
avviene in quanto essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo
Aristotele afferma che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre
è estesa in modo tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da
adattarsi alle forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo
ordine, poiché tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o
in ciò che fa le veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che
dimostrano come l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così,
dunque, l’anima è estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile,
dipendendo tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli
spiriti e le parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in
motore e mobile a motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare
distinguendo gli spiriti e le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In
primo luogo, dunque, l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili
del sangue che traggono origine dal cuore, il quale si dice essere la sede
dell’anima. Anima ut extensa est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt
ab aliis formis materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit
totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet
unum principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu,
plures potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis
partem et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo.
Quia Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit
vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc
necessario extensam, et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem
corporis, et divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde,
mediantibus spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari
in motorem, et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae
diversitatem ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et
tenuioribus partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae.
L’estensione corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo
principale, il cuore, e quindi di organi secondari dei quali per accidens
condivide la corporeità, mentre substantialiter l’anima si comporta come la
fiamma che, seppure divisa in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In
questo senso la sede dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce
primariamente al corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo
cessa di vivere. Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et
pondus iners. Per rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua
sede, Capra fa affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda
animae sedes quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec
esse, nec operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et
omnes affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove
infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche
l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno
origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto
il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve
rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli
spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito,
giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato
né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni
anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono
sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il
cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono
avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si
deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun
singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id
quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus.
Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum
in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque
praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur,
et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus
extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere.
Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire valeat.
At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede dell’anima,
prosegue Capra, si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di
accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però,
l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si
richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi
fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello
relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato
con grande riluttanza da Capra. Et cum cor primo movetur vere potest esse
principium motus aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem:
cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim
censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque
movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id
convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia
importante tanto quanto il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano,
ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo
secondo, per cui il cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed
immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di
legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo Capra il solo scopo di
dimostrare che, separati dall’attività di infusione di calore e vita propria
del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle proprie funzioni, non
può far altro che dichiarare false la maggior parte delle dimostrazioni
anatomiche ottenute mediante legamento: Gli anatomisti inoltre legano un cane,
e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi legano quattro
vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e
corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo
perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse
in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia
stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti spesso animali
camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il cuore, le forme che
plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato e l’embrione già
sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che ancora non accade
al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime
toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem
qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis
referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim
nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite
saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito
corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur
contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica,
l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte
le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre,
un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni vitali
dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo Capra, infatti,
gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta la via che
lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria
attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in
pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul
finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e
soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi
successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non
necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in
effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte
recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la
concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è
rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile
--, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle
funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che
gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato
sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo
caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale,
immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a
favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e possono
essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero
richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o
fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel
cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando
inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della
preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo) negli
accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non
raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni
dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla
corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la
soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e
corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa
il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la
natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un
organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le
operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma
avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei
Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte,
come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede
dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie
premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la
mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici
coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene
nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che
all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che,
in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per
operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo
in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>,
ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire: conclusione. Alla mente non spetta una sede.
Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non
dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione.
Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione
della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono
portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra
dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta
verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama
unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima.
Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto
operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli
spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro
strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in
particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è
la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed
intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è
membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché
ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che
Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine
ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum.
Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam
esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae
sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui
vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici
coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis
coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est
sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc
duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram
per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera
perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Conclusio.
Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a
corpore, vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget.
Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae
sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec
autem est ministra intellectus. 3. Conclusio. Cor est sedes mentis. Haec est
vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per
naturam. Conclusio. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis.
Conclusio. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio.
Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque
commune instrumentum. Conclusio. Tota humana species est sedes mentis. Proprie
tamen homo sapiens. Conclusio. Imaginativa est sedes mentis. Conclusio. Cor
essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Conclusio.
Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed
cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam
in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula
saeculorum. Amen. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni
storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di
averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza
averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il De sede
animae et mentis Capra si assiste al tentativo di riportare il problema della
localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al
poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del
più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione
con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà
il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra
della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della
differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed
operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai,
dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti
galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove
empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è
soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare
della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione,
discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e
quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano
– l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si
coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis,
e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica
mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal universum. Con Aristotele
vengono a inaugurarsi nella storia del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad
avere una notevole du revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e
profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti
del lessico delle scienze e delle pratiche professio nali che avevano fatto
riferimento ai segni e al sapere con getturale in genere. Il vasto alone
semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva
caratteriz zato per tutto il V secolo termini quali s�mefon,
tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra fia,
nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi genze di una
definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e
separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza (1979: 107), non ha
che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano
teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se e rigide le distinzioni,
proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma,
nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelle opere che trattano di
argo mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond (1939, ried. 1973:
241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico gnoseologico resta fluido e
i termini spesso vengono impie gati senza speciali sfumature di significato.
Ciò non con traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un
punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inau- 5.1 TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida tradizione, che continuerà nella
trattati stica successiva, fin nella retorica romana del I secolo d.C. Del
resto le esigenze di distinzione teorica non si limite ranno a intervenire con
un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle
concezioni pro fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto
come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della
mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza
contemporanea del passato, del presente e del futuro era un elemento
essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di
sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della
classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei
tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele individua in primo luogo
due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (theo ros) e
colui che decide (krit�s). Il primo agisce nella dimen sione del presente ed è il tipo
di pubblico che assiste al di scorso epidittico o celebrativo. Il secondo,
invece, può agi re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri
due generi di discorso: il giudice (dikast�s) decide sul passa to;
il membro dell'assemblea (ekkl�siast�s) sul
futuro.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne è
totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento
aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con
le tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate
agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria
del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo
fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della
teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante
proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato per
scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":
anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono
stati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essi
potessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. In
Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio
ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno
vengono denomi nati s�meia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del segno
propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in
teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema
delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbolo
linguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che si
instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli
stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo ria
del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: i
suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le
quali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, i
suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che
hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii path�matOn),
e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo
stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i
suoni sono i me desimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni (s�mela),
anzi tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono le immagini (homoi6mata) di oggetti (pragma ta), già identici
per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto
di incontrare il ter mine s�meia come apparente sinonimo
di sjmbola non si gnifica affatto che le due espressioni siano
intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in realtà in
questo passo Aristotele usa il termine s�mefon in un'accezione
debole, che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle
espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione
del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa s�meia
per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio
deli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibile
costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo
tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri (no�mat8)
rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( � sn t�i ph�n�tl
(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il
rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati
d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo
sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi
in maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente come
avvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og getti
c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i
primi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorretto
identificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi
del lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà
108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da
Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra
due en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si
gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. In
Aristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi del
linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non
appartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre
ri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce
nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma
continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale
la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in
parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della
voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen ta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che
Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dà
al termine "significante" quando spiega la natura del segno
linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii
doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sioni
linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima
(verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis
(negazione); le ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi
elemen ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven gono
definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24
b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni
della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica e
il carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui
Aristote le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bra
diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare
le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà.
Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i due
ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità
del linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto
il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul
vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici
perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al
vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari
stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5,
1). Le ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel senso
di indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua
etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna
delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, in
un momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una
certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metà
riescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di un
rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di
amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla
congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una
situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra,
senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna
parte pre suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri
spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di
"ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel
contesto della teoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon
all'espressione s�mefon (che pure indica uno "stare per") induce a
indagare su una possibile 1 10 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE
specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno,
i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono
sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che
necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i
due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal
III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di
"ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno,
per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso
che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De
interpreta/ione: i nomi �ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che si realizza,
previo un accordo (synth�k�), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam
biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (Be lardi 1975: 199).
In quanto sjmbolon, il nome non è più d�loma ("rivela
zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è "suono
della voce significativo per convenzione" (phon� s�
mantik� katà synth�k�n) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una
linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una
linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica.
Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che
"rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del l'oggetto o la
djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente
una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna
preoccupazio ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il
linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6
permet te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli
animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii)
interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon�)
presenta alcune interes- 5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1
santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una
"voce" quando: (i) sia emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5);
(ii) sia dotato di significato (s� mantik6s) (Il, 420 b,
29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"),
hanno tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle
voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di
conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na
tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Po�t.,
1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di
semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi,
"invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi dotate di
significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non
combinabili (Po�t., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i
caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli
animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione -
elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi
dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura -
elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d�-
loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo d�lofìsi
(''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per
Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del
linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere semiotico
d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la loro
causa. We must know the character,age, sect, nation,and other peculiarities of
the writer. Every human being has a character- a cer possessed
their minds that they became mere automata in his hands, and poured out words
and thoughts as they were successively poured in- like so many water-pipes of a
cistern, betray profound ignorance of the sub ject. Some such crude fancies
were enter tainedinformertimes,and areprobablynot extinct. They doubtless
originated in a vague notion,that the more entirely human agency was excluded
from the doctrine of in spiration,the higher honour was bestowed on the Divine
Spirit : and the etymology of the word “inspiration”had also its effect. It originally
and properly signified,a breathing in,and suggested the dark and mysterious
conception of an effect produced on the think ing substance of a m a n , not
unlike the infla tion of a bladder But inspiration has nothing in common with
itsetymology. Itsimplyexpressestheidea of supernatural assistance and guidance
in the communication to mankind of truths pre viouslyunknown. Those who were
honoured 54 CHARACTER , ETC. “magnamcuimentemanimumque, Delius inspirat
vates." OF THE WRITERS . 55 with it,were enabled
tospeak,act,and write, as divine messengers,in perfect conformity
withthewillofHim whosentthem;sothat nothingproceededfrom them,butwhat was holy
and true. Yet they were not puppets, acted on by a physical and compelling
force from without. They were living, personal agents, in full possession of
all the faculties with which they had been endowed by their Creator—with
perception, memory, con sciousness,will ; and the energy of the Holy Ghost
wrought no greater violence on their minds in the exercise of these powers,
than is wrought by his ordinary operation on the hearts of believers in every
age of the church . It is not our business to give the philoso p h y of this “
pre -established h a r m o n y ” b e tween agencies so different, nor to
speculate on the mode in which they were combined
fortheproductionofasingleresult. As in terpreters,we statethefact-notexplainit:
and the fact certainly is,that no men are more distinguished from each other by
strong mental idiosyncrasies, norany who givemore decidedevidence,thattheirown
spiritsper formed an important office in composition.
IntheauthorofthebookofProverbs,wesee before us the grave, sententious,
dignified monarch,whose profound knowledge of hu man nature,andsparklinggems
ofwisdom, made his name celebrated throughout the East. Amos isalways
thestrong,bold,but somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and
vehement Ezekiel,standing with dishevelled hair and rolling eye,in the midst of
his fantastic but expressive symbols, never suffers us to mistake him for
Isaiah, the sublime,imaginative,tastefulcourtier of Hezekiah. The same with the
plaintive, tender Jeremiah - the contemplative J o h n the argumentative,
glowing Paul. It is an old, but, with proper explanation,perfectly true
remark,originally made by Jerome,that “ revelation consists in thought,not in
words or external dress : nec putemus in verbis
scripturamevangeliiesse,sedinsensu.” We 56 CHARACTER, ETC. insultthe Holy
Ghost by supposing him un able to accommodate himself to the mode of thinkingandphraseologyofthosewhom
he honoured with his influence — that when he " OF THE
WRITERS. 57 When we readtheEpistletotheRomans therefore,we must remember thatwe
are conversing with a finished gentleman of the old school ; a scholar brought
up at the feet of Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in
ellipses,digressions,repetitions, bold figures,andpregnantexpressions,sug
gesting more than meets the ear - fond of il lustrating his subject by Old
Testament ideas, even when he intends making no use ofthem in argument; and
above all,that we are con versing with him,who,more than any other apostle, was
deeply penetrated with the glo rious catholicity and abounding grace of the
gospel! InreadingJames,we must think of the stern,high-souled moralist,in whom
the ethical element of Christianity seems to have
takenthedeepestroot;who,whilewith adoring faith he beheld “ the Lamb slain f r
o m t h e f o u n d a t i o n o f t h e w o r l d ,” n e v e r l o s t froin
his view the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from
Sinai, and yet speaks in milder tones,though with made the prophet he was
forced to unmake theman. > 53 CHARACTER , ETC. the same
commanding authority, to every childofAdam. John,inhiswritings,seems to be stil
clinging to his master's bosom. Love to the person of his Redeemer is evi
dently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart from every argument
con tained in other parts of Scripture, that John believedhimtobedivine.
Hisgloryasthe uncreated Logos— thatglory which he had
withtheFatherbeforetheworldwas,afew scattered rays of which had been seen
through the veil of his humiliation,is the great thought
withwhichhissoulholdsconstantcommun: ion,raisedabove everyotherobject—likethe
eagle calmly reposing in mid heaven, and gazingatthesun! He whogivesnoatten
tion to these things, and does not take pains to catch the distinctive
peculiarities of the sacred writers,commits the same kind of
blunderwiththatofthemanwhoreadsMil ton's Paradise Lost,and Addison's Essays in
t h e S p e c t a t o r, y e t s e e s n o d i f f e r e n c e b e t w e e n
them except in the length of the lines. It is important also to note the
different kindsofcompositiontheyemployed. Some OF THE WRITERS.
59 were poets,and must be interpreted according to the laws of poetry.
Their bold tropes must not be turned into sober matter-of-fact realities ; as
isdone by the Millenarians who read Isaiah nearly as they would Black stone's
Commentaries, or the British Consti tution. EzekielisnotLuke,noris.Mat thew the
publican, David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his
harp. Historians are to be treated as historians,not as poets or rhetoricians.
The accounts of miracles given in our four gospels must there fore be taken to
the letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors
intended to give simple and perspic uous narratives of events as they actually
o c curred. Theprinciplemustnotbetolerated foramoment,ofexplainingthem away,by
doing violence to the plain meaning of lan guage,and to allthe laws which are
applied tootherhistorical compositions. Yetithas been sanctioned by great
names,especially inGermany. Gravedivinesarefound,who insist that there is not
one miracle in the gospels. Theeventswhichseemmiraculous 60
CHARACTER, ETC. were entirely natural, but exaggerated and embellished by the
warm fancies of the peo pleamongwhomtheyoccurred. Onlystrip, they say,the
Evangelists of this semi-poetic drapery,and the business of exposition will
goondelightfully. Mosesfares,ifpossible, stilworse. Theyturnhimintoan allego
ristorreciterof mythological fables. The first ten chapters of Genesis contain
about as large a body of real truth, as can pass with out inconvenience through
the eye of a nee dle- being made up ofold storiesand scraps a —
ofsong,whichmean nothing,oranything, that a lively fancy may suggest. i authors
are conceited sciolists,who,pranking Let not the Christian student take great
pains to refute this wretched infidelity, which does not openly avow itself
infidel, merely because its advocates earn their bread by a professionof
Christianity;themostofthem beingeitherprofessorsofChristiantheologyor pastors
of Christian churches. Indignandum deisto;nondisputandum est.Such interpre
tations do not deserve the name. They are feats ofjugglery and legerdemain ;
and their In expounding Scripture,let there be a c o n stant appeal
to the tribunal of common sense. Language isnotthe inventionofmetaphysi
cians,or convocations ofthe wise and learned. Itisthe common blessingofmankind,framed
fortheirmutualadvantageintheirintercourse witheachother. Itslawsthereforearepop
ular,notphilosophical- beingfoundedonthe general laws of thought which govern
the wholemassofmindinthecommunity.Now, however men may differ from each other,
themselves as the high-priests of philosophy, prove by their irreverence for
things sacred, that they have not reached the portico of her temple.
Thetruephilosopheralwaystrem bles when he stands,or even suspects that he
stands,in the presence ofGod ! He can not trifle with such a book as the Bible
! H e cannot sport with a volume,the falsehood of which,ifproved,turns him over
to the beasts, and deprives him of his last stake as a can didate for the
glories of immortality.Marcello
Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo,
l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello
spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological,
functionalism, manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in
behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una
forma, una materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica
di aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e
simbolo dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave
naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse. life, soul – Aristotle on soul and life –
zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777491890/in/dateposted-public/
Grice e Capua – filosofia romana –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoli Irpino). Filosofo. Grice:
“I like Capua – from the middle of nowhere – Lago Laceno – he founds an
“Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!” Vestigia lustrat,
i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!” -- Impegnato
nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi capiscuola come
Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di un'accademia dal nome gli
"Investiganti". Pubblicò il "Parere", sostenendo le
idee di chi opponeva la ricerca medica e scientifica al sapere della tradizione. Nacque
a Villa Capua, in Via Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la
famiglia fosse facoltosa, non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse
negli studi oltre le basi grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione,
sin da giovanissimo, all'approfondimento del latino, del greco e della retorica.
Persi entrambi i genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua
educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola
dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano,
leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che
segnarono profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del
suo "Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle
mofete". Si laurea e fa ritorno a
Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed
anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il
supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo
pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni
di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore
di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria,
collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza.
I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli. Si
trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu
favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una
lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca
scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della
rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura
legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla
scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli
Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.
La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali
napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal
Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome
di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità
scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo
ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua
opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che
fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per
contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico.
Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un
illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della
seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute
galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano
al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel
periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta,
ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il
suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali
scienziati e filosofi italiani ed europei come Francesco Bacone, Cartesio,
William Harvey, Thomas Hobbes, Pierre Gassendi, Daniel Samert, Hooke, Willis,
Boyle. Tra Cornelio e Di Capua sorse una solida amicizia basata su ideali
comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le
vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso pensiero era Giovanni
Alfonso Borelli (1608-1679), medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui,
del metodo di Galileo. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare
nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con
l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani. L'ambiente
culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio
dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle
novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. Di Capua, ancora prima
della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a
contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente
alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del
Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto
contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta
anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle
attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli:
si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine
e romane a quella napoletana. Si forma quindi in questa “nuova” Napoli,
sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante
i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi
e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere”
richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati,
intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il
metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a Di Capua una
lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete",
in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad
effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia. L’ammirazione che
provava nei confronti del Di Capua era la dimostrazione che quest’ultimo era
inserito nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del
circuito napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si
interessò vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di
conoscere con maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato
dell’incertezza della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza
dei Medicamenti”. Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo
devoto alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva
soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità
intellettuali di Vico, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo.
Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di Di Capua, che
affiorano in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente
in tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità
scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano
e frequenta la casa Di Capua, che considerava il suo ideale maestro. Capua,
Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre
illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano.
Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo,
dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle
teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie
rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di Lucrezio:
"vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le
tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti
nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali. L'Accademia fu
chiusa per la peste nel 1656. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet,
spinta da una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese
per mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si
riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari
argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della
Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi,
le prime lezioni furono tenute dal Di Capua su argomenti di natura scientifica.
Altre lezioni ebbero come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si
eseguirono anche esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè
nei luoghi dove certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del
cane di Pozzuoli, nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli
Investiganti determinarono una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico,
che sfociò nella fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei
Discordanti", guidata dai famosi medici Carlo Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo
fu primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla
morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da
allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il
viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In
seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla
fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli
alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero
culturale a capo di Di Capua, tanto che, il viceré spagnolo Ferdinando Gioacchino
Faiardo indisse un congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il
proprio parere per ciò che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche
oggetto di disputa. Fu così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo
"Parere Divisato in otto ragionamenti..", che ottenne notevoli
riconoscimenti oscurando il conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante
il Seicento, secolo del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Giambattista
Marino, ritenuto dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza
insuperabile, si dichiara nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità
era di natura critica, analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle
dispute letterarie tra marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In
quell'epoca predomina il trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato
dalla Crusca, che Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3
edizioni. La notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma
della lingua italiana ebbe una notevole presa su Capua grazie anche alla
sua predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono
considerati “antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un
antiquario, in quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei
dettami della Crusca. Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari
di scienza, seppur mediati da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli,
nella seconda metà del Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico,
a tendenza arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su Vico. Questo
sottolinea il suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio
da lui usato, tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con
questo atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario
in ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione
filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione
tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua
da lui scelta. La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il
martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune
commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari. Di questa produzione non abbiamo
testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I
sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione
petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo
dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire
che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime,
considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al
razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere
drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato
in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a
Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte
dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina
fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale, un
bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune
posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel
testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis,
che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di
Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di
coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo.
La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e
di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico
anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza
che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve
piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti
dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto
ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo",
il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore
della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al
"Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua
finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come
proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto
soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva.
Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel
"Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella
descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati
dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di
origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla
dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di
un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera
pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale
milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita
l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25
colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua
concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla
dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità
unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Generoso De
Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine
Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano,
Piccin nuova libraria, Padova);. Mario
Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, POMBA, Torino). “Parere del
signor Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti, ne' quali partitamente
narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della
medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Niccolò Amenta, Vita di
Lionardo Di Capua, Venezia). Niccolò Amenta, Vita di Lionardo di Capoa detto fra
gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Nicola Badaloni, Introduzione a
Giambattista Vico, Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Giambattista Vico
e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del XVIII
secolo, Tip. del R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero
politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, D'Anna
editore, Messina-Firenze); Walter Maturi, Fausto Nicolini, La giovinezza di Gian
Battista Vico; saggio biografico, Napoli); Camillo Minieri Riccio, Cenno
storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Luciano Osbat,
L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e
letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione
sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino"
in Rivista storica italiana, Napoli); Gabriele Reppucci, Saggio monografico su Capua,
scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di
Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico,
Autobiografia, a cura di B. Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano). Lionardo Di
Capoa's Parere is just that: an opinion in response to a specific request by the
Viceroy and the Consiglio Collaterale in 1678 put to a group of prominent
Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. Di Capoa's attack on
Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. Di
Capoa maintains a theoretical investment in the anima: this is not a
recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Di Capoa's part. Di
Capoa wishes then, to protect medicine not only from mechanical applications of
logical techniques, but also from premature, reductionist applications of
beast/machine metaphors. Di Capoa wishes then, to protect medicine not only
from mechanical applications of logical techniques, but also from premature,
reductionist applications of beast/machine metaphors. Aristotle offers a
'biological concept of the soul' as the 'first actuality of life', the
principle of life. IL PARERE DEL SIGNOR LIONARDO DI CAPOA
divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l
progrello della filosofia, chiaramente l'incertezza della medefima ſi fa
manifefta. SOMA I N N POLI Å Per Antonio Bulifon MDCLXXXI. Columa de Superiori.
1” All'Illuſtriſſimo, ed Eccellentiſſimo Sig. LCTEA IL SIGNOR D. FRANCESCO
CARRAFA Principe di Belvedere, Marcheſe d'Anzi, &c. On avendo io coſa,
Eccellentiſsimo Signor mio, che m'abbia in più pre gio di quel che fo la
padronanza voſtra, cerco per quanto poſso, di farla paleſe a ciaſcuno: ficome
altri fa il poſſedimento delle coſe più care, e prezioſe, ch' egli s’abbia, o
per ſua induſtria, o per fortuna ac quiſtate. Ho penſato dunque, che a ciò fare
io non potrei avere migliore opportunità di queſta, che mi porge il preſente
libro, che per mia gran vençura eſſendomi capitato alle mani, ho preſo a far
iſtampa re, s'io il mettesli fuori ſotto ilnomevoſtro, La ſcrit tura veramente
a giudicio di Voi medeſimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale, che
agevolmente poſ ſo da lei promettertii il fine, che m'ho propoſto;im perciocchè
ben toſto n'andrà ella per le mani delle perſone di miglior giudicio nelle
buone letiere, sì per per ta cognizione, che s'ha dell'autore dilei, doa vunque
ha di quelli, che ſe ne dilectano, sì perch' ella il vale, per l'eloquenza, e
doctrina, di che ſi ve de ripiena: oltre all'autorità, e fama, che le ſi accre
fcerà dall'iſteſso nome voſtro ch'ella porta ſeco. Poichè posſiam dire, che
poche ſono quelle parti d' Europa, ove non s'abbia conrezza diVoi, e delle
voſtre egregie qualità, o per la fama, o per la pre ſenza di Voi; ma che quaſi
tuttele havete cerche colle lunghe, e laudevoli peregrinazioni, le quali in
quella guiſa, che da Voi ſono ſtate fatte,ſidebbono riporre fra quegli ſtudj,
con che vi ſiete ſempre in gegnato, e v'è venuto fatto d'aprirvi la ſtrada allº
intera cognizione delle umane cofe, e d'accreſcere con le doti dell'animo, e
dell'ingegno lo fplendore ch'avete ereditato da'voſtri maggiori. Oltre a ciò
non doveva queſta ſcrittura venirne fuori ſotto al. tro nome, che'l voſtro:
mentre, e la ſtima, che Voi fate dell'autore di eſsa, e l'affezione, che gli
porta te, ficome fare ancora a ogn'altro huomo lettera to, e l'antica
dimeſtichezza, ch'egli ha con eſſo Voi il richiedeano. Ricevete dunque
ilpreſente dono, ch'io vifo di queſto libro, o per più vero dire, della
picciola parte, ch'io ho in quello, per l'opera da me polta in farlo ſtampare,
con l'uſata voſtra uma nità in ſegno dell'oſſervanza,ch'io viporto. E pre go
Iddio, ch'avanzi in bene ogni voſtro deſiderio; e alla buona Voſtra mercè
umilmente mi raccomando. Di V. E, Vmiliſs. Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo
Buragna; a'Lettori. E Gli sono già alcuni meſi paſati,che d'ordine del Signor
Vicerè fu tenuto conſiglio da alcuni Medici di metter qualche compenſo agli
abuſi, ed errori, che tutta via ſi commettono nel medicare. Edopo qualche ragio
namenti intorno a cotal biſogna avuti, diviſarono eglino, che per potere con
piis loro acconcio eſaminar le ragioni, eipareri propoſti, e da proporſi,
ciaſcuno doveſſe mettere in iſcritto il fuo. Perchèconvenne al Sig. Lionardo di
Capocs, che fu uno de’chiamati a queſta adunanza ſcrivere il parer ſuo intorno
a cotal materia; e parendo a lui, che ciò non fi poteffe fare acconciamente,
senza conſiderare innanzi tratto, e riandar con diligenza la natura della coſa,
che s'aveva a trattare, cioè della medicinz: sì il fece egli con tanta dottrina,
elo quenza, ed erudizione, che, ejfendo il ſuoſcritto venuto al le mani
d'alcuni huomini letterati, e altri amici di lui, par ve loro dettato più toſto
per l'univerfalità di coloro, che fi dilettano delle bettere piie eſquiſite,
che per haverfi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola, e privata
compagnia: comechè l'autore di quello non s'aveffe nello ſcrivere propoſto
altro fine, che di ſoddisfare al carico da quella impoſtogli.Sti marono dunque
coſtoro, che foſſe una tale ſcrittura dameia ter in luce per mezzo delle ſtampe:
e tanto fecero,che alla per fine perſuaſero il Signor Lionardo a farne loro
copia, e a con tentarſi, che ſi stampaſealmen queſta delle molte, e diverſe
opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure eb bero eglino
riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della lettura
di queſto fcritto, ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte di perſone,
e Spezial mente agli avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle cofe. Poichè,
vedendo eglino la varietà delle opinioni, edelle Seite, e le diverſe, eSpelle
volte contrarie guiſe di medicare, che fra i medici ditempo in tempofonvenute
sì, anche ſenza entrar coʻfiloſofanti in più ſottili Speculazioni, potranno age
volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4
derë, o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè dubbiofa, e
incerta, habbia in ſe dottrina, o principi, ſu i quali altri pola porre alcuno
ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di coloro,
che così fi dannoad intendere, espezialmente dove ne va la ſanità, e la vita.
Oltre a queſto, chi non vede di quanto frutto può rium Scire queſto ſcritto
a'giovani, che danno opera alla medicina? mentre dalla fola lettura di lui
potranno efi per avventura apparar più di ciò, che alla cognizione della natura
di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più
riputati, e folennimaeſtri di quella: e accorger fi a un'ora qual via
nell'impreſa del medicare ſi vuol tener da colui, che laſciate andarele
giunterie, e le ciance, intende Secondochè la condizined'untal meſtiere comporta,
faronore a fe, e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi. Ne meno faranno
efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere apertamente
quanti, e nella medicina, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e fono di quelli,
che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o norciès o pure
non ſi ritro va; e, come dile il noſtro Dante, Trattando l'ombre, come coſa
falda. Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler dimoſtrares chente, e
quale, e quanto profittevole, e dotta fi fia queſta ſcrittura, a ſufficienza il
lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche non eſſendo ella fata dettata
a fine d'averſe a divolgare, non per queſto rimane, ch'ella non corriſponda al
la fama dell'ciutore di efsa, e all'opinione, che portanodi lui gli huomini più
intendenti, e giudiciof. Sta ſano. EMINENTISSIMO SIGNORE A I Ntonio Bulifon
eſpone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un libro intitolato Parere del
Signor Lionardo di Capoa, intorno alle coſe della medicina, per ciò ſupplica V.
Em.commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, & c. N
Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo
Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum, quod
R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat, & in ſcriptis referat eidem
Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs.
EMINENTISSIMO SIGNORE O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor
Lionardo di Capoa: intitolato Parere intor noalla medicina, ne vi ho ritrovato
coſa alcuna con traria alla dottrina della Fede, overo a' buoni coſtumi. Per
queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità, e per ammaeſtramento
degl' ingegni curioſi di recondita, e fruttuoſa filoſofia. 13. di Aprile 1680.
HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi.
N Eminentiſs. Dom. Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum,
quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris, imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN.
1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio
Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato
Parere del sig. Lionardo diCapoa, intorno alle coſe della medicina, perciò
ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, &
c. Magnificus Michael Biancardi videat, &inferiptis referai. CARRILLO REG.
CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680.
Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto
il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della
inedicina, e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie
giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita.
In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa
ſupraſcripta relatione, iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia
Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA: RAGIONAMENTO PRI
M O, 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa, o Signo ri, che più ragguardevole
comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroſo Prin cipe, quanto
l'adoperar sì col ſenno, e colla mano, che i Popoli alla ſua cura commeſſi non
vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente oltraggiati.
Ma non è opera per mio avviſo men laudevole, e generoſa il render loro poi
ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più gravemente nuocer
ſogliono,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella carità
aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e compaſſionevoli
al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli, che rade volte,o
non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no. E nel vero, che monterebbe
eglimai l'uſcir talvo, e ſicuro da' manifeſti riſchi della guerra ad huom, che
poi nella tranquillità della pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi
pericoli inavvedutamente cader doveſſe? Anzi queſti di tanta maggior
compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi, e più dure, e lagrimevoli da
giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella nave, che
ſcampata da più alti mari, giunta poi in bocca del porto miſerabilmente virompe.
Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo, e faggio avvedimento -
del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè; il quale auendo con maraviglioſa, e
incredibile felicità il primo ottimamente compiuto; e reſi vani gl'in
tendimenti, e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i
mari, e le terre, ad ogn'or di ſangue, e di fuoco ne minacciavano; e ſgombrate
ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che le ſtrade
tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni ſtudio, e
diligenza và riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella perſona
miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della Medicina. La quale per ciocchè a
ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della ſperienza,
e della noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di qualche
giova mcnto al comune: così allo incontro s'egli mai avvien, che fi torca à
ſiniſtro cammino, affai più delle malattie mede fime dannofa fi ſperimenta, e
nocevole al genere umano. Nè prima alla notizia di lui gl’infelici avvenimenti
d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le Chimiche medici ne forte
s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per noi con minuta diligenza li
cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar riparo: e inſieme di preſcrivere
a Medici, ove faccia meſtiere, certe, ſicure, e falde regole nel loro operare.
Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo quan te, e quali ſian le
malagevolezze d’un tale affare, tante fra me mcdeſimo confuſo oltre modo, e
fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre biſogne di gran conſide
razione interviene, o che natura di tal'arte nol patiſca, du ro molto, e
malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la appartenenti. Perchè amerci
più toſto ſenz'altro fare, tacendo di non darmene briga, ſe non fapelli, ch’in
sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti di colui, icui senni,non che
le richicke debbo di preſente, ſenza replica alcu Del Sig.Lionardodi Capoa. 3
alcuna, e con ſomma venerazione ſeguire; da' quali ſol moſſo, ed anche dal
giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di
grado mi vilaſcierò entrare. Ed acciocchè ogni diliberazione, o partito,
ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non rie ſca,
tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi; diviſando in
prima le malagevolezze, in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o
Maeſtrati; ma Medici ancora, comechè faggi, e intendentiſſimi in dare ſtabili,
e certe leggi alla Medicina; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura
incerta, e dubbitoſa, ed incoſtan te. Indi poi pian piano, e con diſcreto
avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo, col quale quanto law natura
della coſa comporti, un buon Medico, ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne
altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole, ed a
propoſito ſia per riparare alle perpetue, e quaſi fatali calamità della
Medicina. E per cominciare dalle memorie più antiche, laſciando da parte ftare
quanto poco duraſſe in India, in Babilonia, edin Afiria quel lor diviſo di
dover allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer
cura ti da’ viandanti; nell'Egitto là, dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj
nacquero in prima, e fiorirono, ſolamente a’Rè, ed a' Sacerdoti, ed a pochi
Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto; onde da Manetone fra'
Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima
dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia: e
Tofortro Rè della terza dinaſtia, la qual’era de'Menfitani. Ma poi tratto
tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò, eziandio colla minuta plebe; e tan
to il numero de' Medici s'accrebbe, che ben per ciaſcun male era il particolar
Medico ſtabilito, che ad altro malo re non dovea por mano, come ne dà
teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre, con queſte parole:; dè
intpoxaj A κατα: 1 2 I Strab. lib. 3.8. 16. Ragionamento Primo κατι δέ σφι
δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι
μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής, οι δε όδόντων, οι δε τών και
νηδήν, οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per
ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico: Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin
gombro,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo, altri i denti, altri le
parti del ventre, e altri i mali interni, e na Scofi. Rimaſa poi in man
ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri, quanto cadendo
dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed
ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento, che come dice
ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia,
allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire, ma
coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero. Perchè ſicome ſenza fallo è da
credere, fù a’Medici, come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il
traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri, a' quali ſe alcun contrave
gnendo interveniva, che piggiorato ne foſſe lo infermo, n'era perciò
acerbamente punito,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις
ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα,αθώοι παντός εγκλήματG-
απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel
vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e
d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così
agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda
autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον,
αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω
δε και αυτός τη τεπείρα, και ταλόγω. ciοε, πότερον αληθές εςιν, ή fèuda ö yayçá
Daci, Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri
libri de gli antichi; che non così di leggieri foglio commendare ciò che
ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto;maprima il vò ben’io ejjaminando
colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia;ſe pure egli, che
valente maeſtro di loica era, per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in
su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor Del Sig.Lionardo di Capoa. 3. i
lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati, finche paruti fof ſer conformi a ciò
che più gli era a grado. Coſtuina, che più di ogni altra han poi ſeguita, e
ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo, i quali in tal guiſa i ſuoi
detti sformano, ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir
tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero. E forſe gli Egizziaci medeſimi con
iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il
proverbio: fatta la legge, penſata lamalizia. E a tanto giunſe per avventura la
lor traſcutata arditezza, che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni, e per lo
più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova
ne publicarono, ſecondochè ne narri Ariſtotele con quette parole: Εν Αιγύπτω
μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε"
κινδύνω, eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno, che
fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo.La qual mellonaggines
non ritrovò gran fatto, ch'io mi creda, ricevitori, ſe mai avviſarono quanto di
leggier poſſano avvenir que’mali, a? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti
anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la
ſtato ſarebbe quel Medico, che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della
propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i
quali come nell'arti, c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra
nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro: non mai dar vollono determinate
leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio, che
ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in
condegna pena la ſola infa mia portata: και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν
τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns, la quale a coloro, cui preme
l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e
nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice: Μόνω. 2
Ippocrate, 6 Ragionamento Primo 1 111 Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν
αποκτείναν μεν, αποθνήσκαν δε μη. Cioè a dire, al Medico ſolamente, ed al
giudice fi permet te uccidere a man ſalva le genti. Piacque ciò anche all'al to
ingegno del divino Platone, laſciando egli così nella ſua Republica ordinato:
Aniuna pena fia,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro
ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε
arvoſi xabago's tsw na odvopov. Dal cui divilo non punto ſi di lungo Luciano,
ove diſſe: L'arte della Medicina quanto di maggior pregio è degna, e più
dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di
libertà'; e convene volcoſa è, che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai
liga ta, o foggiogata da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e
diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle
leggiſottomeffa, e al timore, e alle pene acTribunali. π δε της ιατζικής όσω
σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι
προσήκει τοϊς χρωμένοις, και πνα πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία
της χρήσεως, αναγκάζεσθαι δε μηδεν, μήδε ποσάττεσθαι, πράγμα ιερον και θεών
παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ'
υπο φόβος και auweiar dixæsnetw. E cõciofoſſecoſa, che frà Greci gli Ate nieli
ſolamente vietaſſero alle donne, e a'ſervi lo ſtudio del la medicina; non è però
gran fatto da lodare, per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto;
perciocchè,co me più avanti diraſli, lo intendimento di valoroſe donne contro
al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più
alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura più volte animo, e
ingegno alla libertà fi loſofica acconcio: perchè a ragione non guariappreſſo
fù rivocato: rapportando Igino: Obſtetricibus neceffitatis, honeſtatis gratia
ufus medicina tandem ab Athenienſibus con ceffus fuit. E molto meno dovrem noi
credere, che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco, che tal potremoſenza
fallo quella ſua legge chiamare, colla quale non altrimen te, che ſe veleno
ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati
Locreſi, ſalvo ſe prima non ne ayer 1 DelSig. Lionardo di Capoa. aveffero da
loro Medici la licenza ottenuta. 3 Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον
α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν
άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. La Romana Republica, che non pur nel
governo militare, ma nel politico ancora avanzò di gran lunga le greche tutte,
e lebarbare nazioni, giudicò convenevol com fa il non commetter ſenza freno
alla balia deMedici la cu sa della vita de gli uomini; e perciò preſe per
partito, che Aquilio Tribuno della plebe, non so ſe Gallo, o altro e' ſi
fofíe,con un plebiſcito, il qual fu poi annoverato infra le leggi di
Roma,qualche penaa'loro fallimenti iinponeffe, per la qual’accorti divenuti
foſſero, e cauti nell'operare. Non per tanto dimcno è da credere che legge
tale, o ple biſcito, che ſi foſſe, non mai ſi metteſſe in ufo, ch'altrimen te
avrebbe avuto il torto Plinio di ſclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. +
Nulla præterea lex punit inſcitiam capitalem, nullum exemplum vindiétæ: indi
ſoggiugnere: difcunt periculis noſtris, experimenta per murtes agunt: ed in fin
conchiudere: Medicoque tantum hominem occidiſe fumma impunitas eft. Ma vi ha di
vantaggio ſecondo il me delimo Autore tranfit convitium, &intemperantia
culpa tur, ultroque qui periere argauntur. E perciò immagino, ch'in compilando
i Digeſti per commandamento di Giuſti niano a bello ſtudio traſandaffero que
celebri Legiſtila fentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo ſopra la
legge Cornelia de Sicariis. S Si ex eo medicamine, quodad falutem homini, vel
ad remedium datum erat homoperierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in
inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur. La quale a giudicio di
quella grand'animadella civil ragione GiacomoCujacio, alla già detta legge
Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il Medico ſanandi,non
nocendi animodedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta, e ne’Di
gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo della legge Aquilia, ma
ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano, SicutiMedico imputari eventusmortalitatis
non debet, itad quod * Elannt. lib 2.9.cap.z. lib.recept.lent. 6 Cuias.in Ang
Corn de Sioar. 8' Ragionamento Primo tores quodper imperitiam commifitimputari
ei debet, ebo pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo
homines innoxium eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente
fur meſſi in uſo cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e
molti anche dopo lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze
l'acca gionaſſero; infra’quali il dottiſſimo Agnolo Poliziano in una ſua
piſtola al Leoniceno così ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem, quod in
fegraſari tamdiu impune tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum
vitæ fpem pretio emat, unde mors certifima proficifcatur,e'l Vives co sì grida:
Errata illius (del Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur,
e Battiſta da Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi
ægros, homineſqueimpune necandi. E un Satirico Italiano ſcherzando col titolo
del Dottor dice a queſto propoſito medeſimo del Medico: Mapoichè un tal ci può
donar la morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte
E'l noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo, hoc tamen ipfo -ſecuri,
dice parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem:
immo vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt:
nam cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur. E un'altro Autore:
Si quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula
pænas? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos
demittitis orco.? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades
inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu, laudemque parare.
Edavvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici, perche non
gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore, nondimeno
l'eſfemplo d'un tal DelSig.Lionardo di Capoa. 9 tal tiranno non può dar vigore
a leggeniuna; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli
ſcrit tori del ſuo ſecolo, ſicome anche Aleſsádromeritevolme te riportò titolo
di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia Medico, per
ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino
Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e
umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i Medici già alla morte
dannati, perchèlui aveſſer malamente cnrato, volentier permiſe, che liberaci
foſſero da Democide illuſtre Medico da Cotrone. Ma non però creda alcuno, aver
iMedici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata; anzi egli
è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli
quaſi affatto ſpenta, e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier
della Medicina, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed
in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario
aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo, e le fatiche dietro ad un'arte (ſe
pur arte poſſiamo chiamar la Medicina, non avendo quella niuna certa, e filla
regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a
conſeguire, e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè
qualmaggior noja, e ſpiaci mento, che quel di colui, che continuo ha da
bazzicar co? malati, e veder ſempre, & udire l'altrui miſerie ſenza aver
talora opportuno argomento da riſanarli? Ed è anche malagevole ad imprendere, e
incerta ſempre negli avve. nimenti: imperocchè nella cura delle malattie non
meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor
parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto
benigna coſtellazion nato. Ed o quanto aſſai ſoyente avviene, che contro ad
ogni avviſo umano, ficome ſcriſſe Celſo, etiam Spes fruſtratur: & moritur
aliquis, de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed: Ippocrato medeſimo avvegnacchè
altiſſimoMedico, & avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a? !. 10
Ragionamento Primo giudicato, purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia
limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov
xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o
impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da
dapocaggine de' Medici più toſto avvengano, o da natura delmale, o da altra
interna cagione, in cuiſenno alcuno, ne umano provvedimento giammai non vaglia.
Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono,maſſimamente
delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate; perchèdiceva anche Celſo: Neque
ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis,&
mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta
anche di preſente, iveleni per ſubitana, o precipitazione, o coagulazione; e
può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Eſculapio medeſimogiudicherebber
faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori, che quando egli men ſi
crede ſian, valevoli ad irreparabil morte condurlo; e ciò anche nel tempo
ſteſſo, che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi,
e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni
medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano, tal
curbamento dentro cagionare, che l'ammalato le new muoja avanti, che noi col
noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi: 8 Quæque medendi caufa
repertow ſunt (comene fà teſtimonianza Celſo ) nonnunquam in pejus aliquod
convertuntur, neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate
corporum poteft. Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato
co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del
mondo determinare. Ma su concedaſi, pure, che per legge ſia a' Medici l'uſo del
medicar preſcritto: come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la
travalicaſſero? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto, acciocchè poi
ſecondo il diritto delle leggi vi ſi procedefle? E chi baſte volmente non sa
quanto i Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6. DelSig. Lionardo
di Capoa. IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti? Perche oda paleſe
nimiſtà, o dacoperta invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti
dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle
coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro, che di giuſtizia dovrebbero,e dannoli
a divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio; ſenza
che il timor della pena, in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre
ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me
ſtiere dipiù efficacemente operare; ed egli timido, econ fuſo per non porre a
riſchio la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani
penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del
vulgo, comechè falſo, e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi
uſerebbe. Coſa, chepiù ch'altrui a'Medici de Principi, come avvisò il Cardano,
avvenir ſuole; i quali per tema non pur dell'infamia, ma di mal maggiore ſi ten
gono di adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di
propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della
Medicina non guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano. Compativano
anzi che nò i Romani Maeſtrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben
ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò lo im perio di Roma, come
all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi
per operar ſempre mai ilcontrario. E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani
feſtarono i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta
univerſale del lor comune, quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono
il Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento
de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza, e miſerabilmente
con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto. E forſe la morte data al
Vitelli fu an che una delle principali cagioni, onde i Fiorentini traditi dal
Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non
ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi
B 2 de' 12 Ragionamento Primo 1 ! de’Romani da noi teſtè rapportate, nõ già per
li valétiMea dici oMetodici, o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma
ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo
coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare, ma
quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi;come agevolmente ſi può
ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere. E
certamente in coſtoro ſolamente da credere, ch'aveſſe luogo l'ignoranza
dell'arte; per ca gion della quale furono in Romacontro a' Medici ordina te le
leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente
punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione,
quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de
gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa,
venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto; avvegnacchè poi cotali
divieti poco, o nulla fian melli in uſo. E ben d'eſſo loro a gran ragione dice
Anneo deRoberticiocchè degliStrolaghi diſſe in pri maTacito: Genus
hominumpotentibus infidum, Sperantibus fallax: quod in Civitate noſtra
vetabitur femper; & retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del
Roberti; che i cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie
tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e
gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti, e con lor ciarle, o rattengono gli
ammalati, che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure
con lor nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente
per avventura furon prima digradati, c poi nella perſona condenvati que'
viliſimi paltonieri nel reame di Francia, ch’in vece diguarireil Rè Carlo Seſto,
preſſo a morte coʻlor medicamenti, e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero. Ma
egli fu per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando
in mano di giuntatori, e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li
s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori, così do 1 veali Del Sig.Lionardo
di Capod. 13 veali toſto e ſenza niuna pruova fare, o aſpettar di lor pro meſſe:del
temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza, edaſtio
de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come
potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli, o i
Maeſtrati, i quali po co, o nulla per la più parte di quella s'intendevano; le
a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per
lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella ſentivano? Inventore per
quel che fi creda, o almeno antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſcula
pio, e come ne da teſtimonianza Ippocrate, o chiunque altro fi foſſe l'autor
della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli
preſcriffe: ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ
fenne; quròs, dice e' parlando d’Eſculapio, è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι
των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano lirico, che Solchi onde, in
rena fondi, e ſcriva in vento colui, che dietro lo ſtabilimento di sì fatte
regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa
di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto, e
tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri, e
più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più
rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra: pure fra gli anguſti limiti di
pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri
l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ; e'l nostro Seneca:
Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum; anzi in quel dolce, e
ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo,
e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean
que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9
Ercol.Bentiv.Satir, 3. 14 Ragionamento Primo Non davan l'erbe, ne'lfapere
ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca:
Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem,
voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato,
eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre
l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo, o
da bruti animali, o dalla propia induſtria venian manifeſti. 10 Perchè
ragionevolmente credeſi, che Age nore, e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi
di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo
είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα
μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone
ritrovatore del Panace Chironio: πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι
κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο
δείρη narra 11 Euſtazio, ch'eſſendo egli nella mano ferito, oco me vuole
Plinio, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ
ποπτην χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio,ilquale
inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε
φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che
medicaſſero altresì non con altro, che colle fole piante Ercole, onde traſſe il
nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e Apollo, e Arabo, e Cadmo, e Bacco
per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in
pregio il vino, medicamen to poderoſo, e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo
la gran virtù dell'edera, la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni, che
provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato, ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον
οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το
τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και
τεφανά. σθαι διδάξαι τα βακχένοντας, ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο, τα κιλά κα
ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo
Plur. u lib.i'lliad Del Sig. Lionardo di Capoa. Is 2 την πιο ταύ
πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore
del Panace Aſclepio, col quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio
d'Ificle: a's" χει και πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG-
ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν
ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle
cure de gli altri fuoi inferimi anche adoperare. δ Ασκληπιον τέτω λέγεται
Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed
Amitaone, e Melampo, il quale come ſi legge in Dioſcoride dell'elleboro
ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @
toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained, cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos
ĉ beeg Tolcay, e Podalirio, e Macaone non d'altro, che d'erbe fi valfer pe'
feriti dell'oſte greca, e prima della guerra Trojana Medea, come narra Diodoro
coller be guarì le ferite di Giaſone,di Laerte,d’Atalanta, e di Te fpiade.
Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους·
τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass
DeexWeu Iñvou. E Trifone appo Plutarco in nalza, e loda ſommamente gli antichi
nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß. Quindi provati più volte, e riprovati poi
i lor medicamenti, dieder la prima bozza all'arte del medicare, como cantù
Manilio: Per varios caſus artem experientia fecit Exemplo monftrante viam.
Macome pochi, e ſemplici erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici
altresì eſſer dovettero allora le regole della medicina: quindi per gli errori,
ne'quali puotè age volmente incorrere la ſperiêza,abbiſognò,che cotali rego
le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler faccia,cam biandoſi tuttavia, è
migliorandofi i primi medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio
a far manifeſta la ſua incoſtanza. Ma non guari così ella in man delle ſemplici
perſone riſtette, che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i
quali è da credere, che da prima da 16 Ragionamento Primo da ſola curioſità, e
diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me? dicamenti tratti vi cifoſſero; ma pian
piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia
ſimando, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le
prime fondamenta gittarono della razio nal medicina; comeche Euſtazio ne faccia
Podalirio il primiero inventore, ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco
appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire:
onuéte? Quiséger G Astana's (ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι
)συνέςησε την ημετέραν τέχνην. ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε
του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς
πλησμο νην και κένωσιν, και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον
έρω το, 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα
έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι: και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα
μενG- εμποιήσαι, και εν όντα εξελεϊν, αγαθός αν είη δημιουργός: δεί γαρ δη τα
έχθισα όντα εν τωσώματι, φίλα οΐόντ είναι ποιείν, και έραν αλήλων, έξι δε
έχθισα, τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί, ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα
τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν. Ma non per tanto non
ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze: e
come varj erano, e diſcordanti quei, chela cſercitayano, così varia ella ne
divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con
iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta; intanto che
da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe, come Celſo avviſa, parte di
quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella
fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico. Or coſtui come rio
traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginna fio, di cui egli era
Mactro, cpriino miniſtro, cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno,
che gliene faceva, a coltivarla medicina con tutto l'aniino, e conogni ſtudio
maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnaſtica congiugnendo, e preſcrivendole
alquante regole da lui per via della ra gione, e della ſperienza daprima
ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle
incominciaſſe. E illo DelSig.Lionardo di Capoa. 17 E allora venne ella pian
piano a perderdella filoſofia l'an tica uſata dimeſtichezza: comechè Celſo, ed
altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto.
E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare,
ed Eurifonte, e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dallafiloſofia le
coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero. Ed avvegnachè ad alcuniciò
ſembraſſe ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina; non però di
menomolto manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui, ch'alla verità delle
core voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo
nocimento ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di
por mano alla media cina, e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te
diviſando, per poco di razional non le rimare, altro che'l nome. E giunſe a tale
sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente
s'affaticava no: e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a
credere alle genti. E Galieno pure osò dir d'Ippocrate, aver lui certamente
gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da
Platone, inveſtigar la natura, e la generazione delle qualità di que'loro quat
tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa, ela malli... turta del mondo
cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente,
e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente,
compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento, o
dalla meſcolanza del caldo, e del freddo, e dell'umido, e del ſecco ingenerarſi,ſenza
più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla
medicina coſa più offendevole, c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo
ne' Medici, che razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto
tratto mancando, più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc
dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri
per vaghezza ſolaméte della verità con C trila 18 Ragionamento Primo traſtar
ſolevano, allora affondati tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli
appoſtamenti, non rifinarono di piatire, e riot tare, e carminarſi l'un
l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi maeſtri, e ritrovatori
dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della medicina, era allora poco
a capital dalla fciocca gétese volgare torma de Medici tenu to, rimproverandoli
apertamente eſſer luiciarlone, e mil lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine
anche il cacciarono; perciocchè avendo egli dall'altrui urmanità, e corteſia
law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no
altri dapprima per propria induftria ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in
maggior pregio,e gloria formontar ne doveſſe incominciò lo ſcaltcrito,e fagace
pá cacciere,avédone appreſa l'arte da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a
cicciar carore,e far l'indovinello,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar
le genti. Proverbiò altri Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli
bergol foſſe, è di poca fermezza in mcdicando;e non poche be ſtemmic ancora li
furono ſcagliate per la ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina
d'ogni altro, ficome narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della
medicina in profan’uſo rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a
un'infermoPrincipe vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè
giuſtamente eglimeri tóne poi cffer fulmimato,ed arſo daGiove;e laſcionne a'pe
fteri un così ſeoncio, e così abbominevole eſemplo. E ol tre a ciò dicono,ch'egli
in far l'indovino, el malioſo, ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre
Apollo digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e
all'arte divinatoria per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio
aggiungono aver lui con mille modi, e artifici fconvenevoli dato a divedere
altrui, ficome fè ſuo pa dre, che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita
riporre; e che in sì fatta gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar
fi proccuraffe. Ma per recarvi le molte parole in una, e'conchiudono alla
perfine, ch'Apollo poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa: 19 la di
medicina s'intendeſſe: e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio;
perciocchè sfidandoſi colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente
ammaeſtrares, fotto la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere.
13 E coſtui dopo cotanto ludio, e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo,
che per guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon
nome; e le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo
una cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava, fuora al malato chi sà che gliene
farebbe ſeguito? E'l ſuo gran Maeſtro Chirone non che altri, ma ſe medeſimo cu
far non valſe, allor che a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga
rinuncia della vita, e dell'immortalità 2 Prometeo, e così uſcir valoroſamente
fuor d'ogni impac cio. 13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere, re vere
foſſero quelle tanto maraviglioſo, e tanto impareg giabili pruove, che di lor
falfamente la menzoniera anti chità và millantando. Così per avventura gli
aftioſi con tradittori di que'primi maeſtri favellano: c Io ancora a vo lerne
dire al preſente ciò, che me ne paia, non mi ſembra gran fatto da porre in
dubbio eſfer que’ primi ritrovatori della medicina appo'Greci poco in quella
cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora, quando colletà in cia
lcuno ſtudio, carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone,
moſtraron'altresì d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome,
e pregio per tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla
noſtra credenza rimanerci; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice,
e creſcente mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime
opere della medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto
a’Medici; perciocchè ogni lor grave fallimento, ed errore in medicando,
eſſendo, come diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra; e
allo incontro appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve
ne'vivi da loro riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro.
RagionamentoPrimo agevolmente acquiſtar loda, e pregio immortale. Senzaa chè
nelle più ribalde, e cattive perſone certamente ciò avviene; le quali ſicome
aſute, e malizioſe ſi van procac ciando per tutto favorevoli, e parteggianti; e
dalla vera fapienzalontane non laſciano qualunque froda, 0 giunte ria, onde
preſſo la minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è
certamente da giudicare eſſere ftati coſtoro, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi
giunta tori, e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti
eſempli,chea gran dovizia potrei ritrarre dalle anti che, e dalle moderne
memorie; ſolamente non laſcerò di rapportarc,effer'antica fama,che Acrone
d’Agrigéto aveſ ſe una volta damortifera peſtilenza liberata la Città d'A. tene
colle grandi luminarie, e fuochi, cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da
fuoco avvenir poſſa, non che da altro,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne
habbiamo potuto ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate.
E Toſſare ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori
divini; perciocchè, come narra Luciano, in tempo che Atene era più che mai
dalla fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata, e ſgombra, diceſi
eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago,e averle
ſicuramente det to, che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di
preſente farebbcſi attutata la peltilenza; e ciò facendo co loro, dilubito,
conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti, δπι της ελάδα κατά
τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ
λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον (8 ' γαρ
ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io
amereil'uſato ſuo avvedimento in Luciano, il quale ſcioccamente ſe'l crede, e
va fantaſticando, ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino, i quali
trameſtati all'aria Paveſſero purgata, e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi,
che l'infcrtavano.Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo
lungo ſterminio,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male; perchè
dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e
poco giovevoli ar gomenti, e non più toſto per isfogamento, c periſtracce del
malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti
giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per procacciarſi
loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè
poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro, che alla natura del male
attribuita. Artificio,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri
tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có quella gloria,
che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar déti,glivien
ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che diceÆfculapius: primus
dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per lui fatte sì rare,e si
ma raviglioſe elle ci vengano in tante, e si diverſe guiſe nar rate, ch'elle
come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da dire del tutto favoloſe,
wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης
Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό
μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio alla ſua maggior gloria formontato
per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti alquanti di coloro ch'in Tebe crano
trapaſſati; ma Polian to dice ellerli Eſculapio refo ragguardevole per eſsere
ſta ti di ſua mano riſanati alquanti per iſdegno di Giunone impazzati. E
Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto ſtato commendato peraver da morte
ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver
ri congiunto, e riſuſcitato Ippolito ſquarciato in cento brini da fpaurati
corſieri.Ma Filarco rapporta tutto il ſuo buon nome, e onore dalla viſta
ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto dirivo. E Teleffarco
finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra ' Dij,perciocchè tentato aveva di
riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν Εριφύλη ειπων, όπ πινας των επι
Θήβαις πεσόντων και ανισά. ΠολύανθG-δε ο Κυρηναίς, εν τω πρί των Ασκληπιαδών
γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο.Παρράσιο-
δε, δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα · τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων, όπ
Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo
1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε
μένος φήμες. ΦύλαρχG- δε, εν τη εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας
απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως. Τελέσαρχος δε και εν
τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò
per eſser tenuto di ligente, e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi
nevoli fuſſero? Egli volle (liçome narra Cclio Rodigino, c venne in ciò
Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe
ciò necellario ancor foſse a rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi
da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to, e
Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no ftro Azzio Sincero. Efe idem
poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio
gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre
molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre fraſche,e giunte rie, ch'egliuſava;
ficcando carote alla ſciocca gentane, c tenendo in sù la gruccia con ſuoi
cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva
con qualche lode eſſercitar la medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti,
Melampo con sì fatti artificj, e fanfaluche, oltre alla fama grande, che gliene
ſeguì, di povero conta dino, ch'egli era, inſieme con ſuo fratello divennero
ric chiſſimi Principi, e ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto, e
mariti delle figliuole di lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel
che ne dica Apollodoro, Li ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e
Celene; e che o per lo troppo uſo del vino, o per opera della Reina di Cipri
impazzare andavan paſcendo brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli
della Morea, e d'altri paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc, la qual prima di
eſser medicata ſe ne morì: delle quali narra Virgilio nella Bu. colica:
Pretides impleruntfalfis mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla
fecuta eft Concubitus; quamvis collo timuiffe: aratrum, Et 1 Del Sig. Lionardo
di Capoa. 23 Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte. E che per opera di Melampo
poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro
nero, come vuol Dioſcoride; avvegnachè Galien giudichi, e con più falda ragione,eſsere
ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse. Il qualmedicamento apparò in
prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto, o più toſto dalle capre,
ch'e'guardava,come ſcrive Plinio; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano.
Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite
non già coll’elleboro, ma con latte di capre paſciute in prima di quello; e
altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo, che loro il ſenno
ricoverato aveſse; ma un'altro Melampo detto l'indovino: E Polianto ciò ad
Eſculapio attribuiſce, ſicome narra Seſto Empirico, ed Eudoilo appo Stefano
antichiſſimo Geografo: Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo
dopo lunghe cerimo nie, e facrifici,e ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz
zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio;
perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi
rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το
μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον, Της μέν από
κρήνης αρύσαι πόμα, και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον. Αλα συ
μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης. Φεύγε
δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης
Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν
αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di giudicar di
verſamente quella cura: e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente,
e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per noiavviſar fi
poffa, egli ſi pare, ch'amena due i medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati;
perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio:. Clito 24 Ragionamento Primo
Clitorio quicumquefitim de fontelevarit; Vina fugit: gaudetquemerisabſtemius
undis, Seavis eft in aqua calido contraria vine: Sive, quod indigena memorant,
Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen, &herbas Eripuit
furijs;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri permanfitin undis.
Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero Ferrareſe volleche
Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato Orlando pria che gli
da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette
volte, E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo, e da le membra folte
Lava la brutta ruggine, e la muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti
artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi
van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i
ſogni, e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a tutti che
gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare, e che avendoſi egli
allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto
filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p
paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti
degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών,ε'σης
πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των
θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων
νερατους έθρε. ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ
εκατέρω: ma's exca's Txis gaca sesi exclougor. o de avasara moi gerópfu were
δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία. και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna
arte dunque gianmaiebbe, per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne,
e colle frodi, e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual
cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che
non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3. di van Del Sig.Lionardo di Capod. 25
di vantaggio mi v'affacichi. Non però di meno non laſce? rò d'accennare le ſtrane,
e ridevoli cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte,
acciocchè poi più ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati
foſſero i lor medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno; perciocchè
dubitavano non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja
vi foſsero in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben
ſi guardaſse dal verto contrario: e prima dicavar la formavale con un coltello
incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta
verſo Occiden te: e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le
andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce,
e laſcive, come racconta Teofraſto con quette parole. Περιγράφειν δε και τον
μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω
περιορ - χεΐσθαι, και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των
περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ. Le Quali poida Plinio
nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate. Cavent, dice egli,
effofuri contrariun ventum, & tribus circulis ante gladio
circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori
cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che
altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le
gittavan ſopra del ſangue metruo, o dell'urina delles donne, quindi cavandole
intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane; il qual poi
chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra, e di preſente ne
moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου
περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην
αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε, περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα
τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει
και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile, che il tralaſciar da
parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza
d'ingegno ar gomento ſia? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche
Galieno? ecco le ſue parole: coloro tutti da giudicar fono, anzi forſennati,
che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere, ed apparar da'
ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni. Ealtrove
il medeſimo autore: è dottrina da tiranno, e piena di confu fioni, e di contefe
quella di coloro, che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia
leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna; e ſe non
altro, va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi, Giovanni Scoto 54
Ragionamento Primo Scoto, ove dice, che tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no
dar fede, degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſap piano di vantaggio, che
chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione, diqualunquc Serta egli ſi ſia,
debba pure con quel gran lume della Galienica, e dell'Ippocritica medicina
Niccolò Leoniceno dire: non debemus profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut
aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc
enim verè effet alienis oculis videre, alienis auribus audire, alienis naribus
odorare, aliena ſapere intelligentia: ac nibil nos aliud quam lapides effe
ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus committe remus, nihilque à nobis ipfis
diſcutiendum putaremus. E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galic
no (1) oltremodo tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento;
cioè, che un pubblico lettore uſato lun, go tempo, ed invecchiato in ſu'libri
d'Ariſtotile, abbatté. doſi per avventura un giorno in una notomia, e veggendo
manifeſtamente la vena cava dalle innumerabili fila, ora dici, chę ſon nel
fegato la ſua originç trarre, tutto ingom, bro, e pien di maraviglia, Come chi
mai avf4 incredibil vide, confeſsò, che nel vero per quel, che gliene
moſtraffero i fenfi la vena cava diramar dovelle dal fegato; ma non per ciò
egli credédo a' fenfi contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile, il quale
tutte le vene nell'huomo aver principio dal cuore, coitantemente afferma;
perocchè,diceva egli, più agevole allai eſſere, i noſtri ſenſi talvolta
ingannarſi, che il grande, e fourano Ariſtotile in errore alcuno giammai eſſere
caduto. E più avanti cbbe di male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun
diinoftro in brigata d'huomi ni letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna,
la qua le a ficvol lumicino di candela liquefacevali, con tutto ciò per
difender oſtinatamente il ſuo Ariſtotile, negante law medeſima coſa, osù pur
dire, che quel dalui veduto non era miga graſcio. Maaſai per certo piacevole
egli ſi è ciò, che a tal pro poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un '
profondo 1 1??30, (1 ) Santoro. DelSig. Lionardo di Capoa mac ro in iſcriteura
peripatetica, perchè non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle,
ed altre nuove core dal gran Galilei in Cielo ravviſato, ricusò l'ajuto dell'oc
chiale; e ch’un altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da
lui una di quelle picciole rane, che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato
ſpicciano, per non eller altresì coſtretto a confeſſare, ch'elleno non s'ingene
rino nello ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io
ferbero di narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo
medico Proſpero Mar ziano in Roma s'accrebbero? il quale di non volgare dot
trina, e di faggio avvedimento fornito, quanto avea dita lento, ed'induſtria,
tutto glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè
manifeſtamente a vede re, che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non
avelle comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio. E ciò anche
Pier Caſtelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in
iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti: Galenus, vel non intel.
kexit, vel intelligere noluit Hippocratem, & Platonem, ut ſua extarent.
Quindida'rimproveri, e da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio,
ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando, non
ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro,
ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse: il che
già prima di lui piena mente Girolamo Cardano avviſato avea; anzi per ſentimé
to d'Ippocrate vudl, che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare
affatto abborriſcono. E queſte, ed altre buone dottrine il valent:huomo del
Marziano faggiamente manifcftando, ravvivò con eſle la caduta, c quali eftinta
ferta del ſuo caro Ippocrate. Ma non ſolo come fin ora abbia dimenticato una
dona na, la qual comechè tale, pur merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili
letterati annoverata. Io dico la Signoras D. Oliva Sabuco: Co Ragionamento
Primo 1 Coſtei gl'ingegnifemminili, egli uſi Tutti Sprezzo fin da l'etade
acerba: A’ lavori d'Aracne, a l'ago, a' fufi Inchinar non degnò la manſuperba:
Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile abbondevolmente fornita,
animoſamente fi iniſe col cere vello, e con l'animo ad inveſtigar le coſe
naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior utile, e prò la
mente rivolgendo, acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche concio ne
traeſsero, ad un nuovo, ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè
maraviglioſamente principio. Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo Secondo
d'e terna,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta.
Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la
medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no aver
enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza
propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente
losſabios y ChriſtianosMedicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto
juyzio de otras facultades, y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di
poco appreffo: y el que no la entendiere ni cumprehendie re, dexela para los
orros y para los venideros, o crea a law eſperiencia, y no a ella, pues mi
pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina
de Hip pocrates y Galeno dos mil años, y enella han hallado tan poco effecto y
fines tan inciertos, comoſe vee claro cada dia, y so vido enelgran
catarrotavardete, viruelas, y en peftes paf Sadas, y otras muchas enfermedades
dondeno tieneeffetto al guno, pues de mil no viven tres todoel curſo de la
vidabaſta la muerte natural: y todos los de mas mueren muerte violen ta de
enfermedad, fin aprovechar nadaſu medicina anti gua. E nel dialogo della vera
medicina: Nomepodreys negar (Señor Doctor ) que la medicina eſcrita que ufays
eſta incier. ta, varia y falta y que ju fin, y efeto fale incierto, falfu y
dudoſo,como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines Del
Sig.Lionardo di Capo a. 57 20$ fines y efetosciertos, y verdaderos fin
variacion, ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica, Astrologia, y las
de mas, que a quel fin, y bien que prometen, lo cumplen, y fale cierto ſiempre
y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina,pues eſta
tanengañoſa, incierta; yva ria:luego claro eſta que eſta arte tiene algunafalta
en las raga zes, y fundamentos,pues no echa el fruto, conforme a lo quc
promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa eſcaramujos agallas y
niſpolas:lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira por ventura, Eſte
aunquepaſtor trae, razon, que los antiguos tambien fucron ombres como eſte. E
più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze podeys negar,Señor
Doctor, la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la medicina, y que eſtuvo
vedadamucho tič po en Roma, y que muchos ſabios mo le han dado credito, ni ſe
han querido curar con medico por las cauſas que tengo dichas, que ſon degran
eficacia. Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China, no admiten inedicos, j'
ay mas gente que en Eſpaña. Y eſosmiſmos autores antiguos, graves le ponen gran
dificultad, diziendo, que la vida esbreve, y el arte es largo, el juyzio
difficultoſo, la eſperiencia engañoſa, & c. I dixo Hippocrates: que
perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe alcanca, y no me podeys negar,
Señor Do Etor que fueron hombres, cimo noſotros: y que ſus dichos, no forçaron
a la naturaleza del hombre, a que ella fueffe lo quc ellos dezian, que ella ſe
quedo en lo queera, y ſu dicho no la mudo, y pudieron errar como hombres,pues
tantas vezes fue frrada y mudada, como lo podeys veren Plinio, donde dize que
ninguna de las artes fuemasincuſtante,y mudable, que la medicina: y que cada
dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora D. Oliva, i cui fourani pre gi nou è
mio diviſo al preſente raccorre, ed annoverare, che troppo a lungo ne verrei. E
baſterammi accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori
in veſtite, inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle,
come intorno all'ordimento, che tien la natura in compartire alle parti
de'corpi animati il nutriinento, che H cla 58 Ragionamento Primo ellämolto
avanti ravvitate appieno, e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea.
Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina,
e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante, e maeſtro in divinità Tomaſſo
Campanella. Non miſe egli già le mani all' opere della medicina: ma pure ſpiar
volle di quella i più ripoſti arcani; e comeage vol fu al ſuo pellegrino
intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare, che nelle ſcuole
comunemente inſe gnavafi, così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro
trovato dirazional medicina, e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj
rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete, o quanto
trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania, Giovan
Battiſta Elmonte, che con più alti apparecchi, e colla mente di più nobili
arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa, onde vie più s'accrebboro i contraſti,
e le miſchie. Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di
non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica, intorno allo
ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai
perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal
Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo,
e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare.
E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero
dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema
di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis; ne di leggieripuò crederſi, qua
to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò, ch'avvisò
dovergli farluogo a sì nobil lavoro: e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con
quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non
vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per
fomigliante impreſa, e’l Silvio, celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi
ſeguacije'l Gliffonio,e l'El vezio, e'l Meſfonieri; e'l Travaginis, ed altri
illuſtri l'ette rati Del Sig.Lionardodi Capoa. 59 rati dell'età noftra, a molti
de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non è venuto fatto di poter
mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di que'valent' huomini, che
tuttavia ſudano all'opera, e colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia, e
della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo
de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio
altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di
ſperimentale, e di metodica medicina, ma dall'an tica gran fatto varia,
ediſcordante, Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine ſiano acceſe con
porre ſottoſo pra, ed avviluppar la medicina tutta, non fa meſtierial preſente
narrare, ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì
noftri l'eloquentiſſimo Plinio vi vo fosse, griderebbe dicerto più che mai con
quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties intarpollis, & in
geniorum flatu impellimur, non già di que’della Grecia ora Icioperata, e
incodardita ſotto'l giogo della barbarie; ma di que'celebratiſſimi
dell'Inghilterra, e d'altre Provincie, da lui ne’tempi ſuoi barbare giudicate,
Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de medici,in tante ſchiere, e
tazioni partita, e quaſi ſtraccia ta veggendo la medicina, che ormai per
ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon coſtoro que'cutti,che nondi
Greco, o di Latino, o di Barbaro, o d'altro ſtrano ſcrittone, modernoso
anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta,ed a gli altrui ſentimenti ſempre
ligarſi; ma liberi affatto, e ſciolti gir con iſpedito voloi valtiſſimi Regni
della natura fcorré do; quindi cozzando contro i più duri, cd oftinati malori
con quell'armi, ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono,nonpreſe, o
tolte da gli arſenali altrui, ed alla cic ca adoperate, fanno con glorioſe
impreſe render eterni, e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo, ſalvo
ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato,
tutcoyogliono ſpiare, a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio
curioſo eſaminare;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle
ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento
confannoſi. Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto
nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or
me d'Ippocrate, e di Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare. E perciocchèlo
giudico, che aſſai monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà,
debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi
d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA 81
RAGIONAMENTO SECONDO, 322 ) EBBO per ſoddisfare all'obbligazion del la mia
promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti, che alla li
bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente ſdegnando, voglion
gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati campi della Natura.
Ma conciosſiecofachè el le fien molte, e molte, e tutte di gran lieva,io non ſo
qual prima mi debba dire, quafdopo; ſenzachè a me non fu conceſſa in ſorte
larga vena diben parfare, perchè con purgato ſtile ſpianandole (e quale alla
lor dignità per av ventura ſi converrebbe ) la for ſaldezza, e valore veniffer
per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno elle an cora ciòdi vantaggio,
che rôzzamente accennatc poffano, e pregio, e commendazione non ordinaria da
voi merite volmente ricevere. E per venirne omaia capo, parmi che alcuno autor
di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro parlamen, tando potrebbe imprenderne il
filo. Egli non alzò certamente natura con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri
animali all'huomo inverlo il Ciclo la fronte; di sì 68 Ragionamento Secondo di
sì generoſi, e ſublimi, e liberi ſpiriti abbondantemente fregiandolo, perchè
egli poi qual paluſtre mergo, raden do lempre maiil ſuolo, non avelle ardimento
di battere generoſamente in alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e
inveſtigare quelle si varie, e sì ſtrane apparen ze, onde bello ſi rende, ed
ammirabile l’Vniverlo; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli, il tutto
e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda, non già nelle
copie incerte, e ragionevolmente d'error ſo ſpette, manel primo, c vero loro
originale. Così quell' Aquila deGreci filoſofanti glorioſamente adoperando, con
felice., e ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque
omneimmenfum peragravit mente,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta
madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe, e de gli altri Segnò le mete, e'n
troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano, facendo sì, che i
troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero, ch'a leggere, c
rileggere, e tutto dì di chio ſe, e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche
d'un mondo tutto fantaſtico caricare. Quicfto non volle già,che faceſſe in modo
alcuno il giovinetto Lidia, quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene:
quando di nuovo libro, di nuoyo ſtile, ditavolette nuove a doverſi fornir
gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui voleſſe; e ciò, perchè egli compré deſfe,
che le coſe,che per lui, da regiſtrar foſfero, eſfer quelle non doveano, che
già da altrui ſcritte in prima, diviſate ſi erano.. Eciò anche molto innanzi ad
Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio, che primadi tutt'altri, Filoſofia
chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva, non doverſi da loro nella,
popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare. Equeſta libertà
nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri, e rinominaci filoſofi comunemente
ancor richieſe: c da più illufri medici, e per valor d'ingegno, e per opera di
mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbrac ciata. Del Sig. Lionardo
di Capoa. 69 ciata. La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle il
famoſiſſimo medico, e filoſofo Claudio Galieno, ficome in più luoghi ne da
pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella, e
berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato,i quali a' detti di lui, come
agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità,
ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno
rintuzzato affatto, ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle
ſenten ze, cd a'giudicj altrui, non volendo coſa alcuna bilancia re, ne punto a
lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega, e ſcongiura i
parteggianti tutti a por giù la ſcabbia, e'l furore, e la ſtolta follia delle
ſette: 0 quin do adiratamente grida effer dura, e malagevole impreſa a ridur
coloro alla ſtradadella verità, i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche
ſchiera ſottomeſſi fi fieno. Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne,
che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi,
ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano
ciò, che altri di neceſſità rimira. O quando altrove proteſta, eſſer egli un
male da non potere in verű modo guarire,la folle, e ſciocchiffima caponeria di
cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a
trarre: e che cotali uccellacci non che fappian, giammai nulla di buono, anzi
ne men d'appararlo ſi ſtudj no: o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto,
coloro, cfer della patria, che della propriafetta traditori, e rubelli. Et o
piaceſſe pure al Cielo, che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate
dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo: più toſto
manifeſtamente uccidere i miſeri infermi, che ſpiccarſi punto
daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri. Ma perchè dobbiam mai ſempre noi
con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi?
for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado, ch'a noi ſpiace voli ora ſono, ed
affatto nojofes Cosi 64 Ragionamento Secondo 1 Cosi la gente prima,chegià viſe
Nel mundo ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda, e dolce cibo L'acqua,
e le ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo, e bevanda d'animali, Or che
s'è poſto in ufoilgrano, e l'uva, O forſe alcuna coſa, ch'al lor cortiſlino
intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi
moderninon ſi è ſcorta? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il
ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del
Virſungo,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e
d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati,che crollano, c ſcovolgono,e
da’fondamenti abbattono, cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina.
O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli
antichi auto rir ma ſe ciò è fallo, e colpa, certamente commiſerla in prima
coloro, i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando, e
nuove ſchiere di filoſofia, c di me, dicina anmutinando, ofarono in prima
novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di
si follo, e temerario ardiinento. Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu
moderno; perchè figgiamente il Princi pe Claudio Ceſare apppreſſo Tacito ebbe a
dire: quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere: inveterafcet feculum no
firum, & quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit, (1 ) cd a queita
medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que', che per eller
egli moderno biafi mavano il Paracelſo, in ſomigliante guiſa conchiude, Qui
nova damnatis, veteres damnetis oportet; Aut iſta nihil eft in novitate novi
Saran dunque acerbamente da vituperar Platone, Antiſte nc, Eſchine, ed
altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole, che
allora nella Grecia fioriva. no, a quella di Socrate, che nuova era, per
imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono? anzi ne furon perciò foin (1
) Etienne Paſquier. 1 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 05 sómamente da cómnendare.
E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure Ariſtotile,e Senocrate,e
Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai
ardiméto alcuno di biaſimargli. E dalla novella ſcuola d'Ariſtotile in tanta
gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo, che uguale, e forſe al inaeſtro
ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone, funne poi
grandemente lodato. E nuova anche fu la ſcuola di Zenga ne, e nuova quella
d'Ariſtippo, e quella di Fedcne, equel. la di Euclide daMogara. Così anche fur
nuove le ſcuole d'Eubolide, d'Epicuro, di Menedemo, d’Arcuila, e d'al tri molti
maeſtri di filoſofia, e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie, e
famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte, riportandone ſempre
mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que
tempi. E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad
una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe, ove già i
manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi? E forſe ſarebbe a
tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura, ſe gli antichi
maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio Filocle,nö ſi
foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla: e col tirar ſolamente
le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor
confuſe, e diſtinate figu re? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza
dell'in gegnoſo Cleofante, odi Parrafio, o di Polignoto, o di Zeuſi, o d'Ag
laufone, o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i
diſegni,e più ſquiſite le om bre, onde poi vive, e perfettiſlime
riſaltando,n'aveffero,e gli augelli, e i deſtrieri, ei cani, ei maeſtri
medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare? così anche i noſtri avan zandoſi
di mano in mano l'un l'altro a'tempi di Dante Ali ghicri, Credette Cimabue ne
la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui
ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna
Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino Petrarca, ed altri
famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to, ed al preſente
s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di Rafaello, e di
Tiziano, e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente
potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del
grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de'
ſouviſlimi verſi d'Anacreonte, di Teocrito, e di tant'altri illuſtri, c nobili
Poeti; o Roma de' ſuoiLucrezj, de’ Virgilj, de’ Catulli, de' Properzj, de'
Tibulli, degli Orazj. Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e
le colte rime del Garzilaflo. Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del
dottiſſimo Ronzardo, e del Bert: ſſo. Ne il noſtro più,che tutt'altri,
dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile
Torquato Taſſo,di Giovani della Caſa, o la maraviglioſa evidenza dell'Arioſto,
e dell'Ali ghicri,o la dolciſſima muſa del Petrarca,del Bébo,dell’Ala māni, del
Triſlino, delMolza,del Guidiccione,del Taffo Pa dre,del Guarini,di Galeazzo di
Tarſia,edi altri,ed altri no bili ſpiriti,che di valor colla ſuperba grecia
gioſtrano,o pur la vincono, ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non
aveſſero oſato d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire
Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate, e creſciute
non già per coloro, che le comunali, e uſitate ritennero, ma per coloro, che
d'ammendarle, e torne via glierrori, e migliorarle preſero ardimento: ta's
επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των τεχνών, και των άλλων απάντων, και δια της
εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν, αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των
μη καλώς εχόντων. Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle
quali pare, che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare, e pure non vi ha
altra ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe
inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia, ed alla medicina
permettere? malli mamcn DelSig.Lionardo di Capoa. 67 mamente, che il campo di
eſſe è queſto si vafto, e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore,
ed a moinenti apparir tutto dinuove, e nuove coſe fi veggiono, da te nervi i
più ſublimi, e pellegrini ingegni mai ſempre img piegati. Multa dies, variufque
labor mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è, che'l mondo
più ſempre mai col tempo invecchiando,dinuovi, ed utili ritrovati per la noſtra
ſperienza di mano in mano i ſecoli arricchiſce. Co sì noi veramente ſiam da
dirci vecchi, e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati, e non
que’tali, che nelmo do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro.
Anzi coloro, che per innanzi naſceranno, più di noi ſaran vecchj, ed antichi, e
conſeguentemente d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati, e diquant'altri per
l'addietro mai furono, auran cagione. Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle
belliſſime parole del gran Baccone da Vero lánio: de antiquitate autě(dice
egliopinio,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi
congrua: Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere
habendafunt;quæ temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi,
qualis apud antiquos fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major;
reſpectu mundi ipfius,nova, minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum
humanarum notitiam, á maturius judicium, ab homine fene expectamus, quam à
juvene-propter experientiam, & rerü, quas vidit, & audivit, &
cogitavit, varietatem, copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas
nuffet, & expe riri, &intendere vellet)majora multo, quam à prifcis tem
puribus expectari par eft; utpote ætate mundi grundiore, infinitis
experimentis, & obſervationibus aucta, & cumulata. E in verità, chi ha
mai tante, e si diverſe maraviglie in Cielo, e in terra, e nell'acqua, e negli
augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto, dove
turto di attenti, ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filo 88
Ragionamento Seconda filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età, cioè
a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in
giornata rappreſentado; intanto, che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire.
quod optanti divum promittere nomo Auderet, folvenda dies en attulit ultro.
Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena
s'argomentarono di paſſare, così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali
fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero, e ſe ne rimaſero alla ſemplice
relazio ne de'marinari, c d'altre perſone idiote, e volgari, dalle quali
ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie. E chi potrebbe mai tener le
rila in leggendo ciò, che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli
Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace: iinperocchè fra
irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati
colori: τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ, την σύeακα θυμιών της. E non guari
apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ, όφιες υπόθεροι και μικροί τα
μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα, Qurárrs01, Trnýber mondo, me ei sér d por exasov. E
del Laudano,affer: mò eſſer quello odorifero, e dilettevole a fiutare, e pur na
ſcere in luoghi puzzolenti, e ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi
a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω
γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται
έγινόμενον, οιται γλοιός από και o'rins. Ma Rufo da Efeſo dice, alle barbe
delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van ghiot
tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια •
το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από
λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω. E
forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare, che credeſſe
Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto: Imperocchè pafcédo le ſue
frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche
s'appiaitriccia quella tena DelSig.Lionardo di Capoa. 69 tenace graffezza, onde
poi pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi
faccia del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono. Sonyi alcri, che
tirando, e sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la
graſſezza, chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la
riferbano:τα φύλα γας αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν
αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το
τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας ·
ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις, και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG-
αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc Plinio, ma in traslatido le
parole di Dioſcoride poco bene peravventura intendendo la parola Jauvois, e
l'altra unigovor ſcriſſe: Sunt qui herbam in Cypro, ex qua id fiat,ledam
appellent: etenim illi ledanum vocant: hu jus pingueinfidere:itaque attractis
funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera
credenza Galieno, quando dice gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα
γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον
κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες, εν τοίς πώγωσι,
και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον, και οπώδες πόας αφαιρούνι. Éd Eichio
λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών, και τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà
incredibile ciò ches del Malabatro narrano Diofcoride, e Plinio, pur troppo
groſſi nell'informarſi, e nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer quello
nelle lacune a guila di lente paluſtre; e'l ſecondo no’l fa punto diverſo dalle
foglie del Nar do Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben grande, co
ſpazioſo albore, non già paludoſo, ma ſalvatico, emon tano. Io non farò
menzione delle tante, e tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino medefimi, e
Teofraſto della cotanto celebrata (piganardi inventarono. Ne mi fermcrò a ſpia
nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove diffe, che le radici del gégiovo fié
così picciole,come quelle del Cipero; è co me ciò,che buccinavaſi appo gli
antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di credere, cioè,che il liquor
d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in diſtillando da tali alberi fi rap
7ο RagionamentoSecondo rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar fama de'ma
fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che per gli occhj
fuor verſarono le pie, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo caſo del lor
Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe, onde poi
Fluunt lacryme: ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis: qua lucidus
amnis Excipit, du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli a udir
ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della caſſia,
e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za gli Arabi,
c molti de'noſtri follemente ſeguirono, que Ite effer due piante fra eſſe
lordifferenti; e vuol egli, che la callia naſca in una palude non guari
profonda,per entro, e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate
fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza,
e vigore; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola
ſi cuoprono il volto, e'l corpo tutto,da gli occhi in fuora,di cuoja,e d'altre pelligec
colefue parole: επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα, και το
πόσωπον, πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν λίμνη
φύεται ου βαθέη, σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ. λίζεται κού θηeία ερωτι, της
νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί. SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα δη
απαμυνομένες από των ópfamutów. E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi pare
ciò, che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer
nervoſi non poffano ſcortecciarſi, ma tagliinſi in pic cioli pezzetti, i quali
ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati, perchè i vermicelli, che
nel corromperſi del legno s'ingenerano,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia
no la corteccia intera, mercè l'amarezza, e l'acrimonia del fuo odore, την δε
κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα, και ουκ είναι
τριφλοίσα, χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και
κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον
καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι, από
μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι, δια την πικρότητας και
δριμύτητα 7ης οσμής, 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò Plinio con l'uláta
eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum, mox præſuunt
recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum,ut ijs pu trefcentibus
vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine. Ma che
direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili
delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto. Il
Cinnamomo, dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove, e'n qual modo naſca, ſe
non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu
nutricato, e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci
traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi
inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo: cglino tagliano in
pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli
appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono; gli uccelli intanto
calan giù, e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi, i quali non
valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra, e gli Arabi allora ne fan race
colta:όκα με γας γίνει αι, και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ, έκ έχεσι - πών, πλην
όπλόγω άκόπ χρεώμενοι, εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο
Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς,
απο Φοινίκων μαθόνης, κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας
πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι, ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι:
πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο.
μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα
τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε. « θαι έκας αυτέων• τας
δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας
νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους
συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di
Ro manzi ſarà, ſenza fallo, quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo
fatto,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo
Plinio chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe ·
ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi, onde pofcia gli Secondo
Regionamento ܐܶܡ gli Arabi con
faette di piombo lo ſcroſtano, e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο
κινναμωμον όρνεον είναι οι εκ των το. πων εκείνων, ¢ το καλούμενον κινναμωμον
φέρων πεθέν τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ'
υψηλού δένδρετε εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς
τοις οισοίς πέοσαρ των τας, τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν, έκ του
φουτου το κινναμωμον: elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices
λέγαν δέ τινας τε το κιννάμωμον όρνεον είναι, και αρώμα & φί. ραν, και τους
νεοφίας εκ τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων, 7ους δε
εγχωρίες μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν, και κα - αρρηγνύειν τας
νεολίας. E non molto diffimile e cio, che ne vien creduto da molti altri
antichi appo Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ
φασιν εν φάραγξιν, εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας: πεος
ούς φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας, καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν
εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in
animod'annoverare gli errori tut ti, ne'quali caddero gli antichi per eſſer
eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te
dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia, ed indi aſſai più vaneggiãdo
ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo
poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni
d'affermare, ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe, e pericoloſe
navigazioni, ove non giova governo de nocchieri, ne vela, o remi,inafol l'umano
ardire, e la for tuna gli regga. Direi come in alcuni antichi Greci comentarj
leggaſi, che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto,l'acque bogliéti rin freſchi, e
meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti;e che tutti gli
animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες
θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν
διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν, και αφανισικήν των εκ
φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio, co medel pepe
favoleggiado Dioſcoride ne narri, naſcer quel lo in India da un coral
arbuſcello, che produce un frutto 1Ο Del Sig.Lionardo di Capoa. 73" lungo,
ſicome baccello, il qual chiam ali pepelungo: den tro del quale dice ritrovarſi
alcune granella non guari dau quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia
il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli
carichi di granella, ficome gli veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia
maturezza colti, fāno il pepe biaco, e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè
ſia maturo, eſſer odorifero,e dilettevole al guſto più che'l bianco; il quale
perciocchè a debita maturezza non è pervenuto, non è cotanto perfetto. Πέπερ,
δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι, κα. &ρχας με
πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω
παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι. όπερκαλα τους οικείας
καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε,
και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε. περι, epoco appreffo:το δε μέλαν
ήδιον και δριμύτερον του λευλου, φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον
αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον
ασθενέτρον των πτοειρημέ. ng IWY, Ma troppo lūga materia da ſtancarne
nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor fallimenti
annoverare. Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza, ſenulla ſeppero,
over nulla curarono del muſchio, dell'ambra grigia,del zibetto, della noce moſcada,de'ga
rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna,
il non aver eſſi avuto contezza niuna della Mecciocana, della Contrerba, del
Saſſafras, del Cafè, del Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba
Te,dellas Salſa, della China, e d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici,
che al preſente ſon così manifeſti, e conti, che van per le bocche, e per le
mani d'ogn’uno. Mache più: laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali
le più incredibili fole, che peravventura cader potrebbono in penſamento umano:
0 pure avendole da altrui udito, co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute,
sì le abbinn per vere, e le rapportino. Laſciam, che creda Anafſagora appo
Ariſtotile, che i Corvi uſin per bocca colle lor fem. K 74 Ragionamento Secondo
1 minc, e dea cagione dicantare a colui:. CorueSalutator, quare fellator
baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che infinſero agli antichi della
Catapleba, di cui Plinio, e Solino fan parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo,
la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo diffonda, che immantinente
l'animal rimirato, ſtupido,ed inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja; il che
vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera
è ſoave, e queta tanto, Che nulla più. Mapianto E doglia, e morte dentro a gli
occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene,
Daimaco, Nearco, Ariſtea, Onoficrito, Te fia, ed altri appo Erodoto, Strabone,
Diodoro, Plinio, e Gellio degli huomini, che in Oriente preſſo il Gange naſcono
ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore: degli huo mini, che in India appo i
Nomadi vivono ſenza naſo: de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza capo, e
collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla:d'altri, che han faccia di cane, e latrano,
e di tant'altri di fimil figura, a quei, che la ma ga Alcina in guardia al ſuo
palaggio teneva. Non fu veduta mai piùſtrana torma, Più moſtruoſi volti, e
peggio fatti. Alcun dal collo in giù d'huomini ban forma, Col viſo altri diſcimie,
altri di gatti. Stampa no alcun co’piè caprigni l'orma: E traſandiam Platone,
che verace credette quella bugiar da fama de'Poeti, che i Cigoi preſſo
l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello, e più ſoave il canto; e non ci fer
miamo a ſtacciar la cagione, che di tal fatto ne arreca táto ſottile, che da
per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano pe'l gran contento, che prendono del
preſto ritorno, cli’al lo ro Apollo a far hanno. E con queſto
diPlatone,laſciamo impunito anche il fallo d'Ariſtotile, qualor prende licenza
di dir, che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari, che buſamente, e
doloroſamente cantavano; eſſendo in veri tà Del Sig.Lionardodi Capoa. 75 tà il
lor căto un'imporcuno gridare,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam
niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo, da Solino, e da altri,
perchè po co, o nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi
viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di
quei Poeti, che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome Ovidio, Id quoquequod
ventis Animal nutritur, & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua
vefcitur auram Reciprocat Cameleon. O di caffar quegli, che vollero,eſſere it
Camelconto della grandezzadelCoccodrillo, ſe pure non fu queſto, crrore di
Plinio;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte, dice d'averlo tolto di
peſo a Democrito, che un libro in tiero ne fcrife, ρve dicendo και το μέγεθος
ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto, che nel Ionico linguaggio, nel
qual Democrito favellava,la parola xpowodeina, val quel la Lucertola, che appo
gli Atenieſi, e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di
tal linguaggio. Elaſciamo ſtare ciò, che gli antichi, a'quali ſi parve, che
deffer credenza Varrone, Plinio, Solino, Columel la, Marziano Capella, e Servio
follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento,
e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo. Co per vero dir non men fantaſtica
del Pegaſeo di Bellero fonte, o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo, e ben degna, che ne
freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro
ardicainente attentare. E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille,
Εάνθαν και Βαλίον,τωάμα ποιηση πελέσθην, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη.
E ſimilmente Virgilio Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante;
leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis, ventogravide, mirabile dicru ! E Silio
Italico delo lociſfimo Peloro no, fa K 2 Nu 76 Ragionamento Secondo Nullus erat
pater ad Zephyri nova flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe
E dell'Aquilino il noſtro ammirabil Torquato, Queſti ſu'lTago nacque, ove
talora L'avida madre del guerrero armento Quando l'almaſtagion, che n'innamora,
Nel cor le inftiga il naturaltalento, Volta l'aperta bocca incontra l'ora,
Raccoglie i ſemidel fecondo vento, E de'tepidi fiati(o maraviglia! )
Cupidamente ella concepe, e figlia. E finalmente perdoniamo agli antichi ciò
che ſognarono de'Pigmei, della Fenice, del Centauro, dell'Aquila, del I.eone,
del Coccodrillo, della Salamandra, della Pirau ſta, della Remola, del Cavallo
marino, del Baſiliſco,del l'Elefante, de'Satiri, degli Ipogrifi, de'Ciclopi,
delle Si rene; e tant'altri errori, ne' quali non pur degli animali, ma
de’minerali altresì in trattando incorſero, i quali di bé groffi volumi, non
che di brevi dicerie ſarebber lunga ma teria, ſol che a noi ſi conceda picciola,e
ben dovuta rin chieſta, il poter da’lor falli ritrarci, uſcir da’lor rei inſe
gnamenti, non coſto iinboccarne loro ſtrane ſentenze, e per ſeguir la verità
tutti lor falſi rapporti porre in no cale; a noi, cui tutto il mondo, è già
quaſi omai ſcorto, e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur
ſap piamo i luoghi, i portamenti, i coſtumi degli abitatori: ma di che animali
qualche ſi ſia paeſe venga fornito, quali piante germogli, quai minerali
produca. E non v'ha ge te nel vero sì barbara, e feroce, la quale, o per
avventu ra, o da neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche
commendevol rimedio ritrovato, il quale ad al tre più umane, e ben coſtumare
nazioninon è occorſo. E ben ciò a pruova ſappiamo; imperocchè ne per lunghe vi
gilie, ne per iſparti ſudori di'ſavj greci, o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai
rimedio tanto valevole a domar la ferocia delle febbri, quanto è quella
maravigliofa corteccia,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto
se quan. DelSig. Lionardo di Capoa 77 quanto egli ora ammirerebbe per Dio
queſta fortunata, e prodigioſa fecondità, e con qual leggiadria, ed altezza di
ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe,il ſublime poeta filoſofante Lucrezio,
ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente preſe a
cantare: quædam nunc artes expoliuntur: Nunc etiam augeſcunt: nunc addita
navigiis funt Multa: modoorganici melicos peperere fonores. Denique natura hac
rerum ratioque reperta eft Nuper, & hanc primus cumprimis ipſe repertus
Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p Dio le
ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito, con tutte
l'antiche, e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di
tempo, che itati non ſiano per addietro tanti, tanti altri ſecoli paſſati. Si
paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi
bilancino. Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni? baſta ſolo un ſol
filoſofo, l'ingegnoſiſſimo Galileo, per tacer di Re nato, del Gaſſendo,
dell’Obbes, del lungio, e di tant’al tri, ad oſcurare, cſommerger affatto la
gloria di tutta quanta l'antichità. Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar
tanti belliſſi mi, e nuovi trovati dell'età noſtra? ſe de’tempi ſuoi, che pur
ne furono affatto ſterili, ed infecondi, così ebbe a di re: Sum ex illis fateor,
qui mirer antiquos; non tamen, ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio.
Neque enim quafilaxa, & effeta natura elt, ut nihil jam laudabile riat. Ma
ſu concedaſı pure ciò, che a niun modo conce der mai certamente ſi dee, cioè a
dire, che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene; come mai potrà egli
ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come
ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter
le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj,
e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra? Che farà il
filoſofo, e'l medico ſenza il microſcopio? Quanto ri pa mar 78 Ragionamento
Secondo 1 2 2 ! 1 1. 1 1 marrà a ſuper della Terra al Geografo, ſenza le
novelle; tavole dell'America? in quaiviluppi, cgarbugli, e con fuſioni
troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del Siſtema di
Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto? Non
s'addofferebbero le ſghignazzate, e le riſa anche del popolo minuto, e de più
ſemplicifanciulli, s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle della
via lattea? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le macchie? oi
compagni di Saturno,ch'alcuniorecchj, altri anella, ed altri manichi chiamano,
o le nuove ſtelle Medicee, o lo ſcambiar della faccia di Venere, o'l dimorar
più in là delle lunari regio nile Comece, o le montuoſità della Luna; o
l'aggirarſi di Venere, di Mercurio, di Giove, e di Marte intorno al So le? E
con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender l'incorruttibilità de'corpi
celeſtiali, la faldezza de' Cieli, la sfera del fuoco, e tanti, e tant'altri
ſogni d'ozioſi cer velli? E come ardirebbero i medici ſenza i novelli trovati
della notomia morta, e della notomia vitale ad impren der eure ſenza
manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati? Ed o quanto,e quanto mal conſigliati
ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li porrebbono; edo quanto in názi
tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita più to ſto in man d'avveduto,
e ſaggio Empirico, il cui meſtiere, comechè manchevole, tuttavia a pericolo
d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede, che la falſa razional medicina daw
Galieno in guiſa tale abborrira, e biaſimata, che ezian dio contro le regole
dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile poterfi mai da’ falli
principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe, cavarc. Ma laſciando ciò
al preſente, che troppo larga materia da diſcorrer ſarebbe, dico, che un talmio
diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di ciaſcuno, o antico, o moderno
autorch'egli diafi, appigliare, ne a ' ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli,
ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte, fù di vataggio da tutti gli
ſcrittori di maggior lieva abbracciato, e da' più ſavj filoſofancije da
ſacriTeo. 1 logi Del Sig. Lionardo di Capoa. 79 logi comunemente leguito, e
fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de
Lirici, e de'Satirici Poeti Latini,checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i
rigidiprecetti dell'Epicurea, c della Stoica filoſofia addolcendo, così ne
canta Quod verü,atque decens,curo, di rogo &omnis in hoc să. Condo,
&compono,quod mox deprumere poffim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare
tuter: Nullius addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas,
deferor hofpes; Nunc agilis fio, & verfor civilibusundis; Virtutis vere
cuſtos, rigiduſque ſatelles: Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et
mihi res, non me rebus ſubmittcre conur. Equel, ch'altrove eglimedeſimamente va
diviſando..., Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis, quid nunc
effet vetus? aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus?
Odafi Quintiliano: neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia, quæmagni
autoresdixerunt, utique efleperfecta; e recando « gli di ciò la ragione,
ſoggiunge: nam, & labun tur aliquando, & oneri cedunt, & indulgent
ingeniorum, fuorum voluptati: nec intendunt animum: Odali il Roma no Oratore:
non tam autores in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt,quin etiam
abeft iis qui dicere van lunt, plerumque eorum autoritas, quife docere
profitentur: definunt enim fuum judicium adhibere, atque id habent ra tum quod
ab eo, quem probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il
vituperevole coſtume de' Pitta gorici, a'quali per certa, ed infallibil ragione
l'autorità fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava: conchiude: tantum
opinio præjudicata poterat, ut etiam fine ratione va leret authoritas. Odali
oltre a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente
di Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone, ove diffe: 10 ſon di sì
fatta natura, che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che
a quella ragione, che più vol te da go Ragionamento Primo te da me
diligentemente ſtacciata, e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima:
as iywa õ jóvov vũ, anc ' wy de Tolos 1G-, οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή
τώ λόγω, δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou, Odaſi il famoſo Ariſtotile,
ilquale, avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità
d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo,
pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la
verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων, όστον πτοπμαν την αλήθειαν, e pri ma
auea egli detro a pro della verità, far meſtiere, maffi mamente al filoſofo,
diſtrugger le ſue proprie credenze; ma odaſi quella maraviglioſa, e divina
ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti
coloro, che Ariſtotelici, o Ippocratici, o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno,
vien comunemente traſandata,an zi affitto ſpregiata: Amico Socrate, Amico
Platone, ma più amnica la verità; la qual diviſando, esfigurando queſti
Iciocconi indegniſſimi del nome di vero filoſofante, foven temente dir ſogliono:
eſſi amar meglio di ſcioccheggiar con Ariſtotile, Ippocrate, e Galieno che con
altri laggia mente diſcorrere. E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il
medeſimo lor Ariſtotile, ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete,
Pittagora, Parmenide, Anafſiman dro, Anaſlimene, Meliſſo, Democrito, Anaffagora,
cd altri molti, che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica
famiglia; e ne meno per riverenza talor ſi ritena ne, chea'medeſimi ſuoi
maeſtri Socrate, e Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente
alle volte bialima, e riprende; e forſe ſe ſua malavoglienza, ed ill vidia non
foſſe, potrebbeſi ancor credere, che egli per ſo lo zelo della verità così loro
villaneggiaſſe, e carminaſſe, chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri, e
farnetici, e ſciocconi, e ſtolti, e ſcimuniti, e non farebbe per avven tura
gran ſenno, che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia, e danon così
gravemente mordere. Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi
più celebri diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol DelSig. Lionardo di
Capoa 80 volmente e'ſi puote, in Teofraſto, in Ermia, in Iſtracone, iu
Ariſtoſſeno, in Ipparco, ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre
antiporre la verità, ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta, almedeſimolor
maeſtro, e duce Ariſtote le, non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano
liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta
medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni
riformatori della filoſofia, a’quali tanto, e sì fattamente piacque ad
ogn'orapreporre la veri tà ad Ariſtotele, che allora con ſignoria da tiranno in
tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun
riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile, e veramente filoſofica
coſtanza, nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre, e proverbiati,
e deriſi,il ripreſero ſoventemente, e lo dimentirono di non, pochi ſuoi falli.
Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo
maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν,
αλα πότερον αληθές λέγεται η ου, Non già chi abbia detta la coſa, ma s’eidica,
o non dica il vero,doverſi conſiderare. Ne in ciò punto è da tralaſciare il
celebre latino Stoico; il quale al ſuo Lucilio in una piſtola, così favella:
Epicurus, inquis, dixit: quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi
egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum
tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant, nec quid dicatur æftimant, fed à
quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia. Ne meno è da notare as noſtro
propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti:
qui alium fequitur, nihil inve nit, immonequequerit; e ciò, che altrove ancora:
Non ergo fequor priores? faciofed; permitto mihi, bu invenire ali quid, mutare,
nec fervio illis fed, aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta:
Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri, fed duces funt. Ne è da paſſar
ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον
δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. caya 82 Ragionamento Secondo 1
cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci. Poft Deum,veritatem
colendam, quæ fola bomines Deo proximos facit. E ſe tanto può far la verità,
dove più riporrem noi l'a nimo, a qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri
ſtudj,dure rem noſtre fatiche, ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e
ſerene notti, ſe non perla verità? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero
dell'immortalità, e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari
daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti, che in
tanto pregio,e tanta fama glorioſamente falirono; e perchè crederem noi, che
l'antica età aveſſe, e Talete, e Anaffimenc, e Senofane, e Anafſimandro, e
Pittagora, ed Empedocle, e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anaſlagora, e
Socrate, e Platone, ed Ariſtotele, ed Epi curo, e Zenone, e tanti, e tant'altri
filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente, e lidian yanto i noſtri
ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal Cuſano, e' Co pernico, el Patrici,
e'l Teleſio, el Ramo, e'l Do nio, e Ticone, e'l Cheplero, e'l Bruni, e'l
Gilberti, e'l Montagna, e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l Galilei, e lo Sti gliola,
e'lCampanella, e'l Verulamio, e Renato, e'l Gaf fendi, e'l lungio, e'lConte
Digbi, e'l Oggelandio, e'l Boile, e’l Borrelli, e'l Maignano, e'l Robervallio,
e'l Mal pighi, e'l Redi, e lo Stenone, e'l Ricci,e l'Vliva, e'l Por zio, e '
Bellini, e'l Marchetti, e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la
noſtra patria Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci, e D. Carlo Buragna, dicui
ben to ſto s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri
incomparabili eroi, che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le
vaſtiſſime regioni della natura, fu perbi,e alti voli lpiegando: fe non perchè
tutti coltoro va ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai
ſtarſene a niuno, ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono. E
viuran ſeipremai pe'l contrario ſenza fama, e ſenza lode appo i faggi, e
prudenti ſtimato ri delle coſc tutticoloro, che toglier non vogliono una sì 1
com.-s 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 83 commendevole, e neceflaria libertà; anzi
ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne
ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio, e di vitupero nominar unque
ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar lungamente potrei, e di sì fatti
errori quaſi infinito numero rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per
modeſtia; c fie baſtante il ri duryi amemoria, ſol ciò, che d'un ' oſtinato, e
duriſſimo Peripatetico narra il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo
ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora più che altri già non fe la ſua Grecia. Mi
troyai, dic'egliga caſa un Medico molto „ ſtimato in Vinegia, dove alcuni p
loro ſtudio,e altri per » curioſità convenivano talvolta a vederqualche taglio
di „ notomia per mano d'uno, non men dotto, che diligen te, e pratico
notomiſta; ed accadde quel giorno, chę ſi andava ritrovando l'origine, e
naſcimento de'ner » vi, ſopra di che è famoſa controverſia infra' medici „
Galienifti, e Peripatetici; c moſtrando il notomiſta, co » me partendoſi dal
cervello, e paſſando per la nuca il gra » diſſimo ceppo de' nervi, s'andava poi
diftendendo per es la ſpinalc, diramandoſi per tutto il corpo: eche ſolo un fil
ſottiliflimo, come di refe n'arrivava alcuore: voltofi 5 ad un gentil'huomo,
ch'egli conoſceva per filoſofo Pee ripatetico, e per la preſenza del quale egli
avea cons iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „
addomandò, s'egli reſtava ben pago, e ſicuro, l'origine de'nervi venir
dalcervello, e non dal cuore: al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato
alquanto ſopra diſc, riſpoſe: voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente
aperta, e ſenſata, the quando il teſto d'Ariſtotele non foſſe in chiaro,
ch'apertamente dice i nervi naſcere dal cuore, biſognerebbe per forza
confeſſarla per vera. Ragione. volmente adunque potè cantando eſclamar colui.
Sæpe graves, magnoſque viros, famaqueverendos, Errare, & labi contingit,
plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis alti Autores, uticonnivent,
deducere eajdım, 1. Ta. 2 84 Ragionamento Secondo Tantum exemplavalent, adeo
eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere
in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere. Ma vegnamo a
moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà,
che noi commendiamo, eglino altresì, ed approvino, e lodino. E chi
baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro
che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra
gli Scolaſti ci Teologi Durando? Egli con chiare, ed efficaci ragioni
manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui
detti acchetare (il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario, e
così folle farà,the più toſto a’Pagani, e perfidi gentili fede preftar vorrà,
che a’ facri, e piiſcrittori, e Padri di Chieſa Santa da divin lu me
illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già, ch'a'ſuoi detti dar
s'abbia ferma credenza: ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini, &
abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to
Ito, e rigetti;indi le parole medeſime di Agoſtino recate avendo così
fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori, che vogliono impor meta alla
libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia
ſcrittore, e che altro, eſclama egli, è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel
tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa? fe non che un chiudere il
varco a color,che vanno in traccia della verità?Se non che un far argine a quei,
che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza: ſe non cheun'ammorzar violen temente,
non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione. Così quel gran Dottor della
Chieſa, non men d'ammira bil ſantità, che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo
al Gran Girolamo, lume maggiore della Criſtiana Religio ne, dopo avergli detto,
ch'egli dava intera, e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura,
ed agli autori di quella, degli altri in sì fatta guiſa egli favella: Alios
autem omnes ita lego, ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant,
non ideo verum putem, quia ipfi itas Jenſe is DelSig:Lionardo di Capoa. 85
fenferint,fed quia mibi, vel per illos authenticos autores,vel probabili
ratione, quod à vero non devient perſuadcre po tuerunt. Ma prima di S. Agoſtino
quel criſtiano Tullio, Lattan zio Firiniano,avendo iſentimenti medeſimi con
eloquenza; ed efficacia non ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni
ſapienza da ſe caccian via coloro,che ſenza diſcreto giudicio,i trovati
degliantichiapprovano, e a guiſa di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano
ciecamente trarre; per ciocchè: ficome egli ſoggiugne: Hoc eos fallit, quod maa
jorum nomine pofito non putant fieripulje, utaut ipſi plus fa piant, quia
minores vocantur, aut illi deſipuerint, quia majores nominantur: cd alla fine
così gridando ei conchiu de: Quid ergo impedit, quin ab ipfis fumamus exemplum,
at quomodo illi, quifalſa inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos, qui verum
invenimus poſteris meliora tradamus. Or dunque, fe tanta libertà ſi tolgono i
Sacri Teologi, che talor dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro
maeſtri, ed a’Dottorimedelimidi Chieſa Santa, ere tāta libertà richiedeſi
a'filoſofanti a poter ſaggiamente in veſtigar la natura delle coſe; quanta
crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici. Anzi coſtoro di tutt'altri certa
mente maggior la debbon godere ſenza alcun paragone; imperocchè ſei filoſofi
volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno, altro per avventura non fanno,
che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno,
che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario, con laſciarſi
a'lormaeſtri ingannare, non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali,non
di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano, ma oltre a ciò da'vani,e
ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc
cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo. E pure i mediciduri, e oſtinati
dietro al lor Galieno le veſtigie di lui, nõ già la verità,vā ricercă do; e
come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas
fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli
antichi am,. 1 mae 86 Ragionamento Secondo maeſtramenti, anzi gli antichierrori
ſempremai ſeguir vom gliono; e mi ricorda a tal propoſito, che ritrovandomi in
brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il noſtro Severino quivi da un
diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene acquoſe in un cane da lui
aperto; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio Galieniſta (il qualeſimili
trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer eglino ar zigogoli di
moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno ) e contro al buon
notomiſta in ceffo rabbuffato, c adattandoſi gli occhiali al naſo ſtizzoſamente
ſcaglioſli con un preſto argumenter contra: ne era inai egli per rifi pare, ſe
oltre alle riſa de'circo tantichetamente, e in vo ce piena di carità, e di
modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato, ſe non valere ſtar su
le difeſe, mu eſſer pienamente pagodi ciò, che gliocchi, e le man pro pie le
facevan chiaramente vedere. O ſtrana, o incredi bil pertinacia de
parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi, e ſordi, e tradir ſe medeſimi, ei
malati, che ponen do giù la dura, e pertinace loro oſtinazione ricrederſi de'
manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità, e'lnatural
conoſcimento, e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo, Come le
pecurelleeſcon del chiuso Ad una, a due, a tre: e l'altrefanno
Timidetteatterrandol'occhio, e'l muſo; E ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete, e lo perchè non ſanno Ma
chczben ſo lo, che per la più parte ciò fanno coſto ro, non peraltro, ſe non ſe
ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa, e malagevolc briga
d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa, ed a’lor m.cítri non cono ſciuta
verità; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio,
quella, che certamentealtro non è, che dapocaggined'intelletto groſſo, e tondo;
e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi
d'aſtio, c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per lo DelSig.Lionardo
diCapoa. 87 loro ſi poſſa alla gloria de moderni ſcrittori, quella degli
antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole
artificio, forte lagnádoſi Marziale col ſuo Regolo così canta: Eifequid hoc
dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod rarus tempora leltor amet.
Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono
Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per cuine’tempiantichi
s'avvivono, ed Ippocrate, e Diocle, e Pliſtonico, e Praſlagora, ed Erofilo, e
Filotimo, e Cri fippo, ed Eraſiſtrato, ed Aſclepiade, per tacer d'altri, es
d'altri famoſi razionali medici antichi. Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon
vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l Valentino, c'l Paracelſo, e'l
Quercetano,e l'Elmonte, e'l Villis, e'l Silvio, e tant'altri avvedutiffimi
medici moderni. Non è giàtale crederemio Galienifti, non è già tale il ſentiero
del voſtro Galieno; (gannatevi pure una volta, e ſe non altrui, credetelo a lui
medeſimo, che oltre a quel, che n’abbiam di ſopra rapportato, egli più
ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe medeſimo narra, che
egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro, i qualidaIppocrate, e da
Praffagora, o da chiunque altro fi foſſe predevano il nome, e che da tutti egli
uſava di mai fempre fcegliere il migliore: ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και
έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας
ιπποκρατείας, και πραξαγορίες, η όλως από πνος άνδρας, εκ λίγοιμι δε τα παρ'
εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο, ίνα μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che?
un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a manifestiſſimo riſchio
d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem
premai vuole i ſentimenti, che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed
infallibili verità gli diviſa? conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione
di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη
διαμαρτάνειν εν πολ. λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα, τα δε κακώς κρίναντα, τα δε
αμελί segov ypay ar to,cioè: egli è malagevol molto, o pure impoſſi bile, 88
Ragionamento Secondo bile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe
ialor non s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre
malgiudicando, e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando.
Fin quì Galieno, il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta
alcun traſan darſi, o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più,
che a tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti, i quali lodovrebbon
prontamente ſeguire, ſe non mai per altro, almeno per darne a divedere, ch'elli
veramente há bo in quel pregio, ed in quella ſtima, che tutto dì millan tano,
il lormaeſtro, il lor principe Galieno; altrimente vero dirà Paganino
Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in
queſte parole, Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt, atque
contemnunt. Tanto dice o Signoriilſaggio, e ben conſigliato rino vatore della
vera filoſofia, e medicina, e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior
lieva più oltre proce derebbe, s'egli non avviſaffe, che il rimanente ben pote
te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle
divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo Teleſio ſotto l'effigie della
Verità giuſtamente (culſe Móva pod pina, cioè a dire Sola coſtei a me amica; e
con quelle parole, che replicar così ſovente il Paracelſo folea: Alterius non
fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio, coſa,
che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e
pur ella è certa: ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani,
cioè, che poco men, che tutti i più celebri, e più ſtimati parteggianti di
Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi
miſentimenti, e quaſi tutti tanto nel filoſofare, quanto al fatto del medicare
foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni
liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa, e'l contrario tutto
con Del Sig. Lionardo di Capoa. 89 con fatti adoperando, di ciò,che ſempremai
con parole proteſtar ſogliono. E percominciar dalle Spagne, acciocchè per noi
in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda, Tomaſo Rodrigo
Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno, ſcuſandoſi
una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di cui allora
appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri comentando,co si ebbe
a dire: Eſſer egli da credere, che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli
altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più pregiandola forza della
ragione, che l'autorità de'maeſtri; ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li
beramente da lor ci dipartiamo, perchè dalla verità non venghiamo a dilungarne;
e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue dottrine, il toglie in non pochi
falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli pregiandoſi, alla fine con chiude:
quæ animadverſiones liberum animum oftendunt,com uni veritati vacantem. Nequi
rapporterò lo altre ſue parole intorno al mede fimno ſentimento, che troppo
lungo ne verrebbe il mio di. ſcorſo; ma non laſcerò lo già di dire, come forte
per lui ſi ripigli, l'haver Galieno la reſpirazione al cervello aterie
buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì folle opinione, unamé brana non mai per niun
Notomiſta ravviſata. Ne men ta cerò, come chioſando egli quel luogo, ove Galien
con feſla apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo
propio male, contro luiprorompa in queſte parole: Galenus qui in propriis malis
cæcutivit, quid in alienis faceret? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino
Galieniſta Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare?
cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti, non pure il ſuo maeſtro Galieno, e'l ſuo
divino Ippocrate nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona,
fi come nelpurgare, e nel cavar ſangue, quantunque quafi con argani, e con
lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi; ma in
un particolar luo libbri M cino 90 RagionamentoSecondo 1 cino alcuni detti del
ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe contrarj, e diſcordi, ch’in niun
modo, ſecondo lui, difender mai, o riconciar baſtantemente fi poſſono; la qual
coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di
Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri
ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati, e per altre ſtrade liberamente avviati il
Lemoſio, il Mercato, ilMena, il Segarra, il Peramati, il Pereira, e'l
Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior
nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina
nell'Accademic Compluteſe; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do, dice,
che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe, ch'e' rapporta, alcune
n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove, e
nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm(ſog giugnendo
) in rebus ad examen revocandis non authorita tes,sed rationum momenta conſtet
preponderare, indeque, vetus verbum: Amicus Plato, fed magis amica veritas,oy
tum babuiſe. E per far motto intorno a sì fatta maniera, ancor de Medici di
Valenza, i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar ſogliono ſtrettamente
confederati, che anzi a ſommo fallo li recherebbon, che no, il dilungarſi in un
ſol minuto punto dalle loro dottrine. Pure il Pereda fuo chioſatore forte fi
briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di pratica Valenziano, perchè
queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli antichi maeſtri, così
dicendo; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ falf & barbarorum
ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum auctorum lectione
habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe ſue chioſc, ove a
fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta ſtra da, non ne
torce ancor'egli, e non una, o due, ma più, e più fiate? certo, che sì;
imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero in hac
febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio, fed
purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14, ut 1
DelSig.Lionardo di Capoa. 91 na, ut multi recentiores medici cum Galeno X1.
Meth. vo. lunt. Or ecco, come da Galieno ribellando il ſuo giura to campione, e
lotto le bandiere del barbaro, e miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente
gli fà teſta, e cerca, di mandare a terra una dellebaſtie più celebridella
Galie nica medicina, fondata in ſu quella univerſal ſentenza,che veruna
eccezione non patiſce, cotanto replicata da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di
lui: xala,soy eli cw, ws dignton, φλέβα τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις
πυρετούς, αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί σήψ « χυμούς, όταν γε ήτοι τα τ
ηλικίας, ή τα τ δυνά pescos pead montées: Egli è coſa falutevoliſſima, ficome
io hogià detto, ilcavarſangue, non folo nelle finoche, ma eziandio in
tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate, fol, che l'età, o be
forzeno'l vietino. E comechè li forzi egli di ceſſare la fellonia, con dir, che
Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella terzana ſemplice, ed
altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando: queſto però è un volere ſaldar la
piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della Cruſca, ed un'aggiugner
colpa a colpa, fallo 2 fallo, in modotale, Che non l'avria Demoſtene difeſo;
imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione,
o di poca fermezza almeno, il che affai monta in faccende di così gran
rilievo.Ne men moſtra,che molto fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice:
Mul ti fequutiGalenum lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex
fuppreſiunemenfium, d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto,quando
incipit fecant ve nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum, quia in
hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti
refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer
libero, a viſo aperto dice altra volta il Pereda, favellando d'un luogo
d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato; quem locūzignofcant
mihi ejus manes, Galenusnon recte explicuit. Stefano Roderi go da Caſtello,
Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuo 92 Ragionamento Secondo
ma ſcuola di Piſa, nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia
d'effer medico, e filoſofante libe ro, dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile,
che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare, forte ſgridando co loro,
che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno, e farti ſervi d'altrui, così
favella: fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit? Proh dolor, ingewa
phi lofophia ſervos parit: ed altrove: ego vero quid antiquiores fenferint parü
ſollicitus, &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi
qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una
fiata Galieno negligente, duro, oſtinato, caparbio, protcryo, e catti vo
filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel
menzionato volume, che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina.
Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce, quante volte, e quante
all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi, o non bada, o non cura, o talora lc
fpregia? Noil dic'egli una volta: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina; ed al
tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate
có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi
Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate, come colui, che non
intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle
malactie: eccone le ſue parole: Hippocrates elio modo, & forfan clariori
caufas debilitatis nobis propo fuit, quamvis Galenus illumfine ullo fundamento
repreben dere aggrediatur. Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne
tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc,
affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del
medico della Regal caſa Gaſpar Bravo, valoroſo, e forte cam pione della
doctrina diGalieno: e fono le ſeguenti: liens Non eft conformatum à natura, ut
fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore, quod Galenus, &
reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à
natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina Del Sig.Lionardodi Capoa. 93
in infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis, cu motum percipere. E
in priina, di Galieno medeſimo avea già detto:fiabſolute velit
interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine. Senzachè
volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza, fi come
all'aggirarli del ſangue, ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi moderni;
perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice: quod Haruei doctrina, ſi
vera,non ob ftat, quod nova, ab illo noviter dicta, quia in naturali busnon tam
quis dixit, quam quid dixit examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima
ſentenza, e degna d'un vero filoſofo, degna d'un vero medico, degna d'uns vero,
ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori
dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola,
eco ſtantemente di non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e
Galieno ſi da vanto? Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre, cſeguon tuttavia
per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri; ma in verità quanto poi da loro
nell'adoperare dilunghinſi, non ſi può egli bastantemente narrare.
Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce, il
qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred
di, o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue, avvegnachè
grave, e di riſchio ſia la malattia,e l'infermo freſco, e giovine, c ben’atante
della perſonas foggiugne inanifeſtamente poi: certe qui hæc legit,quomo
dotempore Eſtivo, &in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno,
tam audacter mittit fanguinem? quid mira quod multi interierint, ut
dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum aberrent multi, ut mittantſanguinem
folius refri, gerationis gratia? Malaſciādoci omai addietro le
Spagne,valichiamo pu., rca ragionar della Frácia, nella quale avvegnachè la
oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano tutt'altri
Chimiciperſeguitati, e banditi, non fù ella poi così fal dase coſtante, che non
abbandonate talvolta, ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo tamente non
rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate, e di Galie no; imperciocchè da’ſentimenti di
coſtoro, quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare, e d'alcune altre
core di lieva alla medicina appartenenti, tanto, e si fattamen te fi dipartono,
e s'allontanano, che più non farebbero p avventura i medeſimi liberi, o vaghi
mcdicanti; il che pienamente ſi può per ciaſcun comprenderedall'opere de più
famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è da logorar punto di tempo in
far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà,
con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre
in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran
fatto da prender cura di porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi
moftraſſe ſempremai fido amatore, e difenſor della verità,le cuilo di di
celebrare, ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima
penna; oltremodo commendan do altresì Galieno, perciocchè ancor'egli per amor
della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate; eſſendo
egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte. E oltre a ciò
quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad
Ippocrate, Ariſtotile, e Galieno faccia contraſto; palesí do ſenza riſpetto,
quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli, ſpezialmente colà,
ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan,
do dell'amaro ſapore, e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan
conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma
non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio, il quale, comeche foſſe
motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole:
fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit, Ferneliime dicina;
namque fi totam illius inftitutionem, omniaque dig mata diligenter
animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria, ut prope fint
nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro
mila, 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 98 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della
medicina eſtimar fi; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria, il vennes anzi
a commendare, che nò; imperciocchè, fe ad altro, ch’a ricercar nuove coſe, e
per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto, e'l
penſier rivolto, per certo, che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno
imitatore, anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non
riguardò punto a quelle parole, le qualiil Fernelio,antiveggendo,che delle ſue
novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo
volume laſciò ſcritte; la dove egli con sì efficaci, e convincenti ragioni,
econ sì maraviglioſa facondia, la fua cauſa difende, che più non farebber per
avventura, o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per
eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo
quell'ultime ſue parole, colle quali maravigliando egli de famoſi trovati
dell'età fua, così al tamente favella:nihilvere docto illifeculo debet hæc invi
dere. Dicendi ratio, fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ
genus omne excolitur:m:ufici, geometra, fabri, pictores, architecti,fculptores,aliiquc
artifices innu merificmentis aciem extulerunt, ut artes quique ſuas pre claris,
magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore
celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit
temporum ex curfio, fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã,
velingenium, vel induſtria penetraverat. Quindi ſieguo egli a raccontar delle
bombarde, delle ſtampe, delle bof fole da navigare, e d'altri maraviglioſi
ritrovati de'tempi addietro; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a
vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio
com menderebbe la noſtra età, fe vedeſſe a' dì noftri di nuove, e più
maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli
ingegnoſi moderni, o le carrette a vela, o le trombe parlanti, o le lanterne
magiche, o i teleſcopj, oimicro ſcopi, o le tante, e tante, e sì
maraviglioſeforti d'oriuo J ligo 96 Ragionamento Secondo li, o i varj, e varj,
e non mai poſti più in opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei
metalli più du. ri: o le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil
le forme le colorite telc: o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di
tempo in terra ſi gettino le Cittadelle, ultimo rifugio de’vinti, & ultimo
ſtento de’vincitori: e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden
ti fortezze, traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come
a diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare. E come
egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti, ed
altre fille non mai più vedute Itelle, ed altri, ed aleri movimenti, oltre a
quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe
egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre, e degli
ſtrumenti del vuoto, in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria? Eche
de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita? e che del trasfonderli del ſangue
e di cotant'altre prlove, che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età
noftra. Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe, e con onta
pur degli inutili e pecoroni parreggianti: fi omnem laborem pofteri collocaf-,
fent, ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent, qua rum fundamenta priores
jecerant, nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum
mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis
vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent. Ma e'l Fernclio,
e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui, quanto al filoſofar liberamente
poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore
nell’Academia di Mompelieri; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de
gravioltraggj, che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi
ſavi patiti, haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati, e {tra
yolri, che s'eglino pur ci ritornaſſero, non più, comopro pi lor parti ravviſur
certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. Del Sig.Lionardo di Capoa 97
sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit, ut quum
maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent,in iis nullo
refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi
perſuadens, quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero,
e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli
altrui pareri,manifeſtamente proteſta: avve. gnachè ſian quelli pure diGalieno
medeſimo, dicuiegli così dice. Hec dum animadverto,non poffum non illius quo
que dicta exactiusperpendere, de pleriſque dubitare: ut diligentiore facta
inquifitione veritastandem (abfit invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia
libertà, dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità,
che ol tremodo ſe ne ritragge, e per l'autorità de'letterati più prodi, ed in
iſcienze più valoroſi, che ſempre glorioſamé te l'han ſeguita; de'quali egli fa
un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo
Gugliel mo Rondelezj, e ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo
Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa
coſtan ża, anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili
ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi. Perchè un
diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione, che oggidi ancora vien
da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e
valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa, la gran forza ſpiegando della
verità, dice, quella ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta
condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza: e da quella ſola ani cora
eſſer la Criſtiana Religione introdotta, e ſeminata in Europa: e cô la verità
medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi
armato Ariſtotele; e nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato Cice
rone. E fu opera anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a
Pietro, e opporſi Agoſtino a Cipriano; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza
di quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri
N gidi, 1 1 98 Ragionamento Secondo gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella
ſcuola rancida, che più le viete anticaglie degli ſtolidi maeſtri, chela nuova,
e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano così ſoggiugne. Et paganorum
quorundam (cioè a dire d'Ippocrate, e di Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè
coletis? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis, ut à falfifſimis quorundam
decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis? Ma non
comporta il tempo, che più avanti lo ne rapporti, comeche per tutto quel
libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno: ed a cui caglia
di leggerlo forſe non rincreſcerà. Di tanta, e sì valevol forza fur le
perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri, cioè del Rondelezine
del Giuberti, che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri,
da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben
filoſofare è cam. peggiata. Ne con più ardente, e con più vigoroſo ſtile altra
ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della
Chimica, e del Quercetano, quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri: da cui
ſon ſempre uſci ti, ed eſcon tuttavia valorofi germogli. Che più? egli è táto
non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli
ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri, macoloro, i quali la liber tà
in altrui ſommamente riprendono, come il Silvio, l'Ol Jerio, il Doreto, eiduo
Riolani, lor fa meſtieri, ch'a ' giurati maeſtri, o di naſcoſto ſi ſottraggano,
o manifeſta mente ribellino. Anzi (chi il crederebbe !) anche colui, ch’a
difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi, voi m’intendete o
Signori, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo, udite come pur ebbe a dire:
Ego enim hactenus is fui,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa
prioribus ſeculisincognita, & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in
apertam lucem profero. Mala Lamagna, quantunque foſſe ſtata il Teatro,ovej con
Paracelſo da prima, e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più
oſtinati difenſori degli antichi maeſtri: es quan Del Sig.Lionardodi Capoa. 99
quantunque ſurti vi foſſero, ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor
Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio, il Platero, il Cratone, ed altri
acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti: nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de
France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più
liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la, come colui, che in
trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi
maeſtri, e Taddeo Duni, il quale, tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo
ſuo maeſtro Galieno, un libro partitamente compo ſe, ove nel procmio così
apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, &
illuftris., vene randus: veritas tamen, & antiquior, & illuftrior, dve.
neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio,di Felice Plateri, di
Corrado Geſncro, di Martin Rollando, e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di
Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre
una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro,andar Galieno
follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia: e che de' ſuoi
falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila
falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata, ut (per
dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras, quain
inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam, ipfis è mente eripias. Ma quel
che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per
fecutori del Paracelſo, eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta
dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri,
Tomaſo Era fto,Giovan Cratone,GaſparreOfmanno,nimico il più im placabile, che
mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera, intinto
biaſimò, e ſquarciò, che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno anche
funne ripreſo: l'un de'quali, che fù Daniello Orſtio, così pro verbiando il
motteggia: ad Hoffmanni modum, qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim
fcurrilitertraducit; e l'al tro, che è Riollano il figlio, ſdegnato oltremodo,
di lui N 2 ſcri Tôo Ragionamento Secondo ferive: Hoffmannusnimis liberè, &
licentiosè caftigat omnes Medicos, utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli
altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo, e medico digran pregio, il
quale coll' armi, dal medeſimo Galieno un tempo adoperate, coraggioſaméte
diféde la ſua ragione; e dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi
nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di lui, e degli altri antichi
maeſtri ſaggiamente ragio na. Si in his medicina partibus, in quibus plus
externi ſon Jus, experientia valet, quam judicium, & ratio, tantū
deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris omnibus,
quæ fola ratio, & ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft? E che
direbbe ora il Solenan dri, ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo, quanto G2
lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in filoſofando
dietro le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi
Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto,
ſecon do, ch'io mi creda, quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto;del
quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al
preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che
egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona. Semper novum (dice egli)
Suſpectum fuit, antiquum vero lauda tum; fed an jure ſemper, dubito; nam, quod
nobis antiqui, olim novum fuit: ideoque non tempore, fed rationibus opi niones
affirmandæ funt, eæque veriſimehabende, quæ cum natura, qua antiquiſſima eft',
confentiunt. E poco avă ti: multa adhuc in natura reſtant explicanda; &
plurimas in ea ita obſcura ſunt, ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi
fint. Ma non hà egliper mio avviſo animo me no nobile, e generoſo del Sennerti,
il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li
beramente, e fecondo ragione,la verità delle coſe, ſenza eſfer di vaſallaggio
alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri, e memorabili conſigli, una fiata
ragionando di Ga lieno, e avviſando in quante beſtemmie, cd empiezze foffe
DelSig.Lionardo di Capoa. ΤΟΥ foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente
caduto così eſclama: Quid eft abnegare Deum, fi hoc non eft? fi enim iſta non
poteſt, ne quidem Deus eſt? alla fine contro i parteggianti di lui
ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo,cui non aſſurrexiſe grandenefas
eft? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft? E altra volta così del ſuo mae
ftro Galieno ragionando: Galenus (diſſe ) magnus eſt, & fuit, &erit;
non tantus tamen, quem patiar libertati med fibulam imponere in iis, qua
meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del
Lindeni maa gnanimo, e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe
Zaccaria Silvio; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare,ma ſolamente condurre
a reverendi ſentimenti del maeſtro, ritroſo, e reſtio, ſovente a quelli
ricalcitra;e tra viando dagli antichi ſentieri, per nuove, e non uſate vie
s'argomenta talvolta, comechè poco felicemente, d'ag giugnere alla verità.
Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū
eft.E no guari ap preſſo: Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis
inventa, fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur.
Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona, non è la medicina, o la filoſofia
così ſtretta, così anguſta, e di sì poca ſpazioſità, che di preſente dagli an
tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna
altrui; ne così manifeſta, e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe
chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla liberamen
te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri alla gloria
vincerla ſolamente della mano; veri tas, fù ſentenza di lui, in multo altiorem
demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis. Énel mede fimo
ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico, fi loſofante di Ollanda; c Io ne
potreiquì rapportare infini te teſtimonianze, ſe non che io temo per avventura
di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non poſſo perciò
tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico de'ſuoitempi Giacomo
Bacchio; il qual veggens е doſi 102 Ragionamento Secondo doſi da' ſentimenti, e
dalla ragione perſuaſo,anzicoſtret to, e vinto a confeſſar l'aggiramento del
ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da'
volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette, e intanto l'abbracciò,
che conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti
tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a
ſconvol gerſi, e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in
aſſai coſe fi riformerebbe la medicina, e in mi glior filo certamente ſi
metterebbe. Sic contingit, oſſer vò egli, concefo, ftatutoque ſanguinis
circulatorio motu,in numera veteris doctrina fiatuta inverti; unde totus
docendi ordo turbatus præpoſtere, & fine certa methodo, & doétrina
omnino confuſe inſtituitur, addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim
cohærentibus, &certo ordine inſtructis ſia biliri decer. Ma che direm poi
del medicar della Lamagna, il quale, da queldella Francia poco certamente
s'allontana? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo
no; e intanto l'abborriſcono, e ne ſon ritrofi, che deter minatamente giudicano,
i Salaſli mai ſempre eſer danne voli, e ſconcj, e ſe non altro alla per fine
menomandone gli ſpiriti, raccorciarne miſerabilmente la vita. No lo mi prenderò
quì punto briga in provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi, emedicidabbene, e
amatori della verità, no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna; ed
egli ſiè ben manifeſto a ciaſcuno, non più fortemente altronde che dalla
Lamagna eſſere ſtato dimentito, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno.
Ma non men libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai
tenacemente appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno, o d'altri
antichi medici, ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti
no delle ſperienze, e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere
chiunque prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi
volumi dell'antico Ric cardo, o di Giubetto, o di quelGiovanni, che ſopra tutti
1 inani DelSig.Lionardo di Capoa 103 ز manifeſtò i ſuoi laudevoli, e
generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora da lui, ſotto nome di Roſa
Anglicana; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a' quali, comeduchi,e maeſtri
del filoſofare, e dell'opere di medicina, piacque anzi gli Arabi dottori, che i
Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare. E più allor crebbe, e avanzoſſi
nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando pofta giù la ruggine di
que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri,
rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche, elatine lettere; perciocchè
allorcertamente con maggior ſenno, e avvedimento ſi puotè per valenti lette
rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa
penna del Primeroſio, dell'Igmoro, e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la
libertà delloſcrivere nella medicina, che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu
re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo ſe ſcuole,onde ſi moſſe da
prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento del ſangue, la qual sì
forte, e valo. roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio, e
folle Pariſano, che vergognato, e ontoſool tremodo divenutone, non osò il
cattivello per innanzi far ne più motto. Ma chi mai pareggiar potrebbe il
valore del grãde Ar veo? ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette, e di
nimiſtà, intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù
veri delle coſe, che nelle ſue glorioſe. opere così par, che ſaggiamente
ragioni: Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro, anzi tal
volta hogli preſo a gabbo, i quali follemente s'avviſano aver l'operc
d'Ariſtotile, o di Galieno, o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione,
e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio. Non
è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per
huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla. Ella ha i
fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104
Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò, che in alcune coſe confu
ſamente, e inviluppatamente n'accenna, altrove poi reſa. ne fedeliſſima
interpetre, più diſtintamente, e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza dubbio
mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo, o alme ftier
delle parti del corpo umano, chiunque in prima non n'abbia ben preſo argomento
da ciaſcun ' altro bruto ani male, e'l ſito diligentemente, e la fabbrica,
eicongiunti vaſi, e altri accidenti di quelli, e delle lor parti conoſciu to, e
l'uſo loro per pruova ſaputo. Et putabimus, dirolla pure colle ſue propie
parole, nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum nobis accedere; verum
omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam fuiſe? Ignavia
profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt. Ma che non di ce egli, e quali
ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi ſentimenti, o nella
famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra, o nel proemio del libro
della generazion deglianimali? Pudeat, udite, come all'alta impreſa del
liberamente filoſofare ne ſtuzzichi, e ne ſpro ni il magnanimo amator della
verità: pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo, tam.admirabili,
promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere; incerta indè
problemata videre; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas nectere.
Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum. Ma dalle
nazioni ſtraniere, paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima Italia,
pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze; la qual certamente,
intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili, e i Dini,
ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi, e i Platearj, e i
Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado, e gli
Arduini, e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli, e cento, c
millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine: hebbe anche Aleſſandro
de Benedetti, e Matteo Curzio, eGio van Manardi, e Giovan Battiſta Montani, e
Antonio Mu fa Brafavolo, c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali
DelSig. Lionardo di Capoa: 105 a' quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque
le doe trine d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire. E pur veggiam
talvolta effer coſtoro manifeitamente, trali gnati dalle reverede dottrine
de’lor carimaeſtri, e in mol te, emolte coſe, che a grado lor non furono,
avvegna chè di non poca conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare. Ne reco
Io già al preſente per teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il
Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di Saſſonia,ne Girolamo Capodivaccas
ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri, e altri avvedutiſlimi medici,
e filoſofi commendati ne’loro tempi, c pregiati allai. Solamente ricorderò le
glorie del famo fiflimo Giovanni Argenterio, e cotant'altri loro valoroſi
ſeguaci, e imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere
degli antichi maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina,
ſenza appiccarſi molto tenacemente, ad Ippocrate, o a Galicno,comechè Ippo
cratici, e Galieniſti eglino li foſſero. Ma cometutt'altri, e in dottrina, cin
chiarezza di fama avanza di gran lun ga queltanto valoroſo, ed eccellente
ſcrittore Girolamo Cardano, così a niuno certamente egli cedede Galieniſti
medici Italiani nella gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio
tenendo maeſtro alcuno, ſolamente s'affa. tica, e ſi ſtudia per la verità, e
non ha quaſi facciuola nel le ſue opere, ove egli non ſi vegga oftinatamente
conten dere col ſuo Galieno, prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela,
e manifeſtamente biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare, e del ſuo
ſcrivere, e del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere; infra le quali non mi
par da dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri, di lui narra, dicendo
eſſere ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo, e ſtudio
logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota
re. E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente
eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù
gli arzigogoli dello ſpecula re, ſcnza diſcender giammai all'operare, e ſenza
far prìo O va del 106 Ragionamentosecondo 1 va delle ſue mal credute dottrine:
Caufa errorum in medi cina eft, quod quicontemplantur, non medentur, ut
Galenus, Paulus, & c Princeps, & hodie omnes medicine profeſores; ideo (avvertimento
ben degno da dover far faldiffima im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum,
&dogmatum fcribuntfomnia. Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam
condotti, e'nó mipare di dover tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà
dell'animo, e nell'amor della verità egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che
altri ſi laſciaſſe addietro; per ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità, e
la caſtro naggine de' teſtereccj, émalandati parteggianti de' ſuci tempi,infra
l'altre, cosi una volta ſtizzoſamente gli pun ge, egli beffeggia. Demiror, dice
egli, credulitatem, de mentiam, & impietatem medicorum noftræ ætatis,
quorum aliqui eo deveniunt, ut cbliti omnis humanitatis, maline perdere homines,
utferviant pertinaciæ, quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli
conſiderādo intanto giu gner l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti
parteggianti, che riguardando alle dottrine de’loro cari maeſtri, non che a
capital niuno la verità teneſſero, anzi l'anime loro medeſimc non curando,
foventi fiate il diritto delle divi ne leggi, e delle naturali traſandano: cdeo
ſectis, grida egli pictoſamente piagnendo, addicti ſunt, at nec immor talitatis
aninorum,nec præceptorum philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat.
Machirccherammi amcinoria tutti gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i
quali dalla mellonaggine,dalla pertinacia, dall'ambizione,dall'avarizia, e
dalla malvagi tà de'cattivi parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che
egli lungamente va diviſando: Eglino ſempre oſtinati ncl le loro
fanciullaggini, non che foſſer giammai da tanto, che guarir ſapefiero alcuna
malattia diconſiderazione;an zi fovenci volte si, e tanto operano colle loro
trappole, che ne tolgono la voita aʼmedici più valoroſi. E ſon pur così
ribaldi, e ſcellerati, che sfregiando colle loro opere il digniffimo nome di Criſtiano,
e laſciata affatto la pietà, cla ! Del Sig.Lionardodi Capod. 101 e la carità
unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto,tuttiaya: ri, e ambizioſi,ſi
veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare, e i poveri, e
miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o
affatto non curare, o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili
giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli. Del quale
graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno, da cui
eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari.
Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano, au tor fuitnofter Galenus,
qui nil ubique jactat, niſi proceres, atque Imperatores; quum tam juveniseffet,
ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a
ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri, i quali a perpetuar
la lor tirannia,agl’ingan ni, alle millanterie, alle beffe, all'aſtuzie, aile
giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano. E di tanti
misfatti, e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone
nobili, e d'alto affare, i quali per ciocche delle coſe del mondo, e della
natura poco, o nulla ſi conoſcono, non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo,
ficome certamente dovrebbono; anzi intanto giugne la lor biaſimevole
dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina, buoni
coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande, ſcienze alla medi cina
appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza
delle cure malagevoli, conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente, amor
di glo ria, che naſca dal ben operare, diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli, e
ardente diſiderio d'apparare; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta, aſpetto
grazioſo, viſo piacevole, adulazion di parole, abbondanza d'ammalati illuſtri,
e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità.
E ben gli parve, che meritevolment, coſtoro ne portaffer poi la debita
penitenza, omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem
premai ſparuti, c triſtınzuoli, e cagionevoli aſſai dell i per 0 2 108
Ragionamento Secondo perſona: diuturno cruciatu protractorum per longumtempus
morborum: per rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi
ſovvengono: preterea fiderationum, debilitatum,quæ poft fanationem illis
relinquuntur; avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena
colpeccato, mal capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li, e amici.
Ma troppo piacevol coſa è a ſentire ciò, che finalmente egli contro i medici
de'ſuoi tempi narra, i quali baldanzoſi, e tronfi liberamente ſcorrendo a lor
talento per tutto, e abborrando, e malmenando la medicina, co (trignevano alla
fine i cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano, a
pagare a ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte; facendo eglino
ancora forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma,
che direm noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi.
Egli comechè fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano, e s'argomentaſſe a ſpada
tratta dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto, che ne pur la loro
oſtinatiſſima nimiſtà Ha diſciolto colei, ch'il tutto ſolve. Atque ut etiam
nunc poſt cineres, dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in
ævum ab ipfis exaratæ chara te; non però di meno, ove ſol ſi tratta della
libertà della filoſofia, e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente
traſcorrere, allorcertamente poſto giù lo ſdegno, e’lli vidore ſon tutti di
convegna a ritrarſi di parteggiare, e far capo oſtinatamente alle ſette. Errata
majorum, diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala, diſi mulanda
non funt, ne eo ipfo pofteritati imponamus.E benſi valſe egli del ſuo avviſo,
quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano: Tueris, atque profiteris
nefandum illud Hippocratis deliramentum, à quo non abfunt Galeni trepidationes,
animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna
aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà, e ſtizzoſamé
1 te bia. Del Sig. Lionardo di Capoa. 109 te biaſimatolo d'aver egli ſovente
contraſtato il reverendo Ariſtotele;come ſe graviſſimo fallo, c ſcelleratczza
ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus,dice egli, carpendi longe de meliorem; in
quella guiſa appunto, che quel nobile Ga lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva,
che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato il por mano all'opere degli Antichi
per ammendarne gli errori; della qual coſa, non ſenza gran ragione per
avventura forte fi biaſimail Solenandri, così rimproverandogli: Verum
fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque aliis omnibus, qui funt
ingenio, em judicio aliquo prediti, ut poffint ea reprehendere, quæ ma lè
funtdieta, &meliora tradere: foli Argenteriohanc li centiam adimis. Ma
prima delCardano, e di Giulio Ceſare della Scala, per ripigliare ilfil del
noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide, e nelfiloſofare, e nello
ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche, e nella filoſofia, e nella
medicina aſlai bene fcorto, ed cſercitato; perchè meritonne d'eſſer'altamente
pregiato, e onorato da quel generoſo favoreggiatore, e intendente delle buone
lette re Lione il Decimo, Sommo Pontefice. E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il
qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile
ſpirito, no curante l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor
dell'uſo comune mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima,
maſlimamente in Italia: volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa
dell'ecliſſe del la Luna, più manifcftamente proteſarlo, portando ſenti menti
veramente da filoſofo ragguardevole, e di gran lie va. Quoniam noſtri antiqui
progenitores, dice egli,fcien tiarum inventores, rationibus, experimentis,
comperie runt ſcientias; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no
perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico,
e filoſofo, e pocta de Verona Girolamo Fracaſtoro, avvegnachè da' ſervili fen
timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno, e
molto a capitale il teneſſe; non però dime 110 Ragionamento Secondo di meno,
reſo talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio, d'aſpramente
riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli ch'egli pur
troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo ſofi, a'vani
preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo. E oltre a ciò nelmedicare,e nel
filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder
ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione, eins
altri luoghi; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide, per cui huom
certamente crede, lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto, e che
tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro. Nel qual poemacontro l'opinion
del ſuo Galieno va egli cantando, l'aria ſola di tutte coſe eller principio,
così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft, &originisauctor.
E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato: Principio quæque in
terris, quæque æthere in alto: Atque mari in magno natura educit in auras,
Cuncta quidem nec forte una, nec legibus iiſdem Proveniunt, sed enim, quorumprimordia
constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur: Rarius aſt alia
apparent, non niſi certis Temporibufve, locifve, quibus violentior ortus, Et
longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant tenebris, &opaco
carcere noctis, Milletrahuntannos,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta
vicoëuntgenitaliaſemina in unum. Quindi con l'uſata ſua eloquenza della cagion
de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non omnibus una
Nafcendi eft ratio, facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus babet,
&primordia praſto. Rarius emergunt alii, poft tempore longo Difficiles
cauſas, & inextricabile fatum, Et feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne
men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente
levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galie DelSig.Lionardo di Capod. ilt *
Galieno, e iſeguaci di lui, prendendola oſtinatamente a favor d'Ariſtotele, e
de'Peripateticiin ciò, che da coloro dipartonſ i Galieniſti; ſenzachè egli è
pur troppo mani feſto a ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir
glorioſamente al mondo l'aggiramento del ſangue:tutto, che parer poſla ciò, che
moltoprima di lui aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν
α'μαι καθαρά συγκερασθείσα, το τών ινών γένος, εκ της εαυτών διαφορή τάξεως. αι
διεσπάρησαν εις αίμα, να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους, και μήτε δια
θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι, μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον,
μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua: E maf. fimamente
quando (la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre,le
quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo,
e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo,ficome ogni li
quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo, e difficile a ſcorrere,
sì, che appena poipoteſſe andare, eritor nare per le vene. Ma non poco
certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico
de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere, non avendo ri guardo a
ſetta niuna, per aver eglicol Sarpi, e col Gali Jei un tempo ufato; i cui
ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj
diviſamenti manifeſta re, e ſpezialmente in quel libro cotanto per ciaſcun com
mendato, della Staticamedicina, comcchè il più delle vol te male egli
apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue volgari
ſconciamente me ſcolandole, fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti lettori.
Maciò da parte al preſente laſciando, non ſi può egli di leggier narrare,
quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i parteggianti tutti
medici, e filoſofi; e quantunque volte gli vien fatto loro l'accocca, rapportão
do in ſuo pro varie, e molte autorità d'Ariſtotele, e di Ga lieno; di cui
ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate
ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani: e molti, e molti errori
ne'moder ni, e 112 Ragionamento Secondo - { ni, e negli antichi ſcrittori
dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così
eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice, di pa recchj
ſcuole dell'Europa, dice, che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar
ſogliaſi all’orrevole autorità d'Ariſtotele, d'Ippocrate, o di Galieno, che a'
ſentimenti noſtri medefimi; e pur dice cgli Ariſtotele medeſimo, Galieno di
comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza, e a'
ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo
ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta, così alla per fine con
chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus, aut majorum
meorum avunculus, quod ſciã, neque in Sanctorum catalogo fit collocatus,
quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus, non video cur omnes non poffint
honorificè, fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al
preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli, il qual comeche parzialiſſimo
del ſuo Galieno, purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto, dice
manifeſtamente, eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato,e ſovente non
averne parola inteſo; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non
iſtizzo ſamente gridare: videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis
fententia,ac hiſtoria aberraſſe, fedetiam à ra tione ipfa, acveritatelongè fane
abeffe. E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno,ein molti
luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti, c troppo
di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente, che
ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti
del mondo. Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della
metodica medicina, avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro
certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno,
e d'altri R.2 zionali medici; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente
carica di bialimi, e di maladicenze Attalo famoſif troppo affezio fimo
DelSig.Lionardo di Capoa 113 Timomedico metodico, dicendo, che per opera di lui
for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico. Ma quanto poco capital faceſſe di
Galieno, e d'altri razionali medici il nar rato Attalo, ſi può agevolmente
comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno;la qual coſtuipoſcia,come
ſua sóma lode foſse, volle nell'opere ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate. E
forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento, che egli ne racconta.
Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del
grand’Arveo? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur
da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte? Quante,e quante fiate grave
mente il proverbia, e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza? Pure infra
cotanti biaſimi, e rimprocci, ch'Io per brevità tralaſcio, recheronne al
preſente uno, che val per cutti, lagnandoſi egli forte del tempo, ch'avendone
tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente
laſciate quelle d'Ariſtotele, e diGalieno, como ſchiuma de libri, e viliſfimo
fondaccio di tutte le buone dottrine; eſſendo coloro in molte, e molte coſe
ſempre mai fallati; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione
intorno alla formazion della viſta. E intanto è vero ciò, che noi raccontiamo,
eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor
maeſtro Galieno ribellati, che maraviglia è a narrar come Aleſſandro
Maſſaria,cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno, pur’una fiata
ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria, comechè cer
caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò
anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno; e'l celebre Settala ancor'
cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo, pure l'aveſſe fronteggiato, e
ripigliato, 12, ove egli ragiona delle cagioni del color glauco degli occhj; ed
ove dice, che l'acque de'pozzi non fiano,me appajano fredde l'eſtate più, che
in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle mani calde; e che l'inverno al
contra rio ne pajano calde, perocchè ſi toccano colle mani food P dc.. 114
Ragionamento Secondo 1 1 1 de. Ma quel, ch'è più da conſiderare ſi è,ch'egli in
un'in? tero libro riprova l'antico, e praticato uſo di medicar le ferite,
appigliandoſi ad un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto,
non che adoperato. Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei, ſe recar
qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi
ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino. Chiudaſi adunque sì nobil corona
colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre
contro cotali pecoroni da greggia maggiormente ſdegnato, così proruppe: An
omnia novit folus Galenus? an nihilreliquit pofteris inveſtigandum? Quo merito
infudit illi uni Deus (quod alteri nulli) totam, perfectam, &integram
medici nafcientiam,nihil nobis reliquens? e dopò molte graviſſime parole, che
egli apporta a queſto propoſito, così alla fine conclude: Patet boc, quia poft
Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio, ut triplo auctam dicere poflimus. E
si nobil costume di liberamente filoſofare in medi cina,ben da molte, e molte
fcritture publicate in iftampa, apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara
l'Accade mie, ond'è sì abbondevole, ctanto fi pregia tutto il bel paeſe,
Ch’Appennin parte, e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello
fludio tutt'altre parti, ragio nerò ſolamente della nobili: lima noftra Città,
delle Sirene, e delle Muſe amenillima ſtanza, che non pur nella gloria delle
lettere, ma in ogni altra a niuna delle più celebri, cd illuſtridell'Vniverſo
riman certamente feconda. E laſciā do di favellar del Belli, del Bozzayotra,
del Tucca, e d' altri, e d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e
parziali d'Avicenna: come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia
udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio; al
cui ſottile in gegno, ed avveduto giudicio,non miga, come altri per av vétura
coftumano,baltādo il copiare, e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine; ma
volendo egli diſaminare, e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già
ſcritte, il diſcreto, e av Del Sig. Lionardo di Capoa 115 e avveduto, e giuſto
Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare; il qual non a tutti pienamente dà
fede,maaltri approva, al tri traſanda, altri manifeſtamente rifiuta, ficome
appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore. Su mus omnes in arte
noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in
aliorum fententiam ire debe mus, fed ut prudentes Senatores viderequid
conveniat; at que ita ingenue proferrede rebus, quod rationi confonum ar
bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo, ed eccellente giudicio
dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole
di lui ravviſarſi. Non tam Servili, dice eglifimus, animo, ut omnia
veterumplacita, oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur, vel tam ab jecto,
ut pofteris omnem, meliora excogitandi occafionem prareptam, ac præciſam effe
arbitremur; quafi vero non idő nuncſit, quod olim Cælum, eadem terra, idēgenerandimo
dus: eadem denique, & facilior etiam, quam aliis fueritdin cendi,
inveniendique ratio. Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con
filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti
d'Ippocrate, o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della
ribaldaglia del volgo, con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero, facendo
ſempremai veduta di abbracciar, e di ri tener tenacemente tutto ciò, che
inſegnato viene per Ip pocrate, c per Galieno. Infra'quali Filippo Ingrafiagavi
do oltremodo, e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe
ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da
alcun degli antichi medici ravviſate; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc
d'Ippocrate, ne di Galieno punto curando, di purgare cziandio nelvigor delle
malattie. Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti
Bernardi no Longo, Paolo Monaco, e Giovanni Antonio Piſani: un diſcepolo
de'quali (1) in una apologia in difeſa diſe, e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle,
che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non
folum con P 2 (1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra
recentiores medicos, & Philofophos,ſed etiam contra Gao lenum ipfum,
&Platonem, alioſque illuſtresfcriptores dice re, fi quando ratio dictaverit.
Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon
giovanni, e Latino Tancredi,huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte
lettere, e di molto giudicio, e gran difenſore della dottrina del Telefio.
S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani, e Mario Zuccari, il qual
co sì forte, e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè
intorno alla malattia d'Erofonte: ed altrove sì ardicamente, che nulla più, e
come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani,
intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai
le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur
veduto Giovan Battiſta Ma fulli, Antonio Santorelli, e Girolamo Fortunato, il
qual tutto ciò, che nell'opere d'Ippocrate, e di Galien fi riſer ba, sì
fattamente per le maniavci, che non v'era forſe parola, di cui improviſo
domandarone non gli veniſſe to ito a memoria; e nondimeno tanto, e sì fovente
ove gli pareva, cheragione il richiedeſſe, coſtumava egli a rim beccar
l'antiche, e comuni opinioni, che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia,
e crepacuiore: e ſofina, e cavil Joſo ſempre chiamavanlo. Ma ben comprendelí
l'animo fuo libero, dal libro, ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali,
ed in quello ancora de ſenſi,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò
fuora. E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio
del Riccio, huomo veramente per vivezza d'ingegno, e per dabbenagginc d'animo,
tenuto fommamente caro dalla Città tutta. Ma perchè addietro laſcio ora Io
Paolo Emilio Ferrilli della nuova, e della vecchia medicina parimente inteſo, e
di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc?il qual da' fuoi lunghi viaggi,
e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla
patria riportò, che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli
ſpeziali 1 1 * cor Del Sig. Lionardo di Capoa. 117 corteſeméte arricchiune. E
dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio, che
aveſſer mai le noſtre ſcuole, il dottiſſimo Marco Aurelio Severino, il qual non
ſolo, ſe miglior Chimico, o medico, e ſe più va lorofo in fiſica, o in cirugia,
e ' li foſſe. Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo
maeſtro: anzi oltre affai più gittandoſi, in favellando, ed in iſcrivé docon
filoſofica libertà ripigliò Galieno, e gli altri anti chi, e nelle noſtre
ſcuole tante fiare, e tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e
manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che iGreci, egli Arabi, ei
Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello
ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli, non avendo huom,
che non ſappia, che tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre,
e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare, colla quale egli conſumò l'impreſa
d'un novello filtema di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani
andarmipiù rav. volgendo, ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego
Raguſi in fuora, che ſaldi, & interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre
ſeguir volte, il qual pure, così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar
nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno, in ciaſcun tempo conformaronſi se
pre con l'uſo del noſtro comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da'
ſentimenti d'Ippocrate, cdiGalieno s'allontani, avvegnachè il contrario
comunemente fi giu dichi, agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi. Ed Io,per chè
di più non mipermette il tempo, daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio.
E percominciar con qualche ordinato diviſamento, manifeſta coſa è, che gli
argome ti maggiori, de'quali fornir ſi vuole la medicina, s'ella mai di giugner
intende al ſuo laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento
di tutti più ſaggiIp pocratici, e Galieniſti,a tre capi quali tutti,
principalmen te fi riſtringano, nella Dieta, nella Cirugia, e in quel,ch'
appreffo iGreci chiamaf; Φαρμακευσης. Intorno alla Dieta quanto da' due Greci
Mae ſtri 118 Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti,
dicalo ir mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala, (1 )
fuerunt, dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia, aut tenuiffimo
vietu laborantes exficcabant, pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum
in quantita te adaugebant,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis
exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos,
Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel
cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario
agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno; la qual coſa aſſai già prima del
Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo, Paolo Tucca avviſato,così
nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum, quod longediftat
modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna, ab eo quem
obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio
craſſiusfore reficien dum: in ftatu vero, aut nihil offerendum, aut tenuiſine
dietandum. Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive, in
principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di
leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate, e Galicno in cibar gl'infermi
ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima
difeſa, che ancora va per le mani de’letterati, fatta a pro di Giacomo
Bonaventura medico di Cleméte VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro
ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità, e nel
tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano, anzi
nel modo ancora, e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono, di
tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi, che diquelle, che da’lor venerandi
maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora
l'acque melate, e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci
commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli, e le peſte carnidelle
galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment.in problemat. Ariftot. Del
Sig.Lionardodi Capoa. 119 ye Città ſi coſtumano.L'orzata, dice una volta
Ippocrate (1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e
lodo coloro, i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι
των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas.
Ed altra volta dice, eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare, e perciò a'
febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui
medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni
tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno (2) oltremodo berteggia, c
proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no
poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i
Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi, anzigli ammaeſtramenti di Petronas,
che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire. Così è da dir, che le
brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè
quelle al parer d'Ippocrate, e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere,
e di ſtrignere, dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa,
e mezzanamente umoroſa,ne punto riſtri gnente, perchèqueſta, c non quelle a '
febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole. Ma che direi noi del vino, che da’Napoletanimedici,
non altrimente, che ſe toſſico foffe,a ' febbricitanti ſi victa? e di Galieno
fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta, e come egli ne narra, di cal do, e
ſecco temperamento; anziegli manifeſtamentene conſiglia, e ne conforta, che
inzuppandovi il pane ſi dia, mangiare a'febbricitanti, anche talvolta nel
comincia mento delribrezzo. Ne è già mio intendimento al preſente di dar
giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre, ch'io qui rap porti; ma
ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen, e piano il coſtumedel cibar
Napoletano; e che null'altro, che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar
fatica l'abbia in pri (1) lppocr. nel lib.i.della dieta (2) nel com. 1. fop. il
2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s. della dieta. (4) nel 1.lib. della
facoltà de'med.Jemplo I20 Ragionamento Secondo in prima a'neghittoti
Cittadiniportato, traſandandoſi co sì pian piano, ed abbandonandoſi quel
d'Ippocrate, e di Galieno, che malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc celloni
medici delbarbaro ſecolo ſembrava. Iinpercioc chè, licome il primo de'Greci
maeſtri dice, (1 ) e l'altro il conferma (2 ) eragione il richiede, dee il
ſaggio,ed avve duto medico in prima ben avviſare quanto egli per durare il mal
Gia,ed in ciò gli argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare.
Il che quanto ſia malagevole a certamente comprendere, ſenza reſtarne talvolta
da' ſuoi avviſi ingannato, ciaſcun da per se baſtantemente, ſenza ch'io
divantaggio gliele inſegni potrà ravviſare. E ciò ri chieſero ne'medicique’due
maeſtri, acciocchè nelle brevi malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo
nutricarſi l'a malato, e nelle men brevi non così coſto da prima gli fi menomi
a ſpiluzzico, onde poi nel maggior avanzo del male ne venga debole, e ſpoſato,
e ſenza poterſi con ar gomenti ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele,
poffin poi il medico nel colmo della malattia maggiormen te ſcarſeggiando, poco,
o nulla concedergliene. Intorno poi alla Cirugia cgli è duro molto a credere,
quanto da ſentimenti d'Ippocrite, e di Galieno, il medicar di Na poli ſia
lontano. E laſciando da parte ſtare come quì ſu bitamente, e ſenza
conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi cavar ſangue,contro il
proponimento d'Ippocra te, anzidi tutt'altri medici del ſuo tempo, o più
antichi, i quali, ficome narra il Cardano:in febribusnon folebant mit tere
fanguinem,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il ſanguenella noſtra
Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli, ma eziandio a'bambini di latte, e
talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto il contrario di ce
Ippocrate: Τα δ' οξέα πάθεα, φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί γηται το νούσημα, και
οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw. Ma negli acuti malori
cavarſangue fi dee ove fire grande il male, e l'infermo giovane fia,e ben
gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti, e molti luoghi Ga (1 )
ippocrate nit lib. 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10. (2 ) Gal.nel Com. *
lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (1) in un fra glialtri dicendo: si
péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη θεoρoίημεν, ή αρχόμενον
επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια.. Dunque
ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia, oſe pre Jente quella già,o
pure in ſu'l cominciar fia,avědo ben prima le
forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena:So lamente da queſto
divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive.,
ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano, dicendo (2 ), che non ſi debba no
aprir le vene a' fanciulli, intin, che giungano all anno quattordiceſimo. E
altrove (3 ) anche dice, che ſe le forze di colui, che ammalerà di febbre per
putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno, toito come coinin cierà ella a
farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue: ſolo, che non abbia crudità nello
ſtomaco, e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte; perciocchè altrimenti
aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma
nifeſtamente ſoggiugno: che ſe l'infermo farà bambino, o non giunto ancora
all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da
tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno; le quali molto al no ſtro
propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò, ch’al falaffo richiedefi cosi
dice: (4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν, ει ακμάζει καλά την ηλικίαν
οκάμνων» ούτε γαρ παίς, ούτε γέ έων, φέρει την φλεβοτομίαν, ουδ ' αν μέγα
νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue
fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec
chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia, che loro
dea noja: E tralaſciando di rapportare al triluoghi, ove ſempre il medeſimo,
e'grida, e ripete, di rem ſolamente de'tempi, ch'egli giudica al ſalaiſo oppor
tuni: mentre che in Napoli, ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo
calde ſtagioni avere, cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti,
a' troppo.crcduli, e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer (1
) Gal.della maniera del curare col falafo. (2 ) aelmed.luogo (3 ) nel mes. (4)
nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per. 122 RagionamentoSecondo zi
fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno, e d'Ippocrate.
E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro, e
maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole, che oltremodo ſi debba dal medi.
co aver riguardo al temperamento dell'aria,ch'ella non ſia eſtremaméte calda, e
ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo;e ravviſa
egli, che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer
fuora del ſangue, irreparabilmente morirono. Così vuol Ga lieno ancora che
nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa,
che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano. E perciocchè egli ſtima
va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione, dopo tan to, e tanto
manifeſtarlaci, di nuovo con queſte parole la ci perfuade:(2 ) πτoσθήσω δε
ένεκα του μηδεν λείπειν, τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών, όταν η θερμος
ικανώς και ξηρος, ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ
αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma
acciochè nulla vi manchi, aggiugnerò quell'altra coſa, alla quale è di meſtieri
averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria, che ne circonda: e guardare s’ella fia
sformatamente calda, e fecca, intanto, che molto ne venga a ſvaporare, ed
sfalare il corpo; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè
graviſſima ſia la malattia, e l'huom per tofa, e robuſto. Ma no meno i
Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia
fie vole, o vizzi, graffa, o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno,
avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente, o molto poco
fangue è da trarre; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate. Ma egli
è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper
Ippocrate, e per Galieno, al ſalaſ ſo richieſte, alle quali o poco, o nulla mai
i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo
ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente,
come ne precedenti abbiam (1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. (2 ) nel
com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo mani DelSig.Lionardo di Capoa. 123
manifeſtato, quanto i Napoletani medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate,
cda Galieno allontanarſi. Eglino in priina molti, e molti medicamenti coſtumano,
che da Ippocrate, e da Galieno ne inen per nome conoſciuti già mai furono;
ficome ſenza dubbio veruno son la Callia, i Tamarindi, il Riobarbaro, la Siena,
la Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma, la China, la Salſa,ed altri aſſai,
che per eſſer ben conoſciuti, e per non recarvi noja al pre fence tralaſcio. Le
compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più,o
dagli Arabi tratte, o da gli Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior
conſdera zione nell'uſo de medicamenti puganti ſi è, che i noſtri medici
Napoletani,laſciati da parte, ed abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van
per diverſe tracce cammina do, ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar
audaciſfima mente in ognitempo, in ogni diſpoſizione di ſtagione, in ogni età
dell'infermo, e in ogni ſtato di malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con
far credere alla ſemplice, e credula gente, che cosìvoglia Ippocrate, e che
così co mandi Galieno; imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi
eſcrementi, da dover con gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare.
La qual nuova coſtuma, quanto da Ippocrate, quanto da Galieno ſia ri provata
ben ſi comprende da ciò, che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή
μάλιστα τας μεσολας των ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι
εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè
in quello no s'appreftino di leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi
moIppocrate nó guari appreſſo, cosi parimétedice: jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί
αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι
μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι, και
μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα
μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται και τα μου απο φθίνει, τα δε λήγα, τα
δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno
amē, Q.2 due i ' 124 Ragionamento Secondo 1 1 due iSolſtizi; eſpezialmente quel
della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio; ma quel
maggiormente dell' Autunno. E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle
ſtelle,mafimamentedella Canicola; quindi altramon. sar dell'Artaro, e delle
Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi
giudicano: altre morte recan do, ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato
facendo paſſag gio. E Galieno in altro luogovuole, che anche a ' tempi troppo
caldi, o troppo freddipormente ſi debb.2; che lè'l temperamento della ſtagione,
o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è,
purgheremo sì bene, ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un, ne
l'altro il ci vietaffe. E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il
detto d'Ippocrate, che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole,
e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti. E parimente in un' altro luogo (2
) egli dice, che coloro, i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione
accolgono abbondanzas di non cotto umore, oche più dell'uſato averanno gonfio,
il ventre, e'l corpo tutto ingroſſato, non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole
altresì Galieno, che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi, che
moleſtan loro lo ſtomaco, non ſi debban ne ſegnare ne purgare: A niun di
coſtoro, ſono le ſue propie parole, e' fi fuole trar ſangue giammai, chenon
gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione,
nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe
fenza queſto ſincopizzanti pur fono: (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της
αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ '
έτη φλεβοτομίαν, έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε, και καρλς Tobrwv étaipuns
ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli
infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi, e diſliparſi; eſſendo ella
ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia: ma
però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole.
Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib. del metod. (2 )nelmetod,allib.9.(3) nel
met, al lib.12. 1 nife Del Sig.Lionardodi Capod. 125 nifeſtamente inſegna,che'l
vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo ne s'ingenerano, non è di
giovamento alcuno alla gente; anzi le alcuno per temna, che l'abbon danza degli
cſcrementinon gli noccia, voleſſeſi avvezza. re a purgarſi una, o due volte il
meſe, oltre al manifeſto nocimento, che gliene fiegue, prenderanne il corpo una
dannevole, e peſſima uſanza. Ma ſopratutto, quanto al purgar gli umori nelle
malattie, i quali abbian dicocimi to biſogno, da’ſentimenti d'Ippocrate, e di
Galieno ina nifeſtamente ſi partono i noſtri medici; quantunque a tut ta lor
poſſa con belle parole di dare a divedere altrui il contrario ſempre
s'argomentino. Ne lo prenderom mi troppa briga di dimoſtrar ciò con lunghe, e
ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi ſolamente le parole d'Ippo crate, edi
Galicno rapportare, acciocchè da quelle per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi
poffa, quanto nella crudità degli umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé
pre i medicamenti purgativi vietar fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte, e
nel principio di quellemalattie, che có enfiamento cominciano. Ilmaeſtro di
Galieno, e de' Ga lienifti, per quel ch'eglino tutto dì dicano,fipare, che ne
ſuoi Aforiſmi, ne’qualibrievemente, quanto mai di buo no, o ſcritto, o
oſſervato negli anni tutti della ſua vita egli mai aveſſe riſtringa, una cotal
co? a con una general pro poſizionenediffiniſce; colla quale quanto altrove ne
dice tutto conformaſi, anzi quindicome conſeguenza ſi cava; la qual coſa è sì
chiara, e manifefta, che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a
confeſſarla per verail me deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne
coſtretto, oftinatiſſimo diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque (1) così
dice; ab hoc aphoriſmo cæteri omnes, qui huc fpe ctant, tanquam corollaria
deducti ſunt: ed oltre a ciò ſog giugne: ita ut nullam aliam exceptionem
admittat, niß eam quam ipfe expreffit: quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il
qual da Galieno,oracolo fù chiamato una volta, cosi (2) Le materie cotte
purgare, e muover fi debbono; mas, non (1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2)
nell'afor. 22. dellib. 1. - 126 Ragionamento Secondo 1. non già le crude;
nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor, che turgidefono,malepiù volte turgide
non ſono: Témava Pago μακεύειν, και κινέαν, μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν, ήν μη οργά
• τα δε πλά sve oux ogy: Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô.
fiderare, che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti, che
diſiderar ferventisſimamente, e con impazien za; ed avvegnachè non men
dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia, tuttavia più
acconciamente agli animali ella conviene, ſecondo il ſentimento di Galieno,il
qual forſe da Ariſtorile (1 ) appreſo l'avea. E diceſi di quegli animali,che
tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio, e come diſſe Virgilio
In furias, ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma
no, i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente, e con impeto, diparte in
parte ſi muovono, non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato. Ma noi,
avve. gnachè diſcorrimento, o foga più ſaggiamente da dir ſia, o enfiamento, o
pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza, o Turgidezza: dal gonfiare, o
ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel
latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate, e di Galieno traportando,preſero la voce
turgere: onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia, ad orecchio
latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita:
gonfie, e turgide parimente chiamiamo, quelle materic, che a si fatto movimento
ſoggiacciono;ed in verità gli umori, che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano,
ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer
mafi per quell'altro (2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado
lepurgative medicine da uſar ſono: e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare: iv
Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι, και τούτο
πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato,
che folamente quegli ammalati da purgar fieno, ne' quali liu mate (1 ) nel
lib.o dell'iſtoria degli animali: (2 ) nel 1.degl' Aforiſmi. (Del Sig.
Lionardodi Capoa. 127 materia, onde il mal s'ingenera, ben cotta, e digerita
ſia, fe pur quella non turge, è che rade volte ciò avviene; e ritrovandoli nel
cominciamento di tutte le malattie mai ſempre cruda,e non digerita la materia:
fiegue di neceſſità, che rade volte in ſu'l cominciar delle malattie, fieno
gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto ad Ippocrate, ſcar ſo altrove di
parole, enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi mo, e riſtretto, oltre ad ogni
ſuo coſtume quivi la mede fima coſa avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i
me dici l'importanza di sì grave precetto avviſar ſi debba, ed apprender quanto
quello lor faccia di meſtieri, e di riſchio fia a travalicare. Etali Aforiſmi
con avvedutezza non or dinaria chioſando poi Galieno,oltremodo ciò ne impone, e
ne accomanda: e sempre, che egli di tal biſogna impren de a dire, toſto a
quelli ne rimanda,comea faviſſīme nor me, che il tutto intorno a tal materia
perfettamente con tengano. Ed avendo in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente
detto; ne'mali oltremodo acutifon da purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe
vi è gonfiamento; concioſiecofachè allora l'indugiare è dannoſo affai(1)
Papuaxetes, év toñosning οξέσιν, ήν οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι
τοιούτοισιν, κακον Galieno però vuole, ed eſpreſſamente n'impone, che an che in
queſto caſo dell'enfiamento, il che molto di rado 'avvenir fuole, vi s’abbia in
prima ben bene a riguardarc, e penſare, cioè con tal riguardo,e ritegno
adoperare, che nulla più: ne meno ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po
valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento; perchè aj tal propofito Galieno dife
(1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν
χρώα φαρμάκων, τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας,μήτε, ά και του
υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG-, αλα μηδέ καιρών
ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute malattie
ragionevolmente operando, di rado, nel prin cipio impiegheremo noi purgative
medicine; concioffiecoſachè gli afflittivi umori, nel principio le più volte,
ſtuzzicati non fieno, (1 ) nel lib.di que'che convien purgare. 128 Ragionamento
Secondo fieno, e potrebbe intervenire altresì, che ove eglino fienosi
fattamente ſtuzzicati, allor non foſelo infering a fojtener la purgagione
adatto. E più addietro, de' medelimi umo. ri favellando avendetto: τους ούν
τοιούτος εκκενούν πξοσήκες, τε τέσι τους εν κινήσει, και φορά, και ρύσι • τους
δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν, ούτε
φαρμακεύειν, πζίν εφθή. ναι: τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν.
Αdunque con venevol coſa è, che cotali umuri ſtando in continuo moto, e
diſcorrimento, e fluffo, fi vuotino; ma que', che in qual che luogo del corpo
giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no, ne con purgativa medicina
damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti; imperocchè allora anche la natura
dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale, ficome
ne inſegna Galieno, prendeſitalora per lo primo aſfalimento, o quando da prima
comincia a chiocciar l'ammalato; altre volte anche inſino a’tre primi giorni; e
aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo,nel quale niuno affatto, o
troppo debi le, e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare. E'l gravamento, o
accreſcimento del male liè, quando manifeſtamente il cociinento, o pur ſegnia
ciù contrarj ſi ſcorgono; e dura finattanto, che alla dovuta perfezione il
cocimento ridu caſi; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie, e le
noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono. Ma il gó fiamento avviene, o toſto,
che alcuno ad ammalar comin cia, o non molto indiappreſſo, cioè nel primo, o
nel ſeco do giorno, ſicomc par, che in più d'un luogo avviſi Ga licno. Ma
ritornando al tempo delle purgagioni: ſo ben’In, non eſſer paruto ſaggio a
Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni,
anzi de' primi tre giorni: ma ſi ben dopo il quarto, a coloro, che patiſcono
ſcorrimento di ventre; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo:
Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica
menti, ma ficomediceapertamente l'aforiſmo(1) Negli acu. 11 111.1 (7)
L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e
nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la
coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in
fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè
fe alcun determinerà ſolamente nel principio, o non iſtabilirà alcuna delle
parti, rimarràſenza fallo ingan κato. πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς,
αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις, και εν
αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε, και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε
και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη, και πότετην πέψιν
αναμείναν. τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς, και μη
διορισάμε. ν ©·, εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento
d'Ippocrate, c di Galieno, di rado nel cominciamento delle acute malattie da
inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai, ma ſolamente,facendo di
meſtiere, nello ſce mo del male. E ben ſaggiamente troppo, ſecondo che ad huom
paja, in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più, e
più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc; imperocchè egli avviſava graviſ
ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire. Perchè altrove
favellando egli di que', che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che
Galieno nel comento vuol, ciic s'intenda anche, di que' tutt'altri mali,
chedagli umori procedono:dice, che per coſtoro nulla dal luogo offeſo
certamente ſi vuota, non mai cedé do alla forza del medicamento, ciò che ancora
è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe,
che ſane eſſendo, al inal contraſtano, per chè infievolitone il corpo,
agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto: ne potràricoverarſi più
mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως
επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου, και φλεγ μαίνοντG- έδεν
αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG-, τα δε αντί. χον% τω νεσήματα και
υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι ·
οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per
buona ventura dell' ammalato pur non R gliene 139 Ragionamento Secondo 3 gliene
liegue, non per tanto certiſſimi danni, ed irrepara bili avvenir gliene
debbono; e ſe non altro, certamente gliene andrà alla lunga il male, e
ſconvolgeraſli il giudi cio, che ſopra quello da dar era; ſicome non una, ma
più fiate Ippocrate,e Galieno (1) pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì, chi non
iſcorge allai chiaro, che minorar ſecon do Ippocrate, e Galieno non mai li
puote la cruda mate ria, come beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua
li tentan ciò fare colle ininoranti, che lor dicono,medici. ne. Ma comechè in
ciò grandiſſima arte, emalizia ado perar ſogliano coloro, che ſon di contrario
ſentimento, p coprire, e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio
nca’maeſtri; pur non fanno sì fare, che da ciaſcun non li conoſca, e non ſi
ſcopra la ragia, onde ne reſtin poi vergognoſamente dinnentiti, e convinti;
così ſciocche ſon le chioſe, eicomenti, co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa
d'inviluppare, e travolgere gli apportati Aforiſ mi, e con lor ciance far
calandrini, non ſolo la volgare, e cieca gente, Cheficrede ogni coſa, che l'è
detto: ma col volgo ancora que'letterati, che poco, o nulla a sì filtre coſe,avvegnachè
digrandiſſima conliderazione, ſo glion badare. E certamente non poſſo non
maravigliarmi forte della lor tracotanza: ſe così poco, o nulla eli riguar
dando alla ſtima di sìvenerandi maeſtri, ad ogn'ora così vituperevolmente gli
beffano. Perciocchè volendo coſto ro, che nella copia grande, nella malizia, e
nella ſorti gliezza degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi
derazione, o per riguardo della dignità della parte offeſa, o della gravezza
del male, o della grandezza delle cagio ni, o del pericolo imminente, o per
altre ragioni ſia das purgar l'ammalato, tutto che la materia cruda lia, e non
pur nel principio, ma nell'aumento, e nel vigore delma le: o ciechi affatto, e
diflennati; e pure ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi
fan vedere, non ſolo, perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto, ſe non (1) nel
lib.4. della dies. p.44. di mal Del Sig.Lionardodi Capoa 131 di malvagità, di
traſcuraggine almeno, i lor maeſtri; poi chè in materia di tanta conſiderazione,
ne Ippocrate, nes Galieno di cotalicaſi han fatto menzione alcuna, comes
certamente doveano; ma anco, perchè, o non avviſano, o fingono dinon avvederſi,
che poco men, che ſempre; o una, o più delle coſe per lor dette, ne'mali acuti
ſi trova no. Laonde, ſe tale veramente, qual per loro fi finge, li foſſe ſtata
veramente opinione d'Ippocrate, e diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il
contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di rado,come dicono, ma
ſovétiſſimamen te, o poco men, che ſempre nel principio degli acuti ma li ſi
debba purgare, e che nell'aumento, e nel vigore di ef fi ciò anche ſi debba
eſeguire. Ma pure per iſchermirli da cotal colpo s'argomentan coſtoro di
traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro maeſtri: da cui tutt'altro
certamente ſi compren de, che qucl, ch'elli intendono. Ne dovea in buona veri
tà Ippocrate, ſe pure frenetico, e mentecatto egli del tut to non era, in
que'luoghi, ove del gonfiaincnto ſolamente fe menzione, non annoverarvi ancora
quell' altre condi zioni, per le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia,
non anche al debito cocimento pervenuta. Che ſe non è da dire, lui quivi averle
per balordaggine dimenticate, masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo
ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli logorò, perchè per ogni parte
perfetta l'opera riuſcir doveſſe, biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon
eſſer mai ſtato il ſentimento di lui, cioè a dire, che gli umori non cotti,
anche ove gonfiamé to non foſſe, a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così
abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche in coſe di niun momento
vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam dire, che in materia di
tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E
certamente non ſi dee in niun modo crede re, ch'egli così traſcurato ſi foſſe,
che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria, fe ftato foſſe meſtieri,
diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage 4 132
Ragionamento Secondo ga, e quanto ſtrabocchevoldanno, e nocimento, traſan dandola,per
ſeguir ne foſſe al malato. Ma certamente no fu tale il ſuo ſentimento, ficome
cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a divederc. E ben
avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti, cosìdel paſſa to, come del
preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino,avvegnachè del purgare
ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo,dicédo:
Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis,
cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu. E
di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa
vella, e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo,così
delle purgagioni nel principio delle malattie, ebbe a dire. Et licet
Hippocrates dicat buc raro faciendum, nos rationibus adductismoti, crebrius id
face re poſſumus, debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro
Maſſaria ciò, che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe.
Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra
non defunt Manardus, &alii,ſidiis placet, Heroes, qui audent affeverare,
illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in
diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian
piano avan zata, che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera,
che piacevoli, e deboli, ne più, che una, o pur due volte: ora a gran dovizia
grandi,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte,come ſeinplici, da'noſtri Galie
niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta, o per tema, che n'abbiano
gl'infermi, o per altra cagione, alquan to più lievi, e deboli loro le
impongono, nondimeno, o con accreſcerne la quantità, o con meſcolarvi per entro
alero in ggior medicamento, o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono
maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio
degli ammala ti; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo; il qual fico
Del Sig.Lionardo di Capoa 133 ficome di ſopra è detto, tante, e tante fiate
manifeſtol loci: e Galicno medeſimamente, il quale oltre a ciò av vifa, che 3Gν
αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως,
αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν, διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω
βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις, απεψία δ ' ες των χυμών, εν τέλω
κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε
διάκρισιν, 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male
comincia, ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor certamentenon
purgheraftſecondonatura, ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni diquella;
imperocchè,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle malattie, ma
fon crudi gli umori, allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva
cuazionefelicemente rieſca,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il
cucimento, quindi lo fceveramento, e finalmente l'evacuazion ſi faccia, perche
ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la qual
coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru. dità,
ſemprealtresi nocevol ſarà, e darnofa l'evacnazione di si fatti umori: ώς τ' εα
ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε. ψίας εσιν αι σημάα, μοχθηρα δια παντός
έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos: E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge
quan to vadano errati, così coloro, che follemente immagina no non aver vietate
altrimenti quelle purgative medicine, cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate,
ne Galieno nella crudezza degli umori: comequegli altri ancora, che ofano
affermare, che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni,
che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine, che violenti
ſono nell'operare; il che però eſſer molto, e molto dal veroló tano chiaramente
ogn’huom vede; imperocchè per tacer del latte rappreſo, dicuicosì ſovente Ippocrate
ſi valles certiſſima coſa è, che gli antichi ebbero contezza della Mercorella (la
quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino, della Fumaria, dello Goico,
del Polipodio, dell'Agarico, il quale per Galicno malamente venne ſti mato
radice, comeche fungo egli veramente ſia, e d'al tre, e 134 Ragionamento
Secondo 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno
dice a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo,
medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del
cocimento. Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera
di Temiſone, leggeriſſima medicina, ſe non che quando la materia ſarà al
cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva
ſolamen te fia, nondimeno, come la ſperienza, ne inſegna data in quantità
grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo, ed alPolipodio, Galien dice
chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano (1) E
quanto è a me, Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate, e Galieno aveſsero
dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere
appreſo; e perciò eſſer'avvenuto, che così ſtabilmente poſcia l'avel fer
ſempremai conſervato; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran
padre della filoſofia, e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella
Grecia recate; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito
in fuori, che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l
ſuperaſse giammai. Ma che Pittagora, foſse di tal ſentimento, egli li par
manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo, che della natura
dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico
introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del
commovimento ſuol riuſcir, ma non però ſempre giovevole ad huom, che da grave
neceſſità vi ſia tratto; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare,
cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono
guari pericololi, non ſono da ſtuzzicar con purgagioni; concioffiecoſachè la di
ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali: c
certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata, che generalmente ha i
termini della vita già ſta biliti, e qualunque animale ci naſce, con fatale, e
deter mina (1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. DelSig.Lionardo di Capoa 135 minato
ſpazio ncmena egli i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni, che di
neceſſità avvengono; imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso
loro tal virtù ſor tiſcono, che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per
infino ad un certo tempo, oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più
avanti allungar la ſua vita. Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle
malattie, e ſe altri colle purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla, al
lora di piccioli,grandi, e di pochi, molti diverranno; il perchè col
regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da correggere, e rintuzzare, per
quanto a ciaſcun veriì, ad huopo; ne il durevol male con medicamenti irritar fi
dee: Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον, άλως δε
ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον, το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον
ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες, ουκ ερεθισέον
φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων, όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε
και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος, του ο γένες
ξύμ. παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον, φύει χωρίς των
εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον &
ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών, ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το
περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις
παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις, άμα εκ μικρών μεγάλα, και
πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα
τοιαύται καθ, όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον
ερεθιστον, Ma diſcédédo a qualche particolarmalattia,egliè da ſapere che fu ſentimento
diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne
da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe, che la materia per la
ſoccorrenza uſcita, non foſſe ella alla debita purgabaſtá te, o altro vi foffe
da dover cacciar fuora nell'ammalato; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al
ſuo Glaucone, eſſervi ſtatialcuni, che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian
condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi. Mai noſtri
mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino,
pure i ſaldiſſimi ann 0ae 136 'Ragionamento Secondo maeſtramenti di lui affatto
traſcurando, a lor talento, e purgano, e ſegnano in ſomiglianti caſi, nulla
guardando a’riſchj, che, ſecondo egli avviſa, ſeguir ſovente ne pof ſono. Così
ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della diffenteria)vieta
in tutto il falaſſo, e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente contro i
ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano. Così anche nel la puntura
quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole, vieta
apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole qualche
manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja. Ma cote iti diſcreti
diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente, che vaniſſime fuperftizioni fi
foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta ſolamente loro in tali
avvenime ti, che col dolor vi ravviſin la febbre, che come in prima poffono,
cosìin diſpetto d'Ippocratc,e di chiunque ad Ip pocrate crede, per iſvenare i
miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole, direbbe Proſpero
Marziano per avventura. Ma dove laſciato avea lo il purgar le dó ne levate
appena del parto, e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati apertamente
da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare? E dove nelle lunghe malattie,
nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno, ne fegnal
d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i manifefti
divieti d'Ippocrate, e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli ammalatise
non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi, o alle ſtagioni dell'anno,
e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione, ovemanifeſtamente
da’lormaeſtri ſi partono? Troppo largo campo o Signori da valicare aurei,
s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a capo Io
ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia, che in tante coſe, e malli mamente nel
purgare, c nel trar ſangue dal loro Ippocra te, e Galieno i noſtri Galieniſti
partiti fi fiano: e che ezian dio que' che han riſtorata la lor medicina, e
ſottrattala al l'arabeſca rozzezza, pure travalicando i lor diviſi abbia no in
Del Sig.Lionardodi Capoa. 137 no in ciò manifeſtamente fallato; lo ciò giudico
avvenirc, perchè gli ammalati, e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre
deſideroſi oltremodo di rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta
vacuazione adoperar fi veggono; come fe da quelli il lor ſalvamento, e non più
toſto la lor morte dependa. Perchè nelle malattie, e maſſimamente nelle più
gravi, e nel vigore, e accreſcimento di quelle, ove l'intermo maggiormente
languiſca, per non moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento
niuno, fi va gliono di cotali medicine, e talor vi ſono dagli ammalati
medeſimi, o da congiuntidi coloro contro lorvoglia i me dici menati; perchè
altrimenti a color non ſarebbon a grado. E quinci anche è, che alcuno
de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi medicina,abbian ritenuti in par te
sì fatti modi di inedicare: non perchè egli veramente crcda, che ſien valevoli
conſigli, da riſtorare ammalati; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già
foinmerſa, ed incallita la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o
pochiſſimi ammalati da medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da
ciò, che detto è compré der ſi puote, che purtroppo grandemente nel medicare,
da Ippocrate, e daGalieno i Napoletanimedici ſi diparto no, e s'allontanano;
emolto più aſſai di quel, che'l Paracelſo, e l'Elmonte ſteſſo, e altri moderni
ſpargirici, o altri, ch'elli fieno, per avventura ſi facciano. Mafi laſci ad
altri la briga di ciò conſiderare: baſti a noi il ſapere,co. me ancora da
ciaſcun Galieniſta Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò, che con
parole da alcuni di loro manifeſtamente ſi biaſima; e come ancor' eglino laſcia
no il loro Ippocrate, ed il loro Galieno, ove lor venga in talento: e che tutti
igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de'
creduti maeſtri, alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino
coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti, e di mordere, e di lacerar
tutto dìla loro lode vole libertà, ne mai più per innanzicon uggia, e crepa
mente > S CUO 138 •Ragionamento Secondo cuore ſi ſtudjno di contradiarla, e
di metterla in fondo; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto,
da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata, e
mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic, e Scuole
dell'Italia, della Lamagna, della Francia, dell'Inghilterra, della Svezia,
della D2 nia, della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc
ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure
a'piati,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora per
me molte narrate ne ſieno, pur molte ancora, e quaſi infinite a raccontar ne
rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza, e già il
ſole comincia a gir ſotto, riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea. RA 139 j:
Milli RAGIONAMENTO T E R Z O Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento
quel tranquillo, e feliciſſimo ſecolo, che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno
vien detto: tante a biaſi mar la preſente, e miſerevol noſtra età; quaſi di
forza ſon tratto. Non pure, perchè a quella la terra dall'aratro non ancor
tocca, tutto ciò, che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente
produceva; ed ora a romper zolle col Vomere, e col Raſtro, a ſveller pru ni c
ſtecchi anza, e ſuda, e talora anche in darno il Bi folco; ne perchè allora, e
nuvoli, e nebbie,e tempefte ', c turbini non intorbidavano, ficome or fanno, i
lucidi ſereni dell'aria; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor
ſignoreggiava il mondo: reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro,
e regna l'oro; ne per tant'al tri privilegj, che diquella s'annoverano,
de'quali altro che un'intenſo deliderio, ch'il cuore acerbamente ne pun ga a
noi non n'è rimaſo; ma ſi bene perciocchè, e liti, e S 2 pia 2 1:40
Ragionamento Terzo piati, econtefe, ed armi,eguerre non allignarono. No
arruotava le zanne a mordere il cinghiale; non digrigna va i denti il maſtino;non
rabbuffava il doſlo il Lionefra; l'erbe, e fiori s’appiattava ſenza veleno
l'angue. Ma che è ciò? l'huomo, l'huomo di tutt'altri animali duca, e ſigno re
non fabbricò nave, ch'apportaſſe guerra agli altrui li di, non forbì, non
arruotòferro periſvenar l'altrui petto: non aſſordò l'orecchie con iſtrepito
ditrombe, di corni, o di bellicofi tamburi; vivea ciaſcun ficuro ſenza il
riparo di murate Città. Ed a'dinoftri, che più fi tenta, che più fi machina,
ove più fi bada, fe non ſe a' nuovi ordigni da guerra, perchèl'un Principe,
l'altro abatta; l'una Repub blica, l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra
atterri; l'una Città, l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com
batte nelle campagne, ſi combatte nelle Città, s'armas contro l'un l'altro
amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre
co'l figlio calora conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe, e benchè
tar dis pure è gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero,
chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto fine, ne in ogni tempo le porte
di Giano ſieno ſtate sbarrate. Ma quel, che pür troppo è da maravigliare, è ciò,
che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto, e debbo nel preſente ſeguire; egli
cono le tante, e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta,
quefte non han inai line; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate, pur
altre aflai a narrar ne rimangono; le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente,
e darvia diveder, che tutte quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine;
la quale perchè più chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente
altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E perchè fi comprenda, quanto
queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di pace: ne baſterà per avventi
ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor
diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed
intelletti vaghi, Non 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 141 Non per ſaper, ma per
contender chiari. Eper la verità delle loro ſtrane, e ſtravolte opinioni da. to
brigando romoreggiano, che poco men fanno per av ventura l'onde torbide, e
fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte giungono furioſe
a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor, dper surbor (dicea
di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a fe ipfo tanto
verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant.
Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia
tiapiati, quiſtioni a quiſtioni, ne preſero anche in preſto dalla brigante
filoſofia, altri più inviluppati, e nodofi, da fare ſtancar inutilmente per
un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo. Perchè riſtucco,
ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives, così (clamando proruppe. Ex
fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem, ácopiofifſimă difputandi
materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione,
& remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus
proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient
ventilantes fua fomnia; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus,
atque occidentibus. Ea res fecunda, e infinita non aliterquam bydra quædam
diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft
cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus
inu tiles, quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio
Giraldi huom di rara, e di ſquiſita letteratu ra, così de’diſcordanti
pareri,che a danno altruiportano, e mettono in campo i medici, fe vagamente
parole. Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq;
partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus, ut no ftra etiam hac ætate
tanta fit inter medicos diſſimilitudo, ut corumaliqui vena inciſiunem omnino
prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente
un faggio, eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente
ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe, e confuſisſime opi 142
Ragionamento Terzo opinioni ciaſcun di loro ne porti. Dicono alcuni ritrovar fi
veramente, e formalmente gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti,ſolamente
in virtù, ed in potenza. Vogliono coſtoro, ſecondo ilſentimento del lor maeſtro,
effer le qualità formevere degli elementi, e de'milti: co loro tutte le forme
eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno, amendue le
qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi; altri una in più
alto, e altra in più baſſo grado ne allogano; quin di infra coſtoro altra nuova
quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie
accoppiar ſi ſoglia no. Ma ſe le dette qualità ſien tutte, come dicon poſiti ve,
e vere: 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle, lungamente affai
ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano
alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti, formal mente
avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti; altri ſono dicontrario
parere. Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le
moderneopi nioni? ſenzachè non ſon minorile conteſe, s'egli ſia pur vero, che
vi ſia temperamento; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come
cmpiamente avviſoſ ſi Galieno, o pure altro, che quella; ſe ſia da porre il ſo
ſtanzial temperamento; e ſe quel poſto, del qualitativo in nulla differente
egli ſia. Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno, e dell'altro
teinperamento ſi ſieno; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle
quattro prime qualità riſieda, o pure in altra qualità da quelle riſurtu. Ma
troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì
fatta materia, le zuffe, e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen,
ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra
nodati, e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi
nella natura? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi, rifiutando
altri ciò, che altri ne dice, e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi;
an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte I DelSig.Lionardo
di Capou. 143. molte, e molte ragioni recate,e tutte rifiutate,ultimame. te con
tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia
quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt
argumentis penficum latis,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari,
ejetan tum, veleffe debuifle quatuor elementa, ſed id ita effe, nos accredere
Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni. Concluſione indegniſſima
nel vero non pur di lui: ma di qualunque più cattivello ſcolaretto, che per
filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo
Ariſtotele, c dal ſuo Galicno ſchernito, e forſe da lor nc torrebbe in capo del
ſer Meſtola, e delgocciolone, le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede
ſenza il pc gno in mano delle ragioni, el primo allega l'autorità nel l'ultimo
luogo dopo tutt'altre pruove, con ciò manifeſta mente inſegnando, che non miga
delle autorità, ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma
pu re Iddio voleſſe,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li, i quali
ſecondo il ſentimento del Pemplio, non alla migliore, ma alla maggior parte
degli ſcrittori voglion gir dietro,pecorum ritu,perdirlo colle parole di Seneca,
non qua eundum eft, fed qua itur. Cattivelli di loro, che tratti dalla
bordaglia de letterati,immaginano, che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo
del vero ſapere, qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo,
ne fon di ſtornati, e danneggiati così, come cantò il Bembo nello ſuc
diviniſſime ſtanze: Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua
quandell'eſce diſtrada, Che tutto errandopoi convien,che vada. Ed’o ſe mai
eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo,
Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem
hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis peregrinationibus condicio eft in
illis comprehenfus aliquis limes, interrogati incola non patiuntur errare: at
hæc tritiſima quaquevia, &celeberri ma maxime decipis: certamente
infomiglianti falli ſcimu. niti, 14 Ragionamento Terzo niti, ch'elli ſono, non
fi laſcerebbono traſcinare. Ma egli però giova credere, che il Pemplio non già
da fenno, ma per irrifion parlaffe, ed ironia, ' fe poi ſenza al cun
rimordimento, e fenza ſcrupolo averne di temerità, in trattando delle
qualità,paleſemente delle dottrine d'Ari ftotele, e di Galieno famoſtra di non
curare. Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia
ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono, ficome ſon
quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo, al caldo natio,
all'umido, che dicon ra dicale, all'eſiſtenza, alla natura, e al numero degli
ſpiriti; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che
innumerabili quiſtioni della natura, del numero, del luogo, della diſtinzione
delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe, onde il chilo, e'l
ſangue, e gli altri umori s'ingenerano; o pure in trattar del polſo, dell'arte
rie, e del movimento del cuore: ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il
moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto
celebre, e faniores conteſa, e di tanta conſiderazione in medicina, ſe la bi le,
la flemma, ela malinconia ftian di fatto, o pure in po tenza nella maſſa, come
dicono,del ſangue? Il che in buo ſentimento viene a dire, fe veramente vi lieno,
o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere, ac ciocchè ſi
dica,che vi ficno;ficome direbbeſi altresì, che nel ſangue vi ſieno in potenza,
e carne, e vermini, e cene to, e mille altre coſe, chequivi ingenerar ſi
poſſono. Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe, e
ſtrane opinioni, riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar
della natura, delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e
de'luoghi, ove s'ingenerano; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni
maeſtri: e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar
dall'intralciato, e confufiffimo labi rinto di tanti, e sì fatti riboboli, e
indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina
di Galicno s'attenga, Tralaſcio pure le lunghe, ed inviluf pate 1 1 DelSig.
Lionardo di Capoa 145 pate quiſtioni intorno all'apopleſſia, al catarro, al
letargo, alla mattezza,alla malinconia, a' capogirli, al mal caduco, alla
peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe cotro verlie, che non ſarebbe
per avventura minore impreſa il raccorle quì tutte, che l'arene del mare, e le
ſtelle del Cie to minutamente annoverare. E comechè per queſto capo incerta, e
confuſa, e inviluppata la medicina de' Galieni fti oltremodo ſi ſcorga, e
perciò inucile, e nocevole ad adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle
mag giori biſognedell'huomo incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire
intorno alla dieta: i fini, e le condi zioni del trar fangue: la natura, la
facoltà, gli effettia e'l modo dell'adoperar de’medicamcnti: quando, ed in
qua’rempi del male ſien da dar le purgagioni: ed altre, ed altre infinite
quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho quì bric vemente raccolte, una
menomiſſima particella ſi fono, e certamente lo m'avviſo, ch’in leggendolei
curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano, s
ſdegneranſi, veggendo a quante controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti
pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare, e la vita deglihuomini. E
chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo ſterminio, che fan tutt'ora
de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di quella, cofa del mondo?
Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora, chenti, e quali elle fiano,
e d'onde naſcano, come operino, e muovano il male; quindi intorno a quel. le
d'entro combattono, ſe fien verainente qualità: efe tali, naſcoſc più toſto, o
manifeſte, o pur ſe da loverchio di putrefazione avvengano, o da tutta la
ſoſtanza più to ſto gualta; e corrotta; e oltre a ciò in quali luoghi elle fi
covino, diverſamente contraſtano. Così mordendoſi l'un l'altro, e piatcndo,
niun l'imbrocca, e tutti a malpartito menano gli ammalati; volendo altri i
falaſſi, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta permettendogli, chi ſcar
ſamente, cchi fino a trar loro tutto il ſangue, chi dalle venc delle braccia, e
chi da quello de piedi, e chi anches da quelle parti, delle quali è bello il
cacere, con appic T carvi 140 · Ragionamento Terzo carvi le mignatte; altri a
tutti coſtoro cótraſtando voglió, che dalla buccia ſolamente per coppette fi
tragga. Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de
boliſſimo ſegnal di cocimento;ed altri, o nel principio pur gar logliono, ove
turgide lien le materie, il che di rado. avvenir ſuole, o pure inſino allo
ſcemo del male s'indugia no. Molti poi nel purgare, de’violenti medicamenti fer
vir ſi fogliono,molti de'mezzani, ç moltide’deboli, e be nigni n'adoperano: e parecchi
ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi purga una
ſol volta, e chi più volte in ogni tempo, e ſtato del mal lo coſtuma. V'ha
alcuni, che come il mal comincia, cosi toſto con le purgagioni v'accorrono; ma
dopo i trè dì af fatto le victano; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé
plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a'
rimedj, che chiaman veſcicanti, gli infermi condannano; altri vuol, che in
prima purgati, e ſegnati color fieno; echi in un luogo, e chi in un'altro cô
-sì fatti rimedj marchiar gli vogliono, togliendo loro così manifeſtamente le
forze, e crucciandogli, e dando loro vigilie, e dolori, e forſe con riſchio di
gangrene,di piaghe nelle reni, e nella veſcica, di malagevolezze d'orina,e
d'altri malori, che ne foguono. Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici
alcuni più rinominati, che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno, cd
Ippocrate, o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen
zioſo; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele, oleremo do vituperino, e
danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento, ma ſolamente
a fraſtornarlo, ed indugiarlo, con accreſcer le cagioni ad un'ora, e gli effet
tidel male, e con piagar, ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni, e la
veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente
morire. E v'ha, eziandio di coloro, che non d'altri rimedi, che de ſolian
sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora
diverſamente piariſcono. E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo
infra qualche ſpazio di + tein DelSig.Lionardo di Capoa 147 tempo le lor
conteie? e le loro incertezze appianate, fari per porſi fuora, quando che ſia
un più ſtabile, e veriſimile fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam
conghier turare eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati, e le conteſe, e
ſempre più confuſo, e incerto, e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel
vero,chi mai potrebbe deci derle? non le autorità, non le ragioni, non
l'eſperienze; imperciocchè, così gli uni, come gli altri, di loro eſperi menci
egualmente fan moſtra, e pompa; morendo vera mcnte, e guarendo così degli uni,
come degli altri, i malati. Per amendue le parti poi lor ragioni ſi produco no
in mezo; equinci, e quindi ogni conteſa ha ancora i fuoi parziali. Ne v'ha
cagionealcuna, per la qual mag giormente attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad
Er cole Saſſonia, ad Orazio degli Eugenj, che d'altra parte più coſto ad
Aleſſandro Maſſaria,ed a Fabio Paccio, eze Pietro Salio, o a Girolamo Cardano
preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti egualmente ficn di pregio, e lieva
nella Gia lienica medicina, ed egualmente di maggioranza gareg giar îi veggino.
Perchènon ebbero certamente il torto, per quelch’lo ini creda ', a dir quc'
valene' huomini:non. polje comprehendi patere ex eorum qui de his diſputarunt
di fcordia; ciim de ifta re, neque inter ſapientia profeſſores, neque inter
ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par te vi ho diviſato a’quali
tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia,
diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura, e mi argome ti di
recarvene brievemente la cagione. Alcuni ſciocca. mente fi perſuadono ciò
ſolamente per colpa deʼmedici avvenire, i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed
avariſfi mi del denajo, e naturalmente ancora riottofi, e ſuperbi, ſi graffjno
ſeipremai, e ſimalmenino; cercando a ſpada tratta ciaſcuno, ove a lui venga in
concio, altrui travaglia re, e neinichevolmente affitto atterrare. Così vengono
a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare, non altrimenti, che
tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano; perchè faggiamente
diffe Eriodo وا T 2 Ka? 148 RagionamentoTerzo 1 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα, και
τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα, και αοιδος αοιδώ. Che in lingua noſtra
riſuona Al fabbro, è'l fabbro in odia: e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno:
arde diſdegno Contro un mendico l'altro: el’un cantore Contro l'altro cantor di
rabbia freme. Malo per me fermamente credo, che alcra di ciò ne ſia la cagione:
e che non tanto per uggia, e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento
dell'arte medeſima così in certa,e intralciata,e dubbioſa no poſſan goder mai,
ne pa ce ', ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità
di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le, in quante la medicina ſi
parte, ſe già non foſſe, che la filoſofia, e tutte quelle ſcienze, c'han colla
filoſofia qual che attacco, o dependenza, alle inedeſime tempeſte del la
medeſima ſoggiacer ſi veggono; nelle quali malagevol molto, e difficile è lo
inveſtigar la verità, licome confeſſa no que'filoſofi, e medici medeſimi, che
d'haver preſte loa lor pruove, e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano,
Nemailetto di ſelva allor, che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde
quante, e quante diverſe, e diſcordevoli fette ha l'anti ca, e la moderna
filoſofia; o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro
fian de parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente, chi non sa quam
to li premano, e li rintuzzino iGreci,egli Arabi, eiLa tini Maeſtri? quorum
fudium, dice un di loro, perpetuum,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant.
Ed a cui non ſon manifeſte le continue, ed oftinate contefe delle dire
Peripatetiche ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali? E a tanto giunſe la
lor riottoſa oſtinazione, che poco fallò, ch'un dì in Parigi venendo alle mani,
nó iſve gliaſſero nella Francia una nuova, e fanguinofa guerra ci yile. Ed
infra i Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare?
e chi co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti? ma per
noi 3 di DelSig.Lionardo di Capoa 149 dipartirci della noſtra medicina, in
queſta altro non è egli per certo di tante, e tante diſcordie cagione, ſe non
ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali. E ciò
ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima
chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile: ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη, το
κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία.χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής, ως δηλόι
και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν
ραδίως ευρεθήναι το αληθές, ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες
αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι. 11 giudicio, dice egli, fi è la ragion
medeſima: poichèper quella le coſe, che da far fono, fon giudicate. E
certamente egli è difficil molto, e malagevole, a rinvenire, Io dico il
giudicio vero, il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità delle fetre
della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la verità, non
ſi ſarebber tanti, e tanti valent'huomi ni, che per imprenderla con ogniſudio
ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti. Fin qui l'avveduto Greco.Manoi
più avanti procedendo ci avviſizmo, il rinvenir la verità effer certamente
molto più malagevole, o piùardua imprefa aſſai di quel', che s'immagini, e dica
Galieno. Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci amemoria, che noi non
men, che gli altri animali, poveri, e mudi affatto di qualunque, comechèmenoma
contezza delle coſe,naſcii mo; verità così chiara, e conoſciuta per ognuno, che
non le fa d'alcuna pruova meſtiere, e molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e
Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa, avvegnachè altra volta faccia
ſembiante di tener con truia opinione, dicendo, che'l noſtro apparare altro in
vero egli non ſia, ſe non, che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune,
che già noi prima di naſcere ſape vaino; ed imperciò tutte le notizie ſenza
fallo conviene, che da noi ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma
lagevol troppo per avventura ad inveſtigare. L'animanoſtra, alla quale, come a
parte più nobile, e più principale dell'umana compoſizione, ſolamente con.
viene l'apprender le coſe; ondefolea ſaggiamente Epicar modi 150 Ragionamento
Terzo mo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe tutte fon forde, e
cieche; l'anima noſtra lo dico, comechè in corporca forma, ed inviſibile ella
fia, in sì fatta guiſa no dimeno unita, ed avviticchiata, per così dire, ella
al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di fuora toc co, emoflo
ad eſſer mai viene, varj, e varj penſamenti in effa egli è valevole a
ingenerare; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano,e muovono le fibre
de’ncryi, le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato
pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un
diſcorrente, e ſottil licore, gli avvti mo viinenti alla prima loro origine
riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima, ove quella il comprende, o
per me dire ſente. E le fibre poi col venir variamen te premute da quelle parti
del corpo, che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in
varie, ed in varie maniere sì, e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito
delle lor particelle, che da loro, e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di
fuora la diverſità del comprendera, o fia de'ſenſi,ncll'animna procede. Quinci
ſcorger ſi puore, chei ſenſi ſono quelli, per li quali non altrimenti, che per
le fineſtre liz luce, entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da
queſte ella poi altre, ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo, tratto
tratto ſe ne viene ad arricchire; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato
notizie, e come l'anima l'abbia più, o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole,
e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino, è malagevoliſſimo ad
inveſtigare; ne queſto propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa
perlo. Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera mente, e confeſſo,
che i ſenſi nc ſe medelimi, ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè i
ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all'
anima rappreſentano, quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o prenderſi
d'altro brigi. Verità, la quale non ſo lo come de'peripatetici le ſcuole col
maeſtro Ariſtotile abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella maniera, la
qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la faccenda, ogni
fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe, come faggia mente
avviſa quellaltilimo filoſofante, e poeta latino:.. Vt in fabrica ſipravaſt
regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et libella aliqua fi
exparte claudicat hilum: Omniamendose fieri:atque obſtipa neceſ umft: Prava:
cubantia: prona: Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut quædam videantur velle:
ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i ſenſi mai poteſſero una
ſol volta, o ſe, o altri ingão Nare, ſi toglierebbe via certamente dal mondo
ogni con tezza, ogni giudicio, ogni fede; e non per altro in vero gli antichi
Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i filoſofanti d'una sì
erronica, e ſciocca dottrina: Re cita Ioannis teftimonium, dice Tertulliano,
quod audivi. mus; quod vidimus oculis noſtris, quod perfpeximus, ma nus noftræ
contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta -tio fi oculorum, aurium,
& manuum fenfusnatura mer titur. Ma a chi mai ricorrer ſi dovrebbe per
conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo? ad altro forſe?
certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà ſoſpetto
difalſità, e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti: manon
ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità? o ſia una, o ſieno più le
perſone, che ne deano teſtimonianza, nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa,
ed incerta la fede. O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade, gli errori
de'ſenſiconoſcerà la ragione? ma come potrà cio mai eſſa fare, fe per avvederti
dell'error d'un ſenſo, ad ammendarlo, dineceſſità le fa meſtieri fervirſi
dell'opera d'un'altro ſenſo, e di notizie, e di regole col me. zo de'ſenfi
parimente avvte. A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura
Ariſtotele, ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del
l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo, il quale abbia però più ben
fatto, e ſquiſito l'organo; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo
dell'anello, il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi
ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno, or nell'altro dito della inano appare al
ſenſo del tatto non uno, ma due eſſer gli anelli; il quale per error del tatto
vien ſecondo lui avvertito, ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo
della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto. Ma a chi
per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza
dell'organo perfetta aſſai, e compiuta ſia, nó ſarà mai valevole ad operare,
che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato. E per valermi del medeſimo
p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti, ſecondo
cheporta opinione il medeſimo Ariſtote. le, ne'colori dell'Iride, e delcollo
della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore
ſoggiacere, fi ritroverebbe per tale, che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più
agevolmente ad errare il ſenſo della viſta, che tutt'al tri ſentimentiincorrere.
Ma lo forte mi maraviglio poi, come non avviſaffe Ariſtotele, che ſoventemente
l'errore del ſenſo, che ha più eccellente l'organo, da un'altro fen fo, di cui
l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi, e cor reggafi; comeincontrarſuole
nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien
ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla
fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la
ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti, ſieno anch'eglino tali, e ſe
tali pur ſono, perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà
giudicar la ragione appiccata allc lor pruove, c certamen te mal può convincer
perſona di falſità quel Giudice, al quale convenga dineceſſità valerſi di
teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe Ariſtotele con la ſua uſata poca
fermezza in alcun luogo dice, i ſenli non potere in modo alcuno errare, cche
ſia debolezza d'intelletto i ſenſi per la ragione laſciare. Ma quantunque non
poſſano iſenſi, ne ſe, ne altri in gannare, non però di meno poſſono molto bene
allo in telletto, cui propianente il giudicar s'appartiene, effer 1 cagio Del
Sig.LionardodiCapod. 153 cagione d'errore, e d'abbagliamento; ecomechè poffafig
avventura l'inganno, o l'errore ſchivare col non precipi tar coſto,e
inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che
fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti, tanto, e tanto celebrata per Epicuro:
tutta fia ta,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella di quelli,
tra per la lor picciolezza, e per altro impedimento egli non è
a'ſenſid'internarſi, e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga
permeſſo, ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non ſecotali
im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono, pchè no già mi ga i corpi, ma
qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta; ma la ragion
poiè quella chedal le varie, e varie operazioni de'corpi, varie, e varie core
alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera ciocchè
dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano, varie, e diverſe
eſſer poſſono le cagioni, e nel trarne argomento vezzoſa talora, e ingannevole
loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza, e larvä, agevolmente la ragion vi
s'inganna, giudicando fallaces mente,da tale cagione un'effetto naſcere,che da
altra cer tamente avviene; e come già cantò l'Ennio noftro Ita liano:
Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per le vere
cagion, che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo ſtelo, e
colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del giore no, vero
per avventura egli direbbe; ma non mai potreb be certaméte affermarlo,potendo
altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare. Perchè ciaſcun fillogiſmo, che
intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente ef ſer può, non già
dimoſtrativo, ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben pochi, che da quegli
effetti ſi dedu cono, i quali d'una ſola, e certa cagione poſſono avveni re;
ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer ne V ceſke 154 Ragionamento
Terzo ceſſariamente corpo ciò, che gli organi de'ſentimenti ne muove; concioſliecoſachè
la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier, che tocchi; e'l toccamento,
ſalvo che da corpo,non ſi può incontrare: perchè ſaggiaméte Lucrezio: Tangere,
vel tangi, niſi corpus, nullapoteſt res. Così ancora, che'l corpo mentre egli è
dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate eſſer diviſo. Che tra uno,
&altro corpo eſſer nó pofta altro di divario,ſalvo, che nella grandezza,
nella figura, nel moviinento, nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e
nell'aver le parti ol tre alle già dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo
loro;co ciofliecoſachè altro di queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti,
nelle qualiil corpo ſia diviſo, avvenire. E però è da dire, la diverſità, che
così grande eſſer noi veggia mone'corpi dell'univerſo, altronde certamente non
pro cedere, che dalle coſe già dette, che'l calore, la freddez za, la ſaldezza,
il diſcorrimento, icolori, ei ſapori tutti, cd altre ſomigliantiqualità, le
quali a noi parc, che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno,
ſe non ſe,o l'accennate coſe: ſe veramente elleno ne'corpi ſono: e ſe ſono in
noi, cffetti di quelle, o per me' dire de' corpi per quellemodificati. Maqueiti,e
ſomiglianti argomenti ſon così pochi, e generali, che per lor non ſi può al
vero conoſcimento di quelle particolari cagioni pervenire, ove ſenza fallo, del
12 natural filoſofia il pregio tutto è ripoſto. E ciò sì bene fu conoſciuto al
principe di tutti greci filoſofanti Demo crito, ed a molti ancorde’ſavjantichi,
che perciò in ap portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole
probabili ragioni s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi
Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran
Galileo de Galilei, che tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete
coſe delle ſcienze, che al parer del dottiſſimo Obbes: Primus aperuitvobis
Phyfica univerſaportamprimam: pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro, che
qualche particella di filo fofia ſi ſappiano, e Iddio ſolamente ſaperla tutta,
eche quan Del Sig.Lionardo di Capod. 155. * quanto più in perfezione monterà la
filoſofia, tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da quella dimo
ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica ſcuola,
avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta, pur tanta forza ha la verità,
che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca, e far apertamente confer
fare, eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura, qual'occhio
di notturno augello a'rai delSole; e 'altrove, che diquelle coſe, che ſono
a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato penſar dob
biamo, quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente, come eller
poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo, c poeta fa, che ſecondo il
ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica, e facciagli a
ſapere. dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali. E innanzi parimente
avcagli colei detto: Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo non
differra. Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano, o pure il
naſcoſero, e Dante, ed Ariſtotele, le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non
perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate, e che
noicolsé ſo non già le coſe, ma ciò, che in noi le coſe operino ſo lamente
comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj, che diſſero
appo Aulo Gellio: (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis, cioè
a dire, come egli ſpiega: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet, ncc quod
habeat vim propriam naturam; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque
videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud
fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a
che più da filoſofi,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta,
la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re
Salamo V 2 (1 ) lib.iLcap.i. ne: 0 m I56 Ragionamento Terzo ! ne: Omnibus, quæ
fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum, ut
occuparentur in ea. Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo invenire
ration nem eorum quæ fiunt ſubfole, & quanto plus laboraverit ad quærendum
tantò minus inveniet. Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe,non poterit reperire.
Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe
appartenenti,ſe quelle medeſime fo no, ove s'intralcia, e s'inviluppa
maggiormente la filoſo fia? Ne in ciò la medicina, dalla filoſofia è differente,
re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion
ſolamente, o ſemplice diſcorſo s'acche ta: e queſta ha per ſuo fine, e
berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia, la medicina ancora di
pochili me coſe naturali conoſcer douraſi, e quelle forſe poco, o nulla al
medicar ſaranno acconce: intanto, che non ſap piendole non è gran fatto per
huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più
ſi pof fa una tal verità manifeſta: non vi par’egli, o Signori, che alla
medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc,
e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero
interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco,
degli inteſtini, del fegato, della milza, delle reni, della veſcica, del
pulmone, del cuore, delle glandule, le quali ſparte per tutto il corpo poco men
che innumerabili fono, ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto
del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare, per tacer d'altre, e d'al tre parti;
e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la
notomia, che nulla più: nientedimeno non ſi è egli potuto, ne men ſi potrà giam
mai camminar ſicuro, ne determinare, ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno all'ammirabile
magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle operazioni delle parti
di quel li.Ed a dir liberaméte il vero, licome avvenir noi parimen te veggiamo,
in tutt'altre partidella filoſofia, e della me dicina dopo tante induſtrie, e
fatiche durate, e dopo tan. ti ſparti ! Del Sig.Lionardodi Capoa. 157 ti ſparti
ſudori per cotanti valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a
ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le coſe di quel, che s'avviſavano,
e davano a noia divedere gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti
dal microcoſpio avvalorati poco men che lincei fie divenuti, eche eziandio
colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi
aʼnotoiniſti de' vivi animali, per l'addietro inſuperabili; impertanto non
poſsono in modoalcuno nelle menomiſfime particelle pe netrare, le quali ſe non
vengono ben ſottilmente avviſa te, e ad unaad una diligentemente conſiderate,
Io non ſo in qual modo ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti
maggiori, che ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono. Perchè egli
avvien ſovente,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo, attenendone
ſola mente a troppo deboli, e incerte conghietture, e per cal. laje inviluppate
andando. La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi
negli uficj e nell'o perazioni dieſſe parti; e quel configlio, che porger ne
puote in sì fatte traverſie il vital notomiſta, fia pur detto con pacedel
Valentino, del Paracelſo, c dell'Elmonte, quantunque grande, ofere ognicredere
egli ſi paja, e che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta, fovente
ſuole, per la malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo, e debole molto riuſcire,
e talvolta anche in tutto inutile; il che da non altro certamente naſce, ſe non
ſe dalla troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani
mali. Ma della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa, Dio
buono, che han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo
raccorre? non è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana, facendovi ma
la pruova la loro induſtria, e’l loro ſtudio? Egli ſono le fi bre,
che'lcervello compongono, così minute, e ſpeſſe, e ſottili, e sì la for
teſſitura, e reticulazione è dilicata, e la lor ſoſtanza molle, che a volerle
ben partire fenza riſchio di romperle, o di perderle, inalagevole anzi
impoſſibile: ogni 158 Ragionamento Terzo ) ogni impreſa rieſce. E sì, e tanto
egli è ſpinoſa, ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche
egli tutto inviluppato, e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe
per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato. Ma ſe
tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute, che farà cgli da
dir poi delle picciole, inolte, e inolte delle quali ha forſe la natura a
nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate? eci ha alcune di eſſe parti cotanto
menome, e ſottili, che non ha mano cosìſcaltra, ed avveduta, che poſſa ſperar
di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili
aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino,
eſottile microſcopio ravvi fare; E di queſte ancora vi ſono altreminori, e
quaſime nomillime linee, nelle quali inutile ſi prova ogni arte, vano ogni
ſtrumento per ravviſarle. Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena
mente ad intendere, le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia
vincono? Chiquelle del ſugo nutritivo, della linfa, del licor pancreatico,
dell'orina,del fiele,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal
Paracel. ſo finovia, e d'altre, e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle
qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa, ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom
ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia. E chi
finalmente aggiugnerà a capire, ſe non ſe per in certe, e fallabili
conghietture, o la grandezza, o la figu ra, o'l lito, o'l movimento di quegli
inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde, e delle
liquide parti del corpo dell'animale compongovo? E ſe ciò all'u mano ingegno è
naſcoſo, come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e
l'operazioni, e tute'altre biſogne, che di neceſſità all'economia degli animali
s'ap. partengono. E come ravviſar mai potrafli, da chi, ed in qual manie ra
s'ingencri il Chilo, e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue, e coine
il ſangue ad ogni ora in tante, e tan te mae DelSig.Lionardo di Capoa 159 te
maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in vita i membri
tutti dell'animale, e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre
operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente conoſcer fi potrebbono
gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e queſte igno rādoſi,come poi
ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da riſanarle? Ma per darvi anco
qualche ſaggio dell'incer rezza degli antivedimenti de'medici, ſe non ſi fa, ne
può ſaperſi giammai coſa, che certa, e ſicura ſia dell'orina, e de polli,chi
può indovinarmai, per Dio, non che ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni,
per le quali eglino, malimamente ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo
variando, così ſtranamente ſi cambjno? che direm poi de gli altri ſegnali della
medicina, onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le malattie, e le cagioni
di eſſe non meno de’polſi, e dell'orina, anzi aſſai più di queſti talora
incerti, e fallaci? Certamente non mai potrà compren derſi perloro la qualità
del inalore, e la cagione argomé tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì
fatti ſegnali cotá to millantare i greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi
può ſcorgere, per tacer d'altre ſue opere, in quellibro, ch'egli a Poftumo
intorno a tal materia ne ſcriſſe; che lo per me credo, che quelle, che a forec
loro ne riuſcirono, certamēte colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare.
De'cibi, e de’medicainenti, e delle loro facoltà, e valore nulla
certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per defimi, ma per quel, che poſſano nel
corpo umano opera re. E comechè i Chimici più che tutt'altri d'aver delle già
dette coſe più pieno conoſcimento giuſtamente vantar potrebbono; pure quel che
ne fanno riſpetto a quel che rimarrebbea fapere è poco, anzi nulla. E ſon di
vantag gio tutte le pruove non altro, che probabili, e poco ſalde conghietture;
perciocchè, non ſolamente imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini
dell'arte ) ma l'aria an cora, e'l fuoco, e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti, che
vi s'a doperano, ragionevolmente d'errore, e d'inganno pofſon render ſoſpetta
ognilor più diligente, e accorta notomia, ſe me 1 con 160 RagionamentoTerzo ne
ſeco conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella, che
magagni, emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì
diverſi corpicciuo li diſcorrono; i quali dalla terra, e anche altronde melli
fuora, e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura
meſcolandoſi, agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra
parte introducendovial cune di quelle particelle, licvi, e ſottili, che rubate
ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare; o pur portando per li pori del vaſo
le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia, e maſsimamente le più
nobili, ele più operative, che in eſſo dimorano: comechè la boca ca del vaſo
ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata; o purcolla ſua forza nel
digeſtire, e nel formentare, e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del
corpo, del qual li fa notomia, diſponendo altramente quelle, e altramente
meſcolandole, e dando lor movimento, per nulla dirdel. la grandezza, e della
figura loro per eſſo diverſamente cambiate. Perchè fe tante, e tante cagioni
poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico
notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente, conoſcerle: Anzi tanto egli
ne ſaprà meno, quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce.
Adunque ſe vaniancora, e infruttuoſigli avviſi, e gli argomēti de'più
intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente,
e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle dubbietà, e dalle incertezze la
noſtra Medicina: Io per mè non ſaprei qual conſiglio prender mi doveſſi a
dichiarirla dalle ſue nubi. Ne è da tralaſciare a queſto propoſito quanto agio
s’a veſler preſo i Medici filoſofantidall'incertezze della me, dicina a
ragionar ſovente, e piatir nelle ſcuole or d'una, or d'altra parte, più per
vaghezza d'ingegno, che per amor della verità, difendendo tutte opinioni, ed
ove lor con cio vi ene, giudicando non altrimenti che quel ſottiliſſimo
filoſofante Pittagora faceaveder della filoſofia de omni re pervalermi delle
parole di Seneca ) in utramque partem diſpu 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 101
difputaripoleexaquo.Perchè nõ è da maravigliare, ſe Dica nilio Egeo prendendo a
difender cento contrarie opinioni in altrettanti capi partite, diede a diveder
manifeſtamente l'incertezza di cotal arte. Il primo capo delle ſue conte ſe
ſiè,che egualméte dal padre,e dalla madre fiinādi fuo ra il ſeme a ingenerar
gli animali. Il ſecondo, che non d'ambedue ſi mandi. Il terzo, che ſi mandi da
tutto'l cor po. Il quarto, che iteſticoli ſolamente v’abbian parte. Il quinto,
che'l cibo nello ſtomaco per opera del calor ſi (maltiſca. Il ſeſto, cheno. Il
ſettimo, che ciò ſia per lo ſuo sfacimento, e ſtritolamento. L'ottavo, che no.
Il nono,che ſia dalnativo fpirital calore. Il decimo, che no. L'undecimo, che
per lo corrompiincnto del cibo fia. Il duodecimo, che no. Il tredecimo, che
avvegna per propietà de' ſughi. Il quartodecino, che no. Il quinde cimo, che il
calor natio a qualità s'appartegna. Il ſede cimo, che no. Il diciaſettefiino,
che per lo calore avve gna la digeſtion de'cibi. Il diciaotteſimo, che no. Il
di ciannoveſimo, che la diſtribuzion de'cibi lia per attraimé. to di calore. Il
venteſimo, che no. Il ventuneſimo, che dagli ſpiriti la digeſtion ſi faccia. Ilventidueſimo,
che no. Il ventitreeſimo cheper opera dell'arterie ſi digeſtiſca Il
ventiquattreſimo, che no. Il venticinqueſimo, che ciò ſia permancamento a vuoto
accompagnato. Il venteſimo feſto, che non per ogni mancamento eglilia. Il
venzette. fimo, cheil glauco degli occhi per mancanza d'alimento al condotto
viſivo s’ingeneri. Il ventotteſimo, che no. Il ventinoveſimo, che quel naſca
per diſcorrimento di fan, gue nelcondotto vilivo. Il trenteſimo, che no. Il
tren tuneſimo, che dalla graſſezza degli umori, e dalla eſala zione ſi faccian
gli occhi glauchi. Il trentadueſimo, che no, Il trentatreeſimo, che la freneſia
dal diſtendimento delle membrane del cerebro, e dal corrompimento del ſangue fi
cagioni. Il trentaquattreſimo,cheno. Il trentacinque fimo, che per ſoverchianza
di calore ella non avvegna. Il trentelimo fcfto, che no. Il trenzetteſimo, che
per infiam magione ella ſia. Il trentottelimo, cheno. Il trentano X volimo,:
162 Ragionamento Tero 1 1 velimo, che da infiammagione ſi cagioniillecargo. Il
qua ranteſimo, che no. Il quarantuncfimo, che per diſtendi mento, e per
corruzione egli ſia. Il quarantadueſimo che non già per ſoverchianza, ma per la
qualità dell'eſa lazione avvegna. Il quarantatreeſimo che la fames e la fere
ſia di tutto il corpo. Il quarantaquattreſimo, che, dallo ſtonxaco folamente
provenga. Il quarantacinqueſia mo, che ſia ſol nel penſiero, e
nell'immaginazione. !! quarantefimo feſto, che la ſete per diſſeccamento
s'accen da. Il quaranzetteſimo,cheno. Il quarantotteſino, che nello ſtomaco due
diverſe operazioni ſi facciano. Il qua rantanoveſimo, che no. Il cinquanteſimo,
chedalla pelli cella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi. Il
cinquantunelino, che'l traggan da quella di fuora. Il cinquantadueſimo, che le
parganti medicine operino per lo corpo fpargendoſi. Il cinquantatreeſimo, che
colloro fcorriincnto folamente, ſenza fpargerſi vuotino. Il cin quantaquattreſimo,
che da uſar fieno purganti medica nienti. Ilcinquantaciirquelimo, che no.Il
cinquantefimo fefto,cheda ſegnar fia. Il cinquāzettefimo, cheno. Ilcin
quattrotteſimo,che ſia da dare a febbricoli il vino. Il cinquá sanoveſimo,che
no. Il ſeſsãtefimo,che adoperar debbano il bagno. Il ſeſsātnneſimo che no.Il
feſtancaduelimo,che nell' accreſcimento de’nrali fia da far if crifteo
agl'infermi. Il fola sātatreclimo che no.Il feſsátaquattrefimo, che in ſu’l
prin cipio delle malattie fan da uſar leunzioni. Il ſeſsátacinque fimo,che
no.I)fefsātefimo fefto,che nella teſta poſſanoado perarſi i cataplaſini. Il
fellazettelimo, che no; ma ſola mente vi li debbano porre coſe odorifere. Il
feflantotteli mo,effer giovevoli quelle coſe, che muovono a vomito. Il
fefsancanoveſimo, che no. IHfettantcfimo, che dal cuor fi dirami al corpo
ilſangue. Il fettantunelimo, che no. Il ſettantadueliino,che gli fpiriti dal
cuorfi mandiitos ne dall'arterie ſien tratti. Il fettantatreeſimo, che no. Il
fettátaquattreſimo,che da per ſe il cuor ſi muova.Il ſettan tacinquefimo, che
no. Il ſettantelimo ſeſto, che l'arterie per lor natura ſieno ſtanza del ſangue.
Il ſettanzetteſimo, che 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 163 che no. Il
ſettantotteſimo, che tuttii vali che ſopraſtano, e gonfiano, fieno ſemplici. Il
ſettancanoveſinio, che i ricettacoli ſieno invoglie inteſſure. L'ottantelimo,
che per mezzo de'nervifacciali il ſentimiento, el moto. Lottan tuneſimo, che no.
L'ottantadueſimo, che'lcuor fia prin cipio delle vene. L'ottantatreeſimo,che
no. L'ottantaquat trelimo, che ſia il fegato. L'ottatacinqueſimo, che no.
L'ottanteſimo ſeſto che ſia il ventricolo. L'ottázetteſimo, che no.
L'ottantottelimo, che tutti i ricettacoli ſi dirani no dalle pellicelle, che veſtono
il cerebro. L'ottantanoveli mo, cheno. Il nonanteſimo, che'l pulmore ſia
priucipio dell'arterie. Il nonantunefiino, che no. Il nonantaduefi ſimo, che
quell'arteria, la quale ſta preſſo alla ſpina, ſia di tutt'altre arteric capo.
Il nonantatreeſimo, che no. I nonantaquattreſimo, chedal cuor naſcano tutte
larteric. Il nonantacinqueſimo, cheno. 11 nonanteſimo feſto, che dalla membrana
del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore. Il nonanzcttcrimo, che
no. Il nonantot tcfimo, che non nel cuore, ma nella teſta la potenza it
tellettuale dimori. Il novantanoveſimo, che nelcuore. Il centeſimo, che nel
ventricino del cerebro ella ſia. Ma di cotante rivolture, e mutamenti
d'opinioni, e di ſentimenti certamente egli non è da maravigliare, ſe tanto
forſe avrebbe ancor fatto Galienomedeſimo, ove in con cio gli foſſe venuto. E
di ciò egli ſteſſo ne' ſuoi libri ſi vā millantando ſommamente di poter
improvviſo cial cuna ſerta dc'medici de' ſuoi tempi a buona ragion difen dere.
Perchè ſe dir non vogliamo, eſser egliſtato Galie no un riottofo giuntatore, o
berlingatore ſofiſta, che co' ſuoi fiſicoſi aggiramenti per diritto, e a torto
il tutto a di fender togliendo, uccellar n'aveſſe voluto, convien di ne ceflità
affermare, ciaſcuna ſetta de'ſuoitempi anche ſeco do il ſentimento di lui
eſsere Itata igualmente ragionevo le; e conſeguentemente a niuna certezza eſſer
la medi cina appoggiata. EccmechèGalieno ciò dimenticando vanti fovente di
poter far pruova de'luoi detti, avendo sé pre in lor concio nuove
diinoſtrazioni; non però di meno X 2 (il ci ta, 7 164 Ragionamento Terzo il
dirò pur con buonapace di lui) le ſue millanterie row vente ſogliono in
vaniſimo vento riuſcire. Anzi egli me deſimo dimentendoſi talvolta, e in più
luoghi contaſtan doſi, ne fà della fua beſsaggine, e della fua poca fermez za
avvedere. Quid enim, dice di lui ſtizzoſamente gridan do il Giuberti, quid enim
in Galeni fcriptis frequentiusoc currit, quàm ipſumplerumque videre, quod
alibimultis ra tionibus fueraidemolitus,id conſtantiſime afferere? ERi nieri
de'Solenandriznon men delGiubcrti della dottrina di Galieno intendentiſſimo,
così parimente avviſollo. Gale nus, quiuberrimo ingenio fuit, ca oratione liberali
ferè prodigus, innumeros propè confcripfit libros: in quibus rerü,
&dogmatum multitudine plurima ſuntdiſcrepantia, nec fo bi ipfis
conſentientia; quafi quis attentè cum judicio legit,fi quis diligenter in unum
colligit, ingens chaos agnoſcit. Ma lo dirò di vantaggio (il che non mi ſarebbe
per av ventura peralcun creduto, ſe con l'autorità del medeſimo Galicno Io non
gliene facelli certa, e ben falda pruova ) che ſe ancor la medicina foffe
dattanto, che a ſaper dicer to molte, e molte di quelle coſc aggiugneſſe, le
quali per addietro dicemmo eſſer di quelle,chein quiſtion cadono tutto'l giorno,
e più altre affai: ne meno alla ſicura nell’o perar ſarebbe; abbiſognado a tale
effetto, ſecondo Galie no, che molto bene in prima la propria natura, e com
plexió di colui ſi conoſceſse, il quale ſarebbe da medicare. il che ſecondo,
che cgli medeſimo apertamente confeſſa, non ſi può per partito alcuno
baſtevolmente giammairav viſare, Ma ſe sì poco da noi in medicina per la ſua
dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però dimeno e'non creda alcuno,
che ſicura nc fia la ſperienza;anzi per mag giormente incerta, e dubbioſa più
avanti per noi ſarà mo Itrata. Perchè ſeguiranne poi ſicuramente, che non purla
sagione dalla ſperienza accompagnata,valevol ſia a render certa, elicura la
medicina; concioffiecofachè verifimile a veriſimile accozzádo; e no certo a non
certo, e per lunghi argométise pruove che vi ſi aggiugono, non potrà mai, che I
cer DelSig. Lionardo di Capoa 105.1 } certa, e incontratabil fia, ſicuramente
riſorgerne. Magià ſi è per queſte, e per altre coſe addietro diviſa te veduto a
baſtanza, e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette
della medicina, e le diverſe; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare,
e la varieră dell'opinioni, che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in
sù, non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire; egli forza
fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della
medicina come già proponemmo, ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare;
quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la
medicina breveme te abbiam fitto, riguardare, non farebbe forſe meſtieri più
diſtintamente diviſargliene, potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere, ſe
giammai un'arte così dubbiola, in coſtante, ed incerta poſſa avere in ſe
dottrina, o principi tali, che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to,
e ſicuro. Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica, chiamata imperfetta,
è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre
ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare;
infanto, che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba
tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai
tante ſtelle alcuna notte, Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne
tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia. Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare
colui, ſe più coſtoro ſi foſſero, o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa
tutti interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis
idiota profanus, Iudæus.... hiſtrio, rafor, anns. E ben diſſe il Carlectone:
Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi, Seplaſarii, fordidi
Balneatores,triobolares Phleboto matores,fpurcidici
Lenones,indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della
falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghi 166 Ragionamento Terzo ghileſe, de'quali fa
parole altresì, e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes,
audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes, veteratores Fatidici, lj
bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa,
ingratifimaque impoſtorum gens, Pharmacopo le; qui ſuntin Rep. agrorum
pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides. Che più, fe toccar
quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da
Ferrara il motteggevol Gonnella, allor, che nel novero di coloro, oltre
allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole; ed egli era
così celebre, e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti,
e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne.
Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io, che barbagianni funo Ridicoli,
ineſperti, ed ignoranti: Che non ftudiar d10 anni, fur a ſuono Digran campana
alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono: Che ne Ariſtotel
mailejer,ne Plato, Ne Avicenna, o Galien, ma due ricette, E le regole appena
del Donato. Ma ciò permio avviſo, non altronde certamentewviene, che da una tal
naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente
abbiamo, e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi
medeſimi, e per gli amici, e per tutt'altre perſone del mondo. E perciocchè ad
interamente apprenderla, e ado perarla, qual veramente fi conviene, di
grandiflima fiti ca, e di ſudore non ordinarione fa meſtiere, ciaſcuno, co me
il meglio puote malmenandola, ed abborrandola, in pochi giorni l'appara, e
ſenza troppo diſagio la mette iz opera. E in vero cotalforte di medicina è
molto agevole a imprendere, e ſovente dinon poco pregio, eguadagno Suol eller
cagione; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per
fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dic DelSig.Lionardo di Capoa 167 o
dietro a feminine diinondo, o nelle follie dell'Alchimia vanainente
fcialacquaronle, ſtenchi alla fine,eigannati ri courar ſoyére al ſicuro porto
d'una tal medicina ſi veggo no. Ed ora mi ſovviene di quel gran miniſtro di
ſtato, il quale avédo perduti có la grazia del ſuo Principe ache tut ti gli
avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli ultimamente lo Igraziato a compor
ballotte da medicina, e ſpacciarles a prezzo,qual vilisſimo pancacciere,
ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja. Ma non fa meſtier, che intorno a
coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro
erro ri; che purtroppo chiaramente per ciaicun ti conoſce quanto eglino
ſempremai ciecamente medichino, ed ari fchio, ed a ventura; non ſappiendo
talora ne men groſsa mente, econfuſamente i ſegnali delle inalacrie, non che la
natura di quelle; perchè convien poi loro nel diviſare, e adoperarc i
medicamenti andar ſempre atatone, con af pettarne, timoroli, gli avvenimenti.
Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio della perfetta Einpirica; la
qual per le ſue regolate maniere di adoperare, nelle qualianifeftamente ſi
ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione,puofſi in certo inodło
covenevolméteRazionale Empirica chiamare; conciolliecoſachè la perfetta Empi
rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue fondamenta, che è la
fperienza, non folamente per la baſ. fa gente, ma per gl’ifteli medici
raziunali cotanto ſtimata, e a capital tenuta: che apertamente talora, e in
ifcritto, e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla fogliono;
eſſendo l'altra, fecondo lor ſentimenti la ragio ne. Anzi huomini chiarillimi
diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici nemica
(tra’quali fur Eraclide da Taranto medico, e filoſofo di sì gran fapere, ecosì
nell'arte eſercitato, che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére medico
greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto le
ragioni alla fola ſperiéza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi rifuggirono;ed
altri comechè perſeverino nella ſetta de'Razionali,pur ma nifc 168 Ragionamento
Terzo niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la ſperienza
alla ragione; e dicono, che ove d'una parte la ragione, e d'altra la ſperienza
il contrario ne perſuadono, che allora il medico laſciar debba affatto la
ragione, e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filoſofi di grido Ari
ftotele apertamenteconfeffa, all'arti tutte aſſai più di con cio, e d’utile la
fperienza recare, che la ragione, e che'l medico maggiorinente in pregio
ſormonti nel far pruova continuo degli ammalati, checon beccarſi tutto giorno
il cervello ne’libri. E quel ſcrittore, che col ſuo acu tilimo intendimento ſi
ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo, avvisò, la medicina non
eller altro, che ſperienza fatta dagli antichi medici,fopra la quale fosi dano
i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto
Quintiliano,medicina ex obfervasione falubrium,atq; his contrariorum reperta
eft, & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis; nondimeno l'Empirica
medicina, non che abbia giammai nulla di certo, anzi ſoventi volte in
graviffimi errori traſcorrer ſuole, laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola
ſperienza ciecanente guidare; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore
avviſa, ſovente è fallace,e vana. E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel
le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate, chi oſerà mai certamente
affermare, che ciò che più volte av venne, debba poi altre, cd altre volte
ſomigliantemente avvenire? Certamente niuno, ſe non colui ſolamente, che
inveſtigatane la cagione, onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle
ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni, ſe
le medeſime ſaranno, certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti, ma ſe
peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne potranno;
ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze, che
l'accompagnano, non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre, ina diver ſi,
ſecondo la diverſità delle perſone, de'luoghi, c d'altre coſe, che vi
concorrono, Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare, così non
è da traſcurar punto DelSig.Lionardo diCapoa. 169 1 I punto in medicina: nella
quale avviſaſi a giornate, noul ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni
avvenire: non ſempre congiurar le medeſime circoſtanze in mante ner le
medeſimemalattie: e finalmente non ſempre que, mali, che i medefimi eſſer
ſembrano, effer veramente ta li, quali ſi pajano; concioſliecoſachè i ſegni
tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente, e
fallaci fieno, facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male, il qual poi
tutt'altro ſarà di quel, che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno
giudicar puoſ, fi con piena certezza, ſe ſia ſtata opera del medicamento il
migliorare,e'l guarirc dello infermo; imperciocchè tal volta dalla ſola natura
del malato, o del male ſuole ava venire; ed altri pur follemente immaginerà,
eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito. E allora più mala gevol ciò, e
intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge; perciocchè
allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia
per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò, che di
leggier forſe po trebbeſi ſchivare, comealtresì è da tacer della credenza, la
qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli
ſcrittori preſtare: coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole
Galieno. Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio, che da
parte a parte far fogliono gli Empirici, e dal la ben compoſta analogia di male
in male; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to
ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina, e d'e videntiſſimi riſchj
tutta ripiena. Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò
che della ſperienza un graviſſimo autore, e più, che altri per avventura in
quella eſercitato ne manifeſta dicendo,eſſer la ſperienza in man del medico,
non altrimenti, che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale,
quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo
lato. Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento
Terzo mo, e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale
ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien
quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno. Ma volete voi, ch'lo
brievemente vidia a diyedere quanto vana, e fallace ſia nella medicina la
ſperienza? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare,
che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate. Ma riguardando i maeſtri,
e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica: e d'altra
parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e
delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri: vollero ſolamente a certe poche coſe
veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor
medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono:
uno de'quali diſcorrente, e l'altro ſtretto chiamano. Naſce il diſcorrente
allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati, e fatti maggiori
aſſai di quelli, che in prima erano; o quando altri nuovamen te accreſciuti
glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette
infra loro, e congiunte lì ſo no, perchètalora, o più abbondevolmente, o più di
ra do li vuota il corpo. Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò,
che far li dee argomentar fogliono: una di ſtrignere, ed una di allargare: e
queſte chiaman comu nità curative, e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag
gio le comunità temporali, cioè a dire il principio, l'avā zamento, il vigore,
e lo ſcemo della malattia. E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime
comunità con polto effer ſoglia, cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto: vo gliono
allora i metodici, doverſi la cura alla maggiore, e più ragguardevol parte
ſolamente indirizzare. E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato;
chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno, e
Proſpero Alpini, il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli
avanzi dell'antica Metodica medicina, e di difender quella con cutta forza
oſtinata medite i DelSig. Lionardodi Capoa 171 ſenza troppa mente ſi ſtudia; ma
non puote però per fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca
malagevoltroppo,ed intralcia to a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina;
concioſie coſachè alcune coſe, poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed
in altre faccia meſtiere andar pur tentone, ed alla cieca. Ma lo quanto è a me,
voglio al preſente più di Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici,
e conce der loro di vantaggio molte, emolte di quelle coſe, che fatica durare,
agevolmente negar loro po trei. Sien pure, com'eglino s'avviſano, le comunità
cut te manifeſte, e piane, e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in
qual modo baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio, ſenza più oltre
ricercare argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi laſcian pure
allora ciecamente trarre alla ſperienza; adunque eglino anco ra in ſembraglia
de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura, e facendo argomento dall'
incertezza degli avvenimenti, manifeſtamente talora inceſpando traripa no. Ma
ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza, come di poftema, o
d'altro ſomigliante malore, che di allargamento abbia biſogno: manifeſta coſa
è,che la materia ingozzata, e rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal
ſtrettezza cagioni; ed acciocchè poſſa li beramente far punta, ed uſcir fuora,
conviene in primas, che la durezza liſciolga, ed ammolliſca: ed altro s'impré
da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni. Or come potrà mai ciò
ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima, di qual natura ſia la materia indurata,
acciocchè poi libera mente il ſuo vero, ed acconcio rimedio trovare, ed adato
tar viſi poſſa: O forſe ciò, che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente
tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da quello indurar le
veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed
ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici; ecco, che pur
convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Ra 172 Ragionamento Terzo Razionali
medici alla fine ricoverare. Ne più intorno alla lor dottrina impiegherovvial
preſente parola. Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci così ſcarſe
rimaſe ſono appreflo noile memorie, che non v'ha luogo alcuno di diviſarne, non
che d'abburattarle, o per avventura riprovarle; anzi ne men ſaper certamente
por ſiamo, chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci, cui foſ ſe venuto
fatto di dar principio alla Razional medicina, e ciò chealtrove andato ſe n'è
per noi ricercando, non li è potuto ancora così rinvenire, che foſſe valevole a
to gliere ogni dubbietà. Ma non è egli però da porre in for ſe, ove ſottilmente
la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai più lõtani di
quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua origine; e forſe
forſe ella è sì antica, che non pur ne convien dire, ch'af fai prima della
volgare Empirica ella naſceffe, ma chel Empirica volgare ſia della Razionale,
anzi, che no giove nil parto, e creatura;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier
mente noitoccheremo. Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi
le malattie, e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità, che
tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda (non avendo altri ch'inſegnar gliele
poſſa ) natu ralmente, da alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno,
le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre; ma può tali medicamenti
l'huomo ap prendere, o a caſo in effi abbattendoſi; o col diſcorſo in
veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi
poſſano; nc ſembri veriſimil punto, che le tante erbe, e radici, onde negli
antichiſſimi tempi, non pur le ferite, ma gl'interni malori altresì medicavan
ſi, veniſſero a ſorte lor conoſciute; rimane adunque, che per la più parte
dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti. Ma come que'primi rozzi
huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen
ti, non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui
voglia pormente a'bruti, e andar mi > che nulla qua nutamen DelSig.Lionardo
di Capoa. 173 nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le
medicine perloro malattie. I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur
nondimeno oltre a' ſenſi, ſi trova no di tutto ciò, che a lor fa meſtiere a
comprendere le; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente
provveduti,anziabbondevolmente dalla larga, e prodi ga mano della natura
arricchiti. Vengono talora agli animali le medicine dal caſo di moſtre, comedel
Dittamo, erba crinita, e di purpureo fiore, avvenir ſuole, eſca oltremnodo
gradita, e foave al palato delle capre; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la
paſcono; e ravviſando elleno, che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo
haverla poc'anzi paſciuta,dalla fe. rita, allora Volontario per fe loftralſe'n
eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue, e ractamente ſe ne fugge il dolore: ad
ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono; e per
queſta da noi menzionata ſtrada, e non già per quella del ſognato, e favoloſo
iſtin > to,. maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata
Qualor vengon percole, e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata; e a
queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente,
ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue,
Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo, allora,
che infermi fi ritrovavano, giovevoli aſsai ſperimentarongli: E ſomi
gliantemente altresì La teſtuggine allor, che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide,
e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute,, e vita Dall'Origano cerca, e non
indarno. Opera ſomigliantemente del caſo, e' certamente ſema bra, i 174
Ragionamento Terzo bra,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli
animali avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi
per ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi. Ma con più ſottil modo, e più
fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti;
comene'lupi,ne'gatti, e ne' cani, per tacer d'al tri, manifeſtamenie ſcorger ne
lece, allora, che ſenten doſi eſſi aggravare, e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto,
e corrotto cibo, ed avviſando, che alcune erbe, le quali talora forſe loro
punſero il muſo, poſſano, ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il
vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono. Chiunque andaſle poi con qualche
minuta diligenza, e ſollecitudinc ricercando, ravviſerebbe per avventura,che
ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti
animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato,
e perſpicace, valevole più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione,
che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita
acconciamente regolare; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli
ſuole, diritta mente non gliſcorge, elli ne argomento alcuno hanno di riparare
a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno
ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre, le pecore, le vacche, i cavalli,
ed altri ani mali infermar gravemente; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe
nocevoli, e velenoſe; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà
chiaramente a divedere, non ritrovarſi veramente negli animali quel
maraviglioſo, ed inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui
ſce percoloro, che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare, che nella prima
ſola corteccia delle coſe. Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto, che poſſan
talora con qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in
veſtigare, o pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina; come non aurà
potuto l'huomo, ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato
come 1 dico Del Sig. Lionardo di Capoa 175: dico non avrà potuto ſino a’ primi
tempi, e col naſcente mondo, col diſcorſo i medicamenti ricercare, e ritrovare?
ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa
virtù medicinale o di pianta, o d'ani male, o di vegetabile alcuno, prender in
duce, e in iſcor ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità
in guatando le coſe, che grande a maraviglia aver-, fi ſcorge ne'bruti;
ne'quali, coine di ſopra dicevamo, o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli
organi, o ſia pure, che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove
manca ragione ilfenfu abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi
riandaſſero, comechè leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe
apertamente, che a'primi maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione
per inveſtigare, e rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi: Popoli
ſenza fallo di tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans,
monarcaCinnungo,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle
l'imperio della Cina, c che quivi prin cipe de' medici, e inventore della medicina
vien comune mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di
molte, emolte radici, e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare
lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora
li ſon valuti, e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or
dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata
e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta, o radice per farne la pruova?
Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione;
altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che
Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò,e
rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a
rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale, e tanto avvedimento econ
ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi
eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo ccrviero acuti, c
penetranti. E più chiaro molto rio 170 Ragionamento Terzo ciò che lo ora dico
ſi ſcorgerebbe per avventura, ſe colui che ſi diè cura, e impiegò il ſuo
ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il medeſimo fatto
aveſſe de'volumi della lormedicina. Ma più certo ſi rende, che que'primi Cineſi
medici, da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad inveſtigare i medicamenti,daciò
ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della Chimica valuti commodamé te fi
foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi dee, che que', che nell'Egitto
la medicina trovarono, i quali altresì della chimica ſcorti furono, e
inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri: non riſtandoſi in ciò, che dal
ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche coſa anche della Scitia, la
quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione, conten de d'antichità (comeper
Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo; tutto che da Erodoto un tal vanto
alla Fri gia s'attribuiſca;della Scitia lo dico, chi mai recar potrebbe in
dubbio, che i primi medici per via della ragione rinve niſſero i medicamenti:
ſe in Prometeo, dal quale, ebbe il ſuo primo cominciamento la medicina degli
Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide la medicina, colla filoſofia; e fe non
aveſſero alla ragion poſto mente, come mai que’primi medici dell'Arabia
ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle barbe de'becchi dar cõpéſo alle
infermità cagiona te a que'popoli dalla ſoverchiaza degli odori ſoavi. Ne meno
in verità nella Fenicia i nepoti diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato,o
lia Filalete, appo Euſebio ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual
maniera di cã to valevol.fi foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza
l'ajuto d'una profodiſfına natural filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I
Druidi poi dellaGallia, nõ meno in filoſofia, che in medicina ſcarti,che infra
l'altre medicine adoperavano, quel,che dica Plinio, il fūmo della ſelaginc al
mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo mai a caſo ardendo la ſelagine
Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié
dire,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte
ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia, da qualche ragione moſli furono
Chi rone Del Sig.Lionardodi Capoa. 177 rone, Eſculapio, Ercole, Melampo, ed
Achille a valerli primieramente della Centaurea, dell'Aſclepio, dell'Era clio,
dell’Achillea, piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per
effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno, in cibo uſate. E ſe mai
eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven. ne sì
factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici,
malimamente, che alcune di loro convien che con zappe, o marre dalla terra a
viva forza li ſuellano; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe
più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea. Fu dunque
l'eſperienza dalla ragion; preceduta; ed ebbe il corto Quintiliano affermando
il contrario colà ove difle:Vulnusdeligavitaliquis, ante quam hèc ars effet,
& febrem quiete, eo abftinentia, non quia rationem videbat:fed quia id
valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile, che Melampo, il
quale parve, che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali,rinveniſſe
a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità. Ma ſe razionali
furono avvegnachè roz zi, ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri, ed invento.
ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra.' che qualche coſa anche
di loro da dir ſia. E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio. Coa me, e
quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il
grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo, e gli altri primi medici
della Cina, Io porto per me ferma opinione, che penetrar non ſi pof ſa per huom
giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle
voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine
dell'Imperado re Cino, il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe
mura, e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando
faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle, rendea gli animi ſnervati, ed
imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure
Z de 178 Ragionamento Terzo 1 de’più antichi tuttavia per avventura
ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi caratteri,
ne’quali ſcritti furono, è tanto, comeſe ſmarriti anch'e glino, ed abbruciati
fi foſſero. Ma da qualche veſtigio, che tuttavia ne rimane, ſi ſcorge
apertamente, che i Ci neſi nella geometria, nella filoſofia, e nell'altre
ſcienze molto furono addottrinati, e ſi valſero della Chimica, e conobbero,un
ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi principj le cinque
ſoſtanze dette da loro me tallo, legno, acqua, fuoco, e terra; ma diverſi da
que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e non disſimili per
avventura da' principj de' noftri Chi mici. Ma ſi par certamente, che Cinnungo
non molto nella filoſofia, e nella medicina avanzaffeli; mal potendo per opera
d'un ſol huomo sì grand'impreſa, c di tanta lievas in un tratto naſcere, e
ricevere l'ultimo ſuo compimen to; masſimamente alla medicina richiedendofi
molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè
a qualche ſtato di perfezione, e di eccellenza pervenga. Ma chi no ſarà
periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien favoloſe, ed inverilimili
quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano, che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo
eſperimen so delle piante nocevoli, e rift orative, e che nello ſpazio sì
breved'una ſola giornata, tante ne provaſse, e ne ripro vaffc; il che fa
chiaramente conoſcere, quanto la medici na, ſe acquiſtar vuole eſtimazione, in
tutti i tempi, cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in opera le men
zogne, ele millanterie. Quáto poi valeſſero gli antichi medici Cineſi nella Chi
mica, chi potrà mai indovinare fi la ſolo, che eglino s' ingegnarono di trovar
medicine, non ſolo acconce agua rir le malattie: ma anche valevoli negli
huomioi ad eter nar la vita; e comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova
millantano i frati della Roſea Croce, che vivi anche oggi ſien o, che vadano
ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! Del Sig.Lionardodi Capox. 179. sì
fingono,e danno ora ad intenderei moderni Cineli Chi mici, eſser molti, e molti
di quegli antichiſapienti, che, fattafi colla gran medicina immortali, dimorino
nelle cia me degli altisſiini monti, e quindi vadano, anzi volino dove lor più
ſia a grado, ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più, che
tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici
Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas
da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro, di
cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte
miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui
vce ta eravi una conca parimente di bronzo, formara a guiſe d'unamano, nella
quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove
macerar pofcia fi dovea no le perle, ed altre peregrine, e rare coſe, delle
quali compor li doveva quel prezioſo, e divino medicamento, che facea
l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo. Ed anche a’giorni noftri ſi
veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia, andar ad ogn'ora vagabon
deggiando, in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati
più e più ſecoli addietro, vendon altrui la medicina, che fà gli huomini
immortali, e tra per le loro trappole, e per lo deſiderio, che è in ciaſcheduno
di conſeguir l'immortalità, ritrovano, e più tra’letterati che tra gli altri,
chilorpreſta credenza. Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare, ſi ſcorge
quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi, dalle
maraviglioſe cure, che con eſli tuttavia fanno i moderni medici. Solamente
potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto
dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali
appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da; imperocchè col ber caldo ſi
ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra, alle podagre, e ad altre atrociffime
malattie, che così frequenti, ed abbondevoli ſono fra z 2 noi 180 Ragionamento
Terzo. 1 1 3 noi. E quanto al non trar ſangue, oltre al novero de’gre ei, e
de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben lunga
preſcrizione di quaranta, e più ſecoli, ne? quali han potuto guarir
feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie, non gli rende degni,
non dico di ſcuſa, ma d'altiſſima loda? eda ciò vorrei, che poneſſer mente
tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I
moderni Cineſi medici non altrimenti, che gli antichi già fi faceſſero, de’ſemi,
delle frondi, delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e d'alcune pictre al
tresì, e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali piante, e pietre, e le
loro virtù narrate ne’precetti, e nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino
ne van lontani. Preſcrivono a’loro infermi sì rigoroſe diete, che alle volte
laſcian paſſar fino a venti dà fenza dar loro altro cibo, che certo ſugo dipere,
tre, o quattro fiate il giorno, e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte
graviilime malattie a buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno, che tal
dieta non potrebbe fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada
errato,ilpuò far vedere l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci, e
l'eſſere i Cineſi di noi più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di
queſte,van tutto dì i Cineſi compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli
effetti de' mali,da’quali,non avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj
lor padri i Cineſi la ſogliono apparare • Di. cono tutti, che i Cineſi medici
ſono séza alcun paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma
nondimeno ancora ivi colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio; ed
eſſendo eglino intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più
affai, s'interrégono fin’a mez ' ora, fingendo d'oſſervar minutamente le lor
mutazioni in toccandogli, e danno a diveder dapoi, che con una tal diligenza
eſſi aggiungano a ſapere d'ogni varia, e più oc culta interna diſpoſizione, e
diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura, e la vera cagione. Ma è per mio
avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter
talora porre utile cos pen. DelSiy.Lionardo di Capoa ISI penſo alle più gravi
malattie. Vlano frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen, dalla
quale ſové te ſi veggon guarir gl'infermi, eziandio morienti, e però una libra
di eſa, non val meno di tre libre d'argento. Nil la io dico dell'erba Te,
percioccliè ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi: comcchè non ſi veggian
quì d'cila que’maraviglici effetti, che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o
ch'ella colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che
chiamar fogliono i Chimici vola tile Alcali, e con eſſo inſieme poco men, che
tutta la ſui virtù, o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni
de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione,
che di tal erba portavano,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a
cui ſovente l'u fi; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova, cſſer ciò
falſo; e ſe egli è incontrato, che alcuno avendola ado perata fia caduto in
Apopleſſia, certamente non vi ha avu to ella parte niuna. Egli è vero però, che
talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto
maco non ben digeſto il cibo ſia, e di ſoverchio acetofo: il che adoperar ſuole
altresì il Cafè, ela Cicolata; alla, qual coſa riparare ottimo rimedio è il
digiuno. Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in luogo
dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale, cos lor
giovamento non ordinario:e che gli Ollandeſi portano nella Cina le frondi della
Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di Salvia tre tan te
ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli
huomini tengonſi. Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare
fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in
pochisſimo pregio,c ſtima. E quinci avvien poi, che tutti coloro, i quali ſien
d'alto in gegno, e di ſaggio avvedimento dalla natura forniti,nul. la
badandoviaila, moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no, onde a'primi onori
del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle
principalica, 1 { gioni 182 Ragionamento Terzo 1 1 ! doti, gioni, per la quale
de'buoni libri dell'antica medicina, e della natural filoſofia pochi rottami ſi
trovino, e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural filoſofia tralandiſi. Ma per
trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia ri,erinominati al inondo, ſe'n
viſſero già lungamente per fama, quegli avveduti, e ſapientisſimifiloſofi, i
quali la medicina ritrovarono primieramente, e ſtabilirono il Egitto:
altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono
all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza, e della fragiltà della
gloria monda na; perciocchè eziandio di coloro, iquali ebbero già vé tura
d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il vero nome pervenir
potuto. Caſtigo ben douuto all'invidia,cd alla tracotanza di quei Principi, e
Sacer, i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare, e l'eſercitar la
medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla, e invilupparla con
cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di ricoprirne i
miſteri ſommamente ſi ſtudiarono. Perchè io giudico, che po co, o nulla della
medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi
valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla
inacemati ca, e colla filoſofia naturale, e altre buone arti nell'Egit to
pellegrinarono; ed in quel tempo appunto per lor di (grazia vi giunſero, che
caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta
divenuta, comun nemcnte da' medici ſcimuniti, e balordi ſi malmenava; ed i
ſacerdoti l'antiche note più non intendeano, o ſe pu re qualche coſa ne
penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine, tenevanſi d'inſegnarle altrui,
e masſima mente a' foreſtieri; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il
leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano, quan do e' diſſe, che i Greci
niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato. Eλήνες δε ούτε παρ'
Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav. Senzachè, ſe a
Greci al trôde venuta foſse la medicina,certamente ella non ſareb be tanto
indugiaca ad allignarvi, e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di glo Del
Sig.Lionardo di Capoa. 183 di gloria, a quanto ella poi in proceſſo di tempo
creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza a noi
dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta;pur potrebbeſi ragionevolmente argomentare,
eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re, e da' Sacerdoti del l'Egitto
condotta, da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra, che la moglie di Tono Re
dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’
Ελένη Διος εκγεγαλα, Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν
Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων. ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι
μιγείη, Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών, ουδ ' ά οι κατατεθναίη
μήτης τε, πα ής τε, Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων,
όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα. Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι
Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς. Onde a la bella, e vaga Elena, figlia Del
ſommo Giove,allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma, che nel vino infuſe
Ch'efibevean 'un prezioſo, alme Liquur, che toſto ogni dolor diſcaccia Da
l'almaoppreſſa, e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce, e graziojo oblio Di tutti
i mali; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non potria mai
per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde Del pianto;
o d'attriftarſi;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre, e padre; Nefe con
gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici membra, Del frate
amato, o del fuo dolce figlio. Cosifatti i liquori erano, e i ſughi De l'alma
figlia del gran Giove eterno; Cb'erano utili, e buoni, a lei dati Polia 184
Ragionamento Terzo Polidanna gli avea di ToneSpoſa. Il qual medicamento,
qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare; ne
comporta il mio ſcarſo ragionamento, che lungamente lo ne favelli, ne che fra
sì varie, e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri, mentre altri vogliono,
non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino;
altri allo incontro medicina artificioſamente preparata, chi dice d'uno, echi
di più ſemplici compoſtage lavorata. Io giu dico, ne forſe da' limiti della
ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana, chela Nepente opera
foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo
medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato, al tro cercaméte non ſembra
chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe. E
fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima; pcrciocchè Vulcano figliuol di
Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il
fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò, e diè principio egli altresì all'arti tutte,
che del fuoco ſi ſervono; il cheoltre a Zezze moderno, e ſti mato da alcuni
poco veritiere ſcrittore, il qual dice. Πύρ, και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας
tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano; 'e Vulcano
altresì, ſecondo Ariſtotele, e So zione appreffo DiogeneLaerzio, inveſtigò da
prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na
ragione affermare, aver lui per dover più acconciamé te farc, e rinvenir
ne'corpi diſciolti, eminuzzati, i primi lor componenti, adoperato da prima il
fuoco, e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio. E quin ci
nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano
a gli altri Dii paleſato; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a
divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte
eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato, e dalui poſcia a’Re,ea
Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tut Del Sig.LionardodiCapod. 185 ci
tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi più profon damente eſaminare. lo dico,
che non ha dubbio veruno avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto
gran, pro dalla Chimica; imperocchè ella venne a tale, cheti to altamente ne
puotè favellare il dolciſſimo Iſocrate con queſte parole: gli Egizi Sacerdoti
per guarire il corpo dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella,
che ſi valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra, che potendoſi
colla medeſima ſicurtà adoperare, che gli ordinarj cibi d'ogni giorno; recar
ſuole poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo:
Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν, και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην: αλα
τοιέτοις, α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν: τας δε ωφελείας
τηλικαύτας, ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos.
Magran pezza avanti Iſo crate, e nel tempo appunto, che in Egitto fioriva la ve
ra medicina, avea detto Omero, dell'Egitto favellando, Ιητςος δε
έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων. cioè, ficome volgarizza il Baccelli:
Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio.
Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per
Diodoro, quand'e'dice: gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in
uſo, fe non fe criſtci folamente, purgative medicine, c digiuni, e vo mitivi:
τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα. τα κλυσμοϊς, και
ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην
ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes.e'debbeſi ſolaincnte di
quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re, c da' Sacerdoti, in mano della
più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita, eſſendo già
caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta;
ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate, che il
mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne
foſſe lecito porger a’malati al; A a cun -186 Ragionamento Terzo cun
medicamentoprima del quarto giorno, ſe non ſe a ri ſchio della propia perſona
del medico. Al che forſe po nendo mente il Corringio, e non diſtinguendo i
tempi, af ſolutamente ebbe a dire, la medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza
aſſaige materiale. Ma ſe perciò dal Borric chio egli meritevolmente ne venne
biafimato, egli fareb be certamente aſſai più da biaſimar Galieno, il qual ne
gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci avefler contezza de'medicamenti,
pure osò dire eſſere ſtato il lo ro conoſcimento affai groſſo, e rozzo, e che
con l'agio di aprire i cadaveri p imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe
alla notomia dell'huomo pertinéti. Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e
avvallata allor;che quel pae ſe da’Perſianiſoggiogato venne, e domato in guerra,
che i ſuoimedicipiù celebri, e più valorofi, quali effer do veano ſenza fallo
que", che medicavano il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i
quali ancora erano roz zi, enovizi nell'arte. Caduto poil'Egitto ſotto
l'Imperio d'Aleſſandro, l'Egi ziaca medicina, ruinà anch'ella, e tracollò sì
facramente, che i medeſimi Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino
alla cadura del Romano Imperio in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de'
medicanti Greci in grande ſtato, edorrevole durarono; e tratto tratto poi
crebbero in tanta fama di dottrina, che a Galieno, come egli me delimo ne da
teſtimonianza,non increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo
infra’diſcepoli di Quinto,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro; e ſi
mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta grandezza, e ſplendore lun go
ſpazio di tempo intanto, che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in
que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in
pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto. Narrali per Damaſcio nella vita
d'Iſidoro, i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino, per li quali meritò
egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene.
Coſtui quarant'anni continui logorò fa cendo DelSig. Lionardo di Capok 187
cendo eſperienze, e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la
medicina, ed inſegnandola al figlio, che ſeco conduceva: pervenuto poi in
Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco, o nulla di medicina ſappien. do,
non con la ſperienza, come doveano, ma congli al trui detti medicavano a
ritroſo, anzi (conciamente mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin
medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non
traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto della Cirugia, oglino ſolean
molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco; ma le maligne piaghe con la
fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue farebbero da ri putar degni di molta
loda, ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi, e idolatri, come par,che dica Fozio,
comechè un an rico autore appo Suida affermi, Giacomo eſſere ſtato Criſtiano;
maavviſa il dottiflimo Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo,
moſſo ſolamente da coloro, che'l credeano mago,per le maraviglioſe cure, ch'ei
facea. Dice di più Damaſcio, che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto, il qual
di muſico, ch'egli era in prima,li fè medico, e infra breve tempo cotanto in
ſapere vantag gioſli, che in molte coſc, emolte, ſi laſciò dietro il me delimo
ſuo maeſtro. Fu coſtui gran matematico, c'l più eccellente infra tutti i
filoſofanti de' ſuoi tempi, comeche di coranto intendimento non foſſe, che
poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi
tempi avea ſolamente in pregio Giacomo ſuo Mae ftro, e degli antichi, Ippocrate,
Sorano, Cilice, e Mal leoco. Perchè ſembra, ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro
foſſero ſtati metodici; e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran
de'valenr'huomini, che in niun pregio avcano Ga lieno. Rinovò Aſclepiodoro
felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco, già lungo tempo traſandato, e ne vinſe
incura bili malori. Entrò egli nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì
ſalvo, ponendoſi al naſo, e alla bocca la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento
Terzo ripiegata sì fattamente, che racchiuder vi poteſse qual che particella
d'aria, onde egli agevolmente reſpirar do veſse; quindi accoppiando inſieme
varj minerali,con ma. raviglioſo artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe.
Ciò, che di vantaggio di lui narra Damaſcio per non recarvi tedio al preſente
tralaſcio. Tanto vo dire,che de' medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi,
ſi vede,che poco alla fama riſponder dovea il loro valore. Ne pur nell'Egitto
la greca medicina nel ſuo buon nome lungo tempo durò; perciocchè di mano in
mano piggiorando magagnoli, finche tolto al Romano Imperio per opera de'
capitani d'Omare l’Egitto, e venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi
ſpenſe la greca medicina, ed in ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi
rimaſe;alla quale ſucce dette poi, e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o
per ine’dire, di Metodica mcdicina aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc
cotali coſe appiccata, e ſtabilita, le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni,
cvidenti principi, fondamenta di quella, c non altrimenti che ſe foſscro già al
tempo d'Erodoto. Egli ha ora in Egitto un'infinita fchiera di medicanti
barattieri, i quali per pochi bajocchi ottenuta licenza di medicare
dall'Alimbali, over princi pe de'medici, deſtinato, ed eletto a quell'uficio
per denaro dal Barsa del Cairo, o che ſappia egli, o non ſappia di me
dicina,medicano, una o più fortidi malattie, comc più lo ro in concio viene; c
giudicano eglino, due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil caldo, e'l
freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto, immaginano qui vi
follemnente, che tutte le malattie, o procedan dal cal do, o fian da ftrabocchevole
caldo almeno accompa gnate; perchè giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per
Taltro, ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci, ſecondo la loro opinione, e
valevoli a rinfreſcare. Perchè traggon · largamente ſangue in tutte le
empleſſioni, in tutte l'età, in tutte le ſtagioni dell'anno, ed a tutti infermi,
e dan be re acqua agghiacciata; il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia,
non ha cercamente huomo di sì mezzano inten dimen DelSig. Lionardo di Capoa 189
dimento, che di leggieri avviſar no'l poſsa; ſenzachè i cauterj, e le
ſcarificazioni, che crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più
menome malattie ſo gliono adoperare, tolgono affitto loro ogni buon nome;
intanto, che affatto contrarj a quegli antichi mediciſein brano, i quali avean
piacevoli argomenti folamente il uſo. Ma ritornando alla medicina degli
antichisſimi Egizzi, certamente lo non ſo, come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi
mo fallo, nel quale que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a
riguardo l'eſercizio della medicina; il că po della quale è così vaſto, e così
malagevole, cheappe na, che più, e più persone colle lunghe eſperienze, e col
le ragioui una menoma parte oggi coltivar ne poſsano. Ma no meno da biaſimar
íono gli Egizi medici, per aver oglino primieramente colla vanità della
divinatoria fero logia, corrotta, e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar
credenza alle parole di Giulio Firmico: Nekepfo egli dice, Ægypri jufiifimus
Imperator, a Aſtrologus val de bonus, per ipfos Decanos omnia vitia,
valetudineſques collegit, oftendens quam valetudinem Decanus efficeret, quia
natura alia vincitur, quia Deum frequenter alius Deus vincit, ex contrariis
ideonaturis, contrariiſque pote ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ
rationisma gifteriis invenit. Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci
poffident circulum, ac per duodecim fignorum numeri ifte Deorum numerus, ideft
decanurum dividitur. Se poi dagli antichi medici cra ſtato introdotta nell’E
gitto quell'uſanza, che nel tempo d'Erodoto, nel quale fenza fallo la buona
medicina iyi affatto era mancata, fer bavali, clic per tre giorni di ciaſcun
meſe dell'anno gli huomini per conſervarli fani ſi purgavano col vomito, e ſi
Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης τοιώδε διαχρέωνται: συρμαΐζεσαι σάς ημέρας
επεξής μηνός εκάσg, εμέτοισι θηρώμενοι την υγίειην, και κλύσμασι, νομίζονες απο
τών τξεφόνων στίων πάσας τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι. loper me non
credo,come si poſſa generalmere favel lan 190 RagionamentoTerzo 1 lando,
comeche rieſca calor peravventura giovevole, tal coſtume in tutto lodare;
conciolliecoſachè coll'uſare il yomito, ei medicamenti, lo ſtomaco, e
gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono, e fi ſconvolgono notabilmente, e
alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi
umori le mucilagini, che veſtono, e difendono le loro membrane, ed altre, ed
altre ſoſtanze non ſolo utili, ma ſommamente ancora all'economia, all'
operazioni, ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non
rimane a dire dell'Egiziaca medi cina, ſe non chenon coſtumò ella ne meno
allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato, per quel, che ſe ne ſap pia,
di trarre mai ſangue: comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo, o ſia
cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè
egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora, oco. me Ammian
Marcellino, fra'canneci delle rive di quel 1o. Ma Prometeo, o pure Magog, onde
ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua
opera primieramente ritrovata, dinoli, e molti nobili, cgiovevoli medicaméri,
co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli
ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo, ch'egli medicava me
[ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie, con guarir
tutti coloro, che così malamente ſi ritrovavano ridotti, che non ſi cran pocuti
per niun riine dio in prima riſanare, e che prima, che a lui veniſse fatto di
ritrovarle, e di porle in opera, non vi avea rimedio al cuno per le malattie To
pelice régason, & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν,
και δε πιςον, αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις
ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος, Ma di lui ancor
ragionevolmente dottar ſi potrebbe,nó egli 1 Del Sig.LionardodiCapoa. 191 egli
aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più duri,
quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co: mentre è coſtante fama appo
l'ancichità, ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i
metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν, σίδηρον, άργυρον, χρυσύνη της
Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού. E conciofoffe coſa, che atanta impreſa gli
faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco, e in
diverſi gradi partirlo, e perciocchèegli peravventura, del calor del Sole
ſervisſi: finſero, ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle. Ma tafciam di ciò,
a' Chimici il penſie ro, come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo
al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien nel fuo
idioma da Eſchilo medeſimo narra to, ed è nel noſtro tale il ſenſo, Gia fiam
giunti,o Vulcan, ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove a Scitia
valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore; Equeſto audace all'alte
eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi. Eito
fplendore Del foco onnipotente, onde tu altero N'andavigià, furotti, damortali
Dono nefeo: dritroi, che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata pent's
ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare apprenda. lo
perme immagino, che Promeceo, o che'l caſo il por: taile, o da qualche ragione
ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole, e che da queſto traerſe
origine la fa voka accennata. Mache che fia di ciò, li diede Prome teo ad
intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus di nous
isoleradio il che fa vedere, che in fin al ſuo primo cominciamento la f media
192 Ragionamento Terzo 1 medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio:
ſe, e vane. Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero, Io
non ne ſaprei dir altro, ſalvo, cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni, e
della dieta nel cu rare le malattie, come appo Plutarco riferiſce Talete την
δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και
αφθόνως, και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia:ebbe ella
ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento, e ſopratütro
aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo, si fattamente, che prima di
ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari (fabbricando
ad ogni ora nuove Città, e popolandole di gente douunque capitavano ) a
lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa, e d’Aſia, e d'Europa,
perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il
mare: onde diſſe Tibullo. * Prima ratem ventis credere docta Tyros.
Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender
colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina, e che però ella nella
Fenicii, fe condochè la natura d'un talc affare comporta, alcolmo della
perfezioneaggiugneſſe. E di vero convennc, cho gni ſua parte arricchita, ed
illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino, come colui, che dopo diverſe,c
glorio ſe vittorie dell'Africa avute, come canta Nonno nel poema dc'fatti
dfBacco, edificò cento Città. •... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας πολέων
εκατονταδα, δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e ſpezialmente
la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva. Quindi egli ſpogliando
dell'antica rozzezza, c pe coraggine la grecia, le diedeinſieme con tante, e
tante doctrine molti vocaboli, e le lettere ancora, e l'umanità. Il chei
medeſimi Greci apertainente confeſſano, dicendo Erodoto >, per tacer di
Filoſtrato, d'Ateneo, e di Diogene Laerzio, chei Fenici, che vennero con Cadmo,
conmol te al.. DelSig.Lionardo di Capoa 193 te altre dottrine, le lettere, che
prima non vi erano, in Grecia introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω
απικό. μενοι, εσήγαγαν διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη, και γράμματα ουκ
toy a aliv eranos. Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò, che nella Fenicia la
vera natural filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone,e Poſſidonio
appo Seſto Empiri co raccontano, da Moſco Fenice, Leucippo da prima apparò. Ma
più che altro, l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere,
l'aver ella pe netrar ſaputo, come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle
malattic; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro
abbiſognava, eun'avvedimento non. miga ordinario, e volgare; eſſendo loro
neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono, qual veramen te
ella lia, ſe l'aria, o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi,
e le figure, e la grandezza delle parti celle, che la compongono; e come la
lingua, che forma il canto per via di miſure, e di convenenza, or fortemen te,
or pianamente, or velocemente, or tardamente la muova; e coine sì fatto
movimento or s’uniſca, or fi di funiſca, or creſca, or manchi, or fi rifletta,
or s’attuti; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me all'orecchio
finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza, o penetri i poridel timpano, e per li
tortuoſi ſentieri del laberinto, e della chiocciola aggitandoſi, a percooter
rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico, o pure le ſue particelle dieno il lor
movinento al timpano, e'l timpano le com munichialle particelle dell'aria, qual
falfamente inn.itu chiamaſi, e queſte poi alla membrana, che veſte la chioc
ciola il compartano. Ma ſopratutto inveſtigar loro cer tamente ancora conveniva,
come le fibre de nervi dell'u dito, rappreſentando fedelmente all'anima lc
vare, e va rie maniere, colle quali elleno tocche, e percofie furo no, facciano
sì, ch'ella la sì varia, e táta diverſità deluo ni ne venga ad imprendere; e
come l'anima poi da una ſorte di ſuono noja, e da un'altra diletto tragga; e
come da ciò s'ingenerino in eſſa amore, odio, ira, timore, ed Bb altre, 194
Ragionamento Terza 1 altre, ed altre paſſioni; e come queſte finalinente, o cre
ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue, e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del
corpo, o allargando, o riſtrignen do, o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi
rendan valevo li, come d'ingenerare, così anco di menomare, c di eſtin guere
parecchie malattie. Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor
no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a
noſtre caſe oggi'l veggiamo; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non
ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano, s’alleggiano i dolori,e
talvolta affatto ancor fi tolgono, e ſi ſeccan ſu le pupille le
lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo
pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il
che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè
ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica, ecol ſuono
eſtingucſse. Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia
chiintéda la ſignificāza delle parole,come quelle, che ancora per ſe ſtelle
fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono. Onde non ſenza maraviglia
lo lege go in Diodoro, che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile, ma
nocevole anzi che no venille ſtiinata, Tu'vuge σακην νομίζεσιν, ου μόνον
άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice: la
muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini: ettes, ¿ ' atémy,
aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις. Perché non eeglia mio cre dere affatto
inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto, e raffrenar le menti
offuſcate, ed alterate dall'ebbrezza. E ciò, che narrafi di Terpandro, e d'A
rione, ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di
graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano; e di Pittagora ciò,
che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto
infiammato d'a moroſo foco, l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate, ad
un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio
arreſtato; e di Timoteo, che con furioſo canto Del Sig.Lionardodi Capoa. 195
canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a prender l'ar: me; ma addolciando le note
sì adoperaffe, che le poneſſe giù di bel nuovo; e di Aſclepiade, che le
impazzate men ti, e da furor turbate, aveſſe con ſoave melodia in iſtato di
ſanità ridotte; e del medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe
l'udito. Ma non così di leggieri pe I ) ſembra,che preſtar ſi poſſa fede a
Marziano Capella, il quale afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi ca;
ed à ciò, che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la ſciatica,
comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore, e le podagre, e le
quartane febbri dipre ſente fanate. Ma che Talere poi colla ſoavità della Ce
tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz, coſa ſembra affatto lontana dalla
verità. · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle nazioni,
che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni, e l'armonie framettere; come
quelle, che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi de'combattenti,
e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado; e talora incoraggiargli a
più pericoloſe impreſe. E sìi Geti uſa rono le Cetere, e le Siringhe: i Creteſi
', le Lire: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali pria di comin ciare
la miſchia, di cantare un melos qucſti eran uſi, che Embetterio appellarono. E
gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime impreſe, e per addolciar
la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza dell'aria,, con ogni ſtudio
ferventemente alla mulica s'impiegavano; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a
fommo ſcorno recato; onde diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza
s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni, i quali ſecondo il patrio
coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria; e altri
ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente diviſando; e ne fa
anco parola Atenco.. Vennero, ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti
dell'altre nazioni imitati, i quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro col
canto facevanſi ſcorgendo, e non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio c'huom
vi mertelle Bb giam 2 196 Ragionamento Terzo 1 7 1 giammai penetrar potendola,
li fecero a credere, che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse; anzi vi ebbe
di van taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò, non ſo lamente ſopra gli
animali, maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare, e fin ſopra i
Cieli, e nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono, che colà giuſo nell
abiſso calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di
Cerbero i latrati, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di
mandar fuori: raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte
perdue te, aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor
foſsero dagli Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio, ne le membra a
Siſifo dal grayoſo ſaſso sfra cellare; ne per ſete delle vicine acque, e per
fame delle vedute poma arrabbiaſse Tantalo. E tutti quanti in ső ma
l'inceſsabili torméti col ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse;
anzi colla dolce armonia sì poteſse fa re, e tanto, che dagli infernali Dei
a'regni della luce law ſua cara Euridice otteneſse di riportare; il che vagamen.
te deſcriſse l'ingegnoſo latino poeta. T alia dicentem, nervofque ad verba
moventem, Exangues flebant animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam: ſtupuitq;
Ixionis orbis. Nec carpere jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque
tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum
maduiſſe genas: nec regia conjux Suſtinet oranti, nec qui regit ima, negare: E
per tal cagione altresì,ad imitazione di Teocrito, Virgi lio introduce
Alfefibeo a dire Carmina, vel Calo poſuntdeducere lunam. Carminibus Circe
focius mutavit V lalei Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis:
Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro Poeta puo tè far dire alla Ninfa,
dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal Giella Luna al mio cantar difcende,
S'ago DelSig.Lionardo di Capoa. 197,. S'agghiaccia il foco, e l'aria fifa dura,
Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra, ed ho fermato il ſole. Ma
cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori
de'Fenici, che non ſolamente nel canto, manelle parole ſole ancora una tanta
virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono, e di quelle in medicando fer vivanſi:
onde fi legge in Omero,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite
d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν
δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν
Εχεθος: cioè, Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe, e
prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue, che già fuor n'uſcia
Conparole d'incanto entro le vene. Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti,
per cacer de’latini, ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero, infra'
quali il Taſso padre finge, che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle
parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito,
cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già
ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti, Gli fanò in breve tempo ogni
ferita. E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in
tutt'altre malattie: infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab
occultis tribuens miracula verbis: e priina di lui Quinto Sereno:
Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle
Vana fuperftitio credit, tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata
fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo, attenendoſi a cotali
fraiche, e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe, maancora quei, che
tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa
mofiflimo Peripatetico, per tacer d'altri di minor liéva, con vaniſſimi
ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di
dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag
gioancor giudicano, che le parole eziandio ſcritte, e ad doffo portate, non
ſolo a guarire i mali, e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade,
e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri
Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti, co me di Ferraù narra l'Arioſto:
Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato,
Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del
ſuo valorofifſimo Orlando: Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato,
furrche in una parte: Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni
ſtudio sed arte. Duro era il reſto lor,come diamante (Sela famadal ver nonſi
diparte ) E l'uno, e l'altro andòpiùper ornato, Che per biſogno a le battaglie
armato. Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo, e l'Arioſto,
la novella d'Orillo, il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone, ed Aquilante
ſu le ſponde del Ni lo, non mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita:
imperocchè per virtù diparole,e d'incanto, egli era sì fattamente ciurmato, che
dopo eſſere ſminuzzato, e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe
acozzandoſi, -ri tornava, ſicomeprima a vivere, e a combattere; onde cantò il
Bojardo Segli tagliafſi il collo, il petto,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l
panico, 6 Mai DelSig.Lionardo di Capoa. 199 Mainonſarà dello Spiritoprivo,
Spezzato in mille parti torna vivo. Famoſa ſenza fallo, e chiara al mondo fe la
medicina de Traci il valencillimo medico, e filoſofante Orfeo, come colui, che
per teltimonianza di Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi
fè addétro aſſai; e fu il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia,
dell'erbé ſcriſfe: primus, dice Plinio, omnium, quos memoria novit Orpheus de
herbis aliqua prodidit. Compoſe egli ancora alcuni libri della natural
filoſofia, delle gemme, del ſito delle fibre, e un libro ſe'l ver dice Galieno
della compoſia zione degli antidoti, e molti, e molte altri libri di coſe
naturali; ſenzachè non ſi può egli di leggier credere, in quanto pregio avuto
egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo nia del ſuo canto, e per altre ſue rare
dottrine, maſlima mente della politica, di cui ſecondamente che ne raccon ta
Pauſania, fù egli un gran maeſtro, molte, e molte di di quelle coſe inſegnando,
le quali alla vita, e al regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli
pregiato molto, e tenuto a capitale per le molte, e valevoli medi cine a corali
malattic non men del corpo, che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente
adoperato. E comechè favoloſo affatto, e vano fia ciò, che vien narraro di ſua
moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata: non però di meno vogliono molti
antichi ſcrittori, che Orfeo la riſa naſſe, preſſo a morte ridotta dal morſo
d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo.Ma ſe
foſſe veramente d’Orfeo quel poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia
ſotto il ſuo nome divulgò, dottar non ſi potrebbe, che egli non foſſe ſtato
della Chimica molto, e molto avviſato, mentre ſi deſcrive in quel libro
minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo gran magiſte ro, che deſcritto
era, come ſi finge nel libro, che Orfeo con gli altri argonauti a Colco
conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione
di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello dell'o ro:, il quale, come
dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio,e Sui da, e 200 Ragionamento Terzo da, e Varino
Favorino, altro veramente ei non era, che una pelle, nella quale l'artificiofa
maniera da cambiar in oro qualunque altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le
tante arti, e ſpezialmente la muſica,e la poeſia; nelle quali dilettavali aſſai
Orteo, e l'eſſer egli ſtato, CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore
deltaco, e no per altro, che per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi.
tabile neceſſità quelle morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano,
mi dan per avventura giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella
filoſofia,e nellamedi cina da mé, che altri credevalo;ne tāta loda meritar
dovel ſe, quanta in prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo
ſemplici, enon eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze
delle coſe, nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora
ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare, e diſcerner ſuoi
librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e
ſpezialmente Siria no, il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi
tagora, e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della
ſua dottrina, e valoria; percioc chè non è egli vero ciò, che il ſemplice vulgo
parimento di lui credeva, efſer le ſue azioni, ed andamenti tutti con una coral
gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati; conciofoſſe
coſa, che egli dimoltes malvage uſanze, c cattive vezze la Grecia cutra gualta,
e corrotta aveſſe: Sacra Liberi Patris, dice Lattanzio, pri mus Orpheusinduxit
in Greciam, primufque celebravit in monte Bootie Thebis, ubi Liber natus eft. E
di vantaggio ſcrive di lui Ovidio: Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores
In teneros vertiſe mares: Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te
poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio, che valoroſo lor Principe,
da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo, e diſcepolo di Pittagora. Ma
della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco DelSig.
LionardodiCapoa 201 poco che appo Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar
gli occhj ſenza la teſta,ne la teſta ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza
l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra gione, perchè molte malattie
de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci, a’quali non è manifeſto dove
primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè al tutto, il qua le
non iſtando bene, è imposſibile, che qualunque ſuas parte ſe ne ſtea
bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene, o male
dall'anima noftra ne diſcenda al corpo, e da quello conſeguentemente a ciaſcuna
parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca; e però giudicava in prima eſſer
l'anima ſopratutto da medicarc; acciocchè bé poi ne ſteſſc la teſta, e tutto il
corpo.Mal'anima egli volc va, appo Platone,che da medicar foſsc có incanci; e
queſti diceva eſserci buoni ſermoni, e indirizzamenti, i quali certamente fan
pro a render l'huomo temperaro, e ſigno reggiante l'impeto de'ſenſi alla
ragione rubelli; e quindi 1.2 ſanità al capo, e a tutto il rimanente del corpo
agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº itu'sa's Guo ας, τες
λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις ψυχαίς σοφροσύνην
εγγίγνεσθαι,ής εγγενομένης, και παρέσης ράδιον ήδη είναι την υγίειαν, και τη
κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων, Ma non facea meſtieri certamente di molto
ftudio, e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja sì fatti di viſamenti,
che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più idiote perlone. Nevero
egli ſi ritrova, che le malattie tutte del corpo, dall'anima dependano, o ſem -
prc, chepatiſce una parte, debba neceſsariamente patir il tutto, o'lmal delia
parte da tutto il corpo, o da qualche parte principale di quelle dependere;
perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del corpo, ſano, & una, o altra
parte ſolamente magagnata. È ciò avvenir tutto dì live de,maſſimamente nelle
ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad
altro, quella feli cemente ſi riſana; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no
ſtri tempi avvenuto, dicolui, che portar non potendo il troppo acerbo dolore,
che per la podagra pativa in un de Сс diti 1 2 202 RagionamentoTerzo diti del
ſuo piè, venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo, ne più
mai in altro luogo poi venne gli la podagra. Macon gran prontezza venne
abbracciata, e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di
medicare da'Greci medici razionali; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri
medici ancora, tra per far pompa di quel ſape. re, ch'effi non hanno, ed ancora
per menar la cura alla lunga; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al
male; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono, le quali al la malattia punto
non s'appartengono; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle
opportunamente: acciocchè prima il tutto, e le parti principali medicate ſieno;
e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo; e immaginando follemente
ancora, che ciò far conaltro argomento non ſi poffa, i lor ſalalli, e le
ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza,
mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada,
fino a far infralir gli ſpiriti, e preffo, che amorte giugner i malati; ma ben
ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella, o altro menomo Empirico ',
cui il vero rimedio ſia conoſciuto, di sì fatte lor cianceri mangan beffati, e
ricreduti. Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai
più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di
lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere. Fabbricò egli un belliſſimo palagio (co
me narra Erodoto, comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale
convitava a mangiare la gente più principale, e lor perfuadeva, che ne eſſo, ne
alcun di co loro, che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con
eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita, eterna beatitudine
goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli
infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni; nel qual tempo con pieto fi
ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione poſcia
diè a diyedere, ch'egliera in vi DelSig. Lionardo diCapoa 203 ciò, in vita
ritornato; e queſto, ed altro egli ebbe agio di fa. re, perch'era in
grandiſſima gloria ſalito, tra per la medi cina, e tra per eller qnci popoli
groſſi, e materiali ſoprá modo; intanto, chenon ſolo diedero intera credenza a
che detto aveya: ma ancora dopo mortc in cotanta, maraviglia fu tenuto, che
venne da loro per Dio adora to; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in
co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali
era impoſto, che giunti ad un ſoli tario, ed ermo luogo,prendeſſero per lo
piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal, ch'eglive niſo
a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce; il quale fe immantenente ſe
ne moriva, eran ſicuri, che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande;
ma ſe per avventura morto non foſſe, n'era accagionato, coine indegno
dell'ambaſceria, e reo, e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro
ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano, al quale le medeſime ambaſciate
imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti
diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici
popoli, che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella
immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco,
ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de'
quali ora lo intendo di ragionare, avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me
vinta l’Iberia, e la Libia, e l'Oriente tutto, e più, e più volte calcate colle
vittorioſe piante l'arene dell’O ceano, e fin l'ultime regioni della terra
penetrate, e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo ſe
colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in
cotanto pregio la medicina, che non già monarca, e conquiſtator delmondo, ma
medico ſolamente volle elles chiamato. E nel vero così magnifi che, c gloriofe
furle fue impreſe, che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori
colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote, huom di loro nazione propiamente
Сс 2 inve 204 Ragionamento Terzo 1 1 inveſtirle; ma ſi ben non ſeppero con loro
novelle la coſa comporre, che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede. re
ciaſcun, che de'tempi di coloro faceſſe ragione; per ciocchè egli è coſa
manifeſta, che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci
foſse Bacco vivuto, ſecondamente che s'avviſa in Euripide, introdu cente nella
Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co, fol perchè egli antico fi foſse:
Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα, χρόνων Κεκτήμεθ', έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed
Ateneo,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco
nella lapida del ſepolcro di Nino, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima
de'tépi di Cad mo; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani,
eſſer Bacco, non dalla Grecia, comealtri crede, ma dall’Affiria nelle loro
contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra
ſenzafallo il ritrovamento del vino. E ciò fù per av ventura, che adoperando
cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo avanzata
ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò
avvedutofi egli, a bello ſtudio poi la colaj provaſse, eriprovaſse, finchè
avviſandolo alla fine così ſpiritofo, e giovevole al genere umano l'adoperaſſe
in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il
concedeſse. Ma forſe egli, ſecondochè lo immagino, per via della Chimica
ritrovollo; la qual, ficome in Egitto, così anche doveva allora in quelle con
trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col
digeſtimento, e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i
quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano. E potrebbe
eſser’anche, che Bacco apparato l'aveſse in ciò, che lo frutte, da ſe
medeſimeforinentar fi ſogliono, el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino
acquiſtare; avvenen. do ciò per opera de'movevoli ſommamente, & acuti cor
picciuoli, i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajuta Del Sig.Lionardodi
Capoa. 205 ajutati da cotali atometti di quelli, onde il fuoco s’ingco nera,che
continuo portan ſeco,e che in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e
ſciolgono quella nobiliſsima foſtanza, ch'anima del vino può dirſi, e da'
Chimici, che colla diſtillazione ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e
ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè del ritrovamento del vino ſe ne debba
veramente l'onore al noſtro comun padre Noè; impertá to è da credere, eſſer' il
modo di fare il vino da lui già ri trovato,per travalicamento di tempo,
ſmarrito: cche Bacco poi da capo il rinveniſſe. lo fo, che alcuni favo
leggiando voglion con lor novelle darnc a divedere,eſſere ſtata una medeſima
perſona Noè, e Bacco; ma ciò trala fcio, per non effer egli in modo alcuno da
credere; per ciocchè per quel, che comprender ſi poſſa dalle ſagre car te, non
guerreggiò giammai Noè, ne altra impreſa fece, che ſpezialmente a Bacco
s'attribuiſca. E molto meno è da preſtar credenza al Voſſio padre, il quale a
deboliſſime fondamenta appoggiato, giudica, non altri eſſere ſtato Bacco, che'l
ſanto Moisè; perciocchè Moisè non fu mai in India a guerreggiare, non chepunto
ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al noſtro propoſito dico, che ciò,
che ſifacefle in inedicando Bacco, e quali altrimedi camienti egli adoperaſle,
e come co'l vino guariſse i mala ti, e coll'edera poi a'nocimenti del vino e'
riparaffe, non; ne abbiamo al preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna.
E avvegnachè valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il
dator della vita chiamato, non però di meno eſſendo egli avido di loda, e
vanaglorioſo aflai, pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale,
vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure, con far veduta, che
qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse; perchè ſerviſſi delle divinazioni e
de facrifici, i quali tra per queſto, e per la ſperanza di veni re anch'egli
dopo mortequal Dio dagli huomini celebra. to, nell'Alliria, e ne'paeſi dalui
ſoggiogati, in primaj introduſſe. 200 Ragionamento Terzo 1 Ante tuos ortus
ar& fine honore fuerunt Liber, & in gelidis berba reperta focis. Te
memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi. Cinnama
tu primus, captivaque thura dediſti, Deque triumphato viſceratoſta bove. Ma
trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi, ſe rozza
veramente, e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe,o ſe talpur
ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò, che da Agatorchide per teſtimonianza di
Strabone, e di Diodoro, che da lui tolfer di peſo ciò, chc ſcriſſer delle coſe
degli Arabi, narrato ne viene. Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia
per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro
piante, diffolvendoſi, e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di
quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni, e malattie.
Soggiugne egli poi, che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi,
e del bitume davan riparo: da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε, και μη τικής
δυνάμεως, και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ
την.Ρcrche fembra ad alcuni, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican
ti da quel volgar ſentimento, che l’un contrario, per l'al tro curarſi debba.
Ma che che ſia della verità di ciò,tan to, e tanto oggi meſſa in dubbio
da’moderni medici: di co, che ſe rimedio pur quellera, certamente era cgli più
acconcio a conſervare, e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani,
che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio
giudica, esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina;
perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di
ſoverchio turati, o ſpalancati i pori degli animali, e oltre al convencvole
ſtemperati. Maccrtamē te è da dire, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie
l'Arabia, quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi
quivisì fatte malattie, fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di
que'tcmpi; o alti vode,che dagli Del Sig.Lionardodi Capod. 207 dagli odori
foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò della tram { curaggine di Strabonc, e di
Diodoro forte non maravi gliarmi,i quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un
cotal farfallonenegli antichi, e pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era
l'Arabia.Ma nella Grecia da chi, e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la
medicina, Io quanto a me confeſſo affatto non ſapere; nondimeno farei
d'opiniones molto tempo avanti di quel, che comunemente ſi giudi ca, quivi
eſſere ſtata quella ritrovata: e ben priina aſſai, che Cadmo le priine lettere
vi recaffe; perciocchè per le gravi, e crudeli malattie, che continuo quella
infeltava no, ſommaméte allora faceva la medicina alla Grecia me ſtieri. Il che
fu anche cagione, perchè con tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti
allora alla medicina s'impie gaſſero; e non fu egli al mondo,per quanto ſi
poſſa in iſto ric avviſare, nazione alcuna, che cotanto vis'inviluppal ſe,
quanto la Greca. Perchè ſembrami egli certamente imposſibile, che nelle tenebre
di tanti, e tanti paſsati ſe coli, e da poche, e non ordinate memorie, che
appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la
verità di cotali coſe; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità,
e millantatrici, ccon l'uſate lor favole, e novelle ſempremai
meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci
ſcrit ture pubbliche, nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe. memorie delle
coſe avvenute, oguiſcrittore poteva,come più gliera a grado narrar le
coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di
bugia. Arro ge, che i Greci, come afferma Dione, erano così avvez zi al piacere,
che ſtimavan vere tutte le coſe, che narrate foffero con eleganza di ſtile; il
che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero,
chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere, fenza durar fatica nell'inveſtigar la
verità de' fatti; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano, meſco. lando a bello ſtudio
menzogne coll’iſtorie, di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe
maravigliare; e altri fi adoperavano in ben comporre, e inviluppar le coſe per
coglier 1 1 208 Ragionamento Ter 70 6 1 coglier poicagione di trarre a ſua
patria ciò, che di ma. gnifico, e di pregiato andaſſe attorno. Così il comun
der Greci le glorioſe geſte in medicina d'Oſiri Egizio, perta cer d'altre ſue
impreſe, che non fanno al preſente a noſtro propoſito, al ſuo Apollo figliuol
di Latona mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro, e illuſtre
co' fat ri di Bacco Afirio. Così ancora quanto di grande, e di glorioſo in
medicina operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo
Eſculapio falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi, e confuſioni il
pren. derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo, in cui par citamente
quegli antichi medici Greci viſſero, de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon
giunte qualche contezze,che malagevole, anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo
ſvi lupparſene. Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo, faronne una
breve, comechè confuſa accolta, eſc condochè alla memoria a mano a mano mi
ſovverrà, ter rò ragionamento di ciaſcuno. E prima di tutt'altri mi convien
narrar di Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua
impareggiabil’arte del medicare, che ragionevolmente giudicarono, aver lui
meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato, e tenuto a capitale,
che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando
di lui Omero. Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων, e'l medeſimo poeta
nell'Odiſſea avea detto, i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer
della ſchiatta di Peone: Tlainavos dirigevédans. Il che ci può far credere, che
Peone foſſe Egizio, e non Greco di nazione, ma inſieme con gli altri, che teſtè
dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato; e intanto crebbe nella Grecia la fama di
Peone, che ciaſcun medico dopo di lui giudicava, ſe eſser ſommamentelti mato, e
commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime
de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie; e peonie
parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina;
perchè cantò il Poeta Et ful 4 - Del Sig.Lionardo di Capoa 209 fuperas Cali
veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis, cioè a dire, come avviſa Servio, à
Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc
dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito:
Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può
agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone appreſso gli antichi in maggior
pregio aſs:ri del medeſimo Apollo: comechè alcuni vanamente giudichi no, la
modelima perſona eſſer Peonc, ed Apollo. Ma ciò quanto ſia lontano dal vero
manifeſtamente in ciò ſi conoſce, che Omero nel ſuo maggior poema, di Peone, e
d'Apollo, come di due diverſe perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar
credenza al chioſator di Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo,
ch'Eſculapio; nel quale crrore cadde poſcia Artemidoro,quando diſse: Slautwv
gas ó Arxassatoo's heyeces: imperciocchè nc' tempi d' Omicro, Eſculapio non era
ancora deificato; trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice,
in favellando di Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo
medico: Φώτ' Α ' σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG-, Maciò laſciando al preséte, e
ritornando al noſtro pro poſito della medicina, dico, che di Peone non s'hà ine
moria, ch'Iomiſappia, niuna, fuor ſolamente della Peo nia: Vetuftifima,narra
Plinio, inventio paoniæ eft, no menque authoris retinet. MaIo quanto a me
giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci
danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non
abbiaino, che l'aver lui una fola ferita ſaldaca. Perchèè cgli a buona ragion
da crede re, che Peone per dovere a cotanta gloria, quanta egli acquiſtonne,
condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante
alla ſciocca, e fem, D d plice 210 Ragionamento Terzo plice gente,con
ſuefruſche,di tar lemaraviglic. E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne fe
credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in lis
la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto,le quali ſtandole
continuo a guardia, crocchiando, e volan do accorron coſto a bezzicar gli occhi
di chi la ſvelle; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di cicpargli
gl'inteſtini, ſe digiorno la coglie. Novella ſecondochè giudica Plinio, a bello
ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione alla coſa. Ma non
che ciò ſia vero, anzi le virtù tante della Peonia cotanto dagli
ſcrittoricommendate, e da Peone forſe da prima a quella attribuite, ora in verità
tutto vane, e falſe ſperimentate fi ſono: ne ad alcun lieto finc giammai
riuſcir ſi veggono. Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare, non forſe que Ita
noftra Peonia altra fi foſſe, che quella cotanto tenuta in pregio dagli antichi,
e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano effer veramente quella;
ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono, che ſia in certi tem pi ſolamente,
e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre. Ne è da tacere in queſto propoſito,
quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno, il quale afferma aver lui me
delimo ſperimentato, che la radice della Peonia appicca ta al collo de
fanciulli, c quivi da lor tenuta, non ſolaine se glidifenda dal mal caduco, ma
anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di preſente rinvenire. Malaſciando
al preſente Pconc, e trapaſſando a dir d' Apollo, creduto comunemente Dio della
medicina: egli è da ſapere, che molti Apelli già furono in Grecia, e cctante, e
sì diverſe, e dal vero lótane ſono quelle coſe, che per gli ſcrittoridilor ſi
narrano, che ſarebbe certa mente un logorar fuor di propoſito il tempo, il
venirle qui ad una ad una a raccontare. Solaméte dirò del figliuol di Latona
quelle poche, e confuſe memorie alla ſua me dicina pertinenti, che per quanto
lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono. E in prima, quantunque Apollo al
cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina, quale è quella per 1 Del Sig.Lionardo
di Capoa. 211 percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro;
Apollo hanc berbam,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio
dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe; inper tanto non è perciò egli da
eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina, ficome
dal vula go, or follemente ſi giudica; perciocchè in quel medeſi mo tempo,
ch'e'fioriva, molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone; il qual
certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore, ch'egli inedefino conoſcendolo
tale, volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne
la medicinaapparaſſe, come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai. Senzachè narra
Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli
occhj, non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo,
Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i
pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες: έκ δε νυ Φοίβε, Iyisod dedeany,
ardermoor Java Toio: ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della
gente volgare, non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò, comeſi
voglia: lo quanto a me immagi gino, che Apollo, o avendo egli col ſuo ſtudio, e
colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole, o
pur da qualche vegliarda appreſa aven dola, a quella adoperare con ogni ſuo
ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe
ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire,
nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo, e dappoco in medicina, e'l ſaper ſuo
manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di
que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal
foſſe ſtato anch'egli Apol lo, in ciò certamente ravviſar fi potrebbe, ch'egli
poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo,
quella parte della medicina a imprender ſi dic de, la quale intorno agli
antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 росо 2 IZ Ragionamento Terzo poco in
quella ancor profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli
di venire a capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita,
cingannevo le del vaticinare. Quindi andato in Delfo, la dove Te. mide dava le
riſpoſte, e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi, la quale gli vietava
l'entrata nell'aperturu dell'oracolo, ingombrollo di preſente, e cominciovvi in
un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette
perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός, του Διός Θυμάρεως ήκεν ας
Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις
εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών, το μανλείον
παραλαμβάνει. E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio
ſembra per mio avviſo, che abbia ſaputo la coſi. Dice egli ch'effedo ſtato
Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane, che diede le leggi agli
Arcadi, ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed
ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo, e terribile
huomo,che per la ſua grandearroganza dicevali se zw,cioè Dragone,preſidéte
allora della menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe, e celebrar vi faceſſe gli
ſpettacoli. Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi, c fugaciſuoi
facerdoti, e miniſtri, i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro,
vezzatamente davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto,
chequalunque caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire, eller quello verainente
ſecondo il lor divino predicimen to ſeguito. Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c
maliziofi fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai
ſempre i cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo, c con
duplicità, delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine
il mal ne siulciffe. E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p
preſo il vulgo montò Apollo, che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante
del mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue
afuzicado 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 213 perare, che di più intendenti, ed
avveduti huomini non foſſe ignorante, e poco del meſtier della medicina confa
pevole reputato. Ne per pruova altro che talcertamen te potevano giudicarlo,
riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 (la qual
medica ancor ella, ritrovò, e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a centina. ja
i miſeri malati, ſenza mai guarirfene niuno. Infra’qua li furono i figli della
ſventurata Niobe; di chic eila cotan to dolor preſe, che mancandole ad un
tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti, ſenza alcun motto fare,
chiuſei le pugna, pirò; perchè poi preſer cagione i Poetidi favo leggiare,
ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe. E quinci nac que poi, ch'eziandio dopo che
furono Apollo, e Diana nel numero degli Dei allogati,credevaſi comuneméte, che
tutti quegli infermi, che capitavan niale delle lor malat tie, ſe femmine
follero, perman di Diana, e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro; perchè
Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ
κατέκτεινε. E’l medeſimo poeta finge, ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel
campo greco; ne per altro, al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle
mani d'Apollo, é ne ven ne giudicato Dio infernale. Qual ſi foſſe egli poi
ne'co ftumi, il taccio; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie,
e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto, per fua mano, e a Lino. Tanto mipar,
chedebba lo ac cennare ciò, che alnoſtro propofito ſi conviene, cioè, ch ' cgli
avvili da prima, e profanò il ſanto meſtier della me dicina, inſegnandola ad
Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità, e l'onore; perchè
ella co sì preſso Ovidio fi vanta, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille
med fpolium virginitatis habet; Id quoqueiaétando: rupi tamen ante capillos,
Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas, aurumque
popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt. IR. L: 214 Ragionamento Terzo
! Ipfe ratas dignam medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona
manus. Quècunque herba potens ad opem,radixque medendi Veilis in toto nafcitur
orbe,mea ef. Ma trapaſsando a Melampo: grande nel vero, e non ordinario fu il
pregio, che guadagnoſli oglicolla me dicina, mentre oltre alle figlie di Preto,
egli guarà an cora della ſterilità, per quel, che nc narri Euſtazio, Ifi cle,
colla ruggine del ferro; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici,
maſſimamente di que' tempi, per più ragguardevole render l'opera, facefle egli
veduta,do po aver ſacrificato un bue agli uccelli, con diſtribuire a ciaſcuno
di eſſi la ſua parte, ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe, che
la ſpada, colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle, e da quello affiſſa ad un
pero ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di
non mezzano intendimento fornito, e che egli for ſe il primo, che cominciato
aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali. Perchè agevolmente porraſſi
argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo: comc che
per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici
ſolamente diprima lieva, detto fia, che l'antica medicina nell'erbe ſolamente
confiftelſe. Ma come ciò avvenir poſla, che la ruggine del ferro ab bia virtù
ditor via la ſterilità dall' huomo, e di diſporlo a potere acconciamente
ingenerare, egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque
ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè
ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi: alla quale
ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro, e maſſimamente la ſua ruggine;
la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare, che
la limatura diquello talvolta apporta, el la preparata dagli aliti acetoli del
nitro, e del fal ma rino, che continuo per l'aria diſcorrono, i qual eſsendo
più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno, più cfficace, e
profitcevole ſi rende di quella ruggine, che per ! man Del Sig.Lionardodi
Capoa. 215 man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più accô. ia a
meſcolarſi colle ſottiliflime, e acute particelle, che travagliano le viſcere.
E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco medicante Riverio il
vecchio. Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o nell'Egit to, o nella
Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal medicina Melampo da, priina
appreſa avelle; percioc chè, focondamente chenarra Erodoto, egli dell'Egitto
alla Grecia, inlieincco'ſacrifici di Bacco, molte, e molte novelle ufanze reco:
Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν, μαντικήντα έωυτή συσή σαι, και
πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά απηγήσασθαι Ε΄ληση, και τα περί τον
Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά. Tanto, e tanto oltre portoſli nell'arte col
ſuo altiſſimo intendimento Chirone, che non ſolo all'indebolite parti del corpo,
come Maſſimo Tirio racconta, con efficaci ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli
ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi ancora utiliſime medicine
appreſtava. Ne ſolo fu cgli (per quel, che n'avviſi Stafilo ) eccellente in
filoſofia, e in aſtronomia; ma valſe ancora affai nella mu fica, e in modo, che
ſeppe, come il medeſimo Stafilo, e Boezio narrano, parecchjinfcrinità
coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di ſpiare i ſegreti
del la medicina, che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan doffene aid
abitar nelle ſelve, per poter ivi a più bell'agio la natura, e le complellioni
dell'erbe inveſtigare; nel che s'adoperò egli si bene, che inventor della
inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta
quanta la micdicina fu detto; e in cotanta fama, e grido crebbe, che non
iſdegnarono (come narran Filo ftrato, e Zezze) per appararnela medicina,
d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio,oye egli ſtanziava,
Telamone, Peleo, ed Achille, e Giaſone, ed Ariſteo, ed Ercole, c Teleo, ed
altri: huomini di gran pro, eva lore; i quali, coine laſciò ſcritto Maffino
Tirio, egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando, e nelle cacce, e nel
corſo, facendo loro giacer nella nuda terra, e per 216 Ragionamento Terzo e per
burrari, e per aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e
ber ſemplici acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli; e
doppia utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini; per.
ciocchè non pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora
apparavano. Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di
ſperienze, media car ſoleva anche i bruti animali; anzi cgli li fu il primo a
ciò fare; e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è
vero, che alla Cirugia, comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera;
avendo egli, coine narra Apollodoro, relicuita la viſta a Fenice, il qual fu
poi un de ' compagni d'Achille nella guerra Trojana: cù. το υπ του πατρός
έτυφλώθη καίGψευσαμένης φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος. Πηλεύς δε αυτον
προς χείρωνα κομίσας υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις, βασιλέα κατέςησ:
Δολόπων. ΕPindaro an cora par, che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter
mità aveſſe mcdicato;poichèdeſiderava,ch'egli tornaiſe in vita, acciocchè
aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone, perciocchè egli pativa del
mal della pietra, co me dice un'antico Scoliaſte di Pindaro, o di fcbbre, com'
altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας, et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς -
σας κοινον εύξαθαι έπες, ζώειν τον απικόμδυον, Io vorrei ch'il Filliride.
Chirone, (Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del
giorno: cpoco appreffo,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων, και 1ι οι φίλον
εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν, ατήρα του κέν μιν πίθον, και νυν
έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών, Or Del Sig.Lionardo diCapoa 217 Or ſe ne
l'antro fuo foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato, Saria mia voglia
inteſa A dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali, ch'induce Eſtremo
caldo, bai didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia,
che'l antiche ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero
chironic, o perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone, come vogliono Euſtazio,
e Paulo da Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo, che sì fatte piaghe aveſſe
riſa-. nate, com'eſtima Galieno. Ma io, ch'alla fama comun degli ſcrittori non
così di leggierimilaſcio trarre, a cona feſſar il vero, aſſai dappoco, e rozzo
parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia; perciocchè egli l'uſo del ta
ſto, e le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva. Perchè
ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a
guarire, perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle; e sì fattamente,
che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio, e ſapere, nó che a guarirle, ma ad
alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo, che quel le gli cagionavano; intanto
che a morte poi ne divenne; comeche alcuni dicano, ch'egli da ſaetta folgore
ucciſo morille. Ma vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa,
enegli antichiſecoli celebrata. Tiene Eſculapio, per comun conſentimento degli
ſcrittori, il più orrevol grado in medicina, che inedico giammai aveſſe;
intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui
varie coſe, e di gran lieva ſi narrano, le quali traſandando lo, alcune
diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol brievemente dironne.Già dicevam
di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di
medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien za, e alla ragion conformi, alcune
correſlene., altre di sfenne affatto, el contrario ne preſcriſſe'; e forſe
quelle ch'e'laſciò dopo morte, cancellate in tutto, ed annullate Еe avreb 218
RagionamentoTerzio avrebbe, ſe di ciò tare gli foſse avanzato tempo. Credeſi
dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente inteſo alla Cirugia,
ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso.Ma ſe vogliam prcfar
credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il libro detto in
troduzione, overo, il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna parte della
medicina egli pienamente ſi conoſceſse; perciocchè quivi leggeſi, ch’Eſculapio
fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti compiuta medicina;
e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i non ſolasiente i
feriti, ma i febbricitanti ancora, c que ch'entro d'altre malattie erano
magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες, και πολιώ χαλκώ
μίλη πτωμένοι, ή χερμάδι τηλεβόλω, À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas, και Xepewo,
aurons amor, áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων, τους
δε προσανία πί νοντας, ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς
έπασιν ορθούς. Quindi veniano a lui le ſchierea volo De’languenti infeliciegri
mortali, O traejjero in fen fiftola,o piaga, O dapietre, odaferro aſpra ferita,
O pur nafceffeil duolo, Da'diſcordi fra lor femivitali, Ogni dolor, ogni
tormento appaga: Porge con molli incanti a queſti aita, Ed a quei con bevande
il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie.
A chi con tagli induſtri, e Cirugia, Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219
Drizza le membra, e fero duol travia, E prima l'aveva chiamato difcacciatordi
tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella,
Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia, e ſaettai Egli
non ſembra veriſimile adunque ciò, che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato
aveſſe quella parte della me dicina, la quale ſuole il cibo agl'infermi
diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua
medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare; perciocchè nc libro alcuno
dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova.
Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel
corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli, e tenzonanti; e di
loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele, e
vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando; e queſte diſcordá ti coſe vuol
egli, che ficno il freddo, e'l caldo: l’amaro, e'l dolce: il fecco, e l'umido,
e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio,
certamente è da dir, che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli
addoffaſſe il buon Erodoto; -e ben ne potrebbe egli a buon concio eſſercontento
di meno; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe giammai dato alla
medicina, come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza, per que, che fi
ſappia, certamente le dicde.' E che mai potrà il medico ritrarre dal ſapere,
che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare, o che queſte nel cor po umano
ſi trovino, ſe poi più avanti non ſappia minuta mente, ove elle fiano allogate,
ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo, onde il caldo -s'ingeneri, onde
la lor nimiſtà provenga, in che la lor natura conſiſta, con quali argomenti
poſſan porſi d'accordo, come vuotarli, qualo ra lien di foverchio rigoglioſe, e
ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora piggiorino,o porger loro ſoccorſo qua Ee
2 lora 220 Ragionamento Terzo lora infievoliſcano; che per altro quel, che
ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio, ad ogni huom di contado
agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto. Affai rozza dunque, e
imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina, ne sì grandi, e
rag. guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice; e ſc cgli oltre
all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci, ei bruti molte, e
molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto,
oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava, o per trar fuora i denti dalla
bocca, che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria, co mechè Cicerone ad
un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice. Aeſculapiorum primus Apollinis,
quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe
dicitur. SecundusſecundiMercurii frater: is fulmin percujus dicitur humatus
effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe:qui primus purgationem alui,
dentiſque evulfio nem, ut ferunt, invenit. Ne ſembra punto vero quel,che
Diodoro dice d'Eſculapio,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse;
onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i
morti; imperocchè Strabone, graviſſimo autore, e degno ſenza fallo, che gli
ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi,
e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono, le cure tutte ad Eſculapio
attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe, cſſer
lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei, perchè l'arte della medicina aſſai
rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita:
quoniam adhuc rudem, a vulgarem, dic'egli, parlando d’Eſculapio, banc fcientiam
paulòfubtilius excoluit, in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne adunque
certamente, ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima debolezza
ap piattata tenelse; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle
dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive,
ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie, ed altri
rei artifici an. DelSig. Lionardo di Capoa 22 1 > andato ſe ne foſseper io
inondo diſcorrendo (il che mol to ajutar ſuole i medici, ad acquiſtar fama, e
pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun, che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere
e dove che giugneva prometten do le maraviglie. Così egli vanagloriando per
tutto, ſe non huono mortale, ma celeſtiale Dio eſser diceva, e millantaya
temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti. Le quali
arti, e giunterie, acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi
pensò egli, che l'iſpida, e folta barba nudrendo, e laſciandola a gui ſa
dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue
trappole trovato crcdito. E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili,
che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso. Il che diede forſe cagione a
Luciano di far dire da Momo ad Apollo, ch'egli non operaſse come fanciullo, ma
favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare
per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio, il qual così grande, e
lunga, e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας, αλα λέγε θαρρών ήδη τα
δοκάνα, μη αιδε. σθεις, αγένειο» ών δημηγορήτις, και αυ% βαθυπώγωνα, και ευγέ
ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole, ch’Eſculapio a quella guiſa
appunto, che a'noſtriciurm.dori veggiam fare, portaſse ſecole ſerpi: e che per
riſparmio camminaſse a piedi: e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue
ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe, e'l baſtone; ſopra le quali
coſe poi ſognate ſi ſono tante, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori,
chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare. Ma vie più dopo inorte
crebbe in fama, edono re Eſculapio, tanto era folle, e cieca allor la gentilità:
perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia
ricchiffimi tépj, co maraviglioſe,e belle ſtatue dimarino, d'avorio, d'argento,
e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie; e sì, e tanta
era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi
vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte; i quali # di 222 Ragionamento
Terzo 2 di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e
per tacer d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto, dove del
ruffiano dice Fedromo a Pa linuro: Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In
Aeſculapii fano; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi,
fcaltriti, facendo veduta dinulla ſaper dimedicina, o del male, che coloro
avevano; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro
aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer
mo in ſogno additaſse il rimedio;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver
lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio, c per li lunghi
ragionamenti, che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe
tenuti, i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio
narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici,o da’altri. Ma pur
v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento, chea ciò niuna credé za
preſtavano, come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto
Eſculapio,che s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe
dal bere fred do, egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio
proverbiandolo, c che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato, le
medicar avelli voluto un bue? E ſe mai interveniva, che alcuno (o che'l rimedio,
o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe, oltra’doni, che coluiagli altari
offeriva, toſto alle mura un'effigiata tavoletta, a perpetua memoria della
ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E ſculapio; perchè poi ſe ne
traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj; c delle dette già tavolette,
anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni; delle quali per eſemplo vi ridur rò a
memoria quella pietra, in cui fu regiſtrato, che di ſperato da tutti Giuliano
per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta, che
veniffe, e da tro altari piglialle pinocchie di quelli per tre giorni con inic
le mangiaſſe; ed in tal modo liberato colui, lefe le grazie al Del Sig.Lionardo
di Capoa. 223 alla prefenza di tutto il popolo, αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ,
απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι
κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ. φας, και εσώθη, και ελθών
δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla medicina d'Ercole;ſe
Ercole come fu in medicina, foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue impreſe del ſanguigno
Marte, non avrebbe certamente ripieno il mondo delle ſue mara viglioſe prodezze,
ne ſtancate di tanti, e tanti ſcrittori le penne per celebrarle. Ma ciò non ſi
dee punto a neglige za attribuire, o a poco intendimento, ch'egli avuto avef ſe;
perciocchè logorò egli gran tempo, egran fatica ad imprender la medicina; e fu
sì profondo, ed acuto il ſuo intendiinento, ch'ei ſi fu il primiero a
comprendere, che per ta fimilitudine, la quale i Chimici chiaman ſegiratu, ra,
ravviſar ſi poteſſe la complesſion delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe
allor,che preſso a morte ferito dal l'Idra, ricorſe per guarire alla Dragontea,
la quale coll? Idra ha alquanta ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener
ciò altrui naſcofo, o per più ragguardevol renderli appreſso la gente, o per
altra cagion, che ſi fofse, infin. geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver
apparato: il qua le l'aveſse impoſto, ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la
dove naſce il ſole; perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe
ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra,colla quale lc ferite da’morfi dell'Idra
fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto medicare, eguarire. Io non ſo, ſe
collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato, che foſse giunto a
penetrar, che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino, del quale eila
oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità, in che co
filte il guarir delle piaghe; ma la medicina non era allora tanto oltre paſsata,
che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire. E queſta, e non altra
dovette eſsere la cagio NC, per la quale Ercole non potè nella medicina sì
eccel lente divenire, e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo maeſtro
Chirone, comechè gli veniſse fatto di guarir lamo 1 224 Ragionamento Terző la
moglied'Achille preſso a morte ridotta; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte,
averla lui da morte riſucitata: E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere
della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti,
iquali così di lui confuſamente ſcrivono, che nulla più; dicendo Varrone,
eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici, altri tre,
altri due, e Ci cerone ſei;ed evvi ancora, chi porta opinione, non eſser mai
ſtato sì fatto huomo al mondo. Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo, o
pur di Giove, come altri giudica, non ne vengono ſcritte, per quanto lo ſappia,
ſe non certe poche, e confuſe memorie; ſolamente ſap piamo da Cicerone, e dallo
Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio, il
miele, e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ.
φίον εξεύρεν, ώσπερ, και το μέλλG-. Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino
col miele, per quel che dica Plinio: Ari Seusprimus omnium in
eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte
provenientis: e non fi dee tacere ciò, che d'Ariſteo dice Giuſtino: Arifteum in
Arcadia lase regnaffe, eamque primum, apum, á mellis ufum, &lactis,
&coagulihominibus tradidiffe, folftitia. leſque ortus, do federum primum
inveniſe. Ma quantun que il filfio, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non
fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù, e
la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero, abbiano recato gran giovamento
al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo, non sò locome ei ſi
poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto
avvedimento fornito, che ſeppe con l'uſate giunterie,e menzogne riparare alle
diffalte del ſuo poco ſapere; e raccontaſi di lui da Teofraſto, da Apollo nio,
da Cicerone, da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo
furor della canicola gravemés te percoffa, sì che feccavan le biade, e gli
huomini mi ſeramenre morivano, eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo
domandato, come ſi poteſſe a tanta calamità ri para 1 Del Sig.Lionardo di Capoa
225. parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima di pure garcon
vittime, e ſacrificj l’Ilola, la qual era così atro ceméte punica o aver dato
ella ricovero agli ucciditori d ' Icario; e quindi pregaffe Nettuno,ſicome
Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto, ed Apollonio Rodio cd Igino
dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse Giove,ch’allo ſpuntar
della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti ſpirare, che queſti agli
ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente compenſo; cd avendo ciò egli
puntalmente cſeguito,ſpiraſſero i promeſli venti, e. ceſſalsero di preſente i
danni tutti dal ſoverchiante caldo w?quell'Iſola cagionati; perchè ne venne
egli poi Giove Ariſtço, ed Apollo Agreo chiamato, e frale ſtelle in Cie: { o
collocato. Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat folenne giuntcria
imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo, ſappiendo di certo, che il
naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono, cd accomp2 guare?
Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del greco pocta per le
maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne altro quaſi in
tutta l'Ilia de raccontaſi, che l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe; ne in
quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe
battaglie, ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da
non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e
perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione, quanto
più generoſo, e più magnifico ſenza fallo è il dare, che'l torre altrui la vita.
E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe, che però appo
Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da
Chirone fuo Avolo inſegnata. Quin etiam ſuccos,atque auxiliantia morbis
Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos, quid hiantia
vulnera claudat, Queferrocohibenda lues, que caderes herbis Edocuit. Ff Fu 1
226 Ragionamento Terzio Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch'
Euripilo gravemente ferito, volle effer ſolamente da Pa troclo medicato, perchè
eglifoſse compagno d'Achille, c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse
apparato; Νίζ υδαπ λιαρώ, επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα, τα σπ ποπ φασίν
Αχιλήφ»δεδιδάχθαι. Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute
le cagionidella peſtilenza, che allor travagliava ſommamente il campo greco; e
per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a'
dì no ftri molto giovevole alle ferite, e ad altri parecchj malili ſperimenta;
e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli
la ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva: Eft,
rubigo ipfa, ſcrivePlinio, in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles,
five id area, fiveferrea cufpide feo cit; ed in un'altro luogo il medeſimo
Plinio dice: arugi nem inveniſe, utiliſimam emplaftris, ideoque pingitur ex
cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi; avvegna chè altri vogliano
averlo egli con l'Achillea guarito,ed al tri, con l'Achillea, ccon la ruggine
del ferro. Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo, cheſi fappia infra'greci me
dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura
alcun ſoſpettare, e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine
del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo, non già alla feri ta di
lui; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non
coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re, che l'atta d'Achille
modelima faceva, e riſanava le feri te. Il che ſe vero foſſe, non moderno
ritrovato, ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura, che chiaman ſimpa tica
nclle ferite. Dice Plutarco, che Achille intendente foſſe del modo di guarir
colla dieta, e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in
prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano, e li ripoſano, toſto
triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono; e pe 1 rò di
Del Sig.Lionardo di Capoa. 227 1 rò dice che egli ſoleva far paſcere a cavalli
che avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo eſercizio, l'appio rimedio grāde
a tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non ſo, che gran coſa queſta fi ſia;
ne per eſſa, ne per l'altre di lui narrate coſe ſi può dire in verità, che
Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle
ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione del Valentini; e forte mi maravi
glio, che tanti, e tanti valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in
contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e
altri ciò coſtantemente negando; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca
gione; ma, ne queſti, ne quelli avviſano, chele ferite tal volta,eziandio più
gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre
argomento niuno dal. la lor guarigione a pro della ſimpatica medicina. Io non
ſaprei ridire ſe Palamede inventore di cotante; coſe, ch'abbiſognano alla vita
degli huomini aveſſe anco ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta;
avvegna diochè ſia molto veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di
natura era molto acconcio a filoſofare; in tanto, che ne venne appellato noivoo
PG, cioè a dire il ſavio di tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua
loda; quantunque Omero non faccia di Palamede menzione alcuna, o per invidia,
che gli aveſſe, perchèegli era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a
ſucceſſori d'Agamennone, ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà;
impertanto li ſcorge manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede
aſſaidi Omero, eſſere veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti
greci,e in prodezza non puntominor d'Achille. Madi ciò ch'operaffe in medicina
Palamede', altro non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato; il
quale l'introduce una volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla
pefte, faccia meſtierimangiar po co, e affaticarſi molto, e che così egli
avvezzati aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da
Po to nella Città dell’Elleſponto, ed in Troja appiccata, aw ni un de’greci
noja mai diede; comechè eglino fi foſſero in Ef 2 perti 228 Ragionamento Terzo
peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali avver. timenti lontani dal vero
ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha guari pienamente ſperimentato; e
però di più dirne al preſente mirimarrò. La medicina di Patroclo compagno
d'Achillo, e di Po dalirio, e Macaone figliuoli d'Eſculapio, che ſerbaraſſi
eterna, ed immortale nella memoria degli huomini mercè del ſovrano poeta greco,
che ſi diè cura di cele brarla: ſembra ad alcuno, che ſolamente nelle ferite
s'a doperaſſe; e veramente a riparar i dannidellapeſtilenza, che nel greco
campo faceva fieramente ſentirti,non ſi leg. ge in Omero, che in coſa alcuna, o
Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai s'adoperaſſero: avvegnachè la cura de’ga
voccioli, e d'altre enfiature, che ſuolo cotal morbo cagio nare, alla Cirugia
dirittamente s'appartenga; la qual coſa vien raffermata ancheda Celſo, allor
che facendo men zione di Podalirio, e di Macaone, dice: Homerus non in peftilentia,
neque in variis generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii, fed vulneribus
tantummodo ferro, & medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con
pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente
argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e fe noi medicaron la
peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro buon nome in medicar
quel morbo, cui non v'ha rimedio alcuno, e che l'antichità credeva,che
ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna divero,
ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe;
ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio, non ſolamente curò diverſe infermità:
ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina.
Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone, e per
Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente
comprendere. Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle
labbra il ſangue delle ferite; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao
la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ'
εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα. Sem.,per DelSig.Lionardo di Capoa.
229 Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno il ciò fa re vano, ed
inutile, anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li
pare, ſenzachè è ſtomachevol coſa, e pur troppo alla dignità de'medici
ſconvenevole Nero io, comeil primo Baron dell'oſte greca, e nipote
diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile, e
vituperevole opera. Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore,
edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra,
ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza; ma lo
ſteſso medicante Macaone dopo ch? egli fu ferito ciò fece: οίδε έδρώαπεψύχοντο
χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad
huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano,non che a’feritija?
quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl
fappia. Ponevano altresi medica do alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe
crude, e ſem plici fenza eller punto confattese preparate ad uſo de’me:
dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e
più rozzi furono i loro divi famenti intorno al regolainento del vitto
degl'infermi; eglino cibavangli di groſse cipolle, e di miele κρόμμυρν ποτώ
όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan loro berc il loro
ufato contadineſco Ciceone; bem veraggio il qual di farina, e di cacio di
capra, e di più grá di, e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi Πινέμαι δ'
εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ. E queſte fono le care, e falucevoli vivande, e
beverage gj, che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem ftore dava
loro; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza conſiderare,
ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir ne poteva Ma 1
230 Ragionamento Terzo Ma ben ſo lo, che di fomiglianticoſe, ed in pro, ed in
contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino
ſomigliantiguiſe di sì reo, eſconcio medicar praticafsero; ma che Omero a ſuo
talento le finga, poco eſsendo della verità informato; che ſe ciò vero foſse,
lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero
l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro,affai ben
conoſciuto; nihil unquam. ceciniſe, dice Pier Laſena, quod nun prudenter
excogita tum,ex induſtria diſpoſitum, &in alicujus rei utile dixeris
documentnm. Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole, a
ſtagnar il ſangue delle ferite, o pure a ſciorlo, ove egli fia rappreſo, e
corrotto; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag. gio
a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca
flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire, che
per lo lorotale aguto, oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che
difender le ferite dall'accroſità, da cui certamente la febbre, e'l dolore, e
lamarcia,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene. E ſe pure
coloro uſava no con ſemplici radici, e crude, medicar le ferite, ciò era,
perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli, e vigoroſe,
quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto
confarle, e ma cerarle, e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla
fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire, eſsere ſtate di tanta
virtù, e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi
punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma
raviglioſamente ſaldavano; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento
alcuno di mangiare, o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa,che a'
tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti,
poco, o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser
gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe, mangiando in
brigata; ſenzachè Platon dice, DelSig. Lionardo di Capoa 231 dice, che per
eſſer quegliantichi aſſai regolati nel mangia re, e pel bere, non avevan poi
gl'infermi biſogno, che regola alcuna intorno a ciò la preſcrivelſe; e
finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere fuor di ragione; impe rocchè
cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua ftamento del ſangue, traendol
fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale dall'acetofità, per cui elleno
marci ſcono; perchè cotal medicamento a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano
e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser giovevole a'feriti, e utile aſsai;
ficome anche ſi può ſcorger ne'cani: da’quali per avventura Podalirio, e
Macaone, oi loro più antichimacſtri ildovettero da prie ma appararc; perchè ſe
veggiamo, che cotanto approda a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare?Maper me
non cre do, che si facce difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che
la incdicina ignoraſse, deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri
ſcrittori venivan narrate, o dal la famaerano rapportate, maſlinamente dove
cgli non aveva cagione alcuna d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più
vago, c più inır.zviglioſo il ſuo poem 1,0 per altra cagione; ne punto vale
l'eſemplo del Paracelſo, imperoc che, ſe pur è vera la ſtoria, il Paracelſo fi
ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e valevoli a guarir le ferite, che non fa ceva
loro d'alero meſtieri. Ma in quanto al Ciceone; egli è una bevanda in verità sì
ſconcia, e mal fatta, che ſenza fallo non può ella altro inai, che nocuinentu
agli huomini ſani, non che agl'infer mi apportare, che che ſi credan Plutarco,
ed Ateneo, i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne, che'l
cacio, il vino, e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere.
Vltimamente, le radici, e l'erbe non preparate, maffimamente l'Achillea, e
l’Ariſtologia, colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono, che Podali rio,
Macaone, e Patroclo medicaſsero, abbondevoli ſo no d'umore acquoſo, e non ben
digeſto, il quale oltre che infievoliſce il ſolfo, e l'alcaliloro volatile, in
cui law vir 232 Ragionamento Terza virtù conſiſte, per ſc iteſso altresì egli è
ſommamente alle ferite nocevole.... In quanto poi al lavar, come è già detto
con l'acqua ſemplice le ferite, non è vero'ciò, che alcunidicono, che ciò
eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men cre ciò non ſolamente
non licſprime da Omero, appo il quale ſi ſuol fermare il ſanguecon
l'incantagioni; ina di ce eglichiaramente, che l'acqua, colla quale le ferite
li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che a riſtrignere;
al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con l'acqua allora allora
tratta dal Tevere fin ge, che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe le piaghe. Interea
Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis, corpuſque levabat.
Nove, aphyſice, dice ſu queſto il chioſatore Servio, nan cum aqua omnia
infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua, Oratio vera eft,quia fluxussăguinis
aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per mio avviſo ſcuſa il
ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare: ma un tal modo di mcdicar
le ferite, con l'acqua lavandole, tut to che ricevuto,ed uſato anche dopo grăde
ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci, onde dice Silio purgat vulnera lympha:
anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia
nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento;laonde
con più lag gio avviſo da’moderni medicanti leferite col vino, o col
l'acquarzente, ovc,lor huopo ciò lor faccia, vengon lä vate. Maquantunquc sì
malamente medicaſſero Podalia rio, e Macaone, venncro non ſolo vivi, ma anco
dopo morte in sì gran pregio tenuti, che furonodi ſtatuc, di té pj, e
facrificionorati. Quelle coſe poi, che di Podalirio narra aver letto in al cuni
antichilibri Celio Rodigino, elle fon tutte, per quel ch'io micrcda novellette
da Romanzi; ciò Zono,degli avendo rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al
perico lo da 0 ! Del Sig.LionardodiCapoa. 233 lo da un'avvenente paftore,e lu’l
lido corteſemente accol to; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza
avu ta, per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla
vetta d'una torre era giuſo caduta; cui egli facendo crar ſangue da amendue le
braccia, e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa; di che il padre
oltremodo contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala, data
gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue
belle, ed egre gic Città, una col nome della moglie Cirene, e l'altra col nome
di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo
in cominciato aringo ordinatamente procedendo, avellimo molto addietro fatto
parole di Teſco, di Giaſone, di Pe. lco, di Telamone, e del ſuo figliuolo
Teucro, e d'Erobo te: ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien no
a noi pervenute, n'è convenuto tacergli; e perciò pal farem ſomigliantcméte
ſotto filenzio,'e Nicomaco, c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea, i quali
ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno, e come nar ra Paufania,
lolevano gl'infermi corteſemente curare, e maſſimamente le dislogate oſla, o
membra in buon concio rimettere; onde per grado, gran tratto ne furono come Dij
da’poſteri venerati. Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato,di Dardano, di
Cleomitide, di Teo doro, di Criſime, dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi
non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi, e più vicini tempi facciamo
paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare di quel
ſiſtema, del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia
medicina;ritrovato,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori
dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori
della medicina,faggiamere avviſaſſero,che ne il caldo,ne il fred do, ne l'umido,
nc'l fecco, ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun nocumento
gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino, o l'ecceſso, che vogliam dire, il qual
per Gg ſover 234 Ragionamento Terzo ſoverchio di vigore, non poſſa eſſer dalla
natura ſoprava zato, ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto
proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via; il quale ecceſſo dicevan'
eſſi avvenire, qualora l'amaro, amariſſimo: il dolce, dolciſſimo: l'acetofo,
acetofilimo divenga;mentre portavano opinione, l'Amaro, il Dolce; il Salſo,
l'Acetoſo, il Diſcorrente, l’Acerbo, e altre infi nite coſe di varie, e molte
virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente, che fteano
frá eſlo lor meſcolate, e confuſe, e l'una temperata dall'altra; che foj mai
avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi, così ſceveratamente ſe ne
ſtca, allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi
con mole ftia ſentire, e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli,
eglino ſomigliantemé te diſcorrevano:dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1
huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe, e ſa pori acconciamente
temperato, e che quegli, onde alcun danno riceve, abbiſogni ch'una delle già
dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi, che il caldo,
e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi; cd ove rimeſcolici
inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano; ma quantunque volte ſi
leparino,e che o riprezzo, o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro
contrario imman tinente accorrendovi, e la furia del tiranneggiante nimico
affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi. Il che ſe pur
non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre
gravi malattie avvenire, dicevan'eglino, che in sì fatti cali non già dal folo
caldo, ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la
febbre veniffe generata. Finalmente tutto ciò, ch'Ippocrate dietro a tal
materia fiegne a narrare, e come egli prenda a ripigliar coloro che
dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido, al
ſecco, al freddo, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo,
e forſe di poco momen to, lo Del Sig.Lionardo diCapoa 235 to, lo tralaſcio
diriferire. Ma quanto al fatto del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne
ſembra per le parole del medeſimo Ippocrate, che Apollo, o Chirone, o Eſculapio,
i quali è fama d'aver primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli
au tori. E quanto ad Eſculapio, comechè contuſamente ne faccia parole Platone,
e a guiſa d'huom, che di dubbia, coſa favelli, par che dir voglia, ch'egli in
tal modo fi loſofaſſe, ed è veriſimil molto, che dal ſuo maeſtro Chi, rone, o
dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe: e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui
più antico: eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino
a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando,e a quelter mine
condotto, ſicome egli il riferiſce; ma egli è nondi meno per mio avviſo, aſſai
manchevole, e ſcempiato, ne Ippocrate interamente, e qualli converrebbe il
rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di
tal fiſtemi capiſſe. Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi
filoſofanti, e medici inſie me, o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una
tal breve, e confuſa notizia, che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge,
che non mai dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi, che
di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati, tutto l'Vniverſo com
pongali, i quali diquelle, che prime qualità le ſcuole, appellano forinati, con
altre, che ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a
ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle di figura diverſe,in varie gui le
ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro; o per me'dire, e più
ſecondo la loro opinione, da tale accozzamento, o ſceveramento tutte le coſe ſi
faceffcro in varie guiſe ſenſibili; e che, ne generazione, ne corrompi mento
v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il
medeſimo Ippocrate; ma che ogni coſa, che dinuovo ſimanifeſta, pureravi innázi.
Il qual modo di filoſofare, ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora,
certamente da quello non è guari di verſo. G g 2 La 236 Ragionamento Terzo La
maniera del medicare di quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema,
viene apertamente accennata da Ippocrate quando dice, ch'eglino davano.opera a
tor via dall'huomo tutto ciò, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole, e
no'l potendoella vincere, offefa ne rim.z. ne; come l'amariſfimo, il dolciſſimo,
e altre ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no
eglino, che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare, cioè allor,che per eſſer
elleno al dovuto cocimento perve nute, era ceffato il lor impeto, e mitigato il
furore; d'on de fi cava, che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le
purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le; e chiaramente dice
ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate, che allor, che nell'huomo ſomınamente
creſce la collera, in tutto quel tempo, ch'ella ſi trova ſtemperara; cruday e
ſincera per arte niuna ſi poſsono, ne il dolore, ne la febbre, che da
leicagionanſi mitigare, non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino
cercato aveſsero di cuocere, e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli
materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare, per quanto
raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole, che reftè abbiam
noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi. Ritrovò a'noftri
vicini tempi un sì facro fiftema, oltre al Paralcelſo, al Severino, ed al
Quercetano altri, eal. tri doctisſimi ricevitori; i quali colle tante, e rante
cu rioſe, e ſottili dottrine, che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono, e lo
fecero altro in verità parere da quel lo, che così rozzamente defcritto nel
libro della vecchia medicina ſcorgeſi; ma non poterono nientedimeno que'
valentisſimi huomini, per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in
opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia, ritrovar argomento
giammai, che effi cacemente provar poteſſe, che nell'huomo, ed in altri
corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe; laonde degni
certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa,fe ne meno eglino
non le vennero in quel il a Del Sig.Lionardo di Capoa. 237 li a dimoſtrare; ed
in verità lo per me crcdo, che ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare
giammai; imperoc chè ſe ſono, come esſi vogliono, in minutisſime particel le
diviſe, e l'une coll'altre meſcolate, e confuſe, necon i ſentimenti ſi arrivano
a comprendere, ne effetti poſſono produrre, da’quali argomentar ſi poſlá lor
ritrovarſi at tualmente nell'huomo, ed in altri corpi, e ſe mai pure in eſso
loro talvolta feorganfialcune delle dette ſoftanze di quando in quando venir
ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe vi erano in primanaſcoſe, o le pure
elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono ingenerate. Orper diffalta di queſte
certezze,non farà egli manche vole, e ſcépiata quella medicina, che
preſupponendole, ſu vi s'appoggia? Ed oltre a ciò fe prima diligentemente non
inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la natura dell' acerbo,
delPacecoſo, e d'altre ſimili coſe, qual contezza de’loro effettipotrà averli,
o del loro operare, e delle ma lattic, e della virtù deʼmedicamenti, e del modo
d'ufar gli. E forte aggiroffi Ippocrate, ſofifti tutti que' fapien tìſliini
filoſofi, emedici nominando,i quali volevan,che il medico foſſe pienamente di
tutti gli affari della natura in formato, e intefo minutamente di tutto ciò,
onde l'huomo compongali, e quanto al ſuo mirabiłmagiſtero concorra. E parvc al
buon huono, che il conoſcimento di ciò antaa più alla pittura, che alla medicina
s'apparteneſſe; e ba it are al medico ſol tanto, ch'egli conoſca l'huomo in ri
guardo al mangiare, e al bere, che gli convicne. Ma quefto medelimo chi non
vede, che non mai poſſa fa perfi, fe la natura dell'huomo in prima, e poi di
tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho
preſo a vagliar ciòsche dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo
ſeparato dal freddo fi cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo;
che ſomigliati fraſchenõ maiimmagino,che foſſero ufcite di bocca dique'
valoroſi átichi;ne fo Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute.
Aurebbono bēdovuto dire eglino, o eſſer mol 238 Ragionamento Terzo altra opera,
greca, molto, e molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie dalcaldo,
o dal freddo ſolo avveniſſero, avendo noi pronti ſempre tra le mani quegli
argomenti, iquali, o ſcal dare, o raffreddarne poſſono; o pure, che il
loverchievol caldo, in perdendo le particelle, che fanno il moto, les quali
sfumano velocemente, ove non v'abbia coſa, che vaglia a intertenerle,coſto
s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo
fover chievole,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola
continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della
medicina, ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto; onde come
d'abbondevole, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di
razional medicina tratto tratto li diram irono: chenon pur la grecia tuttav, ma
alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe ne
vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione; il
quale dell'u mido, del ſecco, del caldo, del freddo nel filoſofare ſi valſe; e
quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to, di coloro, i quali più
ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li
ſtudiavano; ed altri, ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi adaffer
tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte, e varie ſchiere eran
partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per avventura
ſol per render pa ga la lor curioſità, e per vaghezza di ſpiarei ſegretidella
natura; ed altri per intendere oltre al filoſofare, anches all'opera della
medicina, fino a’tempi d'Erodico, oveda prima ad alcun ſembra che dalla
filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina; le pure alai molto prima,
e per opera d'altri ciò non avvenne, e ben’ Ippocrate nel libro della natura
dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta menzione, formati da
que'medici,che volevano, o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma elfer
formato l'huomo, Ma 1 DelSig. Lionardo di Capoa 239 Ma tempo ſarebbe omai di
patrare ad altro; más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa
zio di tempo: ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo, che
già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta, egli fie convenevole, che ad
un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi.
KK KE UP) RA: 240 All RAGIONAMENTO QV A RT 0. 22 S E quelle gravi, ed acerbe
quercle, che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé ne di tanti, e tanti
ſcrittori contro le bar bareſche armate, perchè coile più bello meinorie della
famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della medicina cru delinente
malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare, ritroverein per mio
avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli, cmenche giuſte doglianze;
iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina eran fimi glianti a
queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti, fideu certamente ſtimare alſai ben
lieve la lor perdita, ne da do Ierſene gran fatto, anzi da non mettere in conto;
mare pure quelli di maggior lieva ſi erano, e più vera, e fotril doctrina
contenenti, bcn'a torto, s'io pur non vado erra to, oiGoti, o gli Alani, o gli
Vnni, o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto accagionanſi; imperchè di
coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed a ſignoreg giare la
Grecia tutta; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore ſurſe ſtruggédola, ed ingiuſtaméte
uſurpádola, cd oc cuparl Del Sig.Lionardo di Capoa. 241 cupandola inleme colla
Città, ſede, e capo dell'Orientale, Imperio, allora preſſo che tuttii libri,
che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini
nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole
greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di
noſtri ſi godo no. La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non
purdella medicina, ma delle più nobili arti, e delle più ſovrane ſcienze,non
già alla furia dell'armi, o delle fiamme nemiche: non già alla rabbia del tempo
di tutte l'umane coſe fiera divoratrice; ma recheſi ad altrettanto più cruda,
quanto men furioſa, e mentemuta cagione.Diec tracollo, chi'l crederebbe ! dier
tracollo dal lor primo ſplendore le lettere, non per altro, ſe non ſe per manca
mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno, e
riſtoro, quindi ſterminio elleno ebbe ro, c ſtruggimento; conciofoſse coſa,che,
ficome talora in bello, e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene, logli,
ed erbe ſterili, e dannoſo, e ſoffocarlo, cosìſur ſero tratto tratto nella
Grecia fra quell'anime grandi, es valenti, che del vero ſapere eran ſolamente
paghe, alqua ti huomini di ſtolido, ed ottuſo intendimento, i quali da vaghezza
tratti divano onore, e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi
tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera; e tutti intelero a certe
vane ombre di dortrine; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a
conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di
riſerbare, e di tramandare a' po fteri que’libri, che con pompa, cd arringo di
belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco, o niente in lor v'era
di pregio; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte, la
troppo credula, anzi cieca, pofterità, come prezioſi teſori gli ha ricevuti, e
ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai
ſcorgerci da miglior lume la verità: mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la
incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora
per la più Hh par 242 Ragionamento Quarto parte falſe eſſere quelle eccelléti
prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per tutto
immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico,la quale quatūque in vitupere
vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo
ftilc ella vene sõmaméte nobilitata,ere ſa immortale, per fatica, che vi ſi
duri, Io non ſo vede re, come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te
ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne
ſi aprirà capo da potere alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare;
impertanto a volerne dir ciò che per noi fi può, rammentomi, che Platon
riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi
eſercitar doveſſero le membra, e ſtropicciarle, ed ugnerle, e regolatamente
prendere il ci bo, chedi giovevoli, ed efficaci medicamenti a coloro
preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo Platone affai Íconciamente
vituperato; dicendo, ch'egliin sì fatta gui fa non diſtruggeva altrimenti le
malattie, ma le complcf fioni ſolo a poter quelle lungamente foſtenere ajutava;
ond' egli paſsò ad affermare la medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo;imperocchè
ficome da coftoro i fanciul lini, così da quella i mali reggevāli; mache di ciò
Erodico la dovuru pena aveſſe meritevolmente pagata; imperoc chè della ſua
inutil medicina, penofa, e cagionevolvita traſſe continuo, e ad una lunga, e
ftentata morte ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia
preſo, egli per trovarqualche argomento da ſoftenerla, tutto nello fludio della
medicina s’involſe, traſandando tutt'altre biſogne, e ſolo a ciò di forza
intendendo, altro non gliene avvenne, ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente,
e regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad
ammalare, e più che prima cagionevo le diveniva; e a queſta guiſa reſo a ſe
medeſimo inutile, e grave peſo, viſſe infino all'ultima vecchiczza; ove di que
favita rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone
motteggiandolo conchiude, che una ec cellen Del Sig.Lionardo di Capoa 243
cellente, e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e talc, qual veramente
gliſi conveniva, come a colui, il qual non ſapeva, ch'Eſculapio una cotal guiſa
di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe
aliai bé conoſciuta: ma ſi bene perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata
Città a ciaſcun debba eſſere l'o. pera ſua convcncvole aſſegnata, alla qual
fornire doven do intendere, mal potevagli ozio lungo avanzare, du potere a
ſtéto da una tal medicina attender prò, o riſtoro; coſa, la quale certamente
ridevole ella ſembra ſe vien el la mai negli arteficiconfiderata. Reca Platon
l'eſemplo d'un legnajuolo, il quale ſe mai, come porta la ſua diſ grazia
ritrovali preſo da grave malattia, egli toſto inan dando per lo medico, da lui
richiede, che diviſandoglial cuna purgativa, o pur vomichevole medicina, o col
fer ro proccuri toſto di torgli ogni inale, e ogni ſeccagin da doſſo;ma ſe
allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi,
certamente, che colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di
menar il can per l'aja, e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta; e così
datogli dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe; e ſemai
avveniſſe per forte, ch'egli guariffe, ſi viverebbe per innanzi felice; ma ſe
il corpo no potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad
eſſere da tante noje ſviluppato. E dopo queſti ra gionamenti Platone
apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua repubblica, come dannoſa, e
tale, che i ſuoi cittadini non meno alle lor private biſogne, ch'a quelle del
comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una
lettera dello Speroni, con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita
ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra l'altre coſe dicendo, la vita ſo bria
non poterſi appellar ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente, che coll’inferinità,
ch'è il ſuo contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto; perchè ſe nella vita
ſobria non può effer inferinità, non può eſſer (anità vera; c ſe tinto, e non
più fi mangia, quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 bar 1 244
RagionamentoQuarto batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo
ciò fare, perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere, il che
ſarebbe un gran difetto nell huomo. Oltre a ciò e' dice, che come la mano
ſtorpiata, non è mano, perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no
è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to, e come dee l'huomo operare.Dice
parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che
poſſa fare l'huomo:perchè queſto è inorir di fame; della qualmorte parlando
Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente: ed elegge
più coſto lo an negarſi, che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i
Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino,benchè foſſe
traditore della Patria. Con chiude egli alla fine, che chi è ſobrio nel cibo
faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe: peſare il vino, e'l pane, nu
merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere, il leggere',
e ſimili cofe, che impediſcono la dige ſtione: numerare i palli, e le parole,
che ajutano la dige ſtione: non dormir ſe non tante ore il dì, e tante la notte.
Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro, a cui era in dirizzata la lettera; col
ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano, e fuor di ragion
fia: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano, c vigorofo, e bene atante
della perſona anche nella cadente età ſi mantenne, e viſſe oltr'a
cent'annipronto ſempremai, e col ſenno, e colla mano alle biſogne tutte della
ſua patria;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato
ncl Ja ſua giovanezza, ca molti, e graviſſimimali ſoggetto; intanto, che
comunemente da'medici dopo varj, e diverſi argomenti indarno adoperativi,
diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe. Ma quanto vane,quanto deboli,
e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi co,e
come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio, e de figliuoli di lui egli di
ſcuſare s'ingegni: Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo,
potendo ciaſcũ 1 da per Del Sig.Lionardo di Capoa. 245 da per fe a prima veduta
baſtantemente comprenderlo. Macome non ſi può in modo niuno negare, che quel me
dico, il quale aveſse per le mani ſicura,ed efficacemedici na, che ſenza
indugio poteſse un grave male di prefence guarire, non dovrebbe certamentead
altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo fe Eſculapio, cotanto da
Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas cotal medicina non che a tutti
mali acconcia, ma ſola mente alle ferire; eſsendo rade molto cotali forti di me
dicamenti, e radiſsimi coloro, che alcun certamente ne ſappiano; perchè
lopratutto fa meſtieri, che'l medico per ogni via ſappia all'infermo
ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno tantoſto indugiar la fua morte,
tem poreggiando, e ſcherinendolo a ſuo potere. Perchè fom mamente egli è da
lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co, il quale molto bene a pruova ſcorgendo
quanto poco a capitale da tener foſse l'operazion de’medicamenti, diede opera
più che altro a quelle coſe, che ſe non ſono ditroppo vaglia, s'annoverano
fenza fallo infra le meno incerte dellamedicina. Ecertamente per quelle uſare
no fi corre pericolo niuno da’malati, e poca, e niuna fatica. s'imprende a
porle in opera. MadalPaverle Erodico dalla ginnaſtica portatealla me
dicina,quanta lode egli per ciò ne meriti, Galieno mede. fimo il confeſsa; il
qual nondimeno una tanta lode ad Ip pocrate attribuiſce. Io per me ſtupiſco
della fcimunita tricotanza di tal’huomo che avendo letto più volte i dia loghi
della repubblica di Platone, e recatone nel fuo li bro pur qualche luogo,
ardiſca pure d'affermare, che Platone in ciò ſolamente la cattiva ginnaſtica
biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor gli Atleti ad eſser valo roſi,
ed abili a loro eſercizj. E certamente ſe quellibro di Platone ſinarrito per
ayventura ſi fofse, ciafcun farga mente le ſciocchezze di Galieno crederebbefi.
E come voleva Platone biaſimar la ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi,
s'egli nella ſua Città ordina, che s'edifichiil ginnaſio, e diſegna con molte
parole la contrada acconcia per i 246 Ragionamento Quarto per quello, e vi
ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti, così per derivarla in uſo de'
caldi bagni, coine per irrigare il terreno, e render vago, eadorno il luogo;
ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare
il ginnaſio, e quegli eſercizi, che ivi fico ftumavano di fare: come ſommamente
utilia conſervar la ſanità; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma
lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua
età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata; cioè della muſica, che
all'animo, e della gin naſtica, che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da
par te ſtare, egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone
nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi
a'malati, e che ciò eglino faceſse ro, non peraltro, ſe non perchè non avevali
a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi, i qualimaisé. pre
regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola alcuna
di medico; concioffiecofachè le tante, e tante förti di malattie, che fra gli
antichi ſové teniente ſi vedevano, faccian’aperta, e fedele teſtimonia za del
contrario. Ma quantunque vero foſſe ciò,che Pla tone immagina della ſobrietà
grande degli antichi huo mini, pure altri cibi a'lani,ed altri a'malati
convengono; e quelmedico, il quale cibaſse l'infermo come fano, e'l ſano come
infermo ugualmente nel certo all'uno, ed all l'altro nocerebbe. Egli poi non ha
dubbio alcuno, che'l regolar i cibi foſse la prima coſa certamente, che s'ado
peraſse in medicina; anzi da ciò venne ſuſo primieramé ce la medicina; e prima,
che foſsero i medici, i medelimi infermi da per ſe il ritrovarono; e
illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il quale ci giova quì tutto
rec.le re, comemolto al noſtro propoſito faccente: Ægrorums, dice egli, qui
fine medicis erant, alios propter aviditatem primisdiebusprotinuscibum
affumpfiffe, alius propter faſti dium ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum
effe, qui abſtinuerant: itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te, alios paulò
ante eam, alios poft remiffionem ejus, optime dein Del Sig. Lionardo di Capoa 247
! deinde his ceflife, quipoft finem febris id fecerint. Eadeque ratione alios
inter principia protinus ufos effe cibo ple viore, alios exiguo, graviureſque
eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent,
diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent,dein
deægrotantibusea præcipere cæpiſſe:fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute,aliorum
interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati,
certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima
d'Ippocratemol. te coſe, e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere
nel libro della vecchia medicina, ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo,
onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò
far yolle il buo Ippocrate autore. Ma, che che ſia di tali faccende, terri bile
allai ſembrami nel vero la cenſura, con la quale Ip pocrate, non avendo veruno
riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico, fconciamente il riprende,e
vitu pera; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li
febbricitanti, ch'e' medicava colle fatiche, e co' fummi. caldi, che loro
imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il
pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti, eifomenti oltreinodo contrari.Aggiugne
Galieno a ciò che dice lppocrate, che Erodico in ciò fa re, ne anche alla
ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe,non volendo niuna ragion delmondo, che'l
male col male, la fatica colla fatica, il ſimile col liinile da medicar ſia; an
zi e'dice, che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri, valevoli
più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore, che a toglierlo. Ma
certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in
rimboccare Ippocrate, e Galieno,dicendo,che Erodico, come buon medico razionale
non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual
togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava,
avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di
tempo; ma poi ſen za fala 248 Ragionamento Quarto za fallo rimoſſane la cagione
del tutto ſi ſpegne; ſenza chè ben potrebbono di vantaggio aggiugnere, il
medeſi mo appunto farſi da Ippocrate, e da Galieno: i quali con fregamenti, e
con dare a {piluzzico, e a riguardo il cibo medicar parimente ſogliono i
febbricitanti. Ne qui deb befi tacere, ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere
antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare in altri, come manche voli, e
malfatte anchequelle coſe, che eglino medeſimi in ſomiglianti caſi operar
tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia riguardare alla gran tracotanza
di Galieno, il quale così aſprainenre riprende il diviſamento d'Erodico ſenza
punto penſare, che ello ancora alcune febbri linco pali co'fregamenti, e col
digiuno curar foglia; perchè egli vien forte ripigliato dal Tralliano, il quale
rintuzza lo, c percuotelo, e con maggior ragione per avventura, con quell'arme
medeſime, che Galieno aveva contro Ero dico adoperace. Vltimamente ſe un
ſomigliante coll'alcro da curar ſia, coloro ſe'l veggano, i quali comeche con
parole il biaſimino, purcon fatti talvolta il ſogliono ado. perare: ſolamente
lo avviſo, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte afferma, che'l yomito col
vomito ſi cefla,e che col limile il ſimile ſi cura. Quinci ſcorger ſi puote,
chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti,
chedi nuovo imprendono ad eſercitare, valerſi di quelle coſe, alle qua li per
qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera; e percið Erodico per mio avviſo
ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e d'altre
opere, ch'erano in uſo nel ginnaſio, di cui egli aveva avuto la cu ra; così
veggiam que',che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici, non
preſcriver rimedio alcuno, che non ſe ne fian colle ſtelle, eco'fornelli
conſigliati; ma no penſi però alcuno, che'l maeſtro, o preferto del Gimnaſio
aveſſe cura di far ſtropicciare, o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte,
al corſo, e agli altri gilochi, che ſi fa cevano nel Gimnaſio; ma il ſuo uficio
ſi era il comandar nel Ginnaio, e conliſteva nella ſupreina autorità di quello
p li vile Del Sig.Lionardo di Capoa. 249 li varjufici a quella ſottopoſti, e
per le ipeſe, che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri; edun taluficio era in
sì grá pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili, o
ben’agiati huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente,che i
medeſimi Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar
qualche Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to, infra i titoli, egli
onori degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto, o maeſtro del
Ginnaſio. Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio, e venerazion
l’arte ginnaſtica, la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne
de ſagaciflimiſcrit tori, che nulla più; d'alcun de'quali con ſomma lode fa
menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio,che non ſolamente eglino
contendevano co’più chiari, ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi,
chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate,che egli
temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte, dicui cgli era affatto
ignorante, e digiuno. Ma ritornando ad Erodico, chc che ſi dica di lui Platone,
non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina,
ma ſi valſe d'altri, e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui
parimente fi valſero: come ſi può vedere in Ce lio Aureliano, il quale in
facendo parole della ſciatica, delle medicine d'Erodico così dicc: Herodicus
igitur, ut Aſclepiades memorat, ventrisadhibet purgationem, atque pofl cenam
vomitus, quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis
aceti decocti exhalatione con fectis utitur, vel aqua marina, admifta thalsa
herba,atq; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va
purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari
jubet, e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte
celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido, il quale,come riferiſce
Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia, dalle poche
memorie, che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera 250
Ragionamento Quarto 1 niera egli medicaffe, ene meno come egli in medicina fi
loſofato aveſſe; e delle ſentenze Gnidie, dicui voglion ch ' egli li foſſe
l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate, il qua le fi diè cura di eſaminarle,
ch' Io per me non ho che di viſarne. Egli vien rapportato da Ippocrate, che i
compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto,
e diviſato tutte quelle coſe, che avvenir ſo gliono agl'infermi in ogni lor
malattia; ma non è per ſuo avviſo da far gran fatto ſtiina della coſtoro
induſtria, come quella, ch'aſſai leggiera, ed agevole impreſa è a chiunque
neprenda cura, quantúque niente informato di medicina egli ſia: baſtado ſol,che
dallo infermo della nojoſa iſtoria della propia malattia pienamente véga
avviſato.Ma lo,có buona pace d'Ippocrate, ſono in contrario parere; e lem
brami, che gran ſenno faccian que’medici, e fieno ſom mamente da commendare,
qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in
qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le ſcritture de’me dici. Ma che è
ciò, che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte
braccia, ne v'abbiſogni in tendimento di medicina? E chi non vede quanto
dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa
luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne ſola medici
conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon
le imper tinenti ciuffole, ed anfanie, che talor foglion narrare a ' medici
gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun,
ſicome affai ſovente avvenir veggia mo, foffe offeſo il cervello, che domine
potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo? nondi. meno,
quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico, lo giudico, che ſe
altri vi ponetle mano, chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe
ne ritrar. rebbe; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna
ſenza giugnervi nulla di ſuo, ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie,
tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute
opinioni,o per altrid 1 DelSig. Lionardo di Capoa 291 alera cagione,cofa,che
ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai.
Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe, delle quali dee aver contezza ilmedi
co per propia fua induſtria, oltr'a quelle, che poſſon ſa perſi dalla bocca
dello infermo, molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie,
che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do,
col quale curar fi dee ciaſcuna malattia, non s'app.2 ga affatto di ciò, che
color ne dicono; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi
foſſe, e che, ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit
to affai bene in medicina: nientedimeno, per quel che Ip pocrate
parimenteriferiſca, chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte, come que' della
ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina; imperocchè nel medi
car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del
latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne ripiglia
l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode l'adoperar
pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro veramente a
que’mali, a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la biſogna.
Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni medici, i
quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro poi
nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi, travagliandogli ad
ogn'ora con importuniffimi rimedj, la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario
operare; concioſliecofachè il ma de, il quale qualche ſpazio di tempo dur.2,renda
aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio; il
che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote, i quali per ſe ſteſſi, o bene,
o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il
medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il
vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di
que'tanci rimedi, che gli furono dal medico preſcritti: non avviſando, che
celeres, ! I i 2 & acu 252 Ragionamento Quarto 1 cu acutæ pafſiones, etiam
fponte folvuntur, &nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio
Aureliano avvila; e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua
induſtria ognuno contento, ed appagato li tiene, inmaginando, che egli non
abbia laſciata coſa p riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel
vero l'imprendimento, e l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede,
perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio, neque natura, neque fortuna
folvuntur, ſi portò pelli maméte, per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo
a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo
tutt'altri greci medici, che furono prima di Temilone. Ma ricornando ad
Eurifonte, Io non ſo, s'egli, o pure alcri compilando la ſeconda volta il libro
delle ſentenze Gnidie,maggiormente, come porta opinione Ippocrates, il
perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi li legge vano, come chioſa
Galieno, affatto togliendo, e parte in altro cambiando; effetti, come altrove
abbiamo pa rimente avviſato,che provenir ſogliono dall'incertezza della
medicina; e queſto è quanto laſciò ſcritto Ippocra te della medicina
d’Eurifonte. Si valſe cgli, come Ce Jio Aureliano dice, di qualche medicamento
d'Erodico, e ſcriſſe per quel che narri Galieno, di notonia,e di quel le
inedicine,che ſi poſſono in luogo d'altre, che mancal ſero porre in opera. Ma
trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer tamente oltrealcrcder di
ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei ſentimenti; perciocchè di
que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure a teinpo dell'an tico
ſcrittore, che ne racconta la vita, dar fermo, e ſicu ro giudicio ſe ne poteva.
Ma che unque diciò ſia,manife ſta coſa è, che parecchi dell'opere dilui per
travalicamé to di tempo ſmarrironſi, ed altre manchcvoli in parte, tronche li
riinaſero; ed in altre ancora molto, e molto co ſe, o da ſuoi ſcolari, o da
altri aggiunte furono; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno che, coll'efler
perdute l l'ope 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 253 -- Popere d'Eraliſtrato, di
Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che
ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab
bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non
riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico greco in prima, e poi da altri
anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la coſa,egli n'ha ripor tato; ne lo
ſo permevedere, come ſi poteſſer mai, nu Platone, ne Ariſtotcle approfittarli
per efle tanto quanto nella filoſofia naturale, come Galieno, e altri medici ſo
gliono ad ogn'ora millancare. Ma chi per Dio paſſerà sé. za riſa la beſtaggine
di Macrobio, il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto, e nõ avédo forſe mai
letti i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo, gli attribuiſce ciò che a
Dio ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli
neſcius. Nulla poi dico diGalieno,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di
lodare Ippocrate, con dire una fiata infra l'altre,che le ſentenze dilui tutte
ve riffime fieno, Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che
la parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros
réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole:
imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana; anzi
tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode, for te il proverbia, e'l
biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo. Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli
antichi ſcrit tori, quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber
più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero
Ippocrate: come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade
chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte. Ma noi non badando
a'cicalecci di niuno, diciamo primicramente, ch'egli ſi pare certamente, che
Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla
medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi
anninello ſtudio, e nell'eſercizio di ella continuamente involto; e comechè non
ben intelo ſcor 254 Ragionamento Quarto I ſcorgeli ſovente delle coſe, ſembra
pure, ch'egli ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri
degli antichi letto, & veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente
ravviſerà nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta delle varie, e
diverſe ſette della medicina, di quel, che già follemente millantando Plutarco
ne ſcriſſe, d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi
d'Omero pienamente rinvenuti; perchè fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate
impiegato tutto nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare, e
deter minare ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo
egli coſa per coſa minutamente ſtacciata, ed abburattata, ftanco alla
finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad uno, che ad
un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual dubbietà;e quinci egli poi di
varj, e tra effo loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i
ſuoi ſcritti riempic; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver
Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema
di medicina, ed'un altro nel libro della vecchia medicina, e d'un'altro nel
libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta, comechè
qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi, e ſpezialmente
con quello della vecchia medicina; il quale ultimo ad alcuno ſembra, che
intorno a tal materia.e ' compoſto aveſſe; e viene ſcioccamente da molti
creduto non già ď Ippocrate, ma di Democrito; ma certamente fuor d'ogni ragione;
perciocchè in altra più nobile, e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante
compoſto l'avrebbe. Ma che che di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo,
pié d'incertezze, e tcmpellante: Ippocrate, par che talvolta alla ſperienza, ed
alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza
ſolamente s'attenga; e da ciò moſſi negli antichitempi alcuni, come narra Ga
ļieno, ed alcuni altri della noſtra età, infra'quali è il Mon tano, preſero
cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina da parte empirica, o da parte
razionalc veramente tenuto ha Del Sig. Lionardo di Capoa 25.5 ! + haveſſe; ma
non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento
fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e
della molta dubbierà di quella. Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di
quell'intendimento, che a gran filoſofante, emedico, qual vien' egli
comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue
opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo
egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto, che
cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al
vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò, che
la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata, ma unamenoma
ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire;
egli nondimeno, ne molto, ne poco vi s'affutico; anzi andò dietro ad altri, ed
altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco, che séza guida alcuna vada caſtoni,
ed attenědoſi a ciò che, incontra, or per una, or per altra ſtradì errando,
ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului
me.Iclimo conoſciuta, e finceramente paleſata nella piſtola (ſe alori ſecondo i
ſuoi ſentimenti in nom:) fuo, pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito;
over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte, che
diviſato ſi aveva, avvegnachè negli an ni molto, e molto avanzato, e nell'uſo
del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe. Map far pienamérc vedere,e
toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi
convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra
loro diſcordanci ſiſtemi di medicina; coinechè ciò per avventura ſoverchio
giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali, e tante ſono le dippocaggini di lui, e
le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti, che tolto per qualunque mez zano
intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono; il che egli ancor conoſcendo,
e reſtandovi alla fine inviluppato, e contuſo, in njun di quelli riſtr fermame
te ſi > 256 Ragionamento Quarto te fi volle, dottando, e tempellando
ſempremai di ciaſcu no. E conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me
dicina altrove baſtevolmente detto ſia', cominceremo al preſenteda quello, che
nel libro della dieta con lungo, e magnifico apparecchiamento di parole egli
neporge. Pri mieramente in quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento, ch'egli
altrove rifiutato avea dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati
ſofiſti, che chiunque a ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente, egli
con venga in primain prima aver piena,e perfetta contezza della natura
dell'huomo, e di qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe: e oltre a ciò
ſpiar minutamente, e com prendere quali di que'principj in lui maggiormente
s'avã taggino. Sentimento quanto ſaldo, evero, e che non ha di pruova
alcunabiſogno, altrettanto volgare, e agevole a penſare; perchè eglimoſtra,che
Ippocrate non abbia per quello, ſe pure è ſuo, cotanto merito appo i medici
dovuto acquiſtare; non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe
sì bel diviſaméto,ne vuol far pruo va, ſo giugnendo, che ciò non fi ſappiendo,
mal ſi po trebbe cibo,che profittevole abbia ad eſſere, ad huom ’
ragionevolmente diviſare. Indi foggiugne convenire an cora aʼmedici la
compleſſion di tutti cibi, e vivande, che noi uſiano eſſer conoſciuta;e ſopra
ciò con lunga,ed inutil diceria grā pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di
pruo va niuna ciò abbia punto biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando
intorno a principj delle coſe della natura, in sì fatta gniſa ne parla. Così
l'huomo, come tutt'altri animali di due principj so compoſti, i quali comechè
diverſi ficno quanto alle lor facultà, all'uſo nondimeno ſon concordevoli, e
acconci; ciò ſono l'acqua, e'l fuoco; i quali amendue non meno a tutt'altre
coſe, che l'uno all'altro ſcambicvolmente ba fano; ina ciaſcuno per fe a ſe
inedefimo, ne ad altra coſa del mondo non baſta; e la virtù, e la forza di
ciaſcun di effi è tale cheper lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia
lia, c in qualunque luogo dimori: e per l'acqua Con DelSig.Lionardo di Capoa
257 convenevolmente ella ſi nutrica, e creſce. Ma in conti nui piati, e
battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no, e ſi vincono; non però sì
fattamente, ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto, eſpoſſato ne rimanga, che niente
più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo
all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto, toſto il debito
nutrimento gli manca; perchè egli volgeli colà, ove nutricar ſi poſſa; e
l'acqua d'altra parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di
inovimento, e nulla vale; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento
cambiata. E imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente
può ſo verchiar l'altro, che affatto l'uccida; ma amendue vengo no in sì fatta
guiſa ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni
coſa rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà
di cieca paſſionc ingombro, che non iſcorga pienamente quanto vani, e ridevoli
ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj. Vn ſol principio,
dice egli,non baſta; ma baſterà egli, che sì il dica? anzi vi ſarà chi vi
replichi, uno eſſer ſufficientiſfi mo, ove le parti, che il compongono di
diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato, e infra loro compoſte, e
ſi muovano: perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano;
ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli, che ſieno il fuoco, e l'acqua,
perchè egli non ne ſpiega lor natura? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il
fuoco valevole a dare il movimento; perciocchè ben do veva egli più avanti
ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco, e ricercarminutamente
diche egliſia compoſto, e chedifferente il faccia dall'acqua: e queſte coſe
ritrovate riporle poi per principj delle coſe, come quelle, onde tuce'altre
vengono ingenerate: e non già il fuoco, e l'acqua, che non ſon primieri
nell'ingenerare. Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna
briga ſi prende, certamente dall'acqua, e dal fuoco in quella guiſa, ch'e' ne
favella, nc huomo, ne altro animal K k niu i 258 Ragionamento Quarto 1 niuno
coinpiuto, ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai;
econtraſtino pure, e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua, e'l fuoco tra
cſſo loro, che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno: licorne di due
lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi, fuor
ſolamente, che due fillabe: conie da A, ed L: di cui altro, che LA, ed AL non
può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto, eammaſlarla le
particelle dell'acqua, che formar ſe ne poſſano, ecar ne, e oſſa, e nervi, e
cotant'altre fulde, e dure parti d'a nimali, e d'altre coſe del inondo? Ne ciò
può adoperarli punto dal fuoco; perciocchè egli nell'acqua altro far non può,
che le particelle diquella col ſuo movimento, che chiaman dilatante, ſempre
partire, e ſceverare, licome noicontinuo incontrar veggiamo: perchè l'acqua vie
più liquida, c diſcorrente, e rada ne diviene, non che s'am maſſi, e fi
riſtrigna in coſe falde, e dure. E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma, e
faccil diventa, che ſe non, d'aria, d'un corpo all'aria ſomigliante, certamente
ella prende forma; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre
il fuoco, e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le
venga ſom miniſtrato. Ma che'l fuoco,come s'avviſa Ippocrate, dall' acqua
nutrito fia, e perchè l'un l'altro vincer non poſla, ſciocco troppo lo mi
terrei, ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo. Vuole oltre a ciò Ippocrate, che
l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco: e che'l fuoco riceva
dall'ac qua l'umidità, e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che
così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante, e tanto varie forme, e
generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre: e cotanto diverſe infra
loro, che ne quanto all'apparenza, ne quanto alla lor virtù hā nulla di
ſomigliante; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua, e'l fuoco nello ſtato
medeſimo: e ſempreinai cam biandoli, e diſcorrendo, forza è, che le coſe, che
da lor 1: fife Del Sig.Lionardodi Capoa. 259 fi ſeparano, eli producono,diſſimiglianti
oltremodo rie? fciano. E certamente, com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non
muore, nc ſi fa quel che in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi
cambiano le coſe: come chè giudichi alcuno, che da Pluto per accreſcimento
tratto venga alla luce, e ſi crii: e altro incontrario,che dal la luce per
iſcemamento a Pluto giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno, che
fia più toſto da preſtar fede agli occhi, ch’alle opinioni, o pareri degli
huomini. Reca eglipoi di ciò la pruova, dicendo animali ef ſer queſtie, quelli,
e non eſſer miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi conſumi, non con tutti:
conciolliecoſachè chi po tri mai diſtruggerlo? ne può ingenerarli giammai quel
che non è, non avendovicofa alcuna,che non ſia, onde poſſa ingenerarſi;mabé
s'accreſcono tutte coſe,e li meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto
egli ſi può: e quinci s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in
grazia del Vulgo, che lo ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia,
che'l meſcolamento, e lo ſcevera mento. Ma più avanti facendoſi dice, che lo
ingenerarſi, e'lcorromperli la medeſima coſa ſieno: e'l medeſimo pa rimente il
meſcolamento, e lo ſceveramento: e che lo i13 generarſi altro che il
mefcolamento non fia: el corrom perſi, e'l menomare altro non fit, che lo
fceveramento: e che ciaſcınıa coſa ſia la medeſima, che l'altra: e tutte lien
uno; e in queſte sì fatte coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura;
ma ſpartamente ciaſcuna cofa, o ſia di vina, o umana,ſufo, e giuſo
vicendevolmente, giorno, e notte, più, o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a
di se il fuoco, e l'acqua hanno avvicinamento; il Sole l'hà lunghiſſimo, e
breviſſimo; di nuovo queſti, e noi qucfti; la luce a Giove, le tenebre a Pluto:
la lu ce a Pluto, e le tenebre a Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e
quelte là;d'ogni tempo paffano quello coſe di queſte,e queſte di quelle; ne fi
lanno quel che el leno medeſime fi facciano, comeche faccian veduta di fa.
perlo:ne ciò, che veggono,conoſcono, ma in tutto ciò Kk 2 ogni 260 Ragionamento
Quarto 1. ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel le coſe,
che vogliono, comein quelle, che non voglio no, perciocchè accozzandoſi, e
partendofi quelle quà,e queſte là, fra eſſo loro avviluppate, e confuſe,
ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato, e
imbard.ato, che manifeftamente non ravviſi in ciò, che rapportato nº abbiamo,
effer egli una ſtrania cervelliera, e poco men, che ſpiritata colui, che
ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed
arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò,che meno intende? e che nő ſolo
coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine, e ignoranza; ma
anche farne cotanti Calan drini:e tenendo lo ſciocco vulgo in parole, il qual
fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto, darne
conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto
ſia. Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati ſtimanſi,há
creduto, o moſtrato di credere, che in queſti riboboli, cd enimmi d'Ippocrate,
e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i libri tutti della
dicta, e in quel del la vecchia medicina, edell'alimento, ch'egli tutti i più
naſcoſi, e pregiati miſteri della medicina, e della filoſo fia abbia deſcritti;
e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico ſi è ſtudiato con
queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un valentiſſimo chimi
co. Ma ritornando a ciò, che diciavamo, lo m'avviſo, che Ippocrate ciò trovaſſe
ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi filoſofi, i quali ſolevano
cosi vezzatamé te favellare:e che poco cgli incédédoiſentiméti di coloro, così
ſconcj, e guaſti l'abbia portati, in quella guiſa,che fileggono; e tanto più,
chemoſtra,ch'egli confonda in ſieme, e meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di
filoſofia fra ello loro contrarj; da che egli dopo aver portati que? due
primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe, che non baſtavano, parla poi
non altrimenti, che ſtabilito aveſſe in prima, che ciaſcuna coſa in ciafcuna
coſa ſia, nel. Del Sig.Lionardodi Capoa. 201 nella maniera appunto, che ſi
accennò nella cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che
nul la ci s'ingenera di nuovo, ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e
compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto, mà
ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno. Coſa, la quale non può intenderſi in
verű modo di ciò, ch'aveva egli in prima detto; perciocchè ſe l'acqua, e'l
fuoco i principj ſono dell'huomo, meſcolan doſi queſti, e accozzandoli a formar
l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro naſcondere, che l'acqua, e'l fuo co
medeſimo,prendendo ſembianza delle parti dell’huo mo, com'e' dice; ma non già
le parti dell'huomo, ciò ſo no carne, offa, nervi, e altri membri di quello,
eſſendo ci in prima, comechè appiattate, e naſcoſe, nel meſcola mento
dell'acqua, e del fuoco ci ſi laſcino poi di preſen te vedere; ne partendoſi
poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la
carne,ne l'ol fo così menoma, e tritolata, che non ſi parrà; ma tutta la carne,
e tutto l'oſſo diverrà acqua, e fuoco: e queſti che in prima non apparivano,
manifeitamente nelloro.ſcioglimento poi ſi vedranno. Si pare adunque,ch'e ' vo
glia dire eſſer nell'acqua le particelle, chc chiaman ſimi lari, ma così
menome, e ſottili, che non ſi poſſan per huom ravviſare: le quali poi
rannodate, o ſciolte dal fuo co, compongano, e guaſtino le coſe. Ma ſe pur
queſto cgli volle intendere, comepotrà mai il fuoco le particel le dell'acqua
colla ſua forza annodare, ſe il movimento è dilatativo, come dicono, e
ſempremai ſcioglie, e parte? Convenivaadunque, che Ippocrate altre, ed altre
ragio ni ne recaſſe, le quali ciò poteſſer operare. Ma concedaſi ciò pure a lui:
non perciò l'acqua,c’lfuoco, ma le par ticelle ſimilari ſarebbon da dir
principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò,che poco anzi egli detto
aveva, ricorre di nuovo all'acqua, eal fuoco: e in favellando dell'anima
dell'huomo,non mçno ſciocco,che empio, e miſcredentc,dice quella ancora, come
tutt'altre coſe, eſfer d'acqua, e difuoco compoſta. E tante, e tali ſono 262
Ragionamento Quarto 1 4 ſono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della
die ta, che lungo ſarebbe ad una ad una narrarle. Ma trapaſſando all'altre
ſueopere, contende il Vale riola, e con luianche ſi conforma il Cardano, non
eſſer d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär, overo degli ſpia riti groiſi, o
vizioſi: peralcuneſciocche, e falſe dottri ne, che in quello s'avviſano, e
altre ancora contrarie a quelle, che in altri ſuoi volumi egli divisò, Ma fe
tale oppofizione aveſſe luogo, converrebbe certamente con dannar come non ſue
l'opere tutte, che ſotto il fuo nome fi leggono; perchè è da dire, che poco
ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma
Galieno, comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri
conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate, il reca ſovente in
concio di qualche ſuo ſentimento. Sembra certamente il libro miglior per
avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto
l'autore; imperciocchè ha egli ordi ne, e qualche forte di chiarezza: e moſtra
fovente, che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica. Vuole egli in eſſo darne a
divedere, che tutti mali, che n'avvenge:10, da una ſola cagione ſi dirivino;
comeche per li diverſi luo ghidelcorpo, ove n'aggravano, diſſomiglianti affai
ne ſembrino. Tutti corpi, eglidice, così dell'Iruomo,come d'altri animali,del
cibo,dello fpirito, edel bere ſi loſten tano. Gli ſpiriti, che ſono entro il
corpo, vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po
aveõua cioè: a dire, aria. L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le
coſe, che accaſcano alcorpo: ed è donna, e lignora del tutto. Indi egli
lungamente fopra quella ragionando, dice delle fue gran virtù, ed opere,
Itabilendo in prima qualche ſentenza; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è
moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore, c fommamente comincndevoli of
fervazioni de’noftri moderni. Dice egli, che tutto ciò she fra’l Cielo, ela
terra s'interponeſia, da ſpirito ingôn bro: e che lo ſpirito cagioni il verno,
e la ſtate: e che'l cor DelSig. Lionardo di Capoa 263 1 corſo della Luna, e
delle Stelle per lo īpirito facciali: e che lo ſpirito alimenti ilfuoco,
intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco più vivere: c che l'aria ſottil
perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo del Sole. E oltre a ciò avviſa
Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico; perciocchè ſe quelnon vi foſſe,
dice egli, che i pe ſci non potrebbono in niun modo vivere; concioſliecola chè
non participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo. Aggiugne di vantaggio
effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne aver coſa
niuna al mondo vuota di quella: e quella ſolamente eſſer cagione a noi della
vita, e diciaſcuna malattia, che n'avviene; intanto che avendone meno infra
bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore; perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci
bo, o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già ſenza ſpirito; e ben
poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni, comechè menome, e brievi
elle ſieno; ma non già del reſpirarc. E quinci egli vuol trar conſe guenza,
eſſer molto ragionevole, che ficome la morte, così anche le malattie tutte
dallo ſpirito n'avvengano, e che quello calor compreſo, e putrefatto da altre
cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda. Quindi egli co minciando dalle
febbri và diviſando, ficome ciaſcun ma le dallo ſpirito ſi formi: e tutti
minutamente gli anno vera. Ma un sì fatto liſteina, perchè ingegnoſo fia, e
conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non però di meno, generalmente
ragionando, falſo affatto, e inveriſimiles eſſer fi ſcorge; concioſliecoſachè
quantunque grande fia il biſogno, chedell'aria abbiamo, non è perciò quel a ſo
la, che ne mantiene, e ne nutrica: ma l'acqua ancora al noſtro vivere è
neceſſaria, e altre molte coſe, così den tro, come fuora del corpo; le quali, o
mancando, oſo verchiando, o alterandoſi, non men dell'aria medeſima cſfer
poſſono a noi cagion di malattie. Nemeno al preſente è da tacere, come cotal
ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti, i quali non cheda Ippo 264
Ragionamento Quarto Ippocrate foſſer provati, anzi dalvero talora manifeſta
mente appajon lontani. E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche
ſembianza divero; non però di meno fon da lui con parole non propie, e ambigue
a bello ſtu dio inviluppati, e adombrati; acciocchè aggiugnendo noi con
malagevolezza, e fatica a ritrovarne il coltrutto, da quelli poi prendeſimo
argomento di giudicar talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e
vani, com poſtida lui per uccellarne maggiormente. Ma ſe lo
ſpirito,ſecondochèIppocrate così liberamen te afferma, è colui, che ſignoreggia,
e governa ciaſcuna coſa del mondo, e che la vita, e la morte ne porge: per
chènon iſpiega egli poi, ficome certamente fargli con veniva, come, e con quali
artificj tante maraviglie quel lo adoperi? e perchènon ragiona della natura di
quello, e diquell'altre ſoſtanze, che, come e' dice, imbrattan dolo, e
inſuccidandolo cotanto a noinocevole, e peſti lenzioſo il rendono? E per
avventura gran ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire,
che ciò egli non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura, e la generazion
delle malattie per sì fatta ſtrada incoglie re; e ſeguentemente gli argomenti
ancora, come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi, che ne
men di que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai
egli coſa alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura
dique'cor picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre
cagiona, la quale, com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte: ſenza
dubbio non giugnerà egli giam mai a penetrare gli effetti tutti, che da quelle
diverſame te provengono, e le varie maniere, colle quali ciaſcuno animale
offendono. E ſe egli non cura d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno
quelle, che s'accompagnano collo ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove
la colica,o altri ſomiglianti mali, come ne potrà egli mai compiuta mente
ragionare: o donde trarrà egli gli argomenti da porvi ragionevol conſiglio? Ma
1 Del Sig. Lionardo diCapoa 205 Ma ſe le ſoſtanze, che collo ſpirito
-meſcolanſi, ſon ca gion di cotante malattie, come potralli eglia buona ragić
dire, che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino? perchè è da
dire, che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco,
e vi ſia infe liceinente fdrucciolato, dicendo eſſer l'aria cagion del. le
noſtre malattie, e non più toſto le varie, e diverſe for ſtanze, che per quella
diſcorrono, e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi,
e animaletti, chę ſovente fi ravviſano, così nelſangue, come nell'altre parti
liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi
talora o nel cuore, o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e
molte manie re le moleſtano; ſenzachè ſon nell'aria varie, e varieme nomiſſime
altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate: alcune delle
quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono, fannofi anoi per opera dell'odorato
ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente, es quali
ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al
merlo d'un'alta torre; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo
le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò
egli eſſer ancora nell'aria molte, e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le
quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare. Ora in queſte,e in ſomigliati
oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio
impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc
che prender vi dovelle convenevol riparo: e non fare il pancacciere con lunghe
dicerie, e vane, e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo
libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò
da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo
nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò, che cgli della
febbre và diviſando. Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di
cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266:: Ragionamento Quarto noi grandi ventolit,
le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo,
ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo, maſlimamente a
quelle, ove ſerbaſi il langue, e sì l'infreddano, e'l fanno intriſire. Or come
domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è
nelle viſcere? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto
dalle. vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo. Ma che che ſia di ciò,
davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue
dentro alle vene l'aria, in che di verno crudo, e rabbruzzata dalle nevi,
comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora
grandemente Ippocrate in dicendo, che'l ſangue dall'orrore, e dal treinore
fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti più calde del corpo: ove poi ſi
ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima
infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati
riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia febbricoſo. E certaméte in ciò egli ragio
nando, molto ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa, il caldo
tutto al corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue
niuna parte del corpo rimaner calda; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà
ghiaccio, come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì
preſſo il riprezzo De la quartana, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto
purguardando il rezzo. Ma, ſicome egli s'avviſa, rimangano pur calde l'altre
parti del corpo, nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no; non mai tanto
però faran vive, e affocate, che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato
ſangue, e ſvegliare in quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del
la febbre. Ma troppo nojolo lo nc verrei, ſe tutti minutamente raccontar
voleſſi gli errori d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema; perchè rimanendomi
al preſente di più ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina
cotanto ICITU 1 1 1 Del Sig. Lionardodi Capo a. 287 eenuto in pregio, e
commendaco dal luo chiòfator Galie no, che nulla più: di cui cotanti filoſofi,
e medici in ragioz nando, e in iſcrivendo ſi ſon valuti, e tuttavia li
vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo, e indicibil fallo il mu* farvi
contro, non che manifeſtamente abburattarlo. E queſto ſi è il diviſamento,
ch'e'fa nel libro della natura umana; il qual libro non può recarſi ir
dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia, in ciò che, come faggiamente avviſa,
e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc;
e ben può per quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere,fin’a quá
to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco, ela valoria, co sì nell'inveſtigar
le coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti;
e coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 )
ittle tore, e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per
teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa;
concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina
manifeſtamente na ragiona, come di dottrina da altri già prima di lui ricrova
ta, einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per
ciaſcun ſi può comprendere, che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento
ne ragionin. Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente,
darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio, e inagnifico, che nulla
più; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi
cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia
tutto ciò, ch'e defidera: giudicando, ch'un si valentemedico, e filosofantc,
qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi, verainente trattata l'aveſic, licomealla
propo fta materia ſi conveniva: cche,comegià Marco Tullio del divino Democrito,
il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir, b.ec loquarde
univerſis, ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur, così d'aſpettar
foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto alla natura
umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier 268 Ragionamento
Quarto [ chernixo, e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole
fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole, e così vaſta matcria;
e ciò, che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli,
egli è il libro più ricco aſſai di parole, che dicoſe; anzi di poco falla, che
tutto parole egli non ſia: e quelle pochiſſime coſe, che vi ſono, così ſconce,
e ſenza ragione ſi portanto, opure con cosi vani,e fanciulleſchi
ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai apprendere.
Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc, che alcuni
giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa; ma, che coſtoro tuttimal
certainente comprendevan quello, di cui favelſavano, e che perciò di verfâmente
l'andavano ſpiegando; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro
concordevolmente diceffe, tutte co ſe, che ci ſono eſſer una, e queſta medeſima
effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme in dando a
quella nome; perciocchè altri dicevano eſſer aria, altri fuoco, altri acqua, e
altri terra. Soggiugne egli poi, che ciafcun di coſtoro recava teſtimonianze, e
ſe gni, ma di niuna lieva, in concio del fuo ſentimento; e che tenendo tutti la
medeſima opinione, e contradiandoſi nel le parole, davan manifeſtamente a
divedere, che niun di Loro ſapea veramente la coſa; e che ciò parimente ſi ſcor
geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor continuo piacire, che tratto tratto
facevano, non mai per tre fiare continové riu fcir dalla battaglia i medelimi:
maoruno, or altro eſfer il vincitore, ſecondamente che ben parlante egliera,
edat popolo tenuto in pregio. Conchiude alla fine Ippocrate, chuom, che di coſe
vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa role, ſempremai dalle conteſe con
vittoria uſcirebbe; o che ſembra a lui, che coſtoro piatiſfer con parole più
per iſocmypiczzi, che per altro; perciocchè tutti alla per fine convenivano
infra loro nel ſentimento di Mcliffo. Ma Galicno chiofando queſto luogo
d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi maraviglia, una sì fciocca
credenza eller caduta nell'aniino di que'filoſofanti, i qua live Del Sig.Lionardodi
Capoa: 269 Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle
coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace
Galieno: non ſembra per Dio, che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia
Ippocra te un trattato beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare,
e quale appunto quella richiede? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par
che ne vogliamanifeſta mente uccellare, laſciandone affatto digiu ni della mate
ria, ne inſegnandone coſa alcuna di lieva. Ma ſi per doni queſto pure a
Ippocrate: qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io
nonmidarò al prelen te curz niuna d'inveſtigare; tanto accennerò, che eglino
tutti una medeſima coſa dicevano: e cheniun di loro giu dicava, che o l'acqua,
o la terra, o l'arir, o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo:ne di
ciò mai fu conteſa infra loro, comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno;
ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe
l'univerſo da prima, allor,che fu fatto ilmondo,ſe d’acqua, o di fuoco, o
d'aria, o di terra. Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la
ragioneper Ippocrate recata; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che
manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini, maſſimamente
appreſſo il vulgo, non mai vincer foglia colui ', che ſa ben la coſa, e che
dice vero: ma colui, che meglio con vaghe', e ben ordinate dicerie Ja fa colorare:
eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante,
e'l ſofiſta,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma? Macome que’valent"
huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo, il qualnon
diterminò mai il principio delle coſe nx turali, fe eglino, comc Ippocrate
racconta, il ditermina vino Ma che che ſia di ciò, Io per me immagino, che te
neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo, come Ip pocrate dice'; ma ſe
ciò era, a torto certamente da lui fur biaſimati: dicendo egli, che coloro
determinato aveſſero il principio delle coſc qualli foſſe, con chiamarlo o
arias, o acqua,o fuoco, o terra; ſe pure non vogliam dire, che -- Ip 270
Ragionamento Quarta Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che que’valent
huomini fi diceſfero, it che fe ben li conſidera, il fue vellare, che in tutto
il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole. Fin qui e' fi
pare, cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato: ora ſe'n viene egli a’
medici, e dice, che alcuni diloro affermavano non alira cola, che ſangue eſſer
l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera: ed altri ſolamente flemına;
perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima raccon tati,
tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col nome, che più
lor veniva a grado, o di colle ra, o diflemma, o di ſangue, e che quello
dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante, ed in virtù, e di venga,
e amaro, e dolce, e bianco e nera, cd ogn'altra.com fa. Soggiugne indiappreſſo
Ippocrate, che molti, emol ti così dicevano, e che altri, ed altri dicevan
parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia ramente
chenei,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe;
perchèmoſtra veramente, che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia, ch'un
fertiliffi mo campo, che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca. Ma
riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu
ammirato, e celebrato, che nulla più: ſe una coſa fola, dice egli, l'huomo ſi
foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde
venir gli potefíe il dolore, per eſſer ogni coſa una ſola coſa; e fe pure
l'huom mai li doleffe, convera rebbe ſenza fallo, che uno ſi forre il rimedio,
coʻl quale egli guarir doveſſe; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè
nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della
vanità di sì fatto argn mento, pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani
prima ſe contro coloro, a'quali par propiamente indiriz zato, coſa alcuna egli
conchiuda. lo permeavviſo, che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di
sì tutte ciuffole, ed anfanie, imperciocchè eglino tenevano, che 1 1 1 o '! 10
Del Sig.Lionardo di Capoa. 271 o'l fangue, o la collera, o la flemma ſia
quelprincipio prof fimo, cioè donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che
ciaſcun di eſli venga poicompoſto da quell'altro pri mo principio, del quale
l'altre coſe del mondo tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor
ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente dalle parole, chc Ippocrate medeſimo
di lor riferiſce allor ch'e'dice, che eſi volevano, che o dal ſangue, o dalla
collera, o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce, e tutte altre coſe, che
nell'huomo li ravviſano; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto che di ſana
gue ſolo formato e' li foffe, ayer cagione di dolore dall'a. maro, dal falſo,
dall'acetoſo je da altre, e altre coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero
ingenerate?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con
più d'uno rimedio li ripari: e ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene
altro non è, ſalvo che o ſolo ſangue, o ſo la flemma, o ſola collera: potrannocertamente
rondime no nelle vene ſteſſe, o dal fangue ſolo, o pur dalla flem ma; o dalla
collera., ed oltre a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di
diverſa natura,contrarie; e moleſte all'huomoingenerarfi, che potranno ſenza
fallo elfer cagioni di dolori, e di varie; e varie generazioni di malattie, le
quali certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono. Egli
doveva adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue, o dalla
ſola flemma, o dalla collera, fola,nientealtro,che o ſangue, o flemma, o
collera inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli, e ne men fare
veramente il potea: concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti
d'Ippocrate aurebbon potuto dire que'medici, il ſangue, la flemma,e la collerà
eſſer non ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi, che Ip pocrate vuole,
che ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie, e varie
forme cambiarſi; ed in vero fe le varie, e varie ſoſtanze onde l'huom ſi
nutrica, come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo: no di
ſangue formate, e d'eſſe nondimeno s'ingenera il să gue r. 272 RagionamentoQuarto
gue, convien neceffariamente dire, che varie, e varic coſe che ne meno han
ſomiglianza niuna col ſangue, fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare; e
cosi ſomigliante mente della collcra, e dellaflemma aurebbon potuto co loro
filoſofare, Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che
Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare, chel'aria ſola col
riſtrignerſi, e coll'allargarſi, e con altri, e altri movimenti delle ſue
particelle valevole fi renda a ingenerare, e ſangue, e carne, e oſſa, e nervi,
c altre, e altre parti cosìſalde, come diſcorrenti dell'huo mo, e che
ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre
generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una,
ma più, e più cagioni di dolori, e di malattie, alle quali faccian,
meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso, e gli
altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia
Ippocrate vinti, direbbono, che non ſolo veramente uno ſia il principio.di
tutte coſe, cioè il corpo: ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci ſarebbe
ne dolore, ne malattia, ne rimedio alcuno giammai, e che a fare diverſità di
inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer quell'uno corpo di
verſamente ſtritolato, e partito: lecui ſottiliflime particel le di tante, e sì
varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano. Mimaraviglio poi
oltremodo di Galieno, il qualnon s'avvede,ciò che impugna Ippocrate eſſer crede
za d'Ippocrate medeſimo; ma ciò che nedee recar vcra mente più maraviglia, ſi è
ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien tenuta in tutte le ſue opere,
e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver
recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui ilquale porta opinione, che
l'buomo ſia ſolo ſangue, debba mo& rar, che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi
cábj in varie, e varie maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno, o
qualche età dell' huomo, nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi
ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri. Del Sig.Lionardo di Capoa 273
aleri. Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato diviſamento
nel favellare, avendolo egli ſempremai per coſtume: Io l'addimando in prima,
perchè ſecondo lui la collera, il ſangue, e la flemma, e la malinconia nel
comporre varie, e varie parti dell'huomo, poterono sì be no cambiar natura: e
cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente? e s'egli riſpondeſſe, che
non già col cambiar natura, macol ſolo meſcolamento quelle parti formarono, lo
gli ritorno a dire, che non mai col ſolo meſcolamento quattro corpi a far mai
valevoli ſaranno tá ta, c tanta varietà dicoſe; e addurrei per eſemplo, che
quattro lettere dell'alfabeto col ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano
a formare. Ma ſe que’mcdici diceſſe ro eſser un di que'loro umori compoſto de
quattro corpi d'Ippocrate, come potrebbe mai Ippocrate quelli impu gnare? ciò,
che promette poi Ippocrate di fiar vedere, che quelle coſe, delle quali egli
compone l'huomo ſi trovino mai ſempre nell'huomo medeſimo: Io per me non ſo, co
me ſarà egli ciò mai per moſtrare? Contende parimento Ippocrate non poterſi
farla generazione da un ſolo princi pio; recando perragione, che un ſolo
principio non poſsa meſcolarſi. Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo
avviſai, Ippocrate non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi;
concioffiecoſachè un principio, il quale abbia particelle diverſe tra di loro
per figura, per grandezza, e per movimento, con meſcolarſi clieno infra loro in
varie, e varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe. Per
far pruova poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate: ſe ne meno
il caldo, il freddo,e l'umi do, e'l ſecco,fe temperati eglino non ſono,non
baſtano a far la generazione, come aurà mai vigor di farla un ſol principio: Io
per me non ſo, che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate; doveva
certamente egli, il che mai no adempie, provare in prima con efficaci ragioni,
che di quclle quattro coſe il tutto s’ingencri; e poi addurle per elemplo. E
nel certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon 274 Ragionamento Quarto 1
· bon riſpoſto quei filoſofi, che clleno, comeche ten perate ſi fingano, non
poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene valevol' eſsere:
ficomenes terra,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre coſe mol te
poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza, e tanti, e tanti iſtrumenti da
guerra, che'l ſolo ferro può fa re: imperocchè il ferro ſolo è quello, il quale
ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non altrimenti il corpo,
il quale in particelle, o ſia già diviſo, o divider ſi poſsa, le quali ricever
poſsano parimente varie, e varie grandezze, fito,figure, eordine, può ogni coſa
produrre, ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che egli va filoſofando,
potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape giammai ingcnerare. Ma
non altrimenti, che s'egliavuta già aveſse la vitto ria, faccendo gran gallorìa
trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e dando a lor la
ſentenzia finale co tro, determina temerariamente la quiſtione con dire, che
eſſendo la natura dell'huomo, e dell'altre coſe chente, e quale egli ha
diviſato, non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe, che lo ingenerano
abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato. Magodaſi pure Ippocrate della
ſua vittoria, e ne riceva l'applauſo da Galieno, il quale non per altro
certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima, ſe non ſe per acquiſtar fede
alle ſue opinioni; qual coſtu maegli parimente negli altri autori tener
ſempremai ſcor geſi, delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a ſuo pro fi vale
commendagli, che nulla più; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue opinioni
contraria, non ha villania, che ſi diceſſe mai a triſto huomo, che lornon dica.
Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo, vuol egli intendere certamente per le teſtè
menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore, la fredezza,
la ſiccità, e l'umidità nel corpo per loro ingenerato. Ma cotante altre, che
nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono? Dirà egli dall' accénate quattro
qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi, come il proverebbe
mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1.
ſiad Del Sig.Lionardo di Capoa. 275 fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue
quattro qualità; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi
conviene,mal. Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo: e
dall'aver ciò traſandato Ippocrate, avvien, ch'egli forte aggirandoſi immagini
potere il leggiero, e diſcorré te caldo quelle coſe operare,che a ſpiritual
ſoſtanza ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di
ſomigliante biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe
ciance, che in diſtruggendo fi l'umancompoſto, tutti e quattro i già detti
corpi ſce verandoſi, alla lor primiera natura ritornino; e ciò vuoľ
anch'egli,chenel disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna. Ma le egli
ficomea caſo, in fretta, e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così
foſſe andato a poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole, lo porto
opinione, che in cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente
traſcorrere; perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri,
che quelle ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non,
miga ſemplici, ficomee'vuole, ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate
coll'impreſo ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue, la Flemma, la
Collera gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to, che ſi
convenga, l’huom viva in ſanità:mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali.
S'affatica egli con lunghe dice ric di moſtrar, come poffan que' quattro umori
tutte le malattie ingenerare:maciò fa egli troppo groſſamente, e generalmente
ne'dubbj maggiori tacitamente paſſandoſe ne; e dopo queſto torna di bel nuovo
alla canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li,
di natura, e di nome fra effo lor differenti; la qual di verſità immagina egli
di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e
dalla diffomiglian za del tatto, che ſecondo lui vi s'avviſa. Ma s'aveſſc egli
mai poſto mente a cotante coſe; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi
diverſiſſime, e al contrario ad al tre, ch'avendo una medeſima natura han
colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi, ſicome le Fraghe,
le Ciriegie, le Azzaruole, le Corniuole, eľVve, e i Fichi, certamente, del ſuo
ab baglio ſi ſarebbe avveduto. E più avanti dovea fomiglia temente avviſare,
che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando
grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell'
Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate
ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to, che i vari colori non ſian buoni, e
fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe. Ne la ragione il con
trario ne addita; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo
che dal variamento del ſito, o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la
qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente
ad Ippocrate allor che diſſe, che dalla varietà del toccamento, poſſano iva
rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa
avviſarfi, ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano, tutti egualmente nelle
vene, e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più
par te e'li rapprendono, e in una maſſa s’uniſcono, nella quale, poco, oniun
divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo
l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore, dell'umidità, della ſiccità, no
aurem di forza a confeffar, ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle
prime, e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando
Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha
ficcità, come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi? e ſe
l'umidor del corpo altro non è, ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi
agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia
Tanamente fi loſofure, egli dourà concederſi, che tutti gli umori del corpo
umano egualmente fian umidi, dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo
tangente, e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo,
tutti ſono egualmente caldi, e fuor di quello tutti fimilmente dalla circon Del
Sig. Lionardo di Capoa 277 circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati.
Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate, ſicome e
vuole veramente ſi foſſero, e alcun di elli, o calorc,o freddo eccitaffe,
impertanto no potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo, o caldo: imperocchè
ſe o ſpina, o chiodo, o altra pugnente, o doloroſa materia in alcuna parte del
noſtro corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante, e freddi riprezzi, e
ardenti febbri ecci tare; e pur la ſpina, il chiodonon per tanto, o freddi, o
caldi potrà dirſi,chefiano. Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà
d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se
medicina purgante la flemma, dice egli, ad huom da raſli giammai, certamente fi
vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra
collera; e ſoggiu gne appreſſo: veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora il
ſangue, e ciò in qualunque tempo, o d'eſtate, o d'inver no, o digiorno, o di
notte; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate, come per tacer
de’noſtri, già fe rono i più valenti, e più celebri fra gli antichi medici,non
avervi medicina, che vaglia a vuotar determinato umore, che mai incontro gli ſi
potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover
mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le
purganti medicine; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo, forſe non
gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche, e novelluzze; ne ftillato
s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti
coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi
umori compoſto: c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini
ſanamente a compren dere, come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge.
Credettero, dice Ippocrate, coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano per
le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore; perchè
ſtimavano altro non eſſer l'huomo, che quel folo umore; ed altresì dallo
ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non ef fer al 278 Ragionamento
Quarto 4 fer altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi
diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana. Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate, e
immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni, dicendo non mai
alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere
inſiemcmente ſcappati fuora; e vuol che quantunque volte huom prendendo
medicina purgante la collera ſe ne muoja, vomiti primicramente la collera, ap
preſſo la flemma, indi la malinconia, e finalmente il ſan gue di forza
ancordalla purgazione ſia tratto fuori, e ſo migliante avvenga nell'altre
purganti medicine. Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe
altrui uccellare, o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero, fenza
prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle
purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche
aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione, cioè, che il
medicamento entrato in corpo vada da prima movendo, e cacciando fuora
quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra. Aggiugne per iſpianar la
materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli; dalla terra per lor
nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli; c ſomigliantemente po
tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma
coll'ordinamento, che teſtè accenna vamo: cioè, che la medicina purgante la
flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori, e finalmen te il
ſangue, e cosìſimilmente tutt'altre; ma dagli ſcan naci prima il ſangue, poi la
flemma, e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non
che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia,
e ravviluppa; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa
pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere, o mani, e ſenza poter
dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra, o altro, che lor bi fogni; elleno
ſi nutriſcono della terra, macon altro ma giſtero di quel che troppo
groſſamente immaginò il buon Ippocrate. Evvi nelle piante una fotcililina, e
volantes ſoltan DelSig. Lionardo di Capoa 279 ſoſtanza ſomigliante molto allo
ſpirito del ſangue degli animali, la quale ſtando in continuo movimento diforme
cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla
terra proffimana alle radici; or tra per lo movimento d'eſſa, e per quello,
checontinuo dal Sol ri ceve la terra, e damolt'altri minuti corpi, che perla
lor focofa, e attiva natura, a guiſa di tanti ſpiritelli l'agitano,e la
commuovono, molte parti d'eſſa in ſu vengon fofpinte in licve alito
aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli pori delle radici, in
cui s'abbattono penetrare, e fic candofi elleno in così farti buchi vengonoa
cambiar figu ra, e da'formenti digeſtivi delle medeſime piante altro va
riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad accreſcere, in
lei traſmutandofi;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a comprendere,
anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi; pongaſi mente alle me lagrane,
che a volerle aſſaggiare ritroveralli, che le ſue fibre portano a' granelli un
amarisſimoſugo, il quale, o dolce, o alquanto agro divien nella carne d'eſlo
granello, ma nell'oſſo inſipido, e ſcipito; e ſimilmente avviſeremo altresì in
quelle frutta, che colte da propj alberi, e ripo ſte ſoglion venire a
inaturezza: alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi dolci, e
ſaporofi, ficome ſono le ſorba, le neſpole, e le melegrane medeſime. Non fa
dunque luogo di traimento veruno alle piante, acciocchè fi nutrichino; il qual
traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura, comechè di ciò alcuna pruova
giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia
a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro, cheſimpa tia, la quale altro noè,
che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l
tal determinato umore; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato:
ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon
mordace, e fangli cambiar na túra; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja
di diver fi colori, e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper, eſſer le
purgativemedicine si ſtimolofe, che aprono ledelicate boc 280 Ragionamento
Quarto boccuzze de'vaſi facendo, da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor
contenuto, e corrompendolo; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine
ne'lali, chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia
lor dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi; e quinci
avvien, che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono, e
diſcorrenti. Finalmente lo immagino, che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar
Porco njuno,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari,
aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la
gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per
avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o
altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo,
biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i
sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli, e infermicci,
e chenon ſi ravviſano nelle venc, ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così
toſto ob bliar ciò, che altrove più d'una fiata racconta, altri ſughi aver egli
oſſervato recere, c per ſotto altrui cacciar fuori certi altri umori, i quali
eglinondimeno vuol, che nelle vene non abbian luogo; sì cheanche ſecondo lui,
non è fano diſcorſo, ne concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle
vene, perchè ſi vuotano colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta
fatica logorar tanto tempo indarno, ſtillarli sì fattamente il cervello, e
porger cagione a' poſteri di ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la
ſua ſentenza in materia, che con un foi fifo gua tuento potea ben coſto
determinare? Ecco come una ri cevuta opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella
obblia ſo vente i più piani ſentieri della verità. Orlo, direi ad Ip pocrate, e
a tutti quanti i ſeguaci di lui, traggaſi ad huom fano il ſangue, cd aſsaggiſi,
chee' non ritroveralli ne af ſai ne poco amaro; oue è dunque la collera? e non
ſarà l'a cctoſo, oveè la malinconia? Replicheran per avventura, che'l
miſchiaméto, ela cõfuſione di sì fatti umori fraſtorni DelSig.Lionardo di Capoa.
281 tal diſcerniméto al palato; ma ſe a giuſta porzion di ſangue poche gocciole
d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo,
che daper tutto ſi ſparga,e fi confonda,noi proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e
l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima, novi do vevan eſſere.
Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue
ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel
ſangue ſia un liquore acquoſo,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate,
che nuoti la collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l
rimanente ſia tutto ſiero; ma s'egli ciò vero foffe, abbiſognerebbe, che la
ſuperficie del detto li quore amareggiaffc;il che no mai veggiamo avvenire.Se
poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa, la
qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do; ma non miga egli è vero, ficome
per coloro ſi eſtima che quella, ch'è in fondo del vaſo ſia la malinconia, 1013
efſendo ella di niun modo aceroſa, ma del ſapor medeſimo della roſſa; ſenzachè
fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata, la roffa parte in nera, e la
nera ſcambieraſli in rof. fa; il che avvien dall'aria, la qual movendo le
particello; della fuperficie del ſangue, le fa così roffe, e di più allegro
color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette coſe, due altre ſoſtanze nel
rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo diſcorre te, e bianca, ne
fa chiaro veder, ch'ella fia chilo, in fan gue non ancor traſınutato: l'altra
gaglioſa,e tenace, di cui ne fa purmenzione Ippocrate; e perciocch'ella è
deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da' moderni ſugo nutriti vo
acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo migliantemente miſchiato;
e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il vaſo del detto fiero ſu le
lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore agiatamente eſalare. Nefi nalmente
voglio laſciar d'avviſare, che in quelle febbri, le quali per parere
d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non, mai ritroveralli il ſangue
d'alcun'amaro ſapore, nepur quella parte, che vi va a nuoto; ne in quell'altre,
che per Nn avvi 282 Ragionamento Quarto avviſo di lui dalla malinconia
provengono, il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo; ne men quella parte d'ello
che, nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene
Ippocrate, ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi
aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe
d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a
coſtoro egli non ne traeva, in altre opportunità potea farne eſperimento. E più
di lui era debito di Galieno tal fatto, nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di
cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate. Ma Io non poflo non ammirar quì
quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate, perchè elle dicano,
effer flemma l'huomo; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza
ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere, di quella effer formato
l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata, di
quella il latte, diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad
Ippocrate ritornando: tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più
nobil parte del ſan gue, dico della parte ſpiritofa; quantunque altrove oſeu
ramente ne faccia motto, e ſenza penetrare, o diſaminar tanto che bafti la ſua
natura; e moftra, che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide, licome
è l'aere,e non già fra le umide, com'è l'aqua: il cui ſembiante più coſto par,
che ritiga lo ſpirito del fangue;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da
Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze
dell'huomo, e diſaminar così di effe, come delle parti ſolide, la natura, gli
uficj,e le ope razioni; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na
tura di quello, la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne
meno manchevole, e ſcempio ftabi fire di razional medicina. Ma il buono
Ippocratc, come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto, e come ſe quanto
avea diviſato foffes incontraſtabile, e fermo, paſſa più avanti nel fuo libro a
nar DelSig.Lionardodi Capoa. 283 narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la
flemma,come quella, che più d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do
più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli vuol ritrarre non altronde, che dal
toccamento; ed afferma coſtante mente, cha la fiemma,del ſangue, e della
collera ſempre ha'l tocco più freddo; la qual coſa però quanto ſia falſa è
teſte per noi detto. Fa egli, che l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la
flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam per le bocche, per le narici
degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature, e altri mali dalla flemma
cagionati, che ſovente in quella ſtagione afcir ſogliono agli huomini. Ma ſe
l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più che mai le viſcere, ele
interiora ſon riſcaldate, non ſo lo come poſs'egli argomentar ch'abbiano allora
a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che la flemma foſſe da an
noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la boce ca ſi ſpurga, e
per le narici, e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi s'appellano. Ma più
avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza contraſto, e
ſcorgeſi, che l'eſtate, ſe avviene ad huom qualche catarro, qualunque ne ſia la
cagione, e' ſcaricherà per le narici, e per la bocca le flemme, ch'e'di ce, in
tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po, ne in corpo, ſalvo che
flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere, dovea bé avviſar, che
l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della' noſtra pelle: il perchè non
potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente quella ſoſtanza, che in ſottile
alito,altro tempo ſvaporar ne ſuole, vienaa rapprenderli in flemma, edella
natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera vuol, che ancor ſian copioſe
le flemme; ma collo ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n
loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo. Ma feper opinion di lui anche la
primavera le vilcere lon cal:liffim, chefanno in corpo le fléme, e chi loro da
luo go? Ma la ragio, che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem !
rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 ܐܐ 284 Ragionamento
Quarto: la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo, ed umido è altresì il
ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo
ilſiero alquáto più copioſo di venga, anziche no, ſe a quel tempo ſon più
abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici, in lor ſover chiando
sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli
ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta
ſtagione: in cui, dic'egli, fogliono avvenir diffenterie, e vacuazion di ſangue
per le narici, ed è il ſangue più caldo, e roſſo, che mai? Certamente come
altre fiate abbiam detto; im perocchè la diſſenteria non puòdal ſangue
avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole, e dolce anzi
che no; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon eſserne accagionate,
le quali eſsendo aſpre, e ſtimo Joſe avrebbon a rodere le inteſtina, e farne
uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe a diſaminare in que fto
libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori, le quali da lui
coll'uſato ſcioperìo, e groſſezza fi trattano, e altre coſe degne da avvertire
occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta diligenza l'andaſse
rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare. E baſtami d'averne fol
tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da
Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina; e ch'egli
andato foſse nolto lungi dal vero, ne mai imbroccato aveſse al legno. Ma ſe
pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i quattro primi
corpi,no è da prenderne maraviglia: imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele;il
quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie coſe,digrā lūga
gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno; e veramente le
ragioni per colui rapportate eſſer frivole, e di niun valore, non che da
altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito; ma che chc ſia di ciò, non
avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro corpi
ſemplici, ne de'quattro umori, tutto il ſiſtema deila ſun Del Sig.Lionardo di
Capoa. 285 - ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier foffio,
e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi ſiſtemi;
onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene, e
particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto
lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida, che loro non
già inortal coſa, ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti,
che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto. E per lo meno
cre de altri, che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta; c
anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo, ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe
raccolti; c altri, ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio
d'Eſculapio. E certamente ſe mai vero foſſe, che Ippocrate, come An drea
antichillimo autor riferifce, miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre
libreria di Gnido, egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli
Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche,
ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend'
egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì
malamente compilare le aveſſe; e quinci ſia altresì avvenuto, che tante varie,
e diſcordan ti dottrine, e opinioni per entro vi ſi ritrovino; e perciò ſia
indarno gettata la fatica di coloro, che di accordarle tanto lungamente ſi
ſtudiano; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco
Ottomanno: Vercor ne ple rumque in iis, qui confultò inter fe diffentiunt
conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò, lo per me ſon
ſicuro, che agevolmente accorgerafli, cui caglia di chiarirſene, non effer
degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate, quante d’uma cieca, e comun
fama ne han ri cevuti; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro
Petrarca,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel
di Coo, che fe vie miglior l'opra, Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del
poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra 286 Ragionamento Quarto 1
nfra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea;i quali non men, che di tutte
altre opere d'Ippocrate, tenner pochiſſi mo, o niun conto degli Aforilmi; la
qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero,e ſmar
rite tutte loro ſcritture; ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in
forſc, dalle reliquie, chene' libri di Galieno, e di Celio Aureliano, a '
dinoſtriſe ne riſerba no; e per quelle poche memorie, ch'abbiam di Giuliano
eccellentiſſimo filoſofo, e medico, quantunque il con trario ſis forzi
dimoſtrarGalieno. Ma ſe ancor foſsero in piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano
compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero almen rimaſe le chioſe, che ſu d'er
ſi fe Lico, il quale ſi diede cura d'andargli un per uno mi nutamente, e
ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro,
comechè io non mi dalli briga di favellarne; ma poichè così va la biſogna: di
co, che molti degli Aforiſmi liano così generali, che per la medicina poco, o
niun pro trar ſe ne poſla; e di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia
acconciamēte adattare; il che ha porto occaſione di occupar certi sfaccédati
cervelli a travorgergli con pochisſimo ſtorciméto alla politica, alla milizia,
e ad altre arti, e diſcipline; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e
materialinotizie, che ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute;
altri, come avviſa il Santoro, non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto
ritegno, e ſenza l'indirizzamento delle regole dell'arte;di fetto, ſenza fallo,gravisſimo
ad autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole, e leggi in qualunque arte,
emaſlima mente in medicina; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove, fur da
lui tralaſciati ſenza alcuna ragione; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta
qualche argomento, ritroveral fi eſſer poco ſaldo, o inefficace; anzi loventi
fiate ridevo le, e frivolo; altri ſe ne ritrovano,la cui dottrina, o aper
tamente, o per poco che ſi vada diſaminando, falſa, e fal lace ſi ſcorge. Altri
finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi, e oſcuri,e impigliati,
ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri
trar Del Sig.Lionardodi Capod. 287 trarrà coſa, che monti un frullo. Ma
l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate, che ne men Galieno cotanto di co
lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto, a non ne lo
proverbiaſſe, e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio, ed error grave l'oſcurità
in qualunque materia, egli è ſenza fallo graviſſimo, ove ſi tratti dimc. dicina;
arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa, e in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi
danni, e nocumenti cagione; if perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe, che
dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni, dicendo ch'egli a ſtu dio
voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere, e maſſima mente gli Aforiſmi,
acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza riſerbo; ma quafi ſotto bel
velo ricoverti, e aſco ſi; imperocchè lo primieramente non ſo intendere qualſia
mai quell'altezza di dottrine, che nella medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta, ne
fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco vrirla; anzi è avvenuto a coloro, che
troppo v'han durato fatica a interpretrarla, quel che accader ſuole ſoventeagli
Alchimiſti, che in vece di divenir dovizioſi d'oro, e d'arie tutto il for
picciolo capitale ſcialacquano. Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua
dottrina,sì che da altri non mai fi riſapeſſe, potea con un più bello, e fottil
modo ben farlo, cioè rimanendoſene in pace, ſenza ſehiccherarle carte, o por
tanticervelli a partito per intender la ſua mé te, con si grave riſchio de'
poveri ammalati. Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene, equanto
oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi
ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe gnare; e certamente ſe non
altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri, e particolarmente in que' degli
Aforiſmi la fciò regiſtrato, e in quella sì confuſa maniera, que' catti velli
l'olio, e la fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella,
ſe mal puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove
principalmente egli vuol dar leggi, e regole di ciò, che fi dce nell'arte eſe
guire, è tanto biafimevole, e ſconcia, che nulla più; e ſe Principe mai, o
Repubblica in dettando leggi, e ftatuti ſi valeſ. to, 288 Ragionamento Quarto
valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre, in quai
garbugli, in quali intrighi, in quantipiati, o conteſe ſe ne viverebbe quella
malnata Città, quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate
col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant
animidociles, teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli, a quel,che poco
avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto: Decipimurſpecie recti: brevis effe laboro
Obfcurusfio: Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate, per
tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre, sì chenon aveſſe
arditamente a dire d'Ariſtotele, ed' Ippocrate, e de'loro eſpoſitori favellando:
ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum
illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint. E
quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo:
Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis:
cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam, & immenfam artem
contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh
unoquoque plura præcepta recondere, quàm quæ verbis deſignarentur:
&fingulos Aphoriſmos prêter id, quod exprefsè docent, proponere, ut figna,
du notas, quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però
dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto, o ad
accagionarli Ippocrate; imperoc chè qualbiſogna, o diſtretta lo sforzò mai a
favellar di tut to, e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti, e sì
diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe, c di niun rilievo? E qual
lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una
cofa, e laſciarnu cento, e mille, cuiabbiſognerebbe, che dall'intendiinen to
del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da
ſe medeſimo, a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo
diſtento. Ma ſe pur po telle Del Sig.Lionardo di Capoa 289 teſse Ippocrate
ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai
potrebbe ſofferir quelli oſcurità, che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri
della Die ta, degli umori, degli alimenti, in cui ebbe a dire quel celebre
galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore, Hippocrates anigmaticè, dw
obfcurè adeo loquitur, ut divi nandum magis quandoque, quam afferendumquid
voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre
non poſſono a niun modo aver luogo. Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler
ſchiettamente la verità có. feffare, che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo,
e oſcuro conoſcinicnto, ch'ebbe di quelle coſe, che a ſpia nare egli impreſe; e
perciò con oſcure, c affai brevi parole cerchi toſto sbrigarſene, come fan
coloro, che di future, e loro ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci
ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne
lode, e commendazione dalla voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno
intendono, comes cofa maggior de’loro ingegni vie più commendano; e per ciò è
avvenuto, che sì folta turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica
durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar
ſi naſconda; e dico indarno: imperocchè a gente di ſano intendimento quelle
cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono; eſſendomanifeſto,
che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda,e ſappia, ſicome quando
narra avve nimenti, e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di
notomia, ch'egli avea oſſervata, non torbido, e confuſo ſtile;ma cõchiaro,e
intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti
qualche antica, e vieta, e poco inteſa parola: impertanto non può renderli
tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda.
Egli è adunque oſcuro, ove di ciò che non inten de, imprende a favellare. Ma
per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali, c diſcender omaia qualche particolarità:
lo dico, che il primo, ove procura di ſcorgerne la medicina, come poſta lu la
vet Oo t2 290 Ragionamento Quarto 1 1 ta d'un erta, e lunga, e ſtraripevol
roccia,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita,ei molti, e gravi peri
coli, che vi s’incontrano per huom pervenire; e tale,e tan to, che vale a torre
il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la
medicina per fe medelima, ei, che dovea far altro, fe non ſe a tutto sforzo.
agevolarne il ſentiero? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna,
che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà
ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate, chela brevità, ove l'oſcurità
non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica, al lettore altrettanto ne
aggiugne. E nel vero chi potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar
tutti coloro, che prima di Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere
d'Ippocra te; e pur nientedimeno non uſciron dal laberinto, come vuol Galieno;
il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il filo da poterlo ſpiar tutto,
e ritornare in ſalvamé to; quantunque v'há chi non gliele vuol credere, e affer
ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri; e ne ci
reca la ragion dicendo, che ſe vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i
ſentimenti d'Ip pocrate, cotante quiſtioni, e piati dopo lui non ſarebboe no
inſurti, per indovinar, che diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate,maſſimamente
negli Aforiſmi. Orail té. po, che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó
ſarebbe meglio, e con maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po
allame licina, opportunamente impiegato? Ma nella feconda parte di queſto
primoAforiſmo, poi chè tanto gli è a cuore la brevità, a che perder parole per
dire,che, acciocchè il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio,
abbiſogni che vi concorrano l'opere dello in fermo, de’famigliari, e tutt'altre
eſteriori coſe al biſogno fian preſte? O utiliſſimo, o raro, e non mai caduto
in mé. te umana conſiglio del diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta, e Monna
Nonna ſomigliantemente non l'averebbe ſaputo? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la
cui eſpoſizione veggiam venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le
più Del Sig.Lionardo di Capoa 2.91 1 le più coſto con aringo d'ornate ciance,
che con faldezze di dottrina, cerca difar riparo Galieno a petto degli argo
menti, che incontro gli avventa Giuliano: non contien al tro certamente, ſalvo
che unadottrina molto volgare, tanto baſſa, ch’un Maeſtro Simone, non che altri
G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina, maſſimamente ſules prima fronte
d'un libro di tanta eſpettazione; ella è tales: le vacuazioni, che per vomito,
o di ſotto ſpotaneamente avvengono, ſe fian tali, quali eſſer denno, giovano, e
age volmente ſi collerano; e ſe ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee,
giova, e ſi tollera. Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza, e brevità
maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo, cheſe
l'arte, o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo, fie di giovamento
l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro, ove ſia l'altiſſima
ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe, e dell'inventore, come
Galien lo dice, della razio nal medicina Ippocrate; adunque in faccenda di
cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi: A che dunque vagliol tanti ſiſtemi
di razional medicina, sì lungamente, eintan ti libri da lui regiſtrati? A che
giova l'aver eglicotanto ra gionato degli uinori, e dell'altre cagioni delle
malattie, e delle altre coſe confacenti alla medicina,ſe al miglior huo po non
gli vagliono un frullo,egli abbiſogna, ch'a ſuomal grado,alla fallace empirica
abbia ricorſo. Ma più oltre: onde fe meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale
avvertimento nel divin volume degli Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così
ſcicmpiata tra'l vulgo, che molto bene non ſappia, che al lor, chenon reca
moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap profitta, che tale qual eller deeſiaſi
la vacuatione; ma do vea certamente, &aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo
crate, che quantunque non ne tragga alcun diſagio l'infer mo, e che
imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca, avvenir può talora, che l'umor
vuotato non ſia tale, quale vacuar ſi dec;imperciocchè ben potrebbe egli di
leggieri avvenire, che dopo la vacuazione di qualche materia, la quale niente
aveſſe che fare colmale, riſtoraſleli l'infermo Oo 2 per -- 292 Ragionamento
Quarto per qualche vacuazione inſenſibile di ciò, che cagiona il male,fattanel
medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia, ſe talora ne’più gravi, e
pericolofi malori, quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la
cagioni, che l'adoperano; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera
di quelmovimento,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli, e nell'ufcir fuora, e
nel mutar faccia, fito, o movi mento que corpicciuoli, onde il mal ſi cagiona:
a pruova conoſcendoſi, che huom ſuda, vomita, e manda fuori per altre parti
quantità d'umori, e ſi ſgrava immantinente dal male; che ſe non uſciſſe allora
o pietra, o altro, che'l ca gionaſſe, ogn’un di certo giudicherebbe, che per la
vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò
che lo dico, in quci, che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo
preſi gli antidoti vacuarſi per vomito, e per ſudore gran copia dimaterie nel
tempo medeſiino, che guariſcono; e pure quelle non han coſa del mondo che fare
col veleno della vipera, il quale in altro non conſiſte, che in una
piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza, la quale rappigliandone il
ſangue nelle ve ne toſto n’uccide. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e
nelle ferite, ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non
pertinenti,c guarire, ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii
medici con falaſli, e purgagioni, ed Jorinojoſi, cimportuni rimedj i loro
infermi crudelmente ſogliono malmenare; giudican do così imitar l'opere della
natura; e per aver talvolta av viſto, che qualche febbre, o altro male ſi ſia
diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue: comandan poi, che nelle febbri ſi
tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di
Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio, nell'accreſcimento,e nel
vigo re delle malattic, ſe non ſe dall'aver eglino veduto, come chè radillime
volte, che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato, e
riſanato qualche infer mo; e queſto è quello, s'io non vado errato, che dovca
norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quel DelSig. Lionardo di
Capoa 293 qnelle materie ſi vuotano, quali appunto da vuotar ſono, ciò vien
lievemente comportato dall'infermo; concioffie coſachè molte volte elleno tra
per la loro mordacità, e per la delicatezza della parte, per la quale ſi
vuotano, e per altre cagioni ancora recar ſogliono noja grande agl'infer mi;
come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo dimenticando al trove avviſa; ma non ſenza
ragione Giuliano prover bia, e ripiglia Ippocrate dicendo, ch'egli
incominciando queſto aforiſmo afferma come vera una propoſizione non miga per
lui provata, ne dimoſtrata in prima, cioè, che naſcan le malattie dalla
foprabbondanza ſolamente, o dal cambiamento degli umori in altra qualità di
quella, che in prima aveano, la qualvien da'medici, corrottela, chiama ta;
ch'egli però giudica,che ove non ſi ſcorga legno di cor rottela d'umori,che la
ſoperchianza ſia de’inali cagione. Coſa, la quale foggiugne Giuliano, in modo
veruno in tender noir fi puote, ne è vera: imperocchè fe ciò foſſe, eglinon ha
dubbio, che tutte in fermità agevolmente gua rir potrebbonſi: ne fi vedrebbe
giammai lunghezza di ina lattia: e una ſola la maniera di tutte curarle certamente
fac rebbe; imperocchè ciaſcun potrebbe agevolmente qualo ra a grado gli foſse,
effendo ciò in ſua mano, comeilmal l'affale, così toſto ripararvignon gli
biſognando a ciò altro, falvo che fa ſola vacuazione, la quale in qualunque
tein po porre ſi può in opera col ſegnare, ſe'l male ſarà cagio. nato dal
ſangue, e fe dalla flemma, e dalla collera,condar loro acconce medicine.
Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire, che allora oltragli umori,
abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio; perchè va cuito
l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale,ficome Ippocrate ſuppone, tengono
gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il vuotamento di
quelli; il che certamente non avviene; anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò
molte fperienze, coſtantemeure altrove il niega. Ma come allor, che fon crudele
materienel princi pio de’mali,quando le parti ſalde non ſon potute ancora
contaminar da eſſe, le vacuazioni riefcono nocevoli, non che 1 294 Ragionamento
Quarto che infruttuoſe: e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma
Galieno, elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non
può eſſere, che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le
partiſalde, le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate, e
ſconce ne vennero? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con
quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo; e allor, che li veggono dopo
la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente
per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente, che
Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina; imperocchè
avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo
al paeſe, alla ſtagione, e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va
cuazione. Ma per tacer della ſtagione, dell'età, e del paeſe, onde niuna
certezza trar ſi puote, con qual argo mento in tata incertezza delle coſe
dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia, e qualſia quella parte
diſcorrente, che cagioni l'infermità? Credeſi la collera cagionar la ter zana:
la malinconia, la quartana: e pure queſte alla va cuazione, che penſan fare i
medici di tali umori, non ce dono:'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla
ſcorza del Perù, e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio
avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione, che egli
lo tra sformò sì, che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi
debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri, egli ſe'l veda · Dice
Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà
eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio,
convien, che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli.
Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar
canto, e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta, e ad altri ozioſi
cervelli, è troppo rozza nel vero., e materiale, e più li ſten de aſſai di ciò,
che Ippocrate s'avviſa; imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe
luogo, sìfatte perſone dovreb Del Sig.LionardodiCapoa. 295 dovrebbono andaralpeggio;
il che falſo ſi ſperimenta; e ben ſi conoſcerebbe apertamétc per ciaſcuno la
falſità del la menzionataragione d'Ippocrate, s'egli come far dovea, l'aveſſe
con più parole ſpiegata, comepofcia fecero i ſuoi chioſatori, dicendo, che non
poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente, nepofare: perchè continuamente
cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in loro il chilo, e'l fangue, c
queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del corpo, ne potendoſi a quello
unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos debba di neceſſità cambiar in
peſſimo il lorot timo ſtato. Ma non poſer mente coſtoro alla copia grande. del
ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti, e ſalde del. le loro foſtanze,
checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora
da'corpi degli huomini p. la continua formentazione di quello, che in aliti
lotciliſi-. mi mai ſempre gli va ſciogliendo; e quanto più abbonde vole, e di
buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo, e valevole
ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni; e quindi ſcorgonſimolcijemolti
dicotali huo mini ftar bene lungo tempo: e comechènondimeno qual-, che volta
coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate
apportata; maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di
fuora a muo-, verfi, e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono
ivaſi, che'l contengono: 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle parti
falde delcorpo, cdivi fermatofi, or una, or un'altra ſorte di mali, e talvolta
con impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì cagio na;
e ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare. Appreffo fålla egli
gravemente, ſenza dubbio, in tacendo come, e in qual maniera s'abbia negli
Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni, o pur colla dicta; s'egli
quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta, comedicono i
chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare quando ciò far
convenga colla ſc. la dieta, e quando altrimenti e in sì fatta maniera non in
fruttuoſi affacco,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu: i avvertimenti. Im
296 Ragionamento Quarto Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al venteſimo a
far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi; e come chè in lor ſi contenga
qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del favellare,
confonde quelle materie, che meſtier fenza fallo gli facea illuſtrare; eſſen do
nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe più neceſſarie a ſapere
in medicina; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole, alle quali fa meſtieri d
' eccezione, le dovea egli almeno accennare; ed era aſſai più neceſſario
l'inſegnar ciò, che le tant' altre bazzicatu re, in cui inutilmente di certo
ſpende egli tante parole das vegghia, come quello, che agevolmente lapute
ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è, che non ſappia eziandio fra
quelli, che non mai ſtudiarono in medicina, che ne'mali lunghi s'abbian’a
mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar non gli ſi debba
a ſpi luzzico il cibo, ma un poco più largamente x Chiè, che non conoſca, che
nell'acceſſioni della febbre, non ſi debba a niun modo cibare il malato? ma sì
general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar, ch'alcuna fata anche ciò far
colz venga. Nel duodecimo aforiſmo fi da briga, e ragionevolme te nel vero
Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie; ma in materia di sì
gran lieva, e onde, com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto regolaméto
del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro, e intral Lito favella,
e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine; tralaſciando non per
ſuo mal talento, ma per ſuo poco ſapere di far motto de'polſi. E quanto al fat
to deglieſempli, egli è molto ſcarſo: recandone un ſolo della pleureſi, e
nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel cominciamento di
quella lo ſputo, il male abbia poco a durare. Va errato parimente Ippo crate in
dar intera credenza a ſudori, alle fecce, e ſpezial mente all'orina; la quale
per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal ſangue;maparte di eſſa
trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni; e
ro, come Del Sig. Lionardo di Capoa. 297 comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe
Ippocrate, dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi, che appena tranghiot
titi, di preſente ſi orinano: e agli ſparagi, al Terebinto, e ad altre coſe,
che ſenza toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina. Nel tredecimo
aforiſmo dice Ippocrate, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno; e quindi
paſſa a far paro le dell'altre età. Ma queſto è un'errormaſchio; imperoc chè
dal continuo ſperimento ne fi fa chiaro, ch'a’vecchi tra per la lor debolczza,e
perchè poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier
riſtorarſi. E verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo: inediam facillimè
fuftinet media etates, minus juvenes, minimè pueri, & fenectutes confećti.
Vien poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici,
cioè, che coloro, i quali cre ſcono, abbiano in copia grandeil caldo innato, e
che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo, alorimenti il cor po ſi
conſumi. Ma non avviſano coſtoro, che alcuni peſci creſcono oltremodo, e non
che eglino caldi fieno, anzi só freddi si fattamente, che lc loro interiora
agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono: come avviſa de’luccj del la
nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani: ho aperto (dic' egli) il luccio ancor
vivo, e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro.
Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella, per la cui opera
ben,' digeſtendoſiicibi, e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a
quella in prima dovea por mente Ippocra te, e poi diterminare; ma eglia ciò non
badando, indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino, che di verno, o di
primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime, ei louni lunghiſſini; e
perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba;concioliecofachè l'innato
calore allor creſca, cui maggior cibo certamente abbiſogna, e che di tal coſa
nes fan pruova l'età, egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì
breve ſen tenza: ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile; ma ab biz Рp
298 Ragionamento Quarto I biaſi pur ciò per niente, egli non è tuttoda
trafandar fotro ſilenzio, che quantunquevero in tutti huomini, per tacer
d'altri animali, ciò che diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno, e di
primavera affai meglio fmaltiſcanſi i cibi: la ragione nondimeno, che di ciò e'
ne reca è falſa; concior fiecofachè falfo apertamente ſia, che nelle
menzionatcſta gioni caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero
fofle, nemen nulla montcrebbe: non facendoſi altri méte dal calore la
digeſtione de'cibi: ficome ne ſiamo omai tanto accertati, chenon fa luogo, che
lo vi ſpenda parola. Perchè in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo
crate le ragioni fanciulleſched'Ariſtotele, che le viſcere di verno caldiffime
fiano, perchè il caldo, come ſenſo egliavel fe, e del circoſtante freddo
ſentiſſe l'offeſe, alle più naſco fe interiora ſi rifugga; e certamentecotal
ſciocca filoſofia, che i luoghi ſotterra caldi ſiano di verno, e freddi di
ſtate, per lo Termofcopio falſa apertamente ravvifaſi, comeché tali pajano a
noi, che di ſtate caldi, e di verno freddi v’en triamo dentro. Ma avvegnachè a
pro d'Ippocrate dir potrebbeſi, che di verno per eſſer chiuli i poridegli
animali ſi venga aritener quella ſoſtanza, che di ſtate eſce fuori, la quale da
al ſan gue col movimento il calore: non però di meno, come fiè accennato,
manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte,
non altrimenti, che quelle di fuora, effer più affai calde di ſtato, che
diverno; ne per altro nella detta ſtagione così volentieri acque freſche, e
altri raffreddari liquori beviamo; ne Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare;
il quale dice altrove, che di verno s' ingenera la flemma, ſecondo
luifreddiflimo umore, eche avvengano lunghe, e cagionate da tardi, lenti, e
freddi umori le malattie. Ma Galieno volendo le parti del ſuo maeſtro difendere,
immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con dire, che di ftate ſian calde,
maggiormentc che diverno le viſcere, di quel caldo, ch'egli avveniticcio, e
foreſtiere chiama,ma non già miga deicaldo innato. Chiama egli caldo innato una
i 1 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 299 remo. una aerea acquoſa ſoſtanza d'un calor
mite, e ſoave inſieme con gli animali nata, e avveniticcio allo incontro poi
chia ma un caldo terreo mordace affocato; e di queſto egli di ce nell'infelice
difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che abbondevoli fiano
maggiormente i giova ni, e di quello i fanciulli. Ma quanto ciò poco, anzi
nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre Primieramente
convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal ſangue; perclié
folea dire l'Arveo, altro non eſſere il caldo innato, che'l ſanguemedeſimo:
folusnē pefanguis eft calidum innatum, ſeu primo natus calor ani. malis, uti ex
obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium, præfertim pulli in ovo
luculenter conftat: utentia, multiplicare fit fupervacuum. Argomento
manifeſtiſimo è di ciò, ch'io dico lo ſcorgere, ch'abbandonata dal ſangue
qualunque parte dell'animale, immantenente ogni calor viene ella a perdere: e
ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue, ben toſto dal cuore, dalle vene,
dall'arterie, da altre parti falde tutto il calor fi diparte. Vano, e falſo
adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi ſuo le, il cuore effer
fonte del calore: ne ſo lo vedere, come in sì fatta opinione compiaceſſeſi quel
grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte; imperocchè agevolmente egli
avviſar potea il cuore noneſſer più caldo, che l'altre vilce re deglianimali.
Ma fe'l ſangue (e ciò avviſa infra gli al tri il noſtro Ippocrate ) per ſe
ſteſſo non è caldo, convien! inveſtigare, onde il calore in prima gli avvenga,e
la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie, e nelle vene quello
mantieneſi. Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue ſi riſcaldi, e caldo
continuamente ſi mantenga, perlo movimento, che dal cuore, o dall'arterie egli
conti nuo riceve; ma non baſta certamente un si debile movie, mento a ingenerar
nel ſangue sì gran calore; anzi prima che'l cuore, e che l'arterie ſi faccian
vedere nell'huomo, caldo vi ſi ſperimenta il ſangue; ne meno a ciò baſtevole è
certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro; ma chiunque P p 2 pon 300
Ragionamento Quarto pon mente alla materia, onde ingeneraſi il ſangue, più age?
volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio il
sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe, e di frutta, e di carni, che
altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte, e ingenerate; or sì fatte
vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la
divengon calde sì factamente, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la
forinentazione, dura parimente in loro più, o meno il calore; cofa,la quale nel
mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora
ravviſar eglifi puote; ma d'altra affai più nobile, e più maraviglioſa maniera
certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue, la quale in
parte è ſomiglian te a quella, che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze
minerali; onde avviene che lo ſpirito,che per chimica ma no dal ſangue li trae,
ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi
formientati vegetabili trar fi ſuole. Ma come veramente una tanta opera nel
ſangue fi faccia, e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a
conghietturare; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella,
la quale diliberando nel fan, gue i ſemi del fuoco da que'ritegni, per li quali
non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco,
v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo
al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi
rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno, o molto pochi, o in
sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che
mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia
agevolınéte ſvi luppare. Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per
manevole negli animali il calore, il quale, or naturale, or non naturale porrà
dirſi, fecondochè convenevole, o non convencvole e farà alla natura di quelli.
Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo,
intanto,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio,
certamente convien dire ch'appena ne'fan DelSig.Lionardo di Capoa. 301 ne
fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar
puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle
fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate, portati
per Ga licno. Ma per ritornare al noſtro propoſito: di ſtate pllo calore
dell'aria circonſtante, la qual continuamente dagli huomi niper la reſpirazione
li bee, e per le ſoſtanze del volante. ſalc, che'n quella, più, che in altra
ſtagione nell'aria ſi ri trovano, sformatamente la formentazione del ſangue, e
in eſſo in prima, e poi nelle viſcere divien più grande,e pa riinente ilcalore;
allo incontro poi il verno, mancando all' aria que'ſali, e tra per queſto, e
per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla formentazione, così nel ſangue,come
nelle viſcere neceſſariamente il calore; ne per altra cagione nel le parti di
Settentrione il ſangue, e le viſcere, maſſimame te di verno non molto calde
ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni
fcintilluzza di calore,sì fattamente, che per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb
bono; ne pare dalla verità lontano ciò che de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero:
Dicono che agli kuominidi Lucu morie: coſa mirabile, e incredibile, e che ha
più della favo la, che del verifimile: fuole intervenire, chequelli per ciaſ
cun'anno, cioè a' ventiſette del meſedi Novembre, nel qual giorno appreffo de',
Ruteni è la feſta di S. Giorgio, muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro
d'Aprile al la fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino. Ma che che
faſi di quelli: lo dico, che ſe Ippocrate, e Galieno aveſſer voluto veramente
filoſofare, avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione, per la quale di
verno, e di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè
a que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo
ſtomaco, e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non
è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa, e fi
dilegua; cf fendo ella, comechè accender non fi poffa, vie più dello {pirito
delvino volante, e ſottile; e per mancamento d'u pa co 302 Ragionamento Quarto
na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene, che gli huomini, co mechèpiù caldi, men
gagliardi ſi ſentano, e atanti della perſona. Ma nc.men ſe ſi concedeſſe a
Galieno, che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali, ſarebbe ciò
pun-, to per giovare ad Ippocrate; concioſliecoſachè, o innato, o avveniticcio
che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi.nell'animale, conſumerà ſenza
fallo il corpo diquello; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel
precedente aforiſmo recata, converrà certamente dire, ch'a' giovani più ch'a'
fanciulli, e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere; ma
ciò Ippocrate, e Galieno fe'l vedano, che per altro poiifanciulli più
largamente eſ ſer denno cibati; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per
creſcere, sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di
ſtate abbian più biſogno di riſtoro, e dicibo gli animali, nondimeno non molto
bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione, convien che
parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi,
che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di
caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in
cui certamente il caldo avveniticcio, è quel che ſovrabbonda; tralaſcio ciò che
dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore, non
ainmalino co sì, come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il
calor de'febbricoſi, ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato, ſalvo che per
gradi. Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc;
imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente, ſuppone le due ſorti di caldo;
perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire. Nell'aforiſmo
ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color,
che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli(purie, i qua
per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco, e l'altres viſcere
ripiened'acquoſe, ed unnidiſſime ſoſtanze, lo per me li Del Sig. Lionardodi
Capoa 303 me non sò, comegli umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando
egli poi di favellar più de'cibi, fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine
purgative; foggiugnendo nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe, le quali o
figiu dicano, o giudicate interamente già ſono, non ſi debbano muovere, e ne
con medicine, ne con altro irritare, ma lila fcin così ſtare; ſentenza, la
quale con altre de' libri degli aforiſmi volle Ippocrate, che ſi leggeſſe nel
libro degli umori, ed in altre ſue opere, e contiene ſenza fallo uil,
atiliffimo avvertimento;mapotea certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì
tatta briga, cotanto ella è chia ra, e manifeſta coſa; e nel vero chi ignorar
mai potrebbe, avvegnachè non inai ſtudiato abbia in medicina, che ad huom
perfettamente guarito della malattia, non che lava cuazione, che potrebbe di
nuovo ſcopigliare il ſano ordi namento del corpo, ma niuna altra forte di
rimedio non faccia meſtiere? Ma forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici
de'ſuoi tempi, non altrimenti che li facciano og. gidì que' de’noftri, o poco,
o nalla vi badavano; e ciò per mioavviſo avviene, perchè di lor natura i medici
avidi ſon mai ſempre di far coli, chepaja al vulgo grande; come è il vuotar con
ſalafli, e con purgative medicine; e van cer cando ogniora qualche apparente
cagione di poter ciò egli no fare;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele
porge allor ch'e ' dice in un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole
malattie foglia dinuovo ingenerarle? ma chi ben riguarda la coſa, apertainente
ſcorge, che non ſolamente in ciò,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre
materie ritrovano i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate;
e queſta certamente è la cagione, per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate
in qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò, dovea annoverar Ippocrate
minutamen te i ſegni, per li quali ravviſar poſſa il medico, che'l male
interamente lia andato via; c que'ch'egli altrove, e Galić nelle chioſe
brievemére produce in mezzo,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer
puote. Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane
do po le A 304 Ragionamento Quarto po lemalattic; es aitro e' non dice, niente
certamenteegli inſegna, chenon ſia a tutti ben noto. Dice indi nell'aforiſmo
venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee,per le ſtrade, onde ha
egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo.
Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te, non fi dipartendo
dall'uſato ſuo coſtume, imprende ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine
manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca
egli negli aforiſmicertamente regiſtrare; cioè quali vera mente li licno
que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora tra per la delicatezza
d'alcune parti, e per le mordacità de’lughi, o per altra cagione convenga al me
dico altrimenti operare di quel,che li faccia la natura. Vien poſcia
quell’Aforiſmo altrove da noi recaro, che contiene nel vero un'ammaeſtramento
molto, e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam
gioni nelle malattie; ma da’ſeguaci d'Ippocrate, e diGa licno, come abbiam
dimoſtrato,in niunconto tenuto. Mów la colpa, s'Io pur non vado errato, in gran
parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di
sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le
ſperienze, che fanno al propoſito, e poſſono la verità dalui inſegnata appieno
aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il té po in
narrar altre inutili novelluzze; anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo:nel
cominciamento de’mali, ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai:
séza giugner altro, comecertamente dovea eglifare,da cagione di por re in
dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato. Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete
Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag
giugne, egli è certamente un'avviſo così fuor di ragione, che giuſtamente da
più avveduri medicanti, comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato; cioè
che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento, ſe mai ne ficcia inelticri, purchè
pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno, che Del Sig.Lionardodi
Capoa. 305 che Ippocrate dato c'non abbia il cervello a rimpedulare;
imperciocchè non ſi rammenta, che poco addietro corali vuotamenti avea egli
oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo riſchio; quantunque
egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma più v'è di male, che
Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo glia; ſe di quel, che
per li ſalaſli, come ſpiega Filoteo, o pure diquel, che per le purgagioni
s'adopera; come rac coglier fi può da ciò, che in prima egli ha detto; o diquel
che fafli, e per gli uni, e per l'altre,comevuol Galieno, il quale ſcioccamente
approva nelle chioſe la menzionata, dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì
grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate, e vero foſſe ancora in
qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper
vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in opera sì, che o
giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con
graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono,
che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima
ácora, e 12 vita;séza chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata
puc gativa medicina ralormolto vuoti, e groſſo calice d'ama riſſimo, e
violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi
& ritrova adatto;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in
opera l'avviſo d'Ippocrate, ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar
l'infermo, o di nulla giovarlo. Ma poſto, che ciò che inſegna Ippocrate ſi
poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti
mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo
s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca
pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento
d'imnitar Ippocrate, e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento, l'imitano poi
nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando,nel
far grandemente vuotare, tutto il ſapere, e'l va lore del medico, e
l'eccellenza dellamedicina confiftere; e RI pure 306 Ragionamento Quarto - pure
il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la
quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni, ma per la qualità degli umori,che
ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello,
giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede,
che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore, le
conſuma poi, ove non fa meſtieri; ma non una, o due fiate egli in ciò ſi vede
fallare; e ſimigliantemente ciò, che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto
già nel ſecondo;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano, e ſoverchio
da Galieno,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori:onde non è da
farne più motto. Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi,
che lo immagino, che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non
ſolamente in queſta, ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e
quelche più dej recar maraviglia ſiè, che ne reca alcuniegli ſovente, che colla
materia, la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado
ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere,
ſe non fe dal ſuo poco intendimento, e dal non diſaminar lui bene le coſe;
perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele, che coloro,
che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano; e quindi avviene, ch'egli
tratto tratto diſguiſato, econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna, a guiſa
de’noſtri Romanzatori, i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men
s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano, e d'alcro imprendono
a ragionare. Malafciam Bradamante, e non v'increfca V dir, che così reſti in
quell'incanto, Che quandoſarà il tempo, ch'ella n'eſca La farò ufcire, c
Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca, Così mipar, che la
mia iſtoria quanto Or quà; or là più variata ſia, Mero a chi l'udirà nojoſafia.
Così Del Sig.Lionardo di Capoa 307 2 L Così il noſtro Ippocrate ora laſciando
di favellar delle purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa,
dieědo: il ſonno ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer
mortifera; ma ſe ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale. Egli
l'ha indovinato certamente alla prima; e non veg giam noi tutto di trap.affar
molti, emolti, che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva: e allo
incontro rimaner in vita altri, che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o
da altro aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre
nell'avanzamento dell’avute malattie, che gli infermi più moleſtia in ſonno,
ch'in veg. ghiando patiſcono? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano;
oltr’a ciò le terzane, e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più delle
volte con faſtidioſi ſonni gli am, malati sformatamente annojare: e pur le sì
fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e
quantunque,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda, di favellar de fonnida
tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe
apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori, o de' lettori
laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate, che ſe'l ſon no la
farnetichezza raccheta, vada ben la biſogna. Ma che è ciò per Dio, ch'egli dice;
Io vo conceder, che talor vaglia, ne vi ha chi il nieghi, ch'un placido, e
ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare: eche aver
fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima; ma ſe un sì fatto
giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no, domine ſe ſarebbe male? e ſe
ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo: buona
coſa è, che i farnetici dal lor farneticare riſanino; e five drebbe ſenza fallo
regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare ſcorno alla
concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti conchiuſcro,
che Mecenase non aveva ſonno, E queſt'era cagion,che non dormiva ”. Ma quanto
meglio avrebbe fatto Ippocrate, e quanto Q92 con 308 Ragionamento Quarto 2 $
con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì
fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre, e a dimoſtrarne di quanto
riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante
utilità,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare: fomnus Jant um
arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim, abfit difto error,
an, & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, &
repentinumfit auxilium, adeoque corpori, acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co
sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati
dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente
gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in
no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies
rerum,placidifſime fomne Deorum, Paxanimi, quem cura fugit,tu pectora duris,
Feſa minifteriis mulces, reparaſque labori. Canta Ovidio; e Seneca Tuque à
domitor Somne malorum, requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno,
o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio, o de’mortali Egri conforto,
oblio dolce de'mali Si gravi, ond'è la vita aſpra, e nojosa E'lTallo Padre
Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo, e rio,
Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore; ne
altro rimedio ritrovò Erminia (appo il maggiore deno Itri Poeti ).a? ſuoi
dolori,che'l ſonno Cibo non prendegià, che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di
pianto ha fete; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa,
e quiet thing Son. DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori, e
l'ali Diffefe fuura lerplacide, e chete. Ma comechè ciò fia vero, pocomontava a
noi certame te il faperlo, fe non fappiamo inſieme chenti, e quali ſiano
irimedj daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli
argomenti, onde a’malati ſi può chiamare il ſonno; e comechèoſtinato ingannarlo:
e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado
errato; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre,
e fe, che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o
per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi: conciofoffe co fa, che
chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo: nova
ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis, per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate
intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur. Econ queſte magnifiche pro. meſſe
venendo egli poi al poſtro Aforiſmo, dice per fenté za d'Ippocrate: ad praxim
revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis
fomnus concilietur. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo
d'avvi ſarlo, il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe: Som nifera
quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt;
fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum
pretioforum. Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum,rectè
applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff. Non igitur folum
defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur,fed oportet ut euminrelligatis,
fcut medicum ex pertum, qui ex fpiritu medicina locutus eft, non ut Humori Ba,
qui ignorat quid fit fomniferum,fed ut artifex. Mache mivo Io più nel farnerico
degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo, i quali di sì picciola
levatura ſono, quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo
tranquillo, e ripofato, e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro,
e'sì gli giudichi cutti, e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica
logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia
310 Ragionamento Quarto 1 9 1 glia diquelli, che fin quì diviſati abbiamo:eche
malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante chioſe, eco
mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della Sciambre, il
quale lo non sò con qual arte s’indovis ni, e a noivoglia comunicar corteſemente
ciò che Ippo crate avea intenzione di dire, e'l racque ſolamente per ri ſerbare
al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui. fica impreſa. Ma ſe bene
Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor della Sciábre diviſa, e
pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto, gran coſa pur cgli non fa
rebbe, come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole. Ma incom portabile certamente, e'
mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente, perchè in ogniaforíſino
coſtantemente egli afferma queſto, o quell'altro aver Ippocrate avuto in men te
di dire,ma eziandio, perchè talora in materie chiariffime ci vuol'egli far
vedere per roſſo il giallo, ficome quando p ſoftenerche'l, ſuo modo di medicare
non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate, vuol farne a credere colui aver avu
to in animo, che ancora fuori del gonfiamento le crude materie vuotar fi
debbano; error,che in verità non mai gli porè cadere a niun modo in penſiero.
Or ſe la potente faſcinazione dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti
de'chiofatori, eglino ſiſarebbono, fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco, 0
niun valore del volume degli Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli
che perentro ma nifeſtamente falfi vi s'avviſano; intanto, che ne meno il tanto
parzial d'Ippocrate Galieno, e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a
difendere. Ma comechè cotanto imbardato fi moftri Galieno delle dottrine
d'Ippoctate pur egli falſo a cento, c mille pruove confeſſa apertamente ayer
lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual dice, che ſe mai la rete efca del ventre
fuori, abbia di neceſſità a infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa
quell'altro, ove inten de Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in
cinte, dicendo; ſe conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia,
innanzich'ella vada a coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata
da’dolori del ventre, di certo, che DelSig.Lionardo di Capoa 311 che ſarà
gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe l'aforiſmo è falſo,
abbiſogna anche dir, che in vano ſi becchiil cervello Galieno per recare la
cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal operazione; è falſo diſ fe
Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte s'avvide, che tal fatto avvenga a
quelle donne, che non hanno in co ftumetal beveraggio; imperocchè a quelle
donne, le qua li per addietro non mai l'aſſaggiarono, o gravide, o non, gravide,
che ſiano elleno, foglia talora la mulla dolori di ventre cagionare: il che avviene
ancora dalla mulla com, poſta coll'acqua piovana, della quale alcuni immaginano
aver Ippocrate favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo, che mortale ſia
a donna gravida ogni acuta malattia. L'Aforiſmo, di cui meritevolmente dice il
Santoro: ne, mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum: cioè, che co loro,
de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa
d'Ippocrate il Zecchi ſi dica, egli è così apertamente falfo, che Ippocrate
medeſimo altrove lo rifiuta, e ripiglia fortemente alcuni antichi medici, che
ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità, e dice eſſer errore
d'Ippocrate, o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire, o nella veſcica, o
nelle reni; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno, falſo altresì tutto di
egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo
ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa, ſen za aver avuta mai
menoma pietra, o nelle reni, o nella ve fcica. Soggiugne oltre a ciò, che di
dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa, che non abbia l'orine ſabbjo
noſe: e pure rari fon coloro, che han pietre nelle reni, e radiſſimi coloro,
che l'han nella veſcica. E oltre a ciò egli racconta, che gli Spagnuoli poco
men che tutti fan l'orina ſabbionofa, e nondimeno pochiſſimi vi ſono infra
loro, che patifcano il mal della pietra. Ma non menofalſo è quello altro
aforiſmo,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia mo,cioè,che
que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina, qua le è quella de giumenti, o
hanno attualmente, o auranno di preſente dolor nel capo. E quell'altro, che a
coloro, a ’ qua 312 RagionamentoQuarto quali nelle febbri ogoigiorno viene il
rigore, ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro, di cui Giulio Ceſare
della Scala, così a Girolamo Cardano ragiona: nequemés ægrotat, ut falfo voluit
Hippocrates, cum dolorem, quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi
trovi la ragione, checolui poi ne recà ſoggiugnendo:fed quoniam dolentem ad locum
fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E
quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non
mai vegna loro la po dagra. Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche
volmcntc in udendo quell'aforiſmo, che i malchi per lo più s'ingenerino nella
parte deſtra della donna, e le fem mine nella ſiniſtra? E di quell'altro, che
ſe la donna aura conceputo maſchio, ſi vedrà ben colorita in volto; mares avrà
conceputa femmina, farà pallida; e di quell'altro: ſe una donna non ſarà
gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà,co prila bene con panni, e di ſotto adopera
ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca, e alle
nari, ſappi, che per ſe ella non è ſterile. Taccio altri, altri aforiſini intorno
alla medicinal materia, che fan vede re, che Ippocrate poco avea che fare
certamente quando fcriveva un tal libro, ſe vi pone sì fatte fraſche, che ſe
ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban regiſtrarſi
in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete coſe
dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto poco
Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina; ma
ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto ria
delle parti del corpo umano, e degli ufici di quel lc, e del modo, col quale
adoperano, come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri, che non fa meſtieri,
ch’lo ne faccia parola. Solamente narrerò, come per ſaggio dell' altre coſe,
ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata, di cendo, che quelle parti, che
ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca, com'è la veſcica, il capo, e lå
matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen re, 1 1 1.
te tras 1 i DelSig.Lionardo di Capoa. 31; te traggono, e ſon pieni degli
attratti umori; ene reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi
trae, e che fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra, e adata tandovi
una fiſtola,ſi trae agevolmente ciò che ſi vuole, e che le ventoſe, le quali
ſogliono appiccarſi per attrar re dalla carne, ſiano ampie nel ventre, e
ſtrette verſo la bocca; ccco le fue parole: Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και
έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε σώματG-, πότερον τα κοίλα π, και εκπτ. παμύα, ή του
στρεά της και τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές. συνη μία,
δύναιτ' αν μάλιστα, οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε, και
ευρίG-' καζ μανθάνειν δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι
κεχίωώς, υγρόν δεν αναστάσεις προσμελήναςδε, και συσείλας και πιέσεις τε τα
χίλεα · έτι τε αύλον ποθέ. μυς, ρηιδίως αναστάσεις αν ό, τι θέλας • τούτο δε,
αί στκύαι ποζαλό μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται,
προς το έλκαν από της σαρκος, και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ '
έσω του ανθρώπς φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε, και κεφαλή, και υπέ es γυναιξί
- και φανερώς αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici. Non
occorre, che Io mi dia briga in diſaminar si fatte fanfáluche, potendo ogn'ın
per ſe medeſimo ravvi fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono
più errori, che parole. Egli vuole, che la veſcica tragga l’o. rina; il che
tanto è, quanto s’un diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l
medeſimo dir ſi puote del ca po, e della matrice. Ben ſi pare poi, ch'egli
ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano
in diverſe parti del corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle
ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe, ch’elleno adoperaffero per traimento,
ficome fin ' a' dìno ſtri han follemente creduto, e inſegnato le ſcuole; ma
qual maraviglia, che ciò Ippocrate aveſſe affermato, s'cgli ſcriſ ſe ancora nel
libro della natura del fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito
freddo, e ſe ne nutrichi: Távce δε, σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα
ρήγνυσι, ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ, και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον
έλκα ες έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής, αφ' και τρέφεται. Νce
vero cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quan Ι
314 Ragionamento Quarto 1 quanto gli faceva luogo per la medicina;
concioſliecolache dubitar non ſi poſſa,che molte, e molte coſe di notomia, che
neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale,igno te affatto gli foſſero;
imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella il conofeer
chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie, le itrade del chilo, l'aggira
mento del ſangue, la fabbrica, e gli ufici delle giandole, e altre, e altre
molte coſe, delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai; nondimeno avvegnachè
queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina ignoraffe Ippocrate, non
ſi può negare, cheegli molto nous'avanzaffe ſopra tutti gli altri medici
de'ſuoitempi, per quel, che noi fappiamo, il che da altro certamente non nacque,
che dal talento natu Tale, che egli ebbe adatto aſſai al ineſtier della
medicina, il quale ajutò egli, e accrebbe ſommamente in coltivan do oltremodo
quella parte alla medicina, molto neceſ faria, qual è ſenza fallo
l'offervazione; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore; perchè ebbe a
dire di lui Ga lieno, ch'egli affai più coſe colla ſperienza, che colla ra
gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le trafandate tutte
altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe; e ſenza ad altro
inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria intorno
agl'infermi da lui medicati; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti
felicità nell’ofſervazioni Ippocrate, che, o per poca dili genza, o per alcro,
che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel, ch'è peggio, anche talora in coſe
agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra,
ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado. Ma in
quella parte poi della medicina, ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel
vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne
meriterebbe una grandiſſima loda, ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente
conoſcere, ch'egli ſtato foſſe molto manchevole, e difettoſo in quel, che più
propio, e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte, ed è riporta
l'eccellenza, anzi l'cf fere Del Sig.Lionardo di Capoa. 315 1 ſere tutto del
medico; cioè nella concezza de'inedicamen ti: maſſimamente di quelli, che tali
veramente ſono, e che da’moderni, ſpecifici chiamanſi; i quali ſenza cagionar
ne vacuazione, ne movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male, e
riſtorar l'infermo; ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli
tanto intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe, rade
volte adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con
yuotare gran quantità d'umori, le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro
vigore. Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper,
tamente da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj, ne'quali ſi
veggon le malattie ne'terminiloro fatali, o in bene,o in male eſſere
oftinatamente terminate; c alcu. na fin’al centeſimo giorno eſſer durata. Si
ſcorge ancora ciò nelle medicine, le quali egli adopera, come quelle che
pericoloſe ſono, e poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio, comea
tutti conoſciute, le cantarelle, di cui egli ſi vale temerariamente in verità
nell'Idropiſia,e in altri ma li dando cinque di effe, e togliendone
ſcioccamente il ca po, i piedi, e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il
lor veleno; e racconta Galicno, ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe
ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial
medicamento Ippocrate, che con peffimo conſiglio e' vuol, che le cantarelle ſi
met tano entro la matrice per vuotarla de’malvagi umori; ove pone egli in opera
ancora l'Aglio, il Pepe, e la Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli, è una
ſpezie d'orpimen to velenoſo corroſivo, cd altre, ed altre cauterizzāti medi
cine; il che volendo ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto
d'Ippocrate una fiata iinitare, riduſſea, pèſſimo ſtato una povera
inferma.Neper altro,che p máca méto ď' efficaci medicine nell'interne
infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin allo sfinimento; c quel che ſi è il peg
gio, e Galieno malagevolmente il comporta contro le ſue medeſime regole,nella
pleureſi,ſe nelle parti interiori ſi ſtea da il dolore, ſolve egli il ventre
coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma و 310 Ragionamento Onarto Ma chi voleſſe
annoverar le mal preparate, violcntise veler noſe oltremodo, c ſtrabbocchevoli medicinc,che
ſuol por re in opera Ippocrate, elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci
meritevolmente l'han poſte in miſuſo. Ne per al tro parimente egliconfiglia,
che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba
dar largamé, te bere,o aceto co mniele, o aceto con acqua: Ineueſten we xex
άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw,vi šče xzi
üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto, e nel ſettimo
giorno ſi debbano por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene
il petto,acciocchèil ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia
fentire: και έτι τή αίματη, και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν
επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι, ως την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn. Ma da
queſto,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il
peſſimo conſiglio, ch'egli da al medico:che non avédo egli contezza del male
adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde; e ſe co un tal argométo ſcemerà
il male,gli addicerà,che curar e'l debba coll'aſciugare; ma ſe'l male non ne
ſcemerà, e ne di verri piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων,ών μη
επί 5ηταί τις, φάρμακον είσαι μη ισχυρό,. ήν δε ράων γένηται, δίδεικται «δος,
εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή, άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila.
Dalle quali parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa
aver Ippocrate voluto in tendere, che il medico,non ſappiendo qual male
l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine; e che altro per Dio
avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari
infegnare Magli ſcherzi laſciádo, intorno a ciò certaměte parmi più faggio
aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma
Ic, altro farnon debba, ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta, e
intáto ſtar cauto, cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal fotcilmente
avviſare. Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate, per guadagnarſi il
buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici, cheabbiamonarraci,
coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir
cercolla, perchè diede opera grande agli arr tivedimenti, e ne ſcriſſe molti
libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli inſogni; opera ridevole
allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon, che lo gnando
færnetichi; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare della
Scala, che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento. Divulgò altresì
Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento, in cui
no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza, o law fua malizia. Quelle
cofe, ch'e' giura Io non le reco; ma ben può ſcorger ciaſcuno,che elle vi ſono
poſte tutte per farlo credere huomopio, e divoro, non altrimenti, che Ser
Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono
baſtevolitanti se sivarj artificj, ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome, e che,
come egli mede fimo confefſiz, più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare e ’ no
riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo, dal non aver lui
avuto niuna contezza di nobili, e va loroſe medicine, per le quali egli in
pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe, qualora in qualche
finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene
Ippocratc, ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni, i viluppi, e
l'incertezze della ſua arte, e qua to poco ſia il frutto, o'l giovamento, che
poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre; perchè egli ſcarſo anzi che no mai
ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci;
temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe; ne coſtumava egli,
come ab biam veduto, trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da
grandi, e interne infiammagioni accompa gnate: ne purgar coſtumava, ſe non ſe
molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol
tremodo biaſimato dalle genti minute, le quali giudica vano, comechè grave
foffe, e di riſchio il male, eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo, ſolamente
per la tra. ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel ſe al tempo
con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fat 318 Ragionamento Quarto 2
fatto riparo; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per
coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti, e varj medicamenti,ficome egli
narra, adoperavano, non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men, che tutti i Ga
lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con
biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato, o proverbiato maiſempre
Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve
duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro
agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti,
erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo, per eſſer lui nelle
febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo; e indi a poco acerba mente cffer
proverbiato Diego Raguſi, perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative
medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava, ne mo
riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine, e
traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato
morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo,
grave crrore, e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no
li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi
ſuole, 1 1 RA 319 1 1 RAGIONAMENTO QVINTO, des S É ſtanco, c anſante pellegrino,
cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti
rivocando, al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al
canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta,or indilettevol poggiore fpirãdo fi
ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi
slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno, e di
vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom
crede, in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante, e tante Iſole, acciocchè
quando a'Soli più tiepidi s'accolgono,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro
lunghiſſimi voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o
Sig. poichè sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le
ſcuole de più famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam
noi talora interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più,
che vie più ſghembo, e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam
laſciato, orci ſi fa innanzi; imperocchè ab } bia 320 Ragionamento Quinto biano,
ficome avere potutofin'ora comprendere, piena mentediinoſtro,ſe'l mio avviſo
non m'inganna, a quanto mal riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun
fifte ma di razional medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri
appreſſo andrein diviſando;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più
grandemalagevolezza s'incontri; imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi
non ſe ne ſerba, e quelle poche, e intralciate memorie, che di eſſe abbia mo,
maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro
dottrine; imperciocchè quel buon huomo, tra perchè non l'intendeva, e anche,
perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare, e porre a fondo ogni lor fama, e
gride, cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a gran pena illor
intendimento ſe ne può ritrarre, Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò
ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor
dottrina ſtacciando, ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento. E
tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio,di Diſippo, e d'alcun' altri
ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj, e diverſi ſentieri avviandoſi, a varie,
e diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial
tro non ho che dire, ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa
crattatida Eraſiſtrato: darem comincia mento dal famoſo Diocle. Dico adunque,
ch'e' fi puòbé ammirare, e commendare la ſua grandiflima corteſia, o umanità
veramente ſingulare, colla quale, come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea con
gl'infermi; ma tion già la ſua dottrina, eſſendo molto rare quelle notizie, che
a noiper venute ne ſono; ſi legge nientedimeno ancor oggi una ſua cpiftola del
inodo del conſervar la ſanità, dove permio av viſo non ha coſa per cui meriti
egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e particolarmente da Galicno
sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto chesì fatta piſtola Gia
degna di quel ſapientiffimo Principe, al quale ella è fcrit ta; vi ſi ſcorge
tuttavia, che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia, e che ben poco egli
gradiva le compoſte medi cine Del Sig. Lionardo di Capoa 321 را cine, e che non
moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo
Galieno, egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo, e'l freddo,
e'l fecco, e l'umido; de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e'
vuol, che fieno. Dottrine, che quanto dal vero modo di filufofare vadan
lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone, non fa lungo, ch'al prefente
più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento, e ben acco cio al
filoſofare ſi foſſe, non però di meno, o per manca mento di maeſtro, o di guida,
ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto, o per altro, che ciò operato aveſfe;ſconciamente
laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli della dialettica, sì, e tal mente bambo,
e ſcempiato ne divenne, ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere, non
eſſer altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem
braſſer molto probabili fue ragioni, nondimeno da colui, come troppo durauna
talopinione, e come ripugnante, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte
bialimata, e rifill tata. Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli
s'avanzaffe Diocle, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando
favella della malattia ipocondria ca, di cui un libro ben'intero e compofe, il
quale ſcëpia to, emancheyolc ftimnafi per Galieno; ma che che nedica colui,
degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro; imperocchè ci fa
vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della
medicina, da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con
ghietturando le cagioni delle maraviglioſe, e ſtrane appa senze di quel male.
Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro,
che ſon travagliati da’mali ipocondria ci, non quelle venc, che ricevono
l'alimento dal ventrico lo, abbian aſſai più calore del convenevole, e'l ſangue
in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto; concioliecoſachè cerca coſa ſia le
menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi
dall'alimento, ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce, e nel
ventricolo, indigeſto ri Sf inane; 322 RagionamentoQuinto mane; quando davanti
per li meati ſi ricevea,e per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava al
ventre, come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa, quandoil giorno ap preſſo
così guaſto ſi rece, per non eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo; mache'l
calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole, agevolmente fi
ravviſi, così dall'in focamento, che a loro avviene, come da quelle coſe,che
anche lor li danno; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i
quali ſogliono certamente rintuzzare, e fpegner in parte il calore: τες δε
φυσώδεις καλεμόες, υπολαμ. βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν
ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι
τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το
σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων
αναλαμβανόντων, τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία
εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του
καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς,
και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα
το θερμόν καταψύχων, και μαραίνουν σωθεν. Soggiugnc indi appreſſo Diocle, che
affermino al cuni eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto. maco,
la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente
oppilarſi, e vietar, che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno,
e ſtabilito; perchè dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto
maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e l'altre coſe tur te, che menzionate
per lui in prismafi fono: Λέγεσι δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της
γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν, δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι,
και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα
δε γιγνομένα, πλείονα χρόνο του δέον- έντή γατε μένονά, τους πάγκες
παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα πποειρημένα, Egli vien Diocle
ripigliato da Galieno, perchè infra le tante coſe, ch'egli in mezzo produce,
del timore, c della triſtezza, che propie ſono delmale ipocondriico, e'punto
non favelli, ma Galien medeſimo diciò poi lo ſcuſa, fog giugnendo dallo ſteſso
nome del male farli ciò manifeſto, imper DelSig.Lionardodi Capok 323 impertanto
Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la
maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò;maſolamente forte fi maravi
glia, dicendo eſſer una quiſtione degna da fare, perchè non abbia Diocle recata
la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione,
s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere; imperocchè
ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di produrre in
mezzo coſa,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe
certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno, il quale così ſcon ciaméte
ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo
da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono
molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof
ficcofachè in priina, per tacer d'altro,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore
nello ſtomaco, o nelle parti vicine, ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano
in coloro, che pa ciſcono sì fatto male; perchè convicn certamente giudica re,
che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto
del male medeſimo; la qual certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere
l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì
fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro. Gli
argomenti poi, che reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli
fieno, e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica; concioltecofachè ogn’un per ſe
ſteſ ſoconoſcerpuò, che da cibi, chefreddi egli appella,ſovés te ſaccrefca
oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche
parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol
lor fora mentazione. Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle
vene, le quali picciole nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando,
perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue,
s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto
cómendara, e tenuta in pregio dal vulgo de medici, SI 2 che 324 Ragionamento
Quinto le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare. Ma fievolej molto
certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli
ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate, perchè l'alimento al corpo in lor
non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare, che non diſtria
buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar
potrebbe, e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima
vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va
filoſofando Diocle; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile
dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al
corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna
chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga. Mavi dovea altresì por
mente, e inveſtigar Diocle, onde avve gna, che'l cibo nello ſtomaco degli
ipocondriaci,indigeſto rimanendo,non n’eſca fuori nel tempo uſato; ma certamé
te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne avrebbe
di leggieri ritrovata per avventura la ca gione; e tanto più, che pur egli
avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica, e ſtitica acetoſità, la
quale non permettendo, che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa,e ſtrigne la bocca
del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto calari
cibi agl'intcftini. Ma laſcia do di ciò più favellare: non ineno e' ſi ſcorge
il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice: appo
Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala, noi
Prey Movad,sy 6x6õves, cioè: le cose, le quali a noi manifeſtamēte fi fă
vedere,additano le nafcofe: poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle
infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi; dal che certamente egli vuol cavare
Diocle, che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le
menzionate coſe, ficno entro al corpo elleno, o altro fimile, che colla febbre
parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di
Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le
quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges,na es' Del Sig.Lionardo
diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG.
και παρά το άγονον είναι το σπέρμα, ή καλα παράλυσιν των μορίον, κατα λοξότη
του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv
porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui,
contro quel, che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia,
d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole; al che cgli poi
aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa
quella ſia: arquatum morbum, ſono parole di Celſo, Hippocrates ait, fi poft
feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus
tantummodoprecordiis fübftantibus; Diocles ex toto, fi poft febrem oritur,etiam
pro defe, fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate
la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta. Coltivò egli poigrandemente
la notomia, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava, poco felicemente nel vero;
non però di meno cgli in ciò è da commendare;m2 séza fallo poi a ſommo onore
attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con
un libro partia colare al mondo le coſe, ch'egli avviſate avea nel far no tomia
degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe
deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to, c in pregio tenuto da
Galieno, il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina
eccellentiſſimo, e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle
coſe naturali. Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo
da quel, che di Diocle noi teltè fas; cemmo; poichè iinitando in ciò Diocle,
portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità
appellate dirivar tutte l'operazioni della natura; e con queſta credenza
camminando avanti, di neceilità dovette, da uno in altro crror tratto
inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli
ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai
ſempre in biltento il lettore. Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur
di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne
ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima, per la grandifinna incertezza
di quel la; onde imaeſtri più accorti, e malizioſi, per non farſi torre in
fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri
ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel
fimo eſemplo agli altri Razionali medici, che dopo lui furono, e
particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare
di render poſſibile l'impoſſi bile, cioè certa, l'incertezza della razional
medicina. Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno, ch'aven do egli in prima
detto, che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie, cerchi
nondimeno egli poi d'in ſegnare, e minutamente additando vada, come per opera
del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli, che nell'
arterie ſi naſcondono; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe
altrimenti Pralſago 11, come dice Galieno, ma ch'aveſse egliportato opinio che
allor, che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie, che ſangue, ma che
infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano; ne potea egli in verità
altrimenti di rc, s'egli pur non era affatto di ſenno fuori. Che ſia vero
quanto lo dico,apertamente ſi ſcorge in ciò, che il mede fimo Galieno di lui
riferiſce, cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma errò
certamente, e in iſconcia guiſa Praſsagora, in portando opinione l'arterie
cambiarli finalmente in nervi; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni
lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole
al lor Ariſtotele, il Cefalpino, il Reuſnero, e'l Marziano; ma di non poco
biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano, e
crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli
infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare, e dopo il vomito gli
li tragga il ſangue, emol to forte gli ſi premano collc mani, il ventre, e
gliinteſtini, cal nes Del Sig. Lionardo di Capoa 327 e alla per fine poi col
ferro ſi taglino; ond'ebbe a dire ra gionevolmente Celio Aureliano: quo
probatur magnificam mortem Praxagoram magis quam curationem voluife fcri bere;
ſenzachè vié egli tacciato dal medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel
curarlo degli ſconcj rimedi d'Ippocrate: Aliquos etiã poft vomitum
phlebotomat,&vento perpodicem replet, ut Hippocrates. Item libris de caufis,
atquepaſſio nibus,& curationibus vinum dulce dari jubet, d rurſum
Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia peccata. Macon qual eccellenza di
dottrina, e con qual artificio pervenir aveffe potuto al principato della
razional medici na il celebratiſſimo diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico, chi
farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì ſcarſe memo rie, che di lui ne ſon
rimaſe? Io permeſolamente, e ap pena ne lo quanto per Galicno all'avviluppata,
eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi afcrive ciò a ſomma losa,cioè che
raffermaſſe egli quanto in prima diviſato avea Ippocrate de’quattro umori; la
qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi jarra egli, ne fa apertamente vedere,
quíto troppo grofa ſolanaméte foffe căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no
dimeno pur ſembra, che qualche ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e
oſcure egliſcorgeſſe allor, chej porta opinione, che le digeriſca il cibo nello
ſtomaco putrefacendoſi; il che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a
lui, che non avea contezza niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco
non maiſi ſcioglie, e muta natura, fe non vi concorre l'opera d'una pronta, c
velociffima filoſofica putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia
de'medicamenti, macom'egliin ciò li portafle al cri.per meve'ldica. Ma
trapaſſando ad altri, Io non potrei dire,ne'l mio det to ritroverebbe
agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra tutt'altri Principi della Razional
medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E certamente degli ſtudi della notomia
egli mol to ſi conobbe, e gli poſſon ceder ſenza contraſto la maggio ranza non
pur Galicno, ficome giudica dirittamente il Vera ma quant'altri notomiſti
prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio, cii 328 Ragionamento Quinto cia tutta
fiorirono. E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e tanto
minutamente, che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni, delle
diftinzio ni,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate
fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo, e riveriya. Ma il
tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol
damnaggio; e quinci forſe avvenne, che molti, o sfidando d'intender pienamente
le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio, comevani, e inutili
arzigogoli avendole, ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua
dottrina ritro vò inolti, e gravi ſeguaci, e fù aflai commendara; anzi narra
Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della
dottrina d'Erofilo. Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro
alla notomia abbia apportato Erofilo, nondimeno fembramifarfallon da Ro. manzo
quel del Falloppio: Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere
Evangelio.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a
fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier
ve ne foffe, a tutti gli antichi, non la perdonando ne meno al ſuo divin
Maeſtro Praſagora. Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille
parecchi volumi del modo, come ſe nc debbano imedici valere; il che fu gli
agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove,
e fperienze;per le quali non ſi può ne gare, ch'e'non merti grandiſſima loda;
comechè non cſen do a noi pervenute, niuna utilità del mondo abbian potu to
recarci. Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee;ma egli traſcurato,
sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura
d'ilveſtigarne il lor proceſſo, e l'uſo; ma di cotal negligenza è
fomigliantemente da accagionar Ga lieno, e tutti quegli altri notomiſti,
chedopolui anche ſe ne rimarono. Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu
quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal
pettorale, non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion Del Sig. Lionardo di Capoa.
+329 fcionne il penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di
così gran fatto ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe
lice in ritrovar coſe grandi, e maraviglioſe, o molto com mendevoli in
ſagaceNotomilta; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri,
ma eziandio vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi
tuperevole, e degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio,
e a far conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto
delle naturali, del le divine, e delle umane leggitraſandando, oltre palli law
crudeltà d'ogni più fiero tiranno; perchè a gran ragione certamente ebbe a
gridare il gran Padre Tertulliano: He rophilus ille medicus, aut lanius,
quifeptingentos exſecuit, ut naturam ſcrutaretur, qui homines odit, ut noſlet.
Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato
aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un
cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum alvum, atque
præcordia incidi, & falutishumanæ præfidem artem, nonfolumpeftem alicui,
fed hanc etiam atrociffimam inferre. Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella
materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò d'illuſtrare, e
di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a
diſiderare; ma tanto, e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re, che meritevolmente
forſe perGalieno,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo, e proverbiato;mad'altra
parte per altriſommamente commendato, come ſi può ve. dere in Plinio. Arteriarü
pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas,
per atates, fta bilis, aut citatus, aut tardus defcriptus ab Herophilo medici
na vate miranda arte. E queſto accrebbe in modo la ſua fama, e buon nome, che
nulla più; promettendoſi cgli, e dando altrui ad intendere, che col mezo
de'polli, com' ab biamo con Galieno accennato, poſſanſi avviſare ancor les coſc
impoſſibili a conoſcere; come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia
farei medici coll'orinc, colle quali fa Tt cean 330 Ragionamento Quinto 1 cean
veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati, e de’lani; di che ancor
qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia, e altrove ne rimane. Mache /
a'tempi noſtri in va rie.guiſe noipur veggiamo da qualche medico ſcaltrito
porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e laudi non ordinarie.
Ne è da maravigliare; perciocchè il mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai
uccellato; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande ſtima, chevien fatta
della Srologia, e della Gabbala, e d'altre arti vane, e ſu perſtizioſe; e tanto
prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila gloria d'Erofilo, che
di baſſo, e rintuzza to intendimento', e come della ſua dottrina incapaci venis
van giudicati coloro, che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola; perchè diſſe Plinio
di lui favellando: nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta
facendo parole: deſerta hac Secta eft, quoniam neceffe erat in ea literas
ſcire. S'af faticò parimente Erofilo, come Galien riferiſce, in inve itigar la
natura dell'erbe; e dir ſolea, non haver così gra ve, e pericoloſa malattia,che
non ſi poteſſe coll’erbe curare; ma non però di meno il valor di molte di
quellenou effer conoſciuto, e alcune di loro gran virtù avere ', le qua li
tutto dìda noi fi calpeſtano: inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita video
exiſtimare, nihil non herbarum vi effici poffe, fed plurimarum vires
effeincognitas, quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina, à quoferunt
dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima
ſtima Erofilo dell'Elleboro; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo
Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano; perchèturbate egli
avendo en tro il corpo tutte le coſe,foffe poi il primoa uſcirne: elleború
fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat; concitatis enim intus omnibus,ipfum in
primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca, o niuna contezza aveſſe
Erofilo di quelle nobiliſſime medicine, le quali ſenza recar moleftia, e dan no
niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe, e feroci ma lattie: e ch'egli
altresì ignoraſſe ilmodo, per lo quale la fciandogli intera la parte
giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elle Del Sig.Lionardo diCapoa. 331
Elleboro la velenofa; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e. gli trancaméteafferma,
che l'Elleboro fia il primo ad uſci re; imperocchè talora non li diparte dallo
ſtomaco, e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far
egli all'infermo in prima quanto di cattivo, e di buono nel ſuo corpo ſi
ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo così grande, quale
il ci narra millantan do la fama, Ma doveva Io certamente aſſai prima far
parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare,
e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio, facendoſi
venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato, per non haver
Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato, niuna contezza aver mai dėl ſuo
liſtema; ritrovo ſolamente di lui, ch'egli ſcriſſe, per quel,che ne narri
Galieno, un libro de'medicamenti, de quali egli molti da ſe ſteſſo trovò, Fu
egli Meneçrate così ſuperbo, ambizioſo, e vano, che non volle egli giammai
denajo, o altro premio dagſinfer mi di mal caduco, che guarivano per le ſue
mani; folo ri. chicdea, che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare, e che
col nome di Giove l'aveſſero a chiamare, e come Gio ve il doveſſero
onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro, traveſtiti, chi da Ercole, chi da
Apollo, chi da Eſcula pio, chi da altro Dio minore, a guiſa di Giove con coro
na d'oro in teſta, colla veſte di porpora, e collo ſcettro in mano farſi in
pubblico vedere, 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano Ceſare,
quando, come rac conra Suetonio, con gli abiti d'Apollo fra huomini, e fra
donne rappreſentanti Dij, e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito; Cum
primum iftorum conduxit menfa choragum, $exque Deus vidit Mallia, exque deas;
Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera: Omnia fe
à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos, Tt 2 1
Ma 332 Ragionamento Quinto. ! Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea
Menecran te con Filippo Rè diMacedonia, comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè
di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς
εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli
riſpoſe: dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα
στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ. Vna volta
anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da
parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in
altra tavolas allegramente ciurmavanſi, e facevan gozzoviglia. Mene crate nel
principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè, come å un Dio; ma
poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere, ch'egli era huono, comegli
altri, fi parcì dolendofi, e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè.
Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino, i quali comechè
ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno, è da dir
nondimeno, che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina, c che molto
poco altresì valeſſero in notomia; ficome da qualche lor ſentimento rapportato
dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc. Maintra le ſette
più chiare, e più famoſe, che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della
razional medicina (ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger
d'anni, oper girar di luftri) che nelle Città, e nelle Provincie più nobili s
ove la greca fapienza era in pregio, glorioſamente fiorirono: o le pur fi mira
all'onore, alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna
certamente, s'Io pur non vado errato egliſembra, che agguagliar fi poffa, non
che antiporre a quella, che da Crilippo in prima ritrovata, indi per opera di
Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato
ſommamente accreſciuta ne vennc, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente
conghietturare ché te, e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento,
law fpe. d 0 0 1 1 1 DelSig. Lionardo di Capoa. 333 i 1 ſperienza, e
l'induſtria d'Erafiltrato, che di Criſippo,d'A riſtogene, e di Medio nulla
v’abbiam che dire; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da quelle
pochiſſiine coſes comechè tronche, e ſmozzicate, Che fan col duro tempo afpro
conflitto, che di lui nell'altrui opere, e più che in altre, in quelle de ſuoi
einuli tuttavia ſi leggono; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto, e quanto
oltre condotto fi foffe per le più dure, c ſpinoſe malagevolezze dell'arte;
intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta della
medicina; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni
valent'huominicreduto, ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro
nonch’altri, Apollo, Eſculapio,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano
Aleſsandrino,venne appellato meetóvuje @u,c Galieno parimé: e con orreuoli, e
riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate;
chiamando egli l'uno, e l'altro: iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure
alcuna fiara moſſo, o dal zelo della verità, o dall'invidia, o dall'emulazione,
o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui,
ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni; nientedimeno in
tanto pregio, e in sì gran, yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro,
ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere: e di lui favella
più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole; e mi ricorda, ch'una
volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali
il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella: Si compiac cia di grazia
Eraſiſtrato, che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui,
e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate, ela
doctrina di quello. Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco,
ch'egli, comenarra Galieno, ſi foſſe ſtato il primo autore, e introduttore
della vera arte ginnaſtica, e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in
piede ſi ri metteſſe; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per
infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea. Ma
1 opere, colla ! 334 Ragionamento Quarto < + 1 Ma qual maniera egli tenelle
Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e
naſcoſe, e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi
bili, malagevole molto egli è ad avviſare; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente,
ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare, e oltremodo ſchiyo, anzi nimico
di far pompa appo il vulgo di mentito, e apparente ſapere; onde mai non ſi vide
ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta, e praticata, delle
facoltà, e d'altre fimili vanillime novelle, e ciance, le quali non altro in
verità, che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli, e inviluppate
tenzoni della filoſofia, e della medicina; nella qualcoſa,comechè ne doveſſe
Era fiftrato con ogni ragione, s'Io pur diritto eſtimo, ſomma lode ritrarre,
malignamente troppo in verità, e a gran for to funne ripreſo, e vituperato da
Galieno; il quale oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo, e a
biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re, duro, e
implacabile avverſario dell'opinioni d'Ariſtote le, nulla curando, che ſuo
avolo ſtato e' fi foſse; col qua le, e coʻPeripatetici in una ſola coſa
convenne, ciò fu nell' affermar coſtantemente, che per la natura niéte a caſo
mai vegna fatto, e poſto in opera.. Ma non rammentò Galieno, che Ariſtotele, ed
Erafi Atrato convengono bene inſieme anche nel dire, che le re ni, e la milza
non fervano a coſa niuna; ma della milza. prima di tutti ſcriſſe colui ad
Ippocrațe, parlando della na tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα, πάγμα μηδέν
αιτίμο». Furicevuta una tal opinione da Rufo da Efeſo, il quale dif ſe,che la
milza foſse anánt, ni avevéeyn,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato, come que’,
che diſsero, che la milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue,
tör το σπλάγχνον περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu
xensă girsar, Ma benchè Erafiltrato sì grande, e sì valent'huomo ſi foſſe, e
che tanto dalla natura foſſe favo. reggiato, e di rari doni, ç maraviglioſi
arricchito, c per ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe
dellam! natu 1 DelSig.Lionardo di Capoa 335 matura, e che colla altezza del fuo
anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè
per addietro pervenire altro intendimento mortale: e coll'e ftremo diſua poſſa
di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina
ſommamente perfecto, e compiuto; nientedimeno più d'una fiata dal diritto
ſentier della verità inolto, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune
ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne
vegna da Galieno', e in alcun con aſſai fievoli, evane ragioni riprovato; il
che ravviſa no talvolta, e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti
ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien da Galieno
aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che nell'arcerie nello
ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue, ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo
lui:e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro; coſa', della qua le, così
evidentemente ne appare il contrario, che forte mimaraviglio, comeGalieno
quantunque abbondevole d'ozio, e di ciance aveſse potuto darſi briga di
compilare un libro intero per impugnarlo. Ma, o Quanto è'l poter d'una
preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi
inavveduramente traſcorre. I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo,
neper evidenza de'ſenſi, che loro apertamente additaffe il contrario,
abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non
altrime ti, che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno
ſolevan eglino ammirare', e venerare; avendo per vero, e ſaldo, e indubitato
ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia; egli è da creder, che
dall'o pinion, che reſtè abbiā noi rapportata, prendeſse cagione d'inſegnar poi
Eraſiſtrato, altro non eſser la febbre, che un movimento inuſitato del ſangue,
che dalle vene, dove naturalmente riſiede, all'arterie tragittiſi: e cheſicome
al lor, che non ſoffiano i venti, pofa abbonacciato, E nelſuo letto il
marfenz'onda giace; ma 330 Ragionamento Quinto ma ſoffiando poi fortemente
Oſtro o, Aquilone enfia, ed eſce fuori impetuoſo, e rapido dall'uſate ſue ſpon
de, e inonda, ed allaga le piagge tuttc, c le campagne vici ne; così anche, fe
non v'ha coſa, che l'agiti, o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle
vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio, o per altra cagione ſoſpinto, e
agita to mai venga, sboccando ſubito dalle vene, ratto all'arte rie diſcorra, e
ſe quindi dallo ſpirito, che in eſso dimora ſia altrove riſpinto, vada a
fermarſi, e ſtagni in quelle cic che ſtrade, dove terminano l'arterie; e quivi
riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà l'infiainmagione; e la feb. bre; ecco
le ſue parole rapportate da Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός
ας του τα πνεύματG- αγγείο απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης,
αν μηδέν αυτήν κινη ήρες μί, ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν, τότε εξ όλης
κυκλεται. ούτω και εν τω σώματι, όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο
αγγα των πνευμάτων, πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα. Αrtifciofotis trovato
nel vero, ma che appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far, cheda
ſe ſteſso non crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che
immagina. alcuno, ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d '
Eraſiſtrato, e chemal'inteſi, e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto
più, che come Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri
diparole obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni; e che perlo ſpirito egli
abbia? intender voluto un ſangue ſottiliſſiino,e di quelle particel le, onde ſi
forman l'etere, e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto,
certamente ſi deecgli credere, ch? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato
fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche
menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da
preſso: imperocchè ravviso, e conob be, che dalle vene all'arterie, comechè vi
lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue; il che diede poſcia ca
gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene. Qui
riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, con Del Sig. Lionardo di Capod. 337
-- to; comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe, merce che non già alla
Grecia, ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello ſcoprire
l'aggiramento del ſangue. Oltre a ciò ſi pare,che ſommaméte lodar ſi debba
Eraliftra 10, perchè al ſuo grande avvedimento, e induſtria aſcon der no li
potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando, che quel ſolamente
ſerviſſe a nutricare i nervi, ſe è vero ciò che ne narra Galieno. Conobbe
ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe l'uſo;
s'accorſe egli anche, ed è egli non picciolo ſuo vanto, che'l reſpirare non
diedes già a noi natura, comeimmaginò con Ippocrate, Diocle, e Ariſtotele,
Perchè'l caldo delcor temprato fia. Ma non potè penetrar egli nientedimenoil
vero,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali fieno ſtati
formati sì, che debbano reſpirare; imperocchè contendes Erafiltraco, che la
reſpirazione ad altro non vaglia, fe non fe a poterempier d'aere Parterie;
coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana,cheimutilmente
colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato
aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer
cópofto, pur contenga molte, e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto
agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere, e della refpi razione
neglianimali; imperocchè avviene, che nel ſepa rarli dalſangue la parte più
ſottile, e per così dire, ſpirito ſa, ſi faccia anche neceſſariamente
ſeparazione di varie al tre parti groſſe;come nella formentazione del moſto, e
d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi; queſte groffe porzioni, forza
è, che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no, o nell'acre, o in altro corpo
ſimile, il quale contenga pori acconci a riceverle, e che ricevutele, ſia
valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto, che al ráno
s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van
via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo, quancunque aſſai
menomo, non fao V u cel 338 Ragionamento Quinto ceſſe nel ſangue una cal
purificazione, intoppando agevol mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe
porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente
coſtretti ad abbandonare il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti
corpicciuoli aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì
vo lanti, tra le quali viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti,
come quelle non incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni; e ſe
vi ſi aggiugnerà qualche altra circonſtanza, onde, e l'uno, e l'altro movimento,
e di formentazione, e dicalore rieſca grande, e notabilmée te impetuoſo, allora
cgli grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione: per lo che non
baſtando. dilatare, il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che
inceſſantemente negli animali per li pori trapela, abbiſo gna, che altra aria
mediante la reſpirazione fi beva; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe
Eraſiſtrato, che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione,
maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante
non ſarà molto grande, ne verrà da notabile, calore accompagnato, allor
l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno, e baſteragliquello, che, o colla
ſola traſpi sazione, o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione
ſuccerà;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè
nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja, vi ſono
impertanto parecchi, e parecchj aliti, i quali cosìdalla terra, come altronde
gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci,
adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che, o
nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la
formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a
ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito,
rimangono i peſci poco ftanto privi di vita. Nell'uovo poi, e nell'utero
eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi, e maſſimamente fra queſti
il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise DelSig. Lionardo di Capoa
339 li; e pieghevoli, e poroſi i ſuoi vali, può baſtar ſolamente quell'aere,che
per li pori vi trapela; e ſe mai dal freddo, o da altra cagione vegan chiuſi i
pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa nell'uovo, e nell'utero la formentazione
del ſangue, e ſe ne muore l'animale; ſenzachè non è di picciolo mo mento a
mantener il debile moto formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo,ilpicciolo,e
rimeſso eſteriore caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace, o dal fime gli
vié comum nicato; e come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il
calore del bagno,o del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti, anzi duri,
e fi accreſca nc'liquori la formen tazione. Aggiugneſi, che mal ſi può render
volante quel la nobiliſſima ſoſtanza, la quale continuamente a vivificar le
parti dell'animale dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre
troyanſi quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione. Ma laſciando
queſto ſtare al preſente, forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco; e
altra peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato, la quale a dir il vero
vien portata in sì fatta maniera da Galieno, che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe
inteſa, o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare
quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione,per la quale ſe ne
muojan gli ani mali nelle mofete. Vuole Eraſiſtrato, per quel che ne nar ri
Galieno, che ſe ne muojan gli animali nelle mofete, e nelle ſtanze chiuſe,
einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni, per ritrovarli in sì
fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto, chene fi riceva
dall'arterie, ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima
facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja
neceſſariamente l'animales. Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno, e dice,
che do vea dire più toſto Eraſiſtrato,che ficome nel pane, ne’logu mi, e in
altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria, così ancora
una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna, e amica agli ſpiriti, e un'altra
maligna, es nimica. Vu 2 M2 340 RagionamentoQuinto 1 !. Ma nondimeno conobbe
chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento; onde vien coſtretto a
confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi può vedere nel
libro dell'utilità della reſpirazione; ma che che ſia di Galieno, lo ammiro
grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato, e'l ſuo modo non guari
lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua opinione ſe
ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale, quale la s'im magina, o la
fi dipigne Galieno; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo in ciòse
materiale,anzi che no, facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui medeſimo
in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del fummo de
carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto
fermiſlina opinione,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre,
come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe
egliin tendervoluto, che picciolo, o poco: imperocchè la p.2 rola asfilos,
della quale e' li valſe, ſecondochè dice Galie no ſteſſo, non ſolamente ſuol
eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo
foteile, e che da' Jatini ſi dice tenuis;ma ancora per dinotare,come ſi può ve
derein Ariſtotele, e in qualch'altro autore di que' tempi, quel, che i latini
chiamano, cxiguus, e noi picciolo, o po co diciamo. Or chidomine non fa, che la
dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi
ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate;
imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal
veramente, qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato, ch'egli ſia, cioè troppo
ſottile:con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles
art erie; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte, qu anto più ſottili
ſono, tanto più convenga, che compo he, e formate licno di minutiffime
penetrevoli particelle; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in
dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip
offa volentieri alle arterie; ma entrarvi poi allo incon tro. DelSig. Lionardo
di Capoa 341 tro malagevolmente vi potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo
venga con copia grande di denfe, e groſſe fo ſtanze accompagnato. Ma non ſi
ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante ciuffole, e anfanie Erafiltrato,
ro con diligenza degna d'un sì grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla
natura delle mofete; perchè agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera
cagione, per liza quale in quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta
eſſer una diſcorréte ſoftāza più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè
nõ umida, in altro poi non guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della
mofeta unirſi nella guiſa me deſima appunto,che veggiam infieme unirki i
zampillidel le acque, e mátenerf nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti
infieme, e congiunti, che que' dell'acqua nelle fon tane fi facciano; e non
altrimenti che l'acqua incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la
mofeta. Errò pari mente Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al.
tro, ch'un accozzaméto di ſangue rappigliatose raſſodato, da che la carne è
veramente un compoſto di picciole, c mi nute fibre; e di fibre parimenté vengon
formate le piccio liffime glandolette, che ſparſe perentro, e ſeminate vifo no;
c quantunque la carne del fegato, e della milza paja, nella prima viſta una
mafſa di ſangue, pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua
a macerare, faccia, che ſe ne ſepari quel ſangue, che vi ftà meſcolato; che
allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma
paſſando ad altro, che in Erafiſtrato lo ho ritro vato; egli mi ſembra, che ſi
foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri, in
quella guiſa, che s'è da noiaccennata; non conſiſtendo verame te in altro la
natura della febbre, ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario, e non
naturale del ſangue; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia, anzine men cura,
per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando, come a
razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire; il che avrebbe
potuto fareegli age vol 342 Ragionamento Quinta 1 volmenteper avventura,ſe li
foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia; ne gli mancò, al mio credere,
ingegno, ne animo ad una tanc'impreſa acconcio; ma gli vennero meno gli
ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta ſomminiſtrar gli potea
Ma che cheſia di questo, non potè celarſi all'acutezza del ſuo intendimento,
che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal calore; ma inveſtigar nondimeno,
e rinvenis non ſeppe egli mai que' ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo
ſidivide, e li rompe in minutiſſime parti nello ſto maco; e comeche conoſceſſe
ben egli ancora il ſangue non eſſer da ſecaldo, non potè egli nondimeno però
penetrar mai, onde, e come il ſangue caldo diveniffe, e fi conſer vaſſe negli
animali. Maper far qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere: egli
maneggiò l'arte Eraſiſtrato così magnificamente, che niun'altro tanto mai più,ne
pri ma, ne poi, per quello, che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne.
Ma egli non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere, colla gran fua
diligenza, e induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la
qua le al maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo, avendo egli dalla vicina
morte ſottratto, e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima
malatcia del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode
così fa, vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del
fiſico gentil, che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è
per Dio, che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la
fortuna. E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato, e in vece
dell'oro, delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale,
ch'e'guadagnonne, obbrobrio, e vituperio eterno riportarne? Ma in ciò imitar lo
volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche
e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade
ballerino; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato Del Sig.Lionardodi Capoa.
343. rato il medeſimo Erafiftrato, ſe pur tale appunto andò law biſogna, qual
egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei viliſſimadonnicciuola,
non ne riportò Galieno, ſe non quella gloria, ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce,
in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente. Ma per toccar qualche coſa intorno alla
maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi pare,ch'egli nonmolto ſi Je i
Salopsi ſoddisfece, ne troppo ſi valſe delle purgagioni: delle quali affatto ſi
tenne egli nelle febbri; e dar ſolamente le ſolea in altre malattie,
che'lrichiedeario; ſi portava egli sì fattamente con gli infermi,che ſenza lor
molta moleſtia, e riſchio alcuno recare, e ſenza porgerne loro cagione, fol con
iſtrettamente cibargli, felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle
purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che
Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato, ftudioſſi egli ancora di ridurre
alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme la greca me dicina; vietando
ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a poco in tutte le ſette della
medicina introdotti; per chè ſi vede chente, e quale e' fi foſſe il valore, e
quanto grande l'animo di Criſippo, e d'Eraliſtrato, i quali ebbero ardimento
primieramente di far fronte all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare
una già quaſi preſcritta uſanza nella medicina. Ma le ragioni delle quali
eglino fi valſe ro a ciò perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na
egli una ſola d'Eraſiſtrato: la quale ſiè, che nel ribut tamento del ſangue non
ſi dee ſegnare, acciocchè per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il
medico a cibare fuor di tempo l'infermo; e in ciò loda grandemente egli
Criſippo ſuo maeſtro, il qual dice, che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo
alpreſente, ma all'imminente male anco ra; concioſſiecoſachè al ributcamento
del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia l'infiammagione, in cuiilcibare ric
fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo a' poveri infermi; ed egli è forteda
temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo dee portar la famc gran tempo, non
vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne, che per sì fatta maniera adoperan doni
344 · Ragionamento Quarto doſi nel medicare Crilippo, n'acquiitaſſe lode, e
gloria immortale. Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato, Io no'l
ſaprei diterminare; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a Galieno;
cercando egli, come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci, a
diritto, e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria, e la
famad'Erafi ſtrato; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia
(trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da
Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato; ma da Galieno
me. delino per avventura fognate. Maegli ſi dee fermamen te credere, che non
poteano mai, ne Criſippo, ne Erafi. ſtrato, ne Medio, ne Ariftogene bandire,
introdurre, mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era
comunemente in uſo, ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili
ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità, e
non da vaghezza alcuna; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri
avvenimenti delle malattie; e forſe Criſippo, o pure Erafiltrato qualche libro
particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice
chiaramente una volta, che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi,
e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza. Ma quando primieramente cominciato
foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro, o col morſo di
velenoſi vermini le vene, e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a'
preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la
vita, egli è coſa malagevolen aſſai nel certo,anzi per avventura impoſſibile a
diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare,che'l crar
ſaugue,nemolto nepoco, ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci
in uſo niuno noirera; ne Ome ro, il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più
menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza,
e magnificenza convenevole all'eroico poeta, livi de giammai far mézione alcuna
del ſegnare nella cura del le fe. DelSig. Lionardodi Capoa 345: le ferite di
Marte, diMenelao, d'Euripilo, e di Macaone; perchè, per tacer d'Achille, e di
Patroclo, ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali
intorno a tal convenente per Celio Rodigino, ne Chironę lor maeſtro, ne
Eſculapio lor padre, ne Apollo lor avolo, ne Peone medico di Giove conobbero,
e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i
Gre ci trovaſſero, o pur da altri popoli l'apprendeſſero;macer tamente ciò non
poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap parare, i quali per teſtimonianza di
Socrate,da noi altro ve apportata,non ſi valfero mai di rimedi pericoloſi; ne
ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro, come avviſa Dio doro, altra ſorte
dirinedj non ebber mai in uſo, fuoriſo Jamente, che criſtei, digiuni, purgative
medicinc,e vomi tive. E ſi pare, che dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai
ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui
paeſe, che poco cede in grandezza all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel
numero degli abitatori,non di vide mai, comedicemmonoi già, trar ſangue in
infer mità vcruna; il cui eſemplo han ſeguito quei della Coccin cina, del
Giappone,e tutti quegli altri popoli porti in quell' eſtremo tratto della terra,
che bagnata viene dall'Oceano orientale; e in modo tale abborriſcono i Cineſi
medici i falali, che ne i Saraceni, allora quando i Tartari occupa rono quell'
imperio, neinoſtrive l'han mai potuti intro durre.? Ma che che ſia di queſto,
chi poſe in uſo primiero il trar ſangue, Io immagino, che fi movcffe, e ſpinto
vi. foffe, non già come immaginò Plinio (ſeguito in ciò fol lemente dalMontano,
e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume; non eſſendo miga vero ciò,
che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere
forſe, che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici, o da altra
parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare
nella Grc cia, checonvenne, che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi
landaſſero a poco a poco riſtrignendo, sfidando per It' ! 346
RagionamentoQuinto d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe
fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni, colle
quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato, sì fatta opinione difen dere. La
vita degli animali (dico ora vita, largamente parlando x quello, ſenza cui al
corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima
accoppiar ſi, o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra, che in altro ve ramente
non confifta, che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente,
che in alcuni animali in vece di quello (i mira. Coſa, la quale non può punto
dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali
anche manifeſtamente la vita; perchè ſe non per forte diſtretta, e neceſſità
quello non li convience vuotar negli animali. Ma delle due maniere, colle quali
il ſangue menomac puoſli, ciòſono, ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi,
che'l contengono, o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo; il trarlo
certamente è quello, il qual reca nocimento, e danno maggiore, e più gli animam
li affraliſce; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue, con quello inſiemene
ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali, e del chilo
s'ingenera il ſangue, cin, priina de'cibi s'ingenera il chilo; ne può il ſangue
mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro; il
che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare,
non fa luogo, ch'Io ne faccia parole. Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa
il medeſimo Ga lieno, che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente
coldigiuno menomare il ſangue, non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo
fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia;imperocchè quelle nobiliflime
foſtāze,che detro abbiamo effer nelſangue, ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar
vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano
affai al mantenimento di quel li, cafar laro ricoverar la ſalute; perchè quanto
più gra voſe, e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamen te è Del
Sig.Lionardo di Capoa. 347 O te è il erar fangue, e men fi eonviene.
Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi Galieno intorno al dovere
fcemareil fangue, onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli
infra vane, e inutili contefe: certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le
agli animali, o per ſoverchio di rigoglio, e d'abbondan za, per cui o di
preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia, o perchè egli è sì, e
talmente piggiorato in tutto, in parte, che traligni dalla ſua natura, e non ſi
conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio, e
ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti, etre queſti caſi certiſſima coſa è,
che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue,
chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli
non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che
meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere. E apertamente avviſafi,
che coloro, che fom mamente in ſangue abbondano, ſon più d'aleri forci, e be
atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze, comechè buona coſa
quanto a ſe, pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni
talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue, avvegna chè buona, e
laudevole fia,può talora nuocere, ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo
aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató. Orrel foverchio del
ſangue può táto nella perſona adou perare, che ragionevolmente ne debba temere
il medico, poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo:
potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire. E ſe'l
male è già fufficientemente appiccato, ne di quello il ſangue punto più
s'inframerre; che monterà egli attutar la canapa, acciocchè la girandola già
preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada, perchè
la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al
male, oglirecas qualche impedimento alla cura di quello, può bene il me dico
avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1: { so 348
Ragionamento Quinto laſſo, con imporre all'infermo, che più o meno fi riman ga
da' cibi: o più, o'meno, ſicomcli conviene, menomar lo. Nein ciò è da
riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno, cioè, ch'alcuni corpi
v’abbia, i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer
egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici; '.
concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia
gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no, qual G ſuppone: e che la collcra
non s'inframetta pun. to nelle vene, nelle quali, come altrove diviſato
abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera avvengono,
nelle vene ſi trova: e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole
il ſangue per lo ſmalti mento, che continuo di quello falli: può bene il medico
co medicine, che attutino la collera, e con beveraggi, che non facciano ſe non
ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo; ſenzachè in cotali corpi,
i quali oltremo do abbondan di collera,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate,
e Avicenna,ſon pericoloſi iſalasſi; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle
vene, impoſibil certamente egli ſarebbe, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco:
nel qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan. guc agli infermi,
per qualunque gran male cglino aver ſero, Ma ſe'lſangue è malvagio, o cgli è
per ſe ſteſſo tale, o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde
gli vien comunicata, non che giovi mai il falaſſo, anzi egli è ſommamente
nocevole; imperciocchè, non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il
mále,anzi ne monterà egli maggiormente, c più fiero, e rigoglioſo diverranne,
ufcé do inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze, che di cemmo: le quali
poſſono, e nel ſangue, e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male,
rintuzzarne l'impero:e ſcio gliendo, e aminendandocacciar via dal corpo per
cieche, o per ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il
ſangue. Echi voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene, farebbe come
colui che con trarre ac, qua * DelSig.Lionardo di Capoa. 349 qua da un lago, in
cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora della terra,o altronde
trapeli, voleſſe quelle addol cire. Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo, con
trarne parte, non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re
ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli;
ſenzachè l'infermo, perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze, le
quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare, il nuovo ſangue, cheper
quelle s'ingenera, e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori. E quinci
apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare, quando il
ſangue nella perſona ab bondevole inſieme, e viziofo ritrovali. Ma per farci
più addentro nella preſente quiſtione: l'al terazione, o'l cambiamento del
ſangue, o egli è in tut to effo, o pure in qualche una, o più delle ſue parti,
ość. fibili, o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova; oveche ſi covi il difetto,certaméte
inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo; concioffiecoſachè il l'angue in
guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione, e confuſo ne
vali ſi ritrova,, che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora
col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile, e infiebolita rimaſa, meno
certamente potrà rin tuzzare, e ammendare l'avanzo della cattiva. Ma potrebbe
per avventura alcun dire, incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia
tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva, o dentro a’ vaſi
in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti
ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono, renda
quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare; ne
per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora, o affatto li ſpegno no per
uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona. Io certamente,
ſe ciò foſſe vero, a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi: e non
che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici, anzi a ciò ſommamente confortar gli
deurei 350 Ragionamento Quinto devrei; ma in verità altrimenti va la biſogna;
perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza s'ingeneri, o che altróde a
quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del
ſangue,e per quel della formentazio ne, convien, che quella sì, eralmente ſi
meſcoli, e li ri volga inſieme con quello, che è buono, che ſe di tutti, e due
non ſi ſgoccino interamente i vaſi, certamente non ſe ne potrà egli giammai
tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in tutt'altri vuotamenti avviene, anche
in quelli, chej per più larga bocca ſi fanno, certana coſa è, che allora il
fangue piùpuro, e più ſottile più agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo
ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2 gio; ſenzachè può talvolta ne pori
de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la cattiva ſoſtanza, che per trarne tutto
il ſangue ne mencertamente quindi ſpiccar ſi potrebbe. Ma ſerbiſi pure ella
ſolamente nel ſangue, e per lo cotinuo ri volgimento di quello ella ancora
ſimuova: certamente il caſo ſolo operar potrebbe, che in paſſando per lo
ſpiraglio della vena, trattadalla foga del ſangue ancor ella per la medeſima
ſtrada fuora ne ſgorgaſſe. Ma certamente il co trario tutto di avvenir veggiamo,
maſſimamente nel velen della vipera: il qual penetrato una volta entro il
ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre giammai, ſe non ſe quando di
preſente ſi taglia l'offeſa parte; perciocchè allora non penetrato ancor molto
addentro il veleno, inſieme col fan gue fe n'elce fuora. Ne dee ſempre il
medico avveduto prender guardia d' imitar co' ſuoi argomenti in ogni coſa la
natura; concioſ fiecorachè non può egli ſapere comc, quando, e perchè quella
opcri. Avvien talora, che s’alleggj, o affatto ſpe gnaſi qualche malattia dopo
uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo incontra per avventura, che
la ca gion vera del male, la qual nó avea coſa che fare col sāgue, come altrove
è detto, ſi è tolta via. Talora la cagion del malce nel ſangue: ma dalle
partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto, o poco avanti, e prima,che
mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello mandata; e talora, perchè nel
4 1 1 3 1 DelSig.Lionardo di Capou. 351 Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è
partita: e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le
ſtimola,leapre, e inſieme col fangue n'eſce fuora. Or fe poteſſe il medico mai
per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il
ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle,
impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo
vin cer le malattie. Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo,
ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to, e'l danno è ſicuro, e'l giovamento
molto incerto, che ne poffa all'infermo ſeguire; e maggiormente che rariſſi me
fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar
ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte, che felicemente per
opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion, che parimente dall'arte
ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to
il movimento in giro, o quel della formentazione, allora ccrcamente, non che
rieſca giovevole, ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo; imperciocchè
per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti,
diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti, comechè
fembri, che per ſegnare debban ceflare, fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la
perſona, onde effi' movimenti procedono: non però di meno rimanendo in piede la
cagione non naturale, per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione
nelſangue accreſciuto ſi era, nonſolamentevano ſarà il falaſſo, ma altresì
ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le
ſoſtanze ſpirituali, le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non
naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere, sformatamente accre fciuti ſi
erano; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati, ſi fà grandiſſima
perdita di Sangue: e poco, o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a
quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo
pericolo della vita. Ma 352 Ragionamento Quinto Ma ſe'l ſangue li ferma in
qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni avvenire,
allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli: ma sì ſi dee prender guar dia,
che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò
non ſolamente, perchè il ſangue allor dalla febbre, che s'accompagna
coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi, e perchè poco, o nulla ſidee l'infer
mo cibare: ma ancora, perchè quantunque ſe ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi
fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più,quáto ſarà facto men vigoroſo il ſangue
a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della gola, e della pleureli avvenire;
ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina, o al tra fomigliante coſa ſi
ficca nella carne, che con quantun que ſangue trarre, non ſi può far sì, che
non vi accorra in fiammagione: evi ſi ripara ſolamente con trarne la ſpinews
ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue
rattenuto nella parte offefa, ne viene av montaremaggiormente il male. Neha
luogo niuno certa mente quì, o la derivazione, o la rivulſione, che chia mano i
medici, percui eglino tutto dì ſono a zuffc, eacă teſe in volendo riconciliare
alcuni luoghi d'Ippocrate, e di Galieno: i quali variamente ne favellano;
imperciocchè movendo di continuo il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi
tragga, ſempre ne liegue il medeſiino: c niente ri lieva quantunque l'arterie
ſi ſegnaſſero; imperciocchè vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla
lanciuola, inco tanente nuovo ſangue dall'altra vi diſcorre: ficome in fiue
micello avviene, le cuiacque per varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa
diconfuſo labirinto s'incontrano: E mentr’ei vien,se, che ritorna, affronta, E
comechè i moderni per no li dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi
ſtudjno, e s'affarichino dicoglier pruove; no però di meno apertaméte ſi vede
cheindarno li beccano i geti; per maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a
co feffare, che in ciò deſli ſtare alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più
ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze tutte recate dagli Del Sig.
LionardodiCapoa 353 dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè
ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che
da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e
andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto; e queſta fi fu una
delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse.; el
principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il
Riolano, il Primero fio, il Pariſano,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo:
ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti
affetteimpellatur. Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte
dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento,chegiunſea
conoſcer ja vanità della revulſionc,,.e della dirivizionc,allor che iit facendo
paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus,
&artificialibus: que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena
cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem: do hecconſequutive èvena azygos
cruorem extrahat; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem
æqualiter in venas reftitui: adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari (quodnunquam
) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum. Vnde
manifeſtum fit vanas efle revulfionis, deri vationis nanias: quippe quibus
conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi, Perchè ad
alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza, riguardando per
avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia, i quali prima d'Ippocrate
fiorirono, ma in quel tempo, che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto,
furono così ritroſi, e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle
febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede
nc’libride'luoghi dell' huomo, e in altre ſue opere, fegnò giammai nelle febbri,
ſe non folamente in quelle, che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in
alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te, che da ſegnar ſia con tal convegna,
che non vi ſia feb bre; e avviſa egli oltre a ciò una fiata, che dopo lungo
uſci Y y nicht 354 Ragionamento Quinto 1 1 1 1 1 mento di ſangue dalla matrice
d'una donna, le ſopraven ne la febbre: coſa,la qual veggiamoanchenoi più d'una
volta avvenire. Ne è punto vero ciò che dice Galicno, che Ippocrate porti
opinione, che in tutte acute, egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece
ſachè in quel luogo per noigià recato, in cui ſi conrende da Galieno', che ciò
egli affermi, egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda, ma di
que'ſolamente, de'quali egli quivi ragio na, sì veramente, che ſien grandi; e
imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed, o pure verùm, e noi
diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione
alcuna, e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio; perchè i
ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo, ch'egli falſato aveſſe il
teſto d'Ippocrate. Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli, perchè una cal
ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì
non abbia detto, che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne
men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno
in quel ſuo famoſo decco: che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue,
non fola mente in quelle, ch'egli chiama finoche, ma in quelle an. cora,che da
putrefcenza d'umori fon cagionate. E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a
laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro, e ſtar guardinghi, e
ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella
quartana, e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano,così nelle altre
ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli, o quanto miglioriſarebbon da
eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro;
concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute, e più in quelle, che ſino che
chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo
riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce, e
s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli
ilfalaſſo;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora, e per lo poco ſmaltimento
di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia eſtreina
dimagrano. Ma. Del Sig.Lionardo di Capoa. 355 Ma avvegnapure, che con ſegnare
rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe
non fe di rado, eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo
vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore; non però,dimeno aſſai
ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar
graveme te la perſona, e manifeſtamente porla a riſchio dimorte; perciocchèſovepti
volteincontra, che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la febbre., più coſto
n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor ne'malati: che non
cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al pericoloſo partico
de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione,onde nel ſangue colla
formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto, laſciando in lui quel
la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare? Ma ſopratutto
certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate, e Galieno, perchè eglino
diſideravan, che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo nelle
febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali della
gola, e della punta? perciocchè in quelli, fico me il inedeſimo Galieno inſegna,
ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando
molti ſe ne veggion miſeramente morire, eziandio nel di.chino del male, non
avendo in lor virtù, perla fiebolezza, da poter il puzzo già cotto, e digeſtito
ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del
quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano, non per altro
certamente, ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione, che continuo
coloro fanno: perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri, malli anamente
sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione,
che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli?
Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a
credere i ſuoi Galieriſti; e forſe più per oggia, e diſpecto, ch'egli aveva
nella nimica ſerta di Y y a d'Era 356 RagionamentoQuinto 1 Eraliftrato, cotanto
egli commendò i ſalali, che per ra. gion, che veramente ve'l traeſſe; perchè
con tante leggi, ' e convegne, e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo, che certa
mente delle diecivolte, che i noſtri Galieniſti ſegnano, ſe bé li mir231on ne
ſaran due per avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno
adoperate; e rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono, che ſegnar ſi dovreb
be ſecondo il lor Galicno; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie,
con porre ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano
di trarre a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi
in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor
medeſimo maeſtro. E comechè Galieno, come teſtè diciavano, n'aveſſe una volta
inſegnato, che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più
minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le
maniere di toglier via le febbri, quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto
niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll
treſcenza d'umori; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube
ne favella, tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto, e la paura di non
offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro
rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi
ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo,
ficome e' dicu, quàmin particulari exequatur. Ma non che Galieno die fcendendo
al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi
conformi; anzi cotanto fciocco, ebalordo egli è nelle ſue regole, come già
diviſa to abbiamo, che in preſcrivendole in univerfale, fache ſo vente l'una
all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano. Così nel libro del modo
di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice: lo
dimos ftrerò in queſto libro, che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo,
anziche ne men coloro, ch'abbondan oltre fiodo ia langue, fian da ſegnare, ſe
prima manifeſtamente non DelSig. Lionardo di Capoa 357 fa non ſappiafi. di qual
natura fia l'abbondanza del lor fan gue: e quale lo ſtato dello infermo, e gli
anni, e'l luogo, e la ſtagione, e la complesſion dell'aria ſia: e chenti, e
quali fegniabbia egli patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per
ciaſcuna delle quali convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente
dimoſtrare, che molti ſenza graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano. Ecco le
ſue parole: Εγω επιδείξω κατατον εξής λόγον, και μόνον άπαντας και δεομένες
φλεβοτομίας, αλ' εδέ τες πληθωρικές αυτούς, εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG-,
οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte, xai
megy, noi xwegen wij, satíscos, @osc te thonyera, sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας
καθ' έκασον γαρ τούτωνεπιδείξω πολ. λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν.
Ωltre acio avendo Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato, e altrove inſegnato,
che del ſoverchio ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento; nel
quarto libro poi del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto
affermanon cffer il ſo verchio ſangue indizio del ſalaffo; perciocchè ſe huom
ſa no sformatamente in ſangue abbonda, non è egli si toſto da ſegrare: ma sì fi
dee con purgagioni, e con menomargli il cibo, c con iftropicciamenti e, altri
rimedj ajirtare. Co sì anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo, che
nella febbre ſinoca no debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo
trarre: acciocchè il debito alimento alles parti rimanga, ne fia ſtretto
l'infermo per ricoverar le ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente
nutricare; non però di meno egli medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre
finoca fino allo sfinimento ſegnato. Ma più che in ogn'altronel nono libro del
metodo moſtra affai ma nifeftaméte Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in
torno al ſegnar fia; conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di
preſente a'malati di febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto, o'l
decimo giorno, o altro giorno critico: e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza
ri fpecto alcuno. Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne, che ſe
peravventura da altri medici, o dagli asli ſtenti, o dal malato medeſimo ti
verrà ciò vietato, allor tu: debbi - 358 Ragionamento Quinta debbj imporgli
beveraggi d'acquafredda,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere
ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon
ſi puote, allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere
forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto
poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli
no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe.condo lui ſmaga
la perſona, affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia tremori,
e dibattimenti nel corpo, e cagiona nonpocamalagevolezza nel reſpirare. E ſe
con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a coinmendare oltremodo
gli antichi medici; i qualicosì ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli
in. fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della loro ſete; che non
altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino, o i Principia i lor popoli,
cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi:
certamente Galieno, ſc avelle creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li
febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato,che ripu gnando altri medici, o
gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi rimaneſſe; maſe più a
capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento
avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure
d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce
neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente
egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli generalmente poca ftima faccia de
Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein quelli bro, quando contro ad Eraſiſtrato
maggiormente aiz zato, e riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole,
neceſſario a'malari il ſegnare;allora nel maggior caldo del la pugna, quali
ſchivando la propoſta, che cotanto in pri ma avea preſa per la punta, li
rivolge contro coloro,i qua li giovani, e mal pratici in medicare,
temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo; e sì cutta la colpa ri
yerla 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 359 1 verſa ſopra coloro, i quali quantunque
nel cominciamento del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap
pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli
diſiderar più toſto, che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna
così pericoloſa,e più toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano. Mamol to
aftuto, e malizioſo ch'egli è, ſe per prender riparo di cotanti mal capitati
infermi per lo ſalaito, n'accagiona la tracotanza, e la befraggine de'giovani e
mal praticime dici: come ciò colpa foſſe dell'età di coforo, e non più to fto
del medeſimo medicamento; perciocchè egli dice', e manifeſtamente confeffa,
maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi
morirono, che, di coloro, a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la
per fine egli conchiude, che gran danno, e nocimento agl'infermi apportano
que'medici, che giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar
ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò
baſtantemente ammaeſtrar ne puote: e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli
uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per
ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro
facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori ſtate; ma non così negli altri
rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar veramente alle malattie, e cacciarle
fuora dalla perſona per lor virtù, e giovamento; ficome nelle terzana, e nella
quartana avviſar puoſli: le quali non cede do a’ſalalli; o alle purgagioni, pur
dalla ſcorza del Perù só vinte, e fignoreggiate; perciocchè quella ſolamente è
ri medio acconcio loro,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più
coſto offédono,che giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al
preſente,co farne lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere
niſlimo Cardinal Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe
rimaſta gocciola difangue nella perſona,pur. dura, e oſtinata la ſua febbre non
ceſsò mai, ne rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita. Anno 1641 Noven
bris 300 Ragionamento Quinto bris diſſectum fuit curpus Principis
FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard. Toletani, qui 89.diebus tertiana febri
agitatus obiit ætatis 32.annorum. Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone,
adeoque difettis venis,arteriis, vix cochlear cruoris in cavuum thoracis
confiuxit; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor verò inſtar crumena
flaccidum: biduo enim ante mortem plus ediffet,fi ipfi conceffum fuiffet, Fuit
enim per venæ feitiones, purgationes, hirudineſque ità exhauftus, ut dixi; non
definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove punto ciò, che ſi porta
per Galieno, ſe pur cgliè vero, di quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da
lui fino allo sfinimento ſi guarì; concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e
molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza verſargoccia di ſangue; ed'altra
parte infiniti anche ſono coloro,come teſtimonia il medeſimo Galieno, i qua li
fino allo sfinimento ſegnati G morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo
ſtato della lor ſalute ne giunſero: e coloro, i quali anche per teſtimonianza
del medeſimo Galieno,co loro grandiſſimo riſchio,dopo ſegnati fino allo
sfinimento, affieboliti, e raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri
grandiffimi, e ſoccorrenze, comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di
ciò è punto da maravigliare; con cioſliceofachè tra per lo perdimento del
ſangue,e degli ſpi riti s'agitino, e ſi perturbino sì fattamente le parti
(alde, e diſcorrenti della perſona, che per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe
ne viene a fommuovere,e disſipare la cagione della lor malattia: e sì rimangono
liberi, e lani di preſente co non poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così
veg giamo per ira, o per timore, o per altra grave, e ſubitana paffione le
gotte, e le quartane, e altre dure, e pertinaci malattie eſſer di preſente
riſtate. Quinci manifeſtamente ſi comprende, ſciocchi oltremo do, e ſcimuniti
eſſer coloro, i quali per picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò, chè
Galieno con largamen te trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va;
perciocchè coſtoro per non porſi a riſchio d'ammaz zare Del Sig.Lionardodi
Capoa: 361 1 zare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli
torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta; ma si
mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento
le parti falde', e di fcorrenti del corpo, onde taloramaraviglioſamente,come
chê con non poco riſchio della perſona, ſi riftanno le ma. lartie; perchè
da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può, che certisſimo danno, e
nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati. E fenza fallo gran
ſenno fanno coloro, che ne più, ne meno ſegnano, pereſſer i ſa lasfi ne'malati,
o gravemente dannofi, e di riſchio, o affat to inutili. E a ciò riguardando i
più pratici, e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo, e guardinghi
ſo 110 nel fegnare: ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-, ma lor
vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai; ſe non molto di rado, e
con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici,
comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati, e ricreduti, pure per non
metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi, e si laſciare anche
in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno, così ſcarſamente, e a biſtento
ſegnano, ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre,
coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in
nome, e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue, quando in verità non
ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato, egli fem bra, per quel che
nemoftriGalieno, che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben
conoſciuto; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato: perciocchè pellegrinando
egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco,
ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte
erano;eGalien pari mente di luiracconta, che trovandoſi cgli medeſimo un giorno
infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne
potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo
del Rovo; c ſoggiugne Galieno, chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010
362 Ragionamento Quinto re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano
Sea rapione, e Menodoto, dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile, non
avendolomiglianza niuna tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla
general contezza, la qual egli avea della facoltà de'ſemplici; per la cui' mea
deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento,
che'l fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or
penſa te voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e
ad Erafiltrato attribuita Galieno, ſe qual che menoma delle chimiche medicine
aveſſer potuto mai eglino rinvenire. Ma ne Eraſiſtrato, ne Galieno ſeppero mai',
che nel ſugo del Rovo, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte,
e molte di quelle materie, onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo
i fughi già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a
quelle acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni. E quinci ſi
ſcorge apertamente, chevada errata in ciò la medicina razionale antica, la qual
ſi crede, uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in
fiammagioni, porre in opera coſe, che di ripercuotere, o di riſtrignere
ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito: bé potea anche effer
agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina,
Serapione, e Menodoto, che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l
Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare; e in
verità tra'l Rovo, e la Galla,per tacer del vitriolo, onde vien formato il
paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato, ma huom di mezzano intendimento
di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza. Maquanto sì fatta ſo
miglianza poſſa ingannare, non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere;
e ſe, come pare a Galicno, Eraſiſtra to avea una general contezza
de’medicamenti per quella acquiſtata, certamente egli l'avea per iſperienza, o
da fe, o da altri fatra, la quale agevolmente può eſſer fallace: 0 pure per via
di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'er 1 1 1 Del Sig.Lionardo
diCapoa. 363 d'errori, e d'inganno.; perchè in un punto cosi principale
manchevole, difettoſo, e incerto il fiftemadella razional medicina
d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri: Io non ſaprei dire
s'empirico e ſi foſſe, opur razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale
dopo Ippocrate, maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano, e non più
veduto, o intero modo di medicar le febbri. Solea coprir egli i febbricoſi di
tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il caldo, e la ſece;
matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei facea loro
pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua, il ſudore aſpettandone; il quale ſe
non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava ch'eglino
vomitaſſero; riſtata poi la febbre, gli cibava di carne di porco arroſta,
econcedea loro liberamente il vino; maſe la febbre non ſi partiva, facea bere
agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in queſto
tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non dover
logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare; e
comechè in alcune fortidi febbri, e in qualche huomo gagliardo, e ben atante
della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in
tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza
non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con
altro che.colle purgagioni, e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion
dimalattic rilanare. E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del
medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara; i quali nel cominciamento di
quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al
vino ippocra tico, e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte
lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto
fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio; che in tal guiſa
egli credette, che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente
anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po 364 Ragionamento Quinto
potrebbel'ammalato guarire: fæpe igitur, egli ſcrive, et aquafrigida, cui oleam
foc adječium, corpus ejus pertractan-, dumeft; quoniam interdum fic evenit, ut
horror oriatur, ds. fiat initium quoddam novi motus, exque eo, quum magis
corpus incaluit,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo
poſſa il fatto nella guiſa da lui deſcritta accadere, ed agli ammalati alcun
pro avvenire; pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna; impe
rocchè ſe altrimenti riuſcirà, n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo.
E quinci fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il
pericoloſo modo, col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno,
confar uſcire il ſangue dalle vene per via del falaſſo, fino allo sfi nimento
dello infermo; da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i ſudori
copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo, e'l vomito anche talora, come avviſa il
medeſimo Galicno, avvenire; per li quali, e per le quali o ſperano, che debba
mancare affatto,oin parte la febbre. Ma in vano certa mente eglino poi
attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver riguardo
Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere il numero, che la quantità
de’la laffi; cioè più cofto in più volte il ſangue, che tutto inſie metrarlo
fuori, Ma per più d'una pruova avviſando il grand'Atenco, fra quante traverſe,
fra quanti viluppi, fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora
aggirando le varie, e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le fcuole più
cele bri della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli
una fabbrica di novello fiſtema di medici na; perchè tutte le forze del fuo
acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda
las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni
ricevute, e approvate; e per tutto quel tempo, che le lettere fiorirono nella
Grecia, e nel Romano impe. rio, celebre fi manterne la ſua Setta, e in buon
nome, las qua le ſpirituale venne chiamata; imperocchè una fortiliſ ſin a
fpiritual ſoſtanza clla immaginava; la qual per tutti i 1 corpi Del
Sig.Lionardo di Capoa 365 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e
penetrando, non meno il grande, che'l picciol mondo regger doveſſe; é dove ella
non foſſe primjeramente offeſa,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento, male
alcuno ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar
voleße Vir gilio in prima dicendo. Principio cælum, duterram,campofque
liquentes, Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit:totamque
infufa per artus Mens agitat molem, & magno fecorpore mifcet. E poi
Torquato Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando, e menie, e Spirto Dieda
queſta mondana, ed ampia mole? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira; Com'a
lor parve, e'l Cielo, e l'ima terra, E laſpera delſollucente, e vaga, E’l globo
de la Luna, e l'auree ſtelle, E de l'aria, e del mare i larghi campi Nutre, e
miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra? Ebbe la ſetta
fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi, e alMagno, ad Agatino,
ad Erodoto, altri, e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere
univerſalmé te avute a grado,ſommamente la nobilitarono, e l'illuſtra rono; e
fra gli altri Archigene:il quale, tra per lo medica che felicemente mai ſempre
fece, e per li tanti doctiſ ſimilibri, ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò
cofa, ne grande, ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella
medicina, non ha che cedere a niuno, ch'abbia o prima, o dopo lui ſcritto, e
medicato infra'Greci; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica,
onde a gran ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no: e per
valerſieglino della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da
Noi fien conti, difettoſo, e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di
medicina razio nale. Oltre re, 366 Ragionamento Quinto Oltre a queſto
e'miſembra, che riprovino eglino me deſimi il loro ſiſtema; imperocchè in
medicando le malat tie, poco, anzinulla a sì fatto Spirito badar fogliono; con
che danno a divedere non altro eſſer queſto loro ſpirito, ſalvo che un gentil
trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la lor medicina. Doveano adunque
eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi eſſervi un cotale ſpirito; indi
diligentemente inveſtigare, chente,equal li fia la ſua nas tura, cioè qual
figura qual, grandezza, equal movimento abbiano le particelle, che'l
compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo umano, e come
nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna; e in qual guiſa dar li pofla
a'ſuoi diſordinamenti compenſo.. Poco men che crucciato ſi maraviglia Plinio,
in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e maraviglioſes felicità
nelvero d'Aſclepiade;huomo com'e'dice, quan to al naſcimento, di
condizionemolto vile, e di maſtro di ritorica ch'egli era in prima, perciocchè
aſſai poco gli fruttava, in un tratto medico divenuto. E sì, e tanto egli
adoperò, che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo alla medicina,
a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte, e poco men, che
affatto op preſe, e abbattute; ed egli folo vincitore,e trionfante de gli altri
medici, a guiſa di perpetuo dittatore nella Città donna,e capo del mondo, ne
ordinò a ſuo talento, e ne diſpoſe le leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro, della
vi ta, e della morte diquelpopolo, nelle cui mani ſtava la morte, cla vita
d'ogn’uno ripoſta. Ma fermamente egli fi dee credere, che a tanta grandezza
perveniſſe Aſclepia de, non tanto com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to
parlatore ſi foſſe, quanto che colſenno, e col valor no punto ordinario viſi
portaffe, comechè la fortuna anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto;
quale appunto di fu quello, che vien narrato dallo ſteſſo Plinio; ch'eſſendo ſi
un giorno egli a caſo incontrato in un miſerello, che per morto era portato
alla ſepoltura, facendolo egli a caſa rie tornare, con valevoli argomenti in
perfetta ſanità il rimiſe. Eben 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 367. túrós, E ben
palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo', e la ſingolar fua prudenza:
allor, che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate,
generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori
offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte. Malale tezza del ſuo acutifſimo
intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante, e tante ſue
opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe; nelle quali ſi vede apertainéa
te, che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima
buccia delle coſe, s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più
ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade, che non già per
caſo, ma di neceſſità, e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna
nell'Vniverſo: e che fa natura altro ve ramente non ſia, che'l corpo medeſino,
o'l ſuo moto: per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i
qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli,
veloci, e ratti, e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi, e con
vicendevoli percoffe, l'un coll'al tro cozzando, e forte battendoſi, fi vengano
a ſminuzza rc, e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge; le quali con
diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra, e inſiemeaccoppiandoſi, e
congiugnendoſi, prive d'ogni qualità, col moro, col numero, colla grandezza,
collow figura, e coll'ordine le coſe, e l'apparenze tutte ſenſibili
producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne,che ſien privi diqualità
i corpicciuoli; concioſliecoſachè altro dal tutto, altro dalle parti ne ſegua;
l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura; il corno ènegro, mala ſua
polvere è bianca; ma dovetre dir egli ancora, che le qualità altro non fieno, o
per me'dire altro non le faccia apparire, che'l concorrimento, la figura, e’l
fito, e la grandezza, e l'or dine, e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che
concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli, o ſperali, o piramida li, e con
dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no, a formar ne vengono quel
ſentimento, che dicalore ſi chiaina. Di 368 Ragionamento Quinto Dice oltre a
ciò Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle, o
ſchegge ſuddette nel formar le membra degli animali, vi laſciano molti, e molti
ſpazj vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi, varj di grandezza, e di
figura; i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene
l'animale ſano, callo incon tro, ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli,a
far li vê gono ſecondo la varietà delle parti, e degli ſpazj, varie, e diverſe
le malattie; ma non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade, avvengono per
la dimora de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente, come la freneſia, il
lecargo, le puinte, e lefebbri grandi; ma altre poi avvengono per ſoverchio
aprimento: e s'ingenerano per la curbazione de ſughi, e degli ſpiriti, per la
quale ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina, e
nella fover, chia magrezza ſi vede: 0 nuovi ſpazj a viva forza in non,
convenevoli luoghi ſi aprono, come nell'Idropiſia acca de, Vuole oltre a ciò
Aſclepiade, che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi
ripofte; ma nel vero al tro quelle non eſſerç, ſe non ſe le cagioni antecedenti.
Si ride egli di quel grande ſchiamazzio, che fanno i medici in. torno a'giorni
critici; portando opinione, che d'ogni tem po, com'egli avea avviſato, poſſano
creſcere, e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie. Ma per accénar qualche
coſa intorno all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre
iſuoi infer mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men,
ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role, che vengon per
Cornelio Cello rapportate: tutè,citò, jucundè;perchè cra egli nimiciſſimo di
que'medicamenti, che così ſovente, e per lo più fuor di teinpo venivan da al
tri medici adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re, care qualche
giovamento agl'infermi; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo, e pronto
il danno, ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi, medita
zion della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huo. 110, e
DelSig.Lionardo di Capoa. 309 mo, e di sì fatte coſe aſſai intendente, quanto
poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della medicina, e dalla fiebo lezza
de'ſemplici, o compoſti medicamenti, che in que' tempi erano in uſo, nel ſapere
ben regolar la vita col ci bo, coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte
piacevoli cole, poco men che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero
ciò non fe già egli, come huom crede, da neceſſità alcuno ſtretto,per no aver
contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia
de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto, che ſicoine
Galien dice, egregiamente cgli ne ſcriſſe: e molti, e molti medicamenti di ſuo
ingegno egli ritrovò, e poſe primiera mente in uſo, e ne compoſe un particolarlibro;
i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati, anzida’ine deſimi
ſuoi emuli, e avverſarj commendatioltremodo, e fovente adoperatifurono;
infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per le piaghe, che
non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi pare,che Aſcle piade
apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in trodotto di medicar le
ferite. Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le purgagioni; ma fivalſe de
criſtei. Danrò ancora, come racconta Plutarco, ivomiti, che troppo
frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri ancora fi uſano da
alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo: quotidiè ejiciendo,
vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe affatto dalla
medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito; del quale,
com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di Samotracia. Ne
ſi dee qui tacere, che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe ad aver
contezza dell'elatere dell'aria, come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti parole
di Plutarco, avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa de
ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και τον
με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν, αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι
λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν, τε και φέρεσθαι παχυμε.
ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370
Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι, μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω
θώρακι λελομερές dei begyiQ (šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw
umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε
και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων
πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει. ·
Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo
Iddio, come riferite vengono; e per la più parte da chi punto non l'intendea; e
talor anche da al cuni per vggia, e mal talento a ſtudio guaſte, e travolte. Il
che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina; pur
lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento. E primjeramente
parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando
egli opinione con Ariſtotele, ed Eraſiſtrato, che le reni non abbiano al cuna
operazione: echeciò, che ſi bee, ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove
poſcia li ftipi in orina; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno;
comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato, perchè c' non fi vaglia
della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo, perchè egli non ſi metta
a filoſofare con ciance, e anfanie. Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno
sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade, dicendo, che contro
l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe,le qualiognun vede,
che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte,veramente vi
vadano;che certamente non potea egli sì milenſo, e ſciocco eſſere un tanto
huomo, Negò ben'egli la facoltà attrattiva, e co'buoni filoſofan ti ſtimò
eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai, ne
facoltà, ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro
corpo ſenza toccarlo, o per ſe ſteſſo, o per altro corpo da ſe parimente tocco,
e moſſo; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino, o
fune, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma * I 1 DelSig.Lionardo
di Capoa. 371 Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire, quantunque volte
rammento quella ragione, colla quale Galieno con tro Aſclepiade,ed Eraſiſtrato,
e altri buoni filoſofantiſen za vederne altro,fermanente credette, ſe averela
virtù at trattiva già faldamente provata; dic'egli,che per induſtria
d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua nelle
carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo;coſa la quale
avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima, ſe'l grano non aveſſe la virtù
attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi
cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna, che in ciò punto
l'appagaſſe. Quinci ſi pare,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli
avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile, prorompeſſe
in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno:profeito
ſiGaleni libri de demöftratione, cjufmodi crebris Scatent demonſtrationibus,que
ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens, ac poriſfimum in
quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt, non eſt ut eos libros tantopere
expecte mus. Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa vellare,
certamente venner conoſciute molte, e molte coſe di notomia per Aſclepiade, che
avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro, e ragguardevole oltremodo il ſuo
ſite ma: comechè paruto fo fe, ch'egli aveſſe portata opinio ne, che'l
nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino, che co'nunemente per
ciaſcun ſi credea; impertanto immaginò egli, di ſottiliſſimo vapore in guiſa
portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo; ma non diſse perchè, e comeſi
ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in quegli
anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle
l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene, e dalle arterie
miſeraiche tratto veniſse. Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito, Ariſtotele,
ed Eralitrato aveſser detto, che in guiſa della ruggiada il chilo, e l'alimento
per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe, nelle
quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è
ben 372 Ragionamento Quinto èben 1 cerco, che dovea minutamente Aſclepiade per
dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere,
chenti, equali, e dove veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e
la grandezza, e la figurą, e'l fito, e l'ordine, e'lmovimento di quei cor
picelli, i quali o affatto, o in parte turandogli, o più del convenevole
dilatandogli, o altri nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli
vuole d'ingenerare i mali negli huomini; perchè fa meſtieri aver piena contezza
di tutti corpicelli, onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte; e ciò
non ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc,
alcun ſicuro, e certo rimedio per ragion ritrovare. Dove poicgli dice farſi la
freneſia, il letargo, la punta, ele febbri da'corpicelli, chenegli ſpazj
inframelli dimora no, perchè egli non ſoggiugne (o forſe no'l ſappiam noi
s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano
compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi? e avvegna pure,ch'egli
accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz
de'piccioli, e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente
raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta; anzi pajon'elle molto leggieri: e
ſono queſte, che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano; e più
agevolméte gli ſgõbrino,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così
andaſſe.com'e'diviſando ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale
non baſterebbe al ſuo intendi. mento fornire; ma di ſaper anche il movimento,
la figura, el ſito di quelli farebbe a lui meſtieri, ficome poco 'addie tro noi
dicevamo; e ſe impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da
poterſi per intelletto umano co durre a capo, yana ſenza dubbio ricſce ogni
induſtria, ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno, che di
ſtabilir ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade,
come detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a
modo che, comeperGalieno ſi narra, egli ſolo, e Dioſcoride d'ogni ſorta 1
DelSig. Lionardodi Capor 373 Torta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli
arbori,deld le frutta,de' ſughi, de' liquori, e d'altre, e altre coſc fof ſero
pienamente informati: nientedimeno, ſe le pruover che intorno alla loro natura,
e al loro operare egli nellas ſua opera recò, ancora di leggeſſero, ſi troverebbono,
per quel che ſi è accennato, ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni;e
meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade, alla fola ſperienza, non men che
altro più vile Em. pirico ricorrere. Ma ben ciò conobbe egli, ne'l diffimulò
punto, e confeſsò apertamente, altro la medicina non ef fere, ch'una cotal
ſemplice conghiettura; onde ebbe a dire Plinio, ch'egli: medicinam ad caufas
reuocando conjectur.i fecit: o come legge Giacopo Dalecampj: conjecturalem
fecit. Nel curar le febbri terzane,e quartane egli ſembra,che non molco bene (comechè'l
contrario dica Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto
antichillimo medico, ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre
uſava dare aglinfermi il vino, e bagnar loro con acqua calda la teſta; ove in
inolte altre coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare. Vuolanche Aſclepiade,
chenon ſi tragga mai ſangue, fuor ſolamente ne'dolori; e ciò perchè facendof
queſti da’ grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti, ſe condo
il ſuo ſentimento, gli pare, che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del
ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo
ciſſimicorpicelli,che formano il fuoco, cagionar ſoglio no il dolore: come
anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina;
il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina, i
corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti
ſalde conſiſtono: e le liquide, benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi, non ne
ſono cagioni vere, e preſenti, ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar
fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò,
egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 }
che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale
tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e
ſolo ardì a ſpiar tutto, e a ſcriver tutto, ciaſcun maeſtro più valoroſo
", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai
meſtieri dire, che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla
medicina, calla filoſofia ſeguito, Quinci ſi vede, che ſcarſemolto, per non dir
altro, ſem bran le lodi,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi
Prufienfi, condita nova feéta,fpretis legatis, doo pollicitationibus
Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine,
ofervato,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna, ne medicus crederetur fi
unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe, & victor fuprema in ſenecta lapſu
ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to,
e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il
ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno
immaginare, non che diviſare; e fe'l favore, e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè
farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge
baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri
eſſere, ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro, fifoffe fatto
di qualche nuova forte di metodica medicina inventore. Veggiam di lui ſolamente
alcune forme, o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari, e di molta
poca co ſiderazione, dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui
tenuta nel medicare Ottavio,tutta travolta da quella di Cimolio; perciocchè
Ottavio, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari
coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare
alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta; ma per avventura a ciò fare da
qualche apparente ra gione egli fu moſſo. Neciò è nuovo, che i razionali ſiva
gliano di tal regola; poichè il fece Ippocrate ancora; co mechè egli poi moſtri,
ch'aveſſe altro in animo, con inſe gna 3 Del Sig.Lionardo di Capoa. 375 gnare
una fiata il contrario, la ove diſſe,che chiunque ope ra con ragione,
avvegnachè ſenza profitto, e infelicemen te fi faccia, dee coſtantemente
camminare per la ſteſſa ſtra da: návraisatakóyov meséori,xai pen'govojévwv *
xara'dégor,designer swßaives, i inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da
cao gione a molti medici di pericolar ſovente i loro infermi; i quali
veggendoapertamente, che a mal fine rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe
ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro intendimenti, con graviffimo
dan no de' cattivelli. E mi ricorda in acconcio di ciò aver letto in un coral
autore ', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare, che avea egli per più d'una
pruova cono ſciuto, che'l ſegnare in alcune febbri ', che allora la Città di
Vinegia fieramente malmenavano, conduceva a ficura morte gl'infermi: impertanto
ſe n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di quelli: egli replicogli una gran
vit lania, chiainandolo ſciocco empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo,
non altrimenti, che ſe colui aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e
diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al falaſſo di prima, nulla curando, che
gl'intermi per ciò fare certamente fe ne moriſfero; e in ciò rammentogli la
teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non avviſando,che comechè verilimo ſia il
detto d'Ippocrate, nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia
manchevole, e fal lace la ragione, allor che non le riſponde l'uſcimento. E chi
ſa poi tra le tante incertezze dell'arte, qual ſia la vera, e legittima ragione?
ma come ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia, ne opera
d'huom di poca dottrina il ciò poter ben avviſare. Egli li fu Antonio Muſa, per
quel che s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed
elegá te; ne per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo
ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε ταν πάνσοφον, μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν.
M2 376 Ragionamento Quinto Maqual fi foſſe veramente l'eleganzadell'ingegno
d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi
Virgilio. Cuivenus ante alios Divi, Divumqueforores Cuneta,nequeindigno Mufa
dedere bona. Caneta quibus gaudetPhabus,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste
Mufa fuiſse poteſt? O quis se in terrisloquitur jucundior uno, Clejo nam certè
candida non loquitur. Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va
mangiare con non poco giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano:
i quali maraviglioſamente con incredibil velocità, ſe'l ver dice Plinio, ne
guariyano. Io yo meco diviſando,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo
tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico,celebrato;dicui
narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo, cui in iſtrana guiſa
dall of Ia la pelle ſpiccavaſı, fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa
di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα, των σαρκών
απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν, ιχθύω- δε κόπο ίχα
εκευασθένη, και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons. Ma ſopra ogn'altro
medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda; e egli, e'l ſuo
fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero
l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata
un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata. Mail Muſa folea
ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo, aprir
loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare;
quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica
se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla, ſe in Salerno, e
in Velia foſſe così fredda l'aria,che dimorandovi egli poteſſegli giovare a'ſuoi
mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa, freddiſſima gliele richies deva
per dover prendervi i bagni freddi. Aua DelSig. LionardodiCapoa 377.? Quæ fit
hyems Velie,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio, &qualis via.(nam
mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum: gelida
cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem
nervis elidere morbum Sulfura contemni, vicus gemit, invidus ægris: Quicaput,
& ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, &
frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa, che dopo l'el ferſi
bagnato in sì fatta guiſa Ottavio, guariſi d'una gra villima inalattia; comechè
dica Plinio, che ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli
cibavalo co tro il parere di Cimolio; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio
ſcacciato fuora; indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le
lattughe, che per averle anche fuor di teinpo, riſerbavanle nell'oſſimele. Per
la qual cura Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne, e in cotanto credito,
cheoltre alle ricchezze, agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo, ma per
tutti altresì i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di
bronzo nel ſegno d'Eſculapio, come ne da teſtimonianza Suèronio: Medico Antonio
Mufa, cujus opera ex ancipiti morbo convaluerunt, ſtatuam, çre collaro juxta
fignum Eſculapii ftatuerunt. E fe'l mio avviſo non m'inganna, d'oro gliele
avrebbe certa mente rizzata, ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè
non bene allora ſtabilita ancora la tirannide, n'avreb be per avventura la
libertà egli ricupcrata; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il
diſiderio de'Romani, non ſa. rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che
Bruto, ne Caffio, ne Seſto Pompeo, ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare, e
per terra non avean potuto adoperare. E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il
modo del medicare del Muſa, quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come
narra Dion Callio, ſe ne morì Marcello; perchè di preſente e'per denne !,
gloria, che guadagnata s’avea; non ſi dee imper 1.2. P; CXLV2Livi, come o telo
378 Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che
eglicon que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire; anzi morilli Mar.
cello in Baja, come teſtimonia Properzio, il quale viſse a que'tempi His
preſſus Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu.
Neſembramiveriſimile ciò, che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo
inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala,
facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe
per ‘iſcagionar Livia, e fargliene ſervigio; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi,
che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit, ſono ſue parole,
gratificari ei, que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non
ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja
Marcello,che in quelle di Stabia, la dove alriferir di Servio egli moriſli; e
ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe
di quella fonte, che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto
opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja,
e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe, e che alla fine
nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita; ne dal narrainento di Properzio
argomentar fi puote: Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije: coine va
interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe
no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si
tiſicuzzo, e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche
interno tumore, il ſoffogallero: o di ſover chio creſcendo il moviméto del
ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita
negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale
eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in
que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe
dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto;
e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato. Ma paſſiam oltre a dir DelSig.Lionardo
di Capoa. 379 a dir di Clinia da Marſiglia. Fu la guiſa del coſtui medica. re
nel vero ſtranamolco,e ſuperſtizioſa: imperocchè infi gnevaſi egli di non
darmaia malato niuno,o cibo, o medi cina, fuor ſolamente, che in certi
puntiaſtrologici di fito, o dicongiunzioni della luna, o d'altri corpi celefti:
e bert gli approdarono sì fatte malizie; poichè montò in sì buon nome, e fama
appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne;delle quali
ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la
propia patria, e parte alla medeſima ne fe dono, acciocchèpoter Le riſtorar
quelle, quando huopo ciò lor foſſe. Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il
fiſterna del la ſua medicina, non avendene niuna certa, e ſicura con tezza; ma
mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da
chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in
medicãdo ado perata, ch'un ſottile, e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc
ciance, e promeſſe le troppo credule perſone. Ma forſe, come i Romani ſi
ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea: ne folean giámai
darcominciamé to all'impreſe, ne trar fuora gli cſerciti, ne far giornate, nc
alcuna coſa di confiderazione, o civile, o militare ado perare, ne mai ſarebbon
andati a gucreggiare, ſe prima non perſuadevano a l'ofte, che gli augurj avean
promeſſo loro la vittoria, affinchè i Coldati maggiormente incorag. giati
prédeſſero ſperanza divincere: dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la
vittoria: così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero
piena fede alle medicine loro preſcritte; e forſe ſe ne valſe altresì egli per
iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina, la quale
da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata;ma dalla minuta gente
giovevole, e neceſſaria giudicata; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella
guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal
coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per
loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo, Bbb 2 che
380 Ragionamento Quinto cono. 1 che foſſe non meno fciocco,che ſtrano, come
quello, che poſti in non cale, e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti
gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè
vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come
Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno, vana per avvé tura,
eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla; imperciocchè
chiunque avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo, ben toſto ſcorgerà i mancamenti,
e i difetti di quella: i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina,
quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono;. il quale
avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le
particolarità della medicina, ch'e'medefimoconfeſſa, e proteſta eſſer tanto a '
medici neceffarie: a bello ſtudio par, che riltando in s l'ali, o dando lunghe,
e inutili aggiratc, a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo
mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede
fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti
s'impigliano. Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca
d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo, ch'egli
inneſta in ſu'lſecco, or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo
talento i fondamentialla medicina, niegano conſtantemente gli eleincnti', e gli
minori, e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode, ed efficacipruove la
gran machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo ciò al preſente
trala fciando, renderommi lecito di brevemente accennare, che di Galieno la
medicina non ifpieghi punto il vero, e fiſio comodo come naſcano, o naſcer
poſſano le quattro fue prime qualità,ma ſolamente le ponga già nate; ne men,
quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita; perchè poi
valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare, ne quant’oltre la lor
forza fi ſtenda, ne pur gli effetti che per lc, o per accidente da lor
fortiſcono. Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la >
natu Del Sig. Lionardodi Capoa 381 natura della materia, dalla quale quelle
dirivano ed in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve
Aigar egli non cura; il che quanto monti, agevolmente da ciò potrà comprenderli,
che traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali, ne la
natura delle malattie, ne le cagioni diquelle, ne i medicamenti mede fimi non
ſi potranno in modo veruno comprendere. Per chè non ſarà medico, che
abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe, o manchevoli di ciò cheal
corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad
agguaglianza ammendandole riporle; e ne men per la medeſima cagione provar egli
mai non ſi potrà, in che conſiſta la árminatío, o nimiſti, che tra loro eſser
fi dice; perchè anche ne fiegue, che non ſi ſappiano, ne convenevolméte ſi
poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare, che ſeconde chiamanli,e che egli
pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar
rano, giudica, che cheno non pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli
poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè freddo, o caldo, o temperato,
pur nelle ferite meſ lo, dolore, e infiammagione apporti;e che non altrimenti,
che dal caldo, dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri; e ſe Pamaro fembra a lui
effetto del caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno
aveſſe bene avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra
quelle il fiſtema della medicinapiantato; concioſſie coſachè ben egli compreſo
avrebbe non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò, che nella naturä vedeſi.
Perchèi più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle
coſe della natura, fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza, o pur alla
forina eſsenziale, all'amiſtà, o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza
tra le coſc, e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni,
delle qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote. Quindi: per racer del
Fernelio, e del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di
Galieno, colſe ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse
runt, 1 382 Ragionamento Quinto. ränt, elementarii medici nibil inveniunt,nec
de proprio ſubje cto virtutis, nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia
artis ea, qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem. Talia verofuntelementa
Galenicorum: ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis, carnis,
fuccini,magnetis, & cetera ſecundum formam eſsentialem. E Daniel Senner ti,
pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones, &
qualitates infunt, per commune quoddams principum infint neceſse eſt;ſicut
omnia ſunt gravia pro pier terram, calida propter ignem. At colores,odores,
Sapores efse progosov, fimilia alia, mineralibus, metallis, gema mis, lapidibus,plantis,
animalibus infunt. Ergo per com mune aliquod principium, & ſubjectum
infunt. At tale prin cipium non funt elementa: nullam enim hatent ad tales qua
litates producendas potentiam. Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt.
Ed una tal neceſſità molto bene avviſando molti degli antichi, e poco men, che
tutti imo derni Galieniſti, ſe maicoſa alcuna malagevole, ed oſcura intorno
all'economia degli animali a ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura,e
la cagione di qualche ſtra na, c non conoſciuta malattia, allora abbandonato
affac to il lor maeſtro Galjeno, e poſta in non cale ogni ſua dot trina, ed
ogni diviſamento della ſua razionale, e vana mie dicina, a’nuovi ſiſtemi
de'Chimici filoſofanti toſto s’appi gliano, E ben di ciò avvideſi anch'egli
Galieno; e rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta,
dopo aver più, e più fiate diſegnato, le facoltà non có fiftere in altro, che
nel temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità, avviſando alla
perfine mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare,
così ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della
cagion factrice, la chiama facoltà, o potenza; c però dice eſser nelle vene una
certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e
nel cuor di palpitare; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal
potenza d'adoperar quelle coſe, chcin eſse ſi fan. 1 1 4 DelSig.Lionardo di
Capoa. 383 fi fanno. Con cheGalicno apertamente confeſſa cgli me defimo, le
facoltà, che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere; e ſolamente così per
via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con parole ſpiegare, tante
elleno, e tante ſono, quelle fiate, che per Galien ſi ricorre ad una cagione,
la qual eglimedeſimo, non ardiſce, o corporca, o incorporea determinare; e che
egli ignorando, che coſa ſia veramente, inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na
tur'a appellarla. E ridevole veramente ſi è la maniera,col la quale egli una
fiata imprende a ſpiegar,come le partide gli animalifacciano le loro
operazioni;dice egli, che ſico me al comandamento di Vulcano, ſecondo finge
Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più, o neno il fiato; e le
dózelle d'oro da ſe ſi muoveano; cosinel corpo degli animali niuna coſa eſſer
immobile, ed ozioſa; imperocchè dal ſupremo facitore alcune divine virtù ſono
ſtate impreſ fe alle parti di quelli, sì che le vene non ſolo il nutrimento
dello ſtomaco deducono: ma l'attraggono, e lo preparano al fegato; ilquale così
preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo, gli da l'ultima perfezione di ſangue:
müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι δημιουργήμα, και τας μια φύσας
ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας: τοις
δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών
ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα μηδέν αρ. γον μήτ' ακίνητον, άλα
πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού
χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος,
' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον, ως
αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας, και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU
MEWCimpéva. Ed è anche manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in
quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti del corpo; perchè malamente
l'economia degli animali, ed ondenaſcan le malattie, ei luoghi, e le cagioni, e
gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè
Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella, non ebbe ne men ventura di
ravviſar baſtan te, j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura, e
gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del
Ver ſungio, o nelle vereacquoſe, o nelle vene lattee, o in alą tre, cd altre
infinite coie da’moderni deſcritte. Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero
movimento del cuore, e dei fingue: ritrovato, del quale ſecondo l'avviſo
dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne
del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio,
e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo,
che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e de queſti
due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te, craſſoda, egli ſommo
contento prender ſoleva, quindi fperando, che'la medicina, quando che fosſe,
aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli.
mamente in quella parte, in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta di
riſtorar la perduta ſanità; almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe
l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le
qualità, ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea: Ma
perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio, e tempo in
un'intero volume, laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo,
ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira. · La maggiore, c principal
parte, e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun
dubbio quel la fiè, che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene;
or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta
impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori, e
falli ſottopoſta, che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto, e sì factamente
negli Impiri ci dannano, erimordono. Ed è ciò dicanta conſiderazio ne, e
rilievo, che in utili a baſtanza, c infruttuofe, e vane le contezze cutte della
medicina, ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote: le
qualitutte ad altro non fono indirizzate, che a diviſare, & proporre agli
ammalati i cibi, siinçlicamen:1, 3? fu conced.fipreselierelli 13,45's
DelSig.Lionardo di Capoa. 385 ra, medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura
contezza dell'ea conomia delcorpo umano, della cagione, e della natura de’mali,
e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai
peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi? certamente per
quel che Io micreda, niuno, ſe non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci, e
ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti, e dicibida dar ſiano agli
ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope,
ſenza in prima pieno, e faggio conoſcimento dellana, tura, e della propietà di
quelli avere? Ma queſto per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali
millantino,cm pirica certamente, e incerta farà da dire la lor medicina; per
tal modo, che non ne potrà ſe non-ſelargamente il no. bile, e laudeyol titolo
dell'Arte meritare. Ed interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella
Loica avvenire; che per una menoma particella, che nella definizione, o nel
partimento, o nel fillogiſmo dubbiofa fia, ed incerta, toſto dubbioſo, e
incerto il tutto anche diviene; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia.
Senzachè la medicina in tanto è arte, e conſeguenteinente certa, in quanto ella
ha ficuri, e certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per
ritrarre il ſuo bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini. Adunque
non eſſendo queſti certi, ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente
arte la lor medicina. Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più
avveduti, e più dorti eglino ſono, tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai
medicare; ne dalla lor doctrina, e diligenza mai nulla di certo promettere.
Nequáto in fin quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va; imperocchè
manifeftiffima coſa è, che Galieno mede ſimo, non che altri, con iſchiettezza
veramenteda filoſo fo, e degna di lui, molte, e molte fiate apertamente il co
felli; ed una infra l'altre mordendo, e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi,
che troppo arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli
effetti la natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo: non laſciaremoin Сcc.
tanto, 380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia
tracotáza di coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore, e dall'odore, e
dal fa pore, e dalpeſo, e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei
propria virtù diſpiar s'argométano. Quindi appreſſo ſoggiugne, che tutta la
ragione d'eſaminare, e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto
confi iter debbia, avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata,
ſolamente in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente
s'indugj. Ed a ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre,
Vallelio, così al la fine prorompe. Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum
argumenti locum ad inveniendum, rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis
qualitatibus; fed ex modo, quo nos afficiunt ſolum; ita ut in hac doctrina nullum
locum ra tio kabeat, fed tota fit empirica. Con la qual ſentenzas certamente
egli abbatte infin da' fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo
maeſtro, e ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in
prima infra l'altre sbracciate arditamete millantato: Poj]Galenum non amplius
interpollis ars fuit,fed perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata. Ma
certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per
innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni
ritrovati, non più di colui vanterebbe: nihil ti ejus in ventis adhuc eſse
additum: quoniam hic author nihil, quod ad artis attinet conſtitutionem non
reliquit inventum, quod pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu
ſempre amiciſſiino della verità: poichè, per tacer d'altro, non ſi ritien per
quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato, il non
ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche
intorno alla ſacra fi loſofia, ove infra l'altre coſe accreſcendo il numero
degli elementi dice, che quelli non ſiano ſtati mai, ne fuora del corpo miſto
eſſer poffano: i quali (ſon ſue parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero
in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli
errori di Ariſtotele, ſpezialmente intorno alla materia prima, dice. mani Del
Sig.Lionardo di Capoa. 387 manifeſtamente, e confeſſa, che quella Aggira, ed
avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al preſente, dirò
coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione; anche il mede fimo
Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa non altro,
che vaneggiamenti, cd inutili ciar le; poichè avendo egli ſognato, che ſarebbon
guariti due infermi, ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della inan deſtra
copioſo il ſangue, ei prontamente gliele craſſe, e tutt'altri ſuoi
ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo, fe guì l'indirizzamento d'un
vanillimo ſogno;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede,
ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe; ed Io il ridirovvi colle parole di lui;
πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον, ήκον επι την εν τω
μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα
ερείν, άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα, κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη
μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα
το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο
συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου
πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης
και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di
riferir poi ad uno ad uno, come fanno il Veſſalio,ed altri,ed altri
notomiſti,tan ti, e tanti errori, che nel deſcriver le parti del corpo uma no
preſi furono per Galicno: per non recarvi consì lungo racconto più di noja, che
per avventura non ſi conviene. Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò,che a
ciaſcuno è manifeſto, che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di
vane ciance, che di coſe ripiene; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe, a
più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle. Ne meno ho curato accennar
come coſa a tutti nota, chc la dottrina inſegnata da Ga lieno, per la più parte
ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa, c peggio
ſpiegata. Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione, di narrar come Ga
lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 388
Ragionamento Quinto di Placone, e d'Ariſtotele, e come al roveſcio anch'egli
ſovente ſpiegar fi vegga i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar
maeſtro n'aveſſe egli la filoſofia epicurea ap parata; il che ſovente anche
egli fa dell'opinioni d'Eralia Itrato, d’Aſclepiade, e d'altri Setteggianti;
avvegnachè eº millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za
da più celebri maeſtri di quelle addoctrinato. Ho tra laſciato anche di far
parola dello ſconcio modo del filofo fare, che mai fempreGalieno adopera, non
iſccndendo mai alle particolarità delle coſe; e ſe talor e'fi pare, che
viſcenda, il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale. E
nelvero chi è, che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro
agli clementi, a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la
natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova, ſe
non ſe con ſole parole la lor eliſtenza? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente
favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come
follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo, e del ſangue, della natura, e
degli uficj, delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti? Chi è
per Dio, che non iſcorga, com'egli facendofimenare per la barba dagli
ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici, e com'e. gli oltremodo vancggj
in facendo parole della materia del la natura, delle cagioni, e deglicfetti
delle febbri, e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia,e
dell'Epilcilia. dicendo egli, amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione
de’ventricoli del cervello fatta da freddo, groſo, e tenace umore; recandone
per ragione, che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano; o eſſendogli
caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata,più al vero
conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di
botto riſtando; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea, e ſottile; ſenzachè
ſe ver folle, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo
l'Apoplefia, e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi, converrebbe chemai
ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel DelSig. Lionardo di Capoa 389 ra,
poplellia: e che queſta in quella mai ſempre terminalſe; il che non ſi avviſa,
ſe non ſe di rado; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe
della medicina, che non curoffi mai di aprir cadaveri; perciocchè aurebbe
rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello, il quale no foſſe morto
d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali, ſenza tenere
ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi
molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele:87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται
το συμβησόμενον εκ τείκότων, και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν
γινόμενον ούτως. Or non fi coglie da ciò che è detto, che Galieno della
coſtruttura delle parti del cervello, e del loro uficio non ſapeffe boccata? il
che da egli anche chiaramenre ad inten dere, allor, ch'ci fa parole degli altri
mali della teſta; ed ora mi ſovviene,come follemente ei filoſofi dietro alla
pau ed alla triſtizia de'malinconici, in così dicendo: ficome le tenebre
eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini, cheaudaci, o fapienti non ſono,
così la malinconia col fuo colore offuſcando, ed ottenebrando la ſedia
dell'anima, le reca timore; ne' qualiderti è certamente da ammirare, che ſié
più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe
della natura dell'anima, edi quella delle qualità intcſo:eche nó ſapeſſe, che
coſa foſſe la luce, che coſa foſſe il colore, ne come le ſenſibilità, e
l'immagi nazionc, o'l diſcorſo in noi fi facciano; perchè ragione volmente nel
vero, comechè non a baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato, e deriſo. Or
come per Dio huom, che ſuperficialmente filoſofu della natura, e delle cagioni
delle malattie, mai può in medicando della ragione valerſi?.e certamente, per
ta cer d'altro, a Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto
poter con ragione operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare;
imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana,
cioè, che ſi cagioni la terzana dalla collera, la quale fuor delle vene
s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua rego la, che 390
Ragionamento Quinto la, che curar ſi debba per li contrarj; le Galien non fa la
natura della collera, come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca, e che
imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda, e ſi comunichi al
corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò
che all' altro ſia contrario? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor
caldo, e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co; ma s'ei non fa qual ſia
la natura del calore, e della ſic cità, e del fuoco,certamente nulla ei non
ſaprà della colle ra, ne comprender mai potrà, come ella, e per chi s'im
putridiſca, e come ella cagioni la febbre, e comea ciò ſi poffa dar compenſo.
Certamente meglio partito egli avrebbe preſo, ſe della ſola impirica valuto li
foſſe;la qua le, ſecondo quel, ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace
della falfa razionale, Ne meno lo dirò, ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe
tutto Dioſcoride,diſagio di buoni, ed efficaci medica menti: c che egli la più
gran parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere:
e che adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj, ricercă dogli eziandio
infra altri ſetteggianti, e cra’volgari impiri ci; perchè diſperato egli anco
di ciò, fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine, e nella dieta, e
ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole,
che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo, aveſſe
avuto Gi rolamo Cardano riguardo, certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici
più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera, nc mai ſi ſarebbe
laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus
metho dis, pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben
qual ſi foſſe Galieno, il riconobbe, e l'ad ditò il Veffalio, che più del
Cardano ne fudi gran lungu informato. De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne
mai colui, che per iſpiegarne la cagione, alla facoltà ricorſe, ne punto ſeppe
de’movimenti del ſangue? Ma nella loica, quanto egli poco valce, il dica Aver
roc, i 1 DelSig. Lionardo di Capoa 391 tropo ſtudio. roc, il dican aldri, che
tanti errori gli ſcoprirono in doſſo. Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere,
il della loica: e fe Galien conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino,
che monta ciò, s'egli non ſapea,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea
eglicolla loica a diviſare? e tanto baſti avere al preſente della medicina di
Galien fiz vellato; e dicoloro, che dopo lui vennero, paſſeremo omai a far
brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina.
Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che
non ſoppero altro, che le coſe mede fime dagli antichi già dette, malamente per
lor compreſe, e peggio rapportate, compilare; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni
diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori, ſolaméte alla
ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio, che di
tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere
il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di
fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio. Ma dovea
purGiulia no, ſe filoſofante era, qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui,
avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma, che dello ſciocco
berlingatore d'Oribafio; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da
quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro
dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli
errori de'ſecoli traſandati, edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che
addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre, anzi alle ciance, e alle
lunghe dicerie, che alle fal de operazioni avean l'animotutto, e'l penſiero
rivolto. E sì, e tanto queſta ſconcia, e biaſimevol coſtuma crebbe, e
diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici, ancora,laſciando da
parte le loro pruove, e le ſperienze, tutti nelle ciuffole, e ne'ben compoſti
cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata
fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta, ch'avef fe voluto
logorar la ſua induſtria, e'l tempo in contraſtare ! ic 392 Ragionamento Quinto
le ſette razionali; perchè in iſperimentare, e in medicare folamente
adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe. E fe gran ſenno
quell'altro dottiſſimo impirico, ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co
loda mézionato: il quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima
diceria tenuta dietro alle cagioni, alla natura, a’ſegni, e a’rimedj della ſua
malattia per un ciarlatore razionale, così diſſe; Io per me non ſaprei io,
ond'è, che tu più coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui, che alle
tante, e tante pruove fatte permefin'ora; dal che moſſo lo infermo, diede di
botto comıniato al van ſofiſta, e nelle mani dello ſperimentato impirico
rimiſeſi. Ma certamente cotanto ciarlare, e anfaneggiare appararo no gli
antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio della loica;avvegnachè per quella
intorno alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le
cagioni, e vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no.
E forſe in ciò potrebbon ritrovar pietà, non che per dono, ſe già
l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale, che
per fermo eglino ebbero, e per coſtante, così veramente andar le biſogne della
natų. ra, come eglino le îi davano ad intendere, Ritroſi ancora ſi parvero, e
negligenti affai i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti,
come faldede gli animali; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e,
conomnia, e l'ingenerazioni, e gliavanzamenti delle ma lattie; ma
ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti,
la quale così dubbia, incer ta, e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di
tal formar la ſtato foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe
fraſche, e novelle ſi troyano colla verità in quella me ſcolare, e confuſe, E
ben ſi ſcorge ciò dalla raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto
dal volume di Diofco ride, il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù
de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe vere, o falſe elle fi foſſero, di tut te
pienamente fece faſtello; e tali vengono poi per Galic no, per Oribalio, per
Paplo, per Aczio, per Simon Seti trat DelSig.Lionardo di Capoa 393 tiatto
tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe
ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai
minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo,o.umis do,
oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte
vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato, certamente il fanno dove e * no'l
merita; ficoinc allo.incontro il commendano, dove no'l vale. Ne lo ciò dico per
diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride, ch'egliè anzi permio avviſo il
volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre
mani ne lian pervenute: ma perchè eglino vi ſia cauri, guardinghi, e ſenza
rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera
credenza. E quinciancor manifeftamente s'avviſa, che non che nulle
giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti,
anziella di vantaggio loro oltremodo nocque; perciocchè più veritieri aflai
trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi,
digiuni di lettere, che nelle limite, e ben culte ſtorie loro. Io tralaſcio di
far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare,
quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne
vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare, e comporre infieme
imedicamenti femplicida colui, che di quellinon fia pienamente informato. E ben
s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci,.e più ſtimari della. poco lieta
uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a
riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio, e ben regolato vivere, l'arte
tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero; e sì, e tanto-in.ciò furono ritenuti, e
rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano, cad altri la fo la
mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici;
perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle
malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire
icadaveri; avvegnachè una tal Did dili. 394 Ragionamento Quinto diligézainutile
altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto
nelle interiora ſi ritrova, più toſto ſia effetto,che cagion delmale; pur
nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re. Ma
quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali, ſe però non le
ci ha tolte la lunghezza del tempo; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome
da Ippocrate, elleno ſon cosi rozze, ed imperfette, che r.2- ' gionevolmente
huom favoloſe le crede. Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni,
che ſi ſono attentati di ſcriverle, comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente
in opera, o perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie, ſicome
fece Amato nelle ſue ſtorie:0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette
adombrati', vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano; ſe pur non ſon elli
imalizio fi, che le coſe ſempre aroveſcio, e travolte ne vogliono da re a
divedere; ſicome alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe, per
difender le loro opinioni tutto di van recando. Egli furon poi i Greci cosi per
vaghezza brigāti, eriot tofi che, tal ſovente videli, nonche ad altri,ma a ſe
me d'elimi far contraſto; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare,
quanto i viluppi, e le malagevolezze di quell'arte, che eglino cotanto con
biftentis e vigilie, e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare, emaggiormente offuſcaro
no; perchè non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la
millanteria di Pelope Maeſtro di Galieno, il qual vantava di ciaſcuna coſa di
medicina ſaper la vera; incontraſtabil cagione. E già parmi leggiermente avet
cocca, e traſcorſa tutta la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra
ſpezial menzione d’Areteo, il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con
diligenza maggior di quanti ne fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con
filoſofica libertà; pur non è da maravigliarvene, perciocchè egli contien le
dottrine medeſime da noi più fiate diſami nate, e riprovate. Finalmente ſi
conoſce, che non hanno gran coſa i Greci in medicina adoperato; imperocchè les
aveffer 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 395 aveſfer qualche coſa di pro eglino
mai rinvenuto, certame te qualche veſtigio appo gli autori, chealle noſtre mani
so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella
fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata, e premuta,che par che d'altra
eſaminazione non le faccia più meſtiere. E ciò maggiormente, che dagli Arabi fu
maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del
cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato. Ma egli è in iſtato più
miſerevole la loro ſcuola, che dove alcunas volta Ippocrate, e Galieno non
dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono, ella ſconciamente gli abbandona. Nel
rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar
nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava
lor ſolamente aver letto, o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe,
che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca
favella, l'un ſemplice, e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in
iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe, emolte non inteſero; ma
gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura, fe di vantaggio qualche lor
ſogno non ci aveſſer frāmeſſo. Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi
ritrovati ve ne abbia forſe saluno, che a que' de Greci prevaglia., niente
dimeno nulla,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno,
ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero, per
cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape, le Mulſe, gli Offimeli ſem plici,
e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con graviſſiino
danno degl'infermi,i ſciroppi; con cioliecoſachè ſotto il doice del zucchero,un
enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua morda cità
a ingenerarferventiſſimo caldo; ed egli oltre a ciò ab bonda il zucchero d'una
cotal tenacità oppilante, e perciò alle viſcere nocevole oltremodo, e nimici;
della quale il miele è affatto privo, mercè, che le apiil rendon volatile, Ddd
2 e fot 1 390 RagionamentoQuinto é fottile, e penetrante e, quaſi ad una
celeſtial quinteffens za il riducono; perchè facendo nelle viſcere il miele
poca dimora, poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne, che men
acuto anche, e mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta. Maſenza più
diftendermi in queſto, ayendovifaſtiditi pur troppo, lo fo quì fine al mio
ragio mare. RA: 397 RAGIONAMENTO SE S TO, vele Icome al partir della fredda
ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la terra, tutta lieta:, e
feſteggiante ringiovaniſce, e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando
ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte;
e fiabe belliſce: cosìparimente;o Signori,le ſcienze, e le più no bili
artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare
l'aveano, cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto
tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più
rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella,d'o, gni ſcienza
antichemadri, riſurte fiorivano; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben
parlare erano in ſu'l far frutto; ne l'Archițettura più, 12.Muſica,o la Pittura,
o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia
nel comun ſollevamento, in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe,
efgombinate dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque
finalme. te a colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala 299
Ragionamento Sesto 3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi, e generoli, quali NOR
G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch, avallar doveſſerola
ſignoria di coloro, e la medicina, e la filoſofia alla primieralibertà, e al
perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per
quantoil mondo durerà; i quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo
torrente dell'abuſo comune; e ad op porſi sforzatamente
all'univerſalconſentimento delle gen ti. Maggior gloria certamente fu di
coſtoro, i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa, e arice
ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro, i
quali in prima ſetteggiando a lor talento, nel confuſo rimeſcolamento della
medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti;
c. s'eglino, i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto
apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione, ed i primi ri trovatori di quella
in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono: che farà da dir di coſtoro,
i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto,e d'ogni erbaccia
purga to: anzi cotanto duro, e mafagevole, e ſpiuoſo il ritrova rono, che ben
convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c
da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne
ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra
le rozze genti: quanto egli è du To, e quaſi impoſſibile, allor che quelle già
auſare viſono, e tutto che indurate,a far loro cambiar uſanza, ericre derle, e
ſgannarle de loro errori; perchè è da dire, ches molto maggior vanto foſſe
deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in
prima, e poi gli altri al diritto ſentiero: che non fu di coloro, i quali non
incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata, cpre ſcritta uſanza da ſuperare.
Ma ciò al preſente laſciando, trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni,
ſecondo il noſtro diviſamento; e diremo chente, e quali ſiano le loro opinioni
intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina. 1 + 1 Egli Del
Sig.LionardodiCapoa. 399 Egli fembracertamente, che prima diciaſcun'altro l'al
cilimo Chimico, e filoſofante Bafilio Valentino, monaco diS.Benedetto: fatto
capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno,
e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta
quelle attenerſi, e in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in
peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo d'efficaci
medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro ſperanza di
vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura: comcchè co ' falalli,e
colle purgagioni, e con altriſconcj, e violenti rimedi render la ſogliono
ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male. Perchè
argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati ſenza
riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con
ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe, e molto in folver icorpi
maſſimamente minerali affaticafléfi, diede egli cominciamento a quel ſuo
famoſiſſimo ſiſtema di medicina, chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo
fraſto Paracelſo. Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina
que’tre principi, de'quali anche ſer veli il Paracelſo: çiò ſono zolfo, ſale, e
mercurio; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò, che
egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi. Nel qualſuo ſentimento
certamente egli non poco falla, laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del
folle vulgo in ſupporregli elementi; perciocchè ben doveva egli avvi ſare,
quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele, e di Galieno: e che tutti
loro argomenti, malimamente quel lo, che ſembra aver qualche ſembianza di vero,
cioè, che icorpi tutti in iſciogliendoſi, a quelli come aloro primi componenti
ritornino, ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare
lanotomia vitale;mal'aver lui uſa. to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur
dovette abbaci narlo. Adunque egli giudica, che tutte coſe abbian lor materia,
e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione: e che queſta
dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli 400 Ragionamento Seſto 1 1 dagli elementi
formata, e da’tre principj ſolfo, fale, e mer curio prodotta, e perfezionata;
ma pur.dice egli una fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe; que,
ſon fue parole, exficcatione ignis, & aëris in terram formata eft. Oltre a
ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti
operativi, i quali G nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano:
che in queſti ſpiritila vir tù, e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta;
ma come chè queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti
ſpiriti egli vada ſcrivendo, pur ſi potrebbono le ſue parole intendere
allegoricamente, e con ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra
manifeſtamente così in: ciò, comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui
molto [um perſtizioſo, e vano nel ſuo filoſofare. Perchè o colpa foſſe de'tempi,
o altro, che il ſi faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della
vital notomia, e che con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe,
avviſando ſottilmente i più naſcoſi ſegreti della natura; non però di meno non
ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire, che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde
le operazioni, e gliefferci de vegetabi li, degli animali, e de'minerali
procedono. Mapure egli, come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli
ritrovati, e di ſottiliffimi divifamenti la me dicina, e che ſaggiamente
giudichi infra l'altre coſe, che dal lavorio delle chiniche preparazioni de'
corpi naturali ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im
pertāto.egli manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la, ne conſiglia,
econforta a riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento,
e dall'utile, che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có
figlio, ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla, quanto al fatto del
medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua
tunque belli, e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro, mercè la chimica
conoſciuti; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi
giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie
1 Ma poco, gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli
s'ingenerino, el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal
Paracelſo, ſe non compiutamente fornita, a grande ſtato condotta; av vegnachè
il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in quando
qualche profittevole ammae ſtramento; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto
cal lo, e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo, ſolo le fifle me dicine
approdar poſſano, ficome quelle, che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non
fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando, le quali toſto
diſcorrendo per le Atrade, non penetrano per fonghe, o per foſſati fin nelles
viſcere della terra. Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo, che Come d'affe
ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare; allegandonc
l'eſem plo del veleno, il quale non altrimenti che la calamita ſi faccia il
ferro, tragge, ed aſſorbiſce l'altro veleno; ed in veggendo egli, che l'acqua
arzente guariſce la Riſipola, immaginò, che il caldo di quella l'interior
calore di queſta attraeſe. Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno far con, ghiettura,
ch'egli entrato ne’valti regni della natura, qui vi poi li ſmarriſfe, ne
fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente
appoſto, avreb be detto, che ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità, gli
Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino; il che ben ebbe inteſo il
Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a
far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente rinvenire, e compornc
tanti be veraggi, che vulnerarj ſon detri. Maciò, ch'è di maggior
conſiderazione, cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare (il che forſe a
lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura, e tutt'altre proprietà di
quelle particelle, onde i tre principj ſono formati, eco me, ed onde le loro
operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto felicementenella
filoſofia innolcrādoſi ſcorgere, come il ſuo Vulcano fia conoſcitore, egiudica
tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole, ficome e'di Eec CC CON 402
Ragionamento Sefto 1 ce con quelle parole, che dal tedeſco idiomanel latino
così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif fimusfilice duro
ſolidoque percutirur, ignis ignem excitat, commotione vehementi, & -
accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus
manifeftatur.commotione ifta vehe menti, eper aërem accenditur, ita ut verè,
& efficaciter ardeat; fali maner: in cinere, &mercurius inde fe
proripit una cum ſulphure ardente. Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na
contezzadella naturadel fuoco,di cuipoteva informar ſi dalle continue
operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo,egli in
sifatramaniera none avreb be ragionato.. E ſe in cocal guiſa foſſe andato
confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi, NTOI farebbe
ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in
aceto. Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo, e poco
ſtabile;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento, ch'eglieb be del
noſtro corto intendimento, e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente
in filoſofando. Il perchè preſe ad eſclamare una fiata. Bone Deus !'natura à
nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus
conftitueris adeobreve, & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in
creaturis; que non ſcientiæ, fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai
di venire a Teofraſto Paracelſo; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto,
dal Cortino, dal Riolano padre, e da altri famoſi Galieniſti calcata; i quali a
biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero, porgendo
giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam
intellectus; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle
s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni, che già più fortunatamente avea il
Paracelſo contro illoro Ariſtotele, e'llor Galicno adoperate: intorno a' quali
ſoleva il Para celſo dire, che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte
dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra; ma rimarrò ſolamente
pago di toccar pochiſſime coſe 1 di mio Del Sig.LionardodiCapoa. 403 di mio
talento, e ſpezialmente quelle, ſopra le quali il di ftema tutto di lui vien
piantato.. Lamedicina del Paracelſo, quantunqueragionevolme te a chi può dar di
queſte coſe perfettogiudicio molto più veriſimile dell'altre razionali fi paja,
e che tanto ne' pro fondi miſteri della natura innoltrata, e profondata lilia,
cheminutamente ragguardar poſſa a quelle minuzie, per le quali ſolamente l'arti
alla debita perfezione montarpor fano: ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre
medicine, ad ogni menomillunaparticella diſtintamente Itacciare: coſa, la quale
già tanto da Galieno fu nella medicina fofpirata; e quantunque nel diviſarle
cagioni,e la natura delle målar tie, e diciù, ch'a quelle, ed all'economia
degli animali s'appartenga, valentiſſimo egli fia: edil ſuo autore abbia
trovati, e poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare
ancheque’mali giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi; e quantınque
alcuno dir giuſtamen te vaglia, aver lui aſſai più di lume, e di vantaggio, e
d'ui tile recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro, che co® loro infiniti,
e voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori, così Greci, come Latini
inſieme s'ayefſer mai fac to; non però di meno chiunque con occhio filoſofico,
e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la
dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole, ed intralciata, e le ſue
saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella. E tutto ciò
certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere
ad intendiméto uma no, come di ſopra baſtantemente è detto; ed ancora per chè
il Paracelſo a tante, e sì diverſe, e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella
natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato, Che dal troppo
veder men'alto intende, tutto vinto, e tremolante più oltre non osò guatare:
ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto
inuoltrar fi dovea; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il 1 404
Ragionamento Seſto 1 1 Il montanaro, e rimirando ammuta, Quando rozzo, e
ſalvatico s'inurba. Perchènon men, cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe
fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza, e delle
quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità: ene men inveſtigando onde
avvenir poſfa, ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re, e
cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie; e per altre,ed altre
ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno
incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già,
ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura, o alla proprietà, o
a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente, ſe non
murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi.
Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa, convien la coſaw
più minutamente diſaminare. Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare,
che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to, che due
elementiin ſe contiene, ciò ſono il fuoco, Paria: e un'altro più baſſo, che
ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua, e la terra. I quali quattro
Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po
eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri.
Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea
diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli, chela luce, e le ſeminali ragioni di
tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono, allorches quello, di nulla criò
da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze, e le coperte propie de
corpi, le qualiallor che quelli veſtono, varie, e diverſe coſe ci producono.
Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare: i principi primi
delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj propiamente tali, o
alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi. Gli elementi ſono due, uno è
fecco, il qual terra dannata, e cenere, carena anche tal volta chiamaſi:
l'altro è umido, il qual flemmafi dice. La Del Sig.Lionardo di Capoa 405 La
terra dannata non ha virtù alcuna, ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come
dicono; e la flemma parimente al tro non adopera, che ammollare, e inumidire;
perchè ſon dette principi paſſivi. Ma non ſolamente la ficcità, e l'umidore,
giudica il Pa racelſo, che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma
quell'altre dire qualità ancora,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono,
dice egli ad altro non ſervire, fuor folamente, che a riſcaldare,o a
raffreddare; perchè da lui, tutte, e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire
ſeioperd te, e ozioſe; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale.
Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol,
che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo
affatto dal calore elementare. Perchè è da dire, che fecondamente chè giudica
il Paracelſo, le quattro volgari qualità altro non adoperino, che cccitare, e
riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente
tali, che attivi egli chiama; ſono anchetre, fecondo lui; ciò ſono il Sale, il
Solfo, e'l Mercurio. Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda, ſavorofa, la, qual
disfaſli, e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca, e li
raſſoda: e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo,
agevole ad accender fi. E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe: e per lo ſolfo
gli odori in quelle fpirano. Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo,
echiariſſimo, il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando,
agevolmente ſi diſperde, ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti
del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre, egenerare cia fcuna
coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza
de'corpi; e non potendoſi il fale meſcola re, s'egli in primanon li ſolve in
minutiſſime particelle, fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare. Ma la flemma
non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo; il
qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo: ſi age 406 Ragionamento
Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la
qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto, fonde il ſolfo, e maggiormente
disfallo, acciocchè poſla diſcorrere, e meſcolarſi acconciamente a formarle
coſe del mondo. Vien poiil mercurio, il quale a guiſa d'anima nel corpo, per
cutto penetra, e diſcorre; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi
fermo, e ben faldo cor po, ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia,
es’at trae la ſoverchia acqua, chesformatamentel'ammolla: per la qual terra
finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de
corpidivengono. Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che
diſtruggendofi qualunque corpo, in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva: e
contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in
altro giammai cambiarli, o folverſi: egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento, e
abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele, e di Galicno intorno a’loro priini
quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura
de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze, e non altre dice il Paracelſo eſſeri
veri principi delle core. Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal
di viſo del Paracelſo, non vo'ora opporgli, che y’abbia alcu ni corpi, i quali,
come affermal'Elmonte, e altri valoroſi maeſtri in Chimica, non ſi poſſano
maidisfare, o fciorre nelle loktanze da lui avviſate; ficome certamente è l'oro,
e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver
bene cotali corpi ſoluti; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero
artificio adoperare. Ne meno dirò, che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo
allor che disfannoſi i corpi: e che prima in quelli in niun modo alliguavano;
perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo
macerato nell'acqua, le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno
manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi
pare, era in priina nellegno: e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo
maccramento il ſale; anzi dirà il Para. Del Sig. Lionardodi Capoa. 407
Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio alcuno, e ſenza ſolverſi
v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome nelle ſugne, e in altri corpi
grafli', e uotuolije nelle ulive anche non ſolute il ſolfo-apertamente li
ſcorge; per ciocchè in quello ſommamente abbondano; ne a trar da quelli il
ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica, o ben fati colo favorio di
diligentemaeſtro; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi tratto per l'artificio
del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente ingenerato. Nepuò il fuoco,
per direvole, e gagliardo, ch'egli fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra
dannata', o dalla flemma, ove fólfo,ne mer. curio, ne fale non alligna, non ſi
potrà per opera difuo co, orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai.
Tralaſcerò pure di dire collElmonte, che dall'arena; dalla ſelce, non maiſolfo,
o mercurio ſi può trarre; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in
cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe, e poche, che nel volerle diſa
minare ſi difperdono. Ne recherò, che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo
ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo ſale l'arene, e le pietre: le
quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo;
percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo, edelmercurio ſvapo raci,quello
cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare;
ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale
riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze, che ne ſvaporano. Ne dirò pur
coll'Elmonte, ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj;
conciofoſſecofa, che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale
in olio, e l'o lio poi tramutato in acqua; perciocchè non così agevol mente il
Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede, fe pri ma con gli occhj propj non
l'aveſſe veduto. E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra
novella dell'Elmonte, ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver
tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua, due once, e mezza di ſale, e dodici
d'olio, perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo, che l'olio ſi ſia
nuovamente dal 408 Ragionamento Sefto, dal Cale acetoſo della gromma
ingenerato; conciofoſſecofa, che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi
foſſe,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine
laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo, e
i ſuoi principj: ficome quelli, a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe.
Sola mente dirò, che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da
dovereavviſarei principi delle coſe; non però di meno tra per la ſcarſezza
degli ſtruinenti, e di tutto ciò,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e
ancora per lamala gevolezza dellavorio, ſi rende quaſi egli impoſſibile; ſen
zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili,
e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino, e ſi diſperdano prima di
potereſſer avviſa te; c altre comechè pur virimangano, nondimeno per la loro
picciolczza non si poſſan comprendere, non che per altra notomia più ſottile
diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento, che ſoſpetti rens de i principi
delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non
iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea, come da loro le ſenſibili qualità ad
ognun conoſciu te, e quelle, ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino,eco me
operino, ſe pure il fanno; ne è maraviglia, che'l Para celſo ciò non abbia
adempier potuto: da che egli non ſa qual ſia la lor natura; ne certamente
ſaperla, anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva, non ſappiendo la natura
della ſoſtanza,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare, che
la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli
cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza, qual veramente giudicavaſi, dovea
ben'egli in avviſando, che co'ſuoi principj non ſi potea render ragione
dell'apparenze delle coſe, prender quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente
altri foffero i veri principj di quellc, e quindi forte ſtudiarſi
d'inveſtigargli; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli indugiato; ſenza
fallo avviſato avrebbe, le varie, e diverſe figure delle menomiſſime particelle
eſſer de'ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa 409 de' ſuoi principj cagione; perchè
agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero: eche
non eglino, ma il corpo medeſimo in varie, e diverſe brice fgrecolatose
partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna
operazione di quelle prendeſſera dice, e cominciamento. Ma intorno alla maniera
dei medicare del Paracelſo, ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri, che ſotto
ſuo nome vanno, èda dire, chemolto vaga, e in coſtante ella ſi foſ fe, e di
pochiſſima fermezza. Il che altronde certamente non nacque, ſe non fe
dall'avvederſi, ch'egli fe in medicão do, dell'incertezza grande dell'arte; non
però di meno egli pur convien confeffare, niuno,per quel che ſi ſappia, aver
avuto corante, e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più
pertinaci, e diſperate malattie, quanto il Paracelſo; e sì ſaggiamente ſeppele
egli a tempo adope rare, che non fu certamente infra gli antichi medico co
tanto valoroſo, e avveduto, ch'a molto ſpazio, così nell' uno, come nell'altro
non gliandaſic dietro. Perchè in tā to pregio, e rinomèa montonne egli preſſo
le genti, che non huomo mortale tanto, o quanto della medicina cono ſciuto,ma
non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente
giudicavanlo. Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di,
ancorachè alcuni di loro per uggia, e mal talento con biechi occhj il
guardaſſero. Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della
Germania folea chia marlo, così di luifcrive: creditur habuiſse præftantiffimum
illud vellus aureum, quod Iafon apud Colchos conquifivit: (Intelligunt me qui
Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit; ande magietiam opinionem apud
quofdam cele bres viros, quod magis miror, eft confequutus. E prima dello
Spondano, Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno, e di lui per invidia
inimico, pur dalla verità ſtret to ebbe a dire: audio multos paffim ab eo in
morbis deſpera tis curatos: & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata. E al
trove egli n'avea detto: Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR 410 RagionamentoSefto
(nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit)
admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis
oriundus, perva. gatus magnam Orbispartem: chimica arte y qaamipfe puto
ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium, ita utper eam metalla immutaret. E'l
dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima
natura viſce ra ficpenitus introivit, metallorum, ſtirpiumque vires, facultates
tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit, ad morbos defperatosi,
& hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum
medicina, perfett'aque. videatur. Madel ſuo incóparabilvalore; e delle
maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città
tutta, e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli
per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto, e famoſo divenne: intanto
che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi
tempi,cosìdi lui dice: Apud Germanos: nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit,
cui parem Orbis.non fert:doctioremme legiſememor non ſum.. E Melchiorre, Adamo
dilui pur raccontando dice: eum ingenio acutisfimo, acferè divino
fuiſſepreditum: din univerſa philofophia tàm ardur, tum arcana', abdita eruiſse
mortalium nemi nem: lepra, podagra, hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis,
defperatis mulios liberaſse: "idie per duas horas Ba flee tum
aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma diligentia, magnoque auditorum
fructu eſseinterpretatum doctrină,quam non ex Hippocrate, fed experientia
aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego de Theopbralo pre
clarèfentio: admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel ligat, & quæ
ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo famigliare, per
veduta anche di lui racco ta: pari induſtria novi ipſum leprofos, bydropicos, e
pilepti cos, podagricos, morbo venereo infectos, aliofque innume ros infirmos
gratis fanare. Id quod Galenici Doctores non fine notabili dedecore non
potuerunt imitari; unde in ma gnum DelSig.Lionardodi Capoa. 411 gnum apud
quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera
appunto, ove fraſtorna to dagli emuli dilui, e fommoſſoanch'egli in truppa, a
rabbioſa monte mälmenarlo, infra le tante, e tantc menzogne, e cacce, che per
isfregiarlo farnesicando ſi fogna (del che gravemente poi pencilſı, ſicomene
narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare, che apertamente talvolta
non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico, aver prontamentetra
le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem,
felicitatem, Quindi di luinarrando foggiugne, che in curandis vulne ribus,
etiam deploratiffimis miracula edidit, nulla victus præfcripta, aut obſervata
ratione. E de'ſuoi mirabili, e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo,
dice, ita gloriabatur, ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis
vivas reddere pole; idque aliquoties, dum apud ipfum fui, ipfe declaravir.
Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza, che fe del le maraviglioſe cure
del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo
altamente anorato in vita, e faccigli in morte famofiflimi eſcqui: volle, che
nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto;
Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa
vulnera Lepram,podagram,Hydropem, aliaque infanabilia corporis.contagia,
mirifica arte fubftulis, ac bona fua in pauperesdiftribuenda, callosandaque
curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina
del Paracelſo, comeche delle men nobiliel la li fia, alla contezza noſtra
pervenuta; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere
nelle ſue opere. Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta
Elmonte, tuttochè ſuo emulo, ebbe a dio re eller quelle così rare, e prezioſe,
che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle
egli riportato. Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo
in medicina, qual noiraccontato abbiamo; non per Fff 2 rò di 412 Ragionamento
Seſto rò di meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire:
e ciò maggiormente teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il
corſo della fua vita, cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li
po tè egli per argomento niuno fchermire: comechè cotanti diſperati infermi
dall'orlo della ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte
sforzaraméte ritolti; e pur egliavea detto in prima: nullus morbus fuo
medicamine defituitur. Che ſe'l maggior medicante del mondo non potè ceſsar la
violenza del ſuo fato, e adoperarsì co'ſuoi valevoli, co prezioſi
medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi ri ſerbaſſe, che dovrem noi
ſperar mai di certo dalla medici na, attenendoci a rimedjdeboli, eſpoſſati, per
falvainen to delle noſtre vite? Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za
grandiſſima dell'arte, che pur troppo avveduto ſe n'eray e roveſciandone
follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in baha di quelli ſia
l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto; perciocchè da quellola vita, e la
morte noſtra de pende; quod autem, dice egli, parlando dell'incertezza de'
medicamenti, ium medicine, tum his atentes perfæpè à fa talibusgravius vexentur,
&cuentum conditioni medicina AC curſuinatura adverfum omnino
experiantur;ideo nobis fa Gere debet, ut inde diſcamus nimis obftixatam de hac
fragili vita fiduciam,ac fpem deponere. Etfi enim nocentia fimul omnia,
&medicinarum fimulomnium virtutes, morbo rum genuinascaufas; ac bis
oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen hancconfidentiam
incumbes fan tum infringit facilè, ftatum formum omnem deftruit; cui nos non
modo non obluétari quicquam poſsumus, ſed fatali bus caufs nofmet nudos totos
potiøs objicimus, utpote que nos in folidum mortalesfaciani, noftraque molimina
infrin, gant, & providentiam noftram, ac confilia univerſa ever Ma
de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne poſſiamo, che comechè egli
valentiſſimo medico, e filorow fante ftato foſſe, pur le ſue opere in gran
parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono; cotanto piatto, e imbacuccato tant.
egli 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 413 egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti,ch'a ben
rugumargli malage voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono. Eoche foſſe
ſtata invidia aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci, o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe,dique'ſuoi
maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi, pochi egli ne
volle inſe gnare:. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe, che ben ne
laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia;
de'quali egli medeſimo favellanda, dice: in quibus afsequendis paucisfimi
fcopum contingent., Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono,
togliendo in cambiouna coſa per altra, e sì con quelli pig giorando gl'infermi
delle loro malattie, e ſovente anche uccidendogli. Vuole egli, che ciaſcuna
malattia, toltenc quelle, che richiedono la mano del medico per dover curarſi,
e quelle ancora, che dalle ſole qualità relolacce avvengono, le quali ſenza
argomento alcuno d'arte ſi guariſcono, dalle impurità ſemplici del ſale, o del
mercurio, o del ſolfo, o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe
s'ingeneri no. Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe
noi non ſappiamo, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro, ne
anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano,
accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo. Le
medicine, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale, ch'è da curare;
perciocchè quantunque ognun fappia, che le malattie fian contrarie alla ſanità
delle gen ti, e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor
natura; non però di meno le medicine, le quali G convengono alle malattie eſſer
debbono pure della mede fima lor generazione; perciocchè altrimenti mala
pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità. Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo
aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie, così dica: caveat itaque
medicus ne arbores duas in unams curam inferat:fed teneat regulas,morbis
mercurialibus dan dum ejſe mercurium: morbis falinis,falem:morbisfulphureis,
ful 414 Ragionamento Sesto ſulphur; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum
ficut convenit. Ma in buona fe, che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura
delle malattie? Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo:
igroravit bonus ille vir, quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem
requifita. Ne ciò è ſempre vero, che le coſe più agevolmente poſſano alle
ſomiglianti penetrare, cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo
diffe:quodlibet fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum; perciocchè
avviſiamo noi tutto giorno in molte, e molte coſe il contrario avvenire. Ele
pur talvolta incontra, che s'accozzino, certamente per al tracagione egli
s'adoperajāzicotáto ciò è falſo,che per co trario alcuno dir potrebbe più p
diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi
ſono, i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono;nei corpi ſpea rali, o
ritondi, comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo
convenirſi: avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo
seno il Paracel fo:Scorpio ſcorpionem curat, realgar ſuŭ realgar, mercurius
fuummercurium, meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente
cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello, che egli va diviſando;
perciocchè, per ta cer dell'altre coſe, nello ſcorpione i pori auſati per lungo
tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno, e acconcj anche a riceverlo, più
agevolmente il ricevono dalla ferita, ch'egli fa nella carne d'alcuno, che non
poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella; perchè movendo per la
forme tazione le particelle delveleno nella fcrita, volentiericol loro
diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi
ritornano. E queſte ſono le con tezze,che deve avere il medico avveduto per
doverpren. der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le
ſomiglianze, o altre fraſche, le quali agevolmente poſ fono ingannarlo, e
mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a'
mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma, e colla terra dannata, e
altri, Catri Del Sig. Lionardodi Capoa. 415 $ 1 e altri mali guarirli con
diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza fola poffá
diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato ſalutevole del primiero vigore
riporgli? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola del Pa. racelſo intorno
a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da ſeguire in medicando;
come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte di ſale, o di mercurio,
o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo, feu prima egli
pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi, ch'a ciò il conduffero.
Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle particelle, che forman
l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali l'amaritudine nel ſal
della coloquintida, ſc ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere. ·
Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale, come è coſtante famaaverla lui
apparata nel fuo lungo pellegri naggio, non facea meſtieri ſapere; o'avvifar
niuna disì fata re coſe, ne'curar di vene łatice, o di acquoſe, ne della doc
cia del Virfungo, o della circulazion del ſangueso dal tri, e
d'altrimoderniritrovati: comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte
luidi queſte coſe felicemente avvi fate. E cócioſliecofachè l'univerfal
medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione, o ad altra coſa del mondo,
igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a
si fåtte fraſche foſſelli: attenuto, ſe egli diquella erisì ben fornito;
perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò
valevole a invi gorirlo, e ajutario sì fattamente, ch'egline ſolva, vinci, e
diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte
prendon dirivo. Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale
ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta, e participan te della natura
celeſtiale: onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile; adunque corale
eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj,
acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa. Ma certamente non che il
Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai, anzie egli 416 Ragionamento
Seſto egli fola il creder, che quella ci ſia, o pofla mai eſſere:av: vegna pure,
chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte, e
diverſe generazioni di graviſ fime malattie. Ma egli tante,e tante ſortidi
medicine ado però nelle ſue cure, e argomentoffi dicomporre, e lavora te con
ſuo gran biſtento, e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non
s'avrebbe dovuto, ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe;
ſenzachèegli, ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe, e menovili, ſarebbe
fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo
anzi tempo morilli, e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua
vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato, no
avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore, e della vir tù della
ſua univerſal medicina. Ne meno egli certamente detto avrebbe, che l'huomo per
la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie,
cche i caratteri, e le immagini ſcolpite nelle piaſtre, e porta te adoſſo
poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle; ne
farebbeli follemente ſognato, che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli,
ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini, e ſi fonda: onde poi mettan fuora varie,
e diver fe forte di malattie: e che'l ſale, e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi
diſtillino, fi ſublimino, e ficalcinino cagionando le malattie: è che'l
mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione
delle ſubitane morti, e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo
all'univer fo, e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte: e che i tre
principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano, quante ci ha coſe
create: e tante, e tant'altre ciuffo le, e aggiramenti, che ſe tutti fil filo
gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo. E tutto ciò a lui
avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto
ſciocco, qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle
da' ſuoi malevoli per uggia, c per diſpetto cosìdiſguiſate, e travolte furo no
con torne alcune ſentenze per entro, e altrs, o ſciocche, o fans 1 1 Del Sig.
Lionardo di Capos 417 o fanciulleſche, o empie vezzataméte frapporrvi,che omai
tralignano dallo ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune
ancora affatto non ſon fue, licome il medeſimo Oporino, che così fellonoſamente
rubbellogli ſi, manifeſtamente rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente
coglier cagione per quelle d'accoccaglierla, c dir glicne male; ſenzachè
manifeſta coſa è, che quelle, che ragionevolmente ſon da credere opere ſue,
vennero perla più parte ſolamente dalai diſegnate, ne più poi per innan zi
rivedute; perciocchè egli dal ſuo focoſo, e diſcorrevo {e ingegno traportato
inteſe ſolamente in prima a ritrovar le coſe, e quali dal profondo della natura
cavarle, con in tendimento poi di più minutamente a ſuo bell'agio quelle
ſtacciare,.e diſaminare, per poter metter avanti con eterna fama del fuo valore
quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che im preſe a diſegnare; e per avventura
ſarebbegli venuto fatto, s'a ciò tempo aveſſe avuto; ma la morte, ch'improvviſo
gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio
di fornirgli; perchè rotto a mezzo della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco, e
diviſato rimaſe, qualnoi veggiamo. Ed è anche opinione d'alcuni, che le menzio
oate ſue opere foſfono componimenti de'ſuoi ſcolari; per ciocchè egli uſava
folamente a boce inſegnar loro i ſuoi ſentimenti, ſecondo la coſtuma di
quc'rempi; e quelli poi gli cópilavano in iſcrittura, molte coſe giugnendovi
dellor capriccio,e molte non ben copreſe travolgendo a lor talen to in
tutt'altro, cheegli li voleva dire. E ciò tanto più ne ſi fa manifeſto, quanto
in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue coſe ſon ripetite, ſecondochè da
diverli ſuoi ſcolari furono accolte; anzi dal loro natio tedeſco linguaggio nel
Jatino idioina ſcioccamente traportate da perſone diciò poco, o nulla
intendenti, così confuſe, c inviluppate di vennero, che malagevolmente ne vien
fatto ad avviſarne, iveri ſentiméti dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche
l'ofcurezza, ch'egli a bello ſtudio argomentolli frapporvi, certamente
oſcuriſſimi, e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono;
conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piat 418 Ragionamento
Seſto sì piatto, e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e
d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far quelli
ſolamente, e con lunga fatica agli huomini dotti, e di maggiore intendimento
comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe
il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan gli
occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli
dice: ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus, id factiraſse
Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da
ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer
de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men, che come
corpo morto ſenza vita rimane: non può certamente eſſere ne filoſofo, nemedico
valoroſo colui che non ſappia appieno ciò,che dellecoſe della
natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato.. Fra Tomaſſo Campanella,
comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe, pur sì
fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali, cheben ne da.aw divedere
quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli
ſono, che il ritrovar la verità. Nocquegli più che altro ſommaméte in ben
filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle
opinionidel Teleſio ſuo maeſtro, per tacer della ſtrologia, e d'altre vane
ciurmerie,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi; e l'averfi
dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente
immagi nati abbian parte nelle cofe della natura; perchè non è da maravigliare
ſe'l ſiſtema della medicina, dalui fabbri cato, manchevole oltremodo, e
difettuoſo riuſciffe. Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui
eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo;
perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova
ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma Del Sig. Lionardodi Capoa 419 Ma
ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia;
perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti, dicendo il fegato
efferfonte, c origine del ſangue e la milza del fiele: e che tutto dal cervello
provenga: Organum fpiritus, dice egli, cor Jan guinis jecur,fplen fellis, &
alia aliorum; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent;arteria vocalis manifeftè
ex.com pite oritur, ubi et ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt
enim ejufdem fubftantia, d originis. Etanti, e tantal. tri falli egli preſe
nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che
ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno: Quid horum eft, quod fenfus
teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam Anatomi corumpueris
damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil Campanella da quel gran
Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc, che'l nutrimento p una cotal
cortiliffima foftanza; la quale ſpirito appella Cri foſtomo, dal cervello
infieme colfenfo, e col movimento all'altre membra degli animali fi
difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente favelli..: Ma che direm
nai del fiſtema di lui, della nuova arte di medicare,ch'egli ne compone? Vuole
eglicol Telefio il caldo ſolamente, e'/freddo effer primi principj di tutte co
fe, i quali egli chiamaagenti: e l'umidità, e la ſiccità ef fer ſolamente
diſpoſizioni della materia, ceffetti di quelli; intanto che la materia delcaldo
aflottigliata divenga umi da: e ſi rondafecca, ingroffata dal freddo. Ne
l'umido có altro può accompagnarfi, fuor folamente che col caldo: nè'l ſecco
con altro, che col freddo; perciocchè ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo:
04 fecco col caldo, dice eghi, che ſarebbon da quelli toſto diſtrutti. Anzi
dice egli, che'l caldo fia cagione dell'umido.: e'l freddo del ſecco;
perciocchè il caldo ſolve le coſe, e le allarga, e l'aſſorti glia: e'l freddo
per contrario le indura, le ſtrigne, e le co ftipa. E queſti due principj dice
egli effer foſtanze, o for me eſſenziali, de quali accozzate alle lor materie
formino il Cielo, c la Terra; perchè anche due, e non quattro vuo Ggg 2 le
cgli, 420 Ragionamento Seſto fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme
dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente,
non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è,chc
dice egli eſſer: altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto
delle colc; daʼqualivuol egli, che prenda dirivo ciaſcunas operazione la
qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce. E
queſti principj incorporei, o primalità, ch'egli chiama, vuol egli, cheſiano
lapotenza, la ſapienza, e l'amore; onde ciaſcuna coſa voglia, poffaw, e
conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione.
Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura,non fa
meſtier, ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non
ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura, ma altre, e altre coſe diver
filime da quelle; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo, e
del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi, non che
dichiarare, fe quelli vera mente operino, e come; imperciocchè ſovente
egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare; poichè egli
medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro; perchè
manifeſtamente s'avviſa, che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la
ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele: e grandiſſimo
tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe; perchè
poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più; prendendo egli
in cambio della mido il diſcorrente, che è ſuo genere, e non iſpiegando la
natura di quello, ne del ſecco, o del dolce,, o dell'amaro, o di tuce'altre
ſenſibili qualitadi. Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni
de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun, che riguardiall'acqua, che per lo
freddo congelata fi rarifica, agevolmente ſi può avviſare, che non feiapre il
freddo condenſi le coſe. Mache è ciò ch'egli di ce, che le coſe inanimate
abbian ſenſo certamente a ciò cre 1. 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 421 1 credere,
per tutti gli argomenti del mondo, ne egli,ne il Tea lefio, ne l'Elmente,che in
ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono. Ma ſpiegar poi non può egli in modo
quelle ſue prima lità, c'huom finte da lui non le creda, e aver la loro eſiſté
za tutta nel cervello ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome
vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo,eda far tutte
quelle maraviglioſe ope razioni, che da lor procedere tutto dinoi veggiamo. Ma
per darci ad intendere, che le coſe tutte abbian ſenſo, do vea certainente egli
prima farci vedere in quelle gli orga ni, i quali render le poſſano del ſenſo
capaci. Vuole il Campanella,che l'huomo ſi componga del fal do, dell'umido,
dello ſpirito, e dell'anima; e che la ſal dezza dalla denſità naſca, e queſta
dallo ſpeſſo, e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga; perchè dice egli,
che le coſe condenſe, e falde, sì attamente, che di vantaggio più riſtrigner
non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra parte dice
naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle che ſon
diradate,e folute, dice eglieffer la ſpiritualità: la qual non che reſiſta al
toccamento, anziella dileguiſ immantinente,e fugge da ognjintoppo. Ma purdice
egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non già corporale,
ma ſicomeeglichiama, affettiva:dalla quale invigoriti incontro la forza, che
lor fatta viene, riſcuotonſi quelli, e combattendo diſcacciano ciò, cheloro è
d'impedimento. Soggiugne il Campanella, ch’alle parti ſaldefaccia me ftier
dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe, e per non
dover ſeccarſi, erõperſi:e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come
divafo, o di ri cetto, che loro dia luogo,e le ſoſtenga. Ma agli ſpiriti,di ec
egli, far luogo le parti umide,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi
nutrichino: e le falde ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino, e non ſi
portin via; e per con trario l'umore abbiſognare dello ſpirito, acciocchè
quello pre 422 Ragionamento Sefto premendo il cibo, e traendone il fucco, il
formi: e ſomi gliante, acciocchè per quello ſi riſcaldi, e diſcorra; e al ſaldo
ancora convenirli loſpirito, acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e
muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che l'anima abbia
ancor ella biſognodello ſpirito, acciocchè per opera di quello itu dioſamente
muova il corpo, e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda; perciocchè l'anima
da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito: dalle
cui paflioni ella vien rattenuta, o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo
ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e
acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo
roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo. Main
quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente
contro quella com batte, maggior capital facendo degli agj propj di ſe, e del
fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende
fommamente neceſſarie a ben viverle genti; che le alcuna per mala ventura in
quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora: le quali ſciogliendo l'uma
na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per
mádare a terra si fat to fiftema, e rintuzzare il diviſamento del Campanella?
Egli non ha dubbio veruno, che nella maggior parte di quello cotanto egli dalla
natura s'allontani, e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno
per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema di
razional medicina, conveniva in prima molto bene la natura del corpo
inveſtigare, e di ciò che a quello avvenir poffa: ficome fecero quegli antichi
greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola,ch'egli ſcrive al
Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente nonfacendo,
comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti, emolci errori di Galieno, e de
ſeguacidi lui ſcoperti aveffe: pure per manchezza non poco danno gliene ſeguì;
perciocchè egli così poco acconciamente della natura del le m2 Del Sig.
Lionardodi Capoa. 427 fc malattie, e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di
quel le imprende a ragionare, che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato, e
carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue
ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla
natura dellow febbre: ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El, monte
da lui tolia l'aveſſe; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo; ma ad
amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre
Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la: Febris,
dice egli, eft fpontanea.extraordinaria fpiritas agitatio, inflammatioque ad
pugnam contra irritantem mora bificam cauſam: quam fic.calefacit, agitar,
digerisque, red ditque expulfioniapsan, vel extinétioni', velmeliorationi.
Macomechè la febbre tutto ciò faceffe, nonperò di meno offendendo ella
ſoprammodo le operazioni, è ella cert2; mente da dir malattia; ſenzachè Io non
ſolo, come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti: e non altrimenti, che s'egli ani
mal foſſe, quando gli metra bene, riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere
contro ciò che'l molefta, e gli reca in toppoalle ſue operazioni. Cofia, la
quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma
intorno a medicamenti, eglivuole,che la cura quan to a ſeda far ſia perli
contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga; e
alcuna fiata gli uni,ė gli altri meſcolando compor fi convenga, acciocchè il
foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin. di il contrario
combatrendolo il difçacci. Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta, che
ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in
pruova il fapone: fiquidem, dice, Sapone ex oleo, cinere, da calces confefto
maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum, & alliciente:
cinere, calce fimul expellentibus, Quare, ſoggiugne poi, maculas vini ex calce,
di vino fa. pone confecto educes; fihanc nofti magiam. Ma doveva av viſar pure
il Campanella, non già per la fomiglianza, che pulla opera, l'olio con l'olio
fi meſcola, el vino col vino; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura,
e per la diſpoſizione delle loro particel le; e doveva egli pure inveftigar la
cagione, per la quale la cenere, ela calcina radendo l'olio della
veſte,allettaco. come egli dice, dall´altro olio, quello ne portin via; per-.
ciocchè ſe a ciò egli badato avrebbe, ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento
altronde non naſcere, che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli, i
qualiſe mai loro ven gono colti, la calcina, ne la cenere, ne anche il ſapone,
che di lor fi lavora, non ſaranno d'efficacia alcuna; ſenza. chè fe per
fomiglianza è, che l'olio del ſapone attragga l'olio dalle veſti, e con la ſua
amicizia ne lo ſpegoli, e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il
ſapone in curtº altre macchie de' panni lini, che così gli imbianca so puc
Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle: 0'1 fummo
del ſolfo colle macchie de'veli? cer tamente non altra, che quella,che ha la
granata colla ſpaz zatura della caſa, o l'erpice, elamarra colle zolle.
Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina,
ineſcolar ſi debbano talora i ſimili co’contrarj, appunto come il ſapone da lui
diviſato;accioca chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac
ciandogli fuora gli purghino. E quinci, dice egli, nella compoſizion
dell'utriaca ſi meſcola la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella
il veleno s'attragga, e dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio,
chi non ſa, o chinon ha per pruova avviſato,che la carne della vipera non ſia
veleno? Perchè falſo, e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle
compoſizioni de’medicamenti: come, e quando de ſomiglianti,ede'contrarj, o
ſemplici, o meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu: a'conſigli
di lui certamente in niun modo attener nedob biamo, fe a liero fine delideriamo
i noſtri medicamentido ver riuſcire. Fu egli ancora cotanto poco fcorto della
natura de' me dicamenti, che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi,dif ſe
egli, che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè
eſtinguino gli ſpiriti; e pure il caltoreo, il 90: Del Sig.Lionardo diCapoa.
425 il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto,
che cagiona il letargo, avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora, che l'antimonio
crudo gagliardiffimaw medicina ſia. Mapiù ſconciamente egli trafanda in pre
ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in quella ricetta, in
cui colui dice, che ſi tragga il mercurio dell'argento, e che quello ſi
meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover lavorarne il
precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi è quel ſuo
di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa
degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit,
cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia
fimulnaturarum. Ma comechè in molte, e molte coſe, ficome accennato abbiamo
falli il ſiſtema del Campanella, e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato;
impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina; perciocchè
può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare; eſſendo nel
vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi, che la noſtra Italia,
e'l noſtro ſecolo ab. bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della
debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla,
e mandarla al ſuolo; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate
ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele, e di Galieno, e
diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti
ad accattar contezze di buona medicina; ma non gli venne cotanto fatto, chenon
deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori, giudicando follemente in
prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti; quindi in tanti, e sì
grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad
unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il
Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves: cioè a dire, che il mondo picciolo
ritenga in fer tutte le parti, e tutte l'apparenze, che nel mondo grande ſi
veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbo 1 426
Ragionamento Sefto 1 1 imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e
mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe,
filoſofandoora col Paracelſo, e ora con Ga lieno, avviluppa il tutto, e
comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far
parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte; il
quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go
tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare, e in
iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi
ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina. Il
materiale principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo, appo l'Elmonte,è
l'ac qua, non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria,
ne il fuoco, come quello, che non è ſo ftanża, ne accidente, ma morte delle
coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione, con dire, che ciaſcuno corpo
del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi; e'l ſale poi per opera
del circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi. Oltre a
queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in
qualche modo il ſale, il mercurio, e'l ſolfo,i quali da quel la per natura', e
per arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale, folfo, e
mercurio, come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non
ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo, di
fale, e di mercurio coinpoſta venga. Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi
apertamente, che l'Elmonte non manifeftis pūto, come far ſenza falloe'douea,
che coſa l'acqua vera mente fiafi; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle
L'alta cagion, che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi
egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta, e rimuove
chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo,
Quis unquam mortalium novit quid fit aqua? qua tamen creatorum eft maximè obvia,
aperta,viſibilis,atranslucida? tantum enim deea Del Sig.LionardodiCapoa. 427 de
ea fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam
concipiunt per obſervationem fenfuum: quod fit.corpusgrave, liquidum, humidum,digitocedens,
fluidum, amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum,attenuabia le in
vaporem:nemo tamē novit internam aquaquidditatem, vel quare liquida
fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente
dell'acqua; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei
quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile, e laudevol titolo di
filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe; im
perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto,e
meſcolato d'atto, e di potenza, ei freddo, e umido, ne ſpiegundo poi qual ſia
l'atto, per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe, che acqua
non ſono, e in che conſiſta la potenza, e come ſi maturi nell'atto, e venga a
perfezione, sì che acqua, se non altra coſa più coſto quella divenga: ne
diviſando, che coſa las freddezza fia, ed onde avvegna il diſcorrimento, ne per
qualcagione alcuni de'corpi liquidi, e corſoj, umoroſi an. cor ſiano, ed altri
no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua, ne più di ciò
che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia. Ma fe l’Elmonte
aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi
mnaraviglioſi avanzi del le divine opere, ch'ancor fi riſerbano di Democrito, o
al diviſar degli altribuoni filoſofanti: o pur s'egli, ficome conveniva, dagli
effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle
ſottilmente ſtudiato ſifoffe: o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto
mente: Io ſon ben certo, che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non
avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella,la
cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato
avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento, a
queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la
natura di quella. E certamente in ciò, che ſi apro Hhh 2 no, e 42.8
Ragionamento Sefto ño, e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida
ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili: e dallo ſpargerſi
di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto: e dal riempiere gli ſpazj, e
adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra
forma non hanno fuor ſolamente quella, che loro da vali, che gli contengono, e
chediſcorrer non gli lafciano, vien preſcritta: e dall'avviſare, che ogni
particella loro participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes
anch'ella fia: ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi
diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili, e tra eſſo loro in
atto partite, e fpiccate per un.. cotal movimento continuo, che non mai le
laſcia appicca re, e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando
agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare, e si
riparare all'ignoranza, ch'egli di se medeſi mo ne confeffa; concioffiecoſachè
eſſendo l'acqua oltre modo diſcorrente, egli è da dir che ſia un'accoglimento
di menome, e inſenſibili particelle, le quali sì fattamente fixo no accozzate,eammaſſate
inſieme, che ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa: avvegnachè in atto
elle ſiano fe parate, e partite,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano,
ne meno per alcuno de’loro lati: e ſeguentemente continuo ſi muovano. E ſcorto
egli avrebbe altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo;
concioffiecofa chè l'acque, comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag
ghiacciate: non però di meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli
delle calde,ſe non già ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe
eglicertamente detto che'l movimento, checosì l'acqua ſciolta ritiene, abbia le
par cicelle ſue, o da ſe medeſimo, o altronde che dal caldo a: quelle
comunicate;: perciocchè l'acqua, almeno perquel che noi avviſiamo, cede cheta
al toccamento, e da luo go a ’ ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere: e
di lataſi a'raggi della luce: e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e
d'altri corpi cheper la ſomiglianza, che hā no con quello, parimente eſſi
vengono ſali appellati: avve gna 1 3 DelSig.Lionardo di Capoa 429 1 gnachè
muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del guſto,
convengano eſſer diverſamente foggiati; i quali corpi penetrando per mezzo effe
particel le, ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano
gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano, intanto che vi
ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle faline allogare. E
moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti, e or dinari ſono,
che agevolmente per entro, e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E
oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli
avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti, ch'agevolme te a'ſaldicorpi
s'appiccano, i quali tanto, o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra tutti
quelli, e penetrino lo ro dentro, c talotta anche in parte, o in tutto gli
ſolvano; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc
ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo, e molo le; non però di meno egli alquanto
d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia fia:non
iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che quelliaffatto
sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe potutonó effer
le particelle dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e liſciatesquali per av
vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente
riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata n'aurebbe la figura d'effe
particelle, ficome ferono già ne’primi tempi Pittagora, Timco, Platone, altri,
i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure ſicome de’giorni noftri l'accennato
Deſcartes, il quale giudicata l'ha cilindrica, e pieghevole, e guizzante a
guifr d'anguil le: 0 ficome l'incomparabil filoſofante Gio: Alfonſo Bor relli,
il qual.cosi'ne favella: lanugo quedam tenuis, &de bilis
inveſtiens.quodlibet aqua minimum, ſcilicet concipide bet interna, & individua
qualibet aquæparticula, ſolidad's &dura: cujus figura octaedra. E avvifato
ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia
infra loro, o almeno poco diſſomiglianci; la qual for 1 1 430 Ragionamento
Sefto forma loro, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto
malagevole, che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare; ne fino
a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto, ne mai, per quanto Io poſſa
comprendere, certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi
tramuti. E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che
non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque
ingiu ria ella ſi eſponga., o di caldo, o di freddo,o di altra imma ginabile
qualità; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella, che ella in agghiacciando
riceve, o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta, e all'Elmonte
ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua, ma il ſito
ſolamente, e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole, l'acqua
racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente, come ſi dice, ſuggellata das
Criſtofano Clavio, la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della
Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale
mutata; e altre acque ancora per più,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon
mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo; perchè ſen za fallo è da
dire eſſer quelle di tempera dura, emalage vole aſſai a ſolverſi,
dall'onnipotente facitore da prima fabbricate: Adunqueragionevolmente può dirſi
dell’El. monte, che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino
alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare, il medeſimo all’Elinonte
eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito era: che ove
maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder conveniva,quivi
tralandındo,più, ch'altrove ſerrati gli aveſſe; ed avvegnachè di ſottiliſimo
intendimento, emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine
della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela
egli ſteſſo Per troppa luce, quando il caldo ha roſe Le temperanze de'vapori
Speli: c firta Del Sig.Lionardodi Capoa. 431 1 e fatto groſſo
dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente,ch'alta
vena preme foverchiando il letto, ed allagando le prode;pertroppo ri goglio
diſperſo ſi foſſe. E quinci certamente viene, che nello ſpiegar l'economia
degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno,cheGalieno
fi aveſſe fatto; ne di ciò pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani
arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello:altri ne toglic in preſto dal
Paracel fo, come gli Archei, i Blas', i Magnali;e quelFormento, il quale per
dirlo colle ſue ſteſſe parole, eft ens creatum form male, quod neque fubftantia,
neque accidensfed, neutrum » per motum lucis ignis magnalisformarum
conditumàmundi principio in locis fue monarchia, ut femina preparet;exiſtat, a
precedat; con che', e con altre molte fue fantaſie, le qua li lo per non
rediarvinon ridico, da apertamente a divedere l'Elmonte, ch'egli non già nel
mondo noftro, di cui tutto di nuove, c nuove maraviglie egli ſcopriva,main un
mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto, e tanto poi egli involto fi fu
nella notomia vita le, ch'egli traſcurò la morta, ne di queſta ſeppe altro di
quel, che n'era ſtato già ſcritto; perchè alcuniaffatto non ſeppe', ed altri,
poco curioſo non curò de’modernitrovati; i qualimolto approdato avrebbono;
rendendo ad un'ora più credibili, e manifeſte alcunedelle ſue opinioni; perchè
sé bra ', che forſe non abbia tutto il torto a morderlo, e biaſſa marlo il
Gliſſonio, quando così di lui diſſe; hic auctor, utu eunque acerrimi ingenii,in
eo fuitminus felix, quod.veteri placitis rariffime aſsétitur,& vix,nifi in
iis rebus,in quibus il li ex certisſimis, demonftratis neotericorum
obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla maniera del medicare
argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina, certamente in ciò quello
dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia addietro. Per ciocchè oltre
alla contezza delle buone, e valevoli medi cine,, ch'egli ebbe pronte così
ſempre fra le mani, cotan to egli 432 Ragionamento Seſto. co egli vanraggioſli
negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu, ch'avviſando i
graviflimi danni, che per li ſalaſſi, e per.le purgagionipoſſono intervenire:
e'l veleno, che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu, e così ritroſo
d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario, comechè Galieniſta ', baud
paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit. Ne laſcioſſi in ciò menare
alla piena del ſecolo,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo, che non aveffe
egli ſolamente intefo quelle medicine, operare, le quali ſenza recar moleftia,
o noja alcuna allo in. fermo, fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per
chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi,
e pericoloſe malattie, che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne
ſommamente commendato, e quaſia miracolo tenuto. Così infra gli altri Andrea
Cellario in facendo parole di lui, e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo
Atlante celeſte, Chymicarum,dice,operationum adjumento admiranda hatte nus
præftiterunt, ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana
penetrantibus arêtius, altius fe infinuantibus, & remediis à natura
productis cedere ne Sciis, primas terent, &vulgaria medicamina longe
ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio, Nicolò Franchimorc famo fillimo
maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata
all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis,
ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non
exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici
d'orrevolmente commendarnelo, ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per
tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio, che nó ſi veg
gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo. Ma cotantielo gj pur nulla fono in
riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro
ſecolo, ciò ſono il Gallen do, elBoile, ed altrimolci di non poco pregio. Ma
doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello, che niuna delle ſue
nobili, e prezioſe incdicinema 1 wife DelSig. Lionardo diCapod 433 wifeſtar ci
abbia voluto, e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene
aveſſero dato eſemplo; non do vea pure egli, che sì corteſe, umano, e
compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da
coſa, che di tanto pro era al mondo rutro,dovea diftos lui, lamalignità
d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de'
ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues
medicine. Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe, con dar compimento
alla ſua maggior opera, che la cera, ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe,
avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente fas vellato, Ma
affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in
alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera del ſuo novello
ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità
dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu. mò lungo tempo, ed
appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo
confcſſa, ſenza alcun fruta to mai ritrarne; ne maigli venne fatto di ritrovare
in tutto quanto quel tempo medicina, chevalevole a domarfolie le malattie; e
quantunque egli dì, e norte ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e
di Galieno, e molti cu daveri aperti d'huomini, e di bruti, per inveſtigar
l'efficie ti, e le materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare
i luoghi de' putridi umori, ne in parte veruna di ſano, o d'inferm'huomo, o la
collera, o la flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè
pres'e gli per partito, di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per
ſe medeſimo metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando; e poi i
ſuoitrovati al giudicio de'fa vj, e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere,
così dicen do: Si rationes mea, cu experientia non optimę videan tur,
trutinentur, &ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere
videanturrejiciantur omnino, Celia minentur prorſus à fcholis: quod fi vero
probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur,tutabuntur.
Primieramente avviſa il Fabbrila materia, onde fon le Senſibilicoſeformate
efferpalpabile, viſibile, e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale
fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ, virtùnella materia,laquale poits
chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei,come dalla ſua cagio nel'effetto.
Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa
piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon
terminepervenu po: ma egli appenamefſoli in camino, ſmarrì il diritto fen:
tiero.. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale
dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga: e
credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della
priina mate ria cosiofcuramente favella. Vuoldivantaggio egli, chę tutte le
coſe, omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto
oleremodo, e diſcorrente, di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte
l'operazioni della vita, e tutte quelle coſe avvengano, che ſi oſſervano
nellemalattie. Queſto ſpirito, dic' egli, che nel fegato e alquantogre /fo: ma
più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello; naſcere:ad un parto colfeme,
e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce, la quale ſecondo lui
èlau farma eſſenzialc, non ſolo dello ſpirito, ma di tutt'altres coſe del mondo...
Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce',
e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e
ſecondo più, o meno, che lo spirito participidella luce, tanto più, o me,
noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga, Immaginaancora
ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito, e che lo ſpirito
poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver,
reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di
contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere, che
ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi
coſto del 1 $. DelSie. Lionardodi Capod della lorvanica. E cerramenteſe alcuna
coſav'hadibuone no nel Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të,
e ad altri valorofi Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre
volgariopinioniaccozzato vengono a perder tāto del lor valore, che ſembrano
prezioſegemme dal vil fangoia cretate. Or quantoal fatto del medicare e'non ha
dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian, doda
parte tutt'altre mal fatte fue cure: nella peripneu. monia vuolegli,
ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi ſangueallo infermo, c poi collc
viole; e collo fpiri to del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z
rinfre fčatli quel caldo, che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni
ribolla: ed il feguente giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito,
acciocchè con tal move mento venga ad aprirli alcunapoftema, ove vi ſia. Ein
tãto fi cibi l'infermo d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del
vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben
per'talie'medeſimo gli conobbes poichè altrove confeſſa, che le più valevoli
medicine alla peripneumoniafianla verga del Toro,e'lſangue dell'Irco. E
certamente dagli acetoſi medicamenti, che altro maiſe non ſe grave danno
avvenirpotrebbe a coloro, che di pe ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i
fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera; e oltre aciòcol purgare l'in
fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto fpof fáto, e fievole per
l'antecedente falaſſo, qualpro ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto
dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo giammai attendere? Ed o
quanto fe più ſenno il Fabbri, allorche dall'Elmonte ay viſato,de'ſalaffi
altrove in altra guiſa favellando, ne diffes: MirorParifienfium
medicorumpertinacitatem, curationem febrium, & ferèmorborum omnium in
fanguinismisſione lar. ga, ocopiofa collocantium: cum fepe fæpius caulja moru.
borum, & potisfimumfebrium tam continuarum, intermite sentium non refedeat
in fanguine, imovirtus s proprietas: lii curana Ragionamento Seffo. curandi
morborum omniü in fanguine collocetur,cum arcbeūs visalis fanitatis economus,
& morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata,dlarga manu effufo
effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur, di
diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit,
do curatio etiam morborum omniū, que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut
loco illius fubfc quaturmors; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote
altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri,
e quanto malagevole; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin
dalla prima giovanezza concette, e per vere al. cun tempoi fermamente credute;
il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge;nella
quale fto ria, e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da
luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi; maciò
traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò, licome poco addietro
accennava, che troppo vacillante, e caduco e'fia,eche il Fabbri poco, o niente
non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia
a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione. - Ma la
SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro, l'ordine de'tempi (erbando,
far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori
de’mueſtri, e delle dottrine già da loro imbevute: pur tanto non potè ella
dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta
entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora
incorrere; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri
razionali, è manchevole, e difertuofa; edan co tale ventura certamente le
avvenne, per non aver ellow avuta cortezza della chimica.Ma nocquenon poco
a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel, che fi dovea,preſtata... credenza
alle parole di Platone; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada
della vera filofofia. Im. Del Sig. LionardodiCapod. 737 Immagina la Signora
D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta, le cui radici fian nel cervello,
onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco, i rami, è tutto il ri
manence a mutrire, tal ſugo bianco vuol che ſia freddo, umido; mache nel fegato
facendoſi roſſo: caldo, e umido altresìdivenga; e che nel cuor finalmente
ſcambiato in să gue, in caldo, e fecco fi muri. Il calor del cuore crede ela la,
che ſerva all'huomo, come it caldo del ſole alle pian te; e che'l bianco fugo
faccia l'uficio de quattro elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la
pelle, per li nervize per le dilicate pellicelle, o membrane, che vogliam dire,
delle vene:mapoiin roſſo, e ſanguigno umor convertitos per altre vie, cioè per
le vene, e per le arterie ritornare. Or queſto fugo ove ſia malignato,fuor
delle proprie vie sboce cando per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente
an dar penetrando, contro il provveduto ordinamento della natura. Tutto adunque
il Florido,e vigoroſo ſtato di queſtº arbore, vuolella, chedalle radici, cioè a
dire dal cerebro avvenga: la dove fc quella, che pia madre fi appella, la dura
madre toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio
appiccare, allorvederſiverdeggiante, e fiorita tutta la pianta: ma ſe mai
divengan vizze, o alqua to s'abbaffino, fanguire parimenre lei; e quando
finalmen te la pia madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter
avere a niun modo più vita. Con queſto trovato, o purcon queſta ſomiglianza
dell'arbore, vaella tutti i con. venenti della vita, e della morte, e della
generazione, u della corruttura dell'huomo, e de rimedi, e delle malatı tie
acconciamente fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della
Signo ra D. Oliva; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani,
purealcuni di loro ſon tali, che non poffeno. fenza lunghi encomj, enon ordinaria
maraviglia guardar fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che
già della poereſſa Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala:ut tamlaudabilis
heroina ratio habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem: Ma 738
Ragionamento Sesto Ma crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio;
egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello con ciamente
fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata
intorno a' principj delle cos fe, ficome troppo groſſa, e ſciocca: e quella di
Democri to, e d'Epicuro, ficomefoverchiamente ſottile, e da’ſenli lontana: alla
perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia, e vuolche
ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ).di ſale, di ſolfo,
d'acqua, e di terra formata ſia; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga
bilmente ſi riſolva. E con quelto cinque ſoſtanze, in ciò, che elleno ne'corpi
compoſtihanmovimento e proporziou ne, ſi ſtudiacgli, e s'affatica di dar
ragione dell'apparen ze cutre della natura, e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc
dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non
eſſer ſemplici, ma comporte, e me ſcolate; pur tutto il ſuo diviſamento quì
egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora
fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte; anzi egli dice,
che non avendoviragionc, o ſtrada al cuna da potergli avviſare, ſciocchezza ſia
l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller
più coſto un grazioſo diviſamento, e voler giudicarc allas ventura, ea riſchio
delle.cofe del mondo, che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma
quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper:
tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona;
perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare, avvegnachè egli
contro i buoni filoſofi fa vellando, dica procudere,autfomniare philofophiam me
nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è, ch'un andare alla cieca,
e taftonc,ſenza certezza alcuna. Ma ciò laſcia do ſtare, o non s'avvede egli, o
s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza
fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli,
e fi deprima, c come poi ſi cſalti, e come con gli al tri principj ſi meſcoli:
c comc ammendi, e affreni i ftraboc chero 1 9 Del Sig.Lionardodi Capon. 439
chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale: é comequela to tante, e
tant'altre operazioni faccia, le quali egligliat tribuiſce. Certamente non mai
egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle: fiano, ondela ſottigliezza
dello ſpirito diriva; e colcoccare, che colmuovere ora in uno, oras ialtro
modofogliono negli altri corpioperare. Eben'e gli dovera (ficomca buon
filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina)
dalle appareze degli effetti la natura delle loro cagioniinveſtigare: cav
vifare, chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole, ſe di pre fente nonceda atutti
corpi ſaldi, che perentrovi paſlino je perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in
molte, e moltes particelle diviſo: le quali continuo movendo infra loro sé..
pre ſeparate ftiano;ne lo ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto
perretrare, ſe le ſue particelle picciolitime non fono, esì fåttamente foggiate,
che molti gomiti 20 angoli, non abbiano. Neper darragione dell'opere del ſolfo
giova ſapere eſ fer quello, licomc egli dice, di coſtruttura alquauto più
groffa', emaggioredi quella dello ſpirito; e che da quello nafca il calore, cla
varietà de'cofori, e degli odori alle co fe, e l'a lor bruttezza, e bellezza: c
per la più parte la di verſità de' ſapori; perciocchè quantımqne tutto ciò vero
fi foffe,cheegli ſenza niuna pruova farne grazioſamente, afferma, ben
potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo, argomentar, che le
particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome
quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite, e ſdrucciolantii, calia quanto'
famoſc. E què è danocare, come il Villiſio vada divifando dellacomplellion del
fuoco; egli dopoaver ava vifato effer quello ſomigliantiſſimo alla materia
prima de Peripatetici, in ciò che in tutto partire in niuna dice quel, lb
allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis exfuina tura nullibi
exiſtentiam, ac certum durationis modum obtin net. Quindifoggiugne: formaignir
omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto quopiam agglomeratis.y - cona
fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit aliud, quam ejuſmo 440
Ragionamento Sefa 1 1. 1 + ejufmodiparticularum impetuofius concitarum motus,
deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le
qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a
muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri, e fpeffi, ficome far
veggiamo al fuoco: il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi:
non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato. Ma Signori ancor Io
immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il
Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte, mecomedeſimo
penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco, e in ſe
medeſimi ravvolti formar cotante ſperette, acciocchè agevolmente muovere, e
penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando, ricreduto,
igannato inutaiparere. Convien dunque dire, chele pare ticelle componenti il
folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante
doveva egli delle particelle de'fali filoſofare, e ſpiar le vere cagioni dell'o
perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis,
volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne
giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper non curar
d'inveſtigare la na túra, e la propietà de'componenti di quelli. E doveva bé
egli quanto più ciò era malagevole a fornire, cotanto mag giormente
argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno
arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile,
edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva; ma egli per cele far farica
non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata, e ſconcia la
ſua filoſofia ne divenne. Eles non da altro, almeno dagli effetti de'ſali,ch'e'
continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò, che quelli folvonli
nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi, ca gagliardo fi fondono avviſar
poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni
de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi, e da fiffi di
nuovo volar ti. E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che con ! 1
1 1 + 0 Del Sig.Lionardodi Capoa. 441 1 convengano le particelleinfra loro, le
qualicotante gener razionidifali compongono; e in ciò ancora, che i volanti
ſali agevolmente le loro propierà lafciano, divenendo da aſpri, e amari, e acetofi:
dolci, e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e
alla per fine inciò, che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli,
e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin
ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar
poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura: 0 pure non
eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie, e diverſe figuu te
foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya', iſali acetofi, in ciò che
recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti: e l'altre
generazioni de' fali cſfer più, o meno di quelleforniti, ſecondainenteche più o
me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e della terra dannata
certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare, ſe aggiugner voleva al
ragguardevol nome di buon filoſofante. E comechè negat non fi poffa che per la
maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto, o quanto probabili
folamente, e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità; non però dime.
no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di conghietture,ed'argomenti
d'aggiugnere a ciò, cheper noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi
d'inve ftigarne, laſciarlo vergognoſamente in non calere pernou Ara
dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo
devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue, alle orine,alle
febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può, che non
è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto
ſenza fondamento alcuno; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa,
ch'egli afferma, ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti
rim beccato. Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo
meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventu Kkk raro 442 Ragionamento Seſto 1
rato ne’luoi emoli; perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal, che nulla
ſappiédo delle coſe della natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi
argomenti carminarlo; per chè non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo
ſegua ce', non tanto d'inframmetterſi della difeſa di lui, quanto per ricredere,
e rintuzzare la tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta; e nel vero ſe
filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho
accennato del la medicina delVilliſio in prima detto. Ma nella notomia il
Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno,
che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da
cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo, che la pro poſta da noi
cotante fiate dimoſtrata,ora maggiorméteper fuadere: cioè a dire che vano, e
inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale: ne medico poter giainmai in
quella tane to, o quanto vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima, e
inolto ſcorta diſaminazione, ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello,
non altro certamente ora ne ſap piamo,chequello, che in prima fapevamo:: cioè a
dire nulla di certo. Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo
ſciocco,, e infelice aſſai; perciocchè dopo aver appreſa, ed eſercitata la
medicina a quella guiſa, che in Inghilterra comunemente coſtumavali:volendo
egli filoſofare ſopra quella, ſi perſuaſe, che le continue ſperienze,
così.dover fi medicare additato aveſſero; perchè non guari egli lontan
facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller
quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità, ricoprendo con sì
fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento
de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina, che non che
valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe: anzi in qualche biſognatalvolta,
ove i volgarimedici bene ado peravano, egli diverſamente ſentendo dipartiſlene.
Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare, egli conviene avviſare,
cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli Del Sig.Lionardo diCapoa. 443 egli
giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice, per eſſenza
ſempremaiſia: e che la pleureſi, la peri pneumonia, l'infiammagion della gola,
e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre; conciollie
cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza: avviſandoſi fempremai
tratto tratto avanzarſi, e ſcemarla febbre, ſicome Icema, o creſce l'enfiagione;
anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore, c l'enfiagione appa fiſcono:
e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu fa'a formentare, e a
comunicarſi al ſangue, e far ſaccajan comincia altresì la febbre. Ma più
manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite, e allor che qualche ſcheggia, o ſpina, o
altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca;perciocchè ivi a poco accendefi la
febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane, e talor anche pertutto
il corpoſi fpande; e leav vien, che le fibre alcuna fiata enfino, ciò nulla
rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento; perciocchè quella medeſima
cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già effetto, ſicome immagina
il Villilio; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi in sì fatte eiffiagioni
rattenerſi il ſangue, e dal ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce la febbre; ne
ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio, confeſsado egli medeſimo quefta
verità: Ab ejuſmodi tumore,dice egli dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor
in parte intendű. tur: fanguis in motu ſuo magis perturbatur: adeoque febris
accenfa plus aggravatur. Ma non men vano, e falſo è ciò ch'egli giudica
dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la quaic opinione
potrei lo agevolme te rifiutare:ma perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal
lanza, e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare
perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere; nella
qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti medeſimi tracotato, che ovei
più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli
pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi
rinfranchi, e ſi rinfre ſchi, e mcnos'accenda, e più liberamente ſenza riſchio
ď K k k incen 1 2 1 444 Ragionamento Seſto incendimento diſcorrer poſſa, e
riandar perla perſona.Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane
intermittenti divenir talora per li falalli contine, certamente cgli non
avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla
bruzzagliai de’volgari medicanti, più negli effetti de’mali, che nelles cagioni
di quelli s'indugia. E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti,
ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace, e
punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo: mala maggior parte di
quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta: come potrafli
ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue, che riman nella perſona, anch '
egli mordace, e pungente vi rimane? certainente egli ancora, ſe non ſi addolcia,
farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo, e ingenerar la
febbre; anzi tanto mag giormente, quanto per lo ſuo fcemo, più debole, e
fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in
lui quella nobiliſſima ſoſtanza,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento
ritornarlo; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera, diverrà ſenza fallo
pig. giore: e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a
ingenerarſi cattivo: e manterrannc quel calo re, checol ſalaſſo iinmagina di
ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana;
perciocchè tra per lo cibo, che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e
per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo
avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda, e cotanto mal cagioni: ſicome a
quel giovinetto nobile intervenne, di cui narra il medeſimo Villiſio,che no
oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente,
chequali ne fu per debolezzamorto, gliene ſeguirono fieriſſimivomiti,e ſpalime,
c rivolgime ci d'inceſtini: ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de
clinamento del male. Vuole ancora il Villiſio, che trarſi debba fangue nello
febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida, ac cioc Del Sig.
Lionardodi Capoa 445 ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato: e
le particelle calde di quello per affoltata non ſi accendano; ſi. coinc
adoperar veggiamo a contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno
difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere rinfreſcamento. Ma egli è certamente
ſogno del Vil lilio, che liquorsche continuo muova, e diſcorra, ficome il
ſangue, abbia quelle particelle, ch'egliſcioccamente chiama calde, le quali
poſſano ſtare ammonzicchiate,e af faſtcllate, ficome ficno in palco,
maſſimainente, che pic cioliflime, e ritonde quelle fono, e ſi muovon
rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore; perchè malagevolmente ſtar
poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima
appiccate. Perchè è da dire, che fconcio, e ridevole oltrcmodo ſia il paragon
del fieno dal Villiſio apportato,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco
cagiona la formentazione, e'l riſcaldamento. Maw oquanto meglio egli avrebbe
adoperato, ſe non già con falalli, ma con rimcdj acconcja ciò fare,
ſicomealtrove per noi è detto, ſi foſſe argomentato di ſventolare il ſangue,
edirinfreſcarlo. Ma egli più oltre traſandando vuol che da ſegnar fiano anche i
fanciulli: quandoil medeſimo Ga lieno, che de ſalaſli fu cotanto amico, e altri
antichi medi cistutti ad una giudicano efſer quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli,
e da fuggire. E avvegnadiochè egli molce novelle ne racconti d'alcuni
febbricoli da lui felice mente col fataſſo guariti; non però di meno, ficome
egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne poſe per la ma la via; ne è da
credere, che coloro che ne camparono,fof fcro da falaſiajutati: anzi per
qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta celsò loro la febbre: e
fuma raviglia, che infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ', aveſſe poi la
febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno noi alcuni
avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati da alto
ſenzafiaccar fi il collo: ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta non colpire,
perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non ammazzino, non
effer mali? Ma ben disi tra 440 Ragionamento Sefto 8 1 Travolto diviſamento
portonne egli la pena il Villiſio; per ciocchè co'ſuoicari
ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe. Ma gľ Inghilefi, huominicotanto pertraffichi, e
per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo, Io non
sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici, e non
più toſto rimirino alle varie, ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano, che
ſenza laper mai di lanciuole, o dimignatte, e ſenza 'logorar goccia di ſangue
ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano, altri argomenti coſtumano a
raccattar la ſanità, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando
detl’Indie, e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono
avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità
Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno, e colle unzioni, e co
' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio
niegli ſi fu il Vihiſio; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al
tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con
graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia
grande, d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo
e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio, manifeſtamente egli medeſimo il ci
da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il
medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi, e le purganti medicine
adoperare, maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe, e maligne: alla per fine
avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della
medicina razionale, non altrimenti, che ſe volgare impi rico e' fi foffe,
conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza
guidare. In his cafibus, ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum
judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat; cã enim hæ febres
primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia: diex eorum fuccesſibus una
collatis facilè edifcitur, qua li demum methodo innitendum erit, donec ultimo
crebro ten tamine, feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia, « Lata Del Sig.Lionardo
di Capoa 447 ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva
tionibus, monitiſquemunita, Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto
po co egli affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no, e
nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio
cotanto certo, di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli
nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio, per eſſes e' ſtato
certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento, rendendo
giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe, di fabbricar un
ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro, ch'ei
compoſe della Farmaceutica razionale; ove egli s'ingegna di dar ragione
dell'operazio ni tutte, che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già
egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet
operationis pharmaceutice Ætiologiam, prius fere intactam, fi nunc temere
agreflus, non dignefatis abfoluero, veniam utcunque merebor, quia terram non
modo: incognitam,fed, GvaldeSalebrofam,&quafi labyrintheam peragrare.
incumbebat, fù’l priino aqueſta opera; poichè il Paracelſo, e l'Elmonte, ſopra
i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio, ne
trattarono, tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne
a queſti, nc al Villiſio, per non aver eglino conſide rata innanzi tratto, e
riandata con diligenza la natura del la coſa, cioè que’principi primi,
ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una
sì commendevoleimpreſa, con quellafelicità, che le avca no eglino dato
principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel
di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio,
licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele, e di Galieno
involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine, la Chi mica di
que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure
dell'incomparabile Giovan Batrifta El mon 448 Ragionamento Sefto monte, di cui
ſopra è detto, a quella apparare con tutto il ſuo intendimento, e con non
ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze
delle volgári dottrine, per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più
ſaldi ſtudi delle buone arti sì, e tanto innoltroffi, cher grandiſſimo, e
famoſo ne divenne: e di molte, e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a
diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito,e poco
cſper co Nocchiere, avvegnachè di ſarte, di - gomene, di ve le, di boffolo, e
di tutto ciò, ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere, ſufficientemente ſia
fornito: impertanto per nuovi, e nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo
egli poi ben quelli adoperare, miſerevolmente inghiottito vi muore; così il
Silvio, comechè dibuona filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice: e di non
ordinaria medicina fornito, non però dimeno non ſappiendo egli quelle
adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi, e quaſi nocchier mal pratico negli alti
maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te annego. Ma potrebbe
alcun recare in dubbio, ſe ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe
veramente itato, co me eglinevuoi dare a divedere; e nelvero per quel che
comprender poſſiamo dalle fue opere, egli ſembra, che no molto addentro e' la
ſpiaſſe, comechè una fiata dalla ra dezza, che adopera il fuoco ne'corpi,cgli
argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non però di meno egli po co
conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia, co mechè,i per quel,
ch'e'nedica, trentatrè anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati, proteſtando
le ſue dappocaggini, manifeſtamente dice: optabile foret naturalium rerum
principia vera, eorundemque numerum certum, qualitates legitimas via,methodoq;
mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé
toſo, volle il ſuo ſiſtema diviſarne, dicendo tre umori prin cipali eſſer
ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera, e la flemma; i
quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor
poicompongano, che da lui è detto triumvirale; che il ſucco pancreatico di 1 1
1 2 0 1.111 DelSigLionardo diCapoa. 449 ſangue, edi ſpiriti animali dentro al
pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio
diſcorra; chela collera ſi formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele; e
che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro, e volante, e comee'dice,
liffiviale, da poča acqua foo Luto: in cui alquanto d'olio, e di volante
ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della ſaliva, la qualdegli
ſpiriti animali, e della più ſalda, e tenace parte del ſangue com pofta, dalle
glandole delle maſcelle per le docce, che falia vali diconft, alla bocca
trapeli, e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco diſcenda: e quivi le
ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc
pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più gran par te dimori. Venir la
flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo, e volante se dipochiſſimo
olio, e ſale lillavia le compoſta; perchèin quella una gran virtù formentantea
ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del
ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo: ne dalla flemmadiffomigliante,
ſe non ſe più alqua to ſottile; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio
al fotcile inteſtino, la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera, perla
contraria diſpoſizione dell'amaro di quella, edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr
fi venga un cotal bollimé to, per lo quale la parte più groſſa, e limacciola ſi
ſeparije queſta giù per gl'inteſtini s'avvalli: e quella per le venes lattce
diſcorrendo al cuore aggiugna; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi
ſolva: e che la parte ſua più diſcor rente, e ſottile inſieme colla maggior
parte della collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore:
ove la fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo
giù per gl’inteſtini groili, e alle fecces! meſcolandoſi, quelle maggiormente
colorate, e tenaci ré. dere, Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi
ftema tutto della ſua medicina il Silvio, dal guaſtamento, e perturbazione di
effi vuol, che tutte le febbri dirivino; concioſliecoſachè ritrovandoſi
talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco, quivi il pancreatico fucco
oltre all' LII uſa: 450 RagionamentoSefto ùfaço dimorando, maggiormente acetoſo
divenga, e mor: dace; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un bollimento
grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato: e naſcerne la febbre, qualdicono
intermittente. E ſe quella parte della collora, della flemma, c del ſucco
pancreatico, la quale al cuor ſi tragetta, non ſia ben condizionata, ella nel
deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto riſ veglj, e le
contine febbri cagioni. Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui raccontare
comedal rimeſcolamento di tutti, e tre queſtiumori vuole il Silvio, che ciafcuna
maa, lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di leggier narrare
quante miſchie, quan te conteſe, eriotte abbia riſvegliate infra' medici un
cosi ftrano ſiſtema, così vivendo il Silvio, come anche dopo ſua morte; ma lo
diciò non curando al preſente, folamente per quanto a mio propoſito
s'appartiene, dico eſſer vera mente ingegnoſo, claudevoleil diviſamento del
Silvio, e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya; ma perciocchè egli
tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue ſtranezze farà
quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada con ſue ciarle
l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va lorofo filoſofante;machi
ſpia più addentro, non veggen do comepoffano effer tali quei tre umori, quali
e' glide fcrive, ecome poffano aver poſlanza di cagionare i bolli menti, e le
febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti, poco certamente a capitale il
ciene. Anzi radillime volte nella flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità
egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non ſi è giammai per al cuno
acetofità, ne poca, nemolta avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella
trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe, e s'accoglieffe veramenteil fucco
acetofo; perchè ra de volte ancora quel bollimento, ch'egli immagina,negli
inteſtini da quelli riſvegliar puoſli; anzi è egli imposſibi le, che per
l'acetoſità il bollimento avvegna: ficome per pruova veggiamo, che il liquor
del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale, o con altro acetoſo umore
meſcolato ri bolla: DelSig. Lionardodi Capoa 451 bolla: che che in contrario fi
dica Olaaldo Crollio, da cui peravventura ciò apparò il Silvio: il qual
contendendo co tro la manifeſta ſperienza, ne vuol dare adivedere, chelo
ſpirito del vitriolo a ſtomaco, cheabboudi in collera,bol Jimento cagioni.
Maſenza fallo egli di gran lunga s'aggi, 1.3 il Silvio a dir, che gli ſpiriti
animali ſiano aceroſi; per ciocchè, fe ciò foffe, inervicontinudrattratti, e in
malei Itato ne ſarebbono: ſappicndo ben ciaſcuno, che l'acctori tà, ſicomc
(triguente, e lazza, e pugnereccia, a’nerviol tremodo contraria, e nimica fia.
Ma chela ſaliva allo ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia,
comechè ella pur gli ſia diqualche gio vamento, chiunque al maraviglioſo
artificio del digeſtimé. to non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo. E
ſopra tutto è da maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti;
perciocchè ſe quelle dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad
ognorafi vch drebbono, e terzane, e quartane patire; poichè in loro fo pra
tutti il ſucco delPancrea, ficome anche il medeſimo Silvio confefla, oltremodo
acetoſo s'avviſa. Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni: ciò
che toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio, e'l fiſtemadilui
manda a terra, fiè, che egli trasa dando le fondamenta, a niuna cura prende
l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli
fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia, il modo certamente del
ſuo medicare, comechèpovero, e manchevole degli arcani dell'Elmonte, e del
Paracelſo, non poco dee effer commendato; perciocchè egli usò le
volgarichimicheme. dicine, e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe
licità,, e pregiodel ſuo nome; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni
troppa credenza: ele pole talora in opera, ove in tutto, e pertutto
diſconvenivano: avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne foſſe.
E come chè cgli dicoloro, che così volonteroſi ſono a ſegnare, só mamente ſi
biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' 452 3.
Ragionamento Sesto folo può contrariare almale. Oltre a queſto la formentl
fidall'uſo comune, andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle
febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina
poi egli, che faccia luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue
ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi,o fac cia qualche altro gran
male; non avviſando, che con altri ficuriargomenti, quandociòpur s'aveſſea
temere, dar vi fi può compenſo, ſenza tor via, col trar ſangue, ciò che
zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital
ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi,
o fenfibile, o inſen fibile vacủazione, fi difcaccian fuori del corpo le
cagioni delle malattie, il che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il
Silvio,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il qua le troppo libero, coltre
alconvenevole ardito, imprende a determinar delle più ardue', epiù ripoſte
quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio ifilolofanti. Primieramente
egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il mercurio, il fales, e'l folfo, e
dice quefti, licome in cotante arche, o matrici contenerſi negli elementi; i
quali ſecondo l'avviſo di lui, fon quattro:cioè il fuoco, efficiente cagion di
tutte altre coſe, in cui niun principio egli v'alloga; l'aere, in cui ri fiede
il mercurio;l'acqua, ove ſtanzia il fale; e la terra in cui dimora il ſolfo. Il
fuoco ond'ogni altro elemental mo to deriva, vien dal folto ajutato, ed
eccitato dal mercu rio; e ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio, il
riſplendere, il riſcaldare, l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere
attutato dall'acqua; l'aria colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco; il
mercurio è un certo ſpirito aeree, il qual coagula l'acqua, e'l fal volante
rappiglia, e che afo fai bene col fuo ſal fiſſo s’uniſce,ed al ſolfo cótraſta.Dimo
ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i
poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima ami, ſtà col ſale, e nimiſtà grande allo
incontro poi colſolfo. La terra opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo
amica, altrettanto ſi moſtra nimica del fale. Indi Del Sig.Lionardo di Capod.
453, 0 Indideltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare, così ne divifa:
il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente
dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:(Delle qualità, che gli
elementi compongono, due ne ſono attive, e due paſſive: attive ſono il calore,
e la freddezza, paflive l'umidità, e la ſiccità. Tre coſe vihan nell'univerſo
manifeſtamente calde, il ſole nelmondo celeſte, il fuoco nel mondo ele, mentale,
e lo ſpirito vitale nelmondo animale, e tre allo incontro manifeſtamente fredde,
la Luna, il mercurio, lo ſpirito animale. Alcune ſtelle divantaggio vi han
nelmo do celeſte,dilornatura calde, e altre freddo, ma occulta mente; e altresì
nel mondo elementale altre coſe calde fredde, macelatamente, o accidentalmente
ſi trovano: umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio; ſecchiſ fime
la terra, e'l fale. Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi, allor che conalcuna
delle già dette coſe 's accop piano. Le ſeconde qualità daglielementi, e da
principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano. I 12 pori
ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo, lam durezza dalla terra, e
dal fale: la mollezza, e tenerezza, dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi
diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta
diridur re in un corpo folo, membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non
poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli
molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de
filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce, e
falſe opinioni, che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ',
come faggiamente,il Verulamio avviſa: Elementorum commentum, quod avide à
medicis acceptum, quatuor complexionum, quatuor humorum, qua juor primarum
qualitatum conjugationes poft fe traxit, tan quam malignum aliquod, infauftum
fidus infinitam, & medicine,nec non compluribus mechanicis
rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il
Meſfonieri, in tut 454 Ragionamento Sefto curto,e pertutto inverigmile fembri;
ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia;e che
ſte colà ne paeſi al polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo
non mi do briga diriferire, per non logorare fuor di propoſito il tempo. Mada
tanti, e sì varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di
co glier coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel
grande, e nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri,
che di tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e
vitali; lo fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio, aereos
freddiffimo, e dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il
ſentimento, ed ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa, e acquola
parte del ſangue; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il
primo a muo vere, e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé,
il quale da per ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be; tragittaſi dal
cuore perle vene, e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti
de'polli. Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e
nella ſeparazione, perlo coptrário,la morte. Maconcedaſi, che dal ver lontano
non ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli
eſſere lo ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura
di quel mercurio aereo da lui ſognato, e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto
dall'acquoſa parte del ſangue; e come parimenté egli provar poſſa aver lo
ſpirito vitale na tura di fuoco, e dar lui il moto, e'l vigore allo ſpirito ani
male. Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo, e comunicando
egli ſempremai più, ome no calore a cucce le parti delcorpo, come, e dove por
trà mai l'animale ípirito olcremodo freddo, e inmo bile ingenerarſi? Coavien
parimcnte poi, che'l Mcf ſonieri ci additi il modo, col quale s’uniſcano fralo
ro, el diſuniſcano si farciſpiriti; e altresì, che ſaper egli cifaccia, onde
avvenga,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo
ſpirito animale; ccoine al lo in DelSig. Lionardo di Capoa. 455 lo incontro
l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi, ed eſtingua lo ſpirito
vitale. Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri nell'aſſegnare gli uficj alle
parti del corpo umano, vada ſovente errato; e quanto egli poco felicemente lt
vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune falſe opinioni di Galieno; ma
accennerò fol tanto ciò che follemente va diviſando dietro allo in generarſi
delle malattie: dicendo, che qualor l'azione dell' animale, o del vitale
ſpirito ſia impedita, gli huominiven gano damaloritravagliati; sì che le
malattie propriamen te favellando fien tutte negli ſpiriti, e meno propriamente
poi negli humori, e nelle altre parti delcorpo; e la cura delle malattie tutte
in altro non conſiſtere, ſalvo che in tor via quelle cofe, che impediſcono
l'azioni degli ſpiriti je conchiuder, che tutto ciò con cinque generazioni ſole
di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa. Ma a queſti, cad altri diviſamenti,
ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo parole delle particolari
malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per moſtrargli fall. Fi, nalmente
la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za nel vero, e materiale effer
ſi vede. Ma poichè da uno in un altro ſiſtema paſſando fin quì lią giunti lo
non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea. ra celebre medicante
nell'Ibernia. Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima: ma avviſando egli
poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo le vane ciance di
Galieno, impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional medicina; nel
quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di Galieno con
quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto, che pittor farebbe, ſe mai
te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne di varj, augelli
e dipigner voleſſe. Forte egli rimproccia tutti coloro che ichimici principj
ofano dinegare: cô que fte parole. Et miror profecto qua fronte quiſquam
experien tia Scientia omnis, & cognitionis inventrici) repugnare prefumat,
nifi pro ratione fufficiat, multos pudere, cos pige me quiequam denovo
admittere, quod confirmat& eorum upi niuni 456 Ragionamento Sefto nioni
adverfetur, à quo ne látum quidem unguem recedere Suftinent, ne prius non recte
fapuille videantur: multos taria ta cum fatuitate, ne dicam Idololatria,
Hippocratem, Ari ftotelem; aGalenum venerari videas,utquicquid ab illis non
dictum, non dicendum, quicquid abillis incognitum, no cognofcendum putent; e molto
appreffo fi briga in moſtrar, che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì
veramente però, che non debba a crederſi, che ſian primi; imperocchèegli vuole,
che della materia,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino,
c'di queſti facciali il ſale, il ſolfo, e'l mercurio, che ſon terzi principi; i
quali finalmél te col vario accozzamento loro, quanto v'hanell'univerſo
coinpongano, Ed ecco, ſecondo lui, onde formanſi le parti ſalde, e di.
ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno;
ne’quali, allor, che il ſale, il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati,
che non vengano fra ello lo ro a tetizone, n'avviene la ſanità, e per contrario
lemalat tie. Diviſa egli, ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali;
dicendo, che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata, come è il fal comune,
e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa, e in cerca fpecie di malinconia
parimente acç. tofa, come è il ſale armoniaco; e così ancora diſcorre ra
gionando degli altri ſali, che ſono negli altri umori. Vna sì fatta dottrina fu
introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del
Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare,che celtaſſero le perſecuzioni chelor
faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno; anzi, come in tute
gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi,
eglino divennero d'ambedue le par ti nimici; e come alga, o ondamarina, che
da'contrarjvé. ti ſia, or quinci, orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro
furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate. Il per chè anche noi ſenza quì
intertenerci immaginamo, che da quel, che di Galieno, e di Paracelſo addietro
abbiam di: viſato, rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato;
imperocchè, ſe ne con gli elementi, ne co’principi chi Del Sig.Lionardo di
Capoa 457 1 1 chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo umano fpię garfi: di
ſeguente è da dir, che ove ancor vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo
concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi formino, ne men coſa, che
monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto
recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da prima indirizzato per
diritta via, il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco Gliſſonio;il quale comechè
d'ala tiffimo intendimento fornito, e nella notomia, e in alte cofe alla
medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ: fe; impertanto non ſeppe egli
sì, e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella gioventù appreſe, che intriſo
alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo
ſiſtema di razional medicina, allor che veriſſimo giudicando il
diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe naturali,vuol, che il
mercurio, o ſia lo ſpirito, e l'olio, c'l ſale, ela flemma, e'l capo morto, o
terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali le coſe o per ingen gno, o
per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo lo altrovci miei
ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente, che lo di vantaggio ncragioni.
Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele menti d'Ariftotele,
dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere, e quello dell'aria
all'olio, e quel dell'acquz alla flemma, a quel della terra alla terra dannata,
e allale. Ma in buona fe,Signori,chi non avviſa, che'l fuoco non abbia punto
che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia, e che le particelle,
che'l compongono lian, piccioliffime', nonſono però elle tali, che tutte quelle
ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla ao. E ne men
certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere, la qual
peravventura immagina il Glif fonio; perciocchè l'aria, comechè diſcorrevole, c
vagas oltremodo ſia, non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru, ciare acconcia,
Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte conforme: che
compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs, quali ſono
il Mmm file, 1 4384 Ragionamento Seſto. slaai Cáte jela terra dannata, porre
d'accorto, e far ch'una coſt fola, e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha
infra loro qualche attegnenza, nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre
quattro, e non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe; perchè
ſcompigliata', e ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle: la
qual folle mente il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare.
Ma ſufficienti non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze
della natura, egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri
principj onde fiicópongono quelli, al Paracello, e all'Elmonte per dappocaggine
ſi ri fugge, e togliendo da foro ciò, cheeſli degli Archei mil lantando dicono:
e giugnédovi di vantaggio molte altres fraſche del ſuo, ſcioccamente con si
fatti ripari di riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta: dandone
apertamente a divedere con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di
que’libri di que'valent huomini','tralandando d? altra parte coranti buoni, e
pregiatiſſimi diviſamemi, chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla
via da do ver curar gl'infermi han laſciati Almondo, che giacea pien d'alto
errore.". Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito
reggicore, il qual negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale, e attuale
riſvegli: e muova, e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali: e altri
ſoſtegna: e ciaſcuna natural parte dal corrompimento difenda: tenendola buona
fperā. zagli fpiriti, iquali egli in feſta, e lietamente fa vivere. Quindi il
Gliffonio le varie generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando, ein
prima quella dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice, che habbia
lo fpirito ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi; e
oltre a ciò contenga ancora, ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale, e animale,
e che fia ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli
percipientes, appetente, e movente chiama, da una ſpezial diſpoſizione
circonſcricte, c terminate. La facoltà percipiente, dicu, egli, DelSig:Lionardo
diCapoa. 459 egli, che l'Idea dell'uovo, e quella ancor dell'animale dam
ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli,
non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti, i quali egli può produrre, conoſce;
ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta ravviſa; ſappiendo oltre a ciò il
modo' ancora, e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a
mandır avanti le ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente
compréde in ſe l'amor della natura rappreſentata per l'idea,e una cotal brama
di quella limitata, sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno.
E ultimamente, la diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua
virtù formatrice, euna tanta operazione valevole, e acconcia, maches'indugi
all'opportunità dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli, che l'Archeo
nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję
pigro nerimanga; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią, o d'altro
ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc, ad infelice fine
ogniſuo ſtudio riuſcireb be. Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla
na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni
ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo.
L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale,
vita le, e animale; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è
già ſtato nell'uovo: l'una fiè, che egli in quello avca già ſolamente la forza
d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera; e l'altra ſi è, che al
preſente egli in un caſamento già fabbricato abita, e dimora: al quale in, acto
egli fignoreggia. Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e
l'Archeo animale; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli
è fornito, quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato, de’polmoni, del ven
tricolo, della matrice, e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura
dell'animal ſorteggiate. L'Archeo vi tale, licoine il ſole è di tutto ciò, che
la terra produce prin çipal cagione, così eglią tutte parti del corpo l'effetto
iq Mmm 2 flui 460 Ragionamento Sejto fluiſce, comechè da le ſolo niuna coſa egli
ſpecificar polfa. L'Archeo animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante, i
quali nel ſucco nutritivo abitano, e dimorano. E dalla perturbazione, e
rimeſcolamento di coteſti Archei vuole egli, chele malattie tutte ne avvengano.
Ma egli ſarebbe un logorar vanamente le parole, ſe fil filo annoverarc Io
vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio intorno agli Archei. Dirò ſolamente
apparer manifeſto, ch'egli in luogo di ſpiegar, ſicome egli intende, la natura
degli Archei, il che traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te, vie più oſcura, e
inviluppata la rende. E doveva pure cgli avviſare, che di quelle cofe, che
nonci ſono, ne eſſer poſſono, quantomaggiormente ſe ne favella, tanto men ſe i
nedice;ne ſi può ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto
notomiſta, qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio, eſſendoſi ſottilmente
argomentato d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri
poco curate, foffe poi sì vocolo, e traſcurato in ciò, che folle mente
ammannare aveſſe potuto cotante ciuffole,e giunte rie, non meno a' ſentimenti,
che alla ragion lontane. Ma non tanto del Gliffonio, quanto di tutti quali i va
Ient huominiun tal fallo ſi è ſtato; i qualiper aver più mi nutamente le
maraviglioſe operazioni della naturaavviſa tc, diffidando per for manchezza
d'inveſtirne le cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero,fi
rifuggirono a sì fatte fraîche, e ne compoſero cagioni fia tc, e favoloſe, onde
natura. Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è
certamente da biaſimare il fallo del Gliffonio; il qual manifeſtamente
affermando, fe cfſer pago, e contento a ' principj chimici, e a que primicorpi,
che coloro chiamano componenti, avvegnachè egli con felli poterſi più olere
coll'intendimento procedere traſcor: se egli poi ſconciamente a favolar degli
Archei, e sicon fondere, e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men
vani, e ridevoli di quelli de'folleggianti peripatetici Ma DelSig.Lionardo di
Capoa 401 Ma che è ciò, ch'egli dice de’pori di noitra buccia,negan do affatto
quegli eſſerci mai? c pur dice egli, che perquel la ſottiliſſimeloftanze fuor
del noſtro corpo continuo tra pelino. La qual coſa nel vero cotanto ridevole
fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono, leqnali egli ſciocca mente a
ciò raffermar va cogliendo. Ma chi non iſmaſcel berebbe delle riſa in avviſare
i forciliſfimi argomenti, co' quali ſi ſtudia, e s’affatica il Voffio giovane
di fare in ciò le fue parti? Tralaſcio a bello ſtudio, comeche aſſai vi ſarebbe
da di re, ciò che egliintorno alle maniere di ſeparar le parti de corpimiſti
ragiona · Solamente accennerò quanto egli di que’ſcioglimenti diviſa, i quali,
ficome egli dice, avvengo no per congregationem, vel attractionem magneticam,
fi ve fimilarem. E in prima va egli rapportando quelcomun proverbio: che'l
ſomigliáte del ſuo fomigliante goduzquint di egli loggiugne, che ſicome gli
animali dilettanli oltre modo di quelli della tor generazionc, così anche eſſer
ra gionevole ad argomentardelle coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè
ciafcuna coſa del mondo per narurat tz Jento la confervazion di se difidera,la
quale da’ſomiglianti avviene: e fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li
ſuoi contrarj le incontra. Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat, quod
per attractionem fimilarem, five magneticam intelligam.nempe alle &tationem,
five incitamentum, quo cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual
coſa in buona fe più ſciocca, e ridevole può per travolto, e ſcempiatocervello
immaginarfi giammaisquí to queſta del Gliffonio, il quale a cutte inſenſate
foſtanze il conofcimento, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce?
certamente fe di baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare,che
le cofe, che ſtanchete, e fenzów movimento, ſe già non fono animate, tali
ſempre fe ne ſtao no, infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di
fuo luogo non partano.Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò, che naturalmente
filoſofando ragionan que' valent' huomini, de qualiegli l'opinion rapporsa
incorno all'an dar 402 Ragionamento Sefto 1 ! 1 1 i 1 dar del ferro alla
calamita, doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare, onde ciò
ayviene. Ma direbbő per avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio
aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una
tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe, il qual dicon magnetico, del
quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime, e ſpiritali aſſai: e che
ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro,
inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali,
che efcon fuora della calamita, faccian, l'uficio della formentazione
riſvegliando in quelle il movi mento; le quali poi movendo verſo il polo
magnetico, dis rizzino, ci fianchidel ferro forte percuotano: e sì quello
co’loro colpi innanzi {pingano; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento
di particelle ſpiritali, le qua. li urtano in eſſa, e ancor la ſpingono intanto,
chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro
ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia, che la
calamita ancorada ſua parte fi muoya, comeche più tarda, e lenta i perciocchè
ſe nel acqua il ferro, e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá
ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti, intanto che ſopránocanti poſſano
andarea gall.2, ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita, e la calamita
d'altra parte verſo il ferro. E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al Gliſſonio a
voler cotanta maraviglia ſpiegare, dovrebbeegli in alera, e altra maniera-la
cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli ſommamente
damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio; perciocchè có
tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go laiciali
ſcioccamente traportare: ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi in ciò
che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util grande della
media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe: e che ragionevol mente damedici
feguir debbafi, ficome loro molto pro fittevole, e acconcio a dover porre in
opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti; eche Galien d'altri
diviſamengi degli DelSig. Lionardodi Capoa 403 1 degli umori infrămetterſi non
volle, ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi
un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte, il qual giudica egli effer
soinmamente a ſaperſi neceſſario,no che utile a chibe neje lodevolmente apparar
voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello nulla ragiona, ne moftra
certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer
quello non poco commendevole per avere cotal divi ſamento da primaritrovato;
concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe all'inventor ſeguire, certiſſima
cofa. ſia, che la dottrina de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che
Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle ſcuo le della medicina. Ma ſe il
Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori, che in varie, e varie parti del
corpo fan dimora, non mica già quattro, ne cinque, ma molti, e molti egli no
ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora ſcoverto. Nelle vene, e nelle
arterie poi non trovarſi queſti quattro umori, ſi è moſtro già; ed i più
ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han conoſciuto. Vn divifamento poi
quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che non ſi da niuna cu. ra
d'inveſtigar la natura delle coſe, non ſolamente utile niuno, ma danno
graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare, comechè ſcorto molto,
eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando una fiata, che'l trar
fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo infermo;nonperò di meno non
ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra,
ficome cgli afferma, introdotta. Non propone egli medicamen to, che volgar non
ſia; ne contento d'un ſol medicamento, molti e molti inutilmente nemeſcola
inſieme non men che gli altri medicanti ſi facciano;e in ciò,per cacer d'altro,
da egli manifeſtamente a divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli
medicine. E ciò baſti avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato;
il qual per altro è certamente non poco da commendare; maſſimamente per la
ſomma, e maraviglioſa diligenza, e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe
dellanoromine Ma 464 Ragionamento Sefto Ma di troppo lungo tempo abbilognerei,
fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina dell'Ogelande, del Regio,
del Moebbio, del Carlettone, delBartoli, e d'altri ſcrittori. A baſtanza potrà
ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro
poveri d'intendi mento, e ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero,ra
de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni
de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate,e
riandate; e altri di loro, fra'quali il Tacchenio,il Travagino,il
Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi, e materiali ne'loro diviſamenti, che
non fa huopo,che ſe ne abbia a far menzione alcuna particola re: Adunque
chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che ebbecominciamento la
razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta induſtria, e diligenza, che
da'fi lolofanti antichi, emoderni vi ſi fia adoperata, e per qua te coſe per la
morta, e per la vital notomia liaoſi nelle ani. mali, nelle minerali, e nelle
vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte, e per quantepruove, e ſperienze
da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle
malattic fieno adoperace, non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a
ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna. Ma non
dee ciò re car maraviglia a cui tanto, o quanto alle ragioni pongas mente; per
le quali, s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad
huom’malagevole, anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di
razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle,
che debbono avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci
non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi
folca il lido perde l'opra, e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro,
che tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina,
comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura
de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi
polia. Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu buglio,
DelSig.Lionardo di Capoa. 405 buglio, e rimeſcolamento dellamedicinaper fatica,
e di ligenza, che adoperata viſia, chi mai fin'ora avviſare ha potuto, che coſa
ſia un piccioliſſimo catarro, che ne mo-. leſti? e. venne queſta veritàmolti, e
molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da Empedocle,da Acrone,da
altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della incertezza della medicina
favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν
όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα, και πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν,
ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται
τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico, da
Cornelio Celſo:allorche diſſe della medicina favellando: eft enim bęc ars
conjecturalis,neq;ei refpondent,non folum có. jecture ſed nec etiã experientię
per; nulla diredel Cardi-: nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo
riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur
gli Acenieſi: allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia, e le
buone letterc, traſcurarono la medicina, no facendone niun capitale, come ſi
può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi
iarsós ész vũv šv tñ wóriet;.. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ', ούθ ' η τέχνη.. E
dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla
Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone arti, e ſcienze, la medicina
ſolamente d'imprender non curarono; anzi dice Plinio: Populus Romanus neque 46-;
cipiendis artibus lentus: medicinæ etiam amicus: donec ex pertam damnavit; e
dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente
abborrito, e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca d'Antiochia così
dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta: avve-, gnachè la
medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la ſalute ſecondo lo
intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine aggiugnere; ed
Arnobio;, Medici curătanimal humi natū, ut confisú fcientia veritate; fed in
arte ſuſpicabilipofitum, conjecturarum eſtimationi bus nutans; e'l medelimo ne
ſcrive llidoro Pcluſiost: clo Nnn niin 1 406 Ragionamento Sesto migliantemente
con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja: Hippocratisin ebo Galeni
diſcipulos, ut mihi confu lant conſulo: incerta famper ab iis oracula
deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata diſcernunt.
Perchè 9. Chieſa, come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar ra,Puro, e'l
meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe: adunque, egli dice, non è
certamente ragionevole, che il Sacerdote, oʻI Diacono, o altro qualunque
Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw
s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo, e alfai fo vente fallace. E S.
Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi
ſerviſler: punto de' me dici; al che riguardando per avventura Franceſco
Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede
queſto ſalutevol conſiglio: Nulla eft rectior ad falute via,quă medico caruifje.
E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca,quel che
dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni, 2.4. La medicina como fue
erbe, e coſe diri Che fa? caccia carote a tutti mali..'.... Infin che l'huom
perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi; il
qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina, alla fine fece boto scomedarra
Giorgio Orni: Si Deus aliam prolem largiatur, nullo se ampliusmedico ufurum. E
per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più
rara, ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò,come narra
Daniele Einlio,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità; ptaceredi
quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè
montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna, che nelle ſue
infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti: defichepoſcia valevoliflime's
ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar
lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala, celebre lector di medicina
nella famofiffima ſcuola di Padová; il quale canto non potè tenerli, che alla
fine, un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del
Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva, inqueſta difinizione: Medicina ef
ars * illudendimundum, &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione
porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa, di
tralaſciarne l'eſercizio, e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe
quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata, La medicina deve
eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir
richiedendoteſtimonianze di colo ro, che a faccia ſcoverta abbia la medicina
guarata. Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea,
dico, ſovente dire a' ſuoi ſcolari: miferi, ed infer lici noi, félmondo
arrivale a faper maile,debolezze nofire, che ne meno ne poffiam promettere
colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene
cõverreh be apparar altro meſtiere? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto
intédiméto, e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere, e di nobil'animo
forniti,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi
antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe, ſavj interpetri della natura, ed
altri huomini inſigni dc'tempi noftri, lol faro menzione del no ſtro
Col’Antonio Stigliola, riſtoratore della Pitagorica filoſofia: e di Gio;
Alfonſo Borrelli chiaro, ed eccellente in ogni ſcienza. Anzi quinciè egli
avvenuto, che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più
diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina, l'abbjan, nel maggior
hyopo mcNain son çalere. Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più
venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male
infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi
cina, diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale; ed
eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza
fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare, comepotè il, inen male; alla
bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza
dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto: A voi Nnni 2 1012 468
Ragionamento Sefto 4 non fa meſtieri la mia opera, imperocchè quando vi foffe
in grado porreſte avereil Sig. tale (così un principaliffimo medico
nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo
dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle, ſe volelli
mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute. E dalla medelima
incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero
avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda, e sì crudelcanaglia;
poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto,
abbiſogna loro, che alle giunterie, e alle frodi abbian ricorſo peraccattar
lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie: ma fino a'tempi
di Galieno, per tacer de’più antichi, eran ſommamente in vi gore.E cui non è
noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate,
ov'egli mette nella via chi che ſi voglia, acciocchè buon medico divenga: in
que. fta guiſa? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de'
medici; perciocchè alcuniinfermi rade, e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer
viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo
romore co'pie di, ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce:
acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli, che gli ſia rotto in teſta il
ſonno. Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi, e ſenza ſenno,
ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale
ef fendo da un infermo domandato,' ſe di ſua malattia morir doveffe, rifpofe
con quelle parole, ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato, e ad un altro infermo
ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio
Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo
della per ſona, e grazioſo in entrando, e in ſedendoſi, acciocchè nó gli ſiano
fatte le ſcherne; ma non cotanto tronfio, e traco tato, ina mezzanamente grave,
ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo alquanto modeſto, e umi
le, o di ſoverchio altazzoſo. E ſomigliante dobbiam noi dire de’veſtimenti del
medico, i quali ancoramezzanamé te deb 7 Del Sig.Lionardodi Capaa: 469 te
debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il
dimoftrino: ne cotanto ofcuri, eruſti cani, che il facciano poco a capital
tenere dove egli ufaw; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo
vie li piaceffero. Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado
degliinferini, i quali egli medica; perciocchè ins corte d'Antonino padredi
Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma dello Imperadore, fino alla
cuticagnato, devafi; perchè Lucio chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i
famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono
l'unghie nette, e ben forbice; e fe per avventura putiffe loro il fiato, o le
dicella, o tutta la perſona,a modo di becco, fpiacevole odore gittaſſe, fi
debbon eglino d'odoriferi unguenti, od’acque nanfe for nire, prima che ad altri
medicar fi preparino. Ma purvoleſſe Iddio, che queſti, e non altri foſſero i lo
ro artificj; eglino di vantaggio ricorrono alle frodi, alle in vidie, alle
maladizionije ed altre illecite ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi
poffano, e maggiormentein pre gio, e ſtima ſorinontare. Così vedeli, che un
medicobia fima; e danna i medicamenti dell'altro; tutto che que'me deſimi ſiano,
ch'egli appunto diviſati n'avrebbe, s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al
quale, ed anche pega gior misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i
fuoi ſcolari, fe vogliam dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui
dicendo. Primo etenim invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit,
repudianda. At fi non adbibuerit,tuncprobanda, tanquamlegitimaputans ut hæc
aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur. Earrab, biato ſeguace &
Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi, allor, cheſcriffe: Medicus
aliorum remedia ne lave det,utſupra vulgaresfapere videatur; e l'aſtioſo
Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri: rabies quadă,comenarra
Plinio, in omnisævi medicos perorans. E d'un tal medico ne narra il
giuriſconſulto Alfeno: medicus libertus, quod pataret, fi libertiſui medicinam
nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum, poftulabat, ut feques
rentur 470. Ragionamento Sefto rentur fet; netie opus facereni, Ed'un altro
medico narra Calliodoro, che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to
privilegio iinpetraffe: inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius: &
omnesjudicio quo cedant, qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto
arbiterartis egregie,e04 rumquediſtingue confli& us, quos judicare
folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto
maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate
quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a
da far bambuc cj; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá,
preſta a ſeguire icomandamenti del Sere. Ne è da die favolofa affatto la
novella di que’medici, che per uggia ze mal talento guaſtarono, e atterrarono
diſpetroſamente; bagni di Pozzuoli; e di que'ribaldi ancora, che il mede fimo
ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto, di cui ancor
vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino. Perchè ragionevolmente forte
l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico, chiamandolo talora:
Invidie pelagus, derrationis organum, ambitionis perforatam clepſydram;aliena
veritatis contradictorem gar. rulum, propriæ ignorantia conftantiffimum
defenforem, & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila il
Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe
trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i
qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno
intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus, ut potentium gratia
uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ
notasinurere nihili faciunt. E Giulio Celules della Scala nella fua poetica,
de’medici parlando: turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo
ſe ipſam eo fenomine venditantem, invidam, maledicam; cbtrecta tricem; novam
ſpeciem cynicorum yavaram, temulentamus Supinam, ignavam fimul,asq; ignaram. E
GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio; e più che altri del meſtier della
"incdicina intcndcnte, vuol; che da eſa neceflarianente 5 avve Del Sig.
Lionardo di Capoa 471 avvegna,che taliticnoquei, chefeſercitaiio: medicina !
facit, ſono le ſue parole,nonreruin memoris, fed verborü:1 callidos y
verſatiles ingenio;inuidos avaros; idolofos, las boriofos, non ingeniofos, de
minime graves s opus enim coni rúm, d exercitatio minusquam liberalis eft: e
altrove pa rimente de medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra
ætate, adeò ut nihil pejus excogitari poffit. Perchè gli ftrolaghiallogando la
medicina conſervatrices ſotto labalia del Toro, e di Venere, onde huom fi consi
dace, per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore: c la
medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a
dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore; il
qua-> le ſoggiúgne, chedalle ſtelle medefime, onde venir ſuole l'eccellenza
de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè
finalmente ei conchiude,um", eccellente, e perfetto médico nonpoter eſfere
ſe non fer fcellerato huomo, e malvagio; ed avvegáachè vani, efol li fien
ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia: è nondimenodacredere,
chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta fingeffero per adattár le
coſtellazioni a quelle coſe, chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e
ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai ilmaltalento, e l'uggia
demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro
tutt'ora ſi carminano, efimalmenano. Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno
l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla grazia del loro Rè it
benigniffimo,e inge gnofifſimo Ticone della perduta ftronomia famoſiſſimo ri.
ſtoratore, intanto, chegliene fư tolta l'Iſola, e la Rocca d'Vraniburgo, di cui
egli era Signore: e sité tanto mara vigliofe operazioni', é ordignidella
ſtronómia, ele nobi lißime chimiche fucine rovinarono, che appená oggi,non
ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria: E l'ombra foldi si gran corpo appare.
Ma ſcelleraggine così grande di tradir nemichevolmente la patria, ſpogliandola
di quello fplendentiffimo lume, non pur 1 472 Ragionamento Seſto $. pur
delSettentrione,madel mondo tutto, onde foſſe sõi moſſa a commetterla la
cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime
narrarlo, dicalo in mia vece Pier Gaſſendi: Erant in his medici quidam, qui
videntes non modo exDania, fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum
turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia, quę quibuslibet
gratis largiebatur expertifeliciter, ac morborumetiam valgo habitorum infa
nabilium levamen fentire, livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud
quoslibet,procereſquepotisſimum, quibus preftabant operam,ipfius nomen
traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei,
ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente
ucciſe il celebre medicante, e, pocta Lino, la qui inorte pianſero eziandio le
genti barbare; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente
com poſero, appellato in lor lingua Emaneco, ci Greci Lino, la chiamarono.
Ippocrate, comeſcrive Andrea antichiſe funo medico, inſidioſamente brụciò la
nobile, e ricchiffima Libreria diGnido; e quindi egli poi per tcina fuggiſli. A
Quinto, medico famofiffimo, dice Galicno, fu meſtieri gombcrar Roma di
prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici. E in Roina pure attoſſicato
da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico, come narra Gin
lieno, ilquale anco di ſe narra, che egli fieramente perſe guitato yenne da
parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie, c
machinazioni, e delle trappole, e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo
Avicenna, Avanzavarre, e Raſi: quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo
Lullio, ad Arnoldo da Villanova, a Pier d'Abbano, c ad altri molti letterati di
vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj,
le prigionie; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità, delle
tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo, e travagliati ne
vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di
que tempi De Del Sig.Lionardodi Capod. 473 1 Debil aura di fama appena giugne.
E laſciando da parte ftare, come coſa dinon tanto rilie? vo, quanto i limiti
dell'oneſtade oltre paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio: della
Penna, (chea 'di ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città eſer
citar fi vide la medicina, contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo,
che più d'un buonno ſcienziato, e il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente, e
peftifera invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino. Ma quandº altri,
e quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla
velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio !
collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe, che ſcola
piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic
fitus eft, gratis,qui nil dedis unquam, Mortuus, & gratis quod legis
ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que!
virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione,
e dall'altezzola, e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco
Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol
Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia? e da Michel
Servetto, la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata,
e di Marcello Ancirano: e dall'empia, e ſopraſtante arroganza di Giorgio
Biandra ti, e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui
ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni
Sepuſio, e quindi ſen? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte
dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania. E che non fe
contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il
quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato, e d'Erofilo,osò, come
narra Paolo Giovio, far notomia, non già d'un reo alla morte condennato, come i
già detti due Greci facevano, ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo
alla ſua cura commeſſo. E per far omai paſſaggio a coſe più note, e men forſe
moleſte: che Ooo non + 474 Ragionamento Sejto non oſarono, che non imprefero,
che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della Germania?
Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga adoſſo
recata perricredere, e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno:
conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono, e malmenarono
Lionardo Fuſio, Giovan Cratone, e Andrea Mattioli; il quale con meche Italiano,
e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri', e
altrimedici,purGalieniftige della formede, fima banda parzionali; e fomigliáte
ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo
Fracaſto. ro, ea Matteo Curzio, comechè queſti tutti afpada tratta la dottrina
di Galieno difendeffero: e nel medeſimotempo eglino unitamente contro Giovanni
Argenterio diGalien nimicocongiurarono. Nedi coralrabbia innocenti ſi ſer
barono quegli altri pur Italianimedici,che ſtizzoſamente & 'avventarono
contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c
daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc, e deſtinguere quel
chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt, lio
Ceſare della Scala;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri
per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile,
e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga
poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie
d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto, il Baucineto,
l'Arveto, il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor
più addietro accennate. È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da
Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti
fanciulleſchi, fenza fermezza:niuna didimoſtramento? Matroppo lungo ne
verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie; e le noje;che nella
Lamagna,nella Dania, nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino,
Michel Tofſite, Bernardo Perotti, Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo
Crollio, ealtri infinitimedici doro tillin Del Sig.Lionardodi Capod 475 1
tiffimi, e avveduti affai; i quali ſempre, o nella fama, a nell'avere, o nella
perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar mendicando eſempli di fuora,
laſciando das parte ftare le non meritare perſecuzioni del noſtro Antonio
Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli orecchi baſtantemente per
addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città contro il Ferrillo, e
lo Schipani, e'l For tunato, e'l Ricci, per tacer d'altri, e malmenato da
rabbio. filime trafitture d'invidia il Macaone delle noſtre contrade Marc
Aurelio Severini (le cui doctiflime opere in molte, varie lingue traportate non
mai per tempo diincaricate la ranno) così egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza
riguardo alcuno averli a'meritidella fua perſona, fu prima incarcerz to, e
poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia cocantiſpacciati infermi già la ſalute
maraviglioſamente avea riportata, alla fine de' ſuoi beni ſpogliato, Ma delle
malvagità de'. medici, quali coſe tralaſcerò lo, o quali ne ridiro? E pero chè
non fo lo côte ad una ad una le ingiufte uccifioni, che medici innocentiffimi
há per altio d'altri medici miſcrevol mente patito: fra le quali mi rammenta
prima di tutt'altre quella ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa
me medico Scozzeſe,nó peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno, ſe non
ſe, per dirlo colle parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam, &à
Virſungio non teme re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia.
Ma in paragone di tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del
gloriogfimo martire, che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc: a cui
tanto, e si fatta -mente porè l'invidia de’mcdici, che accuſacolo all' Impe
cradore di Roma Maffimiano, non mai fi: rimaſero, finchè " non videro per
man del manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina
medelma avvenga, che i medici fian così,comeabbiam diviſato malvagi,polliam
farne più chiaro argométo,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti, dove
parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon
grosſige materiali, anzi che Ooo 110, 1 2 477 Ragionamento Sefto no, ufano
altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per
tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali, come riferiſce Francefco Silvio,
Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas, ac
tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq; ita putant febres
miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la
cagion di lor malattie fian certe pietre, o animali, o ſterpi, o coſe fimili,
le qua li e'dicon, che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi;
e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari; e in tanta
reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa, voglion effer diloro
ſchiera. Nel ta muova Francia poi, ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i
medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente
le infermità guariſcano: ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale,
a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più
parte le vomitive medicine, e só quei volpo. ni sì deſtri, checol vomito vi
meſcolan di botto, ſenza che altri lor tolga in fallo, o ciocchetta di capelli,
o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono
altrui eſler la malefica fættura, la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz
fuori colla pūca d'un coltello, che tengono infra le dita, o altrove naſcofo; e
ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo, che il mal d' un
altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano; e quando finalmente lo infermo fe
ne muoja, ſi fan loro ſcuſe, con dir, ch'il Demonio,che l'uccide, è del lor più
potente; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da
ridere a quegli imboccano. Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi,
e degli ingamni abbiſogna, deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici
que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti;.poichè a loro è
conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro.
Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia, e d'altre
fimili Regioni, in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide:
fe. 1 1 ! + licil Del Sig.LionardodiCapoa 477 licisſimo per fei ſecoli il
Popolo Romano, il cui fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare alla
ſignoria del mondo la fua Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo
vietò affatto l'uſo de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado, che il
lor conſiglio non curando,della vita allus ga il dubbio corſo; onde dieron
cagione ad Ercole Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan,
chiam'io,che quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di
medico cercando; Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee
chepoi diviens Diſalubre ſudor fovente molle: Overa l'ombra de la viti amene Il
Settembre o l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la
manna, el Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti, il ſervizial, la curi, Che
tolgon l'appetito, e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura: Che ſe dato
è diſopra,chetu mora, Non ti guarrà dieta,o lunga cura. E più avanti E narraci
un villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia, cheformaggio,mentre Ha febbre;
emai non hamedico-auuto. E nonvoglio (foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e
diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre
nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo
bicchiero. E forſe,che farà queſto qualchenovellar dipocca, o da orator
menſonieros Michel diMontagna filoſofante,un de più grandi', che peravventura
abbia avuto la Francia, o fommamente veridico,non cinarr'egli, che in un
villaggio, ove inai non vi bazzicavaalcun medico,conmiglior ſanità, chial 778
Ragionamento Sejko 1 ch'altrove vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis
ciò non veggiamoa pruova rutto dìnell'Italia echiepper Dio di noiche, non
ſappia ciò, che molt'anni avveniffe in quella terra, chenon avendo mai per addietro
ravviſata faccia dimedicoil Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve
n'introduſe, ilquale co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi
non primanominati, non che praticati, ſeppe sì ben pelarla, ch'eravicino ad
eſſer vo ta d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli,a guiſa di cani mordenti ſi
ferono a doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il medico. Manon ſo
come caduto dalla. memoria mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan
moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar giudicio, e di chiara fede:
Animadversi, ſctive, in dyfenteriæ popu • larimorbo, in vicis de pagis, qui
medicina non utuntur, mortuos, aut nullos,aut paucos: in quibufdamurbibus plu.
rimos elatus à medicis maximofumptu:e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi
noftri: ex iis; qui medicas adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur;pari
modo aliqui Sanar jur, aliqui moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè
eglipoinell'ultimaſua infermità per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò
traſandandoſi facefle da loro con re plicati ſalasſi uccidere; e quel celebre
medicante Lazaro Meſfonieri ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur.
in agris, & pauperes medicis deftituti. Malaſciando que ſto ſtare al
preſente, tra per la dubbiezza dell'arte, tra per la varietà delle
opinionidelle ſette; e per la nequizia; e malvagità degli artefici fu egli
ſempreragion di ſaggio, e avveduto governo il non darloro orecchja determinar
fol lemente coſa alcuna in medicina; e infra tanti ſubugli di ſchiere, e
fazioni non ſi yide mai faggio Principe, o ben, ordinato reggimento vietar a
mediconiuno, che con paro le, e con fattinon paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti.
Così con loro ragioni non poteronmai o Erafiftrato ſommamé te caro al Re
Antioco, o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto in pregio dal gran Pompeo, o
Antonio Mofaonorato, e careggiato da Ottaviano Ceſare, o Vezio valente adul
tero DelSig.Lionardo diCapoa. 479. 1 tero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di
Claudio, o l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone, Teffalo, far sì, che a
medici di contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar
vietato e in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche. Cosi
fempremai in Romàse in tutt'altre parti delmondo, nomeno i Razio nali, che i
Metodici, e gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano, ciaſcun di
loro ugualmente il privilegio della cittadinanza di Romagodendo. E dopo le
rovines dell'Impero Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra
altri: ne a'feguaci d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d
Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto
l'Arabeſche dottrineper tutto ſormontalfero, comeaddietro è narrato, non però
di menonon poterono far sì, che affatto abbats tutane foſſe la ſchiera
de’lornimicisſimi Galieniſti;ned'al tra parte poreron mai coſtoro dallor
buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con ſátire, einvettive lungamen te
piatifféro; nondiineno di nulla mai', o reggimento, o maeſtrato, o Signoria vi
s'inframmiſe, ne Principe', che faggio, oavveduto foffe's colle maia
parteggiarncalcunod Ein vero, non Sommo Pontefice, o Re delle Spagne, o
Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della Suezia,o della
Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch," Io ſappia, ſi legge nelle
ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o dellediffenzionide’medici.
Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi,
città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon tefa infra i medici Chimici',
e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi, volle
mai inan dare avanti i decreti diquella, nulla curandole ciarle di PierGregorio
da Tolofa (il qual ſe tanto nella filoſofia,e negli altri buoni ſtudi del
Lullio foſſefi innoltrato,quan to nella Loica di lui s'avantaggiò,
certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas
racelfifti di liberamente ſempremedicare;e ad ontapure del Galieniſta
Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici, tư di 480 Ragionamento Seſto di quel
gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico, e
conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva, ne fu da lui ſommamente
onorato; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe
affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro: pure non che tal divieto
aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro
arrefti raffer maco, anzi l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente
adoperavaſi,comechè nelle cure delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e
ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi Redelle Spagne, così ne'paeſi balli,
come in tuce'altres Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo,le tur
tavia permettono l'uſo libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e
dell'Elmonte, e del Silvione del Villifio, fen-) za ritegno alcuno; ſpregiando
ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti de Galieniſti. Che ſe mai
Prins cipe, o Maestrato inframmetter tałora s'ha voluto, e por mano in affare
pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola, comechè menoma a certa, e
determinata legge ligare, bea fiè veduto perpruova, che ogni loro ſtatuto, a
ſconcio, e non laudevolefine ſempremai è riuſcito; come ſi vide av venire,
oltre a quel, che è detto, allor, che perconſiglio de Napoletanimedici venne
perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata, qual dicono, come
velenoſo vietato; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573. con per metterſi
çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno, e del Fraſſino, che poco prima era
ſtata ſeveramente proibita. E no poffo no arroſsare in leggere que'rimproveri
fatti dal Clufio, e dalMattioli, il quale in cotalguiſa favella: Er. rano non
poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno proibire ſotto
graviſſime pene, che non ſi debba ven. der la manna, che riſuda dalla ſcorza
del frasſino, e dell'ora 10, la qual chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle
nonſia buona acofaveruna, imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia
alcuna, e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza,
è fantiffima, ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie, e febbri maligné,
e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487: Jenziali,eſſendo che il fraſſino
ha manifeſta virtù controtua ti velewi; però laſcimo omai iProtomedici
Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino, e non pris
vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro, febene
viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno
ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci:
che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di
mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione, che facendoſi
troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto
meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate, del quale il
loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari
diffimili alle leggi umane, dice: ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad
théticis: giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere d'ogni
eredità incapaci; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato, e'l
Cujacio, e altri au tori di lieva in legge. Perchè il noſtro Matteo degli Af
flicti ne rapporta una deciſione; ove in modo giudicoſlinel noſtro tribunale
per haver data intera credenza a' medici, che dal Caranza dottor di legge
ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole: venit improbandum judicium
Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis, & aliorum quos Affli Etus
decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat: eorumque ductu Sacrum
Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem
declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam, d predictorum judicium impugna
verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium
illud Confiliis philofophorum, medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo
quiſquam non malit diſce dere, quam à veritate. Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da
quel,che narra quell'av veduto,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua
no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere,
e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere
tenner conſiglio ppp i dair 482 Ragionamento Sesto 1 3 di dar compenſo agli
abuli della famoſa accademia di Pa. rigi, e che infra l'altre leggi, e ſtatuti
diviſarono delle bi. fogne della medicina: ordinando, che i medici di quella
ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate, e ogni ſua opinione puntualmente
ſeguire:medicos ſono, parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges
fibi prafcriptas tee neant, divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta
ejus religiosèfervent. Empiricam caveant, neque ea ullo modo utantur. Ma cotale
ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera; e in vero, ſeque’valent’huomini
aveſſero innan zi tratto conſiderata, e riandata cotal biſogna, e riguarda to
alla varietà delle ſette, e delle opinioni, e all'incertez za di tal
profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora. E tanto più, che
que' inedici, che con figliarono una cal legge, ne prima, ne poi i diviſamen ti
d'Ippocrate oſſervarono; e in iſpezialità nel purgare, e nel ſegnare,come nel
ſecondo ragionamento avviſam mo; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina
è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate; e an zi tutti medici vengono
di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto
agevolmente coglier fi puore; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen
te, che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine
curati, ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo, o daſcorpioni, o da altri
velenoſi animali. E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che
per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina, che
ſaldinon nai ſono fungo tempo durati: delle diverle, e ſoventi fiate contrarie
guiſe di me dicare, e dalle si varic, e tante opinioni, che fra i medici di
tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto
d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo, ed inviluppato meſtiere, il
quale non ha in ſe dottrina, o principj, ſui quali huomo unquemai poſta porre
alcun menomo fondamento: e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai
manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze, acui s'avvengono tutti coloro,che
d'ordinar lebis fogne 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 483 + ſogne della medicinafi
danno alcuna cura. E perciò lag. gio ſembrami lavviſo di quella Città, o di
que'Regni, ch' avendo forſe a pruova legià dette verità conoſciute, non
vogliono in alcun modo prenderfene briga, ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma
dell'accorto poeta, il quale, coine Orazio faggiamente avviſa, que Deſperat
tractata nitefcere poffe, relinquit. Talfu il fano conſiglio del Signor Duca
diMedinaceliVi cerè nella Cicilia; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di
coſtoro, anzi prendendole a gabbo, ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi
Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola; il quale a diritto, ed a
roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè
pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a
durare la maggior fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie
in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che fra medico, e maliſcalco altro
di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome. Ma lo finalmente non lo fe
altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui
pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc dicina; e ſpezialmente quelle
che fatte ſono a richieſta, o a conſiglio de'inedici, quanto Trajano Boccalini:
allor che narra, aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a
conſiglio alquantimedici,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini
ch'avvenivano nel medicare: ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure
no iſcemaro no in alcun patto, ma vie più moltiplicarono le malattie; e le
morti giunſero a tale, ch'egli rimaſe forte maravigliato: (ſon parole del
Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto
fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente
da Ippocrate chia mandoſi offeſo, eſchernito, che ſotto zelo d'apparente carità
verſo il benpubblico, con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada
all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza, con indignazionegrande
disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo
diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento".
Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte
cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RAS 485.
RAGIONAMENTO SET TIM Or 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato, o Signori;
delle dubbietà,.e incortezze del la medicina,malagevoliaffaiperhuomo, anzi
impoſſibili a ſuperare:'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai;
non altrimenti, che picciola, e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare
da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa; o
mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta, non conoſciuta
ſelva;per travolti-bronchi, e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto
s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il
conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via, o modo al
cunoavviſare, convienr'certamente, che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto,
e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave
affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita, e la ſanitàdi ciaſcuno,dse
egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far:
giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui, al mio gliormodo cheſi poſſa;
çfecondochè la condizione d'un sal 486 Ragionamento Settimo tal meſtiere
comporta. E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare, i qualiad ogni
picciol cravicello, o pan chettirgi appigliano,così parimente dee il medico
negl'ince: uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli
argomenti, che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia,che con
quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita.
E quinci ſi è, che quantunque poco,o niuna certanza recar poſlano al ſuo
meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto,
emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein
tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene ſcorto, e cono ſciuto,
chiunque voglia con qualche profitto, e laudevol mente cſercitarla; perchè fa
meſtiere, che lo attenendo le promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti
ragionamenti, vegga minutamente chente, e quali coſe a fare un buon medico, e
perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan to la condizione d'una tal
biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli
ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te, o chiunqueegli (i foſſe
l'autor del libro dell'arte, quan do dice, ch'a coloro, che vogliono
all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο
ευφυές, tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira
tuoficoſtumi, e luogo allo ſtudiarconvenevole, e buon alleva mentoinfin da
fanciullezza, einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio, ſecondo
lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano affatto, e inutile ogni ftudio,
e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla
poeſia vuolch’abbiſogni quella na, turale inclinazione, dache alla medicina
apparare, e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla; vero fem
premai ciò che dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna
trova Diſcorde aſe, cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova;
Eſe'l mondo la giù ponce mente Al fondamento,che Natura pone, Seguen. Del Sig.Lionardodi
Capoa. 487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal
chefu natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia
voſtra è fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural
ta lento richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico
talora improvviſo, ſenza aver potuto in prima dello infermo, o della natura di
lui molto diſtinta contezza, o eſperimento, convenga diviſar me dicamentijanzi
che dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze; eďove ancor queſte
ſiano all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore,
e ardire a novelle cure lollevare lo intendimento. Alla qual coſa fare, chi non
avviſa, che fano giudicio, e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni,
c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori
diguerra. E mi ricorda a tal propoſito, che il Signor di Molluch chiariſſimo
capitano dir Tolea, ch ' ove il general della battaglia, iit veggendo rotte le
ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito,egli, o da vergognago da timore oppreſſo,
il ſenno, e l'ardir non perdeſſe ad'un ora, ſempremai buo na ſperanza gli
rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati, e
incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa. Ma potrebbealcun
dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per
appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di
noi egualmente l'abbia; impc rocchè, direbb’cgli, quantunque lo ſappia molti, e
molti eſſer coloro, che per naturaľripugnanza di genio, o d'ate titudine in
altre arti, appena aſſaggiatele, dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi
ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto, non ne fia medico poſciano
e'n buono ſtato divenuto. Eforſe ciò avviene, perchè eſ fendo la medicina al
mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie', il
ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per
apparar lized eſſerne da tanto; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli 488
RagionamentoSettimo 1. 6 gli dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato
di po tere ſpiare al corto intender noftro, come temerariamente altri pur
s'attenta di fare: ma ſe a qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi
che anziperchèdi ſommo pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer
peſo di tut tebraccia, ma di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette,
le quali ſono altresì più rare. Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in
colui che d'eſſer medico intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to
autore,ſeguito comuneméteda tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice,cbe
colui, ch'èxibaldo, e di mala co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere
vataggiarſi. Ne lo ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle
lingue; imperocchè della Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca,e dcHa
Tedeſca egli è allai chia ro,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e
interame te delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel
Bocciardi porta opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica.
Eforſe anche con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio, chedal non
pienamen té intenderle ne può ſeguire; il che avviſando l'avvedutiſ fimo
Arnaldo da Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola
nell'apparar medicina, con queſte parole: Notitia nominum prodeft ad doctrinam.
Et nulla profeéto ars, curiofius, cautius vigilantius homini diſcenda,
traétanda, meditanda eft, quammedicina, qua nulla eft pe riculofior: quippe
quum in ea verſetur falushominum, vi ta; per tacer della Loica, che richiede
Galieno nel medico; il troppo ſtudio della quale nuoce, non ch'altro, a chiun
que veramente approfittar ſi voglia nella filoſofia, eſpe zialmente nella
medicina,poichè eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte, non fa
poſcia dipartirſene allor, che delle vere, e ſenſibili ſoſtanze imprendea
filoſofare; onde faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea
paragonare i Loici agli artefici degli ſtrumenti muſia cali, i quali tutto
dimaneggiandogli, non ſanno poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente
valerience Ma ş DelSig.Lionardo di Capoa. 489 1 Ma la norma ſicura de'perferri,
e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge: e malamente al
ſi curo fornito loico, e conſeguentemente buon medico ſarà colui, a cui per le
mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono. E certamente avea la ragione,
l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello confortare, e
fpignere allo ſtudio della Geometria, e dell'Arilmetica: poichè la notizia di
cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole, dice egli: tlu fug'us
o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí óvño Jou răvő mi
yeusercioè,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento, acciocchè poffa
ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della medicina abbiſognano. E
diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad un medico faper Geometria,
affermando ancora lommamen te giovevole, e neceſſaria eſſere a ben comprendere
le deslogate offa, e l'altre biſogno nella medicina. Mamol to avanti avrebbe
egli certaméte della Geometria detto: ſe oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza
quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento de'muſcoli, e de’mali della
viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla notizia dell'ordina mento del
corpo umano utili, e neceſſarie. Ma fe (come più avanti dimoſtreremo) giammai
non può eſſer medico, chifiloſofo in priina non fia: c per apparar filoſofia,
la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è pur manifeſto,che il medico debba
efter Geometra. Ne può punto dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila
Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle ſtorie, che gli antichi filoſofanti,
tan to biſognevole ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole, che no volcan,cheniuno
in quelle entraſſe,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe. E'l
gran Galileo de’ Galilei, grandiſſimo maeſtro di coloro, ch’alla vera, e dalda
filoſofix attendono, diſſe; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta
deſcritta: e quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto, cioè a dir
l'univerfo; ma non mai poterviſe leggere, fc in prima la lingua, e i caratteri,
co' quali egliè Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto, dics in
lingua matematica, e i caratteri ſono triangoli, cerchi, - Q29 altre 490
Ragionamento Settimo 1 > altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè
impoffibile adin të der umanamenteparola: ſenza queſti, è un'aggirarſi vana.
měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio
dell'avvedutiſſimo Cardano, il qual mi ricorda, ch'avrebbe voluto, che niuno in
medicina non ſi foſſe mai convertato, il quale, mathematicas perfecte no
calleret, per dirlo colle ſue parole; del che recandone la ragione, ſoggiugne:
Nam his folum, nec fallere, nec falli contingit; unde qui in illis
peritusfuerit,non eſt veriſimile in propria arte velle ſuperioribus, &fuis,
ac fibi ipſi impo were. Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia, la Mu
fica, e altri nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede;
e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella dice:medicusnon ignoret, qui foni,
quos motus in (piritu,adquas bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i
quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio
ingombrano; e con molte, e ben compoſte pa role l'utilità, che da quelli ſi
trae, va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando, e quanto egli avanzato ſe ne foſſe;
ſenzachè, dic'egli, ſe il medico, non è di ſtronomia intendente, gran tratto ei
ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate, il qual non pur conforta i medici
tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte, le quali
ſenza ſaper di ſtro nomia, impoflibil certamente fie, che per huomo s'inten
dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai comprendere, come ben ſi poſſa medicare,
ſenza ſapere, il naſcimento, e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e
altre ſomiglianti co le, neceſſarie al meſtier della medicina, le quali tutte
la ftronomia ne inſegna. Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio,
come vano, e inutile a'medici biaſimano, punge, e proverbia il buon Franceſco
Vallefio, dicen do, che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla
medicina affatto inutile, non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in
cotal guiſa ſchifare lo ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe.
Perchè il non mai aba Aan 1 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 497 1 1 ſtanza lodato
Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della
viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle
ſtelle a quella della medicina, principio, eguida ſia. Ma fe la Stronomia
richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le
ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di
quelle, i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze, e d'altre aſſai
malattie, manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i
rimedj, ch'a quel li talvolta hanno approdato, e ciò, che per pruova ha noc.ciuto,
e giovato agli huomini: e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di
Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto, e altri aſſai medici di gran lieva,
e malli manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra, e lunga
peſtilenza del Peloponneſo, traportato poi co tanta eleganza, e così ben da
Lucrezio nel luo natio idio mi. Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural
filoſofia al medico ſi richiede; imperciocchè, fe perfettamente egli ſaper dee
la natura, è l'economia tutta del corpo uma no, le cagioni, così d'entro, come
di fuora delle malat tie, le qualità, e le coinpleſſioni dell'aria, delle
acque,de' vegetali, degli animali,e de’minerali turti: conſeguente méte egli
ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio, e diſcorrendo: ma in
quella con ogni intendimen to, e ſtudio involgerſi, e riconcentrarſi, e in
apprenderla, pienamente con ogni sforzo, e con ogni opera affaticarſi. Perchè
il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della medicina; e
Ariſtotele n'impone, che il me dico cominciar debba, ove il filoſofo finiſca;
che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal filoſofo non dif
feriſca, ſalvo che nell'operare: e che la medicina altro no fia, ch'una
operatrice filoſofia. Folle adunque, e danne vole oltremodo è da giudicar
certamente il conſiglio d'A vicenna: che il medico ſenza più avanti ricercare,
appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali; Raq 2 ne lo
492 Ragionamento Strimo ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova
del la verità; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte
ſua fi diparta giammai, come ſcioccamente s'avviſa Avicenna, anzi allor
maggiormente vi s'interna, e profonda, e più maturamente l'apprende. E bene
imma gino lo, che a ciò riguardando eſfo Avicenna, avviſaffe pienamente il
biaſimo grande, che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i
perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente
ſpeculare, e contemplar le coſe della natura. Miglior ſenza fallo fu l'avviſo
di Galieno, il qual ſopra ciò ben’un libro inte. ro compoſe con queſto titolo
densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove, il medicare una
piaga non, effer impreſa da tutte braccia, ma di color ſolamente che le coſe
tutte della natura hanno davanti agli occhi. Ma dove lo traſandava il buono
Ippocrate: il qual giudicò fi loſofia, e medicina eſſer compagne ſtrette, e
ſorelle,giua te, ed avviticchiate; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma,
amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo:
Primomedendifcientia pars fapientia habe batur; ut &morborum curatio, dow
rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit;c di ciò ne apporta
ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum robora
inquieta cogitatione, nocturnaque vigilia mi nuerant. Ideoque multos ex
Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo
manifeſto,quan to Pittagora, Empedocle, e Democrito, e Platonc, e altri
grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della
natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero;
ſenzachè i fonda tori, e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina, eziandio
della Metodica, e della Impirica, eilor più rinomati ſe guaci, tutti
concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono. Perchè il
fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor
direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo, iostec, cioè a
dire: il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio. E 1 1 quan 1 1 !
DelSig.Lionardo di Capoa. 493 > quantunque,come ſopra abbiamodimoſtro, aſſai
poco al baſſo, e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia
conceduto; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico
lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi, non aver
la medicina certezza alcuna; e a queſto avendo certamente riguardo, diceva
Cornelio Celfo: natura rerum contemplativ, quamvis non faciat medicum aptiorem,
tamen medicine reddit perfectum. Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora
a'medici ſi conviene; concioſGecofaché, ſe come di ſopra è detto per ſentimento
d'Ippocrate, di buoni, e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non
ſaprei già, come a tal pre gio mai aggiugner poteſſe colui, che coile natural
filoſofia la moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella,
cha per oggetto Panino dell'huomo, e in quello ſuol riconoſcere i malori,e
lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo, ed efficace ajuto.
Orcome po trà il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti
fanar gli ammalati del corpo, ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non
toglie? cioè a dire, ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti
del corpo, come da prima, e principalcagione, da alcuna paſſion dell'ani mo
ſovente naſcer ſogliono, la qual certamente ne cono fcerc, ne rimuover potrà il
medico giãmai, fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim,dice
Sinforiano Cãpegio, per tacer altri, eſt animi, &corporis neceffitudo, ut
ſua om nia bona, ac mala, velint nolint, invicem communicent. Per chè della
nostra anima facendo parole cantò il Guarino. Qwell’immortal, che null'ha di
terreno A terrenidifetti ancor foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va
diviſando; la qual coſa ancora, ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di
fare Eſculapio s il quale appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro: e
ſe pure dopo ſi è co minciato a feparare l’un meſtier dall'altro, non èmara
viglia, dice Malfmo Tirio: perciocchè la medeſima artu di curare il corpo, così
in fc ftella diviſa, e lacera ſi vede,: chic 494 Ragionamento Settimo che altri
ha cura dimedicar ſolamente gli occhi, altri law veſcica, e altri altra parte
del corpo. Ma con quanto di fcadimento, c danno dell'arte, e de’maeſtri di
quella, per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe,che partite, e ſceverate
queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo,
ſenza badar punto alle malattie dentro, lo dicano tante, c tante malvagità, e
ribalderie operate daʼmedici, come di ſopra dicemmo; concieſlico fachè non ſon
per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima
proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima,
e poi gli alţri tute si della verità, della giuſtizia, e dell'oneſtà lodeyoli
ama, tori. Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo, il medico filoſofo
ſomigliante a un Dio, fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar
cotal parte cotan 10 eziandio giovevole, e neceſſaria alla medicina. Per chè
guardando a tutto ciò Galieno, cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto
diſordinamento, e di riunir di nuovo, e rannodar la medicina colla morale
filoſofia: onde compoſe quel libro, ove e' moſtra, comes’abbiano a cono
ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare, e
del medicare dell'anime le malattie. Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che
inſegna altrui e' me defimo profittaſle; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo
egli narra, era egli avvezzo a ſoffrire, e a portarein pace i caſi.umani, e
d'animo grande, e immobile, ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne
perdita di beni, o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo
onor di gloria, o burbanza divana ambizione, o qualunqne altra coſa
maggiormente al mondo ſi pregia.. Mail medico avendo a guwar le malattie de'
corpi uma ni, ea provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno,
che ſopra tutto egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere
doctrinato, e di quelle coſeancora, che riſtorare il poſſano dalle cagioni,
ovale. volmente ceſfarle. Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza
dell'umano intendimento conceduto, per veni. DelSig. Lionardo di Capon 495
venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo uma no, gli conviene in
prima il ſito, la figura, l'ordinamento, e la grandezza,e l'uficio delic parti
di quello diligétemente inveſtigare: alla qual coſa manifeſto è, che ſenza
l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa: perchè della me dicina folea
dir faggiamente Cello: incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium. La
qual neceſſità inolto bé gli antichi medici conſiderando, come pienamente nete
ſtimonia Galieno, a ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza
diligentemente s'avezzano. E oltre a ciò egli dee bene inveſtigare, e con ogni
ſtudio maggiore andar rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera,dell'aria,
dell'acqua, della terra, della Luna, del Sole, e di tutt'al tri Pianeti del
Cielo; da'quali corpi tutti continuo fotti liffime, e non vedute ſoſtanze
ſgorgano, quali a pro, e qua li a dannodell'umane vite. Quindi s'andrà egli
pian piano innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali, de've gerali, e
degli animali tutti, oide il cibo, e imedicamenti per gli huoinini ſi
coinpongono. Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria, che d'effa ſola ſi
vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt:
opifexque per orbem Dicor: &herbarum fubješta potentia nobis. E'I Mantovano
Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates
herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo,
chenacque In riva al Pò, s'adopra in ſuaſalute: Il qual de l'erbe, e de le
nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo, ogni virtute. Intorno alla qual coſa folea
ben dir Oribaſio, che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente
mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia
molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai
avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari
vedere: e ame baſterà al preſen 490 Ragionamento Settimo 1 1 preſente per
raccorciar la lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo, over'dice:
chiunque nel medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima
eſser molto bene ſcorto, e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize
in ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di
medicamenti, e infra quelle, le più eſquiſite ſceglier ſappia;
concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato, ſe mai oferà
un talme Aiere imprendere, ſappiendo, ſolamente in ciarle la nor na del
medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico, Quinci ſi pare quanto
errino i medici, comequelli, che pongono queſta parte, cotanto alla medicina
necella ria,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il
doctiſſimo Fabio Colonna: in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat
pharmacopolis carentibus, artem exerce re? an ne verbis? c più avanti trapaſſa
l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali, che di cotal traſcuraggine
agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus, dice egli, neſcit quod agro
præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum: Rufficus herbarius,
qui fæpèlegere ne fcit, &à nemine doceripoteft, cafu colligit fimplicia:
&hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem, fepiffimemortem afferunt, ignorantiæ
finem; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e faticoſi
ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante, e tante malagevolezzo,
che noi diviſate gli abbiamo, ſenza altra fatica durare ſia per venire a capo.
Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti viaggi nuovi
altri pachi lontani troppo, e non conoſciutia piè volgare: oye fra bålzi, e di
rupi, per iſcoſceſi, e avviluppati ſenticri con gran ſudore, e biftento giugner
ſi dee. Egli è il vero, che giunto poi quivi, trova ben cento, e mille vaghezze
allettaprici, luſinghiere. Già parę di udirvi dire concordemente, che lo voglia
favellar della Chimica, nella qual ſi comprende tutto il bello, tutto il vago,
tutto il maravi glioſo, che può mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10,
zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche,, e lingue cento
Avesſi, e ferrea lena, e ferrea voce, alcuna menoma parte de' pregj di sì
iluſtre, e glorioſo me ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o
arti il luftrio, rare fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi
dilettoſe, giovevoli, e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura, del
fabbricare, del navigare, della mili della ſcultura, della pittura, della
filoſofia, della me dicina: voi facendo teſtimonianza della grandezza, e dellº
eccellenza della Chimica,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali, il
voſtro accreſcimento, ilvoſtro ſplendor trac fte: dite come a'voſtri
intendimentiporſe la materia, age volò l'opera: Netacete pure, o ultime pruove'
dell'uma na induſtria, gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor prezioſo
nepente commendato dalla ſonora troba de gra deOmero, che co’ſentimenti inſieme
i dolori, e gli affan ni de’greci Campioni potcſti aſſonnare; ricchiſſime
coppes allanſonti; e voi cento,e cento altre Egizie maraviglie, che tolte a noi
dal teinpo, appena chi vi preſti fede ritro vare interamente potere. Voi
ſuperbe piramidi di Mem fi, voi effigiati obeliſchi di Tebe,che all'eternità confc
crati Roder non può del tempo invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della
Chimica; e ne'metalli, e nelle gemme, cnegli artificioſi ordigni da quella
portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie eternaméte innalzate. Ne mé
taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la chini ca dagli
antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj per
frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra colui
appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va reixnucios
χρυσού, και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG έκαυσε και προς
το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης, μηδέ χρημάτων
αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv. Ma quanto la Chimica
faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può ravviſare, che ſenza
quella non può Rrr vale. 498 Ragionamento Settima valevolinente operare, ne è
da dir arte ſicuramente la mes dicina; perciocchè, fe come abbiamo di ſopra
lunga mentedivifaro, in cicchi, e confufilimi laberinti: invi luppata la
medicina, nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna, o
più ſicura guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe,
che la vera, echimicąſperienza. Enel vero, che giove rebbe mai al medico il ſapere
ad una ad'una le partitutte annoverare, e ſcernere del corpo umano, ſe.poi
della nas tura, e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo, che nulla;
licome nulla ancor monterebbe, che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti,
eivegetali, e gli aniinali, ei minerali, ſenza ſapere lui la propietà', e
l'efficacia di quelli. Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti
del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti, fenza la
traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro: e ciò,
tra perchè iſegui,į le conghietture, onde di prenderle immaginarono, poco men
che ſempre fallaci, evane fi erano: e ancora perchè parecchj di coloro, il
tutto a quelle,, che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi
per loro più to fto altre, edaltre qualità ſpiarc,dalle quali molto più,che
dalle prime, le operazionidelcorpo umano, come è detto, dipendono. Matroppo
malagevoli alcune di quelle fono, e ad intendimento umano moltonaſcoſe; così
ayviluppatou fono, e infra lor intralciate le particelle cutte, onde s'in
generano:: 0 per la troppa debilezza de'lor movimenti, o per la picciolezza;,.e
cenuità di quelle, o per altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri
ſentiméti celandoſi,non ne laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque
pulueris interdum ſentimusadhæfum Corpore, nec membris incuffam fidere cretam,
Nec nebulam noctu, neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes.
Così ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la
natura, e la propietà dell'aere, dell'ac que, della terra, delle piante, degli
animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali, in non pochi
errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate,
Teofra 1to,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti, sfidan doſi di
poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire, ſenza più addentro
vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono., quel ſolamente
ſcrivendo ne, che per lungapruova già ſperimentato:n'avevano. H che diè
cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia, edell'eloquenza Romana:
mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera, qua radicum ad
morſus beſtiarum, ad oculorum morbus, ad vulnera; quorun uim, aique naturam
ratio nuſquam explicavit: utilitate, con ars eft, &inuentor probatues,
&indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum,quod
ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit, videmus, quod fatis eft; cur
posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti, emedicidi grido, dallapore,
dall'odore, e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero, come, o
caldi, o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero, onde poila virtù di
radificare, o di ſtrignere, o di riſtorare, o d'altro argomentar poteſſero:
inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu
dicato; e'l medeſimo Galicno, non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada,
oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo,
dal freddo, dall'u ! mido, o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro, e
l'acetofo, ed altre fomiglianti qualità, che ſeconde chia mano. Oltre a ciò,
v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno, ne ſaporc, ne altra manifeſta
qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù, eziandio belzoardiche, e veleno ſe
dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar, che l'acqua
ftigia, che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge,
cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia? Solola Chimica con ſue pruove faccendio
manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno
quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel
caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed
ogni altra coſa conſu R.15 2 mano, 500 Ragionamento Settima mano, fuor
ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu tarco: e.de'cavalli avea detto
Pauſania,, Trogo, e Curzio; ed Eliano delle Corna degli aſini della Scitia; e
di quelle delle muledice Plinio:ungulas tătùmmularum repertas, ne que aliam
materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis agudo E Vitruvio: conſervare antë
eam, &continere nihil aliud po teſt nifi mulina ungula. Machi potrebbe mai
credere, cheſotto la dolcezza del miele, e dei zucchero cotanto piacevoli
alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti pungenti, e roditori non molto
dall'acqua forte, e dall'acqua.regia diſſomiglianei? delle quali gli acutiſſimi
ſpiriti net vitriolo, nel nitro, nell' allu me, e nel ſal comune s'appiattano;
e che nel ſolfo diqua, lunque ſapore ignudo, c digiuno dimori un ſale oltremo
do acecolo, c roditore; e che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino, uno
acutiſſimo, c aſſai valovole a rodere, e l'altro ſoprammodo piacevole, e ſoave;
e che l'acqua pu ra, e ſchietta, che continuo ſi beve, e ſembra al guſto co
tanto inſipida, ritengi un fale sì fattamenteacuto, e pene trevole, che ben
balta egliſolo in minutiſſime particelle a fminuzzare, e ſtricolare quel
duriſſimo metallo, ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede; echenelle viole,
nel ke lattughe, nelle roſe, ne'papaveri,, e in altre ſimiglianti ierbe, e
fiori, giudicati anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc
ſpirito-affocato, ed ardente mícoſo li ftia, dallo ſpirito del vino non punto
diſſomigliante. Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono, ch’a ravviſar le
qualità de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero: e per giugnere alyero
conoſcimento delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré-. diamo ad avviarci Per
ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando, e minutamente partendo
ciaſcun corpo per opera della vitaf notomia, la quale Sempre a vincer ſe beffa
oprando intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta. E quanto sì
nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo,
ben conobbelo il curiofiſla mo Ga. Del Sig.Lionardo di Capoa. for mo Galieno,
allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare,
lungamente indarno diſiderando fi, così ebbe a dire: In queſta coſa Io non ſon
per tentar tutte le ſtrade, e tenterò di far ogni pruova, acciocchè poftafi
qualchearte, oqualche ingegnoritrovare, col qua le ſeparar ſi poſſano le parti
contrarie nell'aceto, ſicomeſuol farſi nel latte. Macertomala pruova vi fe egli
Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te
agevolisſimamente s'adopera. Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno,c
quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo
tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio
avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il
che grandisſimo vantaggio reputave Galieno, main altre, ed altre molte quello
agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa
minamento de filaſofi, con dar probabile,e verifimile con tezza delle lor varie;
e diverſe propietà, le tante, e tanto maraviglioſe operazionidell'aceto ne
vengono a manife ftare. Oltre a ciò lo immagino altresì, che s'egli aveſſes mai
il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la Chimica, comeche rozza; e
imperfetta aver potut?, 11011 đì -ſarebbe certainéte maieglimaravigliato, come
ſotto una sì grande virtù di riſtrignere, quanta è nel vitriolostanto, tanto
calorc covar fr poteffc.- Imperocchè egli con far di quello notomia agevolmente,el’una,
e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi
riſcal dare inſieme, e di riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa.
Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in
- fra le contrariope rar mai poteſſe, ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e
rap prendendo d'altra parte alcuni liquidi, e fortili, e.volanti troppo, ch'a
qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole, e
imperfetto il ſuo filoſofar..conoſciuto avrebbe. Or di queſta nobilisſima arte
non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove
F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove, tra per le
tenebre folte disì antica età, e maggiormente per la non poca cura, che ebbero
ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o
punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno, e riguardo, accennandola
con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin. mi, e con oſcure allegorie, e
favoloſi racconti inviluppan dola:malagevolemolto,e confuſo per certo, e poco
mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo incominciamento rapportare;
cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte
ſi vede. Ma che che di ciò Gia,.che di sì nobil ritrovato deali la gloria
all'antica Paleſtina, o pure alla Fenicia,o all'Egitto, o alla China, o a qualū
quealtra parce forſe più ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e
ben da ſe medeſima appare eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi
eller ritrovata nel mondo, avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao
muelBocciardi dica: novum effe inventum della Chimica favellando, nec illius
quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum; il che pienamente teſtimoniano
Euſebio,e Zoſimo; e Suida, c ſpezialmente il Firmico, il quale tutto che fio
tilſe a'répi di Coſtantino, pure traſſe le ſueſcritture, come ei medelimo ne
narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè
menzionato Euſebio, che aveffe la Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu
Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν
λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών
εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και φιλοσόφους, εν οίς ήν και Μαρία της
εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί χρυσού, αργύρα, και λίθων, και
περφύρgς λοξώς'. ομοίως δε και Μαρία εσ ηγέθε σαν παρ' ο'τανε, ως πολσίς και
σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην. Μa che Democrito ſapeſſe la chimica, ſi
può apertamente ve dere in quel che dice di luiSencca in una ſua piſtola: exce
dit porro vobiseundem Democritum invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in
fmaragdum converteretur, qua hodieque coétura inventi lapides coctiles
colorantur; le quali parole di Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe
della Sca DelSig. Lionardo di Capox For conto Scala; in facendoſi a credere non
avere ſcritto altrimenti Euſebio, che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in
Chimie ca addourinato,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto,
untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non
eſſere ſtato giammai in Egitto, e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che
colà andaſſe Democrito; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere
ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio
errato aver ſenel nome, da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben
l'antichità della chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli
iſtrumenti dell'agricoltura, las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo
nacque adi un'ora:: e'l modo di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre
frutte il vino, e l'artificio veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri, e
diformar le gemme, e'l meſtier del la milizia, e d'altre antichisfimearti
giovevoli non poco, e neceſſarie al genere umano; le quali ſenza la Chimica non
fi poteron mai certamente ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega
collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti gio appreſſo Teofraſto, ed altri
antichi ſcrittori: e da qualche medicamento ancora delle volgari botteghe ſi
può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte, e da’moderni inge gni ritrovata.
Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo. ficio, o'l meftier dell'arte
chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere inſieme i diviſi.. E
quantunque ella ſia uns fpezial arte, che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia
ne ftieri, o la medicina, o alcra arte, di cui dipender debba; non però di meno
per li molti, é diverſi fini, in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni
talora indirizzar ſoglio. no, ella infra varie altre arti ſovente s'acconta;,
ma in tre ſpezie principalınente è partita. La primaſiè, che ſolve, ed uniſce
tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper fezione (come coloro s'avviſano
j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida, La
ſeconda ſi è la filoſofia,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin
1 dico 04 Ragionamento Serrimo di conoſcere, e ravviſare la natura, e la
propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte. La terza- ſi è la medica, che il mede
fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de
corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie, e dell'arie, e
dell'acque, e demedicamć ti, e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri:
e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano, e di
maggior efficacia,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino: e ſi poſſa ad un'ora più
felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no,
o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte
da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle matematiche,
o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette; ſe non ſe per avventura
dobbiam dire,che maggiore, e più manifeſta utilità recau alla medicinata
Chimica, che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi
facciano. Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo colui, che del la
Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve, così ſo migliantemente o
ſtronomico, o geometra, o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe, che per maggior
profitto inmedici na trarre, di sì fatti ſtudi picnamente fi conoſce. Ma noi
nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico, o chimico
filoſofante-colui chiameremo, che del la chinica arte, o per medicare, o per
filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole. Madall'uficio, edal fin
della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e
n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa.
E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede, ch'allej naſcoſe coſe Non trova
ingegno-umano aperto il varco: chi può mai porre in dubbio, che lo ſcioglimento
de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da pervenirea qualche
conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i naturali corpi ſono:
come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri
ſimiglia. ti in Del Sig.Lionardo di Capoa SOS و ti ingegni fi vengon toſto a
ravviſar le parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e
maeſtri del la natural filoſofia, Pittagora, Parmenide, Anaſimandro, Democrito,
e altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni, che attentamente
ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe, che daʼnoſtri ſentimentiſi
comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj
inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono. Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a
forınar l'opinione de'quattro pri mielementi, ſe non ſe di quello della reſoluziou
del corpo umano; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito: dicendo,
nella carne,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente
il fuoco,e la terra, poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi
noneſſervi altri menti legno, ne carne, ne in atto, ne in potenza; imper
ciocchè le vi foffero, certamente ſe ne ſeparerebbono. E tal ſentimento dalla
torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato; a'quali ſeinbra aver aſſai bene
ſtabiliti i quattro pri mi clementi, con dire, in bruciandoſi una pianta aver
vi, oltre al fuoco la cenere, che è terra, e'l fumino, che è aria: e la groinma,
la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua. Ma quanto ſpoſata, e
fievole una sì fatta pruova fia,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto
in chimnica, cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto, e i difetti di cota le
ſcioglimento; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte, e varic
favoleſche, oltre a quelle, che per la picciolezza in conto verun çavviſar non
ſi poſſono, aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo: ne è da dire la
cenere, il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici, e non compoſti,
che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano, e inſino a primi ſenſibili
componenti fi partano, ravviſanfi compoſti di particelle di natura, en
d'operazione diverſi, come quelle, che contengono un'ac qua ſemplice, ed
infipida, ſenza altra virtù, falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed
acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe,
non micno il ſapo Sss re, che 1 506 Ragionamento Settimo le che la virtù tutta
del legno: le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un
ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco, ed a ſcioglierſi nell'umido, ed una
ter ra priva di ſapore, e di efficacia. E corale ſcioglimento no come il
volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare, ma col conſiglio della
chimica, poco men, che in tutti corpinaturali adattar puoſli; oltre a ciò poi
più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal
ſal venire in quelle contenuto, egli odori dal ſol, fo, e dal mercurio la
penetrazione; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà, che i
ſemi del liquido, e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino; o che ſian quellia
guiſa d'acutiſſime piramidette, o dipiccioliſfimi globi: e che il ſolfo ſia
d'uncinute particelle, e aggavignate com poſto. E così pian piano ricercando la
figura delle parti celle del fale, è degli altri chimici principj trapaſſerà a
{piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così
pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato, po trà chiche ſia inveſtigare,come
far ſi poſſano le piovese i grā. dini: come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le
ſaette:come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della
ſpada,rie manédo illeſa la guaina: come piovano foventi fiate pietre, ſangue,
elatte, e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle
qualicole, e altre molte, potemo ogo gi col giovamento della chimica, non ſolo
aſſai veriſimile mente conghietturare, ma coll'opere, e coll'eſercizio prat
tico imitare; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica;
che dagli effetti oro fulminante appel laſi, la quale acceſa, fa non folo lo
ſtrepito, e lo ſtroſcia del tuono, ma anche ilcolpo, e la violenza della faeţea;
il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata, la qual
tonante chiamano. Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni dell'acque
piovane eſtives, un ſale, chemeſcolato con egaal porzione di ſalnitro,e có una
particella di ſolfo fa an coral meſcolamento, che ac celo li fonde in pietra.
Ma di troppo più tempo avrei bi fogno Del Sig.Lionardo di Capoa. 807 fogno ſe
voleffi Io far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe
per addietro, e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per
argomenro delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne, e
manifeſte. Perchè non è forſe dadubitare, che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe
a notizia degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle
loro ſcuo le huom ricevuto, che prima in quella non foſſe alcun té po uſato, e
ben lungo vantaggio tratto n’aveſſe; e per mio avviſo con maggior ragionedi
quella, onde Platone, e se nocrate volean, che nel filoſofare non foffero
ammelli com loro, che della Geometria digiuni foffero, come teſtimo: niano Laerzio,
Suida, ed altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle
famoſeparole ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw. Concioffiecofachè
la chimica fola il più certo, e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural
filoſofia; edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde,e
diamantine porte differrar in qualche modo ſi poffano, ove i più cari, e ricchi
tefori deita natu ra fon riſerbati: perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to
certamente il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio, e per eccellenza
floſofi, e ſapienti coloro, che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma
per diſcendere al più particolar giovamento, che della Chimica raccor fucle la
medicina: Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e ſpezialmente
delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia,la chimi ca lommamente abbia
luogo, e la ſua vital notomia; im perciocchè ſiafi pure coll’opere della morta
notomia a mol te, emolte coſe aggiunto, le quali gli antichi ſapicaci ravviſar
non poterono; e lungo tratto vi crrarono: e ſap piaſi pure per quella il vero
movimento del cuore, e del ſangue: e che il ſangue non s'ingeneri nel fegato, o
nelle vene, fecondochè con molti altri, così antichi, comemo derni porta
opinion Galieno: ne men nel cuore,ſicome im » magina Aristotele: c ſappiaſi
anche, che il chilo tragittiſi non per le vene miſeraiche, ficome vollono gli
antichi me Sss dici; 508 RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco
latteo; onde poi meſco laro col ſangue trapaſſa al cuore: e ſappiaſi eziandio,
che vi ha le vene acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni
trapelando alla veſcica s'ayvalli: ecento, e mille altri moderni trovati degli
ingegnofi notomiſti de’noftri tempi, de qualierano affatto digiune
Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi altresì volentieri (il che
non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano
ſia giunta; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli ſe
ne potrà per innanzi ſcoprire, o fa pere:non per tanto non potrà di tutto
concio ſervire al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo
meſtier.Sirichiede; anzidopo tante, e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una
vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano: utiliſſima certamente,
anzi neceſſaria a do ver ſapere; ma non baſtevole già, ne meno a poter in par
te fondare, e mandare avanti una verifimile razionalme dicina: per la quale fa
meſtieri ſaper le cagioni dentro, ele probabili ragioni delle coſe, non già la
ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle. Ne da dir egli è ſaper pienamen
te l'economia del corpo umano quel medico, il quale non potrà render ragione
della natura della generazione, del movimento delcuore, del ſangue, del chilo,
degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano, c
della propietà,e operazione di ciaſcuna di quel le; le quali coſe inveſtigare
impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere; per
virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa, e de' peli:
ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa, e di peli,
uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia:
perchè dic'egli, che l'oſſa più umide, c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben
filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co
argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente
ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili
DelSig.Lionardodi Capoa. 509 mili ſi traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo,
& unifor me licore, che chilo appellaſı; come poſcia il candore del chilo
in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento,
e'l ſuo calore, cioè aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento,
over disfacimé to decorpiſolidi, in virtù di convenienti liquori; la gene
razione della bianchezza nel chilo, e del roſſore nel fan gue, alla
trasformazionedel colore nel latte vergine, e nell'eſſenza del fatirione, e
altre ſimili coſe; la continua produzione del calore nel cuore, e nel ſangue:
al fervore, che per la formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve.
getabili. E cotanto montano per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza
quelli nonſi può coſa del mondo intor, no alle malattie, a’lor effetti, e
cagionigiammai diviſare; ne in altre faccendo delcorpo umano, coſa alcuna di
con ſiderazione potrà per huom maidirſi, fe minutamente les dette coſe, e molte,
e molt'altre per virtù della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino,
le quali tutte lungo ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare. Ma non
men utile, non men giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico
l'arte de Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa, e ſottile
eſaminazione l'aria, le terre, l'acqua, le piante, e gli animali, eimine rali
corpi, attentamente poine ſpia, e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa; e
di qualunque lor menoma parti cella le propietà, elevirtù, ele maniere tutte
dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa. E nel vc ro
queſto, che ciaſcun di noi, e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda,
penctra, avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente, e lieve, e ſereno, e
ſottiliſſimo cor po dell' aria: la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita
liani noſtri Timeo di ſgretolate, e minucillime particel le di ben venti facce
compone, non è egligià miga ſem, plice corpo, come il volgo follemente s'avviſa;ma
di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme, emeſcolato. Sorgo no queſte
dalla baſſa terra talora, edall'acque, che quella, irrigano, e forſe anche
dalla luna, dal ſole, c da altri corpi fupe. l 5102 Ragionamento Settima
faperiori vi piovono; per li qualil'aria, o più, o menoalla reſpirazione, e
agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè nelle cimedegli
altiſimi monti, ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua, e della terra, gli
animali fi foffogano; perchè poi in coloro in varie guiſe le malattie naſcer
veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris Corrupto cæli tractu,
miſerandaque venit Arboribufque,fatiſque lues,lethiferannus. Ma tali particelle
meſcolate inſieme, e nell'aria coufuſe aſſai malagevolmente per certo, aozi in
niun modo ravvi-, far ſi poſſono, ſe non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na
di loro ne' ſuoi primi componenti. Il che con ma raviglioſo artificio da alcun
de'più eſercitati, e più intens denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e
ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra
del famoſo Drebellj,parche vi ſi fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere,
qualora ne veniſſe egli privo,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i
ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui nel mondotra noiſimuove,
& fpira; che perciò egli vitale l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli
animali,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria eller li conoſce; e ben di
eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella
maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran
Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena vigare; coméchè il
detto eliſfire altro ancor faccia, cioè folvå, e precipiti giù quelle ſoſtanze
nell'aere, che'l ren dono mai atco alla relpirazione. Ma l'acqua, la quale per
bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima,
e traſpa rente, c pura a tutta poffa fi ſcelga, eli proccuri; e che al fapore,
all'odore, e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in
prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi
trovano, ſe ne cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto, e pugnereccio, che
DelSig. Lionardo di Capoa JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali,onde
per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie, comediſopra accennammo,
che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo, e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta;
perchè è dacredere nó bene operar coloro, che il diſtillar acqua per limbicchi
di metallo, e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono;
conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo,
e trameſtandoſi l'uno all'altro, vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e
guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua, che ftillaſi:e allora veg giamo
coforarſi a poco a pocol'acqua, e a guiſa di latte biancheggiare, quando
diſtillata a campana di piombo có altra femplice, e non diſtillara acqua
ſimefcola; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně
80. Ma che che fia di ciò, oltre al ſale, il ſolfo altresì, e'l mercurio, e la
flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico, e chimico
filoſofante Borricchio. E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti vegetali
semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº altro
Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano: il che diede per avventura cagione agli
Egizzjdi giudicarla primera, e univerfal materia ditutte coſecreate, da'quali
tolſe Ome ro a dire: Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore di que'
verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι. Ωκεανών πεώτG»,
καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege TyIwTHEY, E’I noſtro
poeta, per tacer Virgilio, Catullo, ed altri, ſe. condo il medeſimo ſentimento
avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima della terra, Pur non è
ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele coſeeterno, Benchèmadre
fichiami, e velta: & vanti La reggia, ei figli ſuoidivize giganti, fa poi,
che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede,èfama antica L'O ! ST2
RagionamentoSettimo. L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu
anche di Talerc Mileſio, il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio
va dicendo Milefius Thales, aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal
vedere egli, come fasſi a credere Ariftotele, effer umido, così il ſeme, onde
s'ingenera l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica: e dal credere, come
riferiſce Plutarco, il ſole, e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o
dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca, ed in ella diffolvafi,
comc racconta Euſebio. Malo immagi. no, che Talete non già principio delle coſe
abbia voluto eſſer l'acqua, ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta
ſembianza e, forma quella materia, onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti
ſenſibili del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo
ſcoliaſte d'Efiodo, allor che dice, il caos d'Eliodo, altro non eſſere, che
l'ac qua. Ma non men dell'acqua, e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle
terre, c con attentisſima eſaminazione conſide rarle, ove certamente infra
tante, e tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe, e varie ſorti di
minerali' ritro varſidagli; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot
ta l'aria, o l'acqua, o le piante, o le frutca, nuove, edi verfe guiſe di
malattie ſovente cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda, quelle
gravisſime febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno
accé der fi fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano,
ſe non ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al
noſtro corpo, e dall' aria, ed all'acqua, e da' cibi quivi racchiuſi, e
ingozzati, ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in
ardentisſime malattie; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole
facendo venir ſu gli alitį arſenicali, vitrio lati., nitrofi, e ſulfurei dalle
occulte miniere della terra, rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute;
concioſ fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ray 1
Del Sig. Lionardo di Capoa 513 2 ravvifarido, come alcuneſoſtanze, le quali
comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im pertanto
confuſe formano un mortifero veleno, come nel ſolimato ſi vede, del quale ogni
qualunque menoma parti cella mortalmente offende, potrasſi agevolmente conoſce
re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o a'mer curiali
equivalenti, ed ora ſalini, pofſa produrſi nel cor. po noſtro una ſoſtanza non
guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle mortali infermità di cambiamento
da ria appellate agevolmente s'ingenerino. E ciò vien conferinato dalla
ſperienza, come quella, che ci dimoſtra, ivi avvenir le malattie di cambiamenti
d'aria, ove ravviſa fi maggior varietà diminerali, ed ove il calor del ſole per
cuota maggiormente; ne da altro, che da aliti velenoli, e nocevoli de'minerali
da crederè, che s'accendano ancora quell'altre febbri non men malvagc, e non
men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi tratto tratto con lor vio lenza
alle Città, e a' contadi, e a’villaggi tutti, fogliono così infra breve ſpazio
di tempo impoverir d'abitatori le contrade. Ed abbiam noi pure con gli occhi
proprivedu to quanti, e quanti da sì fatte cagioni nella noſtra Città
miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi addie tro, quando
crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre, laſciò vuoto,
e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio, ed altre terre,non ſolo della Campagna Fe
lice, ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro. Ed è egli neceſſaria ancora
ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con l'ajutodi quella valevoli
a ſpiar la natura, e la propietà de'cibi, e de'ſemplici medicamen ti render ſi
poſſano; conciosſiecofachè quantunquc vero egli foſſe ciò che Galieno medeſimo
coſtantemente niega's c rifiuta;che i ſapori, e gli odori, ed altre
ſoiniglianti qua lità, certi, e ſicuri ſegnali della natura de'cibije deʼmedica
menti ſiano, pure perciocchè gli organi de’noſtri ſentimen ti di sì
ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono, che poſlan ſempremzi ben
comprendergli, egli ne fw certamente meſtieri per iſcorta de'ſenſi
rintuzzatil'Ermeti Ttt C2010 5.14 Ragionamento Settimo ca notomia, la quale
partendo i corpi, ed eſaltandone le qualità (per ſervirmi d'una voce dell'arte
) quelle poi ma nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa. E
quale avviſo potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi
intorno a que'cibi,e a que'medicaméti: che pur ven'hà molti: edanche intorno a
que'veleni, che privi affatto,e ignudi d'odore,e di ſapore,e d'altre ſimigliá
ți qualità, di tanto vigore, e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper
pruova, qualia danno, c quali a prode gli huomini, chc nulla più? E quale
argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche.
rate in prima, come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato, e la
lingua, e poi tranguggiate, nello lo maco formentandoſi, le viſcere,
cgl'inteſtini crudelmeute, n'offendono? Coſa,la quale nel zucchero, e nel mele,
e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al
guſto, a la ſaluteè rea; perchè facendo le beffe a' volgari medici il
motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato
altrui diſtempre, E’n collera ſi volti; a cui l'amaro Danno coſtor, che fan
tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno, e raro Maſtro Simon ftudiandoil
Porcografo Scoperſe a Brun, che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o
Babualo, Edì, fe'l mele in cullera ſi volta, Segno è, che d'amarezza non è
caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele, e'lzucchero
con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi; pure de’lor falli agguati ne fan
pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con darnemanifeſtamentea di
vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon derſi, nonmolto a
quel dell'acqua forte, e dello ſpirito del nitro dicimile: Quis mellis
dulcedinem nefcit? dice Pier Severino: nibilominusin tanta dulcedine latent
Spiritus illi acutisfimi, qui ubi exaltantur, & ad extremitatem ducun::
tur, Del Sig.Lionardodi Capoa. 515 tur,venenatā perniciē represētāt.Eprima
dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq;faporismeile
Corroſivă peffimü, atq; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato,
e ſciocco, e giudica pur dalle qua lità, ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe
della natura; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete, ch '
accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua
mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche
agl'Idropici più ane lanti la fete. E che direm poi del pepe, che così mordace;
e pungente, puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde? E che d'altre,
e d'altre pruove infinite, che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi
volumi, non che piccoli diſcorſi di ragionamenti? Sarà dunque da con. chiudere,
che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del
mondo ci adoperiamo, pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce
comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge, c riſolve, e diſtinta mente
elaminandone le parti, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita, e le
operazioni, e'l convenevol modo di farlo, certamente chiunque ciò follemente
intende Ne l'onde folca, é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova
il Cardano,che col lim. bicco, e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai
non poterono, o Ariſtotele, o Galieno; e ciò fu, che nó fappiendo coſtoro la
cagione, perchè cotanto noccia il vi no,maſſimamente generoſo, e pretto a
colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè
a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico (sõ ſue parole) nõ
cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus
id eveniat: neq;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo
tamen non convel tuntur. Caufsa ergo eft aqua ardens, quæ in illo continetur:
que quum latuerit Ariftotelem; & Galenum, meritò in Aris fotele
admirationis cauffam præbuit, in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem
abundantior, quo vinum craf Ttt. 2 pius eft.. 116 Ragionamento Settimo 1: 1 2
fius eſt. Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della
chimica, aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino
ſcorta, e avviſata: im perocchè oltre allo ſpirito ardente, che giova anzi che
no al mal caduco, evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte
nervoſe, del qual aſſai più, che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo abbondevole,
e copioſo. Ma intorno alle fattezze, così dentro, come fuori delle coſe,
giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici, non comporta al
preſente la ſtrettezza del tempo, ch’lo tanto quanto ne ragioni;le quali per
non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo, e da altrichimici au tori,
comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de ſcritte nella ſua
Pitognomica il noſtro curiofiffino, emol to de’ſegreti della natura intédente
Gio: Battiſta dalla por, ta. Maniuno certamente ha, che con maggior diligenzas
per quel che me ne paja, e più felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e
del Quercetano) quáto Federigo Elvezio, E coinechè noi fin qui de'ſemplici
medicaméti detto ab kiamo, non però di meno è da credere la Chimica a'com
poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare. Furon que fi ingegnoſi trovati del
mondo già adulto; imperciocchè negliannidell'oro, e nella felice etade, quando
i pomi, e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto: nelle ſemplici piante la
germogliante medicina ſolamentes confifteva; e allora non men che le ſchiette
vivande, i me dicamenti ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi
oltremodo col tempo, e comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche
parte inutile per avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir
l'une dall'altre per lor biſogne avvedutamente propoſe ro; quindi tra perchè
non ſi fapeva, o non ſi potea purlaw parte nociva, è inutile dalla buona
ſeparare, e anche per chè così diviſe, debile molto, e sforzata la parte
medicinal He rimaneva, qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giun Del
Sig.Lionardodi Capoa. 517 1 giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i
difetti del la prima, é a far sì, che quella nulla, o poco nocer potef fe; anzi
ſe pur Pabbiſognaſſe, quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle.
Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme, e meſcolarſi i
medica menti; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la
biſogna, ſe già tanti, e tanti indiſcreti, e ſmo dati medicinon aveſſer quindi
preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota,
con ac cozzare inſieme; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina,
o più malagevole, o di maggiorpregio al mondo; e componendo inſieme una lunga
ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo, e
inviluppatiſſimo guazzabuglio. Cofa, la quale ſommoſſe i più faggi, e avveduti
medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come d'Erafiftrato
narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και
περιεργίας με μεζλικα, και βοτανικα, και θηeμακα, και τα από γής, και θαλάθης
εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy, og díxua, και εν
ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε. ΜαEragrafo biamo ol tremodo l'indiſcrezione, e la
curiofità di coloro, che i minera Li infieme, e le piante, e gli animali, e ciò
che mena laterra, o naſce in marein unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb
ber fatto, fe daparte laſciate cotantecoje folamente co’farri, colle zucche, e
coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé
parlante Plinio.fraudes ho minum,&ingeniorum capture officinas invenere
ifas, in quibus ſua' cuique homini venalis promittitur vita. E chi non
maraviglierebbeſi di tante, e tante coſe, ch'a com por la Triaca, o'l
Mitridate, concorrer debbono, dan ftancare i ſpeziali,non che a
raccorle,maſolamente in leg. gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove il
medeſimo Pli nio, vocatur excogitara compofitio luxuriæ; fit ex rebus ex ternis,
quum tot remedia dederit natura, quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum
antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur, interin nullo pondere
equali, & qua. rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata. Que Deo 518
Ragionamento Settimo Deorumperfidiam iftammonftrante? hominum enim fubtilin tas
tanta effe non potuit. E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera
buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i
primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima, e nel lavorargli non
con avveduto, e ſano giudicio certamente adoperarono, ma a riſchio, e a caſo
alcune di quelle coſe togliendo (che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro
niuno, c viſi potreb. bono anche dell'altre, e forſe con maggior ſenno, più ef
ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero,e nels la quantità di
ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero, non guardando minutamente comeſi
richiedeva, al valor di quelle, ne punto efaminandole. Impreſa per molti ca pi
malagevol troppo, e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi,nel
diſporſi, e nel formentarſi inſieme i sé plici,varj, ediverſi mutamenti ſovence
avvenir ne foglio 110; iqualicertamente non è da dire, ch'aveſſer mai que primi
ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di
Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa meſcolanza
di altri metalli alla vçntura formofli, così nõ meno il caſo an cora ha
parimente portato, ch'il Mitridate, la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante
compoſizione, giovevoli, ed effica ci rimedi per molte, e graviſſime malattie
fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia, manifeſta coſa è poterſi
molto be De l'antico ufo rinovando, colle ſole piante medicare; la qual forte
di medicina, dirò con Adriano Turnebo,huom di varia, ed eſquiſita letteratura:
fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft,quam illa confuforum miſcellanea
compo fitis; magno mortalium, & difpendio, & damnointroducta. £ noi per
tacer de' bruti animali, che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur
fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil Caritrero,
famo filimo medico Tedeſco, con ufar medicando le ſemplici piante, non
ordinaria lodå guadagnoſli; e i popoli inge gnofillimi del Braſile,iſicome
riferilce Guglielmo Pifone, medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis
fimplicibus utuntur, noftraque derident, quia compofira; e degli abitacori del
Mellico, Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj, così dice: los Indios fon
grandesberbo-, larios, ycuran fempre con ellas, demanera, che cafi non hay
enfermedad para la qual no ſepan remedio, y le den:ya eſtacaufa viven muyfanos,
y cafi per maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma: ed
in quel va ito, e quaſi immenſo tratto dipaefe della China, comete ſtimonia il
Padre Matteo Riccio, fi è medicato permolti, e molti ſecoli, e ſi medica
tuttavia, ed aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe. E certamente come la
natura delle ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta, Nam
varieres Vt noceant homini credas, memor illius eſcę, Que fimplex vlim tibi
federit; at fimulaffis Miſcueris elixa, fimulconchylia turdis; Dulciafe in
bilem vertent,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita: vides ut pallidus omni
Cæna deſurgat dubia? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque
pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti, e
non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede; perchè Plinio: non fecit,
diffe, ceraia, malagmata, emplaftra, collyria, antidotaparens illa, ac di vina
rerum artifex: officinarum hæc, imo veriusavaritia commenta funt. Pure, poichè
la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo
avā zata, che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti
rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare: convenevol
cofa egli certamente, anzi neceffaria mi pare, dovere il medico degli unis e
degli altri piena, e ficura contezza avere; e oltre a ciò nelle ma niere del
lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato. E certamente, o
quanto farebbe egliil migliore, ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa, po
• neſſe in opera, e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del
danajo, e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata: 520 Ragionamento Settimo
1 1 ratamente abborracciaffero; o almeno lavoraffcro imedici qualche
medicamento dimaggior conſiderazione, laſcian-, do ſolamente in man degli
ſpeziali i più volgari, e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di
Galieno ) Archigene, Andromaco, Apollonio, Critone, Pacchio,e altri famoſiffimi
medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole, e
aobil meſtiere; an, zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede
fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi, come e'medeſimo
ne fa teſtimonianza, e molto addie-: tro ancora, il meſtier delmedico da quello
dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid
cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre
imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole,medie cine ſolebat:ene'répia noi più
vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati
molto ſi foffero, e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro:
come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente
ſi può cópren dere; a cui Bruno dicea: e ſappiate, che quelle camere ſono
nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra, quando voi
fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato
pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin
mamente coloro, che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano. Ne
dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice
Primeroſio, remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis;
præftantior igitur medico erit remediorum natura: quare ea præparare,
&componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero
egli è queſo un meſtier sì nobile, e lodevole, che non che i filoſofi di mag
gior lieva, e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero, e l'a veſſero in
diſpregio, anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a
conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee DelSig.
Lionardo di Capoa ser deeimedicamenti,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento
degli huomini l'adoperarviſi; come potrà giammai, quan tunque faggio, e
avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza
avere in prima bene, uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere, e gli artifi
cj, co’quali ſi compongono? iinperciocchè l'efficacia, e'l valor di quelli dal
niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente
diviſar de'ſempli ci, de'inodi, co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e
tramcſtare? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che
chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba
alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato, ebazzi cato
con gli ſpeziali nelle botteghe loro; & quidem exifti mo, dice anche Pier
Caſtelli, oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum: alioquin
fore, utfere fem. per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari
tornando, onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica, quanto
al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe; poichè ſi
ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico
non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re, come potrà inai
quando meſtier glie ne ficcia, o colle fue propic manicomporle, o adoperarle, o
conoſcere al meno, c riparare aldanno, che quelle aveſſero per avven tura
cagionato; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero, raffermare i loro
sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà, che ſi convegna per lo
miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico,
ſe non ſe intendentistimo della natura, e delle propietà delle parti,
chic’lcompongono, e degli effetti ancora, e del mo do del loro operare? E come
potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una, o d'altra malattia; e
divi. farle ſtagioni, e itempi, in che fan da dire, c alle conj:
pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli? o comcpotrà mai
loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità: 0 temendo di
qualche riſchio rin Vuu tuiz 522 Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la
troppa violenza, o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di
preſente ſoccor rere; o toglier lenoje, ei fastidi, che ſovente ingenerar ſo
gliono? Non è certamente cosìagevole, ſecondo i ſenti menti del medeſimo
Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui, cui conoſciuta in priina, e
manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli
effetti n ' avvengono. Or che di grazia avrebbe detto Galieno, re: qualche
contezza pur delle chimiche medicine, comechè leggeriffima, gli foſſe all'orecchio
pervenuta? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere, e malagevoli del
loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio, cavvedia mento maggiore; e
non che piane,e facili, e ſenza trop po riguardo giudicate l'avrebbe, ma
pericoloſiſſime a ſpe rimentare, e da troppo più, ch'a popolar medico non lico
viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla ſola doctrina
del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a coſto della vita
dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la
grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im, perciocchè ne
dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci,
che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero, comprender mai
potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti; ne dalle rego le, che già
coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle
le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal medicina, nc anche
avviſar fi poſſono: perciocchè, ficome è detto, in quelli ancora il chiariſſimo
lume della Chimica ne fa meſtieri.Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di
Damaſco, Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga
lieno, maſſimamente intorno alle purgagioni eſercitato, n' avrebbe mai
conſigliato, cſfer ſempre da leggere, e ſtudiar ne’libri de'fapienti (cosìchiama
egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto
baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci apparare:netanti, etā ti
valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo
di Capoa. 523 qual legge ſeguito c, con molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc
de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono. E licomc ad huom poco giova l'eſſere
nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére eſercitato, ſe poi ad abbatter Roc
che, e Caſtella,e ſorprender Città:dimine, d'archibugj, di bombe, d'artiglierie,
e d'altri nuovi, emoderni ſtru menti, ed ordigrida guerra dalui per addietro nô
mai più veduti, o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da
nuovo maeſtro, e intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e
come,e quando, o per offefa, periſcherno da adoperar ſiano: così nulla ancora
a'medici approda il ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’: antica, e
volgare fcuola diGalieno apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar
ſaggiamente intendono; ma egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da
Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé
comporgli pienamente abbia apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte, e
ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa çotanto matta, e malagevole arriſchiare, certo
mala pruo va vi farà il ſuo orgoglio; e rimettendo il medicamento al Izventura,
e alla cieca andando, a manifeſto, e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc,
e'l falvamento dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà. Così quella famoſa
ſci mitarra diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota, la cúi memoria ancor
teme, e trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi, che in man di Macometto Re
de’Turchi le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe: ita plerique medicine,
dice a noltro concio Teodoro Chercringio, chymice præſertim, aut mortue,aut
(quod deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti
Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare. Così anche dopo
l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo
cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano, lo
dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno delle femmine, e
de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè, comechèdirifi ancor degna ia,la Vull
liioc 524 -Ragionamento Settimo ſciòcca tracotanza dicoſtoro ', quanto in
malamente uſan do le chimiche medicine, quantunquc ſicure, e piacevoli quelle
ſieno, pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il dotto Galieniſta per
altro, e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del vitriolo un
cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel fuo maeſtro
Galieno la natura, e l'uſo di cotal medicamento apparato; che ſe egli dal
Severino, dal Penoto, dal Dor neo, o da altro profeffor della Chimica
medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe, e pienamente conoſciuto
come, o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia, certame tc eglicotanto
misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe, che nel medeſimo fallo appunto
dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha guari un credu to, e
molto ſtimato Galienifta, il qual collo ſpirito fimi gliantemente del vitriolo
un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto di
freddi, e aceto ſi liquori, fi era riſerrato il perto, infelicemente ſtrago
Jandolo licciſe? E piaceſſe pure al Cielo, che per l'abuſo di sì fatto mc
dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte, e molte perſone
morire. Egli è coſa troppo mani fefta, ſe pur merita fede la ſtoria rapportata
dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo dello ſpirito del
vitriolo l'interiora tutto guaſtc, e roſe ritrovaronfi. Ne giova punto a
cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo con ritegno, e
riguardo, e ſcarſamente uſar lo, teinperandolo anche talvolta con acqua, o
altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più, e più volte co minciapianamente
ad operare, ea poco a poco rodendo, infin le tuniche del ventricolo,
ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora. Così talvolta al continuo
ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et leviter
quamvis quod crebro tunditur ietu, Vincitur in longo ſpacio tandem, atque
labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia cevole ſi
ſperimenta, che ben felicemente a'fanciulli anco:. ra da Del Sig.LionardodiCapoa
525 1 ra dacolui, che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli.? E ſe'l
vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in
medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato,ben da colui ancora il ſuo ſpirito
vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem
angularem in officinis pharmacopoeorum; avve gnachè cotefto ſpirito, che
comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa, non fia
veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più
groffo, e di minor virtù, e giovamento di fuello.: ! is Ma per ritornare a'
grofliffimi errori, ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè
faggj, e av veduti, talvolta ſmucciare, egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto
fcioccamente, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di
Galieno, Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando
la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta, e cotanto nella lottrina del
fuo maeſtro eſercitato, Aleſſandro Maffaria? vvegnachè più toſto da pianger
fiat, che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti, e
funeſti, che ne fuguono. Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne
cosìinfelicemente favellato, venendone all' lifo del darlo, e diviſando in che
quantità da dar fia,in und fua cotal ſciocca ricetta,cosi ragiona: Recipe
antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne potrebbe
ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori, o del gruogo, o del vetro, o
d'altre, e d'altre molte medicine, che foglion farſi dell'antiinonio, abbia
intender voluto? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar
dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar
dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più.
Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del
fale del vitriolo vomitivo, cheda piacevoliſſimo chequel, loè, facendolo
fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato, ed al vetro
dell'antimonio, lo riftrigne, eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo. ſparmia a
nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella
digrano. Ecco d'altra parte il più illuſtre, e famoſo medico de'ſuoi tempi
Guglielmo Rondelezji doftar forte, e temere, non la raſchiatura del dente del
Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo
certamente egli involto non fareb be, ſe nella maniera del filoſofar de chimici
in medicina baftevolmente avanzato fi foffe; concioffiecoſachè cota li rimedi
per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo; il qualpenetrando, e
trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene, e nella punta s'accoglie,
eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così
aper ta, come occulta,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora
la inateria tutta inſaccata. E ſe cotal via di filoſofare quell'altro
famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe,certamente, che ne anche eglicosì
ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma
latiil.corno del cervio. Ma come, o in qual guiſa a sì no bilmente
filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi
i tondi, c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane, e più manifeſte di
quellow, anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco
affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive? Egli non può narrarſi certamente
ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato
Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica
va lo ſcoppio, c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire: e
ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti, che il Macſtro Simon fi faceſſe,
quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari
ini corſo andava. Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro, cujus fi granum
unum, aut duo carbone defuper lentè ac cendas, bombardam minorem fonitu
aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia;&contradicendi
ftu dium; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat, ctſi oma ninò effectus
evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſ; fam Del Sig.Lionardo di Capoa. 527
fam refert: dignum certè hac patella operculum, & hoc philos fopho
hæcphilofophia., Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente
neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti,
e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi, e che per opera
diquella, e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono; e maggiormente in
quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto,
così pericoloſi ſono,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie
maniere del loro opera re. E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non
iſcorti alla lingua, e alle nare, e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi,
che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente
comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli,
alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me
dicamenti, detti ſpecifici, i quali convien fenza fallo, ch'a chiuſi occhi, e
ſcioccamente lavori, e maneggi chiunque del meſtiere, c del modo del filoſofar
de Chimici non è bé dottrinato, e intendente affui; perciocchè sì fatte
ricettev: nella pratica della medicina, così brevis ce ſecche, ecalor confule,
e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano, che per im broccarnela quantità, o'l tempo,
o la maniera d'uſarle, o le malattie, nelle quali da adoperar ſono, malagevole
cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente,
e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc, e ſervirſenic calora, dove lor faccia
meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben
penetra ti; e per quel che permeſſo ad huom ſia, con aver le loro qualità
baſtevolmente compreſc. Cofa, la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i
danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono, pur troppo è a ciaſcun
manife fta. Ne è già punto maraviglia, ſe gli arditi, e poco avve duti
Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno: ſe come
è detto, anche nell'adoperare i. Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando
per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo; e in quelli maſſimamente, a’qua 528
Ragionamento Settimo < aquali dan nomedi virtù occulta, cioè a dire di
ragion no conoſciuta, e non punto da lor compreſa, credendo così la lor
groffezza, e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i chimici
medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi puote nella contezza
demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura dc'mali, e le cagioni,
onde avvengono, ſicome con avveduto, e probabile divi famento fortilmente
ragionar ne ſanno, così con loro no bili, ed efficaci argomenti digran
vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano, degni d'immortal gloria,
ed'eter na fama ſirendono..., mily Magià baſtevolmente dimoſtrato quáto a
color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica: a divilar de'
chimici medicamenti, e quanto ſovente ne lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma
comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e ne renda
maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo, pur dubito, non alcuni dannā- )
do,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano. Dunque
dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere mancava? e
non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il vuo tar di
quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per, ogni menomacagion le
vene; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti, e altriricroyati di
barbare, e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e a toglier alle
parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento, e la virtù di ravvivarlo, e
di riſtorarlo alle liquide: uſar le ſcamonces, gli elaterj, le colloquintide,
ilatirj, i pepli, gli Elleborin, iTurbitti, iMezerj, le ſquame del raine, le
pietre lazule, e tante, e tant'altre forţi di nocevolislimi veleoi più ches, di
riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina, ſe non vi congiuravano
ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati, i mercurj divita, 0
Alcarotti, come altri gli chiama, i verri, i fiori, e altri cento violentiffimi
vomi tivi tratti dell'antimonio,del vitriolo, del mercurio, o d'al tro
qualunque più peſtilenzioſo minerale? Deh piaceſſo pure al grande Iddio, che, o
non mai uel mondo foſſeliin he trodora (DelSig.Lionardo di Capoa. 529 trodotta
la medicina; o almen, che non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte
accoppiata, e delle nuove, e ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente
accreſciuta: che mé malcerto ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di
quel, che tutto dì oggi per mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or
s'accreſcano pure a ſtruggimento, e ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi
ſtrumenti di mora te; e gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino, e ſudina
a gara per imprédere un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno
a'ſuoimedeſimi artefici ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli
no debban ſovente correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor
gio vane il Tedeſco Teofraſto, non già da’maligni Galieniſtip invidia
atroflicato, ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer
dell'Elmonte,buo giudice in sì fata te coſe,da’medeſimi minerali; che
continuamente e' manego giava; dal cui nocevole, e peſtilezioſo fummo l'Elmon
te medeſimo confeſla ſe eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita
condotto. Così anche a ' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella
ſtrada delle Campane dagli ſpiriti del nitro, e del vitriolo, e da altri
minerali do po continuo tremore, ch'e' n'apprefe, e dopo lunghe, e gravi
malattie miſerabilmente alla fine morirſi. Orqual danno dovrà egli intervenirne
a colui, che quaſi cibi inno centivolentier gliſi tracanna, fe cotanto nocevole,
e dan noſo è l'avergli ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la
Chimica di ſapere oltremodo i medicamenti delle parti inutili, e nocevoli
ſpogliare, e di rendergli benigni aſſai, ed efficaci; ma per tacere, che alcuni
di quelli (e'l confeflano comechè mal volétieri i loro artefici medeſimi)
deboli, e ſpotſati, e di niun momento dal ſuo maneggiar diventano, parecchi, e
parecchj (coſa la quale certamé te è peggio aſſai, e dura oltremodo a ſofferire
) di mezza Haméte nocevoli, che in prima erano, o pur tali ſi dimoſtra vano,
rendegli la chimica col preparargli non altrimenti, che imedeſimipiù fieri
toſſichi, crudeliffimi, e micidiali. Dica pur queſta nobiliflima Città: quanti,
e quanti nel 1 Xxx ten 530 Ragionamento Settimo tempo della paſſata peſtilenza
con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo
ariento vivo precipitato, ch'angelica polvere allora chiamavano, pro poſto
allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co
pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura
dubitonne alcuno, ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet
medicamento, o per la medeſima peſtilenza mancaliero. Edo quanti, e quanti alla
giornata veggonfi privi di vi ta, o cagionevoli reſi della perſona per opera di
chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i
quali dalla noſtra natura affatto rimosſi,altro mai, che dolori, noje, malattie,
e morti recarnon poſſono. Odafi per Dio ciò, che di coteſti Chimici, e della
loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto, l'eloquentisſimo Cortino, il ſot
tilisſimo Riolano il padre, e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come
con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi, e mandi giù l'acutisſimo
peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio; e ſopratutto ſi riguardi
a ciò, che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti
tutt'or querelando ſi dica, e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi
ſcagliano. Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole, c dannoſo me
ftiere, e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli
ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel
vero, e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo
dell'Alcarot to vietarono; e ſe ſono, e con ogniragione, da' noſtri fta tuti
proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili, e d'altre ſomiglianti
arme,come nocevoli algenere umano, quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore,
e della perſona pur buone fiano; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie
re, emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante, allor
più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano. Sono o Signori, sì fatte
querele, e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la
Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente
adoperari; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e
troppo cre dula gēte, fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri
ammazzar fogliano, e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole,
da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa
lamente volmente gli biaſima; e con torti, evani giudizj ſovra i chimici, i
misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E
parla più di quel, che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a
tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te
degl'infermi: non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo
dilui, o no v'era, o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de
Greci,colla medicina la Chimica. Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar
la violenza del inale, ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della
noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina
tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè
dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano,
ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi
riverſa; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò, che per argomento
umano imposſibile ad operare. Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici
da prudente huomo, e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati
masſimamente da altri medici per malavoglienza, o per nimiſtà, ficome di ſopra
baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo
vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri,ut alius in alium
culpam refe rat. Ne già è mio intendimento, che di cocal quereia al cun
de'noltri medici al preſente fi punga, come a ſe pro piamente inveſtita;
perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni
medici; cben ſo, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene, c onorati
affai, e di qualunque gran loda dignisſimi: avregnachè Xxx 02 532 Ragionamento
Settimo 1 1 1 1 1 talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL.
già per altio, e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli. Pur
male a noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce, non ſo donde, o falſa,
o vera, ch' ella fiali, che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to,
che agevoliſſimamente dalla bafla plebe, e dalle troppo credulaperſone vi ſi
preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna
paſſata ſia, anzi tal volta ſenza ſaper come, o quando, c da chi cominciata ſia,
volentier la s'inghiottono: & fepè etiam quod falſo creditu eft, veri vicem
obtinuit. Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico, che
non che viſitato giammai l'aveſſe; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe
dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura
ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar
ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori,
e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che
da’Chimici; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non
alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel
contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione, folamente i chimici medi
camenti s'infamano; maſtimamente per coloro, i quali nul la fappiendone, come
di nuove, e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono; follemento mai
ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito:fuper
omnibus negotiis melius,atq;rectius olim provisü:et quæ cuvertuntur in deterius
mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera
de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc
ca plebe, intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più
volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi; che pur diquelli il vulgo
ignorante teme; dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti
Galieniſtichimiche medicine, comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ',
tantoſto alla cieca, e ſenza tema alcuna le fi tracannano, volendo
pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi me DelSig. Lionardo di
Capoa 533 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti,
cui ne men per nomequelli conoſciutiſono: non che ne ſapeſſer mai le qualità, e
glieffetti, che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono. Non niego però, che
tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti, eglino medeſimi
talvolta la ſi procaccino, quando o per ſoverchio dicompasſione, che han
de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati
da'Galieniſti, ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion
quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le
ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando
forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia
attutare, con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè
Principiisobſta: ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras.
Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio, e alla cieca gli
ammalati, malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il
Chimico,e i fuoi rimedi bia fimati. E a tal fegno pure giugner veggiamo la
iniquitoſa malizia d'alcun medico, che di quel medeſimo infermo, cl egli
ſpacciato in prima, e già laſciato aveva, attribuiſce poi difpertoſamente
altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così
non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc, che colgruogo di Marte un co
tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio, e corrorto, e com'egli
medefimo narra, già moribon do, e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio,che non
foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei, che già
reputādofia vergogna il falvaméto,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir
puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna
briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti
dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte
delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di
quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano: Ha 534 Ragionamento Settimo
Ha buon ز occhio, buon vifo; buon parlare, Bella lingua, buon / puto, e buon
toffire; Queſti fon ſegni, che non vuol morire; Maimedici lo voglion
'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore, S'egli ufciffe lor vivodalle
mani, Avendo detto, egli è Spacciato, e more. Ma come teftè ragionavamo con la
lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna ſperanza, danno agio i Chi
mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e cadono tal volta dal buo
nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover
por mano agli infermi difperati; e quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne
conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di malagevoli, sfidate
malattie, ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di cattivi medici; e anche
avviſa Cello, prudentis hominis eft, eum, qui fervari nonpoteſt, non attingere:
nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi, quem forsipfius peremit. E a ciò an
che riguardado Galieno parimente ne conſiglia a dover la fciare alſolo
predicimento cotali infermi, ſenza dar loro niuna ſorte dimedicaméto, per no
logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea torto preſſo il vulgo, õde poi
ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati di minor riſchio giove voli ſono.
E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet ti: prudentis medici, dice, ef,inſanabiles,
&defperatos mor bos nun curare;ne hominem occidiſſe, quifua forte interitu
rus erat, exiſtimetur. E che direm noi di que'chimici medicamenti, che talor de
perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica, ne dimedicina ne ſan
boccata? Enel vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente, anzi
abborrare i rimedjchimici, cheda'Ciurmadori, e da Cerretani, edas viliflime
femminelle uſar pubblicamente ſi veggono, e ven dong a macco in ſu le panche, e
per le fiere abbondanteme te li ſpacciano, e ben ſovente fi comprano anche
dagli ſpe ziali, e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da
Galieniſti medeſimi calor s'imprendono, e teme ruri. 1. DelSig. Lionardo di
Capoa. 535 rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare, e lavorare
alla cieca. Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non audet,nifi
quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia fabri. E
s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a maneggiar
biſogne di cotanta conſiderazio ne, e di cotanto riſchio: certamente ſe ad
infelice fine poi rieſcono, e veggonfiatcriſtar le caſe, e le famiglie, non gli
innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono, ma color ſola doperano; non
altrimenti, che ſe ſpada, o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia, non n'è lo
ſtrumento da accagionas. re, ma la follia ſolamente dello ſcherano. Ne ſan
coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare, e ſpezialmente con argomenti
chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa
luogo; che le malamente s'adoperano, maſſimamente le purganti medicine, ove il
medico non abbia in dandole riguardo al tempo, lità del male, all'età dello
infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal
ne capiterà: Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto
tempore vina nocent; Quin etiam accendas vitia, irriseſque vetando,
Temporibusfinon aggrediareſuis. E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne
veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in
corpo per traſeutaggine, e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante
volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne, le
roſe, le caſ. fie, e anche l'aloé, di cui non ſi trova al comun parere mę.
dicamento più innocente, e benigno? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire
ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento,
e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne,
qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte, ſe coluimalamé te adoperandola
l'ammalato n'uccideffc? Certamente niu. najper. alla qua: 536 Ragionamento
Settimo 1 na;perciocchè come Ippocrate medeſimo, e Galieno di viſano, anche le
lor purgative medicine allora ſon peſtilen zioſe, e da non uſarſi; perchè a'
mali precipitoſi,e ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la
medicina più ſicuro conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio, e
tenere a bada la foga del male, ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente
opporre có purgative me dicine, masſimamente gagliarde; che alla zuffa,che in
un medeſimo tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato
farebbono, certamente egli n'andrebbe cof peggio:neq;ulla alia fpes,diffe
avveducillimaméte Cello, ir malis magnis eft,quã utimpetum morbi trahendo
aliquis effum giat, porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet:così
parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte
credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici
addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına che non of fendono
punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare
darvi compenſo, ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il
ſoccorſo, che non è dalla natura forſe per venir giammai. Ma ciò da parte
laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han
malmenato, e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio,e altri luoghi vicini,
effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a
grā ventura recaronſi poique' poveri infermi, che non ebber agio di comperarſi
la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente
della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi. E per cacer d'altri, il
me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della
giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo, e
di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi, e non debitamente maturati, certamé
te il medico ne farebbe da biaſimare, non l'arte, ſe contro i giuftiffimi
divieti d'Ippocrate, e di Galieno s'inframmet. teſſe di purgare ammalato, in
cui fian crudi gli umori ſex 2:2 en Del Sig.Lionardo di Capoa. 537 za
enfiamento alcuno: in morbis quoquenihil eft magis peri culofum, quam immatura
medicina,comechè non medican-. te, avviso Seneca; perchè ſeguendo i ſentimenti
de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna,
e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli
ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a conoſcere il danno, che
dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo, e
di maggior riſchio fiè il male; concior fiecofachè nelle lievi malattie, che
molto non piggiorano dal ſuo naturale ſtato l'inferino, poco nocimento ricever,
certo egli ne foglia; perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e
Galieno diviſano, o pursì poco cagionevol della perſona coluinerimane, che
nulla il medico quan tunque accorto, ed eſercitato Gali, comprender mai ne
puote. A torto anche vien biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i
minerali; e ben detto è a baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto
ricca, e abbondevole di ine dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe
mai,o l'Ar denna, o s'altra al mondo è più vaſta, e più folta ſelva,tã ti
alberi, tante belve, quanto ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi
medicaméti accóce;e prédöli a loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra,madagli
animali anco ra, e dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano; perchè
troppo ſcarſa, e mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza;
perciocchè quanto cuopre il Cies: lo, abbraccia l'aerc, nutrica la terra,
e'lmarchiude, tutto alla Chimica giuridizion ſoggiace: e'l meno di che ella
s'inframmette ſono i minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua
balia i falnitriji ſalicomunisi vitrioli, i fer ri, i rami, e gli argenti, c
gli ori, e le gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini
Chimici, o icat tivi, non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra,
c tronchi, e frondi, e ſughi di cento, e mille infra lo ro diverſiffime piante,
e anche tutte parti ſalde, e diſcor renti di tanti, e sì varj animali,di cui la
Chimica i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie, e
tante guife ordina, e lavora.: Ne perchè la chimica medicina ne' minerali
talora s'a doperi,e s'affarichi, è per huom da tacciarne: anzi fom mamente da
efferne commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali
altrimenti, comealcun di loro follemente ſognoſli, veleni, e toſſichi:anzi non
poco in vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a
tutti buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è, anche antichi, che liberamente,
e fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera, e così fchietti, comecon altre coſe
meſcolati l'uſavano; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar
potrei: maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della
ſquama del rame fovente fi ſerviſle; e Dioſcoride no conſiglia, e conforta a
dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il
mercurio: e ancora a' dì noftri nella colica, e ne'vermi, e in altri
ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime,
ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno;e ſe fra’minerali v'han di que', che velenofi
fo no, ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili. Maſe
egli avvien mai pure, che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano
fpoffati, e debili, egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma
de’poco av veduti artefici, e de’medici, i quali intendenti non ſono delle
chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun
preparamento fiano da porre in ope ra, e quali gli richicggano. E ſe divantaggio
i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi
antidoti, ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun di loro fuor
d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere, e frane. E ſe'l precipitato, e'l
ſolimato, che potentiſſimi veleni ſono, cavanfi dalmercurio, e da altri
minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare, ne i chimici medeſimi, che gli
compongono; concioffiecofachè anche l'oppio, e altres molte comunali medicine,
avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera,
pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor
fabbricatori ſe n'acca gionino: e ne balti ſolo al preſente fapere, che ciò non,
lia ſpezial biaſimo della Chimica; e ſe da quella i pre cipitati, ci ſolimati
fabbricaronſi al mondo, no fu già,per chè s'aveſſer quelli ad operar mai ad uſo
alcuno dimedici na, ma per altre, e altre biſogne; ne perſona ſe non priva
affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò;perchè ſe quel
temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli giammai
ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato, il qual da
tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo veleno;e
ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti à nobis
omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe
Empiricorii fecreta, quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant.
Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra: nci, e rimoſi, dovrà ciò
darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo, dovrebbervi eſſer a
parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila
pietra lazula,e l'oro, el’ematite, ci giacimi, e'l bolarmcnico, e le pietre giudaichc,
c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano. Ma lo per non darmene
troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā.chio là dove d'un
cotal balordo, che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli al ſuo
Oiſtio ſcrive: oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata, ideo quia
non iis alamurfed; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque pleraque.
Quænos alunt impura ſuntimnia, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt,fed quotidie
agunt in balſamum na turæ, cum corrumpendo in fenium; labefactatis viribus
noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus; fed fixio illa in fixa;
mineralia figuntſpiritus, purificant, & exaltant. E prima di lui Avdrea
de'Mattioli, così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe: ibi tum alibi, tã in
chronicis morbis eſt ani: madvertendum, ubi tota malafanguinea in univerſo vena
rum ambitu corrupta eft, & referta multorum morborum fe Yуу 2 mina 540
Ragionamento Settimo minariis, tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix
pollunt; avvegnachè egli poi faggiamente ne configli a non dovere i Chimici
medicamenti adoperare colui che di chi mica pienamente non ſi conoſca; il che
noi baſtantemente altrove dicemmo. At qui, dice egli, ejufmodi morbos ci tra
ſcientiam res metallicas tractandi aggrediuntur, ii ple rumque re infecta
cummagno dedecore, & fui, &artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto
baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido:
Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet
sti metallicis. Et fanè certum eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas
ſuastegunt, metallicis fæpè, &malè præparatis, & malèadhibitis uti;
verum ut jamfupra dixi mus, eadem eft materia, & fubjeétum uperationis
Pharma copæi utriuſque tàm Chimici, quàm vulgaris; neque minus vegetabilibus
utitur Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne.
Nonne maximè probanda eft ars illa, qua fi quandoiis utitur, variè,
&eleganter pre parata,non integra exhibet? Ne meno è da dire, che perchè i
foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino tali i minerali;
percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l
vitriolo, elfal comune alla giornata ufarli, e'l fal comune maſſimamente in
tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente, come que d'altri,e
d'altri minerali, nocevolilfinni fono. Pure non è coſa cotanto utile, e gio
vevole al genere umano, che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft,
quod non læderepoffit idem. Igne quid utilius? fi quis tamen urere tecta
Cæperit, audaces inftruit igne manus. Eripit interdum, modo dat medicina
falutem. Le ragioni poi, e le teſtimonianze dell'Eraſto, del Riola no, e
d'altri sì fatti Galieniſti han canto dello ſceno,che da lor medeſime a
baſtanza ſi rifiutano; e comechè per mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi
queſti ftudiati dimor der la Chimica, e ſozzainente lacerarla, e quaſi metterla
1 in fon Del Sig.Lionardodi Capoa 541 1 in fondo; pure non han potuto far sì,
che ſtretti talvolta dalla propia coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis
no l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi
più ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio
di quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla;e la
ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano;
il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche
medicine,comeãcorfece l'Eraſto, ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine
ad infeli cc fine gli uſciſſero. Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga
lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della chimica nelle loro
dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto, e l'Arueto, e'l Baucinero
celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo,
e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia trionfante,di cuicon ) aringa di
lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit Libavius contra
fcholă Parifiensë,ut nihil amplius addi polje videatur; ma ſopra tutti imalzi,
e difende la chimica il ſottiliſſimo Borricchio, non men celebre, che dotto let
tor di quella, nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente
rimbeccale ciance del Corringio, che nulla più. Ma quanto poco ſenno aveſſer
facto i medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede
dalla poca ſtima in cui vennetenuto il loro divieto; poichè non men,che prima
in Melano, e altrove le genti tutte l'adope rarono; e oltre alla gloria molte
ricchezze guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale
altro * non è, che il mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il
nieghino gli eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio, che
alQuercetano, sì bene ſcorto nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea
fra le mani, non veniſſe fatto ciò ravviſare. Ed è egli pregiato l’Alca. rotto,
eziandio daʼmedici volgari, e Galieniſti, e per buo na, e giovevol medicina per
tutto ſtimato; ma pur ſi vuos le 112 342 Ragionamento Settimo le in ufarlo aver
riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati; ne fi dee prendere ſenza
conſiglio di medici faggi in chimica, e conoſciuti affai; perciocchè ſe da
perſone dappocomallavorato folle, o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo,
certamente nuocer potrebbe, e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre;
ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare, il qual per conſiglio
d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to ſoverchiamente,
con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente, certamente nemoriva. Ma di
ciò ſenza dubbio, non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la follia più coſto
del medico, cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell' ammalato, che alla
cieca, e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima. E ben ſarebbe il migliore, ſe
laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti medicamenti,non s'inframmettel
ſero púto di ciò, che non ſanno; e come cantò colui Velperfectèartem diſcant,
vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi
fit perfecta, eft plenapericli, Et fævit,tanquam occulta, aique domeſtica
peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte conteſe, trapaſſereino intanto a far
qualche parola dell'antimonio, come di quello, ch'al noftro parlamento diede in
prima cagione, L'ancimonio, che da alcunicertamente non fuor d'ogni ragione
chiamato viene colonna, e baſe della medicina,egli sébra nel vero una corale
ſtrana; e nuova ſorte di minerale di variege fra loro diverſe parti copoſta, e
si lazza,e acerba, che ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf
ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo meſcolanza, che in ſe ritiene, e per
l'inegual proporzione delle parti,che'l co pongono, non eſſendo potuto alla
debita maturità, e per fezion di inccallo pervenire, così trameltato, e inal
com poſto ſe ne giace. La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità
malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè
quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui notomia, in tante, e sì fatte
guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del
Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti, e
ſperien ze, ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono.
Ma perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano, due forri di
zolfo par che abbia nellº Antimonio: l’una fiffa, e pura oltremodo, in cui le
ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè
daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato
l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla
diverſa; perciocchè no filla, mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella
è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun
giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto, il qual
corto più, che ſe mercurio vivo non foſſe, della natura del piombo alquanto
ritiene;e as queſta parte, che certamente è la maggiore nell'ancimonio, alori
la violenza attribuiſcono, e'l poter, ch'egli ha nell'o perare; anche havvi
alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno
veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase
terre ftra, la qual della ſua matrice ſommamente participando, con quella
inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle
del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura
vitriolato, che pur ven’ha: a cuila malvagità tutta, e'l veleno altri aſſegnò,
che tanto all'uſo, e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non
inuove punto vomito, ne tanco, o quanto a colui, che'l prenda offender ſuole;
perchè ne Galieno medeſimo, ne Dioſcoride, ne altri buoni Autori de'ſecoli
addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine
l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia, e conforta a toglier via
la poſſanza vomitiva dell'Elacerio, con meſcolarvi deutro dell’Antimonio,e così
temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno,
che del me dicamento, ſe violento, e rigoglioſo il ſenciamo, che se vorrai
purgare, ſono le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio, meſcolavi
altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà
meſtieri,laſciandoall'altrui diſcrezione il divri Jarne la doſe: seisn &è
mois diam vooõoty aj di autoữ xabagors. ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν
καθαίρειν, διπλάσιον αλών, μίξας, και είμ plaws over gewoon e Il che
eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai, comechè leggiermente,
ſoſpettato, non forte velenoſo, enocevole l'antimonio. Nicolò Mirelio poi, it
qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri cette più nobili
de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera
l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto,ch'egli del Gengiovo chiana. E
Baſilio Valentini narra, ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci:
e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra abbiamo, che tutto dì oggi i
porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez
za oncia per volta prendendone; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a
prender l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola, ſenza
danno, o noci mento niuno, e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré; e nella
inedeſima noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con
grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia, e anche altrove,
l'Antimonio crudo, ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi
racconta, fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident,
emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au
poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle, &qu'on le
met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour
ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi, c da'legami,
chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle
dell'antimonio, o ſaligne, o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali, ch'elle
ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni, ei contefe intorno a ciò infra'Chimici
filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere quantenoje, e
ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano,con fondere, e diſtruggere, e liquefar
non ſolamente le parti umide, ma le falde anco ra del DelSig.Lionardo di Capoa.
545 ra del corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando
per baffo,finattanto,che colvigor talvol ta lo ſpirito, e la vita miſeramente
ne manchi. Ma tacer non fi dee, che ritrovali talora in qualche miniera, Anti
monio, cheſenza niuna preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare;
ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui, che'l prende, può eſſer coſa, che
ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera,
parimente può ciò fare; e quel'è la cagione, che ſpinge alcuni autori a fa
vellar così variamente della facoltà dell'antimonio crudo: Ma che che ſia di
ciò, ſe per opera, e argomento d'avve dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e
rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno neſia, certamente allora valevole e
Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni peſtilenzioſo ma lore, ove a tempo, e
acconciamente, e con riguardo per huom ſi dea; concioffiecofachè non ſolamente
egli ne pur ghi, cvuoti dentro, ma ſovente ancora diſſolva, e miglio ri, e
ſgomberi ciò che nel corpo di maligno, e cattivo così nelle falde, come nelle
diſcorrenti parti peravventura ritrova; il che certamente a niuna altra forte
di medicamé to, o purganre, o vomitivo, ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec
conftat, dice il Zuelfero, ex vegetabilibus unicũ emeticum, grad nainore cum
periculoexhiberi pifit, quàm aniimonium dextere, ac debitè præparatum; nunquam
enim tormina ventris, convulhones, hypercatharſin, fluxumque nimium
colliquativumcauffabit, etiam fi frigida ſuperbiba tur. E egli però quelta
malagevoliſſima impreſa,e difficil molto, p mio avviſo, anzi impoſſibile
affatto ad artificio umano; perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è
quella, che muovelo ſtomaco a recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente
quantunque volte vi rimane, non ſi può in modo alcuno accutare, che a qualche
perſona alla fine,o in qualche tempo non abbia gravemente a nuocere. Nej per
altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti
dell'antimonio purgante, o vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per lo
grare, e ftraboc chevol riſchio, che agevolmente vi ſi corre. E quel ſapie Z zz
tilfimo 544 Ragionamento Settimo tiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e nella
medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea dire:
Antimonium,quandiu vomitum, aut fedes movet, mercurius revivificaripoteft,
venena funt: non boni virirea media. Soglioſi dell'antimonio ſublimare i
fiori;e ſi fôde egli an che in vetro, e in regolo; e'l mercurio di vita, e'l
gruogo ancor ſe ne forma: purganti inſieme, e vomitive me dicine. E per
cominciar dal vetro, il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario
vetro differente; pure comunicar ſuole minutiſſime, e però inſenſibili, e
cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore, in cui per
qualche ſpazio di tempo ſia dimorato. Egli è il vetro dell'Antimonio commendato
aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio, Strolago infie
me, e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta; e dalGeri neri ſomigliantemente,
e dall'Andernachi, e dal Langio, e dal Mattioli è ſommamente lodato. Ma Pietro
Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica, e in medici na, forte il
biaſima, e danna; dicendo, che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato
ſia, non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi
ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri, ed altri famoſi medici, e chimici con
apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti. Vitrum antimonii, dice
Giuſeppe Quercetani, quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur,
perniciofum eft medicamentum; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri
tandoexpultricem, perſuperiora, einferiora magna cum perturbatione ducat,
evacuetque; quod ego probare nullo mom do poffum. Dal che moſſo Duncano Borrero
anch'egli ri fiutandolo, affatto dalla medicina il bandiſce, dicendo: Vitrum
hic antimonii fciens omitto, tanquam pernicioſum medicamentum; e'l dortisſimo
medico, e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice,
che comechè alcun guarito pur ne ſia, non eft tanti ifta for. tuita quorundam
fanitas, ut propterea, vel unius hominis vita exponendafit periculo. Vidienim
quum ager tantùm femiun. DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes
infafionis, eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes,fubito
efflare animă. Ata binc ille lachryma, hinc clamoresifti contra Chymicos inſur
gunt; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia
temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos; modo unus; alterve
fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės, emungantque
rufticis pecuniam. Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera, ecorrezione
del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza
riſchio alcuno in ado perarlı; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova
quella; che dal Ranzovio, e dal Mattioli, e da altri uſa vali, così verrà un
tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo, dannerà, e riproverà anche la
ſua. Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente
che dirmene; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio,
ove c'dice: quane do coctio inſtituitur, favellando del vetro dell'antimonio
col vino bollico, fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur;" E foglion
certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno
manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali
ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio, e non dall'arſenico, ficome il
Rolfincios avviſa. Ma che che di ciò ſia, in biſogna dicotanta confi derazione,
lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no, e
a ſeguire il conſiglio del Rolfincio, e a dubitare non forſe così foſſe, come
cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata, e da altri cotanto commendati,così
il teſtèmentovato Quercetano favella: Antimonii vitrum idem ferociterpræfat,quod
ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album, & arſenicalem ipfi infitum quě
nec à floribusego exulare exiſtimem; quippe quos adeo afro citer corpus
concutere, ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus, ut res non caréat
periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i
fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi. Z z z M2 Ragionamento
Settimo Mai Regolo anche dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno
ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av, vegnachè vi fallaſſero no poco in
giudicar, che quello altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è
da’buoni Chimici avviſato per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di
riſchio. E ciò anche a' Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto;
infra’quali il Priineroſio,così dan nandolo nefavella; omnem retinet antimonii
malignitatem, qua antea fub terreo excremento sopita latebat: edindi ap preſſo:
fed quum omnes pravas, e horrendas antimonii vi res adhuc posfideat, poculum
indè confeftum perniciofiffi mum effe neceffe eft; ideo puriores Chymici hoc ab
ufæ me dico amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando
del Regolo, così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona: Calix chymicus
toties in obſervationibus no Bris nominatus, communiterque adeo omnibus
confectus non eft, ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An
timonii vulgaris. Exregulo quidem eft:fed tertii gradus, qui longè differt
àvulgari; quamvis etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium. Ma il
gruogo de metalli, col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico
Martin Rollando, e in tanto ono re, e ricchezze formontare, è così chiamato dal
Querceta no, perchè ſecondochè egli ne dica, dell'antimonio tutti metalli
s'ingenerano, e fpezialmente l'oro, l'argento, e'l piombo: egli è comunalmente
da’buoni ſcrittori il mens violento, e men pericoloſo infra le vomitive
medicine an rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben? anche
tutta la parte velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata:la
qual certaméteè quella cheare. cer muove, ben li può di eſſo dire, che comechè
per ope ra d'eccellente, e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica
temperato fi foffe, pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi, ma non s'eftinfo
perchè ſoſpettar fempre dee l'accorto, e prudentemedia co, non ne ll'adoperarfi,alcun
ſiniſtro avvenimento ne ſe gua; perci occhè pure, comechè di rado fortir ne
fogliono, Ed 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 649 Ed havvi un'altra malagevolezza
nel gruogo, imposſibil quafi a ſuperare; perocchè quantunque con la medeſimas
proporzione del nitro, e dell'antiinonio diſpoſto fia, c quá ¢unque con tutte
le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta più;o men vigoroſo ſortir
ſuole, e sì da ſe mede fimo differente, che in dubbio ſempre, e in timore delle
ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto, e ſperimentato che l'Artefice fia,
potrà maicome, o perchè ciò avvegna baſtantemente comprendere; ſenzachè
cotalimedicamen ti recar fogliono talora uſcite copioſisſimedi ſangue, o la
egli, perchè fi rompa qualche apoſtema dentro dall'huo mo,e con quello alcun
vaſo grande ancora’del corpo: o che tra per la violenza del vomito, e quella
del medicamento alcun altro ſe n'apra, e ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora:
oche partendofi dalle viſcere, e dibucciandofi la mucilag gine, la quale infra
gli altri ſuoi ufi, a guiſa di veſte copré dole, difenderale dagli oltraggj
de’ſali acuti, e pugnerec cj, o d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte
rimanendo, dal medicamento s'offendano: e rodanſi anche dalla me deſima
violenza del medicaméto gli orli de’vaſi delſangue; i quali aperti,
eſquarciati, comechè picciolisſimi, pure così numeroſi quivi ſono che ſgorgar
oc può in ranta copia il fangue, quanto n'uſcirebbe per avventura dal rompime
to di qualche vaſo ben grande. E comechè di ciò n'abbia parecchi eſempli;
masſimamente nella noſtra Città; purs baſterammi al presēte rapportarquì una
ofſervazione dell' avvedutis ſimno Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa
role: Huc referamus hiſtoriam, quam mihi communicavit clarisfimus V varton,
mulieris cujuſdam, quæ à fumptu pharm macoafperiore in enormem fanguinis
vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft obitum vocatusaperuerat. Nulla com
paruit vena, fivèrupta, five exefa; cæterùm in cavitate ventriculi adhuc
nonnihil fanguinis reftitit; fiquidem multò maximam ejus partem ante obitum
rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis copia promanaret, dorfo.cultri
inte riorem tunicam, ut penitiusreminfpiceret deterfit: boc facto innumera
fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo
parebant; ipfa quoque funica quaficutis derafa: cuticules 1. E che diremo noi
de'copiofiffimi ſudorifreddi, e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per
opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia
man diaforeticizangofce,e noje, e ſvenimentirecar foglio no, e talora anche con
toglier agl'infermi miſerabilmente la vita; avvegnachè cotali effetti non dall'
antimonio fo. lamente, madalle manne ancora, e dalle roſe avvenir fo gliano, ed
eziandio da altremedicine, che per comun conſentimento più ſicure, e piacevoli,
e innocenti tenu te fono: memini non defuiffe, dice il Libavio, qui Caffia
fumpta omnia pateretur, que illi,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender
maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno, che è nell'antimonio, è anche nella
Callia, non che nella manna, e nelle roſe, e in altre ſomiglianti media cine;
perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora
gli effetti medeſimi dell' anti monio. Neq;enim,dice il medeſimoLibavio,in
favellando pur della Caſſià,parum acrem inde elicimus liquorem: tur batorem
nimirumillum alui. E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo
parto dell'Antimonio, non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il
Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio, non
dell'antimonio. Ma egli è ſenza dubbio men temperato, emen gaſtigato del gruogo;
e fe guentemente maggiorinoje, e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte
maligna, e velenofa, che in eſſo preva le; perchè men certamente agli
ammalatidar ſe ne vuole; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo
co tal vizio perarte.correggere, e ammendare, e più forfes chc da'volgari
maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato
ſia, temer fempre, e fofpettarne dobbiamo; ſenzachè il mercurio divita, come
Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi
ingannar ſuole, o nulla, o ſoverchiamente operando. M.2 Del Sig.Lionardo di
Capoa 151 Ma non perchè dannoſi talora, e pericoloſi ad uſare co tali
medicamenti ſiano, ſi vuol perciò dalla medicina l'uſo dell'antimonio affatto
sbandire; conciofliecoſachè ben an che fabbricar ſe ne potranno nobilisfini
rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini,
e alle donne groſſe, ficome agevolmente compren der ſi può dall'opere del
Valentini, delParacelfo, e dell? Elinonte. E comechè non ſia impreſa da tutti
il compor cotali poderoſi medicamenti, ma innocenti però, e piace. voli e di
qualunque veleno difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc
potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica,
que'po chi inedicamenti, che vanno attorno; come il belzoardico minerale,
l'antimonio diaforetico, e altre ſomigliantime dicine, nelle quali comechè
attutato affatto,e ſpento il ves Jen ſia, pur sifattamente ligato ſe ne giace,
Ch'a guiſa di leon quando fopofa: non ſogliono, anzi non poffono perpoter
ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime particelle offender giammai, ne ad
huomonocimento alcuno apportare; non altrimenti, che innocenti anche in alcuni
legni, e nellolio, e nella pietra focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi
giacciano,de'quali il concorſo, il movimento, la figura, l'ordine, e'l ſito
formano il fuoco. Eben diſs’Io non effer anche nell'antimonio dia foretico
eſtinta, e fmorzata affatto la ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello
inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur
cábiádo sebianza, i quali il vigor del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari
ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua primiera,e natia fierezza. Quinci ſi
vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio, il qual vuole, che l'antimonio
diaforetico, altro non ſia, ch'unw ſemplice terra dannata, e che come tale ad
altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que'
fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna
facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i
maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico, certamente in altra maniera
n'aurebbe favel la + RagionamentoSettima Lato,comeche Pantimonio diaforetico ſi
ſia veduto nellofte: maco d'alcuno non men,che la polvere di Sicilia, detta del
Chiaramonte, e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti
talora impietrarſi; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi
puote. Maciò laſciando di parte ſtare: e'manifeſtamente fi comprende eſſer
nell'anti monio la parte velenola fiſſa; e forſe arſenicale,e non come altri
vanamenté s'avviſa, volante, e vaga. Ma ſe ciò è ve ro, potrebbono per
avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti, che colla
loro efficacia vale. voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole
violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli
alcali, e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua
uſata peſtilenza: e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori, e
ſtracciamenti di viſcere, che recar ſuol l’antimonio, non altrimenti che ad uſo
de'fiori, o di vetro lavorato ſia. Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto,
ed innoccnte mercurio, meſcolato dentro dall'huomo,coll'acetoſo ſale, che vi
ritrova, gua ftali agevolmente, es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre
cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera; e ciò
manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa,e da’fumi, e
dalle unzioni, e da al tre ſoinigliantimedicine. Ma poſto che lavorato per ogni
verſo l'antimonio sépre nocevole, e velepoſo all'uman genere rieſca, non ſono
però da biaſimare cento,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e
falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi
della Chimica medi cina, maggiori nondimeno, e più peſtilenzioſi aſſai ne ha
ſempre la volgar de Galieniſti, ſecondo il ſentimento cos mune di loro
medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici
dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam,validisfimis. uti medicamentis,
quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent, autſaltem melius pre parata. Nec verum
eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari; fapillimè mitiffimus
calor adhibetur. Sed pre 4 Del Sig.Lionardodi Capoa. 553: præterea ipſe Galenus
docet igne valido pharmaca plurimai acrimoniam, mordacitatem omnem deponere.
Etcertum eft, egli poi ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta, & fero
ciſſima medicamenta edomari, & plurima alias venenata ademptis deleteriis
partibus evadere cardiaca. Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile, e
valoroſo Galie niſta, e d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli
ellebori, le colloquintide, gli elaterj, le ſcamionee, e al tri non pochi
violentiſſimi medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina, i quali già
ella più forſe ad offende reinteſa, che a riparare all'umana ſalute,fin da
barbaré có trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte
della Chimica raddolcito il natio amarore, e pofta giù l’nfata fierezza,
Ambrofios præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo
ſegretario della natura cotan te volte da noi, coniechè non mai a baſtanza
commendato Gio: Battiſta Elmonte: aft ego volens paterno animo corri gere
furiofam medicaminum vim, intelligo rerum vires pri ftinas manere debere, infui
radicem introverti, vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem
latitantes clanculum fub cuftode veneno: vel de novo partas ratione
additaperfectionis. Quopacto colocynthislaxativam,atque deletericam qualitatem
introvertit; emergitque ex imo vis. reſolutiva, morborů chronicorum curatrix
egregia. Id enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit;
filuit tamen, vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium,
&vegetabilium venenis per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum
ipforum perit,fi in entia prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente
maraviglioſo artificio, di cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe:
Generata naturalia inferiora loco durioris compaginis conflata, & alta
magnifactione, propter duritiem nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum
philofophorum artificio. Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co
chiudere, utilisſime molto, e neceſſaric al genere umano Аааа effor
Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche medicine. E nel vero có quali
valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli operare, eguarir ma li giudicati
per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon, te, e'l Paracelſo, ſe non fe
per opera delle chimiche loro medicine? Eglino certamente con queſto meſtier
poteronſi guadagnare il glorioſo titolo de'inaggiori medici del mon do: e per
queſto ſentiero in tanta altezza di pregia monto il Paracelſo, che
ragionevolmente meritonne il famoſo no medimonarca della medicina. Ma oltre a
ciò ſono i Chimici intendentiſlimi de'ſempli, ci, e della lor natura: e ben
ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne la parte inutile, e nocevole, e ſerbar
folamente pus ra, e intera la medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di,
e le qualità del fuoco, e gli ſtrumenti tutti, egli ordi gni acconci a lavorare,
e'l tempo, e l'altre circonſtanze a ciò confacenti oſſervano. Quindi dal loro
faggio, e avve durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti: e
fanno dal vino, e di altri vegetabili, e viventi, e miş nerali corpicavar
ricchisſimielisliri, e olj,e tiņture, e fali, ed eſſenze, e ſpiriti
ſottilisſiini oltremodo, e ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare, eadar
dipreſente ripa ro alla mancante vita; e a richianare addietro i ſpirie ei
vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali
malori; in cui convien di preſente con prelto, c valevole argomento ſoccorrere.
Nea ciò fare al tro che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole, cbi ftāte;
perciocchè a’ınali gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente
bazzicature i volgari, e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più
ſquiſite ricette di Ga, lieno poſlono aggiugnere. Inde illa, gridaforte
ſtupidito il principe degli ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant
miracula in diuturnis malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque
ardentis, quinie eflentia, auripotabi. lis, fi ſcuſi nel Mercati, ignorante
dell'arte, la follia del preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole
ragione, ch'egli reca de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne, così ſoggiugnendo,
Chymica enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555: ratur
miſtis tenuitas, quæ duplieiter malis peritioribus profi cit, quia cedit ad
imum, radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco
penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret, &devincat. E
quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità, e in ragion civile Martin
del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa, creda col Mercati,
econ altri mal pratici del meſtiere; che ſia vera mente oro potabile quel
liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale: ſommamentela Chimica loda, e
innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della
Chimica, qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur, ut phyſiologie
fatum præftantifimum, in ventricem auri porabilis, reinonminusutilis adſanandum,
quàm ad alendum, ac quoad fieripoteſvitam prorogardam. Ma che cerco lo co
raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col
poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi?
trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti
lavorare, e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico, che
chiunquc lavorar chimici medica menti intenda, e meſtier di tuo riſchio, è di
tanta confi derazione imprender voglia, egli della chimica filofofia, è della
medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno, e comprender
lanatura, e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè
quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun
medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo, e avvedutiflimo
guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina, mal fenza dubbio i ſuoi
medicamenti faprà fabbricare. E ciò bene avviſando il Valentini, e’l Para celſo,
e l'Elmõtese'l Quercetano, e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini, e'l Crollio,
etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe
allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine; anzi que' due gran lumi
della Chimica medicina, il Paracelſo, e l'Elmonce foven te d'alcuni lor
famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre', e difpenfarc i
Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno, e
riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica. Ne per altro in vero
in tanta infainia,e ſcherno cadde cotal meſtiere, e tuttavia ſi biafima, e fi
vitupera dalle genti, quanto, che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora
di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente
idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo
conſigliare,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui
cura, e talento i ragguardevoli lor medicamenti; dicendo alcuni di eſſo loro,
coluiſolamente effer vero medico, che a ſue propie mani le ſue medicine ſi
lavori. Quo circa illum demum cum Crollio, dice Criſtoforo Glucradt, verè genui
num elle medicum cenfemus, qui medicamenta debitè cogni ta, non ratione, ut
rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare, & à veneno, &
feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere
didicit; eaque imperito non committere coguo; e prima di lui n'avea recata la
cagione il Penoto, facilius eſt, R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare
agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus, cineribuſque ſordidum
ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo
rio de' grandi antidoti licome, avviſa Galieno, propiamé tc al medico
s'appartiene: perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il
ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il
commetteſſero:Io non lo comead altrui, chc a medico il lavorar le Chiniche
medicine impor ſi debba; perciocchè molte, e molte di quelle di maggior vigore,
ed efficacia fornite ſono; perchè certamente maggiore avvedutezza, e
intendiméto richieg gono, che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo
antidoto, che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione
malne ſortiſce, aſſai più certamente ne può di danno, e di nocimento avvenire;
imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati, e
pericoloſi in lavorarſi, cheper ogni menomo fallo, o tra ſcutaggine, che vi ſi
commetta, graviſſima certamente, e mortal rovina ne può ſeguire. Perchè
l'incomparabile Res nato Del.Sig. Lionardo di Capoa 557: nato delle Carte così
alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona: Caurè etiam fecit
celfitudo ſua, quod non luerit Chymicis remediis uti; nàm quantumvis longa expe
rientia illorum vires comprobatę fuerint, tamen, vel minima in eorum
preparatione, etiam quum optimè fieri creduntur, variatio, poteft illorum
qualitates ità immutare, ut non re media fint, fed venena; ſenzachè, ſe'l
medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine,
come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti avviſare, che alcune di
quelle, eziandio ottimamente compofte, e apparecchiate far fogliono? come
afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico? il qual
ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero, quocunque modo fe và cum folo
nitro, aut addito etiam tartaro præparatum fit, traétu temporis aëri expoſirum
pravam, da quaſ maligram induit naturam, fumptumqueintrà corpus, cordis
anguſtias, lipothymias, vomitufque, & fimilia prava ſymptomata pro creat.
Come potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo,
comprenderla vera, e giuſta quanti tà, ch’ad ammalato ſia da dare? la qual
certamente non da altro li miſura, e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione
dell'Alcali, che in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta:
e quella ſenza dubbio comprender non fi può, fuor ſolamente per iſperienza, e
per pruova, con far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati, e con rite
gno in prim?: quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua
convenevol quantità giuſtamente ſi pervéga: oltre a queſto havviancora alcune
virtù di medi camenti, che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me
deſimacompoſizione, e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco
lavorate ſiano, pur diverſame te o più, o men vigoroſe, e valevoli ſortir
ſogliono; in torno alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo
fare,comechè molto da dir vi ſarebbe; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte
ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con
fottiliſſimoocchio ſpiate? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti,
lenza pun to conoſcergli? Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè
infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono, iquali eglino nonpotrebbono
certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più neceſſarie degli
ammalati; o altre lor bifogne: dico, chenon haluogo al medico cur ti rimedj a
ſue man lavorare, ma que' ſolamente, che di maggior conſiderazione, e di
maggior riſchio agl'infermi fono; commettendo ſolainencei medicamcnti piùmenovi
li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in
primaconoſciuti dattanco; eſſendovi anche egli talvolta in fu'llavorio per
maggior ſicurezza, quando la biſogna peravventura il richiedeſſe. Ma
convienmiritor: nar addietro; imperocchè caduto dalla mente miera di ri ferire
a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro, che ben intender
vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi
de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di
groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o
d'altri antichi, e moderni Galieniſti? E ' no è peravvétura purtroppo
manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici, e feiocchiGalieniſti in
iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè
ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico, e chimico
eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in
herbarum decoctio nibus; diſtillationibus, quamvis corruptê, di impiè intel
bigatur abignorantibus diftillaturiam artem,nefciétibus evela bereelementa à
fimplicibus, tantum affumuns aquam endi: viæ primam,oprojiciunt aërem, ignem;
non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia, & fecres
ta: à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa: hoc voluit in selligere Ben Cene in
tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med. ad augendum coitum, ubi toquitur
de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum, &patentiffimum eft
falem no poffe confici, nifi perdiſtillationem; ducum prima aqua dif folvere
cinerem, abluere primam aquam, terram albifi cando, ut docent fapientes. Ma
prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo maeſtro, c
compatriota'nelle fue 1 Del Sig.LianardodiCapoa. 159 fue chiofe ſopra la
cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a
'medici per ben in tender gli Autori, con produrre in mezzo molti, emol ci
altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci, per non conoſcerli
di chimica; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare, ſe
dal tempo ne foſſe permeſſo. Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la
Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere, e ravviſare
tante, e sì fatte guiſe dime dicamenti, che fabbricar tutto giorno, edifpenſar
da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti
in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere, ſom vente a' rapporti
de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto, e privi
ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali
medica, menti, ne in quali forti di malattie, in qual' età, in quales ftagione
convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno:cõciofſiccofachè
cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino, i quali appena ſi
pare,che l'ab. biano ne'lor volumi groſſamente accennate, non che par.
titamente ſpiegate, e deſcritte, coprendo a bello ſtudio, e inviluppando
imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te, per non logorargli yanamente
infra le genti volgari,cu dibaſſo intendimento. E quinci poi ingannati da’loro
fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati alcunisime dj, che chiaman
prezioſi; facendoſi a crederc, che fien tali, quando veramente fon viliffime
bazzicature, e fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per
aver parte poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai
ſempre de' medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti;
ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico: Multos pratereamedici
componere fuccos Afuerunt; preciofa tamen quum veneris emptum.
Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file
dell'oro, che cotanto alcuni ſopranmodo millantano: come potrà egli un buon
medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato
beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa
pere? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel
malvagio medicamento, certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi
infermiliberali, perciocchè non è egli, ne eſſer può giammai ſal d'argento; ma
sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me, e
rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi, onde
già roſi, e ſgretolati furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar
debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal
vitriol del rame far fi ſuole; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della
Chimica conoſciuto aſſai, così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le
virtù, cheſipredia canodel ſald'argento; e credo, che abbia indebolite più bor fe,
che corroborati cervelli. Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è,
quanto più del vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde
le viſcere, e ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere
gli inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo
anche mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che
agevolmente, o la natura medeſima, o altri medicamentiviriparano.
E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio dell'oro, e dell'oro, che chiaman
potabile, del qual certamente niun mai ſervir dovrebbeſi, ſe non aveſſe egli in
prima per più d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun
modo ne'primicri ſembianti ritornare, e prender di nuovo forma di metallo,laſciato
avēdo affatto d'eſſer tale. La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte
ben con. ſigliata ne fu allor, che diſſe: ne metallicum ullum arcanu intra
corpus accipiatis, nifi prius redditum fit volatile, din nullum metallum reduci
poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli, delle perle,del le
quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini,
cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc
eſſenze non ſono con cior Del Sig.Lionardo di Capoa sor ciosfecofachè a farle
tali, egli convenga in prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris
loro principj collo pera, e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti
li quori: le qualicoſe altro veramente non ſono, ſecondo il ſentimento d'alcuni
valent' huomini, che Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e
bugiarde, che l'eroiche sbracciate del Rc Artù, e lemillanterie di Lancillotto,
di Triſtano, ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte. E ſepur
vere coſe, e non vanisſime dicerie elle fono, ficome al quanti guari autori han
voluto pur credere, cgli però ſo 110 sì inviluppate; e cieche, e rimoſſe dal
noſtro intendi mento, chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire;
così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica
Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo, l’Elmonte, e altri, l'han ſapute
co' loro riboboli, ed cninmisì bene avvolgere, e intralciare, che impoſſibile
omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto, che comunemente far pe
veggiamo, altro certa mente non è, ch'un minuto ſtrirolamento, o ſceveraniento
delle parti, fatto, come è detto,da’ſaliacuti elaltati,e per ciò ſoinmamente
velenoſi, i quali meſcolativi per entro, e forte appiccativi non ſe ne
potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli
dell'oro, o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati,
e a que’ſali appiccati, ceſano, e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali;
intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono
valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto,
e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte; ficoinenel tartaro vitriolato far
ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi
rimancſſcro, ma per opera d'ec cellente, e ſaggio maeſtro già tutti interamente
ne goin beraſſero, certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati
non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze, ma
tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per
gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio; come gli
intendenti del meſtier fa vellano. E di ciò ben fi può far manifeſta
pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro; concioffiecofachè bcn allor
di preſente fi vegga l'argento, e l'oro, e le gem me calar giù, e far
toſtofondaccio: comechè alcuni cotali paltonieri, e giuntatori de’noftriſecoli
pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario: circumfuranei fallaces,come dice
il grand'Elmonte,qui aurum, & argentum furripientes aliud in borum locum
fuppofuere; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare. Ma
de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte, huomo per
univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato.
Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum, qui foliatum aurum, gē
maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam
ignorantiamfinondolum; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium.
Subtilior, ideoque magis condolendus efterror eorum, quiaurum, argentum,coralia,
perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere
videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri, verè ſuasproprietates
nobiſcum communicatura.Nefciät enim, ah neſciunt acidum venis hoſtile; ideoque
peregrina diſſolventiúfuperata, & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla,&
lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit
redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed
Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai, e ferino, e veritiero
ſcritto Te: omnes illi, ſclama, qui talibus portentofis promifis, quo rum ne
minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta,
&impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus, intendendo egli di coloro
appunto, de' quali noi ra gionato abbiamo: ſciocchi,e ignoranti della Chimica,
qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur, tanquam profundi ar. canorum naturæ
fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine
oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di
ciò avea egli detto: meritò fufpeéti habentur, qui primam dari materia philo
Del Sig. Lionardodi Capoa 563 philofophorum tùm ad quorumcunque morborum
curationem, tùmadmetallorum tranfmutationem, multis, jiſque ad oſtë tationem,
& fraudem comparanis rationibus probare conan tur. Qui ex auro, quod
necfummaignis violentia, autul lo corroſivo cogi poteft, ut vim fuam metallicam
exuat, se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura conficere poffe
jactitant. Qui non folùm colorem, innatam tin &tu ram ex omnibus metallis,
lapidibus presiofos, fed etiam fpi ritus, olea, & ſales non minus, ac
exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui ex.talco, corpore illu
metallico, & incombuſtibili, balſamicum, &temperatumliquorem ad per
petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram tincturam coraliurum ejufdem
cumipfis coraliis coloris, faporis, &tem peramenti, majoris tamen virtutis
ad Epilepſie, & Melan cholie curationem vendunt; du ex ipfis margaritis
talē quin tamellentiam,quæ humidum radicale confumptum meliusquá ullumaliud
fimplex,aut compofitumreftituat. E quancunque gli acuti lali ſoglian talor
raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli
demetalliſciolti, che le lor fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come
nel vitriolodel ferro agevolmé te fi può vedere; non,però di meno il più delle
volte il con trario n'avviene; perciocchè le punte delle particelle, che
compongono i fali, accozzandoſi talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli,
vengon si fartamente a ſchierarſi, e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime
ricciaje, od’aſpri riccj fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no
le viſcere ', e con mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono; ficomealla giornata
nel ſoliinato, e nel precipitato, e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia
avvenir veggiamo. Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio, dicoral oro
favellando, dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice, illo nocentius toxicum.
Ed io porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti, ſe non ſi deſſero
tanto miſuratamente, e a ſpiluzzico, non nien gravi, e manifeſti danni
ſeguirebbono, che dal ſolimato, e dal precipitato avvenir ſogliono; perchè non
ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi, e
ignoranti, ſe nella chimica eſercitati foffero, cotali medicamenti,
anzinocevoliſſimiveleni, a'loro ammalati per cagion veruna imporre; e
comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere
agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare, inaggiormente gliele
abbattono. E ſappiano pure, che ſecondochè nes dicano i più veritieri Chimici,
più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro, che'l già fatto diſtruggere.
Ne è dacredere, che quell'olio d'oro tanto celebre, e famoſo in Portogallo,
curi, e ſaldi le ferite con altro, ches co'ſali roditori, ed acuti dell'acqua
regia, che if diffolve; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo i vaſi
acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare; perchè
gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro, o ſia egli
oro potabile, è certamente da attri buire; che per altro, ficome diceva colui,
l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato, e di niun momento ſenza il fal
roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco
d'utile, che rade volte ricever fe ne ſuo le, ſe paragonafial riſchio, in cui
la vita del malato mani feftamente incorre. Ne altrimenti è da credere degli ap
parecchiamentidelle perle, de’coralli, e dellc gemme; perocchè, come di ſopra
detto è, sì fattamente nel loro Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano,
che per quindi torgli vano affatto, e inutile ogniſtudio riuſcirebbc.' Emi
ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero
di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali, onde compoſto era, putiva; e
quelvalent'huomoall? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe, che di
preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali
apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi; e'l Gluctradio medeſimo
ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino, forte gli biaſima, e danna.
Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine ragionevolméte da
ſeguitar non fia; non però di meno in ciò, chcnarra delle perle, egli ſenza
dubbio ſembra dir vero. Acetum radi catum, ſon ſue parolefua, acrimonia, &
vi corroſiva, atq; caufti. DelSig. Lionardo di Capoa. 585 cauſtica non modo
margaritas, verum alia etiam diſolvere; &in cinerem quafi redigere, atque
quemadmodum Chymiſte loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft. Huc autem no
eft fpiritum margaritarum elicere, fed totam earumfubftan. tiam corrumpere.
D.Vaoylelius ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum,
magiſterium hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam
ebibife, atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe.
Eodem eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem, in qua ventriculi tunicæ
planè fuerunt erofa. E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il
componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente
l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal
liquore minerale oltre modo acuto, e roditore. E quantunque diciò per avven
tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle, e decorallifac ti per opera
d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi
cõfacciaio a qualche āmalato, pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi
dánano;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo, che nelle noſtre
viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te, le cagionidelle inalattie
ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le
baratteric, che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono? Ed è
egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo
prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro
Ciciliano, ilquale con ſue ciarle, e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo
Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone,
vendendo, e di fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi,
c'l biſmuto calcinato con acqua forte, e ſciolto, co me dicono, per deliquio,
in luogo di veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era
) Peliſſire di propierà per balſamo di Criſto, e la cintura del Chermes per
quella de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui,
cui fa dire il noſtro Dante la giu nella: deci 566 Ragionamento Settimo ---.
decima bolgia dello Inferno: Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio, Che
falfaili metalli con Alchimia: E ten deiricordar ſeben, t'adocchio, Com'Iofui
dinatura buona foimia. E non ha guari di tempo; cheda qualche malvagio fpe?
ziale comunemente vendevali (edimedici pur l'imponeva no a'loro infermi ſotto
nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e
queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo
maggiormente efficace, e vigoroſo, con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che
immaginar poſfia mo; e gli ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela
la Chimica, ingaonacine reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre, e più
vigoroſa negli eſtratti l'efficacia dellemedicine dover riuſcire. E
ſomigliantemente dall'ignoranza della chimica anco ra avviene, che i baccelloni,
e ſemplici medici credendo di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar
fuora varie, e diverſe moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o
non inai fi videro al mondo, o folamente ne’libri di poco pregio, o dalle
bocche, o dalle penne di chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni
ne fian ſegui ti a’poveri infermi, chi potràmairaccontare:Dirò lo fola mente,
ch'un celebre Galieniſta de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio
delBeguino, o altro ſomiglia te libro di Chimica, ftimandofi egli già gran
maeſtro in quella, preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito
del nitro volgare fchietto; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della
biſogna a tutta ſua poſſa il con traſtafle, pur colei preſolo, dopo
acerbilliini dolori nabif fando, e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche, e
irra gionevoli ricette ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare, ſe non
che per troppa modeſtia me ne taccio; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno,
come di fallo per avventura da ſe maffimamente commeflo; ſenzachè v'ha perſona,
ch’avendonc finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto, Del Sig.Lionardodi
Capoa. 507 ne, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà intors, no
aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga. E dall'ignoranza della Chimica
medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar ſi co
ftumi; il che certamente non avverrebbe, fe ſapeſſefi qua to eglioltremodo
malagevol fia il comporlo; e che gli ſpe ziali in vece del ſale del vitriolo,
dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco, o pure il vitriolo riprodotto dal
capo: morto, ſicome dicono; il quale talvolta aſſai più del vetro medeſiino, e
de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando acerbillimi dolori
nelle viſcere, e talora anche manifeftamcnte uccidendo. Così non ha guari di
tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel nuovomiſerabil mente
rabbiando Gio:Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido. Ma i noſtri ſciocchi,
e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un benigniſſimo, e piacevol
medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c micidial ve leno ne vengono
talvolta ad ordinare. E ſon' anchei medicinegli ſpiriti de'corpi vegetabili da?
mueftridiſtillatori, ſommamente beffati; perciocchè colo ro cavar gli ſogliono
per limbicchi di rame con gravilli mo danno di colui, che prender gli dec;
conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi formentati, gravida di quel ſale
acetoſo, che non mai partir ſe ne può, trae ſoven te qualche nocevol particella
della campana, e con la ſua mordacità tanto quanto la rode, e la ſminuzza.
Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in prima avvedere,[con volge, e morde
le viſcere, e diſtempera il corpo, cagione vole oltremodo, e difettoſa
l'economia di quello renden do. Ma veggo Signori che s’lo diſtintaméte narrar
vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i medici p nó ſaper pūto di
chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il mio ragionaméto; perchè
ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e ſcongiurarglia non
inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio, fe pienamente non ne fan riuſcire,
dico di nuovo, che laſcjno da parte ſtare le pericoloſisſime me dici. 5:08
RagionamentoSettimo: dicine della Chimica, e ſolo alle lor menovili, ccomunali
attendano: Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila,
diſcive, trochive quieſcit, Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò
lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante
d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re, che non ne fieguono le ſcherne di lui,
ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni
maeſtriScimmionide'ſuoi tempi, i quali, com'egli dice, quum rerum Chymicarum
planè ignari fint,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur,
chymica medicame ta, quorum vires, & præparationis modum ignorant, fatis
periculosè ufurpant. Or che direbbe egli, s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza
del noſtro ſecolo, e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città, in queſto Regno
non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere, non eſſer cerrerano,non doniccico:
1a, che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico, che non gli ordini,
appena che ne ſappia il noine, o bene, o malc, in tutte ſortidimalattie? Anzi,
che direb be egli pure, ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar
tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente, e
con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti, e non punto intendenti di
quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono?
E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino; pur nulla
conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla
groſ ſa il tutto, con danno, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto
de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo
noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius
eamfpreverant, excoli; ejuſquefcientiam à pluri bus, qui ipfam nunquam
coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur. Vndè faftum quodplures
Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis, atque in
uſum verſa; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſi Del
Sig.Lionardodi Capoa: 150g phyſicis, tùm medicis adopsate. E finalmente anche
ſe alla medicina non foſſe meſtier la chimica, a che ragunarſi a giornate tāti
parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil
terra, e in altri molti famoſisſimiluoghi d'Europa? A che tanti valentisſimi
medici (de'quali alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente
rapporterò ) avrebber durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate
tante notti per imprenderla, per appararla? E per racer d'Avicenna, di Rali, di
Meſue, d'Abulcafi, e d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo
Lulli, d’Arnaldo da Vil lanova, e d'altri di que'barbari, e infelici tempi:
quanto ſudor vi ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio:Battiſta Món tano: Giacomo
Silvio grandiffimo parteggiano diGalieno, Giovan Fernelio, Corrado Geſneri,
Teodoro Zuingero, Andrea de'Mattioli,Gio: Giacomo Veccheri, Gabriel Fal loppio,
Felice de' Platteri, Martin Rollando, Anſelmo Boezio, Girolamo Cardano, Giulio
Cefare della Scala, Gregorio, e Daniello Orftio, Pietro Caſtelli, Marco Aure
lio Severini, Daniel Sennerti, Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni Eurnio,
e Giovan Cratonc? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con ogni
sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare, e abbatter la Chi mica, pure
alla per fine tratto dalla verità volle appararla, e ſeguirla; e introduſſe in
Vienna, com ' egli narra, nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli, e nobili
medicamē. ti; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita to, e
biaſimato. Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica, fe pur
egli non è anche di tutt' altre cofe grandi, e magnifiche: poichè non s'arri
fchia alcun giammai a tacciar coſa, di che pienamente non ſappia, e non ne ſia
in prima a baſtanza informato:ma folo la Chimica fi biaſima, e s'accagiona da
chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef
fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un meſtier,dicui appena
fanno il nome.: Machi baſterebbe giammai ad annoverar tutti coloro, Сccc chc
570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine adoperano? certamente non è
medico a'tempi noſtri, ch'abbia fior di ſenno, che per be ne ciò fare, con ogni
ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della
noſtra ctà, o della noftra fioritiffima Italia nella quale anche
a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za
avidiſſimamente fu ricevuta. E Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che
inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa, fciat,diſſe, in Germaniamedicină
exercere Chymiæ igna rum non poffe, &vixin Gallia, & in Italia; e'l
teſtè men tovato Daniello Orſtio: encomia Chymie non opus eft, ut hic recenfeam:
quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius: ceſpitat, jam profecto fine
hacarte medicina. E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli: medicum
abſolutum effe non poſſe; immo nec mediocrem quidem, qui in Chymica non fit
exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti, e in varj
altri luoghi l'accennato Caſtelli, tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar
perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo
della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più
utili al genere umano: imperocchè l'acqueodori fere, gli olj, tanta varietà di
liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla
Chimica, qua fi emula della natura produconſi, la varietà de'colori, che
formanſi per uſo della pittura, le paſte da indorare, e lac que da partire i
metalli, che continuamente adoperanſi dagli Orafi, tutti ſono effetti,
coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua
da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle
buone lettere Budeo, che nel terzo libro de Af se, ebbe a dire: hujus eft id artificium,
ut vi aqua medicata, quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem
argento, aut cuivis metallo illitam, aut confufam,nullo di Spendio abſtrabat,
ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do, niſi quod ufu interteritur. Res
omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere, etiã,
quod magis Del Sig. Lionardo di Capoa 571 magis mireris manente vafculi forma
quaſa interdum, a inani, veluti quadam idea à materia abſtracta. E l’Alciato
ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem
Pomponius, S. fed fi D. de rei vind. nella quale ſi dice, che'l rame miſchiato
con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual
dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari, hodie
forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à
quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices,
vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit,
apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum. Ma cotali brighe a'cervelli
più ozioſi de' noſtri laſciana do:poichè la chimica eſſer così giovevole, e
oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a
diviſare delle ſtrade, perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil
meſtiere. Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar
ſi voglia, conviene, che non ſolo, comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma
ben addottrinato: ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento:concioffiecoſachè
in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti, e con tanti eniminio eri
boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi,
c.alti cervelli per iſpiegargli: Ea fuit om nium hactenus invidia, dice di lor
querelandoli Geremia Bartio, idque præpofterum occultandi ftudium, ac labor, ut
non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica, tanquam eleuf, na facra celarint:
ſed veterum etiam arcana, fimpliciori, apertiorique orationis genere propalata,
impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate, in tenebras
ipfis Cimmeriis, & Ægyptiis denfiores conjecerint. E oltre a queſto deeil
Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver
diligentemente ſtudiato in fiſica, e conſeguentemente in Geometria, e in tutte
altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie; ſenza le qua li mal
certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit, e
valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo me. 572 Ragionamento Settimo mo
medico; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam
vultpervenire, &non eſs philofophus, fa tuus eft; per tacere il Morieno, e
altri. Maconviene oltrº a ciò,che per internarſi nelle cupe, e profonde ſpecula
zioni della natura, ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno
traſcorra, e molto in eſli ſpii, molto co prenda, e avviſi tutte quelle coſe,
ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe;
cer cando per lande, e per valli, e per colli, e per fiumi, e per nuovi mari
Fior varj, e varie piante, erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli, e peſci, e altri
infiniti animali, e minic re, e gemme, e altre, e altre fatiche a sì lungo
meſtiere appartenenti volentieri imprenda, come già fecero que chiarisſimi lumi
dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo. Oltr’a ciò egli è di meſtieri
al chimico eſſer otti mamente avviſato della natura, e delle qualità di tutti
gli ordigni, e ſtrumenti del meſtiere, e ſopratutto del fuoco; € fottilmente
anche comprendere checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad
accoppiarealquãte particelle, o fali gne, o d'altre ſorte di quelle coſe, che
ſi lavorano; perchè poi vengono oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera
zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca, e
troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento,fee tutto ciò,ch'ad un
perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non
laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re:
ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila chimica ap parare, è impreſa
oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia, e
per la medicina ſervir ſe ne yuole. La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto
naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e
viluppi intralciata; e ciò fanno per. non manifeſtare a tutta gente i ſegreti
più profondi dell'ar te; nella qual cofa adoperano certamente gran ſenno, ſe
guitando i conſigli degli antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del
Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè;, come cancò quel
giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe, e
care, Saporite, foavi, e delicate Scoverie in man non fi debbon portare, Perchè
da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti, e molti, che ſi ſono
affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi
ci maeſtri, ne rimangono certamente di gran lunga ingan nati, e ſovente ancora
ne' loro errori traggonnon volendo coloro, che creduli troppo preſtan lor fede;
masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione della medicina, come fon
quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel, che maggiorméte accreſce
la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate, quandofan ſembianza di parlar
manife ſtamente, e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di parole, al lor
maggiormente n’inviluppano. Omnium rerum, avvi fa il gran Claudio Salmaſio, quæ
ad hanc fcientiam perti nent vocabula, ab ufu, & confuetudine
communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum vindicarunt, fa
lis myſtis tanti arcani intelle &tam. Fornaculam fortem, ve caminum, in quo
argentum,& aurum fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora
conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea
adjicio, quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no
ex obſcuro corum ambiguo, & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe
ferunt,modo percipere; ipfis. confilium non effe, st intelligantur,nifi à
filiis artis (utvocant, nec vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti
ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur,
quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr: ubi palàm la quuti fumus, ibi
nihil diximus. E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars
enim ipſa tam eft abdi ta, ut in ejus cognitione adipiſcenda oleum, &
operam miſe rè perdant pleriquemortalium. Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris
hanc gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana
obtegunt;ut videant, ideo folü fcripfiffe 574 Ragionamento Settimo ut nõ
intelligerent? E peraddurre di ciò un ſolo efemplo, chi non crederebbe
interamente al Beguino, ea tant'altri moderni autori eſſere lo ſpirito del
nitro diſtillato coi bo lo, quelmedeſimoappunto, che gli antichi Chimiciin,
molte malattie di darper bocca uſavano? Epur la biſogna non va così; perciocchè
quel degli antichi d'altra,e più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito
rapportato dal Be guino, non ſolamentenon giova, anzi n'offende notabil mente
le viſcere; perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono, per avere i
medici ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza; come dicemmo teſtè di quella
cattivel. la inferma: ecento, e mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono. E
quinci avvien poi, che non ſi veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure, che
ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che
que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati,
e alla groſſa diſegnati, che inal certamente per huom ſi poſſono adoperare. E a
ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato, il libro
de mendaciis Chymicorum, con ſua poca loda compoſe. Or veggali di grazia chente,
e quali fian le malage volezze; le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in
contrano, e come ſe ne poffa in ſoli due meſi huom mai ſuis luppare, ficome non
meno ſciocco, che malizioſo fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio; quando
egli ſotto gli ann maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei
ne feppe, tanto tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte
più operativa, che ſpecu lativa fia: egli è di meſtieri all'avveduto Chimico,anzi
coll' uſo, e colla ſperienza, che col rivolger de’libri appararla; perchè poco
ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya, dicendo Vos exemplaria Gebri
Nocturna verſate manu, verfate diurna; perciocchè quantunque in ſui libri
diGebro, e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno
ſe non ſi pruova col fuoco: econ altri chimici ſtrumenti,ciò, che Del Sig.
Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen
te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir,
che più co'carboni, e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia; ne per altro
certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò. E comechè dura oltremo,
do, e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo
ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto, ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν
έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω, Και τζηχυς το πρώτον:επήν
δ' εις άκρονίκητα, Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα. Innanzi a la virtù
poſto i ſudori Hannoglieterni, & immortali Dü: Aleiper lungo, ed erto calle
vaſſi, Che duro inprima appar, ma quando alfommo Si giugne, agevol èquel, ch'aſpro
apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere, ch'Io avvili,
potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui, che pretende
avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella; ne in meſtier di
tanta conſide. razione, quant'è la ſalute, e la vita degli huomini haw egli a
riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro, ne ar roffarfi di ſpiarne da
qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di qualche
pro-alla inedicina; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio: nullus
adeò malus liber eft, ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit. E Giuſeppe
della Scala: ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum
librumeffeputo, ex quo non alia quem fruitum colligere poffim. Ne è perſona
cotanto ſcioca ca, e balorda, da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa,
eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε, che
per tacere altri, il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto,
così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto
a propoſito a la gente. Ma 1970 Ragionamento Settimo Maparticolarmente
de’medici favellando ſcriſſe a tal pro, poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico
de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di Lione: prudens le&tor, vel auditor, omnes
libenter audit, omnia legit: non fcripturam, non perfonam, non doctrinam
Spernit:ab omnibus indifferenter, quod fibi deeffe videtur querit, non quantum
fciat,fed quantum igno ret, confiderat. E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co
tale ſconoſciuto contadino tolſe d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine
d'un moleftiffimo capogirlo, cui no aveapotuto porre alcun compenſo, e vani
erano riuſcitii molti, e varj conſigli de' valentiſſimimedici. E fenza dia
partirſi da queſta noſtra Città, egli è gran tempo, ch'ado perar folevanſi
dalla gente volgare efficaciffimi rimedi per li bozzoli della gola, e perle
ſcrofole; e al mal della pun ta guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite,aftenendo
ſi da’ falafli, l'olio del lino, l'olio dell'olive, il ſangue del becco, il
ſalnitro, l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale, i fiori
del papavere roſli, la calce, il gen giovo, e'l zafferano; nella colica la
cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre, il ranno, e
l'acqua del vitriolo, e della calce, e altrimolti medicamenti, che non fa
meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione,
che no l'avviſo del Paracelſo, il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba
uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole, come ſe da lor ſolamente, e non
altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò, ch’alla medicina ri chiedefi; ma gli
convenga anche girne dalle vecchiarelle, dalle zingane,da'ciurmadori, e da’vecchj,
e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più,
ch’altrove per avventura non farebbe; e quinci fi coglie, the'l medico, non
menche del chimico è detto, debba an dar ſe poſſibil fia,per dirla co'verſi del
poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E
queſto ancora, acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre,
delle minicre,dell’acque, degliani mali, dell'aria, delle ſtagioni, de'coſtumi,
de'cibi, delle bcyan DelSig. Lionardo di Capoa. 577 bevande, delle medicine,
delle malattie, e delle maniere di ciaſchedun paeſe. Ma con tutto, che tanto, e
tanto af faticato egli s'abbia il medico per apprender le contezze già dette,no
dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado della medicina pervenuto:
concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte dice, che in tutta l'Europa
appena un ſolo medico ſi trovi:imperocchè queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni
troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide, per tacer del Paracelſo,
nell'Elmonte medeſimo, che forſe quell'uno ſi era, il quale non potè ſe
medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto male,e de'ſuoirimedj
egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro avea. Ma laſciando ciò
daparte ſtare, mi par tempo omai, che veggiamo, quali efſer debbano i maeſtri,
i quali introdur poſlano lo ſcolare al conoſcimento di táte ſcienze, quali ab
biamo avviſato ellerneceſſarie alla medicina. E conciofi ſiecoſachè di ſopra
ſia per noi detto, infra l'altre coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente
abbiſognare; conveniente coſa mi parrebbe, acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar
ſi poteſſero, d'un compiuto, eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole
ornare, e quivi un'eſpertiſimo er bolajo ritenere, il quale gliele doveſſe ad
una ad una ad ditare, con iſpiegar loro la natura, i nomi, e gli effetti di
quelle; acciocchè avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle. E ciò tanto
monta al comun deila medicina, che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe:
ficutmedicus fim plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia, quæ horto
fimplicium publico caret, non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo
avea molti, e molti danni annoverati, che per non eſſer nelle ſcuole della
medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono. E certamente niun
maiſaprebbe, comechè ſagace, cavveduto molto ſi foffe, giugner al vero
conoſcimento de ſemplici alla me dicina appartenenti, ſenza aver huom, che
d'efli affai pie namente informato innanzi tratto diligentemente gliele
inſegnale. La qual coſa fu da Galieno avviſata, allorche dilic, parlando
de'ſemplici: Convien certamente, che non Dddd nina, 578 Ragionamento Settimo
una, o due, o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con
qualche'maeſtro, il qualgliele additi,come bocca gliele inſegni. E altrove:
Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la
materia de medicamenti; eglino medeſimi non una, o due, e tre fiates ma ſoventi
volte ravviſandola; concioficofachè la vera co tezza delle coſe apparenti
coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia. Ed altrove ancora
biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non curano:
diſſe:Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali tutti, e i
marchi d'unoſchiavofuggitivo, comeche mai non l'abbian veduto, a ſuon di tromba
vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui, comecanzone il vă
per tutto poirecitando; che ſe per avventura intervenije, cbe il pubblicato a
bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto ciò no'lravviſerebbono.
E ciò tanto mag giormente avviene, quanto,che da’libri ſolamente degli
Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra perlaz traſcuraggine di
coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele, ch'intorno a quelli
ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi, che i ſemplici hanno,
chia mandoſi diverſamente da ciafcuno. Coſa, la qual cotanto fe ſudare, e
affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè, co mc egli dice: in berbulæ
cujufdam facie repreſentanda, no tas tam variè delineant, utquidvisaliud
potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur: aut cerie eandem multi plici
prorſus effigie: quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw omnes dubitant. Quare
me tantorum impulit virorumdift fidium, per vaftas ire regionum multarum
ſolitudines, invia montium juga peragrare, lacus inacceffos Inftrare, abditas
terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum corpufculi bajus
periculo præcipitia nonnunquam tentare, ut inſpectu eriam, ne dum cognitione
res ipfas comprehenderem. E ciò certamente fu non poca fatica d'un tanto
valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno, ch'a sì fatro meſtiere in tender
preſuma.Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino, con apparar quì in un
ben fornito giardino tutte l'era be da ! DelSig. Lionardo di Capoa. 579. be da
confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio, e
riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò, ch'abbiamo detto che l'orto
de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole, ed entro queſta medeſima noſtra
Città biſognevoi ne fia, quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar
pienamente cotali conoſcenze ne con vegna, e nel tempo,che germogliano, e nel
tempo, che creſcono, e nel tempo, che languiſcono le piante diligen temente
confiderare: τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try
agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν
ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το
ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι.. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di
Perugia, di Bo. logna, di Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu
ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli
giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo, e comendevole
Orto di Padova find a ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e
ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to;
del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal meſtiere, e in tutt'altre
parti di medicina intendentiflimi: ficome certamente fu Luigi Mondelli, Luigi
dell' Anguil Jara, Melchior Guilandini, Giacomo Antonio Cortufio, Proſpero
Alpino, Giovan Prevozi, il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio, ed altri molti per
le lor famoſe opere in iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente
con táto ſtudio ciò fatto avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa, e
tempo logorandovi, fe a più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino
pie namente avviſato non aveſſero; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove, in
queſta noſtra Città, in queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non
avendovi ne pur uno mezzana mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè
non mol to ſtrana, e ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa; da poi che la
paffata piſtolenza tutti gliene tolſe. Intanto, che l'av vedutiſlimo Giuſeppe
Donzelli, che in ciò pochi ebbe a ſc pari, infra i ſemplici, de'quali in una
cotal bottegaalai fi Dddd 2 1110 580 Ragionamento Settimo -mofaa compor s’avea
la Triaca, fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene. Or che della noſtra
Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla
mare? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non
folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut diſeantjuniores medici,
atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum, decus, fed quod maximum, quod optă
dum, ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à
pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur? quot agri indè necantur? E
cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più,e più altre con tezze a un medico
abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue, farebbe meſtiere introdurre
ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza quella malagevolmére
potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella
compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne ſiano; non però di
meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo, o della materia, o
del la lingua intendenti, in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer d'altri,
o quante, e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in fallo
ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro,
che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te qual
inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio, anzi il
inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella, pur malamente
alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi
ſcritto ri ne vien forte accagionato? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la
vuota ſcuola della filoſofia, ein man de'medici ri porla, come già prima
coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba; certiſtima coſa
eſſendo, che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no
Notomiſta avuto; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio, o perchè di fcco cotal
biſogna le riſpondeffe,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura
ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato, una faccenda di tanta conſiderazio
ne, e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata, che un di ligen Del Sig.
Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle, e facédofi
ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni
ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe; perciocchè
in sì fatta guiſa non ha dub bio, che a'giovani, perchè perfetti notomiſti
diveniſſero, agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino
inſieme unite le due cattedre della notomia, e della cirugia, e come di due
peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè
loderei, che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual
fatica ſi partiſsero, e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero.
E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli
fono al co mune, che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan
meſtieri, ma per l'arti della guerra ancora, c per la na vigazione, e per le
mercatanzic, e per tutto il civil con mercio. Ma oltre a tutte queſte ſcuole,
che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre; la quale per
quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto, così gio vevole, e neceffaria
è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono, & cccellente
maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote; e non ha il torto l'avvedutisſimo,
ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a
vituperare, e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica
introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa
meſtiere: avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia,
alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero
d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura
necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio, quãdo
diſſe: Medici hoc têpore (Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum
legerit?qui impunè homines occidit? ) cum mihil reliqui habeant medendis
corporibus, vel cum re ipfa. ignorent, quo morbigenere ægri fins affecti, ad
aquas Baja. nas eos rejiciunt, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi
tamen ftolidos noftræ ætatis homines, quificaci eò profici Scan ' 582
RagionamentoSettimo fcantur, jam ſe videre, caciores indè reverſicontendunt. E
certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe; perciocchè
non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate
l'abbia, come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo
Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia; dal quale ingan nato, follemente
credette eſſer non ſo quali miniere di fo le, e diluna in quelle acque. Ma per
accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina: Io richiederei, che i
Lettori di ella, oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate, e diGalieno ſpiegar
dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi, e moderni autori,ac ciocchè gli
ſcolari, ſicomeGalieno, c altri famoſi valend huominigià ferono, di tutto ciò
chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano; e ſe bene sì fatte
contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza
dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace, e che niuna ſetta di
quella abbia in ſe dottrina, che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento
porre, ne coſa di certo mai determinare; impertanto potranno agevolmente ayviſare
i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte, e dell'opinioni, e alle
varie, e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare, che fra i medici ditem
ро in tempo ſono venyte in ſu, qual via nel meſtier del me 'dicare debban
genere, Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi
farebbe, ficome alcuni daquelle parole: li bros authenticos tam Hippocratis,
quamGaleni in fcholis da Geant: vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che
altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re;
cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno,i sé timenti di Galieno
medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di
Galieno colui, il quale non faccia, come Galieno adoperò, ſcegliendo datutti
libri il migliore, ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola. w inſtantemente
conforta. Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto, ſecondo le
fpoſizioni d'alcuni, che 11012 DelSig. Lionardo diCapoa 583 sion vietò la legge
per quelle parole,il ſeguire, einſegnare; ancoraaltri nonininori autori;
coſtumando le leggi, qua do vogliono riſerbare, e vietar tutt'altre coſe,
diſegnarle con quelle particelle duntaxat, tantummodo, folum, che i Dottori
chiamano taſſative; ſenzachè, ſe colla mente del Legislatore vogliam noi ſporre
la legge, come ragio, nevolmente è da fare, certamente non che lo ſpiegare an,
che altri nomen famoſi autori vietato ne fia, anzi egli n'è apertamente
conceſſo, o per medire impoſto; conciollie cofachè l'intendimento del
legislatore in ordinando una si fatta legge,, altro certainente ſtato non ſia,
ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe di formare un, perfetto ge
valentemedico; il quale, conte già abbiam di moſtrato,cal divenir non potrebbe,
s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina è ſcritto piena contezza non abbia.
E. certamente ſe l'Imperador Federicoamici!limo, e bene in formato delle buone
lettere', che fe lo ſtatuto, e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer
que'barbari tempi, ſciéziato huomo, che ſcriſfelo, econrpilollo, aveſſer mai
potuto di tantie sinobili ritrovati, e dottrine de" novelli medici, e
filoſofanti alcuna concezza avere, eglino ſenza dubbio non pure permeſſo,ma
commendato anche avrebbono,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati
ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che
riguardando alla volgar coſtuma di quel barbaro, e rozzo ſecolo, veggiamo
apertamente, che corale ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto;o pur
ſe andò avā ti, fu preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi
lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova, e altrove la dottrina degli Arabiallor
pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate,e di Galieno,i
medicaméti di Ralis,d'Avicena,c di Meſueallor ſi coſtumavano; anzi in queſte
noſtre ſcuole medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri, con comandamento
đe’noftri maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per
racer del nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu ordinariams
Avicennale &turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle già 584
Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca, famoſo maeſtro in medicina di queſta
noſtra Città. Ne altre doitrine in vero, o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà
sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do, licome già baſtantemente per noi ſi
diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi; ſegnal certiſſimo, che i me
deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne
Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno, e de'Galieniſti
tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine, aper
tamente cozzandovi, ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate,
c Galieno,che la verità medeli ma, e la ſperienza ſeguire. E che direm noi di
cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando, ove la verità
il richiedeva apertamente il contraſtarono? certa mére male a lor huopo táta
tracotáza impreſſa avrebbono, ſe contro i divieti imperiali altronde, che da
Ippocrate, e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della medicina nel - le
ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito doposì fatto
ſtatuto,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur tutt'altro
chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro la
medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese di
Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte, e tutte piene di
barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital
tenute furono dagli Arabi; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando fio
riva; intanto, che Avicenna per comun yoce era principe della medicina chiamaco.
E tanto parmial preſente della traccia, che tener debbano nell'inſegnare i
pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato. Ma lo ben
m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le promeſſe già
fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia, comeanch'esſidebbiano eſſer
liberi, e non appiccar-, fi all'altrui autorità nell'inſegnare; ma di ciò nel
ſeguente ragionamento farem parole, 1 RA 585 VAN RAGIONAMENTO O T TA V O E VLT
I M O. Rai più illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra
d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare: p mio avviſo laver ella
ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti, % 9 e
albergati pellegrini ingegni, e ſaggi, ſcorti, e liberi nello inveſtigare i
ripoſti, e profondimiſte rj della natura. E nel vero per non far parole de' più
anti chi tempi, chi è di voi, che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui
diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della
filoſofia, che quella avea no a vile, e duriſſimo fervaggio miſeramente
condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle
coſe? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi,
Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta
della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj
filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità
degli antichi mnaeſtri, della quale dubitar Еесс PU 380 Ragionamento Ottavo
punto non che farle alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti
a ſomma ſcempiezza recato? Vlti mamente, chi è divoi, che non ſappia, e che non
abbia co’propi occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai
baftevolmente commendata accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli, ſol
perchè era intendiméto di lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo
mortale, alla ſcorta della ſperienza ſolamente, e del ragionevol diſcorſo andar
dictro per iſpiar le cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe
colle dovute lodi tutti i nobili fpi riti, che in tal famoſa aſſemblea
felicemente filoſofar fi vi dero rammentare? Ella ricoveroſſi, come voi ben
ſapete, ſotto la protezion di D. Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena,
ch'ebbe l'animo intefo a vincer la virtù de’luoi maggiori, i quali fur
ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle lettere più eſquiſite; e annoverò
ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele, un Daniello Spinola,un Frá ceſco,
e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci, un Luc' Antonio Porzio, un
D.Michele Gentile, un To maffo Cornelio, e altri, e altri curiofi, e ſagaci
interpreti della natura, che collor fenno, e ftadio,e gloriofe fatiche
generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo, chegià ſtabilito, e
accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e dallautorità che gli avea
data il tempo, alvero, e alla ragione ſovraftar avviſavanſi; huomini vera mente
d’immortal gloria degni, e certamente da commen dare, e da avere in pregio vie
più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero operá, ecominciamento;
conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili
genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe naturali, altro veramente
noh fecero, ſaluo chc fecondare quef rego lamento, per lo quale caminar
fogliono l'arti, e le fcienze, e l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali
cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men buono, al buono,
indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a
queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e
della fatica,ſenza le quali non è da Del Sig.Lionardodi Capoa: 587 è dato agli
huomini acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal
legge delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento,
e corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito
già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo
fortemente ra: dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no
parimente le medeſime fatiche, ſe non maggiori, che durarono que'primi autori,
e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a
baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to
d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare, ſe
non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e
diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole
abbiſognino; ne a ciò fare veruna induſtria, veruno ſtudio, veruna fati ca
reputerò vana, e inutile: imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero, che
a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro, camefelice termine di queſte poche
fatiche, che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai
comincianento,dico, ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai, che s'aveſſe
a rinovellare l'antico, e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a
parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb
be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa,ri pigliare
l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare, Oye poi queſta
non li voleſſe ſeguire, certamente giudicherei il men male, che ſi faceſſer le
chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera grande
ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni, in cui, e'l
tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente gli
ſcolari; sì ve ramente, che poi i maeſtri a quella guila, e con quella li bertà
l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di Platone,
e d'altri antichi trattar ſolea. E co me a ſuo eſemplo fecero poi delle ſue
mcdefime Tcofraſto, Ermia, Filopono, caltri, e altri ſuoi più nobili ſeguacije
Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori, cioè a dir, ch'egli s'aveſſe
minutamente a cri vellare ogni fuo detto, diſaininar a fpiluzzico ogni ſua ra
gione, econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza, ch'egli
aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura; e ficomene'miſterjdalla Divina
eterna fapienza, che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già
rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare; così nelle dottrine in. fegnatene
da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in
ſu l'avviſo,ed aprir, come fuol dir fi, mille occhi, e mille, per veder ſe ciò,che
egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio, e immenſo volun
medell'Vniverfo. Ma perchè chiaro appaja, e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani
quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele,ne daremo
ora, comechè breve, qualche faggio; e primieramente in que ſentimenti, che da
criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno
Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini: ne di noi punto fi
brighi, ne con noi voglia, o poſſa uſare in alcunaguiſa, ne in ſonno, ne in
vegghia: e ch'egli non ſia colui, ond'ogni bene avvenga. Che la per
fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda, ſen za alcun godimento
nellaltra poterfi ſperare. Che la det ta beatitudine nella fola virtù non
confifta: ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna: dipartendoſi dal parcr
del ſuo Macſtro Platone (cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove
diſſe, cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che
buona ſia l'é pia legge di Minoffe,il quale volca, chelecito foffe il pec car
cótra a natura, acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero
de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza: burlandoſi di Simonide,
che detto avea effer Dio folamente il ſapiente; e ftizzandoſi contro Platone,
ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile, e bazzeſca. Che igio, vani debbano
fraftornarhi, comcincapaci, dalle morali dio fcipline. Che la modeſtia non fia
virtù: nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric, la
povertà, gli 1 efilj, DelSig.Lionarda di Capoa. 189 efilj, la morte, o altri
infortunj: le quali coſe, come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che
fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi
ftocle l'eſilio, Socrate la morte. Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro
all'eters nità del mondo,tante, e tante volte da lui ridetto, e pro varo,
facendo contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla
natura del grande Iddio, il qua le ſcioccamente egli chiama (wor, cioè a dire
animale. E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza, ela providenza, elas libertà
dell'operare empiamente toglie; oltre a ciò non potendo talor la fuafolle, e
pertinace miſcredenza celare, apertamente dice eſſere la religione un politico
ritrovato da tener a freno le genti, e che la dignità del Sacerdozio debba
compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no alle pene, e premj, che
dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi fatte fono: E che direm’anche
dello in ferno, il qual egli dice effer certamente novella da vegliar de;
morendocon noi l'anime ancora, ne altra coſa di noi reſtando dopo morte, fe non
ſe il freddo cadavero, ſenza, fentimento niuno? e tali alla per finc Ariſtotele
ne trattadig come Se fate foſſim’anime di ferpi. Ma non verrei mai a fine, ſe
tutte quì diſtintamente re car lo voleſſi le fue empie, e peſtilenzioſe
doctrine, dalle quali contaminato il miſcredente Arabo chioſacore in's prima; e
poi altristolſero l'occaſione di comporre, e di co pilare quell'infame
libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci apertamente fi pare con qualita
ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano: Deum non colit, nec curat omninò
Ari Hoteles: e prima di lui il grande Origene nel libro, cli’ei ſcriſſe cótro
Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote le piggiore aſſai d'Epicuro; e
dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e ſcelleratezze inAriſtotele,e la
peripateti ci ſcuola tutta ne taccia; e'l beato Serafino da Fermo, e S.
Vincenzo Ferreri abboininando, e maladicendo la dottri na d'Ariſtotele, e
quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dare i4 590 Ragionamento Ottaud
dareeffer quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane, unde
facte furtamare, ficut abfynthium; per chè anche la venerabile ſua ordine avca
ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele. E ben ſi
paa re, cometeſtimoniano Laerzio Diogene, Ammonio, Cle mente d’Aleſſandria, e
altri, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per
ordinazione di quel Diavolo, che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya
le riſpo Ite in Delfo;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia,
che dottrine d'Ariſtotele: Arriana berefis argumentationum rivos, de
Ariſtotelæo forte mutuatur: fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum
Chri Si generationem putant ufufaculialligandam, relinquunt Apoftolum,
fequuntur Ariſtotelem, E S. Baſilio il magno ſchermendo, e vituperando
oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli
d'abbat tere, e diſtruggere Criſto; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice:
deh laſcia forſennato il malvagio, e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io
c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura
dell'anima: è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni.
Or ſe nelle coſe, che abbiam noi di certo, come loni quelle della noſtra ſanta
Fede, così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò; certamente dovremmo noi anche
nell'al tre tenerlo ſoſpetto, e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi
dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe, dalle
quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi
falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli
ap. poggia, o tutta, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè
l'eternità della materia, del movimento, del mon do, delle intelligenze: la
neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui: e altri, e altri
ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe
d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur
la Ipe 1 ricn DelSig. Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a
noile dimoſtra, che nulla più èda dubitarne? O forſe negando noi fede agli
occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti, e le dimo ſtranze, crederem
noi oſtinatamente ad Ariſtotele, e non ne prenderem pure faggio da altri più
avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere
fpe rimentato tutt'altro di ciò, cheAriſtotele nefcrive: Adun que perchè
credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere,
quando contro l'avviſo d'A: riftotele, Franceſco Pico della Mirandola, il
Campanella, il Gaſſendi, il Blancani, ed altri molti maggiore affai l'of
ſervarono? Anzi Io l'ho purriguardato, che non ſol mag giore, del mezzo cerchio
apparir foglia, ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto, e intero, dove il
Sol fia alto, e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco
celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole
aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia: anzi
le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da
Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe
pur più ſovente apparere, che non Polervòcolui in due fole volte per lo
lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem
po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo;
non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle, mentre la fua
donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava. Ma degli errori d'A
riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio, il Campanella,
ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e
convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata
bilancia in andar ſu le coſe leggiere, e giù le gravi? E la fciando per ora ad
Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men
che la gravezza me delima, qualità delle coſe: e come poi per ſua dappocag gine
lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente
della ſua fciocchilimatracotanza il non 592 Ragionamento Ottavi -- -- non
volere far pruova di ciò, che ſogna, che una pietra di mille libre fcenda mille
volte più preſto, ch'un altra d'una libra; potendo con durar poca fatica,ravviſare,
che que due mobili, tutto che tanto diſuguali di peſo, diſcendano però eguali
in velocità. E chedirem noi intorno aciò, che Ariſtotele vaneggia do ne vuol
dare a divedere delle coſe, che poſte in acqua, o ſcendano giù, o galleggino? e
come egli tratto dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare, vuol,che peropera
della larghezza, o ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla
coſe più gravi aſſai dell'acqua medeſima, non riguardando egli punto alle vere
cagioni, che in ciò con venir poſſano. Intorno alla qualcoſa così ſmentito, eri
creduto ne fu egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei, che nutta più ne ſarebbe il
favellarne. Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre. ſe il noſtro
Ariſtotele eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo,che di ſopra
li ſieno? Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color,che non veggon
pur l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati, e bambi ſi
ſon laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj, e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti,e
troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano,
ch'egli ſia infallibile verità: quum hoc, dice Giulio Ceſare dalla Scala, pro
comperto,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco
Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere, e di non ordinario avvedimento così
operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero, ritrovando alla
per fine il contrario, ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum, nec itineris
tantillum navis confi ceret, nullo Spirante vento experiri libuit, vafe
cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit, funi longiffimo alligato, quem
nautæ fcandalium vocant, & altero leviore funiculo operculo accommodato,
ita ut attractus illud aperire poſſet. Itaques manibus propriis utrumquefunem
in mare demifimus: vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum,
ſcili DelSig. Lionardodi Capoa 593 fcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere,
minorem funem traxi, operculum referavi. Extraximus opertum mari ple. num,
falfo, amaroque, baud majorefalfedine, vel minore quàmquod in ſuperficie
pofitum vafe alio guftabamuscompa rando. Ma finalmēte intorno a ciò n'ha
rimoſſa ogni dub biezza il chiariſſimo Boile, il qual dice, che non ſolo i tuf
fatori moderni inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare
ſalſa, non men, che quella diſopra; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida
ritrovato no una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale, e ſe ne ſervirono a
lor agio per condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto
dell'acqua ſalſa è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore,
intorno al vino; affermando con franchezza grande, che i vapori del vino ſi
vengano a cambiare in acqua toſto che ſi riſtringano. Ne men groffa di queſta è
quell'altra ridevol balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al
rame; la qual parimente nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l
ramenon ſi poſſa per coſa del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi
pure quanto male a lor huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E
che direm noi intorno a’mari, i quali dice Ariſtotele eſſer molti, e molti, che
non ſi congiungano inſieme, trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il
ſuo avviſe, p piccioliſſime focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra
ancora egli, e follemente giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei;
e nel Parapamiffo l.2 lor prima fő te avere il Battro, el Coaſpe, e l'Indo, e
l’Araſle, cche da queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte
manifeſtamente falle, e impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno
tanto quãto di ciò intendente, che'l Coal pe per la Perſia diſcorra, e di la
dalla Perſia il Battro allin Battriana Provincia dea nome, e l'Indo naſca
nell'Indiwi perchè non è da credere, che fiumi diſcorrenti in Provin cie
cotanto infra fé lontane, e rimoſſe, in un modelimo luogo tutti, e da una
medeſiına fonte ſorgano; c'l Tanai ſa ben ciaſcuno, che naſca ne'inonti Rifci.
Ma di più dice Ffff Ari 594 Ragionamento Ottavo 1 Ariſtotele, che nella Liguria
un fiume grandiflimo; e non minor del Po s'inghiotta tutto, e fi divori dalla
terra, e quindi dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove. Ma in corno al primo
naſcimento de'fiumitutti,egli molto ſcioc camente parlando dice, che ciaſcun fi
formi, es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo
a viva forza riſtretto, e condenſo, e diſtillante continuo in acqua nelle
naſcoſe caverne, e nelle picciole buche della terra; e quindi poi fa che
prendano perpetuo movimento con una cotal gravezza, la quale perrocce, e per
burrati, eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere, eca dere La fa
inquieta, inftabile, e vagante. Nel qual modo follemente filoſofando fa egli
nafcer non folamente piccioli fiumicelli, e fonti, e poveri rivi, ma no ne ferba
anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca,
e da ridere, ben può comprenderlo chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen
za ch’lo più ne dica. Eche direm noi di quella così ſmiſu. sata, e incredibile
altezza del monte Caucaſos Baja, ch'avanza inver quante novelle, Quante mai
differ favole, ecarote Stando alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando
delle cime di quello dice, che fino alla terza parte della notte ſian dalfole
illuminate; che fatta ne la ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo
Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni, farebbe il monte dal tezza almen di
ſettant'otto miglia noſtre Italiane per linea perpendicolare; c quì non può non
gridar eoli: papa in quos aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc
Ariſtotelis dictum Mathematici; putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum
ego dico eum ſequutum effe famam. La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente
debba fcagio nare, o tacciare il noſtro veritiero, e accortiſſimo Filoſofo. Ma
d'altra parte Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico, cercando a biftento di
menomar cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia
cinquantadue; qua DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen, ſoggiugne poi,
adhuo omnem veritatem nimium exfuperat; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del
Mazzonifa piertiores judicent, dice, num recte philofophus, cujus eſiree
condita, &abditadocere, excufetur,fedicatur eum popula. rem famamfequutum
effe. Ma fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per
vere, non meno errar ſuole egli talora in rifiu. tar come mentite, e falſe
quelle, che manifeftamente ſon vere. Così egli nega efſer il vero ciò che cutto
dà ſperimé €2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente in quel
miſerabil luogo, in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di
natura vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra
feconda,almopaeſe; Hor acque for bituminofe, e calde, E fteril lago, e quanto
ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria, egrave il lezzo fpira. Di quel
fetidohumorgiammainon beve L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non
armento:e cofa greve, (Benchefia gravepur, qual ferro;of affo,) Sornuota quaſi
abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole
egli è Ariſtotele a negare, e ad affermare a fuo talento tutto ciò, ch'e' vuole,
fenza aver riguardo niuno alla verità. E volle Ariſtotele anche oſtinaramente
contendere, e negare contro l'avviſo di molti valent'huo mini, fotto la torrida
Zona la terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della Galaſſia, o vogliam dire
cerchio di lat te, il quale fecondo Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate
nella region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le baſſe valli, e dagli alci
monti vi manda continuo la cerra; errore così grande, che anche i più cari
ſeguaci di lui ſe n'avvidero, e apertamente ne'l ripigliarono; in torno alla
qual coſa, ſon veramente degne da notar quel le parole d'Olimpiodoro
avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596 Ragionamento Ottava
quali egli comincia a chioſar quel luogo: il Reo (dic' egli, fervendoſi del
volgar detto ) è di miglior condizione dell attore; concioffiecoſachè allegando
tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia, ſolamente Ariſtotele
portando falſa opinione, nell'aria ła pone; perchè il Campanella eb be a
dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur, nifi ftul si quidam:fra' quali non
vergognoſli di porre il ſuo nome CeſareCremonini:mathematica,et rationis
expertes;e Aver roe, il quale così a capital tiene la reverenda autorità del
ſuo caro Ariſtotele, che tranguggiar volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e
ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun
inodo inghiottire. Ma che direbbono a’giorni noſtri il Cremonini, e gli altri
oſtinati fuoi ſeguaci, fe mercè del Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole
ſtellucce, ch’ammucchiare inſieme, e riſtrette laſsù formano la Galaſſia, edi
quà ne fembrano per la lor picciolezza una confufa liſta appena di mal di
ſtinto ſplendore; il chefenza conſiglio del Teleſcopio be conobbe il
fottiliſſimo Democrito, allor che, come Plu tarco, e Macrobio teſtimoniano,difſe
eſfer la faſcia del latte non altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella
parte tan to picciole,e non vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza,
non già perchè allumate non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra,
come falſamyente ne vuol dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito, per
avval lare il buon nome di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore.
Ma chi non fa quanto egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al
luogo, e alla generazion delle stelle comete, e quanto fanciulleſcamente e'ne
diviſi; e già n'è prie troppo a ciaſcun manifefta la verità, avendone sì ben fa
vellato il noſtro Ipparco (che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato
Ticone ) e l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e
filoſofanti, i quali n’hā così dimentito, e ricreduto Ariſtotele, chenulla più.
E che direm noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo, intorno
alla natura del ſole, e dell'altre ſtelle? E che direm Del Sig.Lionardo di
Capaa 597 direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi farò
ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele
poſta ritonda, pure ſpagato, dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo
Settentrione, alquanto più rilevata, e alta filia. Nedi ciò anche contento,
ne’li bri medeſimi delle meteore, come ſe caduto gli foffe della memoria, ciò,
che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra, non già
ritonda,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo,o di cilindro, o dirottame di
colom na: ftando ella, ſon ſue parole, non altrimenti,che tamburo;
perciocchètale è lafigura della terra: equantunque ſi paja ch'eifavelli della
terra abitabile, di queſta anche aveans favellato gli antichi filoſofi, i quali
egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che ſia di ciò, falfo pariméte
ſi è, la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo; ondeebbe a di re il Tallo,
comechè peripatetico e' fi foffe: Tal che nonſembra l'habitata terra Timpano
più,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color,chefanno. Ma delle
contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele,i que. li quafi in ogni carta delle ſue
opere s’incontrano, lun gofarebbe ora a dire; le quali così manifeſte, e così
ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono, chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle. E
conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di
fcoprirgliele, tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne. Solamente non vo
lafciar di trarne a noſtro concio, cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar
volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo, che il luo maeſtro Platone,
e Socrate ſi aveſſer già fatto; e feco dochè più in concio gli rendevali
ſerviva delle opinioni al trui; e quelle, e queſte, or abbracciando, or
rifiutan do a ſuo talento, non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni
dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo. E certa mente lo direi co'l
dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora, che
dir ſi poſſono propia mente ſue, eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti
degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo
1 2 4. 4 capiti, e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere
manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de
multis, magnis infinitorum authorum; & operum vigiliis; recognita nufquam
funt. E piaceſſe pureal Cielo, ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati
libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne
ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare, con quanta ragione detto
aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida, eſſer Ariſtotele ditardo, ed ottuſo in
tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες,είναι αυτονευσχερή,θρα συν,
πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον
αποκεκλεικόG, και στις πασαν αυλήν, και σκηνήν έμπισηδηκόα. Timeo diſse
contr’Ariftotele, efser lui impronto, orgoglioſo, rintuzzato d'intendimēto,eda
ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti, e
per ogni ſcena pro verbiava; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul
la inteſo di sì fatte faccende dice, in favellando di Timeo, falfifima enim
omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar
alcun luogo alle conghiet ture, più balordo, e ſciocco eſſer veramente ſtaro di
quel, chc Timco, ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele;perciocchèegli
ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor, ch'e'vi
logo raffe,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più
minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto
ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele, e
malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo. E ritor: nando
ora a ciò, che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele
cerca talora di contraſtare, ed abbattere gli altrui veri ſentimenti:
maraviglioſo certa mente, e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli
dice del ragnolo: ed è,che avendo già detto in prima De mocrito, che le
ſottiliſſime fila, onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole
maraviglioſamente le fuc tele, egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo
fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere;levofli incótanente fuſo
3 4 DelSig.Lionardo di Capoa. 199 ر fuſo Ariſtotele, e opponendoli
orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe, che Democrito in ciò manifeftamente
fal lava, e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo, a
guiſa di corteccia, o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia; o
non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice: ου διμύανται δ ' αφιέναι
οι αράχναι το αράχνιον, ευθύς γεννώμενον, ουδ' έσωθεν, ως αν περιθωμα, καθάπερ
φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or
ai uspiges: cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le fila,non già
dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente immagina
Democrito, madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli animali,
che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può ſenza
maraviglia coſiderare la traſcu raggine,e lentezza de’poco curioſi
peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto,confarne pruova han
cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di
Democrico;ilquale tutto il corſo del la ſua vita, che fu affai ben lungo, in
far eſperienze avea logorato; e tanto più degni di biafimo ſi rendono, quanto
che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno, e avvedimen to, o fatica per
venirne a capo: che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli
ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno, allor, che ne’lor piccioli abituri veggono
fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma
fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza
ad Ariſtotele.E nel vero, chi mai ſoſpettar avrebbe potuto, eſſere ſtato
Ariſtotele così fciocco, e ardimentoſo nel ſuo lcrivere, che manifeſtame te
aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima
ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova
co’propi occhj. la ſua ragio ne; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli
era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o
dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più
conoſciute belve; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia
veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud; filare;pchèvalſe
tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per
avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e
cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro
pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe
Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto: acceptomanu bacillo Araneum
quendam:dia ce il Blancani: ex iis, quicirculares telas, quas nonnulli, &
quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt,fic
adii, ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet; dum ipſe
interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras
ederet: cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo
demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret: cum primum
obferuo ipſum inverſum, hoc eſt capice deorſum, ventre ſurſum pendere; ut autem
acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui, ne pre nimia luce tenuiffi mum
aranei filum aciem oculorum effugeret; quo facto cla riſfimè videbam filum
ſeceſſu Aranei prodire. Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente
ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio; mane a Plinio, ne al Blancani volle pre ítar
credenza il Vosſio padre: così poco acconcio egli eb be l'intendimento a
diviſar delle cole della natura. Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non
tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro
Ariſto tele vanamente anco s'aggiri, dicendo partorire i ragnoli cotali
vermicelli vivi, e non già le uova, come alcuni im maginano; ma quanto ciò ſia
dalvero lontano, dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che
per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe, non avea mai veder po tuto
ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce. re i piccioli
ragnolini; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al
Canclo in dicendo efferli ingannati coloro, tra'quali fu Erodoto, che diceano
il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo,
comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben
conoſciuti aniinali ſcioc chinen DelSig.Lionardo di Capca. 661 ) و: camente
Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre
contrade, e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane, e incredibili
novelle, e più affai, che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da
Cero taldo? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune
nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole,
cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili, e poche quelle ſiano, che
par,che af fatto eglinon ne aveſſe; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil
fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia, non pure per Ateneo, che forte ne
’ ripiglia, ne ſi fa chiaro;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato
dal chiarif fimo Borricchio; il quale aperti due gran lioni in Afnias, reggia
di Danimarca,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di
midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un
Lione del Signor D.Tiberio Carrafa, Principe di Biſignano: il quale fu tro vato
parimente pieno di midolle; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano
accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo
Stazio,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe
famem, sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran
Lodovico Arioſto, quando fa egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma
d'Atlante, all'effeminato Ruggicri così dica: Dimidolle già d'Orſi, e di Lioni
Ti porſi.io dunque li primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i
Lioni; il che an che credendo ad Ariſtotele il Mazzoni, ricorre per difen der
l'Arioſto, giuſta il ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a
ſottigliezze così vane, e puerili, ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle
altrove ſofiſtiche, e cavillo fe: Ma non meno ſciocco è quell'altro crror
d'Ariſtotele, diccndo egli aver i Lioni così dure, e falde l'offa, che fre
gandoſi inſieme, agevolmente ſe ne tragga il fuoco; non altri oli 12 ull Do le
Gggg 602 Ragionamento Ottavo altrimenti, che avvenir loglia nella pictra focaja.
Ma ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia, i
quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro, non però di meno per
diligenza, chevi fi adoperaffe, non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla
di fuoco;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero,non ne dovea però cavare Aria ftotele
per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa; concioſliecofachè anco
in fregandoſi due tron molto dure, e pieghevoli canne d'India, o due molliflimc
ferole, o altri simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian
talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono
accender in niuna maniera il fuoco. Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla
del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte, e partite, ficome
tutt'altri animali le hanno, e poi per opera de’nodi con giunte; ma tutte
intere, e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte, che in niun modo ſi poffan
piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed
apertame. te lo convinſe di bugiardo, il Borricchio; dicendo, per ve duta
fermamente di que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis
pulcherrimè diſtincta erant. Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del
Lione di ſconcio, e ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi, dice egli, che i
cani fiutar fogliono gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia
una delle coſce al pedal dell'al bero, quando e' vuole ſtallare; c più appreffo
ſoggiugne: e lafcia il Lionegrave, e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi,
ch'egli divorar ſuole; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato,
che il Lione fpira; percioc che, come e narra, le interiora oltremodo putono al
Lio ne. Coſa, la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ
Lione aperto, o teſtè occiſo,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre
novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò,
che: Ariſtotele fognò del Camclo; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá
gobbo;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella
eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia
formata da'peli; c ciò, che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte
ſangue, ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l
principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti
dietro al Coccodrillo alle Aqui le, e ad altri molti animali, che
manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono;e tuttavia
da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas
ventura del noſtro ſecolo; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli
affennati, e diligenti ſcrittori, i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli
intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono; ed
Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio
Cicerone, incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della
natura degli animali; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e
ſcimunito, ben è da credere, che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že
n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per
Ariſtotcle: c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali
animalida lui ben conoſciu ti; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche.
Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a
dire; con qual cura, ö diligenza, potè mai egligiugnere a fapere, che coſa fi
facciano i peſci nel ma re, come dormano, e qual ſia il lor vitto,o qual Proteo,
o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua. gliargliene. Come
gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche; ove mai
potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio; e dopo aver narrato queſte, e
cent'altre novelluzze da ridere, e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori,
dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali, riſtucco alla per fine di
più annoverarne, trala fcio 1o, dic'egli, di narrar molte coſe,e multe,nelle
quali ma nifeftamente lo fpeziale, cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente
delirato. Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali, Io porto fermislima
opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni, e che buccinavaſigià (ficome
riferiſce Gggg 2 Arc 604 Ragionamento Ottavo. Atenco) nella ſua patria Stagira;
cioè, ch'egli avuto aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro,
per po refla più acconciamente fornire ottocento talenti, che ſo condo la
ragion del dottisſimo Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila
ſcudi de’noftri tempi: e che per una sì glorioſa, e mirabil opera gli foſſer
deſtinati, co me narra Plinio:aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque
tractu parere juffa,omnium,quos venatus,piſcatuſque slebant,quibufque vivaria,
armenta, piſcine, aviaria in cura erant, ne quid ufquam gentium ignoraretur ab
ea quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n
queſto parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto
fatto; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le
greche an tichità, dice, che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro, ma da
Filippo ad Ariſtotele foſſe ſtata donata. Co fazla quale affatto inverifimil ſi
pare; conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre, ch'e' fece in
Grecia, e perle grandi impreſe, ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima
Monarchia Perſiana, gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di
ſpendergli,e ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj, in uccellami, in cacciagioni,
o ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi,priina d'incominciar la guerra contro Dario,
ad altro certamente dovette badar, ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri; fcozachè
non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta; manel tempo
della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli
ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele, che
per fargli onta, e diſpetto,mnādò Am baſciadori, e doni a Senocrate ſucceſſor
di Platone, e fie ro emulo d'Ariftotele. E dirò ancora, che ſe mai Ariſto tele
ebbe parte ne’teſorid Aleffudro, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico,
che in acquiſtar notizia, e contez za delle coſe della natura. Neglimancò agio
da farlozim perocchè egli era, come ne da teſtimonianza Tineo:760578
γαςείμαργον, έψαρτυτήν, επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito, e
divorator delle più ghiotte vivande, ne fi ritene va di DelSig. Lionardo di
Capoa gos va difvögliarſi di qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel
pizzicore, per cuii giovani male il loro avere ſpé, dendo, le più fiate
miſeramente ne capitano; e tinto s'in veſchiò nella pania, che per amor venne
in furore, e matto; e come narra Laerzio,sì fortemente innamoroſli della con
cubina d'Ermia, che a leicosì immolò, come a Cerere Eleuſina folean già fare
gli Atenieſi; e per tali cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine
riduſſeli vergo, gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni: poi tolſe a fare il
foldato,ove ne meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di
ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in
prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure tutte del corpo; e con fimili ſtiti.
chezze s’avvisò di dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella
prodigalità, con cui difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio. Io adunque
mi fo a cres dere, ch'egli non nai vedefle notomie di morti, non ches di vivi
animali; e che folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò, che ne’libri degli
antichi fconciaméte forſe appre lo n'aveva, o immaginato. Perchèpoi così alla
rimpazza ta confonde, é meſcola il tutto, ragionando de' nervi, es delle vene,
cheben'a lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis
appingit,fluctibus apram. Così cgli follemente immagina naſcer i nervi,e le
venej tutte dalcuore; il qual dice ſolamente eſſer quello, onde il ſenſo, ei
movimenti negli animali fi facciano; ne ad al tro fervire il cervello, fuor
folamente, che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore. E
ſomiglianti altre balordaggini, e fcipitezze narra: anzi maggiori affaiz in
ſomma intorno alla fabbrica, diſpoſizione, ed ufici del le parti del corpo
umano tanti,e tanti falli commiſe,che ben potè dir Ateneo: coſe tali ſcriffe
Ariftotele, parlando della ſtoria degli animali, 'che come dice il Comico,
daglá ufcempiati,e pecoroni quaſi a fravaganza,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben
fi parc, che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente, anzi che
no, allor che diſſe po + 1 CO Aria 806 Ragionamento Ottavo 1 1 4 co Ariſtotele
conotcerti di notomia. E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali,
ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe, ſolamen
te que’pochi ſe ne leggono, che il tempone laſciò; per ciocchè maggiori cagioni
di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim,dice ſaggiamente il
Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex
tarent, effent fortaſſis innumerabilia. E queſte adunque só ic gran pruove
dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante
ſpeſe, del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que
Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare? Ma
ſenza venir tinto buccinato, fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non
dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato,non dirò Erofilo,non dirò altri antichi, ma
un folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli, sì chemeritevolmente,
e ne ſtupiſce l'aman ſa pere, e l'amira il preſente ſecolo, el celebrerà il
futuro, Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura, cu gencralınére
in tutta la filoſofia naturale? Eglicosì ſciocco, e gocciolonc fu Ariſtotele,
che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi
ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono. E per nulla dir de' Greci; o d'
Avicenna, d’Algazele, e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico
per Dio fu così teſo, e oſtinato,che talor da lui apertamente non fi partiſſe?
cper tacer d'altri, ilBeato Alberto, lume della Criſtiana ſapienza, e della
venerabile Ordine de'Domenicani, avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate, niuna
delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla
per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam, fed
juxta pofitiones peripateticorum; & ideo illos laudet, velre prehendat, non
me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto
Pereira della Compagnia di Giesù, il quale in quel ſuo libro de rerum
naturaliums, principiis, dopoaver largamente conſiderati i poco fermi
argomenti, c fillogiſmi, con cui le coſe dubbic, e incertes. fievo Del
Sig.Lionarda diCapaa. 607 fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural
filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium, quam nobis fcriptam reliquit
Ariſtoteles, fi quis velitbeneſentire, propriè loqui, nous poteft dici abfolutè,din
totum ſcientia; perciocchè riguar dando alle fondamenta di quella, e
ravviſandole,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c naturali ragioni
raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo eſſer quelle
ſolamente dialettiche: ragionevolmente poi e': ne tragge, e conchiude alla
fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars, pars autem topica tantum
probabilia.. contineat, non poteft dici abfolutè, & in totum fcientia. Ma
acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa, quanto inu tile, quanto vana, quáto
priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia d'Ariſtotele, conviene
innanzi tratto da più alto principio imprender la cola. Dico adunque, che per
due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla ſublime altezza della
natural filoſofia pervenire; una, ches quantunque falli, è nondimeno agevole, e
piana, echiun que per quella prende il camino, non fida cura veruna di
cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē. preinai fe ne ſta fu
l'univerſalità de'termini, e de' vocaboli, quali a ragionar di tutte apparenze
della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi poſſono; e comechèſembri, che
tutto dicano, che tutto ſpianino:impertanto, altro non ſo no veramente
eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non altrimenti che ſi faceffero
un tempo, ſe'l ver dice l' Arioſto, que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel
palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e
poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità; ma l'altra ſtrada,
quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è più nobile, e più
gloriofa. Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del
le coſc, ei ſavj interpetridella natura; i quali diſcorrendo regolatamente, ed
offervando con diligenza, guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo
queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da
queſto diritto ſenticro, ed a tenere la falfa ſtrada;o che ſe'l 608
Ragionamento Ottavo fe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar
fiatica,o p vana ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo,
che eſſer ſeguaci degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare. E
fu tanta certamente loro ſchiera, e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell'
arin go del buono filoſofare; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon, perchè rara
è vera gloria: i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie, che noi
rabbiamo comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle, Leucippo, cd altri
pochi, Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire
quel ſatirico: Rari philofophi: numerus vix efttotidem,quod Thebarum porta, vel
divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto
col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro
) etatem inter experimenta con fumpfit; e con principj veramente naturali, cioè
a dir ſenli bili,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla
natura appartener fi poffe, che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo
detto antiquorum omnium fubtilif fimum,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a
chiamar l'ebbe lingua della natura; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e
diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia, e per invidia
volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui; poſe in non
calere co tal vero, e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della
natura, e con univerſali, c apparenti ragioni avvilup pò il cutto. La qual
maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe, fu poi ſeguita,e
abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia;
ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo
avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia, e la fece di nuovo
fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti, ove rinaſcendo viffe, e morio. Perchè non ebbe
il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di
quei tempi un vano berlingare, e cinguettar dives Del Sig.Lionardodi Capoa. 609
di vegliardi ozioſi, e ſcioperati, a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora
faggiamente ebbe a dire, che gli antichi aveſſero nelle coſe filoſofato,ei
moderni ſolamente in pa role. Qualdunquefia maraviglia, ſe così mal concia,
malmenata la filoſofia, non potea vantaggiarli nella Grecia. Perchè
ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci eran
ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ', gépur di enlew oux iso,
certè ha bent, dice Franceſco Baccone, id quod puerorum eft, ut ad garriendum
prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta, e ſpenta la buona
filoſofia, poco a capi tal tenendoſi i libri diquella, nc punto per huom
riſerban doſi, o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo con
comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono; rimanendo ſolamente
que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto, e corrotto ſecolo erano in
pregio; ne? quali poteſe ben paſcerfi,e nutricar l'ambizioſa vanità de Greci.
Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari
nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri,
che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco
Bacconc, doctrina humana velut naufragium per. pefa eft; & philofophia
Ariftotelis, o Platonis tanquam, tabula ex materia leviori, minus ſolida per
fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come,
dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come
altra volta fu detto alle noſtre contrade; e queſta è quella filoſofia,che infino
a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita, e tuttavia nelle Icuole
comunemente s'inſegna: e a cui dicevam, che già poneſſe le prime fondamenta
Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero, e diritto modo difiloſofare:
percioc chè difficil molto, e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo, lalciofſi
talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di meno non
laſciò talvolta il vero modo di filoſofare; comeagevolmente egli ravviſar fi
puote ne'ſuoi Dialoghi, e malimamente in quello, ch'egli intitola il Ti Hhhh..
meo, 610 Ragionamento Ottavo meo, o della natura. Perchè ben ſi pare, ch'egli
ſaggia mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero, per cui
già Democrito, e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della
filoſofia avviatiſi erano;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo
felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi.
Πλάτων μεν, fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως
υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης, αλλα της ή στοιχείων πώςδε
σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων, ουδεν·έτι, ουδε. περι αλοιώσεως,
ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα
έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν, έξω Δημα reíte;cioè Platone cöfiderò la
fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli
elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare, come formifla carne, el'offa, e gli
altrifo miglianti corpi; ne demutamenti, o come s'accreſcano,o pig giorino
cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno, fe non ſe alla rimpazzata,e
lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora.Ecomechè
que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë
all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto, e falfſſimo appo ſtamento, e
maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così fattamente
ragionare; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue ope re
baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre, de'venti, delle
gragnuole, de’nuvoli,del criſtallo, della neve, della rugiada,delvino,
dell'olio, e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli
odoris e de'colori delle coſe, e detto altresì de’mutamenti e degli
accreſcimenti di quelle; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta
della carne, e dell’oſsa, ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro
innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con
que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe;
perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero, che ſi
conveniva; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente. E queſto
è quel, che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella
dife. DASig. Lionardo di Capoa OIT difeſa del ſuo Platone. Ma fu egli anche
Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o accozzar que fuoi
primi corpi, pereffer valevoli a produrre negli organi de' noftriſentimenti gli
odori, e i ſapori, e i colori delle coſe; perchè ragionevolmente ſoggiugne
Ariſtotele, niun maeſtro in filoſofia, fuor ſolamente Democrito, aver ad dentro
ſpiato fino agli ultimi fondi i principj delle coſe. E ciò agevolmente fi può
comprendere dallemedeſime paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice:
To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ διατρήσας καθαρgν, και λείαν ανεφύρgσε, και
έδευσε μυε λώ, και μετα τούτη άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ
βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις
εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta
guiſa; minuzzădo in prima la terra pura, é netta,meſcolalla, e inu midilla
colle midolla;quindila poſe nel fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo
la poſe nel fuoco;e cosìriponendola molte frate or nel fuoco, or nell'acqua,
sì, e tanto fece, che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a
ingene. rarfi. Or chi domine, non direbbe con Ariſtotele, eſſer que. Ito
filoſofare alla groſſa colle fole parole, ſenza veder più in là, che la ſola
buccia delle coſe perciocchè ſe la terra, come vuol Platone, era pura, e
ſchietta, non era, meſtier certamente di sbriciarla; che ſe i cubi, de' quali,
ſecondo lui, ella è formata, così ammaſſati, e riſtretti ſta vano, che ſegnale
alcun di partiinento non avevano, già quelli veritieramente non eran mica da
dir cubi; e ſeguen temcntc non era dadir terra quella, ma una cotal maſſa, che
tritata, e minuzzata così ſe ne poteva formar terra, come acqua, comeanche
qualunque altra coſa del mondo, ſecondo le particelle,in cui partir ſi poteva.
Perchè me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco, o ac qua per
lavorar quaſi in fucina, temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva.
E ſe i cubi eran partiti, e affacciati nella lor debita figura, che coſa mai
potea cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente
ſi niega; non altra diſcorrente ſoſtanza, e irrego Hhla h 2 lar un 0121
Ragionamento Ottavo Jarmente figurata; imperocchè ne diquattro foli corpiscos
meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo. do; ne la terra pura
farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata. O forſe i già detti cubi poteva
il ſolo moto tener diviſi? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni
banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze, n'occor re queſta, che non già
un corpo ſaldo, ficomeè la terra: main diſcorrente verrebbero a comporre. E
lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo
Placone intorno alla generazion. della carne, e de' nervi;ch'egli narra nel
medeſimo Dialo go del Timeo; il qualccrtamente non è altro, che una va ga, e
ben compoſta diceria; che con vane parole allettan do i ſemplici, e poco
intendenti delle coſe naturali, fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante
Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele
in dir,che il ſuo mae ftro non trapalli più, che la prima buccia delle coſe in
filo fofando, e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della
natura. Di più, dice Ariftotele, e libera mente confeffa, che ſciogliere i
corpi fino alla lor ſuperfi cie, come fa Placone, ſia coſa affatto ſconvenevole;
per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità, altra cofa, ſe non
folamente corpi faldi; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto
dopo ſoggiugne: Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e
convenevol ragione la natura delle coſe. E comechè in parte ingannaſſefi
Ariſtotele in ciò dicendo; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo, come talora il
caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie: non però di meno ha egli per
al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun '
ch’abbia ſenno, ſoverchio alfai, e ſconvene vole quello ſcioglimento de
corpiinfino alla ſuperficie. E noi, le il tempo ce'l concedeffe, ne
ragioneremmo per av, ventura più alfai, e forſe altrove ne diremo; ma non è al
preſente da traſandar, che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente
ſtricolarli, e minuzzarſi in altre fi gure 1 1 Del Sig. LionardodiCapoa 013 1 '
2 gure', come ſi pare,ch'egli in qualche fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia;
vano certamente, e foverchio è a dire, che que'cotali corpicciuoli colle lor
figure, e facce dean cominciamento alle coſe tutte del mondo; e non più tolto
un ſolo corpo, il qual poi in molti corpicciuoli di moka te, e varie figure
partito foſſe. Ma fe pur vogliams contendere, che ne ftritolar, ne partire in
modo niu no que' corpi li poſſano, lo.non fo come quattro cor pi ſolamente a
formar tante, e tante diverſe coſe, che noi ci veggiamo, baſtanti pur ſiano. Ne
meno fo lo certa mente comprendere, come poffan que'quattro corpi cial cun
luogo affatto ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo
fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione, che le piramidi foffer
valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio; nel qual manifefto errore ſmuccian do
poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte
biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani, e prima di lui da Gio: Battiſta de'
Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti
fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone, riſtando in
fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā.
taggio ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta
in mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi, non s'arriſchio
d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare, e folo andò pian
piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe. Ne ciò ba Stando a
renderlo ſicuro da' pericoli, non volendo ne ans che affermare alcuna, comechè
leggeriffima cofa, feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a favellar
diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto, delle coſe del mondo,e for mò
Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle varie
ſcuole della filoſofia. Ma lo ſcal trito, e fagace Ariſtotele all' apparence
filoſofia con ogni sforzo, e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno riyol gendoſi,
cercò artificioſamente la coſa naſcondere: e tanto operò, che venne in grado di
primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo appreſſo il vulgo;ma
qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò. Compofe egli quel
libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle ſole cores aſtratte
impreſe a favellare: e ad eſemplo degli antichi, or di Teologia, or di ſapienza,
or diprima filoſofia altiera mente chiamollo; i quali titoli fur tutti poi da'
ſuoi inter petri nel ſolo titolo della Metafiſica cambiati. Intorno al qual
libro ſarebbe molto da dire;ma chi pur n'è vago di qualche contezza, vegga
Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio, e Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua
libertà,e di ligenza eſaminandolo, trovollo alla fine non eſſer altro, che la
medeſima loica d'Ariſtotele, con diverſe parole, e nuovo ordine travolta: e una
ſconcia, emalcompoſta me ſcolanza, e guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè
manifc ftamente avvedutofene Nicolò da Damaſco, il cui faggio intendimento
iguale a quel di Teofraſto, o d'Ariſtotele medeſimo fureputato, comechèegli
de'parteggianti d'A riſtotele, c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile
af fatto alconoſcimento delle coſe; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco.
Ma che che di ciò ſia, immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro
dato a divedere, ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali,
e ſtratte, per non doverle poi meſcolar colle fi fiche, come avean fatto gli
antichi,i quali perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a
torto, fico mei medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano. Ma poco cer tamente in
ciò approdogli la ſua ſcalterita avvedutezza; perciocchè non è huomo tanto
quanto intendente delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua
natural filoſofia non s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta
apparente, e ideale, ne ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque
oltremodo a no pochi sì fatto modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago
aſsai, e ingegnoſoallas ſembraglia de'giovani; i quali s'avviſavano concotali
va ni, e folli diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto, quando
per avventura non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva,
maravigliando ſom mamen Del Sig.LionardodiCapoa. 818 mamente di cotanti termini
ſtratti, e fantaſtichi, comes nuovi, e non ancor comprehi dagli ſcolari di
baſſo inten dimento, e da dover richieder più profonda, e ſottil dot trina,
checoloro non aveano; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq; Inverfis qua
fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come
ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe
naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera
filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di
vero,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella; ne
come di nuovo naſcano, o yengan meno, ne co me patiſcano, o operino nel mondo.
Al che riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao
gace, pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al
divino Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al
fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to
teneri,.e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono, che reſi talvolta
avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte non
l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore, il Padre
Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle
apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte
Philofophus (dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico, edapprimè ei
arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones: ubi adres phyſicas de
venitur, quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit; ed in un
altro luogo: Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus, quam
phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude: fed fenties in rebusphyſicis
Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui,
che riſtucco forte, e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi, e
rimproveri, rin venendo in lui più, e maggiori tacce affai', che non vi rava
viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616
Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro,che
gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima
maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica, e apparente, prele per
principi delle coſe sé. fibili, e vere, terminitutticonfuli, e generali, e da'
noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare;
mallimamente, ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata, do ver delle coſe
ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj; e ciò cotanto egli giudicò vero,
che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i
principi, onde Ariſtocele vuole, che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi
foſſero, così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare
curci que'fiſici principi, che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an
tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono. E ciò ben ne diedea conoſcere
il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo, allor che
con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati; e provani peripa terici,
fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale. Il qual arti ficio dopo il Digbi,
molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono. Ma laſciando ciò al preſente
ſtare, non iſpie gando mai Ariſtotele ciò, che in fiſica ſia quello, a cuive
ramente poſſa adattarſi quella generale, e confuſa ſua difi zione della materia,
e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene. E nel vero, chemonta per
Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce,
e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi? ed ecco la
gran maraviglia, naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli
con tante bel faggini millantando innalza, chiamandola privazione; più
ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe.
Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe, cioè a
dir materia, e forma, ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta
dell'univerſo va fabbricando? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio, e
ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria
delle coſe cſser po 1 tel tenza, overo
in potenza a divenir tali coſe, e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto,
che dandoalla materia perfe zione, la mandi avanti, e la faccia eſfer
propiamente tale. E queſto è quel, che con tanti riboboli, e aggiramenti, e
lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona. Ma per Dio, ſe non fi fa in
che conſiſta la fiſica natura della mate ria, cioè a dire iti cui cada cal
potenza a divenir quefta, o quell'altra coſa., come potrà mai ſaperſi poi la
fiſica natura della forma, e ciò che abbia afarſi, acciocchè la materia
imprender poffa o queſta, o quell'altra diterminata coro per informarſi? e ſe
queſte pur non ſi fanno, comepotrā. mai ſaperſi le qualità, l'opere, e le
paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano? Se a
giovane, il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli,dopo molte, e molte
vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro: attendi figlio, e nota ben tutte mie
parole, ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da
compor gli oriuoli: egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo
fabbricaſ d'una cotal coſa, che non è mica già oriuolo; perchè ſe oriuolo ella
già foſse, non potrebbe divenir oriuolo;ma agevolmente ella può venir oriuolo
per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente,che udédo
cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato, Goaffe direbbe,
maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io,era qual coſa è quel 12
cotal materia, che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale; e
quali ſono quelle coſe, per le qua lidivien tale; ma non ritraendone alla fin
riſpoſta, fe pri mieramente di faſso, o di legno,o di ferro,od'altro l'oriuol
fi debba comporre; e poi con quai mezzi, e lavorj ſi fac ciz, ſchernito, ed
ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura. Or così appunto ſcherniſce, e
beffil Ariſtotcle. i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi
ſcolari d'Aristotele, ponendo in non cale l'autorità del maeſtro, çome in altre
coſe già fatto aveva, diſse la materia delle natura li coſe eſser vero, c
propiamente corpo; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo,
e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea
Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe, pur non
ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe,
reſtò di farſi più avanti, e l'impreſa in ſu'l buono abbadono. Nemenopotè
ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna; il qual diſſe doverſi
aſſegnare alla materia, comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per
chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò, che dice Ariſtotele intorno alla
materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui, con iſtorcere, e
piegar le fue parole in altri, e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima,
e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do: ſe la materia
d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è, ne: che, ne qualc, ne quanto, ſarà
certamente ella, come S.. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta: cioè a
dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele, che in sì fatta
maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di
natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili; e
pone egli i quattro volgari elemen ti, come ſecondi principj decorpidiquaggiù;
ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de
fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (come avea fatto in
prima Empedoclc, Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi
corpicciuoli) natu ralmente procedendo, la vera eſſenza diquelli; perchè gli va
diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità; maegli poi, come a natural
filoſofo conveniva fare, le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar
briga ſi vuole d'in veſtigarle; ed appenadeſcrive, rozzamente narrando al
cunipochi loro effetti aperti, e manifeſtiad ognuno; ed'in quegli anche talora
sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più; ficomeallor, che francamente
egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie
no; e pur dovea egli avviſare, che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento
all' acqua, chenon le facea calare a fondo, ſepara quelle coſe, che non
convengono nella gra. vità, Del Sig.Lionardo.di Capoa: 619 vità, e.che di
diverſo genere ſono. Così parimente erra Ariſtotele allor chedice, il caldo
fceverar le coſe, che di diverſo genere ſono,, da quelle, che convengono
inſieme nel genere medeſiino; imperocchè uficio del fuoco ſia col fuo
rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre, cut te le coſe,, che ſiano di
qualunque genere, comechè talo ra (il che ingannòAriſtotele )ritrovandoſi
rimoſſo il cal do, non vieri, che le coſe più gravi calando più giù ſi ſepa
rino dalle men gravi. Manon meno fallar {i vede Ariſto tele allor che egli
imprendendo a narrar la natura dell'us mido, definiſce contro
a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del genere; dicendo: ma
l'umido è quello, che dileggieri ricevendol'altrui termini, non può in ſe
ſteſso.contenerſi: uygóv dè, tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or. E no ha
dubbio, che una coral definizione non avvegua al di fcorrente, di cuiegli è
ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica, ſe non ſe
quel.corpo, il quale diſcor re, s'inſinua, e penetra agevolmente, compreſo
cede's e non fa reſiſtenza; perchè non eſſendo da ſe terminato prende
dileggieril'altrui termine. Ma l'umido, oltre a queſto s'avviticchia in sì
fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile; laonde altro.nonè, ſe non che
una ſpecie di diſcorrente. E fe l'umido pure è tale, quale il ci.deſcrive
Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec,.co.il fuoco.con
Ariſtotele, maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio, ed Antonio Perſio
converrebbe chia marſi. Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo
Zabarella, l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco, no già per ſe, eſſendo
il fuoco ſecco per fe, ma per accidente: cioè ricevere agevolméte il fuoco il
termine altrui,non già per la ſiccità: non convenendo il ciò fare a tutti i
corpi fece chi: ma per la tenuità delle parti di quello; anzi contra ſtando la
ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe, avvien, ch'egli non
riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono, il termine altrui. Ma
ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò, che dice il Zabarella, adattandoſi
aſſai più dell'acqua, cdell'aere il Iiii fuo ز 2 620) Ragionamento Ottavo fuoco
a quel termine, che da altri corpi preſcritto'gli vie ne: oltre ad ogn'altro
elemento umido dovrà dirſi il fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i
ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai più dell'acqua, e fominaméte umida l'aria,
perchè ſe la ſomma umidità conviene al fuoco, egli non aurà certamente parte
niuna in quello la ſiccità; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco
mai dirſi. Enel vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui
egli in vece del ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo, il ſecco
eſſer quello, che ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo, c malagevolmente prende
l'altrui termine: Engordà, no evóerson pèr cireiw opw, duodessor dè, egli non
può con venire in modo veruno al fuoco. Or come adunque il Za barella oſa
affermare, che'l fuoco fia per ſe ſecco? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue,
ſarà anche per fe umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele,è
ſpecie dell'u mido, e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue, ma nella tenuità
l'aria, non che gli altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo
confeſſare giuſta la dottrina d'Ariſtotele, per fe,e vie più d'ogn'altro
elemento eſſer umido il fuoco. Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella, e da
Ar cangeloMercenario, che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde, e
come potraſli giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti?
ma ond'è, che il folc, per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non
è altrimenti caldo, comechè produca calore? ſenzachè il fuoco, come afferma
Ariſtotele medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità; come nel ghiaccio,
ne'metalli, einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque
corpo, o pure i più di eſſi,fi poſſono fondere in vetro, chi ardirà di dire,
che'l fuoco non ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe,
o la maggior parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro, non di rebbe
ciaſcheduno, che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro? oltre a
ciò allora quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina, vien dal fuoco
cambiata in aria, certamente quella maggior umidi à, per cui aria l'acqua divie
Del Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco. Ma forſe
ſarà ſecco il fuoco, perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un
barbaro autore, ſi ſente da noi ſecco? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi
ſcorge, che il fuoco ha tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele
attribuito. Ma forſe per fi nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal
ſuo calo re; ma eſſendo propio del calore, comc Ariſtotele dice, il rarificare,
certamente da ciò umido più coſto, che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi.
Dice altri, Ariſtotele non l'umido, ma il diſcorrente aver definito; e che fi
legge umido nelle fue opere, per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina
favella trasla tarono i ſuoi libri; poichè eſſendoſi valuto e’della parola
sygov nella menzionata definizione, che appo iGreci ora ſignificar vuole
qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel, che tra
corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e chehumidum, vien detto da’latini.
Eglino non bene intendendo i ſentimenti d'Ariſtotele, immaginaro no aver fui
l'umido definito;perchè foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele
d'incoſtanza, e di co traddizione; perchè d' talora dica,Pacqua eſfer più umida
dell'aere, e talora affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria
eſſer più umida dell'acqua. Ma quanto poco, anzi nulla rilievi a pro
d'Ariſtotete ciò, che fingono coſtoro, chiarainente ſi conofce; imperocchè
Ariſtotele in coſa appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea
ſervirfi di vocaboli ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua
lingua, il che appena mi ſi laſcia credere, che aveſſe potuto avvenire, eſſendo
ella così ric ca, e copiofa divoci, non gli avrebbon mancati modi, e vie di
chiaramente fpiegare ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle
contraddizioni;impe rocchè, per tacer d'altro, dice egli una volta, che la tera
ra ſi trovi in tutti i miſti, perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più
grandiper lo più nel luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa
ellameſticre a terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici
corpi, che ter mina 622 RagionamentoOttavo minare dileggieri dale poſſonoyn
rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων
τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών
ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole chiaramente fi coglie., che o abbia
Ariſtote. le definir voluto l'umido, o pure il diſcorrente; attribuen-. do egli
all'acqua, come propia dote, e non comunea verun altro elemento il potere
agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte contro quel,ch'altre volte detto
egli avea, viene a determinare l'acqua ſola, eſcludendone l'aria, eller o umida,
o diſcorrente, M,a nella ragione, che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta,
ſi vale ſenzafallo della parola vypov a denotar l'umido; e dice eſſer quello,
il quale ha, forza dicontenere, riſtrignere, e coaglutinare la terra,la quale
ſenza l'acqua verrebbe a diſſiparl.; perchè eſſer:cgli.conchiude, l'acqua
parimente neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti, con queſte parole: én dè ry
Tosningav ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν. άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ
εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla
terra ancora convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele;
nell'opinione del quale ſi pare, che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli
del ſecco rapporta; ma di ciò ad altri laſciando il diviſare, es Jaſciando ad
altri eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè
pochi ch'egli rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente
cogliere la na tura di ciò ch'egli dice freddo, e umido: caldo, e ſecco: e così
poi far anco di que', che chiama lor differenze; accen però ſolamente
ch’Ariſtotele alior che fa parole del tenue, in dicendo, che il tenue compoſto
fia di picciolo parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ
και το μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che
nella guiſa, che detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del
tenue; il che dovea certamente c'fare, anche dell'altre qualità. Ma vediamo ora
come Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento, in
cui non ha dub bio, che conllte cutta la nzural filoſofia. Primieramente cyli
cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal genere,il qualej comprenda l'alterazione,
l'accreſcimento, la diminuzione, la generazione, e’Imovimento, che chiaman
locale. In di diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do
capitolo della fiſica, in cotal guila: rov Suv áués.Övr. ÉVTE. dexaci, ģTovorov,
cioè endelechia di quella coſa, la quale è inpotenza, in quanto ella è tale; ed
altrove: aivos, évtené.. geta toī XIVSTOU, xuvytor, cioè, il movimento egli ſi
è endelechia della coſa, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien
la detta potenza. Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato, e uccellato da:
Ariſtotele?maſſimamente, che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione
più mani feſta, e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè
diceGiovanniMagiro, famoſo peripatetico, eſſere cotal definizione biafimevole',
e vizioſa: atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit. Ma.
Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa, e quaſi divina;
ſpiegandoli, emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la
natura del movimen to. MaCicerone, e Porfirio affermano ', effer quella voce
ŁYTENÉXAtjun vago, e artificioſo ritrovato d'Ariſforele, per uccellar le genti;
e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele, non ſolamente per
ifpiegare il moviinento, ma l'anima ancora, e quella ſua nuova mtura: anzi
ilmedeſimoIddio (coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee'
ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo: Entelechiæ fue
Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele
così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia; e reſti a
quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore, inveſti to in dore il
rcametutto della filoſofia; e che più? 'perdonili anche a lui ', che contro le
regole della dialettica con voci equivocoſe, e oſcure le definizioni formar fi
poſſano:'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto,non
già per perfezione acquiſtata, e compita, mache tuttavia fi vadi acquiſtando,
comepar che e' voglia: o per me”di re, per 1 624 Ragionamento Ottavo 1 re,per
la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente
anch'ella in qualche modo è perfezio ne; perchè meritevolmente è da chiamar con
nome di at to della coſa, comechè imperfetto; la qual li è in poten za a
mandarſi all'atto perfetto, cioè a dir alla forma, in quanto alla materia la
coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella effettualmente imprenderla. Or
dove eglino ſono, dove conſiſtono quelle tante, e sì ſtrane maraviglie,
millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic promiffor hiatu? Parturient
montes, naſcetur ridiculus mus. Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la
coſa, l'eſemplo dei rame, il quale comechè poffa divenire ſtatua, nondiincno
quel movimento, col quale egli poi vienead acquiſtar la perfezione, e la forma
di {tatua, non appartic ne punto al rame, in quanto, ch'egli è rame, ina folame
te in quanto egli può divenire, o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν
ου γαρ το αυτό το χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς,
και κατα τον λόγον, ω αν και του χαλκού, και ganzes, ÉV TERÉNHO, xívyos, Mache
montano alla filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole, echiè per Dio, cheno
ravviſi,e non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco, la
ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi
ciò mai ardà a negare? Ma dell'atto, e della potenza, non ſolamente ſervir ſi
voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento; anzi in
molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che
ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire: Magnos mehercule
Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe, actus potentiave diſtinctioni gratias
debet;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat; il che
parimente venne avviſato da Antonio Perfio. E nel vero Ariſtotele ſpelle volte
ſi ſerve dell'atto, e della potenza per rattoppare, e rabberciar le ſue
Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma
lagevoli,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente
definir mai voleſs Ariſtotele quel mo vimen DelSig. Lionardo di Capoa. 625
vimento, che chiaman locale, certamente egli converreba be ricorrere alla
general definizione del moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto
proprio del moto locale. La qual coſa: ſecondo lui,non ſarebbe molto ma
lagevole a fornire; comeeper raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del
movimento ne fa pruova nell'altera zione, così definendola: l'alterazione, è
atto di quella coſa, la quale ſi può alterare, in quanto ch'ella alterar fi
puote: αλλοίωσης μεν γαρ, και του αυλοιωτού ή αλοιωτών, εντελέχω. Adunque così
ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione:
egli è il movimento del luogo, endelechia, cioè atto della coſa, che ſi può
lotal méte muovere, in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual
definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura del movimento locale, dicalo
in mia vece il medeſimo Ariſto tele, che in trattando del moto locale, a valer
non ſe n'ebe be. Matacer non fi dee certamente quì, che Pier Ramo avviſando non
dovere effer il genere d'una coſa, genere anche delle ſpecie di quella,
perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di gravemente
punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende lechia
rurſusnon imperfecta,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus effet motus,
non poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe
eſaminare, e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele, rinverrebbe veriſſimo sé.
za fallo l'avviſo di Lodovico Vives; il quale, comechè non fi vegga mai pago di
lodarlo, impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in definiendo vafer, occultus
adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia incerta, da perplexa, parum
etiam vera; dum magis curat quem in modum reprehenfionem ex cludat, quàm ut
afserat verum. E perciò funneanche da Attico, eda Temiſtio alla ſeppia
aſſomigliato. Ma tanto e tanto Ariſtotele dell'oſcurezzaſi compiacque, e così
ſo vente in iſcrivendo uſolla, ch’ebbe a dir di lui ragionevol mente nel vero
il P. Elizzaldi: Summa laus Ariſtotelis ob fcuritas fuit. E quantunque Ammonio
s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele, dicendo Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel
Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza, lo ſtudio, non per altro, ſe non ſe
per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere dagliſtudi della filoſofia, e dalla lezio
de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo, e baſſo intendimento; il che ſi pare, che'l
medeſimo Ariſtotele dir voleſle in quel la lettera, fe pur fu ſua, e non da'
ſuoi ſeguaci finta, ch'e gli ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro, che da Aulo Gellio
venne nella latina lingua traslatata s'ngoja nixovs libros, quos edi tos
quereris, non perinde, ut arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe, neque non
editos; quoniam iis ſolis, qui nos au diunt, cognobiles erunt; impertanto sì
malamente venne fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri
yere così oſcuramente, che fu ravviſata da ognuno in gui ſa, che non poſſon far
dimeno i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per
tacer di Simplią cio, diTemiſtio, e d'altri molti: l'autor della cenſura
de'libri d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to, alla fine
purdice in facendo parole delle ſue oſcurez ze: Accedebatad hæc ingenium viri
te&tum, & callidums, &metuens reprehenfionis, quod inhibebat eum ne
proferret interdum aperte, quæ fentiret; inde tam multa per ejus ope ra obſcura,
& ambigua. Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella
definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del
moto.Vuolegli,comeè detto,ſei eſſere le ſpezie del moto: cioè generazione,
corruttura,al terazione,accreſcimento,diminuimiento, e moto locale; ma a
chiunque bene, e ſottilmente la coſa ragguarda, niuna altra forte di movimento
ſi fu avanti nella natura, ſe non ſe locale; e nel vero tutte le ſpecie
addotteperperAriſtotele, altro non ſono,ſalvo che movimenti locali; e ſi pare,che'l
medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli; concioſliecoſachè dica egli una volta,
che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie
del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed
uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello, che
dir ſidebba propriamente moto. Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale
in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento, il quale è ſempre
mai Del Sig.Lionardodi Capoa. 027 mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto
semplice è di due maniere, retto,e circolare;cöcioffiecoſache di due mas niere
ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e circolari; la qual ragione,quáto
frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a conſiderare, Il moto çircolare, il quale
ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è perfetto, e regolare; vuole Ariſtotele eller
quello, che fi få intorno almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello, che
faffi in ſuſo, ed alla in giù, Mataçé do, che avviſar dovea Ariſtotele
que’movimenti, ch'egli immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer
altra mente circolari ', ma ellittici, follemente nel yero egli fi da ad
intendere avermoto ſemplice nell'univerſo, che retto non ſia; imperocchè
qualunque corpo, cheſi muove convien certamente, che ſe'n vada ad occupare il
luogo a ſe più vicino; perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to, e formerà
mai ſempre col muoverſi linee rette; laonde i moti obbliqui tutti,cácora
que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę
infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono
moltiſlime, e poco men, che infinite linee rette; laonde niun moto del mondo
farà circolare; imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo
maiſemi pre potrà dal centro ugualmente lontano; il che richiede Ariſtotels nel
inoto circolare. E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc, quanto dal ver ſi
diparta ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i
membri della diviſione, dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere: l'una di
quello, che ſi fa intorno al mezzo, o lia centro: l'altra diquello, che ſi fa
dal mezzo; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo; ma degna ſenza fallo è d'aſcol
tarſi con grandiſſime riſa la cagion,che di sì fatta diviſio ne cgli
reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti; concioſliecofachè
abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa, e vana del pari
la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele; enon aver moto veruno
nell'univerſo, che compoſto eſſendo del retto, e del circo Jare, miſto con
Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. K k k k Ma a è 2 028 Ragionamenta Ottavo Ma
trapaſſando a quella diviſione del moto, così cele bre ne’libri d'Ariſtotele,
in naturale, e violento:veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo
vario, ed in conſtante e ' li moſtra; perciocchè una fiara dice, il moto
violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato; il che ſe vero fofſe, vana
ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto, giuſta Ariſtotele, altronde
procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli
afferming comechè da altri cagionato effer poffa, trondimeno alcun movimento
eſſer naturale. Vltimamente Ariſtotele vuole, che quel moto djr ſi debba
violento, il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo, che il
ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è, fe non cambiamento di luogo,
e al corpo non meno è natural queſto, che quell altro luogo: certamente al
corpo niun moto ſarà mai vio lento; e ogni qualunquemoto, che nell'univerſo ſi
faccia, dovrà dirfi naturale. Ne la terra, o altro corpo dique'che chiamanli
gravi da ſe, comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in
alto, quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi, che la ſpingono
giù, e fan ch'ella ripugni il ſalire. Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo
famofo detto, ch'ogni coſa, che ſi muove, per alrri ſi muova, la
diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to, in quel, che vien fatto da fe, e
propio chiamato, e in quel, che da altri faſli, e per accidenteè detto. Ma una
cotal diviſione mi fa ſovvenir, come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire,
che'l generante muova ancor quando è lontano; anzi ancor quando più non è; e
che le ſue intel ligenze muovano moralmente; il che ancora di colui che'l tutto
muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero, quanto dire, che
le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate. Ma dovea
Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca
dell’Vniverſo è molto lontana, e differéte da quella, che'l più acuto umano
intendimento poſſa vnquemai im-, maginare;e comeegli già traſſe dal nulla le
corporee ſoftá ze colla fola volőtà, colla quale potè dar loro il moro anzi
gliele. DelSig. Lionardo diCapoa 629 gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di
toccamento veru no; e che Iddio ancora fa, che gli Angioli parimentes. comeche
inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze;
e laſciando di riferire, che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo, e
altrimae Ari in divinità, iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a'
particolari: Io vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli
a ' corpi,in quella gui ſa per avventura, colla quale fuole l'anima
ragionevolea allor che muove il ſuo corpo; la quale certamente altro nā fa
allorche muove qualche membro, ſalvo che dar altra determinazione per opera
della volontà a que' rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli, che
continuo dal fangue vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser
vero ciò dall'oſservare, che ficome ſcema, o creſce in cotalicorpicciuoli il
movimento, così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié
per meſso; non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma, come è
l'anima del corpo, muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi
corpicciuoli,ch'en tro lor fono, o pure que' dell'aria, o dell'etere, che gli
penetra,e gli circonda; e'n quella guiſa, che'l vento soľ acqua muover logliono
le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto, e a quel
corpo; ed eſsen do il moto delle particelle, che l'etere compongono, rapi
diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a
un'altro,comechè lontaniffimos icorpi. Ma laſciando queſta curioſa digreſſione
a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando, lo dico,che no men, che
s'aveſse fatto del moto, ſcioccamente falla in di viſando del luogo: imperocchè
egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo, ove la coſa
allo gata ſia; la quale opinione, comechè egli la toglieſse di peſo comealcun
giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione
dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle, e da altri deriſa, pure egli sì
disfor mata la ci reca, che nel vero ſembra, che più toſto egli ab. + bia 630
Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo, il quale non fa
diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini;
e sì ſciocca, c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per
tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro; e nel yero
ſe'l luogo, comeragion perſuade, e Ariſtotele medelimo inſegna, appartiene a
qualſifia minima particella del corpo locato, dovrà ſenza fallo il luogo aver
parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da
quella ingombrare dimaniera; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il
luogo, ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual
minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo
nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo, la quale a cir condare, e ad
abbracciar viene il corpo locato, ed è affat to fuora di tutte le particelle di
eſſo corpo; perchène ſegui rebbe, chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut
te le parti di eſſo, per tacer d'altre; e d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici
medefimimolto ben conoſciute. Ma per nulla dir di ciò, che dice Ariſtotele del
tempo, il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il
movimento; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe: chen ti,per Dio ſono i
diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura, e alla propietà del corpo? E
laſciando ciò ad altri cô ſiderare, accennerò ſolo quanto egli vanamente
s'aggiri in yolendo filoſofar, oltre alle qualità menzionate, della ra rità, e
della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa
egli follemente a credere, mora ſo da leggeriſſime ragioni, poter un corpo
rarificandoſi in grandire, e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior
luogo, di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo incontro
poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10, e ſenza entrar l'une delle ſue particelle
entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che
prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera, Machi potrà
mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce, come de' colori,
come de? (1 pori, DelSig. Lionardo di Capoa 631 pori, come degli odori,
comedell'altre ſenſibili qualità.: Ma non è mio intendimento di volervi quì ad
uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré
delli di ragionare, certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli
follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli
chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad
udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo,
dell'a. nima, e delle ſue operazioni, dell' aere, de' venti, delle piove,
de'fulmini, dellaneve, del tremuoto, dell'altera zione, dell'accreſcimento,
della diminuzione delmeſcola mento, della generazione, della corruttura, c
d'altre coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente, fi come
facea meſtieri: chenti, ſono le diviſioni, chenti, gli argomenti, in che fu
egli sì infelice, che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni
provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare, ch'egli in tutte le ſue
opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità, e di crollare,
e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè
da Santo Am brogio venn'egli chiamato:ftudiofus impugnāde veritatis;ç molto
avātidi lui per le medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto
la dialettica d'Ariſtotele:artificē Aruendi, &deftruendi verfipellem in
fcientiis coactam in co jecturis duram, in argumentis operatoriam contentionum
', moleftam etiam fibi ipfiomnia tractantem, ne quid omnino tractaverit. Ma non
ſo come fuggito mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del
bel diviſamento, ch ' Ari ſtocele fa delmondo. Afferma egli il mondo di
neceſſità eſſer perfetto, avendo egli larghezza, lunghezza, eſpel ſezza;dalle
quali dimenſioni in fuora, altra grandezzaw, non v'abbia, dache queſte tre ſole
ſon tutte le coſe; e ove fiano due, allora non diciamo tutti,ma ambodue,&
aggiu gnendo a tre, allora in prima diciam tutti; il che effer di sì fatta
maniera, la natura il ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci
ſoggiugne cotal numero uſavali ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra
tantiaggiramenti avviluppofli, non per altro, ſalvo che per iſpiegar alcuni
ſencimenti de Pittagorici, da lui malamente inteſi. Quindi apertamé te appare,
quantograndefata ſi dia la cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano
immaginator d'ombre, e di fole: d'Averroe in dico, il quale privo affatto
d'intendimento ärdì a dire eſſer Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta
dalla naturaper maraviglia di tutti iſecoli, e per addicar ne l'ultimo sforzo, e
l'intero compimento d'ogni umanaj perfezione: e che egli venne a noi conceduto
dall'eterna providenza per noſtro ajuto; nelle cuiopere non s'è potu to per lo
travalicamento di quindici ſecoli error alcuno ri trovare; e in fine ch'a
miracolo Natura il fece, e poi ruppe la ſtampa; anzi tanto s'avanzò oltre la
follia d'Averroe, che diffe, fe ad Ariftotele folo voler dare intera credenza
infra tutti gli altri huomini del mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo
Profeta Moisè, qualor difle aver Moisè dette molte coſe, ma niuna provata; al
che aggiugner volle, per tacer d'altro, quell'altra beſtemmia; che coloro, i
quali affer mano Iddio ritrovarſi per tutto, ſian fanciulli, e che di ſtruggano,
e mandino a terra l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe
di sì ottuſo, e ballo intendimento: impertanto valſe tanto la ſua autorità appo
gli Arabi, che vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili
credute furono le dottrine d'Ariſtotele; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter
cõvincere i ſeguaci di Macometto,quella dottrina,che appo loro era in pregio,
ed iſtima apparare; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele, o
pure quella, che ſi contiene ne' libri, che ſi leggon ſotto il ſuo nome;
căcioffiecoſachè dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori.
E veramente alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele, come p teſtimo niāze di
Tullio,di Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio, e
di Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare; nondimeno però
nei, co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere, che
portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori,
l'iſteſſo modo di filoſofare: portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o
pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro: Mala
ſciando ciò ſtare al preſente, chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede,
non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per
primicro filoſofante; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo
le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine,
e ſciempiezza del loro intendimento, gli altri tutti corſero lor dietro Qualcapra
all'altra perſentiero alpeftro: non con fermo, e ragionevole avviſo, perchè non
eſſendo vi elezione d'animo faggio, e avveduto, è da dir con Bac cone, coitio,
non confenfus; e come dice il Ciampoli, copia comune, non già opinione comune.
E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non badarono le ſcuole, ſe
non ſe a far copie continue di quelle ſconce; e mat fatte copie del lor
primiero maeſtro Ariſtotele: cd a ciò anche fare i ſemplici,e rozzi ſcolari
coſtrignendo;perchè non ſenza ca gione fu detto dc' peripatetici da Lorenzo
della Valle, il quale veramente fu ilprimo, che liberò la filoſofia da quel
cieco,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot topoſta:Pudet referre
apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos, &jurejurando adigendi,
nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos: genus hominum fuperftitiofum, atque vecors,
defe ipfo malè meritum; cum ſe facultate fraudent indagă då veritatis; quos fi
reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt, qua tandem
infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt;
ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera
de volgari filoſofi ſoli, avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla
qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe, che dalla copioſa ſembraglia
del popolo è da ſtimare; perciocchè, come teſtimonia il Romino Ora tore, la
filoſofia, dipochigiudicatori s'appaga, cabello L111 ftudio ſchifa la
moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta
judicibus, multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi, & fufpe ta, &
invifa; eragionevol mente in verità; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il
Baccone: nihil multis placet, nifi imaginationem feriat, auf intelleétum
vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in
favellando la parte maggio re, ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai
ſempre {eguire. Ma ciò, che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato, deſli
ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire
quel valent'huomo, noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa
dalla ragione, che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu
nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce, e inveriſi mili opinioni, che
non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum,
quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta
piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando
degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti,
ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro, dicui Già lunga notte
involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo, infra' greci me.
dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone, e
d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina, nõ farà per avventura fuor
del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la
ſtoica, ed epicurea filoſofia. E per cominciar dalla ſtoi ca: grande certamente
ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro, e fondatore, il
quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i
greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re, volle nondimeno
più coſto gir dietro alla traccia di co loro, che apertamente avean da quella traviato;
e Com? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in iſpiegar le
coſe della natura, non però di meno egli Del Sig.Lionardo di Capoa. 838 egli
ancora nelle maggiori ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio, ſenza divifar nulla
di ſaldo. Così in ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini
(tratti e genes rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla.
tone,e Ariſtotele; della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da
Seſto Empirico; eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e
chiamaſſe la forma nõ cagione, ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando
appreſſo, che coſa veramente la formalia, e in che conſi ſta la natura del
corpo, e come formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar
delle qualità, mani feſtando, e dichiarando chente fia la lor natura, ecomes
ingenerino: è da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle
quali già in prima detto abbiamo eſ. ſer Platone, e Ariſtotele vergognoſamente
caduci. Ma non ſembra vero ciò che Cicerone, e altri fcrittori riferiſcono di
Zenone, che egli aveſſe per efficiente cagio. ne conoſciuto il ſolo fuoco;
imperocchè egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro
qualità attri buiſce, o tutte, olamaggior parte dell'operazioni natura. li,
comech'egli in ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in
prima, come certamente conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che
Zenone di quel le, che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che
favelli, comeſipuò vedere allor ch'egli dice, eſſer i colori le
primediſpoſizioni della materia. Dice ben egli Zenone, che ſon due i primi
principi delle coſe: paſ ſivo l'uno, cioè la materia, ſoſtanza ſecondo lui
priva di qualità: Paltro attivo, quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col
nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol Zenone, ch'altro non fia, ſe
nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione, e di ſapienza, il quale per
tutto diſcorra, il tutto abbraccj,il tutto penetri; e che dalle varie, c varie
materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò
ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per
darlovi a divedere. E Lill 2 nel 636 Ragionamento Ottavo nel vero ſe mai Zenone
argomentato ſi foffe d'inveſtigar, comeché rozzamente la natura del fuoco,non
avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle, e pazza opi nione; anzi
ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi fpiriti,
tratti, come rapporta Seneca: ex illisfempiternis ignibus,quæſidera, acflellas
vocamus,, veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe, atque alieno
loco exiife. Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe non fe
un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli, o sferici, o piramidali,non pofſa
ne ſentire, ne in tendere, ne far niun'altra operazione, che l'anima far ſuo. le;
perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef fer mortali, e quelle
dappoco, e baffe, qualieſſere giudica l'animne degli ſciocchi, e ignoranti Cbe
viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme attutarſi, emorire; e quelle
de’dotti fo lamente che, fon più vigoroſe, dover durare ciaſcuna ſe condo il
fuo potere, come fiaccole acceſe in tenacemate ria fino all'ultimo ſcoſcio del
mondo: fi ut fapientibus pla cet, dicea Tacito di Zenone, e degli ſtoici, non
cam corpo re extinguuntur magnæ animæ; il qual luogo chioſando il dottiſſimo
Lipfio: nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur, & fatuæ pereunt,aut non
diu manent. La quale opinione motteggiando l'eloquentiſfimo Romano: Stoici,
dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam cornicibus: dia manſuros ajūt animos,
ſemper negant. E quinci follemente temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi
neĪPacque; imperocchè ſtimava no, che l'aniine, come quelle, ch'eran di
fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque. Ma cotal crcdenza ella mi ſembra, che molto
più antica di Zenone ſtata fi foſſe; imperocchè non per altro certamente quel
grand'Eroe, d'Aſia ter rore, e'l fagace Vliſe, e'l fortiffimo Duca Trojano
moſtra no aver cotanto in orrore il morir affogati nell'acque: ingemit Æneas,
dice Servio, non propter mortem, fed pro ptermortisgenus; grave eft enim
fecundum Homerum perire naufragio, quia anima eft ignea &, extingui videtur
in ma ri contrario elemento.Ma piacevole è nel vero a udire il di via DelSig.
Lionardodi Capoa 037 viſamento's ch'eglifa Zenone, intorno alla generazion del
mondo; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto, il che
non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0; e che indi poi la materia tutta in
aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle; e che ficomenel ventre
della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae: qua una
materia abile a ingenerar tutte le coſe; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio
diquella materia i quattro elementi, cioè il fuoco, l'acqua, l'aria, e la terra;
e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero. Il fuoco ſecon do Zenone è
caldo, e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida; ma l'ordine
col quale, c lic ſtelle, e gli altri ragguardevolicorpi dell'univerſo
s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa. Afferma egli, che
nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco, il quale per la gran fua:
ſottigliezza vien detto ctere; e che in lui pri micramente naſceſfero le ſtelle
fiſſe; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo l'acqua; e
ultimamente la terra, la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben fa rei Io a
logorar il tempo nel racconto di queſte, e altre sì fatte empiezze, che ci vuol
dare ad intendere Zenone. Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i
fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare agli huomini;
ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio; perchè cantò Lucano,
per tacer Se neca, Fileinone, e Manilio: Sive parensrerum, quum primum informia
regna, Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in æternum caufsas,
quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens, & fecula jufa ferentem Fatorum
immoto divifit limite mundum. E prima di Lucano, quel greco poeta, così
traslatato da Cicerone: Quod fore paratum eft,id fummum exfuperat lovem; perchè
dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato; ne lui medeſimo poter
iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde ſccodo i
ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o qualūquefi
ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa ſuis currunt
cauſſis. E a ciò ponendo mente Luciano, piacevolmente deriden do,come è fua
usāza, gli Stoici, fa,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di Zenone,tratto da
cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove, e gli Dii tutti, non temendo
punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano deſtinate; poichè gli
Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che così gli Dii come gli
huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del mondogli Dii, per
menoma,ch'ella ſi foſſe, che dalle Parche non foſſe in prima ordinata, e lun
gamente compoſta. Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri, e
ſergentidelle Parche, o per mc' dire ſtrumenti di quelle, come la ſcure, e'l
trivello. E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove; il quale
oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero.
Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile
Parchemedeſime, che Giove da pre gare, ſe lc Parche per prieghi pur ſi
moveſſero; poichè al le Parche, e non a Giove l'imperio tutto del mondo, c'1
primo reggimento de' fatiè da attribuire. Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando
anche l'aſtutiſlimo Macometto,per nulla dir di Lutero, e di Calvino, eſſer
corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti, preſela, ed inſegnolla nel ſuo
Alcorano, acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli, ponendo giù
ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente
s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo, pole in bocca al
valo roſo Rede'Turchi, Solimano, Giriſ pur Fortuna O buona, orea, com'è laſsù
preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a '
peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più, ne
meno falli colui, che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre, di
colui, che allor, che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le. E. DeSig.
Lionardo di Capoa 639 te: Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il
qual'eglivuole, chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana
natura poſto in bando,no’l muova amore,non ira,non odio, non timore, ne
qualúque altra più violéta paſſione. Senti menti in verità, per dirla
coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco; ed Io per me non ſo come
s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella, ch'un huomopoffa
viver nel mondo libero, e Sciolto da tutte qualitati umane. Manon queſti
ſolamente ſono,ma altri, e altri i falli che Zenone, e iſuoi Stoici prendono,
alla noſtra fede, ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non pocomimaraviglio,
come cotato preſſo alcuno ſiano commendate, e in pregio tenute quelle
memorie,chedi loro rimágono; e ſpezialmé te l'opere di Seneca; imperciocchè non
è punto, com 'egli follemente s'avviſano le genti, quell’ aſtuto Stoico, re
ligioſo, e dabbene; concioffiecoſâche, ſe ben fifamente vi fibadi, in altro non
s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo ogni coſtuma dipietà, e
direligione; comechè faccia ſembiante nelle ſue dottrine, di'rigorofilli mo
Anacoreta, e poco men, che di perfettiſſimo Criſtia no; e a prima faccia appaja,
qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone, Virtutis verd cuſtos,
rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone, egliſi parve, che talora Ze. none
fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle coſe naturali; come quando
egli per iſpiegar la maniera, nella quale faſli la viſta, diſſe l'occhio
valerſi della aria teſa, co med'un baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del
quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle Carte. Com nobbe
ancora Zenone, comeche a durar non viaveffe mols ta fatica,, effer il ſole più
grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro
il ſole, ſe non le fuoco; ma da quelli certamente avviſar non ſi puote, come
egli immagina', eſser quel fuoco, ond' è forma to il ſole,ſincero, e puriſſimo.
Ma non ha dubbio,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo. Zenone s'ingannò grandemente,
immaginando participar la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle, della
natura della terra: per eſserella più di eſso loro alla terra vicina; im
perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna,
la quale perſuader ci poſsa, che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti;
e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi, i
quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi
corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati, le ſtelle erranti, e fiſse, e
la terra: afferma, che le ftelle, co me quelle, ch'animaliſono, dal mondodi
quaggiù riceva no il loro alimento; e venir il ſole nutricato dal mare, la luña
dall'acque dolci, e l'altre Atelle dalla terra; m2 perta cer d'altri difetti
della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole,
checoltivò molto più di quel, che certamente a natural filofofo fi conveniva,
gli ftudi della Loica, onde conveme, che i ſeguacidilui, for ſe aſsai più di
que'priini peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati,
vennero ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne,
ch'eglino no poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della
natura; onde ebbe a dire il medeſimo Galieno, che gli Stoici nelle inutili coſe
erano alsai eſercitati, ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco
eſperti ſi dimo Atravano. Malaſciando Zenone, trapaſseremo a ragionar d'Epicuro..
Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro
quelle ſtrabocchevoli lodi, che, da pallionati luoi ſeguaci, c ſpezialmente da
Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie, ch'
Epicuro non huom mortale, ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri
rinveniſse la vera ſapienza; e chc Epicuro anche fi foſse Quel, che i termini
tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col
penſier traſcorſe. Imperocchè, per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ
facer 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 041 faceffe, che traſcrivere le ſentenze di
Democrito: i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe:
anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti, incorſe in graviſfimi
falli. E gliporrò opinione Epicuro, che da una infinita, ed immenſa corporea
ſoſtanza, qual ſecondo lui altro non è, ſe non ſe un radunamento d'infiniti
corpicciuoli di varie, ¢ varie grandezze, e figure, e da uno ſpazio parimente
im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede,fia copoſte l'univerfose che
fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo, ed a ventura, dalmoto,
dall'accozzaméto,e dall'or dinamento, ſolo di que'corpicciuoline fian nati,non
ſola mente queſto, in cuinoiabitiamo, ma più, e più mondi, Aggiunſe egli al
diritto movimento de corpicciuoli (che apparò da Democrito) di ſuo altresi
quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello
poteſſero cotante coſe ingenerarſene: e cocal movimento torto, eglidiffe naſcer
dalla chinacura de' corpicciuoli, quali movendo per diritto, ed in altri
corpiceiuoli incop pando, neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize
non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le
noſtre anime, come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis.
Ma fe noi riguardiamo, non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo, ma
anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada, ma
all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata: non può in niun
modo da ciaſcun comprenderli, come a riſchio, per caſo, ſenza ſottiliffima
macaria di gran maeſtro debba effer formata; e per non trarre argomenti dalle
ſtelle, dad ſole, dall'huomo e da altre,e altre opere maggiori d'Iddio, mi
contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti, come ſono le
moíche, le zanzare, le formiche, l'Api, gli Acari, c altei afſai cotanto
menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio, tanto quanto, cavviſar li poſſono;
e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me
par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle, così ben compoſto, e formate, come
nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono.
Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella
teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e
tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene; e nel capo è
anche loro il cervello, le glandole, le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini;
da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e
comparte. E che dirò lo dello ſtomaco, delcuore, e d'altri fomiglianti me
bricelli? che dell'offa, e delle vene, e dell'arterie, e del facco latteo, e
de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle, chente, e quali a
ben fornito corpo ſi ri chieggiono? e che delle loro piccioliſſime anime, le
quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano, e ri fvegliano i
ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri
maraviglioſi effetti in quel lo adoperano?Ma ſopra tutto è da por menteal loro
indu ftrioro ingegno; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar
ſommamente dell'induſtre, e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca
alfreddo verno Ripon la ſtate, ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i
giorni algenti, Neghittofa non ceffa,e non s'allenta La negra turba,, anzi ſe
freſsa avvezza Ne le fatiche, e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen, che
l'ore,e'lgiorno, Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto. E avendo forſe
quella per pruova appreſo effer la ſementa, onde poſcia germoglian le piáte, no
altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte, e riſtrette, per
ceſſar l'aſprezza del verno: come apertamente col microſcopio noiveggiamo:
avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie
propie, incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca,
el bel tempo fereno Spias DelSig.Lionardo di Capoa. 643 Spiando già prevede i
lieti giorni. Talche quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da
lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è certo. Quinci ripor ne le ſuecelle
anguſte L'aſciutta meffe, e poi la ſerba, e parte Cuſtode, e diſpenziera.
E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche
ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene, e
calde nutti Tolte al dolce ripoſo, al queto ſonno Aggiugneal travagliar
continuo, e lungo. Ne è da traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te.
Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una
formica, e portarlo a un'altro vi cin formicajo; e quivi giunte uſcirne;come
chiamate,alerc formiche, e andar loro incontro, e accontarſi quaſi ragio nando
di lor bifogne; e indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella lor
buca, e di nuovo quindiriuſcire,e ri trovar le foreſtiere,come rientrate
foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne; è
conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi ritornate a
patteggiarne la riſcoſſa: e ciò due, o tre fiate facendo, alla fine dopo
cotante aggirare, quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla buca, e
fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual prendendoli
quelle di fuora, e laſciando il patteggiato cadavere, n'andar via; ed elle
raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello
ſotterrare. Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad una
fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica, la qual ripoſtali in
guato, non altrimenti, chei'ragnuoli ſi faccia no, preſe per lo piede unamoſca,
la qual forte dibatten dofi, e ſcooendoſi, indarno di fuggir slargomentava; ma
pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc ciderlai,
ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un ' 644
Ragionamento Ottavo:: ſo un'altra formica partiffi.di preſente, e ricornò con
alire formiche a condurli a forza la prcda dentro dal lor formi cajo. Ma
perchène G faccia maggiorméte manifeſto,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole
la menzionata opinione d'E picuro,e quanto fia grave l'ingiuria, che per quella
vien fatta all'autore dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò,
che per avventura abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque,
che una ſoſtanza fia quella, onde cotanti aſpetti, e sì diverſe ſembianze di
coſe n'appajono in queſto gran Teatro dell'univerſo, eſle re egli ſtato parere,
in cui non pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (il qual più,.chalari
fa ve duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono. E
tanto par che coſtui voleſse dire colà: nell'ottavo libro della metafiſica: ove
feriſse eſsere una, medefima coſa l'ultima materia, e laforma; e fimilmente non
eſser differenci nelfubbietto la materiais e la privazio. ne(del chc.a torto
altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le
diſtinguaje nel ſecondo della fiſica; ſcrivendo, che la forma non maipoſsa
dalla, materia fceverarfi, ſe non ſe in mente noftra,ficome a niū modo può
fepararſi la ſchiacciatura dal naſo;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano
eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa;ſicome non è
da elami. nare, fe la figura, che imprende la cera, fia da quella di itinaa. E
finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando,
la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser
perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella:ovegià
perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin
Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando
le forme (le quali ſe-veramente altro foſser, che ka materia, folla
creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i
peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza, di
cui ragioniamo,altro,non ſia che: Del Sig.Liarcardo do Capoa 45 che corpo
inminutisme particelle di grandezza, difigura; di fito, di moto, e d'ordine
diverſe,sbriciolaco', e diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi
Greci filor fofanti scomechè Democrico, più ch'altri, in primachia ramente
diviſato l'aveſse. Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario
un'infinita onnipotenza, e ſapienza valevole a dir ſporre, e ordinare in tante
guiſe, e comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria. E ciò ben conobbe
da pri ma, per quel ch’lo ſappia, il fapientiflimo Greco Filolo. fante Talete
Milefio; e confeſsollo manifeftamente, di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse
initium rerum:Derim autem eam mentem, quæ ex aqua cuneta fingerei. E da lui
l'appreſero poi Ippone, e Ippia,.e cotant'altri antichi filo fofi, i quali
tutti concordevolmente giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza
infinitajlaqualpartédo,e fceve rando queſta maſsa comune, e ordinandola, c
movendola, doveſse cambiarla in cotante guiſe, quali noiveggiamo.E cotalmente
vollè anche il grande Anafsagora, che dalla materia lua ſimilare, comedicono
g.componcise ciaſcunai coſa del mondo: comcchè a torto poinefoſse egliprover
biato, e biaſimato oltremodo da Ariſtotele, cola ove diſ ſe, ch’Anaſsagora d'un
sè fatto ritrovato ſi foſse voluto: ſcioccamente ſervire, per dar ragione
dell'apparenze nas turali: non altrimenti, che ſervir fi fogliono i tragici Poc
tidelle loro machine piſciorre i nodi più inviluppati del le favole;
edelimedeſimo ſentimento di Talete furonoan che Platone, o Timeo'; ed è da
credere pure, che dal fon datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora, e
damolt’altri fa * mofi,.e ſaggj filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata. Ma
però tutti i sì fatti filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in
negando oftinatamente eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti
dell'Eterno Fattore, dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna. E forſe non
guari illoro errore fu avāzato da quel d'Epicuro,o di De mocrito;i quali ciò
checoloro alla mente operatrice afcrifo ſero, attribuirono al caſo; imperocchè
la divina, ed eter 1 li e ne be 12 2 na on 646 Ragionamento Ottavo 1 na
onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già eliftéte
materia varie machinazioni formar ne; e così attribuendole il poco: ilmolto,
anzi il tutto negaronle, com'è il poter criare dal niente; perchè dicono
follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do, tutta la materia
nell'opera conſumaſſe; e quinci avve niſſe poi, che un ſolo e'ne formafle. Ma
ritornando ad Epicuro: non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì ſconciarné te
dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe; imperoc chè egli nonmeno ſciocco,
che empio, immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano, come quello,
ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio corpo altrimenti,
ina quafi corpo: ne aver Iddio ſangue, maquaſiſangue: Dice Epicuro,oltre a ciò,
che gli Dii ſian vaghi, adorni, e riſplendenti, e che le membra fieno umane; ma
chenon abbian però uficio niuno; e che l'al bergo degli Diilia in quello ſpazio,
che vuoto rimane in fra que’tanti, e tantimondi per luifognati. Toglie affat to
Epicuro empiainente poi la giuſtizia,e la provedenza di vina; e afferma, che
Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i !
e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani della volubile, ei cieca fortuna,con
iſcioccaggine, e ſcempiezza eſtrema le attribuiſce De la terra, e del Ciel lo
ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più diviſar di queſte, e d'altre fimili em
piczze d'Epicuro, ad ogn’un conoſciute: Io non ſo per me. come difender mai fi
poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi';
imperocchè, quantunqué menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano,
ben potranno dividerſi da uno, o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti,
meno di loro piccioli fia no; ne fa punto luogo il dire, che non avendo
nell'atomo vuoto alcuno, 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo, ne
dividerlo in parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere, e
partire ilvoglia, con replicati colpi a poco a poco penetrarlo, e dividerlo, ma
ſi può creder 1 1 1 1 imper DelSig.Lionardo di Capoa. 647 inipertanto, che ſia
queſta una quiſtione vana, e che o no mai; o rariſſime fiate avvenir poffa, che
un'atomo per al tro ſi fenda, e ſi divida; concioſſiecoſachè quantunque li
tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo ſi trovi, non
potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi avviticchiato, e
congiunto, ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa, egli è manifeſto:
gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere, e diſ giugnerſi
dagli altri atomi compagni, a fe vicini, che'l romperhi.S'argomenta eſſer vero
ciò che lo immagino,dal vedere, che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano, i
quali per qualunque forza, che l'arte, o la natura viadoperi, non ſi pofſon
giammai in altri cambiare; il che altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe
no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti, che gli compongono nella figura,
e'nella grandez Za non guari diſſimili infra effo loro, e dal non venir que gli
mai rotti, e in particelle diviſi. Ma non mi par, che lo clebba logorar il
tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod Epicuro, apertamente perognuno
ifcorgendofi falfa; co mechè valentiſſimi filoſofi cerchino pure farla apparer
vera; poichè per tacer altri imbratti, concedendoſi ilva. cuo,converrebbe,
cheli toccaſſero, e non fi toccaſſero l'u nos e Paltro di que'corpi,infra’quali
fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto. Oltre a queſto, fe infiniti gli atomiſono,
ſe condo Epicuro: faran ſenza fallo ripieni di corpi tutti gli fpazj;ne vi avrà
ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo; in cui, comechè iinmenfo egli il faccia: Io
non veggio lo, come infiniti corpi, e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ
fe Epicuro. Ma non in ciò ſolamente fallar ſi vede Epicuro: maal tri, e altri
errori ancor egli commettc;infra i quali mi par certamente degno oltremodo da
ridere quel, ch'egli,non già per aver troppo creduto a’ſeñfi, come Cartefio
crede, maperfuafo da troppo fievoli argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o
tanto, o poco più, o poco meno grande di quel, ch'a noi ſi faccia vedere; ne
men certamente rideyo le ſi è ciò, che Epicuro immagina della figura della
terra, del -0 vo 1 i 648 Ragionamento Ottavo - del naſcimento, e aell'occaſo
dellole, della luna, e dell'al tre erranti, e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o
ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan, ſecondo egli penſa, allorche noi veggia
mo, e immaginiamo, le coſe;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento
d'Epicuro voleffi lo quì riferire: maſſi mamentequei, ne qualierrò egli
inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe
dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele, e di Platone dicea S. Giuſtino,
con quelle parole: ſe l'invenzione della veri sà, come d'accordo ciaſcua vuole,
è ilfine della filoſofia, Io non lo come coſtoro, i quali nonebber
niuna-contezza della verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio
nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia, a
riſchio, e per ventura, come alcuni vogliono, ſuole rinvenir la verità; e ſe
pur talvolta la ritro va:allora pur la prende lievemente, e alla sfuggita,ſenza
troppo minutamenteconſiderarla; e come altri poicredo no, crae ella ſua origine
dal Diavolo; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine, efſer tutti
rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro, i quali appo i Grecicol nome di
filoſo fanti ſi chiamavano. Ma certamente troppo a lungo, e più diquel,che al
fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar
dell'antiche filoſofie;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile, e ſoverchio ciò
reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti
impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia, Ga ſtato quello
dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto,
e compreſo tutto ciò, chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire,
ecomprender li yola per intendimento umano; ne per aloro certa.nente, che per
una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé
dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali,
fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o
di queſto,o di quel to zuore; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin
mions des bommes font, recevesà la fuitte des creances an cien Del Sig.
Lionardo di Capoa 649 outil ciennes, par authoritè, &à credit, commeſi
c'eſtoit religion Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu:on
reçoit cette veritè, avec tout for baſtiment, de ato telage d'arguments,
odepreuves, comme un corps ferme; ſolide, qu'on n'esbranle plus, qu'on ne juge
plus. Au contraire, chacun à qui mieuxmieux, va plaſtrani, &con fortant
cette creance receuë, de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple,
contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde,
feconfit enfadeze; den menfogne. Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des
choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint
lepied, où gitlafaute, älafois bleſſe: on ne debat, que ſur les branches: onne
demande pas fi cela eſt vray, mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E
quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno, la
quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto
loro, e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe
apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti, e ravviſati
gli autori di quelle,non per mettontalora, che fiyantaggin nella buona
filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo, ed in al tri molti
si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della filoſofia
d'Ariſtotele, non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire: ne in cotonjuno
for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche, çome avviſa
Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea fola
infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus, ut ad
verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint. Anzi Ariſtotele
medeſimo, leggendo i volumidegli an tichi filoſofi, concepctie alcuno di
que'ſentimenti onde, inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo
gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc,perché ca gioni in noi
ſentimenti di dolcezza, tratto anch'egli dall' altrui errore, !! c a ciò punto
badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare, giudicando la
dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità
veramente nelle coſe, e non ne’ſenti menti confiftere. Che fe egliaveffe:
avvilato, il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce,e foa ve:
a un'altro poi amaro, e diſpiacevole parere, come la colloquintida amariſſima a
noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire: certamente egli non così
improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe
ne' cibi foſſer corali particelle, dital forma, e così ordinate, e moſſe,, che
in diverſi palati, or di dol cezza, or d'amarezza faceſſer ſeinbiante. Enella
medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele
potrei lo quì rapportare, le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti. Ne
ciò è maraviglia; perciocchè p iſtudio, e fatica, che vi ſi logori', non ſi
poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban
deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano. Cosi
avvien appunto ad una botte, o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o
-inagrito, la quale av vegnachè forte fi’rada, eſilavi: non però dimeno non ſi
puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo
vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta, concioſliecoſachè
quantunque bennetto, e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime
particel te ancora ſi naſcondono, le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino,
o altro ſomigliante liquore, che vi ſi pone, trameſtandofi loro, agevolmente vi
nuotano per entro, per opera della fermentazione poi creſcono",intanto,
che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono. Così avvenir ſuole
nell'anima,la quale priva, e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe
medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche
introdurre; eri porre; poichè le nuove ſpezialmente, ſea ciò ſpinte ſono da
quelmovimento, chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa, eccitano, per qualche
ſomiglianza, che è tra loro, alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta, ma celata
viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono. Eco
Del Sig.Lionardodi Capoa: 651 E comechè ciò baſtantemente, per quel ch'Io
micredaj a ciaſcun lia manifeſto, pur d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per
ciò, che nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro, che
all'arte,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente
intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica
niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai, e oltre a ciò ſiano in
qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare;
acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa
appiccata, dipreſente rinven gano; e le coſe già alla memoria preſenti,loro
facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa manifeſta pruovà
ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca, o di forziere,
che in noſtra caſa ſia, ne fov viene tolto di libro, o di veſtimento,o d'altra
coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre, ſubito ne ſi rap
preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab bricarono, o che un
tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa rimcmbrar d'altro
amico: e anche de nimici di ciaſcuno, io nominandolo ne ſovviene. Perchè al
noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca, il ſolomovimé. to dell'aura, dolcemente
faceva venire avanti madonna Laura, eltempo ch'e' da primamirandola ſe
n'innamoro: L'aura ferens, che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto
viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì dolci je profonde;
E'l bel viſo veder, ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma
veggio, e per avventura con qualchevoftra noja eſ. fermi troppo dilungato in
ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva lo già propoſto di fare;
non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti fine, mi convienu tirar la
coſa un poco più avanti. Dico adunque, che non giová punto,cheſieno ben inteſi
gli fcolariin filoſofia » in chimica, in medicina, e in tutte altre coſe, che
diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn: 2
no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino
qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie, e alle maniere, che vengon
tenute nel medicarle; e qual pro,e qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi;
ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante, che non ſi dovrebbe certamente
co ventar mai fcolare, il quale con fedi autentiche, e con te ſtimonj non
provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e diligenza adoperata.
Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per
limae ftri delle ſcuole, a ciò deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap
partenenti, e ſpezialmente nella chimica; la qual cotanto dicemmo effer a'
medici neceſſaria, e di tanto riſchio a co loro, chepienamente non la
poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore, ligati con facramenti, econ
pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello
fcolare converrebbe, che minutamente fi ricer caſſe, acciò per ogni capo
s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente
diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal
meſtiere comporta, i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne
riſtorerebbe; ne da altro cer tamente naſce, ſe non fe dal non uſarhi queſte
diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari, che così
fortemente vengano elleno talora biaſimate:approba jiones,dice il Primeroſio,
fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem, & neceffaria, fed
deberent diligentius obſervari. At jam omnia negliguntur, nam quibuslibet
guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam
Academiisredeant ductores parum da fti, nihil minus, quam apti ad medicinam,
aut docendam, aut faciendam. Ne perciò giudico lo convenevole, come alcuni
vogliono, che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono
conventati, fian di nuovo daeſami nare; imperciocchè baſtar dee
quell'eſaminazione, allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati,
accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi
liberamente medicare. Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno, ove per
legge comandò non poterſi il peri Del Sig. Lionardo di Capoa 653 pericoloſo
meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò
deſtinati; e l'Imperador Federi go pur v'aggiunfo, chei medici del ragguirdevol
Colle gio diSalerno doveſſero effer teſtiinong, che colui, che aw medicare
inprenda, da tanto ſia; perciocchè parlando de gli Impirici, folamente i
conventati manifeſtamente ne ri ferbarono; ne vollono eſſere da eſaminar coloro,
a’quali la cura d'efaninare altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia
ſpiegando que’capitoli dice delle bollettes delle licenze: Doctor medicinæ
practicabitfine literis, quia fuitexaminatus, quando fuit doctoratus,
&approbatus; for cut ibi diximus de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti.
pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre oſſervato, che iconvé tati di Napoli, o
di Salerno fenz'altra bolletta, per tutto il noſtro Regno, poſlan liberamente
andarmedicando:ne altrimenti effer mai avvenuto: eft fciendum,dice l’Afflitti,
quod à tanto tempore, in cujus contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam
fuit fervatum, quod magiftri medicine approbati in Collegio medicorum Salerni,
vel Neapolis ha beat quarere literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege,
vel vicerege medieandi in Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò
avanti; e larebbe certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più
conventar perſona in me dicina; cioè a dire, di dar licenza di liberamente me
dicare; ſenzachè non ſapreiIo certamente, quali medici farebbon da eſaminare;
perciocchè egualmente i giovani, ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj
ne han data cagione di farne richiedere a parlamento. Ma come potrebbon le
ſecrete eſaminazioni a buó fine giammai riu. fcire, fe per averle conoſciute
ſcempie ', e manchevoli, i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per
mio avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite. Sogliono re carſi per eſemplo
coloro, che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono, i legiſti;
i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co
ventati:maben dovrebbono avvertire, che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere
atale eſaminamento: eleggen; do an 654 Ragionamento Ottavo doanzi d'abbadonare
il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in
alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi
foggia ceffero, a'quali, o alcun governo, o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne
mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i noſtri
medici in Chiinica; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina eſfer
narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al
noſtro comun ne feguirebbono, per molte, e mol te cagioni, le quali lo taccio
al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto; ſenzachè i
vecchj anco ra, anzi con maggior ragione, che i giovani, farebbon da eſaminare;
richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica, ed eſsendo aſſai meglio
i giovani, che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe
da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè per
lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua; e comechè intorno
a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto, pure fi dee por mente a ciò
ch'avviſa Galieno, allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè
leggeriſſimomale, d' altri non ſia, ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di
tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia
ſovente con altro male eſſer congiunto; e ſo glian talora, o per.cagion delle
medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere: cheda colui, ch'un ſol
medi camento ſappia, non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto, nel conoſcerſi
delle malattie, aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio
ſcioccamente una per al tra, e contrarj rimed, talora imponiendo; nella qual
mala ventura, comedicemmo, cadono talora, anche i più ſcie ziati medici per la
dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti
volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime
to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito,
e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova Del Sig.Lionardo di Capoa 051
poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di
loro Anneo Roberto dicendo, che all’onta di tut te le proibizioni eglino il
capo alzaſſero; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo incotro furon:
proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran
male, ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi
dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio: in montepeſſulano's
clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia, fi quis borum nebulonum
feme: dicummentiatur, mox raptus in afinumftrigofum, fiin venitur fcabidum,
ſublimistollitur, averfus, urbe tota cir. cumducitur,Scommatisundique incefitur,
conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis generis conſpurcatur; ceu olim
Sacra illa mafilienfium vittima:poftremo expiata urbe ejici tur, illuc nunquam
rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente ſecondo noſtra possa avendo
de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al preſente de gli Speziali,i
quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente chimici; il quale fu il
ſecondo capo, onde mofle il noſtro ragionamento. Veggiam dunque brevemente,
quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia van taggiarſi in
sìnobilmeſtiere. Immagina il volgo, che age volitima faccenda fia a ſaper
fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere, edipoca licva
ado perar ſi rimira. Mio quanto di lungo certamente coſtoro ingannati ci vivono!
imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men, che tutte altre códizioni,ch'a
coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della medicina apparar bene, e
lodevolmente intendono; e ciò ſenza, che lo troppa fati ca vi duri, agevolmente
ſi può comprendere per coloro che alle biſogne tutte d'una cotalarte fiſamente
riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e biaſimevoli coſtumi del ſe colo
ciò non comportino ', dovrebbe almen chi deſidera una tanta impreſa
leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c lodevolicoſtumi,eſſer
mezzanamente, per tacer dell' Araba, almeno della latina, c della greca lingua
inteſo, per dover poi intendere i varj, e diverſi ſcrittori, che nell' una, e nell'altra
lingua materie a ciò appartenenti deſcri vono. Appresso egliè dimeſtieri aver
continuo tra le ma ni pronta, e apparecchiata la conoſcenza, non folamente di
que’vegetabili,o minerali, o animali, che maneggiar fo vente coſtuma, ma di
quelli ancora, che nelle ſtrane, enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli
poteſſero tale ra dal medico venirimpofte. Dovrebbe oltre a ciò eſler
pienamente informato degli ſtrumenti tutti, e ordigni dell' arte, e delle
convenenze, e proporzioni ancora, che alcu ni di quelli han co’ſemplici, de'
quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee. Ma ſopra tutto convien, che la
propietà, e la natura del fuoco egli perfettamente ſappia; acciocchè poi
comprender appieno,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni, che indi le medicinali
compoſizioni ricever fogliano; alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui,
che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica; ſenza la quale Io non
veggio, come bene, e lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre
adoperare; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere
farebbe, ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li
lavoraffero; perciocchè, quanto a me, lo non ſo a niyn modo comprendere,
comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa, il qual non abbia in prima le
manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure.
Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali, oltre alle ſopradetre coſe, avere
in prima tanto qua to ſtudiato in medicina, ed in qualche ſpedale co ' pro pj
occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato. E ſcorgendofi omai in tutte
botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi
dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser
della Chimiea baftevolmente inteſo, e ſperto, In quanto alle Chimiche medicine
poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato, che il
fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da cheimedici,
o non vogliono per lor tracoranza, o non fanno, o non poſsono invilupparvili,lo
aſsai ben giudiche ici, Del Sig. Lionardodi Capoa. 057 rei, ch' a' ſoli
speziali, e a tali, quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura;
ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna; male
compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li,
come dicemmo lavorar ſi dovrebbero, o almen dagli ſpeziali in preſenza
de'medici. Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte
ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse
allor che ſiviſitano, come dir ſi ſuole, le ſpezierie; concioffie coſachè vana
ſenza dubbio, e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai,
per ſogno niuno, lorvir tù, e lor forza baſtantemente avviſare. Echi mai ne'
bof foli delle botteghe, la bontà, e finezza del mercurio di vi ta,
dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale, e d'altri, e d'altri sì
fatti medicamenti d'odore, e di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti
avviſar mai ſapreb be, e l'eccellenza, e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl
prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza
dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande,
che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di
viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere;
imperocchè i fali fiſi, per nulla dire del fa pore, che in tutti il medeſinio
appare,ne alle varie manie re, chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola
dell' arte, ſoglion figurarſi: ne a' varj colori,de'quali veſtono il
precipitato colcotare, ne ad altro ſegnale può niuno macſtro, comęchè ſperto, e
ſaggio in chimica, certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual
pianta, di qual animale ſieno; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me
piante fra eſſo loro,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura, e
del color medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare; ma onde ciò avvegna,
non fa iuogo ora, che lo imprenda ad inveſtigare, eſſendo oltre traſcor ſo tanto
co’miei ragionamenti, che mi convien riſerbare, più d'una coſa al nostro proposito
appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità; la quale ſe miverrà mai,
come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro,
il quale lo ora ſto intero a comporre. DI
CAPUA, Leonardo ADVERTISING Nacque a Bagnoli Irpino (prov.
Avellino) il 10 ag. 1617, da famiglia agiata. Nella sua Vita di Lionardo di
Capoa, l'Amenta ci dice che il D. si dedicò agli studi con passione, tanto da
esibire all'età di undici anni una appropriata conoscenza dei fondamenti della
fede, un retto uso della retorica e dello scrivere in latino. Seguì una sua
sorella a Napoli, dove frequentò la scuola dei padri della Compagnia di Gesù,
studiando per sette anni filosofia e teologia. A diciotto anni si dedicò agli
studi giuridici e quindi alla medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà
critico precoce. A ventidue anni, carico di libri e di progetti di ricerca,
fece ritorno a Bagnoli, con l'intenzione di approfondire le sue conoscenze
naturali e anatomiche. Negli anni seguenti prende forma il suo pensiero critico
intorno al giudizio dei sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle
apparenze e quindi alla inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni
di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci
riferisce di una certa attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile
petrarchesco, composti nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G.
Della Porta, Il martirio di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune
commedie; una favola boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti
andati perduti a causa di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per
Napoli. Non sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché,
comunque, ciò non accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può
ragionevolmente ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal
ritorno di Tommaso Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a
Firenze, Bologna e Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e
un contatto col Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e
alla nuova scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di
matematica e poi di medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca
scientifica nella linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era
senz'altro a favore di quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava
introdurre all'interno di una cultura legata al passato e organizzata
politicamente. Ai primi degli anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi
da controversie e da uno spirito polemicistico per nulla produttivo.
Particolarmente ostile la medicina ufficiale nei confronti dei
"moderni", essa arriverà a far sopprimere la divulgazione di un libro
di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di chimica e la difesa di essa
quale scienza fondamentale per il rinnovamento della medicina. È il
periodo della lettura dei grandi filosofi contemporanei di Europa, da Bacone a
Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà di emulare quei grandi e di fondare
anche a Napoli la "nuova filosofia" condusse il D., con il Cornelio,
F. D'Andrea, P. Lizzardi, G. A. Borelli ed altri, a dar vita all'Accademia
degli Investiganti. Di ritorno nel 1649 da un viaggio a Roma, il Cornelio aveva
portato con sé a Napoli, anche per esplicita richiesta del D., quanti più libri
possibile sui nuovi orizzonti filosofico-scientifici. L'Accademia veniva
fondata l'anno successivo; fu poi disciolta nel 1657 a causa della peste e poi
ricostituita nel 1662 sotto la protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena.
Essa ebbe un ruolo specifico nella vita intellettuale e civile napoletana,
orientata negli anni Cinquanta ad un risveglio culturale. Si tenevano rapporti
letterari e scientifici con sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società
reale di Londra e con l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti,
alcuni dei quali specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era
frequentata in particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da
giovane, frequentò la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli
appartenenti al partito capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680
intorno alla natura dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti
che contribuì a caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima
delle controversie tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il
Parere. L'opera è del 1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia
naturale e razionale, il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana,
quanto priva d'ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p.
94). Questo è il punto centrale della disamina critica del D., nonché il motivo
primo delle future polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua
Autobiografia. Il Parere manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di
pensiero. Vi si dichiara di condividere le idee dei "modemi nostri
filosofanti", quali Copernico e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio,
Gassendi, Boyle, nonché il "dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi,
stimati per la loro opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito
e la ricerca scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità"
e a "far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E
queste rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la
cosa più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce
sulla incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente
accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle
reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva,
ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo
sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare,
aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva,
invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del
potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In
breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo
stesso Parere non rimase esente. L'Amenta ci riferisce che la
pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla
corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere
apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il
Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante
il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina.
Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati
dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea. Il
De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei Discordanti,
seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate nel 1694 con lo
pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti durava già da sei
anni), tacciava di "libertini" e "ateisti" i seguaci della
nuova filosofia con i suoi due allettamenti: la "novità"
dell'opinione e la "libertà" dell'opinare (Benedetto Aletino, Lettere
apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica
dedicate al Sig. D. Carlo Francesco Spinelli principe di Tarsia, Napoli 1694,
pp. 256, 258, 267). Egli presentava il D. e i suoi amici, quali il D'Andrea e
il Grimaldi, come giansenisti, sebbene quelli avversassero il giansenismo ed
ogni rigorismo morale, oltre al fatto che solo dopo la morte del Vico il
giansenismo fa la sua comparsa a Napoli, e più nella forma dell'atteggiamento
antigesuitico e regalista che come dottrina teologica. Tuttavia questi erano i
principali capi d'accusa rivolti al D. e ai capuisti, colpiti indirettamente
attraverso i loro allievi o simpatizzanti nel processo svoltosi a Napoli tra il
1688 e il 1697 per volere della Curia di Roma. Già nel 1671 la
congregazione dell'Inquisizione aveva scritto al cardinale I. Caracciolo,
arcivescovo di Napoli, per metterlo in guardia dai pericoli derivanti dalla
propagazione delle idee di Cartesio. Veniva consigliato di stroncare la
diffusione di quelle idee e di comunicare alla congregazione il loro apparire.
Alla lettera del cardinale fece seguito a Napoli la dispersione degli
Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano aderire alle nuove idee.
Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di G. Burnet a Napoli, erano
rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che, a detta del Burnet,
venivano rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali erano "vus de
mauvais oeil par le clergé, qui les traite d'athées et de disciples de
Pomponatius" (cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnuola...,
Napoli 1934, p. 202). Il processo agli ateisti fu visto da molti come un
processo alle stesse idee propagatesi a Napoli in favore dell'atomismo, del
gassendismo, del cartesianesimo. In tal senso lo intese il Valletta, il quale
vide nella opposizione al pensiero aristotelico e in una nuova riappropriazione
della tradizione platonica, non esclusi Pitagora e Democrito, il mantenimento
della integrità della fede stessa. Il Valletta arriverà a sostenere che la
filosofia aristotelica è l'unica causa e origine di tutte le eresie, opinione
che venne sostenuta anche dal Vico nella sua Historia filosofica del 1714. Le
affermazioni del Valletta facevano invero da eco a quanto scriveva D. nel suo
Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di Aristotele, ma si esige
che essa sia convalidata e suffragata dall'esperienza. Sullo stesso piano
si manterrà la Risposta del D'Andrea alle Lettere del De Benedictis: essa,
infatti, difendendo il pensiero del D., si profila nell'orizzonte di una
polemica intesa in senso antiscolastico e non in senso antimetafisico. Il che
equivale a dire che il vero oggetto della controversia era il
"metodo" dell'indagine scientifica e non i fondamenti metafisici del
conoscere umano. In aperto conflitto erano non singole dottrine ma due modi di
vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la polemica sorta, immediatamente
dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che
la polemica, tra i fautori del naturalismo e i conciliatori del meccanicismo
con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento orientato nel senso di un
moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti del D., oltre le confutazioni
dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto riguarda il processo agli
ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente, sebbene imputati, quali un
Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver appreso da lui le prime
nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi del processo intaccarono
la memoria del D., morto ormai da due anni. Il D. aveva superato già i
quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane Annamaria Orilia. Abitarono
nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri battesimali fu registrata nel
1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella loro casa si discuteva anche di
letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia, confermando il giudizio
dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.: "L'eruditissinio signor Lionardo da
Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia
e di leggiadria" (p. 21). Invero, il D. diede il suo contributo per
il superamento delle forme parossistiche del marinismo esasperato, che a Napoli
aveva assunto la forma di un "secentismo del secentismo". Il D. darà
egli stesso il modello d'una teoria letteraria con la sua biografia storica su
Andrea Cantelmo, che ben presto fu assunta come manifesto letterario dai
capuisti: ritorno all'aureo toscano del Trecento e del Cinquecento, quale
necessità basilare d'un retto formarsi in prosa della lingua e dello stile di
uno scrittore. Il processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche
di certo non mitigate, quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a
mancare. Fu sepolto nella chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu
tenuto un "elogio funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e
cristiana, ma anche la statura intellettuale di maestro e di guida. La
prima e più complessa opera è senz'altro ilParere del Sig. Lionardo di Capua.
Divisato in otto ragionamenti, nei quali partitamente narrandosi l'origine e il
progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si manifesta,
pubblicato a Napoli nel 1681; ristampato nel 1689 a Napoli, dove vide una terza
ristampa nel 1695. L'ultima edizione, accresciuta delle Lezioni intorno alla
natura delle mofete, in tre tomi, in 80, fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso
ebbe molta risonanza nella cultura del tempo; contro di esso scrisse il già
ricordato De Benedictis. Muovendo dalla tesi secondo cui Aristotele ha ignorato
la prova sperimentale, il D. intuisce la necessità di orientarsi verso una
nuova filosofia della "mente". Invero, il D. pensa la mente come
realtà connessa con il processo della natura, non allontanandosi con ciò dai
ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi Progymnasmata physica del 1663 circa
la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è per il D. il discorso intorno agli
aspetti chimici della materia e ad una implicita metafisica, inerente alla
originaria forza interna alla materia, ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle
mofete. Il punto di partenza è la questione dell'"aria", sviluppata
secondo la teoria dei corpi eterei. Questa è pensata come condizione di
possibili attività implicite in ogni punto dell'universo così che la stessa
cartesiana "res cogitans" conosce solo in quanto sollecitata dalle
"sensazioni" provocate dal movimento materiale delle cose,
necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna dire che il D. non
riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e vitalistica del
Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima sede, alla
"prova sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che soprattutto
gli impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è profondamente
radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno. Consentaneamente al
modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta importanza alla chimica,
alle scienze sperimentali e mette al primo posto la matematica. Nel Parere egli
asserisce che per essere medico bisogna prima essere filosofo, ma per essere
filosofo bisogna in primo luogo sapere di "geometria" (Parere...,
Bologna 1714, II, p. 73). Ilmedico, dunque, deve essere ricercatore e teorico
della scienza; a causa delle incertezze della medicina, cui fa riscontro la
"oscurità" della filosofia, il medico deve prepararsi in tutte le
scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise in rilievo più la sua
crudizione che una qualche originalità di pensiero) rimanda alla sapienza degli
antichi, i quali si accontentavano del "solo probabile" nello
spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il Parere è teso a
dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti dell'esperienza e
della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D. trova le maggiori
difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra esperienza e
ragione. Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno alla
naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della
storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689,
obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al
Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a
Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T.
Donzelli, a Napoli, nel 1695. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a
Napoli. L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti
tra virtù e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e natura.
Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia 1710; G. B. Vico,
Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari 1911, pp. 21, 111; C. Minieri Riccio,
Cenno stor. delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per
le prov. nap., IV (1879), pp. 531 ss.; R. Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le
polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del XVIII
secolo, Bari 1914, pp. 37 ss., 52-57, 73 ss.; F. Nicolini, La giovinezza di G.
B. Vico(1666-1700), Bari 1932, pp. 79-90, 154-164; N. Badaloni, Introd. a G. B.
Vico, Milano 1961, pp. 124-147, 157-164, 246 ss., 301 s., 314 s., 352-359; S.
Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del
Seicento, Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima
dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F.
d'Andrea a Benedetto Aletino, in Riv. stor. ital., LXXXII (1970), pp. 887-916;
L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti(1688-1697), Roma
1974, pp. 13-19, 58 s., 93 s., 163-166.Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di
Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: filosofia romana, Aristotele, filosofia,
ragione debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare,
gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691229541/in/photolist-2mTdSm7-2mSEtHs-2mRb398-2mPwGPf-2mPtnaL-2mNzeEc-2mMYDGZ-2mMZQZW-2mLLZRD-2mLLwjC-2mKQ5j7-2mKM4Dx-2mKGd6B-2mKPDck-2mPpskp-2mKbkhx-2mJq2uE-C5ierD-BxCpRq-BxCnkJ-ACvZaD-nTocck-o7QZ82-mujisr
Grice e Carabellese – l’arena e la pietra
-- la sabbia e la roccia – il segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Molfetta).
Filosofo. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the
sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on
the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day!
Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my
pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a
Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le
obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso
in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali
spiccano Kant e Rosmini. Elabora la
dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della
coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè
essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già
asseriva Vico, "è" e non "esiste"). Difese l'oggettività essenziale dell'essere e
la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per
l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel
diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E
allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto
seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto.
Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a
realtà teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita
politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del
concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico
come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a
Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la
manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere.
Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e
la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo Carabellese. Il problema dell'io in Carabellese.
Metafisica in Pantaleo Carabellese. Kant e Carabellese. Dizionario Biografico degli Italiani. Autolimitazione
della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con
particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento
della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come
« scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il
Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta »
deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama
“lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a
prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo
linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty,
Sens et non - sens, Paris, Nagel, 1948; It. trans. by P. Caruso, Senso e non senso,
Milan, Il Saggiatore. La ontologia di
Carabellese, così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica
e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei
valori e dei significati dell’essere»42. L’importanza del lavoro filosofico
carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare
alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già
fatta, come scrive Semerari citando Carabellese43, scendendo sino ai suoi
presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per
reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite
lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la
coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può
trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte della
filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia,
esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al
grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità
linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato
suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si
costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità
dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro.
Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il
rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità
sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si
distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di
fronte a sé [...]. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la
quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità»19.
L’alterità di ciascun io è, come scrive Carabellese, «l’insondabile residuo di
meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è
il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia
soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè
che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta
egoità»42. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la
compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività
molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente,
implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il
Carabellese. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza,
identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così
l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare.
L’io fichtiano, nell’interpretazione del Carabellese, elimina gli altri io
dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando
all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo8. Il Carabellese
sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la
coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece,
pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non
assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me
costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma
proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge agli altri come altri
“di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il
me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla il
Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto
quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra
cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non
sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno
esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può
trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io
non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» Carabellese
rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo
non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo.
Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la
radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione
in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli
altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe
contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che
intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo,
perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite,
come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione
dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la
coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a
non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo
di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da
questo non deriva per il Carabellese che venga eliminata la distinzione dell’io
dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di
tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli
altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o
degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva il Carabellese – che gli altri,
in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri;
bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno,
ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia
la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè
bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale
appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio
corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non
coscienza»11. Già ne Il problema teologico come filosofia il Carabellese
afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è
semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”;
la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire,
agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è
ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa
l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia
ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così
“sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per il Carabellese non è
esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con
l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene
l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la
determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi
i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se
non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità
soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola
però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che.
Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita dal Carabellese
all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro
soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo,
come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche al
Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io,
in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione,
moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non
soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla il
Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto
immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno»,
afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità
ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di
ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per il Carabellese invece proprio
il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più
profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor
proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io
veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non
voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che
possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè
devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che
non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro.
L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e
incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è
sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo»15. La struttura
dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini,
l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a
dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si
afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io
facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non
tolgo ma affermo la mia originalità»16. Per il Carabellese l’amor di sé ha
insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io
come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla
di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è
più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro
identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera
relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che
il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per
cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è
già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e
gli scontri a livello empirico. L’altro per il Carabellese è un altro me, non
la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e
all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il Carabellese, sulla
base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del
Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può
rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri
“me”. Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla
coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per
tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è
individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità”
pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto.
L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale
relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il
singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e
limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e
illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra
il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra
“miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica
espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della
coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio
metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere,
sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il
livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per il
Carabellese l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina
dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma. dimensione
spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività
spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria
concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze,
ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse
assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a
sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso
il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu,
che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non
sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io
(uno)?»18. In realtà, per il Carabellese c’è un'unica soluzione, che esclude la
fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non
quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la
meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò
mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il
diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se
stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19.
Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce
l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con
tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano.
Secondo il Carabellese si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo
due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza,
sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza.
Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il
pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio.
Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione
intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività
spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio,
quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un
insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa
intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova
che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il
contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura
come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te,
persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno
singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è
immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo
Carabellese. Cfr. in proposito P. Carabellese, La coscienza. immissione, senza
della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la
divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i
quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è
immanente a noi molti»22. La differenza fra le egoità si dà solo a livello
empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici,
interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. Carabellese
contrasted the rock of concrete, temporal, plural, relational being in the
light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity cannot
be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist
succession of the facts in which law and value coincide with the succession
itself. The metaphor of sand and rock used by the same Carabellese in his later
writings is taken up by Semerari in the title of a book of 1982 dedicated to
critical ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental
theoretical instance relating to the problem of history. Such a theoretical
instance is asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism
through the ontological recovery of time and of existence and by contrast as
well with the interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as
the outside, as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is,
as its decayed phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne
vuol trovare, e questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI,
SEPARATI, AVER SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE” -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia,
l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P
– non S FUI P --. La responsabilita profonda e di questa coscienza storicista,
che si resolve appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA
[on sand, not on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista
di Croce, che spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo
ultramondano degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia
della semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita
consapevole. CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la
greta), che sono i successive e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira
forse cosi di ritrovare il fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI
FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non
sia quello datoci dal SABBISO SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna
costruzione noi uomini pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro
PENSARE NON TOCCA LA ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro
pensare no ha LA ROCCIA A SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna
costruzione fare SE INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano
sorgere o tramonatre con la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce.
Si COSTRIUCE SOLO CON PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA
E L’ESSERE SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.” 24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et
facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra
petram. 25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti
et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra petram. 26
Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto,
qui aedificavit domum suam supra arenam. 27 Et descendit pluvia, et
venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit,
et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia e la
roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl,
intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione,
azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita
comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati,
l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777371015/in/dateposted-public/
Grice e Caracciolo – il colloquio –
filosofia italiana – Luigi Speranza (San Pietro di Morubio). Filosofo. Grice:
“I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and stated that Heidegger
was then the greatest (grossest, in German) living philosopher – as he then
was, living --. Caracciolo has dedicated his life to translate Heidegger’s
‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger
is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il
dire originario” –“. Grice: “Note that
Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for
Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino
verso la conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice:
“Note that in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel
cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf.
Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia
a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla
stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri
della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli:
biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La
sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana,
ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e
Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e
importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla
dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure
mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra
pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo
svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce
(Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero
nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio",
Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi filosofici,
Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e come modo
autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione ed
eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica,
Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo
dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il
nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza
del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della
religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione
antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della
trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri
del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die
Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg
Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und
einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La
parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e
tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e
metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà
sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema.
Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della
povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e
il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino
verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest
living philosopher”. Martin Heidegger In
cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine:
222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio.
Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto
l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo
nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma
ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma
ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro
parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il
parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per
natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e
dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende
affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella
del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo
quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla,
è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa
significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve
cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è
pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta
per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa
della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la
soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita
piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo”
colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che
cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già
detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce
in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di
Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò
che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che
grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e
troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il
passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama”
la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel
senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di
cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra breve
il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è l’invito
alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della neve” (qui
cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che si oscura
inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li porta come
mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali alla terra,
le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso di sé cielo
e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e i divini”
costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose trattengono
presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e trattenere consiste
l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e
divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo “il
mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro essenza, queste nel
loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel mondo esse stanno e in
questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro durata, le cose in quanto
sono e operano come tali portano a compimento il mondo. Nel tedesco antico
“portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i termini “gebären”
“generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la loro essenza le cose
sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse generano il mondo. La
prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro di venire, tal dire
chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo stesso sospinge verso
le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano, per questo la prima
strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama i molti che come
mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose condizionano i mortali ciò a
questo punto significa: le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e
solo insieme col mondo. La prima strofa parla nell’atto che dice alle cose di
venire, la seconda strofa parla in modo diverso dalla prima eccetera … qual è
la questione qui? Importante perché ci sta dicendo che c’è il mondo che è fatto
di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”, il mondo è ciò per cui le cose sono
quelle che sono, adesso ve la dico in modo molto più semplice e capirete
subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è l’Essere. In questa posizione sta
dicendo che senza il mondo cioè senza l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è
preciso qui quando dice “la caduta della neve” per esempio nel verso “porta gli
uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della
campana della sera li porta come mortali di fronte al divino” cioè queste
parole costruiscono la scena entro la quale la “cosa” può apparire, come se
fosse, adesso preciseremo meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di
significante, adesso sto un po’ stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il
significato, senza significante non c’è significato e viceversa, il significato
cioè ciò che questa “cosa”, questa parola produce, se lui nomina il “suonare
della campana” è chiaro che questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca
il divino, evoca la religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo
una, ma potrebbero essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente
compare, Intervento: come se le cose potessero apparire solo in questa scena
che è il “mondo”… Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è …
Intervento: il mondo è la totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il
chiamare che nomina la cose chiama presso e rimanda lontano, così il dire che
nomina il “mondo” è invito a questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano.
Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le
chiama le cose parlando, io chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi
ma mentre avvicino queste cose, queste cose si allontanano anche, si
allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di
prima … Sì, queste parole sono assenti, nel senso che non sono lì in quanto
tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco: esso, il chiamare,
affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello
splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza. Quindi è
questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa ma solo
per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la loro
essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo 3 potrebbe
essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da
alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il
mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla
nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le
cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure
però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà
che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente,
compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si
costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione
della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla
quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità
della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che
differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser
mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un
verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione
posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo
sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una
relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero
presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è
comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento
negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa
che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga
come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto
misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio
di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta
generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel
nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la
dif-ferenza. – A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente
a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà
ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De
Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo
chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale
soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni
possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella
“quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente)
portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel
modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono
della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del
linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di
umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante”
significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui
è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e
il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti
quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per
Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto
dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a
se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del
linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del
linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in
quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare
dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”,
solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete,
i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare
dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo
ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo
farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare
mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più
elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il
parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento
è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione
che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo
suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la
condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come
“differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo
esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a
“difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in
francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando
la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è
esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a,
è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è
esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla
parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere
qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure,
dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che
questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella
che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal
significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il
trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né
nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non
compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè
perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla
qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e
mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro,
l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto
del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono
minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto
conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino
verso il linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo
determina, non lo può determinare … Intervento: lo potrebbe determinare
l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente
di volta in volta … Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare
che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che,
così notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza
improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È
niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa,
chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il
quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla
semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati
in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado
dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili,
perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio
è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può
accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: …
non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune
cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui
incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto
“Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che
una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al
linguaggio necessariamente (…) Il parlare inteso nella sua pienezza
significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del
suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come
significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente
soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il
linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la
metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si
rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler
sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare
pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto
coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il
volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di
essere pensato … Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la
seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo
è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha
dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha
nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente
delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice
lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa
ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi
in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il
linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche
l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata.
Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato
di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da
questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare
l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per
Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto
coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo
accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un
certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci
consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché
l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che
l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto
ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un
dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la
chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche
averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico.
Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque
cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo
all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone
comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare,
continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia
interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta
incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come dicevo
prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella parte
successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio sulla
poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo accennare
lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza
mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato
fondamentale per Heidegger. 7 20 maggio 2015 Heidegger prosegue: La
ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo
sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce
l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica
che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica.
Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la
metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di
ogni lingua in semplice strumento interplanetario di informazione,
metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa
cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il titolo è Das
Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo
della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del fato,
del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora
afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. (la
marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un viaggio felice
con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi annunciò “qui
nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la
mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia: “nessuna cosa è
dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera non di meno
anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira
vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era
ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale
dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la
parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni
contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del
pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è,
in nome del suo nome? Certamente. /…/ Se l’affrettare nel senso del massimo
potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio
temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che
sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè
esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato
all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica
ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se
la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno
sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il
suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo
dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma
sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose
perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che
se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla.
Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che
riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti
appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das
Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato
diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del
discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che
segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo
“così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non
indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve
immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola
e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si
esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il
poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del
rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola
a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto
diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe
allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”,
l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma
dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in
futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia”
significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente
dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha
evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci
incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come
8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli
abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la
parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola
“Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice
“Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”.
Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen
del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente
un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto
con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli
è stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella sua
rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la
parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro,
a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima
della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio
così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata
alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la
parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che
la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia che
il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale
soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già
destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla
parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa
chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto
non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui
c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il
rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è
una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio
(poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di portare
soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la poesia
di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella fonte
egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che convengono
a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia, prima di
allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue
precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di
George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da
e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse
poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui
meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la
poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del
poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge
però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora
gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di lì
potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza
del 9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione … Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda primitiva,
o comunque dai gruppi degli animali … Intervento: dal branco degli animali,
esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei così …
Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una domanda
al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci
stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già non
possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci
deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui,
come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la
parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò
che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita
ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra
parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in
quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa
(qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del
rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io
che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è
un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il
passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il
passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al
riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si
occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle
scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός”
“attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella
scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al
contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo
fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche,
che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus
degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà
di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la
vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”.
L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono
trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche
Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza
e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino.
Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel
metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze
verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel
potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle
possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il
tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni,
mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la
poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort:
Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e
attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o
sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per
tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco
e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul
fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro,
così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è
da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante
perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta,
la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che
dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori
dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla
d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai
qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento:
sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato
del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un
altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il
qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua
consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra
parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto,
in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa
sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale
rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto
tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo
e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più
sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza
pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel
rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non
“si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal
linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta
parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in
questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché
appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte
dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si
trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso
in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel
quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che
l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a
meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro
che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla.
(In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se 11 stesso, si
trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come
se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il
linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo
nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza”
come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al
linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel
linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio
non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso
intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò
che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per
dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento
in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare
interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le
cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse
qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene
in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è
importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con
certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo
la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del
“terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve
fare da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve
consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere
questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il
quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non
raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra
virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere.
(cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non
solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina,
la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo
reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere
cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che
dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono
quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che
la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola
stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la
parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa
perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e
serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso”
anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e
cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una
relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che
è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si
potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come
trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa
presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il
significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche
alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”,
“significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di
tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è
metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che
questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino
ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua
esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è
una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la
supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi
quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi
questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo,
bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un
passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che
invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un
elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro
ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di
bloccare un significato 12 ovviamente, ma questo significato, come ci
dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie
di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi
danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non
significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per
questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il
linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i
metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini
in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via
immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato
trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio
allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo definitivo,
l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio,
il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e
fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio,
perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per la parola un
tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per
il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola
poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola,
il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando
gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e
sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai
nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è
pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché
la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in
grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la
parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno
che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece
noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola
allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è”
è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi
non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la
situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose
che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non
è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè
come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come
lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente
un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare
frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del
linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per
sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla
che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è”
nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti)
l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito
di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che
“la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la
parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno
l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il
rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il
dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente,
qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il
pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato,
pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in
modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco
può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si
offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso
incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la
parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non
solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella
sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello
che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es
ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt
Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è
qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che
dà la parola? 13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica
del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non
è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel
“es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò
stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in
molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren”
“ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra
riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola”
ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war,
soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là
dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state
fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti
al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere
pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che
noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che
propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la
determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse
il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la
rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella
parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che
non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma
comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma
sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è
trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio
della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte
insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la
parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale
incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a
dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si
sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i
versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone
cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che
non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola
come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione
che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità
tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che
l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice
della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre
raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo
solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto
nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché
la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica
nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e
tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre
esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in
grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a
crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché
non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto
parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di
interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”,
sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è
primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad
essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina
il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e
nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia
dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della
scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente
poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere
ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco
l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande):
(Ripete di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna
cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una
frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa,
farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la
parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola
per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per
essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono
conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha
detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono
conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde
alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di
Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti
per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si
accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso
sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che
parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la
risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta
giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita
nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio
come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole
tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi
sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume
così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così
facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i
“nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi,
perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo
modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma
anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che
rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole
che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i
nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli
deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso
potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme,
che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle
cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che
poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a
quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano
la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto
quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si
trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello
deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No,
altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che
manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della
parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente:
(cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo
prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola
presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa
sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che
consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta
dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce
la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente,
quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco
e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò
il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che
poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che
cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al
fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente
dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra
parola, non è qualcosa che da fuori 15 dovrebbe garantire che sia
esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la
cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai
giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la
vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto
di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola,
alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene
concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene
concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In
cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla
dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio
quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come
parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima,
le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das
Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario,
velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò
che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè
esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo
abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul
linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come
“energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”,
espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di
tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa
fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire
il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì
compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio
(di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece
l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora
da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del
linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni
intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i
parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra
causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui
è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I
parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti, presenti a che?
A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li
riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano
cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la
parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora
in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati
il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto
del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa
parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non
sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare
non dice nulla, un altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire
molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è
necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la
parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si
veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire
originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di
questo non si basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un
mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di
essere segni. (Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i
segni traggono origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la
sua stessa possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che
semplice) // (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva
prima, adesso possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario
è mostrare, in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il
dire originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci
tocca come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non
detto è in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo
mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di
questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è
sempre il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo
esser presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere
presente nel suo essere 16 presente” ma il fatto che qualcosa sia
presente per Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda,
apra l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che
sia presente perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il
linguaggio che fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità
la libera distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol
sapere troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito)
gioverà accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel
mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione
repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi
familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene
neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno
familiare da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per
ogni essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale
soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che
insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla,
essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di
essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del
gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che
muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che
è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa
presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il
linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto
dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come
dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde
da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella
figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e
permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa
possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il
fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il
nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso
(linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si
pone a fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere
(corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La
conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi
uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai
possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo
sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso
già si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha
appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché
per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste
storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea
che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il
privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in
quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come
immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande
alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per
avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere?
Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma
che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno
della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa
soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui
Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola?
che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io
vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto
delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione
del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra,
non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia
del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio
come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio
è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad
altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto
alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. COLLOQUIAL IDIOM The uttered speech of private
life is fluctuating and variable. In every period it varies according to
the age, class, education, and habits of the speaker. His social
experience, traditions and general background, his ordinary tastes and
pursuits, his intellectual and moral cultivation are all reflected in
each man’s conversation. These factors determine and modify a man’s mode
of speech in innumerable ways. They may affect his pronunciation, the
speed of his utterance, his choice of vocabulary, the shade of meaning he
attaches to particular words, or turns of phrase, the character of such
similes and metaphors as occur in his speech, his word order and the structure
of his sentences. But the individual speaker is also affected by
the character of those to whom he speaks. He adjusts himself in a hundred
subtle ways to the age, status, and mental attitude of the company in
which he finds himself. His own state of mind, and the mode of its
expression are unconsciously modified by and attuned to the varying
degree of intimacy, agreement, and community of experience in which he
may stand with his companions of the moment. Thus an accomplished
man of the world, in reality, speaks not one but many slightly different
idioms, and passes easily and instinc- tively, often perhaps unknown to
himself, from one to another, according to the exigence of circumstances.
The man who does not possess, to some extent at least, this power of
adjustment, is of necessity a stranger in eveuy company but that of one
particular type. No man who is not a fool will consider it proper to
address a bevy of Bishops in precisely the same way as would be perfectly
natural and suitable among a party of fox-hunting country
gentlemen. A learned man, accustomed to choose his own topics of
conversation and dilate upon them at leisure in his College common room
where he can count upon the civil forbearance of other people like himself,
would be thought a tedious bore, and a dull one at that, if he carried
his pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart regiment.
'A meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund Verney,
in a letter in which he discusses a proposal that his son should be sent
to Leyden, and observes concerning this— ‘ 'tis too private for a youth
of his yeares that must see company at convenient times, and studdy men
as well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous
then esteemed ^ There is naturally a large body of colloquial
expression which is common to all classes, scholars, sportsmen, officers,
clerics, and the rest, but each class and interest has its own special
way of expressing itself, which is more or less foreign to those outside
it. The average colloquial 360 COLLOQUIAL IDIOM
speech of any age is at best a compromise between a variety of
different jargons, each evolved in and current among the members of a
particular section of the community, and each, within certain social
limits, affects and is affected by the others. Most men belong by their
ciicumstanccs or inclinations to several speech-communities, and have
little difficulty in maintaining Ihhmsclvcs creditably in all of these.
The wider the social opportunities and experience of the individual, and
the keener his lin- guistic instinct, the more readily does he adapt
himself to the company in which he finds himself, and the more easily
docs he fall into line with its accepted traditions of speech and
bc aiing. But if so much variety in the details of colloquial
usage exists in a single age, with such well-marked differences between
the conventions of each, how much greater will be the gulf which
separates the types of familiar conversation in different ages. Do we
realize that if we could, by the workings of some Time Machine, be
suddenly transported back into the seventeenth century, most of us would
find it extremely difficult to carry on, even among the kind of people
most nearly corresponding with those with whom we are habitually
associated in our present age, the simplest kind of decent social
intercourse? Even if the pronunciation of the sixteenth century offered
no difficulty, almost every other element which goes to make up the
medium of communication with our fellows would do so. We
should not know how to greet or take leave of those we met, how to
express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay a
compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We should be
at a loss how to begin and end the simplest note, whether to an intimate
friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold a footman,
commend a child, express in appropriate terms admiration for a woman’s
beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate every
moment how to address the person we were talking to, and should be
embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as — look here,
old man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon
; I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most
amusing ; you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and
meaningless expressions with which most men fill out their sentences. Our
innocent impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so
on, would be nipped in the bud for want of words to express them. How
should we say, on the spur of the moment — what a pretty girl 1 ; what an
amusing play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ;
that's a perfectly rotten book ; I hate the way she dresses ; look here,
Sir, you had better lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if
I'll do that ; I’m very much obliged to you. I'm sure ? It is
very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these and a
thousand others when we read them in the pages of Congreve and his
contemporaries, but it is equally certain that the right expressions
would not rise naturally to our lips as we required them, were we
suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk. The
fact is that we should feel thoroughly at sea in such company, and should
soon discover that we had to learn a new language of polite
society. COLLOQUIAL IDIOM 362 In
illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to be
content, either with the account of conversations given in letters, or
with such other passages from letters of the period as appear to be
nearest to the speech of everyday life. The following
passages are from the Shillingford Letters, to which reference is
repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are extracted from
the accounts given by the stout and genial Mayor of Exeter, in letters to
his friends, of his conversations with the Chancellor during his visit to
London. Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer
but suddenly changes to the first person— in describing the actual
meeting, again returning for a moment to the impersonal phrase.
Jolm Shillingford* ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447)
tberafter the mayer came to West- minster sone apon ix. atte belle, and
ther mette w* my lorde Chanceller atte brode dore a litell fro the steire
fote comyng fro the Sterrechamber, y yn the courte and by the dore
knellyng and salutyng hym yn the moste godely wyse that y cowde and
recommended yn to his gode and gracious lordship my feloship and all the
comminalte, his awne peeple and bedmen of the Cite of Exceter. He seyde
to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the tyme “Right well come
Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by the honde, and so went
forth to his barge and w* hym grete presse, lordis and other, &c. and
yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w* wham he was at right
grete pryvy communication. And therfor y, mayer, drowe me apart, and
mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther toke my leve of hym,
seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon youre gode lordship
and youre better leyser at another tyme He seyde to me ayen, “Mayer, y
pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w* the Chief Justyse
and what that ever he will y woll be all redy”. And thus departed.* — pp.
5, 6. A little later : — * Nerthelez y awayted my tyme
and put me yn presse and went right to my lorde Chaunccller and seide,
“My lorde y am come at your coinmaundc- ment, but y se youre grete
bysynesse is suchc that ye may not attencle ”, He seide “Noo, by his
trauthe and that y myght right well se”. Y scide “Yee, and that y was
sory and hadde pyty of his grete vexacion”. He seide “ Mayer, y moste to
morun ride by tyme to the Kyng, and come ayen this wyke : ye most awayte
apon my comyng, and then y wol speke the justise and attende for yow ”
&c. — p. 7. * He seyde “ Come the morun Monedey ” (the
Chancellor was speaking on Sunday) . . . “the love of God ” Y seyde the
tyme was to shorte, and prayed hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of
t)he grete malice and venym that they have spatte to me yn theire
answeris as hit appercth yn a copy that y sende to yow of. My lorde
seide, “ Alagge alagge, why wolde they do so ? y woll sey right sbarpely
to ham therfor and y nogh Margery Brews* The following
brief extracts from the letters of Margery Brews, the affianced wife of
Jolm Fasten (junior) are like a ray of sunlight in the dreary wilderness
of business and litigation, which are the chief subjects of
correspondence between the Pa&tons. Even this Iove*letter is not
A FIFTEENTH-CENTURY LOVE-LETTER 363 wholly free from
the taint, but the girl's gentle affection for her lover is the
prevailing note* * Yf that ye cowde be content with that good and
my por persone I wold be the meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke
not your selffe soe satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I
hafe ujtidyrstonde be youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that
ye take no such labur iippon yowe, as to come more for that matter, but
let it passe, and never more to be spokyn of, as I may be your trewe
lover and bedewoman during my lyfe .’ — Pas ton Letters^ hi, p. 172
(1477). A few years later Mrs. Fasten writes to her 'trewe and
Iovyng volentyne ' : — ' My mother in lawe thynketh longe she
here no word from you. She is in goode heaie, blissed be God, and al yowr
babees also. I marvel I here no word from you, weche greveth me ful
evele. I sent you a letter be Basiour sone of Norwiche, wher of I have no
word.’ To this the young wife adds the touching postscript : — ' Sir I
pray yow if ye tary longe at London that it wii plese to sende for me,
for I thynke longe sen I lay in your armes.’ — Paston Letie?-Sj iii, p.
293 (1482). Sir Thomas More. No figure in the eaily
part of Henry VIII’s reign is more distin- guished and at the same time
more engaging than that of Sir Thomas More* A few typical records of his
conversation, as preserved by his devoted biographer and son-in-law
Roper, are chosen to illustrate the English of this time. The context is
given so that the extracts may appear in Roper's own setting.
'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his
servaunte) liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^
liberally to rayle against his ould Master, waxed so discontented
therwith, that he hastily came to him, and tould him what he had hard:
"and were I Sir” (quoth he) " in such favour and authoritie
with my Prince as you are, such men surely should not be suffered so
villanously and falsly to misreport and slander me. Wherefore 1 would
wish you to call them before you, and to there shame, for there lewde
malice to punnish them.” Who smilinge upon him sayde, " Watter
Baylie, would you have me punnish them by whome 1 reccave more benefit!
then by you all that be my frendes ? Let them a Gods name speakc as
lewdly as they list of me, and shoote never soe many airowcs at me, so
long as they do not hitt me, what am I the worse? But if the should once
hitt me, then would it a little trouble me : howbeit, I trust, by Gods
helpe, (here shall none of them all be able to touch me. I have more
cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to be angrie with
them.” Such frutfiill communication had he often tymes with his familiar
frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde with me at Chelsey,
in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now, would to God,
Sonne Roger, upon condition three things are well estab- lished in
Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the
Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should
move you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they
be” quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth
I, “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where
as the most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at
universal peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this
present COLLOQUIAL IDIOM 3^4 soare
afflicted witli many heresies and errors, it were well settled in an
uniformity. The third, that where the Kinges matter of his marriage is
now come into question, it were to the glory of God and quietnesse of all
parties brought to a good conclusion : ’’ where by, as I could gather, he
judged, that otherwise it would be a disturbance to a great part of Christ
endome/ ‘ When Sir Thomas Moore had continued a good while in the
Tower, my Ladye his wife obtayned license to see him, who at her first
comminge like a simple woman, and somewhat worldlie too, with this manner
of salutations bluntly saluted him, ‘‘What the good yeai'e, Moore” quoth
shee, I marvell that you, that have beene allwayes hitherimto taken
for soe wise a man, will now soe playe the foole to lye here in this
close filthie prison, and be content to be shutt upp amonge myse and
rattes, when you might be abroad at your libertie, and with the favour
and good will both of the King and his Councell, if you would but doe as
all the Bushopps and best learned of this Realme have done. And seeing
you have at Chelsey a right fayre house, your librarie, your books, your
gallerie, your garden, your orchards, and all other necessaries soe
handsomely about you, where you might, in the companie of me your wife,
your children, and houshould be merrie, I muse what a Gods name you meane
here still thus fondlye to tarry.’' After he had a while quietly hard
her, “ I pray thee good Alice, tell me, tell me one thinge.” “ What is
that ? ” (quoth shee). “ Is not this house as nighe heaven as myne owne?”
To whome shee, after her accustomed fashion, not likeinge such talke,
answeared, “ Tilh valie, Tille valle ” “How say you, Alice, is it not
soe?” quoth he. Bone deus, bone Deusy man, will this geare never be
left?” quoth shee. “Well then Alice, if it be soe, it is verie well. For
I see noe great cause whie I should soe much joye of my gaie house, or of
any thinge belonginge thereunto, when, if I should but seaven yeares lye
buried under ground, and then arise, and come thither againe, I should
not fayle to finde some Iherin that would bidd me gett out of the doores,
and tell me that weare none of myne. What cause have I then to like such
an house as would soe soone forgett his master?” Soe her perswasions
moved him but a little.* The last days of this good man on earth, and
some of his sayings just before his death, are told with great simplicity
by Roper. We cannot forbear to quote the affecting passage which tells of
Sir Thomas More’s last parting from his daughter, the writer’s
wife. ‘When Sir Tho. Moore came from Westminster to the Towreward
againe, his daughter my wife, desireous to see her father, whome shee
thought shee should never see in this world after, and alsoe to have his
finall blessinge, gave attendaunce aboutes the Towre wharfe, where shee
knewe he should passe by, eVe he could enter into the Towre. There
tarriinge for his coininge home, as soone as shee sawe him, after his
blessinges on her knees reverentlie receaved, shoe hastinge towards,
without consideration and care of her selfe, pressinge in amongest the
midst of the thronge and the Companie of the Guard, that with Hollbards
and Billes weare round about him, hastily ranne to him, and then openlye
in the sight of all them embraced and tooke him about the necke, and
kissed him, whoe well likeing her most daughterlye love and affection
towards him, gave her his fatherlie blessinge, and manye goodlie words of
comfort besides, from whome after shee was departed, shee not satisfied
with the former sight of her deare father, havinge respecte neither to
her self, nor to the presse of the people and multitude that were about
him, suddenlye turned backe againe, and rann to him as before, tqoke him
about the necke, and divers tymes togeather most lovinglay kissed him,
and at last with a full heavie harte was fayne to departe from him; the
behouldinge whereof was to manye of them that were SIR
THOMAS MORFS LAST CONVERSATION 365 present thereat soe lamentablcj
that it made them for very sorrow to mourne and weepe.’ ^ In
his last letter to his ' dearely beloved daughter, written with a Cole
Sir Thomas More refers to this incident : — ' And I never liked your
manners better, then when you kissed me last. For* I like when
daughterlie Love, and deare Charitie hath noe leasure to looke to worldlie
Curtesie Next morning ‘ Sir Thomas even, and the Utas of St. Peeter
in the yeare of our Lord God 1537 . . , earlie in the morninge, came to
him Sir Thomas Pope, his singular trend, on messedge from the Kinge and
his Councell, that hee should before nyne of the clocke in the same
morninge suffer death, and that therefore fourthwith he should prepare
himselfe thereto. Pope sayth he, for your good tydinges I most
hartily thankyou. I have beene allwayes^ bounden much to the Kinges
Highnes for the benehtts and honors which he hath still from tyme to tyme
most bounti- fully heaped upon mee, and yete more bounden I ame to his
Grace for putting me into this place, where I have had convenient tyme
and space to have remembraunce of my end, and soe helpe me God most of
all Pope, am I bound to his Highnes, that it pleased him so shortlie to
ridd me of the miseries of this wretched world. And therefore will I not
fayle most earnestlye to praye for his Grace both here, and alsoe in
another world, . . . And I beseech you, good Pope, to be a meane unto his
Highnes, that my daughter Margarette may be present at my buriall.’’ “
The King is well contented allreadie*' (quoth M^’ Pope) ‘‘that your Wife,
Children and other frendes shall have free libertie to be present thereat
“O how much be- hoiilden” then said Sir Thomas Moore “am I to his Grace,
that unto my poore buriall vouchsafeth to have so gratious
Consideration.*’ Wherewithal! Pope takeinge his leave of him could
not refrayne from weepinge, which Sir Tho. Moore perceavinge, comforted
him in this wise, “ Quiete yourselfe good M^ Pope, and be not
discomforted. For I trust that we shall once in heaven see each other
full merily, where we shall bee sure to live and love togeather in
joyfull blisse eternally.** Wolsey. The Ij/e of Wolsey
(1557), by George Cavendish, a faithful and devoted servant of the
Cardinal, who was with him on his death-bed, gives a wonderfully
interesting picture of this remarkable man, in affluence and in
adversity, and records a number of conversations which have a convincing
air of verisimilitude. The following specimens are taken from the
Kelmscott Press edition of 1893, which follows the spelling of the
author's MS. in the British Museum. ‘ After ther departyng^ my lord
came to the sayd howsse of Eston to his lodgyng, where he had to supper
with hyme dyvers of his frends of the court. And syttyng at supper, in
came to hyme Doctor Stephyns, the secretary, late ambassitor unto Rome ;
but to what entent he came I know not ; howbeit my lord toke it that he
came bothe to dissembell a certeyn obedyence and love towards hyme, or
ells to espie hys behaviour, and to here his commynycacion at supper. Not
withstandyng my lord bade hyme well come, and commaundyd hyme to sytt
down at the table to supper; with whome my lord had thys commynycacion
with hyme under thys maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye
be-welcome home owt of Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he,
I came home 366 COLLOQUIAL IDIOM
allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn ever sence?
Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than have ye hunted
and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he, and so I have, I
thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have ye? quod my lord. I
have some syr quod he. And thus in huntyng, and in lyke disports, ,
passed they all ther commynycacion at supper. And after supper my lord
and he talked secretly together until it was mydnyght or they departed.’
— p. 143, ^Than all thyng beyng ordered as it is before reherced,
my lord prepared hyme to depart by water. ^ And before his departyng he
com- maundyd Syr William Gascoyne, his treasorer, to se these thyngs
byfore remembred, delyverd safely to the kyng at his repayer. That don,
the seyd Syr William seyd unto my lord. Syr I ame sorry for your grace,
for I understand ye shall goo strayt way to the tower. Ys this the
good comfort and councell, quod my lord, that ye can geve your mayster in
adversitie? Yt hathe byn allwayes your naturall inclynacion to be very
light of credytt, and mych more lighter in reporting of false newes, I
wold ye shold knowe, Syr William, and all other suche blasphemers, that
it is nothyng more false than that, for I never, thanks be to god,
deserved by no wayes to come there under any arrest, allthoughe it hathe
pleased the kyng to take my howse redy furnysshed for his pleasyr at this
tyme. I wold all the world knewe, and so I confesse to have no thyng, other
riches, honour, or dignyty, that hathe not growen of hyme and by hyme ;
therefore it is my verie dewtie to surrender the same to hyme agayn as
his very owen, with al my hart, or ells I ware and onkynd servaunt.
Therefore goo your wayes, and geve good attendaunce unto your charge,
that no thyng be embeselled.’ — p. 149. ‘And the next day we
removed to Sheffeld Parke, where therle of Shrews- bury lay within the
loge, and all the way thetherward the people cried and lamented, as they
dyd in all places as we rode byfore. And whan we came in to the parke of
Sheffeld, nyghe to the logge, my lord of Shrewesbury, with my lady his
wyfe, a trayn of gentillwomen, and all my lords gentilmen, and yomen,
standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy ng,
to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng these
words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me, and
glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ; and
myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my gentill
lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and allthoughe I
have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may joye, I rejoyce
my chaunce, which is so good to come into the hands and custody of so
noble a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn allwayes
right well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my ongentill
accusers hathe used ther accusations agenst me, yet I assure you, and so
byfore your lordshipe and all the world do I protest, that my demeanor
and procedyngs hathe byn just and loyall towards my soverayn and liege
lord ; of whose behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good
experyence ; and evyn accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I bescche
god helpe me in this my calamytie. I dought nothyng of your Irouthe, quod
therle, tlierfore my lorde I beseche you be of good chere and feare not,
for I have receyved letters from the kyng of his owen hand in your favour
and entertaynyng the whiche you shall se. Sir, I ame nothyng sory but
that I have not wherwith worthely to receyve you, and to entertayn you
accordyng to your honour and my good wyll ; but suche as I have ye are
most hartely welcome therto, desiryng you to accept my good wyll accordyngly,
for I wol not receyve you as a prisoner, but as my good lord, and the
kyngs trewe faythfull subjecte ; and here is my wyfe come to salute you.
Whome my lord kyst barehedyd, and all hir gentilwomen ; and toke my lords
servaunts by the hands, as well gentilmen and yomen as other. Then these
two lords went arme in arme CARDINAL WOLSEY TAKES HIS LEAVE
367 into the logge, conductyng my lord into a fayer chamber at
thend of a goodly gallery within a newe tower, and here my lord was
lodged.’ — p. 246. Here are some short portions of dialogue between
Wolsey and his friends, just before his death : * Uppon
Monday in the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought viii of the
clocke, the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights burnyng uppon
the cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to his end. He
perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side, asked who was
there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to me. Very well
Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ? quod he to
me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the mornyng.
Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers times
eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the last,
it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal loose
your mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of this
world.’ . . p. 265. ‘ Mayster Kyngston farewell. I can no
moore, but why she all thyngs to have good successe. My tyme drawyth on
fast. I may not tary with you. And forget not I pray you, what I have
seyd and charged you with all : for whan I ame deade, ye shall
peradventure remember my words myche better. And even with these words he
began to drawe his speche at lengthe and his tong to fayle, his eyes
beyng set in his hed, whos sight faylled hyme ; than we began to put hyme
in rembraunce of Christs passion, and sent for the Abbott of the place to
annele hyme ; who came with all spede and mynestred unto hyme all the servyce
to the same belongyng ; and caused also the gard to stand by, bothe to
here hyme talk byfore his deathe, and also to here wytnes of the same ;
and incontinent the clocke strake viii, at whiche tyme he gave uppe the
gost, and thus departed he this present lyfe.’— p. 276.
Latimer. The Sermons of Bp. Latimer present good examples^ of
colloquial oratory, and the style is but little removed from the
colloquial style of the period. The following are from the Sermon of the
Ploughers, preached in 1548: ' For they that be lordes vyll
yll go to plough. It is no mete office for them. It is not semyng for
their state. Thus came up lordyng loiterers. Thus crept in vnprechinge
prelates, and so haue they longe continued. ‘ For how many
vnlearned prelates haue we now at this day ? And no maruel. For if ye
plough men yat now be, were made lordes they woulde cleane gyue ouer
ploughinge, they woulde leaue of theyr labour and fall to lordyng
outright, and let the plough stand. And then bothe ploughes nor walkyng
nothyng shoulde be in the common weale but honger. For euer sence the
Prelates were made Loordes and nobles, the ploughe standeth, there is no
worke done, the people starue. ‘ Thei hauke, thei hunt, thei card,
they dyce, they pastyme m theyr pre- lacies with galaunte gentlemen, with
theyr daunsmge mmyons, and with theyr freshe companions, so that
ploughinge is set a syde. And by tne lordinge and loytryng, preachynge
and ploughinge is cleane gone . . ^^‘But^iiowe for the defaulte of
vnpreaching prelates me thinke I coulde gesse what myghte be sayed for
excusynge of them : They are so troubeled wyth Lordelye lyuynge, they be
so placed in palacies, couched m courte^ ruffelynge in theyr rentes,
daunceyng in theyr dominions, burdened with ambassages, pamperynge of
theyr paunches lyke a monke that maketh his COLLOQUIAL
IDIOM 368 jubilie, moundiynge in their maungers, and
moylynge in their gaye manoures and mansions, and so troubeled wyth loy
terynge in theyr Lordeshyppes : that they canne not attende it. They are
other wyse occupyed, some in the kynges matters, some are ambassadoures,
some of the pryuie counsell, some to furnyslie the courte, some are
Lordes of the Parliamente, some are presidentes, and some comptroleres of
myntes. Well, well. Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is
thys theyr callyng? Should we haue ministers of the church to be
comptrollers of the myntes ? Is thys a meete office for a prieste that
hath cure of soules ? Is this hys charge ? I woulde here aske one
question : I would fayne knowe who comp- trolleth the deuyll at home at
his parishe, whyle he comptrolleth the mynte ? If the Apostles mighte not
ieaue the office of preaching to be deacons, shall one Ieaue it for
myntyng ? ’ Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of
deliting the hearers, and stirring them to laughter ’ in which are
enumerated ' What are the kindes of sporting, or mouing to laughter'. The
subject is illustrated by various ' pleasant ' stories, which if few of
them would now make us laugh, are at least couched in a very easy and
colloquial style and enlivened by scraps of actual conversation. The most
amusing element in the whole chapter is the attitude of the writer to the
subject, and the combination of seriousness and scurrility with which it
is handled. ' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane
that maketh us mery ... is the fondnes, the filthines, the deformitie,
and all such euill be- hauiour as we see to be in other? ... Now when we
would abashe a man for some words that he hath spoken, and can take none
aduauntage of his person, or making of his bodie, we either doubt him at
the first, and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els
we confute wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we
extenuate and diminish his doings by some pretie meanes, or els we cast
the like in his dish, and with some other devise, dash hym out of
countenance : or last of all, we laugh him to scorne out right, and
sometimes speake almost neuer a word, but only in continuaunce, shewe our
selues pleasaunt’. — ^p. 136. ‘ A frend of mine, and a good
fellowe, more honest then wealthie, yea and more pleasant then thriftie,
liauing need of a nagge for his iourney that he had in hande, and being
in the countrey, minded to go to Parlnaie faire in Lincolnshire, not
farre from the place where he then laie, and meeting by the way one of
his acquaintaunce, told him his arrande, and asked him how horses went at
the Faire. The other aunswered merely and saidc, some trot sir, and some
amble, as farre as I can see. If their paces be altered, I praye you tell
me at our next meeting. And so rid away as fast as his horse could cary
him, without saying any word more, whereat he then being alone, fel a
laughing hartely to him self, and looked after a good while, vntil the
other was out of sight.’ — p. 140. 'A Gentleman hauing heard a
Sermon at Panics, and being come home, was asked what the preacher said.
The Gentleman answered he would first heare what his man could saie, who
then waited vpon him, with his hatte and cloake, and calling his man to
him, sayd, nowe sir, whate haue you brought from the Sermon. Forsothe
good Maister, sayd the seruaunt your cloake and your hatte- A honest true
dealing seruaunt out of doubt, piaine as a packsadclle, bauing a better
soule to God, though his witte was simple, then those haue, that vnder
the colour of hearing, giuc them selues to priuie picking, and so bring
other mens purses home in their bosomes, in the steade of other mens
Sermons.’— pp. 14X-2. These two stories are intended to illustrate
the point that ' We shall delite the hearers, when they looke for one
ansvvere, and we make them ‘DELITING THE HEARERS’
369 a cleane contrary, as though we would not seeme to
vnderstand what they would haue ^Churlish aunsweres like the
hearers sometimes very well. When the father was cast in judgement, the
Sonne seeing him weepe : why weepe you Father? (quoth he) To whom his
Father aunswered. ^What? Shall I sing I pray thee seeing by Lawe I am
condemned to "dye. Socrates likewise bieing^ mooued of his wife,
because he should dye an innocent and guiltlesse in the Law: Why for
shame woman (quoth he) wilt thou haue me to dye giltic and deseruing.
When one had falne into a ditch, an other pitying his fall, asked him and
saied : Alas how got you into that pit ? Why Gods mother, quoth the
other, doest thou aske me how I got in, nay tell me rather in the
mischiefe, how I shall get out.’ The nearest approach to the
colloquial style in Bacon is to be found in the Apophthegms, in which are
scraps of conversation. A few may be quoted, if only on account of the
author. ‘ Master Mason of Trinity College, sent his pupil to an
other of the fellows, to borrow a book of him, who told him, I am loth to
lend my books out of my chamber, but if it please thy tutor to come and
read upon it in my chamber, he shall as long as he will.” It was winter,
and some days after the same fellow sent to M^‘ Mason to borrow his
bellows ; but M^’ Mason said to his pupil, ‘‘ I am loth to lend my
bellows out of my chamber, but if thy tutor would come and blow the fire
in my chamber, he shall as long as he will.” —ApophtJi. 47, p. 1 1
3. ^ There were fishermen drawing the river at Chelsea: M^* Bacon
came thither by chance in the afternoon, and offered to buy their draught
: they were willing. He askcvl them what they would take ? They asked
thirty shillings. M^ Bacon offered them ten. They refused it. Why then
said M^* Bacon, I will be only a looker on. They drew and catched
nothing. Saith M^ Bacon, Are not you mad fellows now, that might have had
an angel in your purse, to have made merry withal, and to have warmed
you thoroughly, and now you must go home with nothing. Ay but, saith
the fishermen, we had hope then to make a better gain of it. Saith M^’
Bacon, ‘‘ Well my master, then I will tell you, hope is a good breakfast,
but it is a bad supper.” — p, 136. Otway^s Comedies have all
the coarseness and raciness of dialogue of the latter half of the
seventeenth century, and a pretty vein of genuine comicality. They are
packed with the familiar slang and colloquialisms of the period. A few
passages from Friendship in Fashion illustrate at once the speech and the
manners of the day. Enter Lady SQUEAMISH at the Door,
Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady Cousin ! —Faith Madam you see I am
at it. Malagene, The Devil’s wit, I think ; we could no sooner talk
of wh — but she must come in, with a pox to her. Madam, your Ladyship’s
most humble Servant. Ldy Squ. Oh, odious ! insufferable ! who
would have thought Cousin, you would have serv’d me so— fough, how he
stinks of wine, I can smell him hither. — How have you the Patience to
hear the Noise of Fiddles, and spend your time in nasty drinking ?
Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely Lady, thou shalt
take thy Glass. Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I had rather you
had offered me a toad. B b 370
COLLOQUIAL IDIOM Sir N, Then Malagene, here’s a Health to my Lady
Cousin’s Pelion upon Ossa. [Drinks and breaks the Ldy Squ,
Lord, dear Malagene what ’s that ? MaL A certain Place Madam, in
Greece, much talk’t of by the Ancients ; the noble Gentleman is well
read. Ldy Squ. 'Nay he’s an ingenious Person I’ll assure you.
Sir N. Now Lady bright, I am wholly thy Slave: Give me thy Hand,
I’ll go straight and begin my Grandmother’s Kissing Dance ; but first
deign me the private Honour of thy Lip. Ldy Squ. Nay, fie Sir
Noble 1 how I hate you now ! for shame be not so rude : I swear you are
quite spoiled. Get you gone you good-natur’d Toad you. [Exetmti\
Malagene, . . . I’m a very good Mimick ; I can act Punchinello,
Scara- mouchir, Harlequin, Prince Prettyman or anything. 1 can act the
rumbling of a Wheel -barrow. Valentine, The rumbling of a
Wheel-barrow ! MaL Ay, the rumbling of a Wheel-barrow, so I say —
Nay more than that, I can act a Sow and Pigs, Saussages a broiling, a
Shoulder of Mutton a roasting : I can act a fly in a Honey-pot,
Truman, That indeed must be the Effect of very curious Observation.
MaL No, hang it, I never make it my business to observe anything,
that is Mechanicke. But all this I do, you shall see me if you will : But
here comes her Ladyship and Sir Noble. Ldy Squ, Oh, dear M^
Truman, rescue me. Nay Sir Noble for Heav’n’s sake. Sir N, I
tell thee Lady, I must embrace thee : Sir, do you know me ! I am Sir
Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate, and I live— Do you want any
money ? I have fifty pounds. VaL Nay good Sir Noble, none of your
Generosity we beseech you. The Lady, the Lady, Sir Noble. Sir
N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take ft, there it is. — Hang
Money, my Father was an Alderman. MaL ’Tis pity good Guineas should
be spoil’d, Sir Noble, by your leave. [Picks up the Guineasl\
Sir N. But, Sir, you will not keep my Money ? MaL Oh, hang
Money, Sir, your Father was an Alderman. Sir N, Well, get thee gone
for an Arch-Wag — I do but sham all this while i — ^but by Dad he ’s pure
Company. . . . . . . Lady, once more I say be civil, and come kiss
me. VaL Well done Sir Noble, to her, never spare. Ldy
Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay dear Sir Noble
: M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits. Sir N, No, but let
me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry me? [LTneels.]
MaL Faith Madam do, let me make the Match. Ldy Squ, Let me
die Malagene, you are a strange Man, and Fll swear have a great deal of
Wit. Lord, why don’t you write ? MaL Write? I thank your Ladyship
for that with all my Heart. No I have a Finger in a Lampoon or so
sometimes, that ’s all. Truman, But he can act. Ldy
Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our Theatres; I
have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not comparable to
the French or Italian: Besides we want Poets. SirN, Poets! Why I am
a Poet; I have written three Acts of a Play, and have nam’d it already.
’Tis to be a Tragedy. Ldy Squ. Oh Cousin, if you undertake to write
a Tragedy, take my ‘ PLEASURE INTOLERABLE ^ 3 ji
Counsel : Be sure to say soft melting tender things in it that may be
moving, and make your Lady’s Characters virtuous whatever you do. Sir
N. Moving I Why, I can never read it myself but it makes me laugh : well,
’tis the pretty’st Plot, and so full of Waggery. Ldy Sgti, Oh
ridiculous I Mai But Knight, the Title ; Knight, the Title.
Sir N, Why let me see ; ’tis to be called The Merry Conceits of Love
; or the Life and Death of the Emperor Charles the Fifth, with the
Humours of his Dog Boabdillo. Mai PI a, ha, ha. . . ,
Ldy Squ, But dear Malagene, won’t you let us see you act a little
something of Harlequin? I’ll swear you do it so naturally, it makes me
think Fm at the Louvre or Whitehall all the time. [Mai acis.] O Lord,
don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make me burst. Was there ever
any- thing so pleasant ? Trwn, Was ever anything so affected
and ridiculous ? Her whole Life sure is a continued Scene of
Impertinence. What a damn’d Creature is a decay’d Woman, with all the
exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet none of the Charms ! [Mai
s^peaks in PunchinelMs voicei\ Ldy Squ, O Lord, that, that ; that
is a Pleasure intolerable. Well, let me die if I can hold out any
longer. A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the
Generous Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two
Gentlemen’, Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays
of the day and others of an earlier date. The style is that of easy and
natural familiar con- versation, with little or no artificiality, and
incidentally, the tract throws light upon contemporary manners and social
habits. The following examples are designed to illustrate the colloquial
handling of indifferent topics, and the small-talk of the early
eighteenth century, as well as the treatment of the immediate subject of
the essay. Sullen. They may talk of the Country and what they will,
but the Park for my money. Ramble. In its proper Season I
grant you, when the Mall is pav’d with lac’d shoes ; when the Air is
perfum’d with the rosie Breath of so many fine Ladies ; when from one end
to the other the Sight is entertain’d with nothing but Beauty, and the
whole Prospect looks like an Opera. Sull And when is it out of
Season Ramble ? Ram. When the Beauties desert it ; when the absence
of this charming Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is
to me no more than a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country
Garden with a pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.
Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and
the Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the
Masters in Town can’t divert you. Ram. I love everything as
Nature and the Nature of Pleasure has con- triv’d it ; I love the
Town in Winter, because then the Country looks aged and deform’d ;
and I hate the Town in Summer, because then the Country is in its Glory,
and looks like a Mistress just drest out for enjoyment. Sull Very
well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress. Ram. I
distinguish ’em by that comparison because I love nothing well enough to
be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change my
Abode with my Inclination, Sull I differ from you for the very
Reason you give for your change ; the Town is evermore the same to me ;
and tho* the Season makes it look after another manner, yet still it has
a Face to please me one way or other, and both Winter and Summer make it
agreeable, —pp. 1-3* B b 2 372
COLLOQUIAL IDIOM Here is a conversation during dinner at the '
Blew Posts \ Critik, What have you order’d ? Ramh. A
Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ; d’ee like it
? Crit, I like, anything in the World that will indure Cutting :
Prithee Cook make haste or expect I shall Storm thy Kitchin.
SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping Garrison
in Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy
Company. CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou
mightst under- stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our
Places • . . the blessed hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to,
Graces are out of Fashion. Ramb. I wish the Charming Madam Subligny
were here. CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d
down to the Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter,
some Wine . , . or I shall choak. . . . Suit, This Fellow
eats like an Ostrich, the Bones of these great Fish are no more to him
than the Bones of an Anchovy ; they melt upon his Tongue like marrow
Puddings. Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so
gentle ; here ’s one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . .
the Flask . . . , Ramb. But Critick, how did you like the Play last
Night ? Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a
Man time to break his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t
fix his knife in ’t, it runs away from him as if it were still alive, and
was afraid of the Hook : Put the Lamb this way. SulL The
Rogue quarrels with the Fish, and yet you cou’d eat up the whole Pond ;
the late Whale at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar- badge,
wou’d ha’ been but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ? does
that feel your knife? Crit. A little more substantial, and not much
: Well, I shou’d certainly be starv’d if I were to feed with the French,
I hate their thin slops, their Pot- tages, Frigaces, and Ragous, where a
Man may bury his Hand in the Sauce, and dine upon Steam : No, no, commend
me to King Jemmy’s English Surloin, in whose gentle Flesh a Man may
plunge a Case-knife to the tip of the Handle, and then draw out a Slice
that will surfeit half a Score Yeoman of the Guard. Some Wine ye Dog . .
. there . , . now I have slain the Giant ; and now to your Question . . .
what was it you askt me ? Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some
Tarts and Cheese ? Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like
a faint After-kiss, when a Man is sated with better Sport ; there ’s no
more Nourishment in ’em, than in the paring of an Apple. Here Waiter take
away. . . . Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’ , .
Ramb. Here Waiter — send to the Booksellers in Pell mell for the
Generous Conqueror and make haste . . , you say you know the Author
Critick. Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of
good Extraction, and for ought I know, of good Sense. Ramb.
Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that a Man that
can write a Play, must be a Man of good Sense. Crit That is not
always a consequence, I have known many a singing Master have a worse
voice than a Parish Clerk, and I know two dancing Masters at this time,
that are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit up a Man of War
for the West Indies, and perhaps not know his Compas : Or a great
Trpelier, with Heylin, that writ the Geography of the whole World, may,
like him, not know the way from the next Village to his own House.
Ramb. Your Comparisons are remote M*^ Critick. Cfit. Not so
remote as some successful Authors are from good sense ;
GENERAL CONVERSATION AFTER DINNER 373 Wit and
Sense are no more the same than Wit and Humour; nay there is even in Wit
an uncertain Mode, a variable Fashion, that is as unstable as the Fashion
of our Cloaths : This may be proved by their Works who writ a hundred
Years ago, compar’d with some of the modern ; Sir Philip Sidney, Don,
Overbury, nay Ben himself took singular delight in playing with their
Words : Sir Philip is everywhere in his Arcadia jugling, which certainly
by the example of so great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion
; now that kind of Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too
low for the Stage, nay even for ordinary Converse ; so that when we find
a Man who still loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable,
as who is more remarkable than Capt. Swan. Ramb. Nay, your
Quibble does well now a Days, your best Comedies tast of ’em ; the Old
Batchelor is rank. Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen
Betty’s Ruff and Fardin- gale are not more exploded ; But Sense
Gentlemen, is and will be the same to the World’s end. SulL
And Nonsense is infinite, for England never had such a Stock and such
Variety. Ramb. Yet I have heard the Poets that flourish’d in the
last Reign but two, complain of the same Calamity, and before that Reign
the thing was the same : All Ages have produced Murmurers ; and in the
best of times you shall hear the Trades-man cry — Alas Neighbour ! sad
Times, very hard Times .. , not a Penny of Money stirring . . . Trade is
quite dead, and nothing but War . . . War and Taxes . . . when to my
knowledge the gluttonous Rogue shall drink his two Bottles at Dinner, and
his Wife have half a Score of rich Suits, a purse of Gold for the
Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and Silver Lace on her under
Petticoats. Sail, Nay certainly, this that Ramble now speaks of is
a great Truth; those hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’
our Nation never had such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too
little for their voracious Appetites : As I live — says he, I can’t
afford this Silk one Penny cheaper — d’ee mind the Rogues Equivocation ?
as I live — ^that is, he lives like a Gen- tleman — but let him live like
a Tradesman and be hang’d ; let him wear a Frock, and his Wife a blew
Apron. Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. —
pp. 76-9. The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^
devoid of all the lighter touches, is typical of the age that was
beginning, the age of reaction against the levities and negligences in
speech and conduct of the seventeenth and early eighteenth
centuries. The following conversation of rather an agitated
character, between a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa
Ifarlozue{i*j4S): * • * • My mother came up to me. I love, she was
pleased to say, to come into this appartment.— No emotions child I No
flutters ! — Am I not your mother F—Am I not your fond, your indulgent
mother P-— Do not discompose me by discomposixig Do not occasion me
uneasiness, when I would glveyau nothing but pleasure. Come my
dear, we will go into your closet. . . . PI ear me out and then speak ;
for I was going to expostulate. You are no stranger to the end of M^
Solmes’s visits — O Madam! — Hear me out; and then speak. — He is not
indeed everything I wish him to be : but he is a man of probity and has
no vices — No vices Madam ! — Hear me out child. — You have not behaved
much amiss to him : we have seen with pleasur *. that you have not — O
Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘ fently, —A young
creature of your virtuous and pious turn, she was pleased ! say, cannot
surely love a predicate ; you love your brother too well, to wish p see
any one who had like to have killed him, and who threatened youri incles
and defies us all You have had your own way six or seven times : v|? |
w^nt 374 COLLOQUIAL IDIOM to
secure you against a man so vile. Tell me (I have a right to know)
whether you prefer this man to all others ? — Yet God forbid that I
should know you do ; for such a declaration would make us all miserable.
Yet tell me, a.re your affections engaged to this man ? I
know what the inference would be if I had said they were not You hesitate
— You answer me not — You cannot answer me — Rising — Nevermore will I
look upon you with an eye of favour — O Madam, Madam ! Kill me not with
your displeasure — I would not, I need not, hesitate one moment, did I
not dread the inference, if I answer you as you wish. — Yet be that
inference what it will, your threatened displeasure will make me speak.
And I declare to you, that I know not my own heart if it be not
absolutely free. And pray, let me ask my dearest Mamma, in what has my
conduct been faulty, that like a giddy creature, I must be forced to
marr^r, to save me from— from what ? Let me beseech you Madam to be the
Guardian of my reputation \ Let not your Clarissa be precipitated into a
stale she wishes not to enter into with any man ! And this upon a
supposition that otherwise she shall marry herself, and disgrace her
whole family. When then, Clary [passing over the force of my plea]
if your heart be free — O my beloved Mamma, let the usual generosity of
your dear heart operate in my favour.^ Urge not upon me the inference
that made me hesitate. I won’t be interrupted, Clary — You have
seen in my behaviour to you, on this occasion, a truly maternal
tenderness ; you have observed that I have undertaken the task with some
reluctance, because the man is not everything ; and because I know you
carry your notions of perfection in a man too high. — Dearest Madam, this
one time excuse me ! Is there then any danger that I should be guilty of
an imprudent thing for the man’s sake you hint at ? Again interrupted! Am
I to be questioned, and argued with? You know this won’t do somewhere
else. You know it won’t. What reason then, ungenerous girl, can you have
for arguing with me thus, but because you think from my indulgence to you
you may ? What can I say ? What can I do ? What must that cause be
that will not bear being argued upon ? Again ! Clary Harlowe
— Dearest Madam forgive me : it was always my pride and my pleasure
to obey you. But look upon that man — see but the disagreeableness of
his person — Now, Clary, do I see whose pei'son you have in your eye ! —
Now is M^’ Solmes, I see, but coinparatively disagreeable ; disagreeable
only as an« other man has a much more specious person. But,
Madam, are not his manners equally so 1 — Is not his person the true
representation of his mind ? — That other man is not, shall not be, anything
to me, release me from this one man, whom my heart, unbidden, resists.
Condition thus with your father. Will he bear, do you think, to be
thus dialogued with? Have I not conjured you, as you value my peace —
What is it that / do not give up ?*~-This very task, because I
apprehended you would not be easily persuaded, is a task indeed upon me.
And will you give up nothing ? Have you not refused as many as have been
offered to you ? If you would not have us guess for whom, comply ; for
comply you must, or be looked upon as in a state of defiance with your
whole family. And saying thus she arose, and went from me.’
Miss AusteiL. The following examples of Miss Austen’s
dialogue are not selected because they are the most sparkling
conversations in her works, but rather because they appear to be typical
of the way of speech of the period, and further they illustrate Miss
Austeff s incomparable art. The first passage is ixomEmma^ which was
written between i8ii and CONVERSATION OF MR. WOODHOUSE
3^5 i8i6. Mr. Woodhouse and his daughter have just received
an invitation to dine with the Coles, enriched tradespeople who had
settled in the neighbourhood. Emma's view of them was that they were '
very respect- able in their way, but they ought to be taught that it was
not for them to arrange the times on which the superior families would
visit them On the present occasion, however, ‘ she was not absolutely
w^ithout inclina- tion for the party. The Coles expressed themselves so
properly — there was so much real attention in the manner of it — so much
consideration for her father/ Emma having decided in her own mind to
accept the invitation — some of her intimate friends were going — it
remained to explain to her father, the ailing and fussy Mr. Woodhouse,
that he would be left alone without his daughter s company for the
evening, as it was out of the question that he should accompany her. ‘ He
was soon pretty well resigned.’ ‘ I am not fond of
dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is Emma. Late hours do
not agree with us. I am sorry and Cole should have done it. I think it
would be much better if they would come in one afternoon next summer and
take their tea with us ; take us in their afternoon walk, which they
might do, as our hours are so reasonable, and yet get home without being
out in the damp of the evening. The dews of a summer evening are what I
would not expose anybody to. However as they are so very desirous to have
dear Emma dine with them, and as you will both be there [this refers to
his friend Weston and his wife], and Knightley too, to take care of her I
cannot wish to prevent it, provided the weather be what it ought, neither
damp, nor cold, nor windy.” Then turning to Weston with a look of gentle
reproach — “Ah, Miss Taylor, if you had not married, you would have
staled at home with me.” “ Well, Sir ”, cried Weston, as I took
Miss Taylor away, it is incumbent upon me to supply her place, if I can ;
and I will step to M^’® Goddard in a moment if you wish it.” . . . With
this treatment M^ Woodhouse was soon composed enough for talking as
usual. “ He should be happy to see M^*® Goddard. He had a great regard
for Goddard; and Emma should write a line and invite her. James could take
the note. But first there must be an answer written to M’^® Cole.”
“ You will make my excuses, my dear, as civilly as possible. You will
say that I am quite an invalid, and go nowhere, and therefore must
decline their obliging invitation ; beginning with my comj^limentsy of
course. But you will do everything right. I need not tell you what is to
be done. We must remember to let James know that the carriage will be
wanted on Tuesday. I shall have no fears for you with him. We have never
been there above once since the new approach was made ; but still I have
no doubt that James will take you very safely ; and when you gel there
you must tell him at what time you would have him come for you again ;
and you had better name an early hour. You will not like staying late.
You will get tired when tea is over.” “ But you would not wish me
to come away before I am tired, papa ? ” Oh no my love ; but you
will soon be tired. There will be a great many people talking at once.
You will not like the noise.” “But my dear Sir,” cried M^’ Weston,
“if Emma comes away early, it will be breaking up the party.”
“ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The sooner every
party breaks up the better.” “ But you do not consider how it may
appear to the Coles. Emma’s going away directly after tea might be giving
offense. They are good-natured people, and think little of their own
claims ; but still they must feel that anybody’s hurrying away is no
great compliment ; and Miss Woodhouse’s COLLOQUIAL
IDIOM 3?6 doing it would be more thought of than any
other personas in the room. You would not wish to disappoint and mortify
the Coles, I am sure, sir; friendly, good sort of people as ever lived,
and who have been your neighbours these /en years.” ‘^No, upon
no account in the world, Weston, I am much obliged to you for reminding
me. I should be extremely sorry to be giving them any pain. I know what
worthy people they are. Peny tells me that Cole never touches malt
liquor. You would not think it to look at him, but he is bilious — M^'
Cole is very bilious. No, I would not be the means of giving them any
pain. My dear Emma we must consider this. I am sure rather than run any
risk of hurting and Cole you would stay a little longer than you might
wish. You will not regard being tired. You will be perfectly safe, you
know, among your friends.” Oh 5^es, papa. I have no fears at all
for myself ; and I should have no scruples of staying as late as Weston,
but on your account. I am only afraid of your silting up for me. I am not
afraid of your not being ex- ceedingly comfortable with Goddard. ^ She
loves piquet, you know ; but when she is gone home I am afraid you will
be sitting up by youiself, instead of going to bed at your usual time ;
and the idea of that would entirely destroy my comfort. You must promise
me not to sit up.” * The next example is in a very different vein.
It is from Sense and Sensibility (chap, xxi) and records the mode of
conversation of the Miss Steeles. These two ladies are among Miss
Austen's vulgar characters, and their speech lacks the restraint and
decorum which her better-bred personages invariably exhibit. While the
Miss Steeles’ con- versation is in sharp contrast with that of the Miss
Dashwoods, with whom they are here engaged, both in substance and manner,
it evidently passed muster among many of the associates of the latter,
especially with their cousin Sir John Middleton, in whose house, as
relations of his wife's, the Miss Steeles are staying. Apart from the
vulgarity of thought, the diction appears low when compared with that of
most of Miss Austen's characters. As a matter of fact it is largely the
way of speech of the better society of an earlier age, which has come
down in the world, and survives among a pretentious provincial
bourgeoisie. ‘ ‘^What a sweet woman Lady Middleton is” said Lucy
Steele . . . '‘And Sir John too ” cried the elder sistei', “ what a
charming man he is ! ” . . . And what a charming little family they
have ! I never saw such fine children in my life. I declare I quite doat
upon them already, and indeed I am always destractedly fond of children.”
"I should guess so” said Elinor with a smile “from what I witnessed
this morning.” “I have a notion” said Lucy, “you think the little
Middletons rather too much indulged ; perhaps they may be the outside of
enough ; but it is natural in Lady Middleton; and for my part I love to
see children full of life and spirits ; I cannot bear them if they are
tame and quiet” “I confess ” replied Elinor, “that while I am at
Barton Park, I never think of tame and quiet children with any
abhorrence.” * “ And how do you like Devonshire, Miss Dashwood ?
(said Miss Steele) I suppose you were very sorry to leave Sussex.”
In some suiyrise at the familiarity of this question, or at least in
the manner in which it was spoken, Elinor replied that she was.
“Norland is a prodigious beautiful place, is not it?” added Miss
Steele, “We have heard Sir John admire it excessively,” said Lucy, who seemed
to think some apology necessary for the freedom of her sister. “ I think
MISS LUCY STEELE B11 every one admire it
’'replied Elinor, “who ever saw the place; though it is not to be
supposed that any one can estimate its beauties as we do." “
And had you many smart beaux there ? I suppose you have not so many in
this part of the world ; for my part I think they are a vast addition
always." “ But why should you think " said Lucy, looking
ashamec^ of her sister, “that there are not as many genteel young men in
Devonshire as Sussex." “ Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend
to say that there an’t. Fm sure there ’s a vast many smart beaux in
Exeter ; but you know, how could I tell what smart beaux there might be
about Norland? and I was only afraid the Miss Dashwoods might find it
dull at Barton ; if they had not so many as they used to have. But
perhaps you young ladies may not care about beaux, and had as lief be
without them as with them. For my part, I think they are vastly agreeable,
provided they dress smart and behave civil. But I can’t bear to see them
dirty and nasty. Now, there’s Rose at Exeter, a pro- digious smart young
man, quite a beau, clerk to Simpson, you know, and yet if you do but meet
him of a morning, he is not fit to be seen. I sup- pose your brother was
quite a beau, Miss Dashwood, before he married, as he was so rich ?
" “ Upon my word," replied Elinor, “I cannot tell you,
for I do not per- fectly comprehend the meaning of the word. But this I
can say, that if he ever was a beau before he married, he is one still,
for there is not the smallest alteration in him." “ Oh !
dear 1 one never thinks of married men’s being beaux — they have
something else to do." “Lord! Anne", cried her sister,
“you can talk of nothing but beaux; — you will make Miss Dashwood believe
you think of nothing else."’ It is not surprising that ‘ “
this specimen of the Miss Steeles’" was enough. The vulgar freedom
and folly of the eldest left her no recommendation and as Elinor was not
blinded by the beauty, or the shrewd look of the youngest, to her want of
real elegance and artlessness, she left the house without any wish of
knowing them better Greetings and Farewells. Only the
slightest indication can be given of the various modes of greet- ing and
bidding farewell These seem to have been very numerous, and less
stereotyped in the fifteenth and sixteenth centuries than at present. It
is not easy to be sure how soon the formulas which we now employ, or
their ancestral forms, came into current use. The same form often serves
both at meeting and parting. In 1451, Agnes Paston records, in a
letter, that "after evynsonge, Angnes Ball com to me to my closett
and dad me good evyn \ In the account, quoted above, p. 362, given by
Shillingford of his meetings with the Chancellor, about 1447, he speaks
of "saluting hym yn the moste godely wyse that y coude ' but does
not tell us the form he used. The Chancellor, however, replies "
Welcome^ ij times, and the tyme Right met come Mayer'% and helde
the Mayer a grete while faste by the honde I In the sixteenth
century a great deal of ceremonial embracing and kissing was in vogue.
Wolsey and the King of France, according to Cavendish, rode forward to
meet each other, and they embraced each other on horseback. Cavendish
himself when he visits the castle of the Lord of Cr^pin, a great
nobleman, in order to prepare a lodging for 3^S
COLLOQUIAL IDIOM the Cardinal, is met by this great personage, who
^ at his first coming embraced me, saying I was right heartily welcome'.
Henry VIII was wont to walk with Sir Thomas More, ' with his arm about
his neck \ The actual formula used in greeting and leave-taking is too
often un- recorded. When the French Embassy departs from England,
whom Wolsey has sb splendidly entertained, Cavendish says — ' My lord,
after humble commendations had to the French King bade them adieu'.
The Earl of Shrewsbury greets the Cardinal thus — ‘ My Lord, your Grace
is most heartily welcome unto me', and Wolsey replies ‘Ah my gentle
Lord of Shrewsbury, I heartily thank you '. It is not until the
appearance of plays that we find the actual forms of greeting recorded
with frequency. In Roister Doister, there are a fair number: — God heepe
thee worshipful Master Roister Doister; Welcome my good wenche ; God you
saue and see Nourse ; and the reply to this — Welcome friend Merrygreeke;
Good flight Roger old farewell Roger old knaue ; well mef^ I bid
you right welcome, A very favourite greeting is God he with you,
God continue your Lordship is a form of farewell in Chapman's
Monsieur D'Olive, and God-den ‘ good evening occurs in Middleton's Chaste
Maid in Cheapside. Sir Walter Whorehoimd in the same play makes use of
the formula ‘ I embrace your acquaintance Sir \ to which the reply is
vows your service Str\ Massinger's New Way to pay old Debts contains
various formulas of greeting. I ain still your creature^ says Allworth to
his step-mother Lady A. on taking leave ; of two old domestics he takes
leave with ‘ rny service to both \ and they reply ‘ ours waits on you In
reply to the simple Farewell Tom, of a friend, All worth answers ^ All
joy stay with you \ Sir Giles Overreach greets Lord Lovel with ‘ Good day
to My Lord ' ; and the prototype of the modern how are you is seen in
Lady Allworth's ‘ Hoiv dost thou Marrall P ' A graceful greeting in this
play is ‘ Fou are happily encountered'. The later
seventeenth-century comedies exhibit the characteristic urbanity of the
age in their formulas of greeting and leave-taking. ‘ A happy day
to you Madam is Victoria's morning compliment to Mrs. Goodvile in Otway's
Friendship in Fashion, and that lady replies— ‘ Dear Cousin, your humble
servant'. Sir Wilfull Witwoud in Congreve's Way of the World, says ‘ Save
you Gentleman and Lady ' on entering a room. His younger brother, on
meeting him, greets him with ‘ Four servant Brother", and the knight
replies ‘ servant! Why yours Sir, Four servant again ; "s heart, and
your Friend and Servant to that \ Tm everlastingly your humble servant,
deuce take me Madam, says Mr. Brisk to Lady Froth, in the Double
Dealer. Your servant is a very usual formula at this period, on
joining or leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel
Courtly on entering is greeted by Lady Headpiece — Colonel your servant;
her daughter Miss Betty varies it with^ — Four servant Colonel, and the
visitor replies to both — Ladies, your most ohedienL Mr.
Trim, the formal coxcomb in ShadwelFs Bury Fair, parts thus from his
friends — Sir, I kiss your hands ; Mr, Wildish— -S’/r your most humble
servant; Trim — Oldwii I am your most faithful servant; Mr. Oldwit — Four
servant sweet il/'* Trim, BEGINNINGS AND ENDINGS OF
LETTERS 379 Four servant, madam good morrow to you,
is Lady Arabella's greeting to Lady Headpiece, who replies — to you Madam
(Vanbrugh's Journey to London). The early eighteenth century appears not
to differ materially from the preceding in its usage. Lord Formal
in Fielding's Love in Several Masques, says Ladies your most humble
servafit, and Sir Apish in the same play — Four Ladyships everlasting
creature^ Epistolary Formulas. The writing of letters,
both familiar and formal, is such an inevitable part of everyday life,
that it seems legitimate to include here some examples of the various
methods of beginning and ending private letters from the early fifteenth
century onwards. A proper and exhaustive treatment of the subject would
demand a rather elaborate classification, according to the rank and
status of both the writer and the recipient, and the relation in which
they stood to each other — whether master and servant, or dependant,
friend, subject, child, spouse, and so on. In the comparatively few
examples here given, out of many thousands, nothing is attempted beyond a
chronological arrangement The status and relationship of the parties is,
however, given as far as possible. We note that the formula employed is
frequently a conventional and more or less fixed phrase which recurs,
with slight variants, again and again. At other times the opening and
closing phrases are of a more personal and individual character.
1418. Archbp* Chichele to Hen. V, Signs simply: your preest and bede-
man. — Ellis, i. i. 5. 142 5. IVilL Fasten to . Right worthy and
worshepfull Sir. I recom- maunde me to you, &c. Ends : Almyghty
God have you in his governaunce. Your frend unknowen. — Past. Letters, i.
19-20. 1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my worshepful
housbond W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I reccommaunde me
to yow. Ends : The Holy Trinite have you in governaunce. — P. L. i.
38-9. 1442-5. Dtike of Buckingham to Lord Beau 7 nont, Ryght
worshipful and with all my herte right enterly beloved brother, I
recomaunde me to you, thenking right hastili your good brotherhode for
your gode and gentill letters. I beseche the blissid Trinite preserve you
in honor and prosperite. Your trewe and feithfull broder H. Bukingham. —
P. L- i. 61-2. 1443. Margaret to John Paston. Ryth worchipful
husbon, I reccomande me to yow desyryng her tel y to her of your wilfar.
Almyth God have you in his kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. —
P. L. i. 48-9. 1444. James Gresham to Will. Fasten. Please it your
good Lordship to wete, &c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday
next to fore the Fest. By your laiost symple servaunt — P. L. i,
50. 1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and
entirely wel- bclovcd we grete you wel hertily as we kan , . . and siche
agrement as, &c. ... we shall duely performe yt with the myght of
Jesu who haff you in his blissed keping. — P. L. i. 57, 1444.
Sir R. Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn, I comand me to
you. And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn Sir Roger
Chamberlain. 1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I
grete you wel. Be your Modre Angnes Paston.— i, 58, 59.
380 COLLOQUIAL IDIOM 1449, Marg, to John Paston. Wretyn at
Norwych in hast, Be your gronyng Wyfr.-~i. 76“7- 1449. Same
to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte this tyme* Your Mar- karyte
Paston. — i. 42-3. 1449. John Paston, Ends : Be ^owre pore
Broder* 1449. E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to 50
w at this tyme, but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on
Scynt Peterys day be candel lyght, Be your Cosyn E. C. — P. L. i.
89-90. 1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only
welbeloved sone. Your trewe and lovynge fader Suffolk. — P. L. i. 12
1-2. 1450, IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille may
recomaunde me to mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at
London. — P.L. i. 126. 1450. y. Gresham to ^ my Mats ter
Whyte Esguyer\ After due recomen- dacion I recomaund me to yow.
1450. J, Paston to above, James Gresham, I pray you labour for the,
&c. — i. 145* 1450. Justice Yelverton to Sir J, Fastolf,
By your old Servaunt William Yelverton Justice. — P, L. i. 166.
1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you well and send you Godys
blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret hast, Be your moder A.
Paston. — P. L. i. 259. 1454. J, Paston to Earl of Oxford* Youre
servaunte to his powr John Paston. — P. L. i. 276, 1454. Lord
Scales to J, Paston, Our Lord have you in governaunce. Your frend The
Lord Scales. — P. L. i. 289. 1454, Thomas Howes to J, Paston, I
pray God kepe yow. Wiyt at Castr hastly ij day of September, Your owne T.
Howes. — P. L. i. 301. 1454. The same. Your chapleyn and bedeman
Thomas Howes.— *i. 31 8. 1455. /• PoLstolf to Duke of Norfolk,
Writen at my pore place of Castre, Your humble man and servaunt. — P. L.
i. 324. 1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J, Patton, And Jesu
preserve you, J. Bysshopp of Lincoln. — P.L. i. 350. 1456.
Archbp, Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you
everlastingly in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your
feith- full and trew Th, Cant. — P. L. i. 382. 1456 (Nephew
to uncle). H, Fylinglay to Sir J, Fastolf Ryght wor- shipful unkell and
my ryght good master, I recomniaund me to yow wyth all my servys. And
Sir, my brother Paston and I have, &c. . . . Your nevew and servaunt
— P. L. i. 397. 1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I
wryte unto you at this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J.
J.— P, L. i. 429. 1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to
Agn, Paston, Right worshipful and my most entierly belovde moder, in the
most lowly maner I recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu
for his grete mercy save yow. By your humble daughter. — P. L. i,
434-5. 1469. Chancellor and University of Oxford to Sir John Say,
Ryght wor- shipful our trusty and entierly welbeloued, after harty
commendacyon. . . . Ends : yo’-' trew and harty louers The Chancelir and
Thuniversite of Oxon- ford. — Ellis. 1477. John Paston to Ms
mother* Your sone and humbyll servaunt P. — P. L. iii. 176.
1481-4. Edm, Paston to Ms mother, umble son and servant. — P.
L. iii, 280. 1482. J, Paston to Ms mother. Your sone and trwest
servaunt — P. h* iii. 290. 1482. Margery Paston to her
hushaftd. No more to you at this tyme, Be your servaunt and bede woman.—
iii. 293, LONGWINDED GREETINGS 381
1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I cummaund me to
yow. . . . I shall content you at your metyng with me, Yower lover J.
Nor- folk.— iii. 320, 1485. Eliz, Browne to J. Paston. Your
loving awnte E. B. 1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght
welbeloved we grete you well. . , . Suffolk, yor frende. — iii.
324-5. 1490. Bp* of Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit
wortchipful sire, and myne especial and of long tyme apprevyd, trusty and
feythful frende, I in myne hertyeste wyse recommaunde me un to you. . . ,
Scribyllyd in the moste haste, at my castel or manoir of Aucland the
xxvij of Januay. Your own trewe luffer and frende John Duresme. — iii.
363. 1490. Lumen H ary son to Sir f Past on. Onerabyll and well be
lov^^'d Knythe, I commend me on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr
wyffe. . , . No mor than God be wyth 50W, L. H. at ^ouyr
comawndment. 1503. Q. Margaret of Scotland to her father Hen. VII.
My moste dere iorde and fader in the most humble wyse that I can thynke I
recommaunde me unto your Grace besechyng you off your dayly blessyngys. .
. . Wrytyn wyt the hand of your humble douter Margaret. — Ellis i. i.
43. Hen. VI J to his Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my
most enterely wilbeloved Lady and Moder . . . with the hande of youre
most humble and lovynge sone. — Ellis, i. i. 43-5. Margaret
to Hen. VI 1 . My oune suet and most deare kynge and all my worldly joy,
yn as humble manner as y can thynke I recommand me to your Grace ... by
your feythful and trewe bedewoman, and humble modyr Mar- garet R, —
Ellis, i. I. 46. 1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt
excellent, richt hie and mithy Prince, our derrist and best belovit
Brothir. . . . Your louyn systar Margaret. — Ellis, i. i. 65. (The Queen
evidently employed a Scottish Secre- tary.) 1515. Margaret to
Wolsey. Yours Margaret R. — Ellis, i. i. 131. 1515. Thos. Lord
Howard, Lord Admiral, to Wolsey. My owne gode Master Awlmosner. . . .
Scrybeled in gret hast in the Mary Rose at Plymouth half o^' after xj at
night . . . y^ own Thomas Howard. c. 1515. West Bp. of Ely to
Wolsey. Myne especiall good Lorde in my most humble wise I recommaund me
to your Grace besechyng you to con- tynue my gode Lorde, and I schall
euer be as I am bounden your dayly bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman
N 1 . Elien. c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost
honorable Grace to understand. ... At your Graces commaundement, Willm.
Cantuar. — Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own Willm.
Cantuar. Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety mooste
lowly remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble bedisman
John Lincoln.— Ellis, iii. l. 248. Cath, of Aragon to
Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c. —Ellis, i, 2. 19,
• . . Your lovyng mother Katherine the Queue. Archibald, E. of
Angus. Addresses letter to Wolsey : To my lord Car- dinallis grace of
Ingland. — Ellis, iii. i. 291. 1521. Bp. Tunstal to Wolsey.
Addresses letter :— to the most reverend fader in God and his most singler
good Lorde Cardinal. — Ellis, iii. i* 273. Ends a letter : By your
Gracys most humble bedeman Cuthbert TunstalL —Ellis, iii. I. 332 -
1515 or 1521. Duke of Buckingham to Wolsey, Yorys to my power E.
Bukyngham. Gccvin Douglas, Bp. of Dunkeld, to Wolsey. ZgI chaplan
wy^ his lawfull seruyse Gavin bischop of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 294-
Zo^ humble servytor and Chaplein of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 296. Zo^
humble seruytor and dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis, iii. i.
303- Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)* Ends : Your
assurjd 382 COLLOQUIAL IDIOM lover and bedysman
T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6. Again : Wryttyn hastely at Asher with the
rude and shackyng hand of your dayly bedysman and assuryd frende T.
Car^^® Ebor. 1532. T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^'
assured to his litell Thomas Audeley Gustos Sigiili. Edw. E,
of Hertford {afterwards Lord Protector). Thus I comit you to God hoo send
yo^‘ lordshep as well to far as I would mi selfe . . . w^ the hand of yo^
lordshepis assured E. Hertford. Hen. VI 11 to Catherine Parr. No
more to you at thys tyme swethart both for lacke off tyme and gret
occupation off bysynes, savyng we pray you in our name our harte
blessyngs to all our chyldren, and recommendations to our cousin Marget
and the rest off the laddis and gentyll women and to our Consell alsoo.
Wryttyn with the hand off your lovyng howsbande Henry R. — Ellis, i. 2.
130. Princess Mary to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell
I commende me to you. — Ellis, i. 2. 24, Prince Edward to
Catherine Parr. Most honorable and entirely beloued mother. . . . Your
Grace, whom God have ever in his most blessed keping. Your louing sonne,
E. Prince. — Ellis, i. 2. 13 1. 1547. Henry Radclyf E. of Sussex,
to his wife. Madame with most lovyng and hertie commendations. — Ellis,
i. 2. 137. Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble
sistar to com- maundement Elizabeth. — Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties
most humble sistar Elizabeth. — Ellis, i. 1. 148. Princess
Elizabeth to Lord Protector. Your assured frende to my litel power
Elizabeth. — Ellis, i. 2. 158. Edward VI to Lord Protector
Somerset. Derest Uncle. . . • Your good neuew Edward. — Ellis, ii. i.
148. Q.Mary to Lord Admiral Seymour. Your assured frende to my
power Marye. — Ellis, i. 2. 153. Princess Elizabeth to Q.
Mary (on being ordered to the Tower). Your Highnes most faithful subjec
that hath bine from the begining and wyl be to my ende, Elizabeth.
(Transcr. of 1732). — Ellis, ii. 2. 257. 1553, Princess Elizabeth
to the Lords of the Council. Your verye lovinge frende, Elizabeth- —
Ellis, ii. 2. 213. 1554, Henry Darnley to Q. Mary of England. Your
Maiesties moste bounden and obedient subjecte and servant Henry Darnley.
Queen Dowager to Lord Admiral Seymour. By her ys and schalbe your
humble true and lovyng wyffe duryng her lyf Kateryn the Quenc. — Ellis,
i. 2. 152. Q. Mary to Marquis of Winchester, Your Mystresse assured
Marye the Queue. -—Ellis, ii. 2. 252. Sir John Grey of Pyrgo
to Sir William Cecil. It is a great while me thinkethe, Cowsine Cecill,
since I sent unto you. ... By your lovyng cousin and assured frynd John
Grey. — Ellis, ii, 2. 73-4; Good cowsyne Cecil!. . , . By yo^ lovyng
Cousine and assured pouer frynd dowring lyfe John Grey. — Ellis, ii. 2.
276. Lady Catherine Grey, Cmmtess of Hertford, to Sir W, Cecil.
Good cosyne Cecill . . . Your assured frend and cosyne to my small power
Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 278 ; Your poore cousyne and assured
frend to my small power Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 287.
1564. Sir W. Cecil to Sir Thos. Smith. Your assured for ever W.
Cecill. — Ellis, ii. 2. 295 ; Yours assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297
; Your assured to command W, Cecill — Ellis, ii. 2, 300. 1
566. Duchess of Somerset to Sir W. Cecil. Good M^ Secretary, yf I have
let you alone all thys whyle I pray you to thynke yt was to tary for my L,
of Leycesters assistans. ... I can nomore . . , and so do leave you to
God Yo’^ assured lovyng frynd Anne Somerset,— Ellis, ii. 288.
SECOND HALF OF SIXTEENTH CENTURY 383 Christopher
Jonson, Master of Winchester^ to Sir W, CeciL Right honourable my duetie
with all humblenesse consydered. . . . Your honoures most due to commando,
Christopher Jonson. — Ellis, ii. 2. 313. 1569. Lacfy Stanhope to
Sir W, CeciL Right honorable, my humble dewtie premised. . . . Your
honors most humblie bound Anne Stanhope. — Ellis, il 2. 324. _ ^ ^ ^
, 1574. Sir Philip Sidney to the E. of Leicester, Righte Honorable
and my singular good Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi. . . ,
Philip Sidney. —Works, p. 345. 1576. Sir Philip Sidney to Sir
Francis Walsingham, Righte Honorable ... I most humbly recommende my
selfe unto yow, and leaue yow to the Eternals most happy protection, . ,
. Yours humbly at commawndement Philipp Sidney. 1578. Sir
Philip Sidney to Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H. Sidney),
Molineux, Few words are best My letters to my father have come to the
eyes of some. Neither can I condemn any but you. . . . (The writer
assures M. that if he reads any letter of his to his father ^ without his
commandment or my consent, I will thrust my dagger into you. And trust to
it, for I speak it in earnest’. . . .) In the meantime farewell. From
court this last of May 1 578, By me Philip Sidney.— p. 328.
1580. Sir Philip Sidney to his brother Robert. My dear Brother . .
. God bless you sweet boy and accomplish the joyful hope I conceive of
you. , . . Lord I how I have babbled : once again farewell dearest
brother. Your most loving and careful brother Philip Sidney.
1582. Thomas Watson ^ To the frendly Reader^ (in Passionate Centurie
of Love). Courteous Reader , . . and so, for breuitie sake (I) aprubtlie
make and end ; committing the to God, and my worke to thy fauour. Thine
as thou art his, Thomas Watson. Anne of Denmark to James L
Sir ... So kissing your handes I remain she that will ever love Yow best,
Anna R. — Ellis, i. 3. 97. c. 1585. Sir Philip to Walsingham. Sir ,
. . your louing cosin and frend. In several letters to Walsingham Sidney
signs *your humble Son’. ^ 1586. Wm. Webbe to Ma. (= ^ Master ’)
Edward Sulyard Esquire (Dedi- catory Epistle to the Discourse of English
Poetrie). May it please you Syr, thys once more to beare with my rudenes,
&c. ... I rest, Your worshippes faithfull Seruant W. W.
1593. Edward Alleyn to his wife. My good sweete mouse . . . and so
swett mouse farwell. — Mem. of Edw. Alleyn, L 36; my good sweetharte and
loving mouse . . . thyn ever and no bodies else by god of heaven. — ibid.
1596, Thos., Lord Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^ to Sir
Robert CeciL Sir . . . Your very lo: frend T. Buckhurst. 1
597, Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I humblie thanke yow for your letter . ,
. S^ I pray love vs in your element and wee will love and honor yow in
ours and every wher. And remayne to be comanded by yow for evermore
W Ralegh. 1602. Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest,
your very loving and assured frend T, Buckhurst,— Works, xxxiv-xi.
1603. Same to same. My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know,
Ever yours T. Buckurst 1605, Same to same. ... I pray God for your
health and for mine own and so rest Ever yours ... 1607. Same
to the University of Oxford. Your very loving friend and Chancellor T.
Dorset— xlvi. cr. 1608. Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales.
Youre zealous pooie servant H. W. — Ellis, i. 3* loo. Q. Anne
of Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of Buc- kingham). My
kind Dog. # • . So wishing you all happiness Anna R. Ellis, i. 3,
ICO. 384 COLLOQUIAL IDIOM 16 1 1. Charles Duke
of York to Prince Heniy. Most loving Brother I long to see you, . . .
Your H. most loving brother and obedient servant, Charles. — Ellis, i. 3.
96. 1612. Prince Charles to James L Your most humble and most
obedient sone and servant Charles. — Ellis, i. 3. 102. Same
to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so well as your- self.
. , . Your treu and constant loving frend Charles P. — Ellis, i. 3. 104.
King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles, My onlie sweete and
deare chylde I pray thee haiste thee home to thy deare dade by sunne
setting at the furthest. — Ellis, i. 3. 120. Sa 7 ne to
Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe and stewarde. —
Ellis, i. 3, 159. Same to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you
both my sweete babes, and sende you a safe and happie returne, James R. —
Ellis, i. 3 121. Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our
Majesties most humble and obedient sone and servant Charles, and your
humble slave and doge Steenie.—Ellis, i. 3. 122. 1623.
Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. . . • Your Majestyes
most humble slave and doge Steenie. — Ellis, i, 3. 146-7. 1623.
Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most obedient, most loyal,
and most affectionate subjecte and servant, E. Herbert The letters
of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves & Turner) are mostly undated,
but one to Davenant has the date 1629, and another to Sir Henry Vane that
of 1632. The general style is more modern in tone than those of any
of the letters so far referred to. (See on Suckling’s style, pp. 152-3.)
The beginnings and endings, too, closely resemble and are sometimes identical
with those of our own time. To Davenant, Vane, and several other
persons of both sexes, Suckling signs simply — ^ Your humble servant J.
S.’, or 'J. Suckling’. At least two, to a lady, end * Your humblest
servant The letter to Davenant begins ‘WilL; that to Vane — ‘Right
Honorable’. Several letters begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble
friend another ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful
letters, to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My
clear Dear ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin
begins ‘ Honest Charles The habit of rounding off the
concluding sentence of a letter so that the valedictory formula and the
writer’s name form an organic part of it, a habit very common in the
eighteenth century — in Miss Burney, for instance — is found in
Suckling’s letters. For example : ‘ I am still the humble servant
of my Lord that 1 was, and when I cease to be so, I must cease to
be John Suckling’; ‘yet could never think myself unfortunate, while I can
write myself Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and should you leave that
lodging, more wretched than Montferrat needs must be your humble servant
J. S.’, and so on. The longwindedness and prolixity wiiich
generally distinguish the openings and closings of letters of the
fifteenth and the greater part of the sixteenth century, begin to
disappear before the end of the latter period. Suckling is as neat and
concise as the letter-writers of the eighteenth century. ‘Madam, your
most humble and faithful servant' might serve for Dr. Johnson.
DR. AND MRS. BASIRE 3S5 Most of our
modern formulas were in use before the end of the first half of the
seventeenth century, though some of the older phrases still survive. But
we no longer find " I commend me unto your good master- ship,
beseeching the Blessed Trinity to have you in his governance and
such-like lengthy introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see
pp. 163-4) is very instructive, as it covers the period from 1634 to
1675, by which latter date letters have practically reached their modern
form. Dr. Basire writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee,
'Deare Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend
J. B.', 'Thy faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your
assured frend and loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J.
B.' When Miss Corbet has become his wife, he constantly writes to her in
his exile which lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our
present purpose possess great human and historical interest. These
letters generally begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he
signs himself ' Your very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your
faithful husband', ' My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till
death ' Meanewhile assure your selfe of the constant love of— My dearest
— ^Your loyall husband The lady to whom these affectionate letters
were addressed, bore with wonderful patience and cheerfulness the
anxieties and sufferings incident upon a state bordering on absolute want
caused by her husband's depriva- tion of his living under the
Commonwealth, his prolonged absence, together with the cares of a family
of young children, and very indifferent health. She was a woman of great
piety, and in her letters ‘ many a holy text around she strews ' in reply
to the religious soliloquies of her husband. Her letters all begin ' My
dearest ’, and they often begin and close with pious exclamations and
phrases — 'Yours as much as euer in the Lord, No, more thene euer ' ; '
My dearest, I shall not faile to looke thos plases in the criptur, and
pray for you as becometh your obedient wife and serunt in the Lord F. B.
’ ; another letter is headed ' Jesu 1 and ends — ' I pray God send vs all
a happy meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.' Many of the
letters are headed with the Sacred Name. Others of Mrs. Basire's letters
end — 'Farwall my dearest, I ham yours faithful for euer'; 'I euer remine
Yours faithfuil in the Lord'; 'So with my dayly prayers to God for you, I
desire to remene your faithfuil loveing and obedient wif '.
It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends
of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate
the usage of the latter part of the seventeenth century. These
letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip- tions
such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire, Prebendary of
the Cathedral Church in Durham. To be recommended to the Postmaster of
Darneton' (p. 213, dated 1662). This letter, from Prebendary Wrench
of Durham, begins ' Sir and ends — ' Sir, Your faithfuil and unfeigned
humble Servant R. W.' In the same year the Bishop of St. David's
begins a letter to Dr. Basire — ' Sir and ends — ' Sir, youre uerie
sincere friend and seruant, Wil. St, David's p. 219, The
Doctor's son begins — ' Reverend Sir, and most loving Father ' and ends
with the same formula, adding — ' Your very obedient Son, P. B ^
3^6 COLLOQUIAL IDIOM p. 221. To his Bishop (of
Durham) Dr. Basire begins 'Right Rev. Father in God, and my very good
Lord ending ' I am still, My L<i, Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac
Basire’. In 1666 the Bishop of Carlisle, Dr. Rainbow, evidently an old
friend of Dr. B/s, begins 'Good Mr. Archdeacon and ends ' I commend you
and yours to God’s grace and remaine,'Your very faithfull frend Edw,
Carlioi’, p. 254. In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^
Archdeacon ’ and ends ' In the interim I shall not be wanting at this
distance to doe all I can, who am, Sir, Your very loving ffriend and
servant TJo. Duresme', p. 273. Dr. Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My
Reverend Friend’, and ends ‘Your prayers are desired for, Sir, Your
affectionate friend and Seruant, Tho. Barlow’, p. 302 (1673). Dr. Basire
begins a letter to this gentleman — ‘ Rev. Sir and my Dear Friend ’ . . ,
ending ' I remain, Reverend Sir, Your affectionate frend, and faithful
servant To his son Isaac, he writes in 1664 — 'Beloved Son’, ending — ‘So
prays your very lovinge and painfull Father, Isaac Basire ’.
Having now brought our examples of the various types of epistolary
formulas down to within measurable distance of our own practice, we must
leave this branch of our subject. Space forbids us to examine and illus-
trate here the letters of the eighteenth century, but this is the less
necessary as these are very generally accessible. The letters of that
age, formal or intimate, but always so courteous in their formulas, are known
to most readers. Some allusion has already been made (pp. 20-1) to the
tinge of ceremoniousness in address, even among friends, which survives
far into the eighteenth century, and may *be seen in the letters of Lady
Mary Montagu, of Gray, and Horace Walpole, while as late as the end of
the century we find in the letters of Cowper, unsurpassed perhaps
among this kind of literature for grace and charm, that combination of
stateliness with intimacy which has now long passed away.
Exclamations, Expletives, Oaths, &e. Under these heads comes a
wide range of expressions, from such as are mere exclamations with little
or no meaning for him who utters or for him who hears them, or words and
phrases added, by way of emphasis, to an assertion, to others of a more formidable
character which are deliberately uttered as an expression of spleen,
disappointment, or rage, with a definitely blasphemous or injurious
intention. In an age like ours, where good breeding, as a rule, permits
only exclamations of the mildest and most meaningless kind, to express
temporary annoyance, disgust, surprise, or pleasure, the more
full-blooded utterances of a former age are apt to strike u$ as
excessive. Exclamations which to those who used them meant no more than '
By Jove ’ or ' my word ’ do to us, would now, if they were revived appear
almost like rather blasphemous irreve- rence. It must be recognized,
however, that swearing, from its mildest to its most outrageous forms,
has its own fashions. These vary from age to age and from class to class.
In every age there are expressions which are permissible among well-bred
people, and others which are not. In certain circles an expression may be
regarded with dislike, not so UNMEANING EXCLAMATIONS
387 much because of any intrinsic wickedness attributed to
it, as merely because it is vulgar. Thus there are many sections of
society at the present time where such an expression as ‘ O Crikey * is
not in use. No one would now pretend that in its present form, whatever
may underlie it, this exclamation is peculiarly blasphemous, but many
persons would regard it with disfavour as being merely rather silly and
distinctly vulgar. It is not a gentleman’s expression. On the other hand,
^ Good Heavens \ or ^ Good Gracious \ while equally innocuous in meaning
and intention, would pass muster perhaps, except among those who object,
as many do, to anything more forcible than ‘ dear me \ Human
nature, even when most restrained, seems occasionally to require some
meaningless phrase to relieve its sudden emotions, and the more devoid of
all association with the cause of the emotion the better will the
exclamation serve its purpose. Thus some find solace in such a formula as
‘ O liitle haiC which has the advantage of being neither particularly
funny nor of overstepping the limits of the nicest decorum, unless indeed
these be passed by the mere act of expressing any emotion at all. It is
really quite beside the mark to point out that utterances of this kind
are senseless. It is of the very essence of such outbursts — the mere
bubbles on the fountain of feeling — ^that they are quite unrelated to
any definite situation. There is a certain adjective, most offensive to
polite ears, which plays apparently the chief r 61 e in the vocabulary of
large sections of the community. It seems to argue a certain poverty of
linguistic resource when we find that this word is used by the same
speakers both to mean absolutely nothing — being placed before every
noun, and often adverbially before all adjectives — and also to mean a
great deal — everything indeed that is unpleasant in the highest degree.
It is rather a curious fact that the word in question while always impos-
sible, except perhaps when used as it were in inverted commas, in such a
way that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or
proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily
intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an
absolutely meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns
in a sen- tence, and worse than if it were used deliberately, with a
settled and full intent. There is something very terrible in an oath torn
from its proper home and suddenly implanted in the wrong social atmosphere.
In these circumstances the alien form is endowed by the hearers with
mysterious and uncanny meanings ; it chills the blood and raises
gooseflesh. We do not propose here to penetrate into the sombre
history of blasphemy proper, nor to exhibit the development through the
last few centuries of the ever-changing fashions of profanity. At every
period there has been, as Chaucer knew — a companye
Of yonge folk, that haunteden folye, As ryot, hasard, stewes
and tavemes, Wher-as with harpes, lutes and gitemes, ^
They daunce and pleye at dees both day and night, And ete
also and drinken over hit might, Thurgh which they doon the devel
sacrifyse Within the develes tempel in cursed wyse, By superfiuitee
abhominable; c c 2 388 COLLOQUIAL IDIOM
Hir othes been so grete and so dampnable^ That it is grisly
for to here hem swere ; Our blissed lordes body they to-tere;
Hem though te Jewes rent him noght y-nough. We are concerned,
for the most part, with the milder sort of expres- sions which serve to
decorate discourse, without symbolizing any strong feeling on the part of
those who utter them. Some of the expletives which in former ages were
used upon the slightest occasion, would certainly appear unnecessarily
forcible for mere exclamations at the present day, and the fact that such
expressions were formerly used so lightly, and with no blasphemous
intention, shows how frequent must have been their employment for
familiarity to have robbed them of all meaning. So saintly a
person as Sir Thomas More was accustomed, according to the reports given
of his conversation by his son-in-law, to make use of such formulas as a
Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good faith, xxviii, but
compared with some of the other personages mentioned in his Life, he is
very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk, ‘his singular deare
friend*, coming to dine with Sir Thomas on one occasion, ‘ fortuned to
find him at Church singinge in the quiere with a surplas on his backe ;
to whome after service, as the(y) went home togither arme in arme, the
duke said, “ God body, God body, My lord Chauncellor, a parish Clark, a
parish Clarke ! ” ' On another occasion the same Duke said to him ^
By the Masse, Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for
Gode's body, Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the
conversation in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that
the good gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such
exclama- tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille
vallc ' ; ^ Bone deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name
you meane here thus fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More,
the Lord Chief Justice swears by St, Julian — ‘ that was ever his oath p.
li. ‘ Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year
! ' are both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry,
which means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in
the sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses
it, according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is
con- stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry
companions. By sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious
potsiick, kocks nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable
by the passion of God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and
further such exclama- tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I
shall so God me saue, I make God a vow (also written avow), would Christ
I had, &c. Meaning- less imprecations like the Devil take me, a
mischiefe take his token and him and thee too are sprinkled about the
dialogue of this play. The later plays of the great period offer a mine
of material of this kind, but only a few can be mentioned here. What a
Devil (instead of the Devil), what a pox, hfr lady, bounds, d blood, Gods
body, by the mass, a plague on thee, are among the expressions in the
First Part of Henry IV, In the Second SEVENTEENTH-CENTURY
EXPLETIVES 3S9 Part Mr. Justice Shallow swears by
cock and pie. By the side of these are mild formulas such as Tm a Jew
else^ Tm a rogue if I drink today. In Chapman’s comedies there is a
rich sprinkling both of the slighter forms of exclamatory phrases, as
well as of the more serious kind. Of the former we may note j/ faitk^ Ur
lord^ Ur lady, by the Lord, How the divell (instead of how a devil), all
in A Humorous Day's Mirth ; He he sworne, All Fooles; of the latter kind
of expression Gods precious soles., H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my
life, Mons. D'Olive ; Gods my passion, H. D. M. ; swounds, zwoundes,
Gentleman Usher. Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight,
'sdeath, and a fore- shadowing of the form of asseveration so common in
the later seventeenth century in the phrase — ‘ If I know the mystery . .
. may I perish ii. 2, It is to the dramatists of the later
seventeenth and early eighteenth century that the curious inquirer will
go for expletives and exclamatory expressions of the greatest variety.
Otway, Congreve, and Vanbrugh appear to excel all their predecessors and
contemporaries in the fertility of their invention in this respect. It is
indeed probable that while some of the sayings of Mr. Caper, my Lady
Squeamish, my Lady Plyant, my Lord Foppington, and others of their
kidney, are the creations of the writers who call these ' strange
pleasant creatures ' into existence, many others were actually current
coin among the fops and fine ladies of the period. Even if many phrases
used by these characters are artificial con- coctions of the dramatists
they nevertheless are in keeping with, and express the spirit and manners
of the age. If Mr. Galsworthy or Mr. Bernard Shaw were to invent corresponding
slang at the present day, it would be very different from that of the
so-called Restoration Dramatists. The bulk of the following selection of
expletives and oaths is taken from the plays of Otway, Congreve,
Wycherley, Mrs. Aphra Behn, Vanbrugh, and Farquhar. A few occur in
Shadwell, and many more are common to all writers of comedies. These are
undoubtedly genuine current expressions some of which survive.
Among the more racy and amusing are : — Ld me die : ‘ Let me
die your Ladyship obliges me beyond expression* (Mr. Saunter in Otway's
Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have a great deal of wit'
(Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also much used by Melantha, an
affected lady in Dryden's Marriage \ la Mode. . . 1 Ld
me perish — ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk, Double
Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood. ^le
(Vanbrugh's Relapse), Death and eternal iartures Sir, I vow the
packet's (= pocket) too high (Lord Foppington), Burn me if I
do (Farquhar, Way to win him). Mai me, ^ rat my packet handkerchief
(Lord Foppington). Never Never stir if it did not' (Caper, Otway,
Friendship in Love) ; * Thou shalt enjoy me always, dear, dear
friend, never stir '• BU take my death you're handsomer ' (Mrs.
Millamont, Congreve, Way of the World). , Bm a Person
(Lady Wishfort, Way of the World). 390
COLLOQUIAL IDIOM Stap my vitals (Lord Foppington ; very
frequent). Split my wmdpipe — Lord Foppington gives his brother his
blessing, on finding that the latter has married by a trick the lady he
had designed for himself— 'You have married a woman beautiful in her
person, charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her
inclina- tions, and of a nice marality split my windpipe As I
hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair), Tm a
Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy). By the
Universe (Wycherley, Country Wife). I swear and declare (Lady
Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant, Double Dealer) ; I do protest
and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s Sir Patient Fancy) ; I protest
I swoon at ceremony (Lady Fancyfull, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess
ingenuously a very discreet young man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient
Fancy). Gads my hfe (Lady Plyant). O Crimine (Lady
Plyant). O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).
Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three
weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair). ril lay my Life he
deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar, Beaux' Strategem).
By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor). the
universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife). Gadzooks
(Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul Plyant, Double
Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey to London) ;
Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ; ^sheart (Sir
Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud (Mrs. Fantast,
Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^- zoz (Sir Credulous
Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir Petulant Fancy); 'D's diggers
Sir (a groom in Sir Petulant Fancy); ^sheart (Sir Wilf. Witwoud,
Congreve, Way of the World); odsheart (Sir Noble Clumsey, Otway, Friendship
in Fashion); Adsheart (fkx Jos, Wittol, Congreve, Old Bachelor) ;
Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer). By the side of marry, frequent in the
sixteenth and seventeenth centuries, the curious expression Marry come up
my dirty cousin occurs in Swift's Polite Conversations (said by the young
lady), and again in Fielding's Tom Jones — said by the lady's maid Mrs.
Honor. With this compare marry gep above, which probably stands for ' go
up Such expressions as Lard are frequent in the seventeenth-century
comedies, and the very modern-sounding as sure as a gun is said by Sir
Paul Plyant in the Double Dealer. The comedies of Dryden contain
but few of the more or less mild, and fashionable, semi-bantering
exclamatory expressions which enliven the pages of many of his contemporaries
; he sticks on the whole to the more permanent oaths — 'sdeath, ^sblood,
&c. It must be allowed that the dialogue of Dry den's comedies is
inferior to that of Otway or Congreve in brilliancy and natural ease, and
that it probably does not reflect the familiar colloquial English of the
period so faithfully as the conversation in the works of these writers.
Dryden himself says, in the Defense of the Essay of Dramatic Poesy, ' I
know I am not so fitted by Nature to DECAY OF THE OLDER PROFANITY
391 write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour which is
required to it. My Conversation is slow and dull, my Humour Saturnine and
reserv’d : In sliortj I am none of those who endeavour to break all Jests
in Com- pmy, or make Repartees It may be noted that the
frequent use — almost in ever;^ sentence — of such phrases as A/ me
perish, hum me, and other meaningless interjec- tions of this order, is
attributed by the dramatists only to the most frivolous fops and the most
affected women of fashion. The more serious characters, so far as such
exist in the later seventeenth-century comedies, aie addicted rather to
the weightier and more sober sort of swearing. It is perhaps unnecessary
to pursue this subject beyond the* first third of the eighteenth century.
Farquhar has many of the manner- isms of his slightly older
contemporaries, and some stronger expressions, e. g. ‘ There was a
neighbour's daughter I had a woundy kindness for Truman, in Twin Rivals ;
but Fielding in his numerous comedies has but few of the objurgatory
catchwords of the earlier generation. Swearing, both of the lighter kind
as well as of the deliberately profane variety, appears to have
diminished in intensity, apart from the stage country squire, suc h
as Squire Badger in Don Quixote, who says ^ShodUkins and ecod, and Squire
Western, whose artless profanity is notorious. Ladies in these plays, and
in Swift's Polite Conversations, still say lard, O Ltid, and la, and
mercy, ^shuhs, God bless my eyesight, but the rich variety of expression
which we find in Lady Squeamish and her friends has vanished. Some few of
the old mouth-filling oaths, such as zounds, ^sdeath, and so on, still
linger in Goldsmith and Sheridan, but the number of these available for a
gentleman was very limited by the end of the century. From the beginning
of the nineteenth century it would seem that nearly all the old oaths
died out in good society, as having come to be considered, from
unfamiliarity, either too profane or else too devoid of content to serve
any purpose. It seems to be the case that the serious oaths survive
longest, or at any rate die hardest, while each age produces its own
ephemersil formulas of mere light expletive and asseveration. Hyperbole
; Compliments ; Approval ; Disapproval ; Abuse, Very characteristic
of a particular age is the language of hyperbole and exaggeration as
found in phrases expressive on the one hand of compliments, pleasure,
approval, amusement, and so on, and of disgust, dislike, anger, and
kindred emotions, on the other. Incidentally, the study of the different
modes of expressing such feelings as these leads us also to observe the
varying fashion in intensives, corresponding to the present-day awfully,
frightfully, and the rest, and in exaggeration generally, especially in
paying compliments. The following illustrations are chiefly drawn
from the seventeenth century, which offers a considerable wealth of
material. It is wonderful what a variety of expressions have been
in use, more or less transitorily, at different periods, as intensives,
meaning no more than i>iry, very much, &c. Rarely in Chapman^s
Gentleman Usher — ^How did you like me aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord,
that, that is 39S COLLOQUIAL IDIOM
a pleasure intolerahU \ Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ;
‘Let me die if that was not extravaganily pleasant vtry amusing), ibid. ;
^ I vow he himself sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love
dancing immoderately \ ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce
take me if your Ladyship has not the art of surprising the most naturally
in the world — I hope you'll make me happy in communicating the
Poem Brisk in Congreve's Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour,
I aSvSure you Careless, I don't know anything in the World I would refuse
to a Person so meritorious — You’ll pardon my want of expression', Lady
Plyant in Double Dealer; to which Careless replies — ‘O your “Xadyship is
abounding in all Excellence^ particularly that of Phrase ; My Lady Froth
is very well in her Accomplishments — But it is when my Lady Plyant is
not thought of— if that can ever be ' ; Lady Plyant : — ‘O you overcome
me — That is so excessive' ; Brisk, asked to write notes to Lady Froth's
Poems, cries ‘ With all my Heart and Soul, and proud of the vast Honour
let me perish ‘ I swear Careless you are very alluring^ and say so many
fine Things, and nothing is so moving as a fine Thing. . , . Well, sure
if I escape your Importunities, I shall value myself as long as I live, I
swear ; Lady Plyant. The following bit of dialogue between Lady Froth and
Mr. Brisk illustrates the fashionable mode of bandying exaggerated, but
i*ather hollow compliments. ‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last
degree — Brisk was ever anything so well bred as My Lord ? Brisk — Never
anything but your Ladyship let me perish. Ldy F, O prettily turned again
; let me die but you have a great deal of Wit. Mellefont don^t you think
Brisk has a World of Wit ? MeUefont — O yes Madam. Brisk — O dear Madam —
Ldy F» An mfinite deal! Brisk, O Heaven Madam. ■'Ldy F. More Wit — than
Body. Brisk — Pm everlastingly your humble Servant^ deuce take me
Madam. Lady Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay
herself a pretty compliment in lamenting the ravages of her beauty and
the con- sequent pretended annoyance to herself — ‘ To confess the truth
to you, Fm so everlastingly fatigued with the addresses of unfortunate
gentlemen that were it not for the extravagancy of the example, I should
e'en tear out these wicked eyes with my own fingers, to make both myself
and mankind easy Swift's Polite Conversations consist of a
wonderful string of slang words, phrases, and clicMs^ all of which we may
suppose to have been current in the conversation of the more frivolous
part of Society in the early eighteenth century. The word pure is used
for very — ‘ this almond pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the
sense of excellent^ as in ‘ by Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's
summing-up of the 'Arch- Wag' Malagene. To divert in the characteristic
sense of ‘amuse', and instead of this — ‘ Well ladies and gentlemen, you
are pleased to divert yourselves'. Lady Wentworth in 1706 speaks of her
‘munckey' as ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary
Stewkley (Verney), taxed by her brother with a propensity for gambling,
writes ‘ whot dus becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope
I know The idiomatic use of obliging is shown in the Polite Conversations,
by Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive praise of
her house — ‘ My lord, your lordship is always very obliging ' ; in the
same ENJOYMENT OF ^WAGGERY'; BACKBITING 393
sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a very
obliging person \ Extreme amusement, and approval of the persons
who provoke it, are frequently expressed with considerable exaggeration
of phrase. Some instances are quoted above, but a few more may be added^.
‘ A you mad slave you, you are a ticUing Acior\ says Vincentio to Pogio
in Chapman’s Gentleman Usher. Mr. Oldwit, in Shadwelbs Bury
Fair, professes great delight at the buffoonery of Sir Humphrey : — ‘
Forbear, pray forbear ; you'll be the death of me ; 1 shall break a vein
if I keep you company, you arch Wag you, . . . Well Sir Humphrey Noddy,
go thy ways, thou art the ar«hesT Wit and Wag. I must forswear thy
Company, thou'lt kill me elsei' The arch wag asks ' What is the World
worth without Wit and Waggery and Mirth ? and describing some prank he
had played before an admiring friend, remarks — Mf you’d seen his
Lordship laugh! I thought my Lord would have killed himself. He desired
me at last to forbear ; he was not able to endure it! 'Why what a notable
Wag^s this" is said sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir Patient
Fancy. The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s
Friendship in Love illustrate the modes of expressing an appreciation of
' Waggery In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his religion
(1688), Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he intends to
write — ^you 'll half kill yourselves with laughing at the conceit and
again ' I protest Ml’ Crites you are enough to make anybody split with
laugh- ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation declares — 'Well, I
swear you'll make one die with laughing The language of
abuse, disparagement, contempt, and disapproval, whether real or in the
nature of banter, is equally characteristic. The following is
uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile in Otway’s Friendship in
Love, to the njusicians who are entertaining the company — ' Hold, hold,
what insufferable rascals are these ? Why you scurvy thrashing scraping
mongrels, ye make a worse noise than crampt hedgehogs. ’Sdeath ye dogs,
can’t you play more as a gentleman sings ? ’ The
seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the art of
backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant picture of
an absent friend — 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in the Double
Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always chewing the
cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her cough ’ pro-
tests Cynthia ; Lady Froth : — ' Then that t’other great strapping Lady—
I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so exorbitantly ’
; Brisk : — ' I know whom you mean — But deuce take me I can't hit of
her Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with a
trowel’ Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't you
apprehend me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee — ^you
under- stand me — somewhat heavy, a little shallow or so Lady
Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval— '0 Filthy M**
Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop . Nauseous and filthy
are favourite words in this period, but are often used so as to convey
little or no specific meaning, or in a tone of rather affectionate
394 COLLOQUIAL IDIOM banter. ^ He ’s one of
those nauseous offerers at wit Wycherley’s Country Wife ; ^ A man must
endeavour to look wholesome ’ says Lord Foppington in Vanbrugh's Relapse,
‘lest he make so nauseous a figure in the side box, the ladies should be
compelled to turn their eyes upon the Play ’ ; again the same nobleman
remarks ‘ While I was but a Knight I was a very nauseous fellow ’ ; and,
speaking to his tailor — I shall never be reconciled to this nauseous
packet A remarkable use of the verb, to express a simple aversion, is
found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate walking ; 'tis a country divertion
' (Congreve, Way of the World). In the Old Bachelor, Belinda,
speaking of Belmour with whom she is Th In^e, cries out, at the
suggestion of such a possibility — ‘ Filthy Fellow I ... Oh I love your
hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the same play Lucy the maid
calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’ during an exchange of
civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe done jesting ’ says
Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner kisses her. ‘Out upon you
for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the Polite Conversations, in reply
to the graceful banter of Neverout. Toad is a term of endearment
among these ladies ; ‘ I love to torment the confounded toad' says Lady
Fidget, speaking of Mr. Horner for whom she has a very pronounced
weakness. ‘ Get you gone you good- natur’d toad you ' is Lady Squeamish's
reply to the rather outre compli- ments of Sir Noble. Plague
(Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in Polite Con-
versations. Lord Sparkish complains to his host — ‘ My Lord, this venison
is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my hand with your
plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes, with
satisfaction, that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so
teizing ; you plague a body so ! can't you keep your filthy hands to
yourself? ' is a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.
Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild
disapproval — ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely,
but let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a
certain degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ;
again, she says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange
pleasant creature We have an example above of exorbitantly in
the sense of ‘out- rageously', and the adjective is also used in the same
sense — ^‘Most exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury
Fair, upon her husband's outburst against her airs and graces. We may
close this series of illustrations, which might be extended almost
indefinitely, with two from the Verney Memoirs, which contain idiomatic
uses that have long since disappeared. Susan Verney, wishing to say that
her sister's husband is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore
peg has married a very humersome cros boy as ever I see' (Mem. ii. 361,
1:647). Edmund Verney, Sir Ralph's heir, having had a quarrel with a
neigh* bouring squire concerning boundaries and rights of way, describes
him as ‘very malicious and stomachfull' (Mem. iv. 3:77, 1682). The
phrase ‘as ever I see' is common in the Verney letters, and also in the
Went- worth Papers. PARAGON OF PERFECTION'
395 Preciosity, &c. We close this chapter with
some examples of seventeenth-century preciosity and euphemism. The most
characteristic specimens of this kind of affected speech are put by the
writers into the mopths of female characters, and of these we select
Shadwell's Lady Fantast and her daughter (Bury Fair), Otway's Lady
Squeamish, Congreve's Lady Wishfort, and Vanbrugh's Lady Fancyful in the
Provok'd Wife. Some of the sayings of a few minor characters may be added
; the waiting- maids of these characters are nearly as elegant, and only
less absurd than their mistresses. Luce, Lady Fantast's
woman, summons the latter's stepdaughter as follows : — ^ Madam, my Lady
Madam Fantast, having attir'd herself in her morning habiliments, is
ambitious of the honour of your Ladyship's Company to survey the Fair ' ;
and she thus announces to her mistress the coming of Mrs. Gertrude the
stepdaughter : — ‘ Madame, M^s Gatty ' will kiss your Ladyship's hands
here incontinently '. The ladies Fan- tast, highly respectable as they
are in conduct, are as arrant, pretentious, and affected minxes as can be
found, in manner and speech, given to interlarding their conversation
with sham French, and still more dubious Latin. Says the daughter — ‘To
all that which the World calls Wit and Breeding, I have always had a
natural Tendency, a penchen^ derived, as the learned say, ex traduce,
from your Ladyship : besides the great Prevalence of your Ladyship's most
shining Example has perpetually stimulated me, to the sacrificing all my
Endeavours towards the attaining of those inestimable Jewels ; than
which, nothing in the Universe can be so much a mon gre, as the French
say. And for Beauty, Madam, the stock I am enrich'd with, comes by
Emanation from your Ladyship, who has been long held a Paragon of
Perfection : most Charmanf, most Tuant! ‘Ah my dear Child' replies the
old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been, and yet I am not quite gone .
When Gertrude her stepsister, an attractive and sensible girl, comes in
Mrs. Fantast greets her with ‘ Sweet Madam Gatty, I have some minutes
impatiently expected your Arrival, that I might do myself the Great
Honour to kiss your hands and enjoy the Favour of your Company into the
Fair ; which I see out of my Window, begins to fill apace.'
To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly, ‘ I got ready
as soon as e'er I could, and am now come to wait on you ', but old
Lady Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will you never
attain to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more polite way
of Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I come to wait
on you! You should have said; I assure you Madam the Honour is all
on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the sweet
Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!' exclaims
Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with this judgement,
we may leave My Lady Fantast. We pass next to Lady Squeamish, who
is rather ironically described by Goodvile as ‘the most exact Observer of
Decorums and Decency alive Her manner of greeting the ladies on entering,
along with her cousin Sir Noble Clumsey, if it has the polish, has also
the insincerity of her 30 COLLOQUIAL
IDIOM age—' Dear Madam Goodvile, ten thousand Happinesses wait on
you ! Fair Madam Victoria, sweet charming Camilla, which way shall I
express my Service to you ? — Cousin your honour, your honour to the
Ladies. — Sir Noble : — Ladies as low as Knee can bend, or Head can bow,
I salute you all : And Gallants, I am your most humble, most obliged, and
most devoted Servant/ The character of this charming lady, as
well as her taste in language, is well exhibited in the following
dialogue between her and Victoria. ^ Oh my dear Victoria ! the most
unlock’d for Happiness ! the pleasantest Wlc^ent ! the strangest
Discovery ! the very thought of it were enough to cure Melancholy.
Valentine and Camilla, Camilla and Valentine, ha, ha, ha, Viet,
Dear Madam, what is ’t so transports you ? Ldy Sqti, Nay ’tis too
precious to be communicated : Hold me, hold me, or I shall die with
laughter — ha, ha, ha, Camilla and Valentine, Valentine and Camilla, ha,
ha, ha — 0 dear, my Heart’s broke. Viet, Good Madam refrain your
Mirth a little, and let me know the Story, that I may have a share in
it. Ldy Squ, An Assignation, an Assignation tonight in the lower
Garden ; — by strong good Fortune I overheard it all just now — but to
think of the pleasant Consequences that will happen, drives me into an
Excess of Joy beyond all sufferance. Viet, Madame in all
probability the pleasantest Consequence is like to be theirs, if any
body’s ; and I cannot guess how it should touch your Ladyship in the
least. Ldy Squ, O Lord, how can you be so dull ? Why, at the very
Hour and Place appointed will I greet Valentine in Camilla’s stead,
before she can be there herself ; then when she comes, expose her Infamy
to the World, till I have thorowly revenged my self for all the base
Injuries her Lover has done me. Viet But Madam, can you
endure to be so malicious ? Ldy Squ, That, that ’s the dear
Pleasure of the thing ; for I vow I’d sooner die ten thousand Deaths, if
I thought I should hazard the least Temptation to the prejudice of my
Honour. Viet, But why should your Ladyship run into the mouth of
Danger? Who knows what scurvy lurking Devil may stand in readiness, and
seize your Virtue before you are aware of him ? Ldy Squ,
Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation: I durst trust
myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers: Besides, that
ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal Aversion, more odious
to me than foul weather on a May-day, or ill smell in a Morning. ... No,
were I inclined to entertain Addresses, I assure you I need not want for
Servants ; for I swear I am so perplexed with Billet-Doux^ every day, I
know not which way to turn myself: Besides there’s no Fidelity, no Honour
in Mankind. O dear Victoria I whatever you do, never let Love come near
your Heart : Tho really 1 think true Love is the greatest Pleasure in the
World.’ And so we let Lady Squeamish go her ways for a brazen jilt,
and an affected, humoursome baggage. If any one wishes to know whither
her ways led her, let him read the play. Only one more
example of foppish refinement of speech from this play — the remarks of
the whimsical Mr. Caper to Sir Noble Clumsey, who coming in drunk, takes
him for a dandng-master — ^ I thought you had known me’ says he, rather
ruefully, but adds, brightening— 'I doubt ^OECONOMY OF
FACE^ 397 you may be a little overtaken. Faith, dear
Heart, Fm glad to see you so merry I ’ The character of Lady
Wishfort in the Way of the World is perhaps one of the best that Congreve
has drawn; her conversation in spite of the deliberate affectation ir^
phrase is vivid and racy, and for all its preciosity has a naturalness
which puts it among the triumphs of Con- greve’s art. He contrives to
bring out to the full the absurdity of the lady’s mannerisms, in feeling
and expression, to combine these with vigour and ease of diction, and to
give to the whole that polish of which he is the unquestioned master in
his own age and for long after. The position of Lady Wishfort is
that of an elderly lady of great ouii ward propriety of conduct, and a
steadfast observer of decorum, in sjl^ch no less than in manners. Her
equanimity is considerably upset by the news that an elderly knight has
fallen in love with her portrait, and wishes to press his suit with the
original. The pretended knight is really a valet in disguise, and the
whole intrigue has been planned, for reasons into which we need not enter
here, by a rascally nephew of Lady Wishfort’s. This, however, is not
discovered until the lover has had an interview with the sighing fair.
The first extract reveals the lady discussing the coming visit with
Foible her maid (who is in the plot). ‘ I shall never recompose my
Features to receive Sir Rowland with any Oeconomy of Face Fm absolutely
decayed. Look, F oible. Foible, Your Ladyship has frown’d a little
too rashly, indeed Madam. There are some Cracks discernible in the white
Varnish. Ldy W, Let me see the Glass— Cracks say’st thou ? Why I am
arrantly flead (e. g. flayed) — I look like an old peel’d Wall. Thou must
repair me Foible before Sir Rowland comes, or I shall never keep up to my
picture. F, I warrant you, Madam ; a little Art once made your
picture like you ; and now a little of the same Art must make you like
your Picture. Your Picture must sit for you, Madam. Ldy W,
But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ? Or will he not fail
when he does come? Will he be importunate, Foible, and push? For if he
should not be importunate ... I shall never break Decorums — I
shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O no, I can never
advance. ... I shall swoon if he should expect Advances. No, I hope Sir
Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the Necessity of breaking
her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t give him Despair— But a
little Disdain is not amiss ; a little Scorn is 2X\mm%,--Foible.--h
little Scorn becomes your Ladyship . — Ldy IV. Yes, but Tendeimess
becomes me best— A Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort
of a — Ha Foible !— A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My
Neice affects it but she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my
Toilet be remov’d— I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he
handsom ? Don’t answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be
taken by Sm- prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man.—
TV. —Is he ! O then he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save
Decorums if Sir Rowland importunes. I have a mortal Terror at the
Apprehension of offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man.
Let my things be remov’d good Foible*’ The next passage
reveals the lady ready dressed, and expectant of Sir Rowlands
arrival. — ‘Well, and how do I look Foible! — Z; Most killing well,
Madam. Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what Figure shall I
give 39S colloquial IDIOM his Heart the first
Impression ? There is a great deal in the first Impression, Shall I sit?
— No, I won’t sit — I’ll walk— ay I’ll walk from the door upon his
Entrance; and then turn full upon him — No, that will be too sudden. I’ll
lie, ay Ell lie down — I’ll receive him in my little Dressing-Room. There
*s a Couch — Yes, yes, I’ll give the first Impression on a Couch — I
won’t lie neither, but loll, and lean upon one Elbow; with one Foot a
little dangling off, jogging in ^ thoughtful Way — Yes— Yes — and then as
soon as he appears, start, ay, start and be surpris’d, and rise to meet
him in a pretty Disorder — Yes — O, nothing is more alluring than a Levee
from a Couch in some Con- fusion— It shews the Foot to Advantage, and
furnishes with Blushes and recomposing Airs beyond Comparison. Hark !
there ’s a Coach.’ .^t it is when theure du Berger draws near, as
she supposes, that Lady Wishfort rises to the subiimest heights of
expression : — ‘Well, Sir Rowland, you have the Way, — you are no
Novice in the Labyrinth of Love— You have the Clue — But as I’m a Person,
Sir Rowland, you must not attribute my yielding to any sinister Appetite,
or Indigestion of Widow- hood ; nor impute my Complacency to any Lethar^
of Continence — I hope you don’t think me prone to any iteration of
Nuptials — If you do, I protest I must recede — or think that I have made
a Prostitution of Decorums, but in the Vehemence of Compassion, or to save
the Life of a Person of so much Importance — Or else you wrong my
Condescension — If you think the least Scruple of Carnality was an
Ingredient, or that — Here Foible enters and announces that the
Dancers are ready, and thus puts an end to the scene at its supreme
moment of beauty — and absurdity. Even Congreve could not remain at that
level any longer. It is worth while to record that in this play, a
maid, well called Mincings announces — ‘ Mem, I am come to acquaint your
Laship that Dinner is impatient The hostess invites her guests to go into
dinner with the phrase — ‘ Gentlemen, will you walk ? ' This
chapter and book cannot better conclude than with a typical piece of
seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's
leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the
subject for himself. The passage is from the Provok’d Wife :
— ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble servant, I must take my
leave. Lady Brute. What, going already madam ? Ldy F. I
must beg you’ll excuse me this once ; for really 1 have eighteen visits
this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one step out of the
room. Ldy B. Indeed I’ll wait upon you down. Ldy F. No,
sweet Lady Brute, you know I swoon at ceremony. Ldy B, Pray give me
leave — Ldy F. You know I won’t — I^dy B. — You know I must. — Ldy F. —
Indeed you shan’t — Indeed I will — Indeed you shan’t — Ldy B. — ^Indeed
I will. Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed, indeed, indeed, you
shan’t’ [Exit running. They follow.\ Alberto
Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51629253328/in/photolist-2mSEtHs-2mS81kq-2mS22wB-2mRjtgo-2mRfi2Y-2mPTwCM-2mPC6Zb-2mNzeEc-2mMQbzj-2mKF4aM-2mKGd6B-2mKCdPg-2mEiqh9-2dxgYk4
Grice e Caramella – gl’eroi di Vico –
filosofia italiana – Caritone e Melanippo -- Luigi Speranza (Genova). Filosofo.
Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation!
And he reminds me that I should re-read Vico!” -- Grice: “I like Caramella; he prefaced
Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote
on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” –
Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo,
comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della
filosofia su “Energie Nove”. Dopo un
primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di
questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del
neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue
idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a
Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne
sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di
Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese
parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che
era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta,
docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia. La sua vasta cultura, gli permise di vedere
la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della
filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello
spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della
filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e
gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia
supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si
esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione
e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato
alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello
spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta
funzione teoretica. Altre opere: “Problemi
e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica
e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania);
Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia
dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei,
M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello
Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e
metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce.
Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di Caramella, in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di
Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di Caramella.Lo spirito nella
filosofia di Caramella.Caramella. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario
biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 S. Caramella, La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II
Comune di Genova, La recente V ita d i G io rd a n o Bruno, con
documenti e ined i t i 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente
sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opp o r tu n
ità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così
sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella
delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione
dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello
Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti
rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nel
1576: anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere
del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia
entrato nella nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del
Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla «
benedetta coda dell’asino, che adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo
dello S p a c c io d e lla B e stia trio n fa n te, che dice proprio così: « Ho
visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far
baciare la velata coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa
reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di p o rt ar il nostro
Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina:
Centum accipietis, et vita aeternam p o s s id e b itis 4 ». I « religiosi di
Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove
uffiziavano fin dal secolo X V 5: e la preziosa reliquia doveva certo esser
mostrata 1 Messina, Principato, 1921-22. Vedi, per l’argomento di questa com
unicazione, a pp. 269-273. 3 Torino, Paravia, 18691; 18892. 3 ed. Spampanato
(Bari, Laterza), pag. 29. 4 ed. Gentile (D ial. m orali di G. B., ivi, 1608),
pp. 185-186. Q u e t if e t E c h a r d, S c rip t. ord. praed., t. il, p. in.
Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A
GENOVA E IN LIGURIA 49 al p opolo nella precisa circostanza della c o m m e m o
r a z io n e del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a G e r u s
a l e m m e 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to
notizia che il processo istruttorio p endente presso l’ in q u isiz io n e, per
i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, n o n a n n u n ziava buon
esito: e così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi
raccontò egli stesso, ai giu d ici di V enezia, di essere andato subito a N
oli. Ma è prob abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel
torno di rem po violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a
v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal
contagio, e a fermarsi alm eno qualche g io r n o a G e nova. Le sarcastiche
espressioni dello Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla
piazzetta della vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione
estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’
interno, eh’ è tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tan to m e n o
di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal
tempio, - ma di cruccio e di sd eg n o: lui da p o c o a ccostatosi alle nuove
idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria
e dall’ am ato co n v e n to napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli
allievi p endevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò
presto, anzi subito, anche a G e n o v a; a Milano l’ ambasciatore veneto
Ottaviano di Mazi ne aveva già n o tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m
ercoled ì s a n t o 2. E allora il Bruno, com e ci attestano, questa volta, più
veracem ente, le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne a n d ò a N
oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u m anista p oteva con tar qualche
cosa, e la simiglianza del nom e con quello della sua Nola; forse la
persistente libertà della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera
di raccomandazione, qualche c o n siglio di amico lo spinsero in quel
tranquillo rifugio, l’ u n ic o veramente tranquillo per lui nella storia delie
sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio g e n o e se, d ove m i
intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1
P e r la s t o r i a d ella re liq u ia v. Im b r ia n i, N a ta n a r II in P
ropu gnatore, Vili, 1 (1875), p. 190-91. 3 M u tin e lli, Storia arcana ed
aneddotica d’Italia, vol. 1, lib. li, pp. 306-307, Società Ligure di Storia
Patria - biblioteca digitale - 2012 50 stetti in Noli.... circa quattro o
cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi
gentiluomini...1 ». Lo Spam panato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati
biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi; e
cioè dalla fine d ’ aprile 1576 ai primi del 1577. C o m u n q u e, le
occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche
mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi
gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo,
professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di Dante: che
si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una teoria
fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle
sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella
seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era d u n q
u e penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici;
perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il b i s o g n o di stipendiare
un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del
mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini
che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che
formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te
sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di q u e s t e sue legioni
liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi
della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’
suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico
libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis,
che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia
del B ru no3 che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il
quarto dopo i primi due di Napoli 1 D occ. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO,
p. 6Ç8). 2 Vedi A. P e l l i z z a r i, Il quadrivio nel Rinascimento (Genova,
Perrella, 1924). 3 G. Bruno (Napoli, 1889), p. 12-13. Ma cfr. L. A mabile, in A
tti A cc. S cienze mor. e politiche di Napoli, vol. xxiv, pp. 468-469 n.; e s p
a m p a n a t o, op. cit.., p. 273 n. (e anche T occo in Arch. fiir Gesch. d e
r P h ilo s., IV, 1891, pp. 346-50; B onghi, ne La Cultura, Γ-15 ott. 1889, pp.
585-86; G en til e, G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze,
Vallecchi 1920, pp. 63-64. Società Ligure di Storia Patria - biblioteca
digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 51 e il terzo di Roma) «
dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o vese»: ma dell’asserzione
importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno
palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De
Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia
non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo
genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur
dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse
soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di
perseguirvelo), ma solo vi passò nel 1577. « Eppoi me partii de là [da Noli] ed
andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino,
dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il P o 1
». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo,
Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso,
Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in
Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. T r o
verà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la
queta pace di Noli, mai più. S antino C aramella 1 Docc. veti., c. 8La Logica
di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino... Storia del pensiero e del
gusto letterario in Italia ad uso dei licei. La scuola di mistica
fascista e la discoperta del vero Vico L'azione combinata della storiografia al
bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo
teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata
dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica
fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata della
nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad
avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello
tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella
anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad
un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno
contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Ruggero Zangrandi)
degli intellettuali fascisti nel partito di Palmiro Togliatti. L'accertata
esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice
hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista:
la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente
in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di
Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un
coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito
staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo
rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero
cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito
al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana.
Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase
della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava
avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto
l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani,
causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una
corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e
perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione
cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi
dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via
del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto
durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Nino Tripodi (1911 -
1988), giovane interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di
mistica fascista dal cardinale Ildefonso Schuster e dal fondatore
dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Agostino Gemelli
(confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani,
1941). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana
tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la
dottrina politica di Benito Mussolini. L'affinità del fascismo e
della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture
(Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere
che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un
principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come
debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse
è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo
spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza
o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed
inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della
natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta,
chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato nel 1941 e
presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il
saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate
da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio Chiocchetti, Giorgio
Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco Olgiati, Santino
Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino Giuliano) che avevano
sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca,
confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore dell'idealismo.
Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne
l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che
esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere
che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella
parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo
soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli
inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il
ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di
Vico quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli
apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in
nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il
fascismo all'idealismo. Né Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia
nera e cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina».
Tripodi indica in Vico l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo
dominanti nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua
filosofia impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine,
costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana,
inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei
fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato
o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale
definita dal pensiero che l'aveva posta. … La coscienza delle proprie virtù
creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa
prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori
perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e
rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza».
L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo
e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva
essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da
Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia culturale
elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Giorgio
Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Augusto Del Noce,
Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi, Giovanni Torti) che
nella filosofia di Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i
poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata
dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina
del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante
il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono
nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse
una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere
alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve
nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità
etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che
è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato
dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel
suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due
altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle
astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie
utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni
umane. Nella definizione del comune fondamento della teoria dello
Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di
Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico:
«la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che
perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per
cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi
conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel
quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana
e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale:
«l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di
realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di
assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che
l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per
Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità,
imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere
con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le
vere ragioni dell'ideologia fascista. E' però incontestabile che
le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia
tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra,
Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE
(Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Carmelo Ottaviano, Ernesto De Marzio,
Vanni Teodorani, Giovanni Volpe, Gino Sottochiesa, Giuseppe Tricoli, Primo
Siena, Dino Grammatico, Gaetano Rasi) l'istituto che progettava la
trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e
rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del
MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla
destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova nel luglio del 1960,
doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e
politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole
all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza
della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il
MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del
tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica
impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di
Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo,
la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata
dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche
tesi di Fiuggi. Nato a Genova il 22 giugno 1902 da Eleucadio e da
Francesca Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale,
nel maggio del 1919, cominciò a collaborare a Energie nuove di P. Gobetti, con
il quale aveva preso contatto epistolare fin dal 17 dic. 1918, dicendosi
lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana.
Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò
al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Dal luglio
1921, su segnalazione del Gobetti, Giuseppe Lombardo Radice cominciò ad
accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale. In linea con
l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio
degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un
contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze 1921), nato proprio da un
suggerimento del pedagogista siciliano che nel dicembre 1919 glielo aveva
proposto come tema di studio. È qui osteggiato un pensiero ispirato agli
schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in
particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo
(Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione
di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le
critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare
nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita
umana, sociale e pratica. Nello stesso orizzonte critico degli Studi si
muovono Le scuole di Lenin (Firenze 1921), La pedagogia di Vincenzo Gioberti
(ibid. 1922) e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e
recente (ibid. 1923), che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della
pedagogia (Milano 1921) scritta in collaborazione con il Lombardo Radice.
Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per
l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro
politico postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla
costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i
leader Arturo Codignola. Dal 1920 collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano
socialriformista Il Lavoro. In particolare, tipico dei gruppo di
pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero
gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo
Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come
strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui,
anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto
veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione
bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano
scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla
considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia
dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare
alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione
laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle
idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non
era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del
partito (pp. 106- 110). Conseguita la laurea in filosofia nel 1923, nel
1924 il C. ottenne presso l'università di Genova la libera docenza in storia
della filosofia e vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di
filosofia, pedagogia ed economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede
Genova. Frattanto la collaborazione con il Gobetti, che più che un sodalizio
intellettuale aveva costituito un formativo comune impegno politico-sociale
all'insegna del programma di democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo
scontro con il fascismo ormai trionfante. Dell'ottobre 1925 è la diffida dei
prefetto di Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collaborava
dal febbraio 1922) e i suoi redattori. La conferma di questo impegno politico e
intellettuale, il C. la offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di
Risorgimento senza eroi (Torino 1926) del Gobetti e continuando a far uscire
IlBaretti fino al 1928, pur orientando la rivista sempre più verso temi
letterari e filosofici onde evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel
1926, grazie al Croce, che ormai era divenuto per lui - come per tanti altri
antifascisti - "maestro di libertà", assunse la direzione della
collana "Scrittori d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno
fu costretto a rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui
era stato invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di
regime. Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto il
21 apr. 1928; rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi
trasferito a S. Vittore a Milano, fu scarcerato il 6 luglio dello stesso anno.
Il 16 genn. 1929 venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le
accuse - come si legge in una lettera al Croce del 5 febbr. 1929 (in Il
Dialogo, 1980) - erano tra l'altro di aver collaborato "al giornale
socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti
con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di essere "in una
condizione di incompatibilità con le direttive generali del governo".
Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu riammesso
all'insegnamento il 9 aprile e la libera docenza gli fu restituita con d. m.
del 21 giugno 1929. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina,
dove prese servizio dal 16 settembre. Dall'ottobre di quell'anno ottenne
l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il
magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché, nel
1933, vincitore di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia
nell'università di Catania. Nel 1935 passò alla cattedra di filosofia teoretica
(che terrà fino al 1950), conseguendo nel 1936 l'ordinariato. Furono
questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in
Religione, teosofia, filosofia (Messina 1931) e in Senso comune. Teoria e
pratica (Bari 1933) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto
teoretico. In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e
italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti.
L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito.
Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo
compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere
l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza
dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto,
nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia
del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero
occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia
greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel
pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la
stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente
tra il Croce e il Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal
loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la
teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre
la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un
tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile
relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania
1942), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che
si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo
pratico della teoria. All'approfondimento critico dei neoidealismo
italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica
e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e
fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania 1942),
Metalogica: filosofia dell'esperienza (ibid. 1945), Metafisica vichiana
(Palermo 1961), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del
problema metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e
metafisica (ibid. 1966). In quest'ultima opera è affrontato il rapporto
verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico
e di affermare razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione.
Qui la religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio
progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è
esclusa la riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è
conferita una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo
spiritualismo cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della
filosofia a metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di
criticità, e che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche,
invero in lui presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo
si evince dalle Lettere dal carcere del 1928 - sia come ricerca originale di
pensiero. In tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta
più nella prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e
trasformante, che in quella della svolta. Durante la sua lunga e proficua
attività accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside
della facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania (1943-45); fu
presidente di sezione del British Council di Catania (1944-50) e presidente di
sezione della Società filosofica italiana a Catania (1947-50) e a Palermo
(1951-72); fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica
italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato
prima alla cattedra di pedagogia (1950-52) e poi a quella di filosofia
teoretica (1952-72) presso la facoltà di lettere e filosofia. Il C. morì
a Palermo il 26 genn. 1972. Opere: Per un elenco completo si rinvia a
Bibliografia degli scritti di S. C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di
studi filosofici in memoria di S. C. (suppl. n. 7 degli Atti dell'Accad. di
scienze lettere e arti di Palermo), Palermo 1974, pp. 371-414. Oltre alle opere
citate ci limitiamo a ricordare qui: E. Bergson, Milano 1925; Antologia
vichiana, Messina 1930; Breve storia della pedagogia, ibid. 1932; La filosofia
di Plotino e il neoplatonismo, Catania 1940; Autocritica, in Filosofi italiani
contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, Milano 1946, pp. 225-233;
L'Enciclopedia di Hegel, Padova 1947; La filosofia dello Stato nel
Risorgimento, Napoli 1947; Introduzione a Kant, Palermo 1956; La pedagogia
tedesca in Italia, Roma 1964; Pedagogia. Saggio di voci nuove, ibid.
1967. Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario
politico centrale, b. 1061, fasc. 21865. Per l'epistolario del C. contributi
in: Lettere dal carcere di S. C., in Giornale di metafisica, XXX (1975), pp.
26-38; Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, XVI (1980), pp.63-I16;
Carteggio Lombardo Radice-S. C., a cura di T. Caramella, Genova 1983. Vedi
inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di S. C., in Annali della facoltà di magistero
della università di Palermo, 1971-72, pp. 5-15; P. Di Vona, Religione e
filosofia nel pensiero giovanile di S. C., ibid., pp. 16-33; F. Conigliaro,
Verità e dialogo nel pensiero di S. C., in Il Dialogo, VIII (1972), pp. 56-65;
A. Guzzo, S. C., in Filosofia, XXIII (1972), pp. 165-167; M. F. Sciacca, Il
pensiero di S. C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo,
XXXII (1971 -73), n. 2, pp. 11-24; A. Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini
d'oggi, in Labor, XIV (1973), pp. 81-93; F. Cafaro, Commemoraz. di S. C., in
Nuova Riv. pedagogica, XXIII (1973), pp. 17-26; P. Piovani, La dialettica del
vero e del certo nella "metafisica vichiana" di S. C., in Miscellanea
di scritti filosofici in memoria di S. C., Palermo 1974, pp. 251 -262; M.
Ganci, S. C., ibid., pp. 361-366; M. A. Raschini, Commemoraz. del prof. S. C.,
in Giornale di metafisica, XXIX (1974), pp. 465-472; F. Brancato, S. C.: senso
fine e significato della storia, Trapani 1974; V. Mathieu, Filosofia
contemporanea, Firenze 1978, pp. 8-10; P. Prini, La ontologia
storico-dialettica di S. C., in Theorein, VIII (1979), pp. I-II; L. Pareyson,
Inizi e caratteri del pensiero di S. C., in Giornale di metafisica, n. s., I
(1979), pp. 305-330; M. Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di S.
C., in Labor, XXI (1980), pp. 157163; M. A. Raschini, Storiografia e metafisica
nella interpretazione vichiana di S. C., in Filosofia oggi, V (1982), pp.
267-278; M. Corselli, La figura di S. C. nel periodo giovanile (1915-1921), in
Labor, XXV (1984), pp. 71-79; G. M. Sciacca, S. C. filosofo, pedagogista,
educatore, in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di
Palermo. δικά , ώς φησιν Ηρακλείδης ο Ποντικός εν τω περί Ερωτικών. ούτοι
Φανέντες επιβουλεύοντες Φαλάριδί,Chariton& Melanippus και βασανιζόμενοι αναγκαζόμενοί
τε λέγειν τους συν- confpirant . ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα-
adν.Ρhala ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον , ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά
επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το
Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτοέμφήναςτουςπυνθανομέ νουςτηςΠυθίαςόπωςαυτόεπιθώνται
έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα , προτάξας του εξαμέ τρου το
πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις
Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε ετε p.602. LIBER XIII . 179
3 Ευδαίμων Χαρίτων και Μελάνιππος έφυ , θείαςαγητηρες έφαμερίοιςφιλότατος. 1
Perperamέλαιονms.Εp.& moxαπολαύσαι1ns.A.proαπολύσαι. α > 737 Σ 2 Alibi
άγητήρες. 2 amasius, ut ait Heraclides Ponticus in libro de A m a toriis. Hi
igitur deprehensi insidias ftruxisse Phalaridi & tormentis subiecti quo
coniuratos denunciare coge rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala
rin ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt , ut plurimum collaudatos
dimitteret. Quare etiam Apol lo,delectatusfacto,moram
mortisindullitPhalaridi,hoc ipsum declarans his qui ipsum de ratione, qua tyran
num adgrederentur,consuluerunt:atqueetiamdeCha ritone & Melanippo oraculum
edidit, in quo pentame ter praepofitus hexametro erat; quemadmodum etiam pofteaDionysiusAthenienfis,
isquiAeneuseftcognomi natus , in Elegiis fecit. Erat autem oraculum hocce :
> Felix & Chariton & Melanippus erat, mortalium genti auctores
coeleftis amoris. . M2Santino Caramella. Keywords: il culto dell’eroe,
gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la
verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti
intersoggetivi, Apollo su Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777096859/in/dateposted-public/
Grice e Caramello – interpretare –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Grice: “I love Caramello – he
exemplifies all that I say about latitudinal and longitudinal unities of
philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has dedicated his life to
him!” Studia al prestigioso liceo
classico Gioberti di Torino, entra in seminario e nel 1926 riceve l'ordinazione
presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva
completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e
cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus
prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et
quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem
compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de
enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet
constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco
habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes
definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones.
Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia
ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis autem quaerat, cum in libro
praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum
de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum
triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute
significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum
praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes
enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub
ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum
tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem
dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur
secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de
eis sub ratione terminorum in libro priorum. Potest iterum dubitari
quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo
determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione
determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet,
ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et
verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his;
et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola
nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim
comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen
determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod
consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero
sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad
aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes
navis, sed partium navis coniunctiones. His igitur praemissis quasi
principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem,
dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes:
non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem
enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes
subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem
manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in
categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de
affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex
pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam
unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non
continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad
quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex
suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur
per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles
praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit
autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio,
quae est genus enunciationis. Si quis ulterius quaerat, quare non facit
ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde
pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de
anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie
orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales
ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse
praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est
enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum
quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum.
Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus
accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum,
sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum
de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de
quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. Est ergo considerandum
quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit
enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam
passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem
habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium,
sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum
notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et
sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod
fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod
homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non
possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione
sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum
aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces,
suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam
intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum
sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de
his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas
etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore
manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia logica ordinatur
ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis
conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius;
significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius
considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens
ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo
significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest,
signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis
concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis
praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum
significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea
quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis.
Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem
tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio
modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit
ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia
consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces
sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae
longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet
suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest
quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam
naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae
advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum
nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de
lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod dicit, earum
quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae
communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et
alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi
passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum,
et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus
significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic
intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes
significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse
quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet:
significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus.
Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde
Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia
hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam
Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere
quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus
res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles
nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed
manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae
operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia
intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali
passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum
intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam
ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de
anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex
aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem
conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum
refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum
cuiusdam impressionis vel passionis. Secundo, cum dicit: et ea quae
scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc
inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut
sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et
litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et
quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod
enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt
diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc
expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae
scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis
magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum
autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles
non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius
est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius
ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et
verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim
subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et
verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.,
ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad
hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit.
Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae
naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud
omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est
eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad
litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam
ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud
quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic
determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes,
ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec
voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae,
quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt
eadem apud omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones
animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes.
Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus
(quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt
notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae
passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum
rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est
quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae
similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo,
quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem
vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant
voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias
habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones.
Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae
conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine
differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est
compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa
veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. Ad
huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur
dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente
vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam
in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum,
non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic
patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum
intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per
respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut
signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum
autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo,
sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum
speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod
conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis
non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt
quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod
est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera,
quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res
aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter
vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se
veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel
falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad
mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus
artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum
vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam naturalia
comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est
ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam,
secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum.
Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam
formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat
quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam
mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra
animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra
animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus.
Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et
divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem
considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem
esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re,
puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus
componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque
compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit
materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est
instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem
factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam
intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se
positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est
instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis:
quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita
compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex
hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum
quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur
exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim
falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel
falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine significationis
vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia
principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in
qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo,
determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi:
enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim,
determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales
ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est
enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa
primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam;
secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem
procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera.
Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit;
ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae
perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.
Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia
includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui
scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui
scilicet definitio conveniat. Et ideo quinque ponit in definitione
nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab
omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus,
cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima
differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non
significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non
litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de
significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit
quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit quaedam res naturalis,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum,
quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam
convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam
si quis diceret quod est lignum formatum in vas. Sed dicendum quod
artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere
autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt.
Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales,
ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione
ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum
figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si
nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas
artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit:
secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis
procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter,
sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium. Quarto, ponit
tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo.
Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus.
Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum
tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut
quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur,
in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur
est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat
actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se
considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum
huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui,
prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant
cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa
habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut
cras, heri et huiusmodi. Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit:
cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur
tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia
significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam
totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc
distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur,
homo iustus. Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat
praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo,
quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae
particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine
temporeit, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa
primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo,
ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at
vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis
separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur.
In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat
sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod
unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem
est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat;
sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod
tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars
nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non
significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad
significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars
orationis significat partem conceptionis compositae. Deinde cum dicit: at
vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et
composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in
compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque
secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem,
idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut
dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen
simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam
imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum
imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius
significet. Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam
partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen
significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim
est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione.
Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad
significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est
signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia
scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces,
quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum
quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum
sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat
naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam
opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant:
nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina
omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines
rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad
hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit;
quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit
naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus
significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex
diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est
autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium
non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus
leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.
Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et
primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni
et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen
significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut
pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo,
neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur
enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde
non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut
si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum
dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret
subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de
ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per
modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus
suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis
sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius
non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter
autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit
negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit
huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem
significationis, ut dictum est. Deinde cum dicit: Catonis autem vel
Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia
huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen,
per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem
obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis
originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem
dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod
cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo
quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui
cadens ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit
consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio,
quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in
hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit
semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter
autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba,
scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum
dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum;
ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen
infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis
definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra
communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo
haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit
his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis
significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam
philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria
facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi:
non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad
nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo
facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem
quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini
et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in
definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum
prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat
tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine
tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione,
scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat. Sed cum hoc
etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti,
sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet
Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab
orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal.
Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum
dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam
in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum
importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans,
maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars
formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva
orationis; et ideo oportuit iterari. Tertia vero particula est, per quam
distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat
cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota,
idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti
et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur
habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte
subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba
infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in
Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut
et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam
quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel
passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in
abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur
actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut
scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic
significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia
etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu
et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum.
Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest
nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit
nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam
particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut
cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de
cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam
autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur
ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum
semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet
esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur
subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel
in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter
praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto
praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel
passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae
dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et
ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de
subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione
utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum
Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero
praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae
praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem
pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent
praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua
praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis
importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.
Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a
ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis
vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non
currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi
significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones
non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam
determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie
possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur
ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad
genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem,
significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant
remotionem actionis vel passionis. Si quis autem obiiciat: si praedictis
dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod
definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem
dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec
ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis
differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt,
deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et
rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de
eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi
privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit
determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis,
quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi
duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit
a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita
non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel
currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi.
Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa
vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter
praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens
indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut
passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae
incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae
consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta:
cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie
verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati
simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum
quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per
modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam
non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed
ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et
praedicari. Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat
propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina;
secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi:
sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est
quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia
supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde
proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo
audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit
quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad
hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur
esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem
nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est
animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est
eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus
operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se,
constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex
conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat
antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem
constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus
componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad
hoc facit quiescere audientem. Et ideo statim subdit: sed si est, aut non
est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis
et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit.
Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare
veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum
infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum
veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc
generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non
significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum
verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non
sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem
esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non
currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel
non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum
subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi
notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non
esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de
quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de
decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat,
nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est
per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur
conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et
posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur:
tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et
quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis
expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter
exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc
nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit
quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est
intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret
aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum,
sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est,
sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum
vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam
compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum
dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio
significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest
intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus
nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem
Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis
sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non
significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non
esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse.
Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam
quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse,
per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse
principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret
aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est,
non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem
habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad
veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et
falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem,
in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio,
quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia
dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est
perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel
falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem,
quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim
primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est,
simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum
verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est
communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis,
inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter
inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter
vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid
autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat
compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae
sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc
determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus
eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem
orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit
errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Circa primum considerandum
est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio
convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod
etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid
significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod
positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter
iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio
orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum
significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc definitionem
Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt
enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut
puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc
respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius,
debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei,
puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est
in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde
est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici,
secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde
debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae.
Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli
orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum
perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et
tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus
partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum
mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis,
scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis
principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio
imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio
convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde cum dicit: dico
autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum
esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis
syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse
significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim
aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si
addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit
falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus
quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur
ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia,
oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis,
scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur
quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est
una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando
habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et
ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum
autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in
compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito
et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se,
prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.
Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim
aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad
placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis
oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis;
potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt
naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus
interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum,
quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales,
sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad
placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra
dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et
ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus
virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem
naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut
probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem
motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non
sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest
etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter
significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic
incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in
prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate
enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur;
et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera.
Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in
secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de
oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis;
secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis
speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de
sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.
Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum
alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut
supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est
usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est
significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non
omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit:
sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc
definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus
imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non
faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non
exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur
praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam,
quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum
provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est
vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum
conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur
etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae
quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt,
non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis.
Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad
aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio
dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in
aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui
significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis
congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic
dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem
enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.
Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest
affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde
negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est.
Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam
aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex hoc autem
quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant
rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo
mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem
generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis:
quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet
respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio
secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant
rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio
in qua verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa;
ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo,
praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo,
manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Circa primum
duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex
verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel
futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione
sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non
solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec
etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad
rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut
erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod
aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa. Potest autem
esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit
mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest.
Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu
verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur
infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo
et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero
praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod
est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio
categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem
rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et
formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa
vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam
conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur
coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non
erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad
enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de
verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam
autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una
simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in
omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non
est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non
importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine
faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit
aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod
dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non
multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi
rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum;
unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet
differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa
ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur
genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum
et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem
huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio
dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua
interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis
necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio
partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur
ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores
loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius
proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali,
cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta
non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam
hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum,
sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde
subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque
per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex
quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum
comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad
genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. Deinde cum dicit:
est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et
primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una;
secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum
autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam
divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et
verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem
unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos
pluralitatis. Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute,
scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est
coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes
plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo
modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales
opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod considerandum est, secundum
Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex
autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio
quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in
unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio,
sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex
pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex
pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum
significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est
pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa
significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura
significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas
et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus
non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus
musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive
cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato
disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa,
quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit
coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non
unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter
nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel
inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat,
vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura
nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam,
homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec expositio non videtur
esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem,
quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et
orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum
quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione
unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur
dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam
et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra
dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile
bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate
nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum
significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit
una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal
gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in
prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per
oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes,
et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur
enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari
in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno
communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et
non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse
additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic
modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis
est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura
nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo
unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur
primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse.
Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam
plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo
possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in
quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura
significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam
sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum.
Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem
aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum
significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio
sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel
verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi
enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes;
puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem
utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit.
Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non
enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui
profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte.
Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi
legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat,
manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum.
Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est
omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc.,
manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio
dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem
convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae
enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod
simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet
ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum
in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est
enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero
est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni
species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse
sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis,
melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio,
sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod
enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione
nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem
considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem
enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum
quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet
enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non
esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas
et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel
non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio
falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum
permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re
enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta
cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur
aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum
dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod
in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus
est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod
pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus
autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas
negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est,
scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam
cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit
affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum
dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit
negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non
est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc
quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel
non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit
vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est
albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens.
Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in
propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam
inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri
temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel
ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet
variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus,
idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu
praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est,
contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare:
quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel
quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et
hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur
potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt
secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet
affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium
illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod
negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc.,
manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo,
manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera.
Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e
converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio.
Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum
nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis,
ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem
et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas,
praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si
non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem
diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum
diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est
albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte
praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non
movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est
animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine
ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum,
non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera
talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra
sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones
sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia
philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse
contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere
diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera
contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem
enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam;
secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera.
Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam
subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum;
secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et
cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis
sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus,
quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per
divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt
singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per
definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari,
singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno
solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale,
Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia,
sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra
res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non
sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens
divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse
universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur
res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in
quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum
aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut
rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod
convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur
significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est
commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale,
quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est
communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute
secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non
definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta
si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis,
sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno
solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam
secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur
quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque
quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in
pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter
adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit
propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet
rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia
non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale
est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de
pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de
se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id
quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno
modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc
materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam
prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam,
quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et
singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una
sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys.
quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua.
Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit:
necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim
semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia,
quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel
non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est
suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem
rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de
universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo
considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato
posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in
intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur
ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut
si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species.
Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae
intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam.
Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet
apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet
ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae
sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc
enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam
quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed
tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in
acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet
ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus,
et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta
cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod
consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo
est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo
invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui;
ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter:
uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est
singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae
communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui
ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes
variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra
dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus.
Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero
coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur
secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex
et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in
affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia
sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum
autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur
pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem,
secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi
divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de
pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem
enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. Deinde cum dicit:
si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode
opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo,
distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo,
ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et
falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera. Circa primum
considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a
singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc
diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem
diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici
determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc
aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum
quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non
habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid
dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra
singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur
quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat
universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis,
per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed
universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione
hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum
attribuendi aliquid universali sic accepto. Sicut autem supra dictum est,
quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et
ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit
secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in
affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat
quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub
subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec
dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto
universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi
non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est
accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque
autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis;
et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio,
aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto
universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat
formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat;
unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio
posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter
removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita
etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem
affirmationem. Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus
aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali
praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia,
in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam
homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur
absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi
enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.
De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum
est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura
universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad
naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis
naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione
singularitatis. Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur
singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes,
scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis. Sic igitur
secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones
enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad
indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi:
opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de
oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione
indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit
dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Dicit ergo primo quod si
aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum
continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est,
idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est
albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur
quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non
est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter
remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod
affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc
negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum
quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed
super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem
remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem
contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit
contrarietatem. Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit
oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non
universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim
universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus
subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt
contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria.
Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla.
Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter,
sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed
de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo
praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum
universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur
universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper
significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio
refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter
enunciatur, non sunt contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem
significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem
contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre
voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit
bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc videtur
ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum
vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic
sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis
enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto
universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est
vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non
praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati
si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem
universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur
ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte
praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere
omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas,
hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad
particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his
notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero
universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et
cetera. Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non
habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem
subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit
affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis
negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis
homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis
negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et
nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est
signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est
particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis
negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia contradictio
consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem
affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex
necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest
nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis
affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod
universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et
particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum dicit:
contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit
quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut,
omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio,
quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem
in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit
qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem
universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium
enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim
contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi
quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando
dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV
metaphysicorum. Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc.,
ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse
contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de
universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit
verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum
dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et,
homo non est probus. In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli
contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro
universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia
indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem
secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem
est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam
affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam
universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa,
quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis;
et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad
quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur
indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod
non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter
quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod
materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam
Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum
secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia
huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et
ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod
indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali
negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est
potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in
genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque
genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est
potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset
potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis
affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione
veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae,
quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel
ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis
pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et
utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de
universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc.,
probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt
quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur
secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et
fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in
permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis,
quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam
homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est
vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae
sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit:
videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et
dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum
genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut
huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec
negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed
si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est
sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex
sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero
negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae,
in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod
affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid
singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter
sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio
neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi
opponitur una sola negatio. [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12
n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per
exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus,
haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si
vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita,
sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae
est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae
est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum
affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi,
omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est
albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando
affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod
huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria
negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non
aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale
indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur
tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. [80426]
Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod
supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita
affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita
affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc
dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una
negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae,
aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est
vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt
contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit
quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum
est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua
aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter,
multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas
enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum dicit: si
vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem
enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil
enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his
et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex
quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non
fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa
continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen
animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad
invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad
excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis,
sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint
partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus.
Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem
enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum
aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit
tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam,
canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod
dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et
equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio
una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali
ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur,
tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed
istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures
enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si
significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et
equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae
componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica
est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum
quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et
equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec,
tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera
existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones
ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad
unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est
albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec
cum dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc.,
concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae
utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam,
quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus
determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et
falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse
dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus
enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit
dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio
est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur
tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus,
in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse
est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera
falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio
enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est
negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa
non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic
oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in
quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae
etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus,
in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse
quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul
verae, ut supra ostensum est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad
propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus
enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad
oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non
universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate
sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero
falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero
universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in
praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in
futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. Sed in singularibus et
futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse
est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque
materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una
determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam
contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio
est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen
Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad
singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel
repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc
igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus
de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum
sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est
quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco,
probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum
unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc
idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in
singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam
vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non
autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus
futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet
locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum
dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc
probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet
quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod
manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate
sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur
quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex
necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam
convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex
necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et
e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod
affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius rationis talis.
Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit
vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat
verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non
esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est
omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint
ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. Quaedam
enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam
vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem,
quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in
pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si
autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo
dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent
contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter
causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in
paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad
utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata:
quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis
determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel
non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet
forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in
II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet
propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet,
licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad
utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad
alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non
erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa
hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate
sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et
sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic
expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem,
quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum
determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto
contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per
consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est
in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est
futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem
contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex
ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate
potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.
Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo,
ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim
prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi:
quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis
rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod
necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram
esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet
nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex
necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum
est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum
quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de
contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod
omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae
est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex
necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed
hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et
negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid
aliud, erit alius finis. Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc.,
probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito;
secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non
ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse
impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat
praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod
hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc
non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est
quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex
necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex
necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc.,
ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt,
quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum,
alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum
fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel
negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae
enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter
etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit
affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic
ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum,
ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod
necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri;
consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt,
quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel
praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident,
quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens,
semper verum erat dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum dicit: quod si
haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo,
per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis;
secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum
autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod
homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus
existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod
quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et
omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas
persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus
homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota
civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod
homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc
quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non
habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed
quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis.
Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari
vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet
quod omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est
omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in
rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis
contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent.
Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id
quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non
fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse,
contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel
fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non
fieri, esse et non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc.,
ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova;
manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec
ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod
possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo
supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per
assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita
possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non
inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et
ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu
semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate
sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis
ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum
contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod
altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in
pluribus. Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in
commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati.
Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud
esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit;
possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero
distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium
esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod
semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non
prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima
distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper
erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in
aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est
necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista
distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium,
quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est
determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino
determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat
aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod
Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc
loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem
quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod
materia est in potentia ad utrumque oppositorum. Sed videtur haec ratio
non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur
in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus
invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter,
sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad
utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi
etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad
unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest,
consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem
modo. Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in
ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad
unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu
connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet
causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se
non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae
sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed
hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem
utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia
ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset
effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus)
reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam,
quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita,
necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad
ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad
bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa,
necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit
utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt
autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid
per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se.
Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum
accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens
alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est
per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod
per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens
non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius
provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium
corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim
positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus
quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se
et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum
sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium
corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem
hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum
differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad
intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur
viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus
effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id
autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam
virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per
accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est
una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus
dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter
agentem. Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab
intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se
non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo
format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per
accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem;
sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis
quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se
intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi
occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo
aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest
eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit
evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non
potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.
Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et
operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum
tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte
cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae
secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub
ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra
ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam
secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in
magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si
ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub
ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et
subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad
ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos
eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si
autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa
turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in
via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter
perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non
cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem
sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem
sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere
dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic
igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae
fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex
necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit
contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non
omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem
aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi,
aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex
necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non
potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur
bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi
videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex
necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium
et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis
differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam
verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex
necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed
per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate
inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse
felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non
posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad
haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in
his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt
ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt
determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem
dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit,
quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit
esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis
impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim
argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam
removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso,
primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se
habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et
necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa
eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio
est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si
praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant,
oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est
esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et
haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et
non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo
necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod
est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est,
impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem
significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse
quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando
non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non
potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et
omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne
ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex
necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem
necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter
de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex
necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere
id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est
verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.
Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant
veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit
quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim
illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione
eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se
necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse
est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc
sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod,
impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est
neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si
divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat
per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non
esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est
necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed
necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad
necessitatem quae est sub disiunctione. Deinde cum dicit: quare quoniam
etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa
orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate
orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit
veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo
primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut
et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est
vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est
etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod
non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt,
sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem
tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel
subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel
praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid
additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero
determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed
etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera.
Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima
est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis
remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non
enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam
formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat
negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam
uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde
sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid,
idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est
unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde
cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod
duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex
nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et
negare, ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc.,
ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum
est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest
enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur
loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni
infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum
constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per
se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen
infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio
illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non
accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc
quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in
enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur
veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel
ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur,
quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter
positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus
subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus
nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non
potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare
de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale
subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non
universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae
posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis
temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est
eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus
distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex
parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus
nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati.
Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo,
manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero
contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus
in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in
quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit
autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam
ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus
subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus
subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent
etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem
habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo,
proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit
earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio,
exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem
et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod
dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum
dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod
Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi
principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad
connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est
intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat
ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut
adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium
praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum
nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas
partes et non in tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod
dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur,
dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in
praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti,
secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen
finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo,
non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas
oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati,
quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est
iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo
non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae
particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis. Deinde cum
dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium
adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet,
scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest
enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est
tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi,
dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit,
vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen
vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum
enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum
habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat;
ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt
oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit
inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae
in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter
sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem
praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum
enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam,
sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut
privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est,
diversimode a diversis expositum est. Ad cuius evidentiam considerandum
est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus.
Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae
enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et
homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen
infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero
praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet
homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo
sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet
illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et
negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel
analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato
privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent
secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut
privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae
aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo
non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc
modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in
praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam
speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae
affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non
est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem
affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum
privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato.
Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit
enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt
disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex
his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito
vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius
evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute
se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere
praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia
illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter
haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum
quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum
loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa
infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici
de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo
iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed
etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus;
tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est
in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo,
quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in
plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici
quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa
privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente
habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum
vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est
quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum
de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam
negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo
iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo
quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non
iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum
iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est
exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum
praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et
negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera
negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut
privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem
affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa
infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa
privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa
sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita
etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus,
et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo
infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. Sequitur, duae
autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet
infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas
in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.
Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen
videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur
sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in
praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et
postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis
conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit;
secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum
consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor
praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et
alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et
negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad
affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam
sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita
se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae,
sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter
se habent privativae sicut infinitae. Deinde cum dicit: dico autem
quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor
praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc
verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito
vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est
iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non
iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est
quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut
supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus
enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens
est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus
vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem
descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi
potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius
uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito
describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur
duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In
qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum,
adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de
infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex
parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod
praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri
et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod
non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. I
1 < l : . ■ *
ANICII MANLII SEYERINI BOETII COMMENTARII
• i m LIBRUM ARISTOTELIS IIEPI
EPMHNEIA2 RECENSUIT CAROLUS MEISER.
PARS POSTERIOR SECUNDAM EDITIONEM ET
INDICES CONTINENS. BOSTON COLLEGE LIBRARY
CHE T HILLr L»,v- LIPSIAE
IN AEDIBUS B. G. TEUBNERI.
MDCCCLXXX. 1 bl252 X.IPSIAE: TYPIS
B. G. TETJBNERI. PRAEFATIO. In
secundae editionis textu recensendo lii
libri manu scripti mihi praesto fuerunt:
S codex (Salisb. 10) bibliothecae
Palatinae Vindo- bonensis 80 (Endlicheri
370) s. X, qui continet f. 1 — 8V
versionem continue scriptam libri Aristotelici
itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi,
deinde f. 9 — 176v sex libros Boetii
commentariorum. F codex (Frisingensis 166)
Monacensis 6366 s. XI et X: vetustior
manus s. X incipit a f. 33 (p.
352 edi¬ tionis Basileensis = p. 171
nostrae editionis). T codex (Tegernseensis
479) Monacensis 18479 s. XI, qui f.
1 — 56 v priorem editionem expositionis
Boetii, f. 57v — 65v versionem continuam,
quam 1. % signavi, f. 66v — 191
secundam editionem complectitur. E codex
(Ratisb. S. Emm. 582) Monacensis 14582 s.
XI. Praeter hos quattuor codices,
quorum plenam scri¬ pturae discrepantiam
studio legentium proposui, hi quattuor alii
libri a me hic aut illic inspecti
et diffici¬ lioribus locis excussi sunt:
X codex Einsidlensis 301 s. X,
in quo non pauca desiderantur: nam
desunt p. 371, 17 huius editionis
conposita — 378, 6 sit, 395, 21
possibile — 410, 17 non necessarium,
postremo desinit in verba p. 417, 19
de contingenti et de possi (sic), ut
finis quinti et sextus liber totus
perierit. J codex Einsidlensis 295 s.
XI. IV PRAEFATIO. G codex
Sangallensis 830 s. XI. B codex
Bernensis 332 s. XII, in quo desunt
p. 383, 1 ut in eo — 434,
3 et dicit. Hos omnes codices
ex uno eodemque fonte fluxisse inde
apparet, quod eaedem in omnibus lacunae,
eaedem interpolationes, eadem vitiorum genera
deprehenduntur, et de lacunis quidem
conferas: p. 70, 15. 161, 18. 208,
22. 288, 7. 382, 8. 432, 9,
praeterea p. 126, 8. 267, 12. 290,
18. 312, 14. 341, 3. 447, 9.
482, 14. 489, 7, de interpolationibus
autem p. 227, 10. 231, 24. 333,
23. 416, 23. 419, 13. 431, 12.
434, 14. 439, 9. 477, 12. 488, 8 —
13. iisdem vero cunctos vitiis foeda¬
tos esse ut demonstrem, satis erit
unum aut alterum ex plurimis passim
obviis proferre exemplum, nam et p.
361, ubi Peripatetica interrogationis divisio
proditur, cum in codicibus nostris v.
8 sqq. legatur: 'non dia¬ lecticae
autem interrogationis duae sunt species,
sicut audivimus docet5, manifestum est pro
vocabulo cor¬ rupto 'audivimus5 Eu de
mus restituendum fuisse et p. 324, 23
quin recte scripserim: 'ad tenacioris memo¬
riae subsidium5, cum codices in perversa
scriptione t elatior is consentiant, quis
est qui dubitet? confer praeterea p.
237, 25 — 28 locum illum in
omnibus aequaliter libris turbatum. Pro
fundamento autem textus constituendi codicem
S habui, omnium longe praestantissimum, qui
non raro ceteris fidelius verae scripturae
vestigia servaverit, confer e. c. p.
500, 9, ubi huius codicis lectio 'a
bonum5 pro¬ pius ad verum 'ad unum5
accedit quam reliquorum 'ad bonum5, hoc
unum dolendum est, quod a correctore
quodam, quamquam multa emendata sunt, tamen
ipsis locis difficillimis ita rasuris
depravatus est, ut quid primitus in
eo scriptum fuerit saepe dinosci non
possit, nec tamen multum interest, cum
propter similitudinem ceterorum codicum fere
semper quid S habuerit ex aliis
suspicari liceat. PRAEFATIO. V
Codici S plerumque consentit F , nisi quod
in hoc librarius interdum pravo varietatis
studio et verba transposuisse et pro
solitis rariora vocabula inculcasse videtur,
nam cum hic codex p. 395, 20
pro voce So¬ cratem mire elimannum
posuerit, quod aperte fal¬ sum est,
iure in dubium vocari potest, num
recte aliis locis hunc codicem solum
contra ceterorum consensum secutus sim.
quare hos locos notare velim et quid
F habeat, quid ceteri adscribam: F
ceteri : p. 195, 21 autumant
putant 208, 25 itidem similiter
212, 17 infit dicit 223, 1
potiores meliores 246, 20 itidem
similiter. Ad S et F libros
optimos proxime accedit E, et ipse
optimae notae idemque pulcherrime et
diligentis¬ sime scriptus, a secunda manu
et in S (= S2) et in E (=
E2), rarius in F (= F2) multa
egregie sunt emendata. N J G et
ipsi in optimis numerandi sunt et
intima cognatione cum S F E
coniuncti, sed vix quid¬ quam novi ex
iis elicitur, quod non in ceteris
reperiatur. Minus fidei codici T
tribuendum est, quippe qui fere semper
cum secunda manu codicis G (= G2)
con¬ sentiat, ut quae in G supra
lineam vel in margine leguntur in T
in textum irrepserint, quare nec inter¬
polationibus vacat et variae lectiones
promiscue iuxta positae inveniuntur, sunt
tamen quae in hoc codice melius quam
in ceteris servata videantur. Minimae
auctoritatis et omnium deterrimus est codex
B (plerumque = E2), qui pauca
emendavit, plu¬ rima demendo addendo
mutando turbavit ac miscuit. Ut in
prima, sic in secunda editione lemmata
non plenum Aristotelis textum exhibent, sed
pauciora in secunda editione desiderantur,
quorum quaedam in E Boetii comment.
II. a** VI PRAEFATIO. a
secunda manu in margine et in B
sunt addita, cete¬ ram B saepius
prima tantum et postrema Aristotelis verba
expositioni Boetii praemittit, quae vocula
'usque5 (vel 'reliqua usque5) iunguntur
(cf. p. 227, 13 — 26). De
versione Boetiana libri Aristoteliei Ttegi eQ[ir}-
vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu
discrepantia in Fleckeiseni annal. vol.
CXVII p. 247 — 253 (a. 1878)
disputavi. Monachii mense Martio a.
MDCCCLXXX. Car. Meiser. ANICII
MANLII SEVEEINI BOETII IH LIBRVM
ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS COMMENTARII.
SECVNDA EDITIO. Boetii comment. II.
1 t NOTARUM INDEX. S
= codex (Salisb. n. 10) Vindobonensis
n. 80. ( E — praemissa translatio).
F = codex (Frisingensis n. 166)
Monacensis n. 6366. T = codex
(Tegernseensis n. 479) Monacensis n. 18479.
(X = praemissa translatio). E =
codex (Ratisb. S. Emm. n. 582)
Monacensis n. 14582. N = codex
Einsidlensis n. 301. J = codex
Einsidlensis n. 295. G = codex
Sangallensis n. 830. B = codex
Bernensis n. 332. b = editio
Basileensis a. 1570. ANICII MANLII
SEVERINI BOETII COMMENTARIORVM IN LIBRVM
ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIA2 SECVNDAE
EDITIONIS LIBER PRIMYS. Alexander in
commentariis suis hac se inpul- sum
causa pronuntiat sumpsisse longissimum exposi¬
tionis laborem, quod in multis ille a
priorum scripto¬ rum sententiis dissideret:
mihi maior persequendi operis causa est,
quod non facile quisquam vel trans¬
ferendi vel etiam commentandi continuam
sumpserit seriem, nisi quod Vetius
Praetextatus priores MANLII SEVERINI BOETII
VIRI ILLVSTRIS EX CONSVLV ORDINE (CONS
ORD F) IN PERIERMENIAS ARISTOTOLIS
(ARESTOTELIS F) EDI¬ TIONIS SECVNDAE LIBER
PRIMVS INCIPIT. SF A-M-S-B- SECVNDA
AEDITIO IN LIBRVM PERI HERMENIAS
INCIPIT. GT ANICII MALLII SEVERINI
BOETII VIRI ILL • AEDITIONIS SCDAE IN
PERIERMENIAS ARIST- LIB • PRIMVS INCIPIT. J
ANICII MANLII SEVERINI BOETII VIRI
CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI
ORDINE PATRICII SCDAE EDI¬ TIONIS EXPO
SITIONV IN ARISTOTELIS PERIHERMENIAS •
INCIPIT LIBER primvs. E titulum om.
NB 1 Alexander — longissimum om.
N 2 longissimg T 4 dissidet F 6
etiam om. F 1* ed.Bas 5
\ 4 SECVNDA EDITIO postremosque
analyticos non vertendo Aristotelem Latino
sermoni tradidit , sed transferendo Themi-
stium, quod qui utrosque legit facile
intellegit. Al¬ binus quoque de isdem
rebus scripsisse perhibetur, 5 cuius ego
geometricos quidem libros editos scio, de
dialectica uero diu multumque quaesitos
reperire non valui, sive igitur ille
omnino tacuit, nos praetermissa dicemus,
sive aliquid scripsit, nos quoque docti
viri imitati studium in eadem laude
versabimur. sed 10 quamquam multa sint
Aristotelis, quae subtilissima philosophiae arte
celata sint, hic tamen ante omnia
liber nimis et acumine sententiarum et
verborum brevitate constrictus est. quocirca
plus hic quam in decem praedicamentis
expositione sudabitur. 15 Prius igitur
quid vox sit definiendum est. hoc
enim perspicuo et manifesto omnis libri
patefiet in¬ tentio. Vox est aeris
per linguam percussio, quae per quasdam
gutturis partes, quae arteriae vocantur, ab
20 animali profertur, sunt enim quidam
alii soni, qui eodem perficiuntur flatu,
quos lingua non percutit, ut est
tussis, haec enim flatu fit quodam
per arterias egrediente, sed nulla linguae
inpressione formatur 24 atque ideo nec
ullis subiacet elementis, scribi enim 290
nullo modo potest, quocirca | vox
haec non dicitur, sed tantum sonus,
illa quoque potest esse definitio vocis,
ut eam dicamus sonum esse cum quadam
ima¬ ginatione significandi, vox namque cum
emittitur, significationis alicuius causa
profertur, tussis vero 30 cum sonus
sit, nullius significationis causa subrepit
3 Qu§ qui T 4 eisdem E 5
ergo T 6 repp. sic semper
codices 7 omnino ille T 12 nimis
tacumine T 16 omnis om. F 17
intentio de voce SG-J et in marg.
T definitio vocis E diff vocis F2
19 guturis F 29 ali¬ cuius —
significationis G2 in marg. tusis F
30 subripit S surripit GT I.
5 potius quam profertur, quare
quoniam noster flatus ita sese habet,
ut si ita percutitur atque formatur,
ut eum lingua percutiat, vox sit: si
ita percutiat, ut termi¬ nato quodam
et circumscripto sono vox exeat, locutio
fit quae Graece dicitur Xs%ig. locutio
enim est arti¬ culata vox (neque enim
hunc sermonem id est Xe%iv dictionem
dicemus, idcirco quod cpccGiv dictionem in¬
terpretamur, Xi%iv vero locutionem), cuius
locutionis partes sunt litterae, quae cum
iunctae fuerint, unam efficiunt vocem
coniunctam conpositamque, quae lo¬ cutio
praedicatur. sive autem aliquid quaecumque
vox significet, ut est hic sermo
homo, sive omnino nihil, sive positum
alicui nomen significare possit, ut est
hlityri (haec enim vox per se cum
nihil signi¬ ficet, posita tamen ut
alicui nomen sit significabit), sive per
se quidem nihil significet, cum aliis
vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones
: haec omnia locutiones vocantur, ut
sit propria locutionis forma vox conposita
quae litteris describatur, ut igitur sit
locutio, voce opus est id est eo
sono quem percutit lingua, ut et vox
ipsa sit per linguam determinata in
eum sonum qui inscribi litteris possit,
sed ut haec locutio significativa sit,
illud quoque addi oportet, ut sit
aliqua significandi imaginatio, per quam id
quod in voce vel in locutione est
proferatur: ut certe ita dicendum sit:
si in hoc flatu, quem per arterias
emit¬ timus, sit linguae sola percussio,
vox est; sin vero talis percussio
sit, ut in litteras redigat sonum,
locu¬ tio; quod si vis quoque quaedam
imaginationis adda- 1 quoniam dei. S2
om. F 2 percutitur atque formatur
g2p2g2g. percuti atq. formari SFEN, percuti
atq. formari possit T (possit supra
lin. GJ) ut cu eu B 3 sit]
est STGNJ ( corr . S2) 5 fit] sit
S2FE2 lexis codices , item 6 et
8 lexin, 7 phasin 9 literae in
marg. S quae coniunctae S, corr. S2
13 alicuius SF 14 blythyri SG
blithyri NT blytbiri EF? {in fine
suprascr. s F) 21 et ut b 22
scribi? 28 fit T 5 10
15 20 25 SECVNDA EDITIO
6 tur, illa significativa vox
redditur. concurrentibus igitur his tribus:
linguae percussione, articulato vocis sonitu,
imaginatione aliqua proferendi fit interpretatio,
interpretatio namque est vox articulata per
se ipsam 5 significans, quocirca non
omnis vox interpretatio est. sunt enim
ceterorum animalium voces, quae interpre¬
tationis vocabulo non tenentur, nec omnis
locutio interpretatio est, idcirco quod (ut
dictum est) sunt locutiones quaedam, quae
significatione careant et cum 10 per
se quaedam non significent, iunctae tamen
cum aliis significant, ut coniunctiones.
interpretatio autem in solis per se
significativis et articulatis vocibus per¬
manet. quare convertitur, ut quidquid sit
interpretatio, illud significet, quidquid
significat, interpretationis 15 vocabulo
nuncupetur, unde etiam ipse quoque Ari¬
stoteles in libris quos de poetica
scripsit locutionis partes esse syllabas
vel etiam coniunctiones tradidit, quarum
syllabae in eo quod sunt syllabae
nihil omnino significant, coniunctiones vero
consignificare 20 quidem possunt, per se
vero nihil designant, inter¬ pretationis
vero partes hoc libro constituit nomen
et verbum, quae scilicet per se ipsa
significant, nihilo¬ minus quoque orationem,
quae et ipsa cum vox sit ex
significativis partibus iuncta significatione non
ca- 25 ret. quare quoniam non de
oratione sola, sed etiam de verbo et
nomine, nec vero de sola locutione,
sed etiam de significativa locutione, quae
est interpretatio, hoc libro ab Aristotele
tractatur, idcirco quoniam in 16 Ar.
Poet. c. 20. 1 significatiua b:
significatio SG-TE, significatione FS1 2E2?
redditur uox T 4 interpretatio om.
SNF, in marg. addunt GE quae namq;
S2F 10 iunctae F: iuncta ceteri 14
illud quoq; E 16 arte poetica S2FE
23 post orationem addit partem esse
tradidit S2F cum om. T 28 in
hoc S2F ab om. T I.
7 verbis atque nominibus et in
significativis locutionibus nomen interpretationis
aptatur , a communi nomine eorum, de quibus
hoc libro tractabitur, id est ab in¬
terpretatione, ipse quoque de interpretatione
liber inscriptus est. cuius expositionem
nos scilicet quam 5 maxime a
Porphyrio quamquam etiam a ceteris
transferentes Latina oratione digessimus, hic
enim nobis expositor et intellectus acumine
et sententiarum dispositione videtur excellere,
erunt ergo interpreta¬ tionis duae primae
partes nomen et verbum, his enim 10
quidquid est in animi intellectibus designatur;
his namque totus ordo orationis efficitur,
et in quantum vox ipsa quidem
intellectus significat, in duas (ut dictum
est) secatur partes, nomen et verbum,
in quantum vero vox per intellectuum
medietatem sub- 15 iectas intellectui res
demonstrat, significantium vocum Aristoteles
numerum in decem praedicamenta partitus
est. atque hoc distat libri huius intentio
a praedica¬ mentorum in | denariam
multitudinem numerositate p. 291 collecta,
ut hic quidem tantum de numero
signifi- 20 cantium vocum quaeratur,
quantum ad ipsas attinet voces, quibus
significativis vocibus intellectus animi
designentur, quae sunt scilicet simplicia
quidem no¬ mina et verba, ex his vero
conpositae orationes: praedicamentorum vero haec
intentio est: de significa- 25 tivis
rerum vocibus in tantum, quantum eas
medius animi significet intellectus, vocis
enim quaedam qua¬ litas est nomen et
verbum, quae nimirum ipsa illa decem
praedicamenta significant, decem namque prae¬
dicamenta numquam sine aliqua verbi
qualitate vel 30 nominis proferentur, quare
erit libri huius intentio de significativis
vocibus in tantum, quantum con- 1 in
om. E 3 in hoc S2F 9 dispositio
S corr. S2 10 partes primae T
11 intellectus F corr. F1 12 totius
F 18 in hoc T 20 in tantum?
26 uocibus tractare F, uoc. dicere TE,
tractare inmarg. S 31proferuntur S2F 32 signatiuis
S corr. S2 8 SECVNDA EDITIO
ceptiones animi intellectus que significent,
de decem praedicamentis autem libri
intentio in eius commen¬ tario dicta
est, quoniam sit de significativis rerum
vocibus, quot partibus distribui possit
earum signifi- 5 catio in tantum,
quantum per sensuum atque intel¬ lectuum
medietatem res subiectas intellectibus voces
ipsae valeant designare, in opere vero
de poetica non eodem modo dividit
locutionem, sed omnes om¬ nino locutionis
partes adposuit confirmans esse locu- 10
tionis partes elementa, syllabas, coniunctiones,
arti¬ culos, nomina, casus, verba,
orationes, locutio nam¬ que non in
solis significativis vocibus constat, sed supergrediens
significationes vocum ad articulatos sonos
usque consistit, quaelibet enim syllaba vel
15 quodlibet nomen vel quaelibet alia vox,
quae scribi litteris potest, locutionis
nomine continetur, quae Graece dicitur sed non
eodem modo interpre¬ tatio. huic
namque non est satis, ut sit
huiusmodi vox quae litteris valeat
adnotari, sed ad hoc ut ali- 20
quid quoque significet, praedicamentorum vero
in hoc ratio constituta est, in quo
hae duae partes interpre¬ tationis res
intellectibus subiectas designent, nam quoniam
decem res omnino in omni natura
reperiun- tur, decem quoque intellectus
erunt, quos intellectus 25 quoniam verba
nominaque significant, decem omnino erunt
praedicamenta, quae verbis atque nominibus
de¬ signentur, duo vero quaedam id
est nomen et verbum, quae ipsos
significent intellectus, sunt igitur elementa
interpretationis verba et nomina, propriae
vero partes 30 quibus ipsa constat
interpretatio sunt orationes, ora¬ tionum
vero aliae sunt perfectae, aliae
inperfectae. 7 Ar. Poet. c. 20.
3 pro quoniam: cum F 4 quod F
7 arte poetica FE2, arte in marg.
S 17 lexis FTE 31 aliae uero
inp. TE, aliae inperf. om. S in
marg. addit S2 I. 9
perfectae sunt ex quibus plene id
quod dicitur valet intellegi, inperfectae
in quibus aliquid adhuc plenius animus
exspectat audire, ut est Socrates cum Pla¬
tone. nullo enim addito orationis
intellectus pendet ac titubat et auditor
aliquid ultra exspectat audire, perfectarum
vero orationum partes quinque sunt: de-
precativa ut Iuppiter omnipotens, precibus
si flecteris ullis, Da deinde auxilium,
pater, at¬ que haec omina firma,
imperativa ut Yade age, nate, voca
Zephyros et labere pennis, inter¬ rogativa
ut Dic mihi, Damoeta, cuium pecus? an
Meliboei? vocativa <(ufi> 0 pater, o
hominum rerumque aeterna potestas, enuntiativa,
in qua veritas vel falsitas invenitur,
ut Principio arbori¬ bus varia est
natura serendis, huius autem duae partes
sunt, est namque et simplex oratio
enuntiativa et conposita. simplex ut dies
est, lucet*, conposita ut si dies
est, lux est. in hoc igitur libro
Aristo¬ teles de enuntiativa simplici
oratione disputat et de eius elementis,
nomine scilicet atque verbo, quae quoniam
et significativa sunt et significativa vox
arti¬ culata interpretationis nomine continetur,
de communi (ut dictum est) vocabulo
librum de interpretatione appellavit, et Theophrastus
quidem in eo libro, quem de
adfirmatione et negatione conposuit, de enuntiativa
oratione tractavit, et Stoici quoque in
his libris, quos ttsqI a^tco^uzcov
appellant, de isdem 7 Yerg. Aen.
II 689. 691 9 Yerg. Aen. IY 223
11 Yerg. Ecl. III 1 12 Yerg.
Aen. X 18 14 Yerg. Georg. II
9 9 omnia TE 10 pinnis S^1
11 damgta T 12 melibei T ut
b :'om. codices, alterum o om. SFE1
15 creandis Vergilii codices 16 et
om. E 17 est et conp. S2FE2 lux
est F2E2 21 uox et art. S2FE2
27 peri axiomaton codices 5 10
15 20 25 10
SECVNDA EDITIO nihilominus disputant, sed
illi quidem et de simplici et de non
simplici oratione enuntiativa speculantur,
Aristoteles vero hoc libro nihil nisi
de sola simplici enuntiativa oratione
considerat. Aspasius quoque et 5 Alexander
sicut in aliis Aristotelis libris in
hoc quoque commentarios ediderunt, sed
uterque Aristote¬ lem de oratione tractasse
pronuntiat, nam si oratione aliquid
proferre (ut aiunt ipsi) interpretari est,
de interpretatione liber nimirum veluti de
oratione per- 10 scriptus est, quasi
vero sola oratio ac non verba quoque
et nomina interpretationis vocabulo conclu¬
dantur. aeque namque et oratio et
verba ac nomina, quae sunt interpretationis
elementa, nomine interpre- 292 tationis |
vocantur, sed Alexander addidit inperfecte
15 sese habere libri titulum: neque
enim designare, de qua oratione
perscripserit, multae namque (ut dictum
est) sunt orationes; sed adiciendum vel
subintellegen¬ dum putat de oratione illum
scribere philosophica vel dialectica id
est, qua verum falsumque valeat expediri.
20 sed qui semel solam orationem
interpretationis no¬ mine vocari recipit,
in intellectu quoque ipsius inscri¬ ptionis
erravit, cur enim putaret inperfectum esse
titulum, quoniam nihil de qua oratione
disputaret ad- iecerit? ut si quis
interrogans quid est homo? alio 25 respondente
animal culpet ac dicat inperfecte illum
dixisse, quid sit, quoniam non sit
omnes differentias persecutus, quod si
huic, id est homini, sunt quae¬ dam
alia communia ad nomen animalis, nihil
tamen inpedit perfecte demonstrasse, quid
homo esset, eum 30 qui animal dixit:
sive enim differentias addat quis sive
non, hominem animal esse necesse est.
eodem quoque modo et de oratione, si
quis hoc concedat primum, nihil aliud
interpretationem dici nisi orationem, 5
alios — libros in hunc? 21 recepit?
21.22 scriptionis S^1 23. 24 adiecit
T 26 non o. diff. sit E 30
addit T 33 interpretatione F
I. 11 cur qui de
interpretatione inscripserit et de qua
interpre¬ tatione dicat non addiderit
culpetur, non est. satis est enim
libri titulum etiam de aliqua continenti
communione fecisse, ut nos eum et de
nominibus et verbis et de oratio¬
nibus, cum baec omnia uno interpretationis
nomine con¬ tinerentur, supra fecisse
docuimus, cum bic liber ab eo de
interpretatione notatus est. sed quod
addidit illam interpretationem solam dici,
qua in oratione possit veritas et
falsitas inveniri, ut est enuntiativa
oratio, fingentis est (ut ait Porphyrius)
significationem nominis po¬ tius quam
docentis, atque ille quidem et in
inten¬ tione libri et in titulo
falsus est, sed non eodem modo de
iudicio quoque libri buius erravit. Andro¬
nicus enim librum bunc Aristotelis esse
non putat, quem Alexander vere fortiterque
redarguit, quem cum exactum diligentemque Aristotelis
librorum et iudicem et repertorem iudicarit
antiquitas, cur in huius libri iudicio
sit falsus, prorsus est magna admiratione
dignissimum, non esse namque proprium
Aristotelis bine conatur ostendere, quoniam
quaedam Aristoteles in principio libri
huius de intellectibus animi tractat, quos
intellectus animae passiones vocavit, et de
bis se plenius in libris de anima
disputasse commemorat, et quoniam passiones
animae vocabant vel tristitiam vel gaudium
vel cupiditatem vel alias huiusmodi ad-
fectiones, dicit Andronicus ex boc probari
hunc li¬ brum Aristotelis non esse,
quod de huiusmodi ad- fectionibus nihil
in libris de anima tractavisset, non
intellegens in hoc libro Aristotelem
passiones animae non pro adfectibus, sed
pro intellectibus posuisse, his Alexander
multa alia addit argumenta, cur hoc
opus Aristotelis maxime esse videatur, ea
namque dicuntur hic, quae sententiis
Aristotelis quae sunt de enuntia- 5.
6 continentur F 6 cum om. F1
haec S, corr. S2 10. 11 potius
sign. nom. S2F 22 et animae T
23 in supra lin. T 24 vocabat b
30 prius pro om. S1 Hic E1
5 10 15 20 25
30 12 SECVNDA EDITIO
tione consentiant; illud quoque, quod
stilus ipse pro¬ pter brevitatem pressior
ab Aristotelis obscuritate non discrepat;
et quod Theophrastus, ut in aliis
solet, cum de similibus rebus tractat, quae
scilicet ab Ari- 5 stotele ante
tractata sunt, in libro quoque de
adfir- matione et negatione, isdem
aliquibus verbis utitur, quibus hoc libro
Aristoteles usus est. idem quoque
Theophrastus dat signum hunc esse
Aristotelis li¬ brum: in omnibus enim,
de quibus ipse disputat post 10
magistrum, leviter ea tangit quae ab
Aristotele dicta ante cognovit, alias vero
diligentius res non ab Ari¬ stotele
tractatas exsequitur, hic quoque idem fecit,
nam quae Aristoteles hoc libro de
enuntiatione tra¬ ctavit, leviter ab illo
transcursa sunt, quae vero ma- 15
gister eius tacuit, ipse subtiliore modo
considerationis adiecit. addit quoque hanc
causam, quoniam Aristo¬ teles quidem de
syllogismis scribere animatus num- quam id
recte facere potuisset, nisi quaedam de
pro¬ positionibus adnotaret. mihi quoque
videtur hoc 20 subtiliter perpendentibus
liquere hunc librum ad ana- lyticos
esse praeparatum, nam sicut hic de
simplici propositione disputat, ita quoque
in analyticis de sim¬ plicibus tantum
considerat syllogismis, ut ipsa syllo¬
gismorum propositionumque simplicitas non ad
aliud 25 nisi ad continens opus Aristotelis
pertinere videatur, quare non est audiendus
Andronicus, qui propter passionum nomen
hunc librum ab Aristotelis operibus
separat. Aristoteles autem idcirco passiones
animae | 293 intellectus vocabat, quod
intellectus, quos sermone di- 30 cere
et oratione proferre consuevimus, ex aliqua
causa atque utilitate profecti sunt: ut
enim dispersi homines colligerentur et
legibus vellent esse subiecti civitates¬
que condere, utilitas quaedam fuit et
causa, quocirca 3 et b: uel
codices 15 subtilior S1 16 addidit E
17 pro scribere: est T 19 hoc
uidetur F 22 in om. F1 29
uocauit E I c, 1. 13
quae ex aliqua utilitate veniunt, ex
passione quoque provenire necesse est. nam
ut divina sine ulla sunt passione,
ita nulla illis extrinsecus utilitas valet
ad- iungi: quae vero sunt passibilia
semper aliquam cau¬ sam atque utilitatem
quibus sustententur inveniunt. 5 quocirca
huiusmodi intellectus, qui ad alterum
oratione proferendi sunt, quoniam ex aliqua
causa atque utili¬ tate videntur esse
collecti, recte passiones animi nominati
sunt, et de intentione quidem et de
libri inscriptione et de eo, quod hic
maxime Aristotelis 10 liber esse putandus
est, haec dicta sufficiunt, quid vero utilitatis
habeat, non ignorabit qui sciet qua
in oratione veritas constet et falsitas.
in sola enim haec enuntiativa oratione
consistunt, iam vero quae divi¬ dant
verum falsumque quaeve definite vel quae
varie 15 et mutabiliter veritatem
falsitatemque partiantur, quae iuncta dici
possint, cum separata valeant praedicari,
quae separata dicantur, cum iuncta sint
praedicata, quae sint negationes cum modo
propositionum, quae earum consequentiae aliaque
plura in ipso opere con- 20 siderator
poterit diligenter agnoscere, quorum magnam
experietur utilitatem qui animum curae
alicuius in¬ vestigationis adverterit, sed
nunc ad ipsius Aristotelis verba veniamus.
1. Primum oportet constituere, quid
no- 25 men et quid verbum, postea
quid est negatio et adfirmatio et
enuntiatio et oratio. Librum incohans
de quibus in omni serie tracta¬ turus
sit ante proposuit, ait enim prius
oportere de 2 sunt om. F1 5
inuenient E 8 animae? 11 suf¬ ficiant
b 16 patiantur T 16. 17 quae
iuncta om. F, in marg. quae iunctim
F2? 17.18 iuncta — cum om. S1
20.21 consideratior SF*T 21 quorum
ego: quarum codices 22 curae ego:
cura codices 23 ipsius om. F 25
quid Ar. xL: quid sit codices 26
sit uerbum codices praeter 2/E2 est
om. 2% {eras, in S) 14
SECVNDA EDITIO quibus disputaturus est
definire, hic enim constituere definire intellegendum
est. determinandum namque est quid haec
omnia sint id est quid nomen sit,
quid verbum et cetera, quae elementa
interpretationis esse 5 praediximus, sed
adfirmatio atque negatio sub inter¬
pretatione sunt, quare nomen et verbum
adfirmatio- nis et negationis elementa esse
manifestum est. his enim conpositis
adfirmatio et negatio coniunguntur. exsistit
hic quaedam quaestio, cur duo tantum
nomen 10 et verbum se determinare
promittat, cum plures par¬ tes orationis
esse videantur, quibus hoc dicendum est
tantum Aristotelem hoc libro definisse,
quantum illi ad id quod instituerat
tractare suffecit, tractat namque de
simplici enuntiativa oratione, quae scilicet
15 huiusmodi est, ut iunctis tantum
verbis et nominibus conponatur. si quis
enim nomen iungat et verbum, ut dicat
Socrates ambulat, simplicem fecit enun¬
tiativam orationem, enuntiativa namque oratio
est (ut supra memoravi) quae habet in
se falsi verique 20 designationem, sed
in hoc quod dicimus Socrates ambulat
aut veritas necesse est contineatur aut fal-
sitas. hoc enim si ambulante Socrate
dicitur, verum est, si non ambulante,
falsum, perficitur ergo enun¬ tiativa
oratio simplex ex solis verbis atque
nominibus. 25 quare superfluum est
quaerere, cur alias quoque quae videntur
orationis partes non proposuerit, qui non
totius simpliciter orationis, sed tantum simplicis
enun¬ tiationis instituit elementa partiri,
quamquam duae propriae partes orationis
esse dicendae sint, nomen 30 scilicet
atque verbum, haec enim per sese
utraque significant, coniunctiones autem vel
praepositiones nihil omnino nisi cum aliis
iunctae designant; parti¬ cipia verbo
cognata sunt, vel quod a gerundivo
modo 2 definire om. S1 17 et
T 22. 23 est verum F 25 quae
om. S1 26 proposuit T 33 uerbis
E2? vero verbo editio princeps conata
T gerundi FXE (gerunti? F) I
c. 1. 15 veniant vel quod
tempus propria significatione con¬ tineant;
interiectiones vero atque pronomina nec non
adverbia in nominis loco ponenda sunt,
idcirco quod aliquid significant definitum,
ubi nulla est vel passio¬ nis
significatio vel actionis, quod si casibus
horum 5 quaedam flecti non «possunt, nihil
inpedit. sunt enim quaedam nomina quae
monoptota nominantur, quod si quis ista
longius et non proxime petita esse
arbi¬ tretur, illud tamen concedit, quod
supra iam diximus, non esse aequum
calumniari ei, qui non de omni ora-
10 tione, sed de tantum simplici
enuntiatione proponat, quod tantum sibi ad
definitionem sumpserit, quantum arbitratus sit
operi instituto sufficere, quare dicen¬ dum
est | Aristotelem non omnis orationis
partes hoc p. 294 opere velle
definire, sed tantum solius simplicis enun-
15 tiativae orationis, quae sunt scilicet
nomen et verbum, argumentum autem huius
rei hoc est. postquam enim proposuit
dicens: primum oportet consti¬ tuere, quid
sit nomen et quid verbum, non statim
inquit, quid sit oratio, sed mox
addidit et quid sit 20 negatio, quid
adfirmatio, quid enuntiatio, postremo vero
quid oratio, quod si de omni oratione
loquere¬ tur, post nomen et verbum
non de adfirmatione et negatione et
post hanc de enuntiatione, sed mox de
oratione dixisset, nunc vero quoniam post
nominis 25 et verbi propositionem
adfirmationem, negationem et enuntiationem et
post orationem proposuit, confiten¬ dum
est, id quod ante diximus, non
orationis univer¬ salis, sed simplicis
enuntiativae orationis, quae divi¬ ditur in
adfirmationem atque negationem, divisionem 30
partium facere voluisse, quae sunt nomina
et verba, haec enim per se ipsa
intellectum simplicem servant, 1. 2
continent F 7 monopta S 9 concedat
b 10 calumpniari E eum? 11 tantum
de E2 enuntiatione om. S1 12
sumpserat F 14 omnes SFT 20 et om.
F 26 et negationem et F 31
uerba et nomina F „ 16
SECVNDA EDITIO quae eadem dictiones
vocantur, sed non sola dicuntur, sunt
namque dictiones et aliae quoque: orationes
vel inperfectae vel perfectae, cuius plures
esse partes supra iam docui, inter
quas perfectae orationis species 5 est
enuntiatio, et haec quoque alia simplex,
alia con- posita est. de simplicis
vero enuntiationis speciebus inter philosophos
commentatoresque certatur, aiunt enim quidam
adfirmationem atque negationem enun¬ tiationi
ut species supponi oportere, in quibus
et 10 Porphyrius est: quidam vero
nulla ratione consen¬ tiunt, sed contendunt
adfirmationem et negationem aequivoca esse
et uno quidem enuntiationis vocabulo
nuncupari, praedicari autem enuntiationem ad
utras¬ que ut nomen aequivocum, non
ut genus univocum; 15 quorum princeps
Alexander est. quorum contentiones adponere
non videtur inutile, ac prius quibus
modis adfirmationem atque negationem non
esse species enuntiationis Alexander putet
dicendum est, post vero addam qua
Porphyrius haec argumentatione 20 dissolverit.
Alexander namque idcirco dicit non esse
species enuntiationis adfirmationem et negatio¬
nem, quoniam adfirmatio prior sit. priorem
vero ad¬ firmationem idcirco conatur
ostendere, quod omnis negatio adfirmationem
tollat ac destruat, quod si ita 25
est, prior est adfirmatio quae subruatur
quam negatio quae subruat, in quibus
autem prius aliquid et po¬ sterius
est, illa sub eodem genere poni non
possunt, ut in eo titulo praedicamentorum
dictum est qui de his quae sunt
simul inscribitur. amplius: negatio 30
omnis, inquit, divisio est, adfirmatio
conpositio atque coniunctio. cum enim dico
Socrates vivit, vitam cum Socrate coniunxi;
cum dico Socrates non vivit, vitam a
Socrate disiunxi. divisio igitur quaedam
nega¬ tio est, coniunctio adfirmatio.
conpositi autem est con- 1 eaedem
SF sola ego : solae codices 2 quoq; ut
b 4. 5 est species F 5
alias — alias E2 12 unum S1T 22
fit T I c. 1. 17
iunctique divisio, prior est igitur
coniunctio, quod est adfirmatio; posterior
vero divisio, quod est negatio, illud
quoque adicit, quod omnis per adfirmationem
facta enuntiatio simplicior sit per
negationem facta enuntiatione, ex negatione
enim particula negativa 5 si sublata
sit, adfirmatio sola relinquitur, de eo
enim quod est Socrates non vivit si
non particula quae est adverbium auferatur,
remanet Socrates vi¬ vit. simplicior igitur
adfirmatio est quam negatio, prius vero
sit necesse est quod simplicius est.
in 10 quantitate etiam quod ad
quantitatem minus est prius est eo
quod ad quantitatem plus est. omnis
vero oratio quantitas est. sed cum
dico Socrates ambu¬ lat, minor oratio
est quam cum dico Socrates non
ambulat, quare si secundum quantitatem
adfirmatio 15 minor est, eam priorem
quoque esse necesse est. illud quoque
adiunxit adfirmationem quendam esse habitum,
negationem vero privationem, sed prior
habitus pri¬ vatione: adfirmatio igitur
negatione prior est. et ne singula
persequi laborem, cum aliis quoque modis
20 demonstraret adfirmationem negatione esse
priorem, a communi eas genere separavit,
nullas enim species arbitratur sub eodem
genere esse posse, in quibus prius
vel posterius consideretur, sed Porphyrius
ait sese docuisse species enuntiationis
esse adfirmatio- 25 nem et negationem
in his commentariis quos in Theo¬
phrastum edidit; hic vero Alexandri
argumentatio¬ nem tali ratione dissolvit,
ait enim non oportere arbitrari, quaecumque
quolibet modo priora essent aliis, ea
sub eodem genere | poni non posse,
sed quae- p. 295 cumque secundum esse
suum atque substantiam priora 31 vel
posteriora sunt, ea sola sub eodem
genere non ponuntur, et recte dicitur,
si enim omne quidquid 15 si om.
S^E1 16 quoq. priorem F esse om.
SF 22 separaret SF, separabat S2F2, separat
T nullus SF1 24 aliquid prius GrTE
consideratur F 26 iis F2 Boetii
comxnent. II. 2 18 SECVNDA
EDITIO prius est cum eo quod
posterius est sub uno genere esse non
potest, nec primis substantiis et secundis
commune genus poterit esse substantia; quod
qui di¬ cit a recto ordine rationis
exorbitat, sed quemad- 5 modum quamquam
sint primae et secundae substan¬ tiae,
tamen utraque aequaliter in subiecto non
sunt et idcirco esse ipsorum ex eo pendet,
quod in sub¬ iecto non sunt, atque
ideo sub uno substantiae genere
conlocantur: ita quoque quamquam adfirmationes
ne- 10 gationibus in orationis prolatione
priores sint, tamen ad esse atque ad
naturam propriam aequaliter enun¬ tiatione
participant, enuntiatio vero est in qua
veri¬ tas et falsitas inveniri potest,
qua in re et adfirmatio et negatio
aequales sunt, aequaliter enim et adfir-
15 matio et negatio veritate et
falsitate participant, quo¬ circa quoniam
<ad> id quod sunt adfirmatio et
negatio aequaliter ab enuntiatione participant,
a communi eas enuntiationis genere dividi
non oportet, mihi quoque videtur quod
Porphyrii sit sequenda sententia, ut 20
adfirmatio et negatio communi enuntiationis
generi supponantur, longa namque illa et
multiplicia Ale¬ xandri argumenta soluta
sunt, cum demonstravit non modis omnibus
ea quae priora sunt sub communi
genere poni non posse, sed quae ad
esse proprium 25 atque substantiam priora
sunt illa sola sub communi genere constitui
atque poni non posse. Syrianus vero,
cui Philoxenus cognomen est, hoc loco
quae¬ rit, cur proponens prius de
negatione, post de adfir- matione
pronuntiaverit dicens: primum oportet 30
constituere, quid nomen et quid verbum,
po¬ stea quid est negatio et
adfirmatio. et primum quidem nihil proprium
dixit, quoniam in quibus et ad-
1 posterius] prius S^E1 6 utraeque
b 8 sint E 13 et post re
om. F 16 ad ego addidi: om.
codices 17 pro a: et SF 21
supponatur SF multiplica F ^ 30 quid
sit n. codices 31 est om. F
primum S: primo S2 et ceteri I
c. 1. 19 firmatio potest et
negatio provenire, prius esse negatio,
postea vero adfirmatio potest, ut de
Socrate sanus est. potest ei aptari
talis adfirmatio, ut de eo dicatur
So¬ crates sanus est; etiam huiusmodi
potest aptari ne¬ gatio, ut de eo
dicatur Socrates sanus non est. quo¬
niam ergo in eum adfirmatio et
negatio poterit evenire, prius evenit ut
sit negatio quam ut adfirmatio. ante
enim quam natus esset: qui enim natus
non erat, nec esse poterat sanus,
liuic illud adiecit: servare Aristo¬ telem
conversam propositionis et exsecutionis distri¬
butionem. hic enim prius post nomen
et verbum de negatione proposuit, post
de adfirmatione, dehinc de enuntiatione,
postremo vero de oratione, sed proposita
definiens prius orationem, post enuntiationem,
tertio adfirmationem, ultimo vero loco
negationem determi¬ navit, quam hic post
propositionem verbi et nominis primam
locaverat, ut igitur ordo servaretur
conver¬ sus, idcirco negationem prius ait
esse propositam, qua in expositione
Alexandri quoque sententia non discedit,
illud quoque est additum, quod non
esset inutile, enuntiationem genus adfirmationis
et negatio¬ nis accipi oportere, quod
quamquam (ut dictum est) ad prolationem
prior esset adfirmatio, tamen ad ipsam
enuntiationem id est veri falsique vim
utrasque aequa¬ liter sub enuntiatione ab
Aristotele constitui, id etiam Aristotelem
probare, praemisit enim primam nega¬
tionem, secundam posuit adfirmationem, quae
res ni¬ hil habet vitii, si ad
ipsam enuntiationem adfirmatio et negatio
ponantur aequales, quae enim natura aequa¬
les sunt, nihil retinent contrarii
indifferenter acceptae, est igitur ordo quo
proposuit: primum totius orationis 1
est. potest T 2 non est F; non
supra lin. SE; sanus est delet S2
3 de eo om. T1 6 eo? 8
post esset addit potuit dici sanus
non est T, in marg. G2 enim om.
F, eras, in E 12 et hinc E
17 primum F ergo T 23 est F
(in ra¬ sura) 26 probare dicit
FTE2S2(m»Mf^.) probare dr Misit G
(suprascr. dicit Premisit G2) enim om.
E1 31 quod F, quoq. T 2 *
5 10 15 20 25
30 SECVNDA EDITIO 20
elementum , nomen scilicet et verbum,
post haec ne¬ gationem et adfirmationem,
quae species enuntiationis sunt, quorum
genus id est enuntiationem tertiam nominavit,
quartam vero orationem posuit, quae ipsius
5 enuntiationis genus est. et horum
se omnium defini¬ tiones daturum esse
promisit, quas interim relinquens atque
praeteriens et in posteriorem tractatum
diffe¬ rens illud nunc addit quae
sint verba et nomina aut quid ipsa
significent, quare antequam ad verba Ari-
10 stotelis ipsa veniamus, pauca communiter
de nomini¬ bus atque verbis et de
his quae significantur a verbis ac nominibus
disputemus, sive enim quaelibet inter¬
rogatio sit atque responsio, sive perpetua
cuiuslibet 14 orationis continuatio atque
alterius auditus et intel- 296 legentia,
sive hic quidem doceat ille vero
discat, | tri¬ bus his totus orandi
ordo perficitur: rebus, intellecti¬ bus,
vocibus, res enim ab intellectu concipitur,
vox vero conceptiones animi intellectusque
significat, ipsi vero intellectus et
concipiunt subiectas res et signifi- 20
cantur a vocibus, cum igitur tria
sint haec per quae omnis oratio
conlocutioque perficitur, res quae sub-
iectae sunt, intellectus qui res concipiant
et rursus a vocibus significentur, voces
vero quae intellectus de¬ signent, quartum
quoque quiddam est, quo voces ipsae
25 valeant designari, id autem sunt
litterae, scriptae namque litterae ipsas
significant voces, quare quat¬ tuor ista
sunt, ut litterae quidem significent voces,
voces vero intellectus, intellectus autem
concipiant res, quae scilicet habent
quandam non confusam neque 30 fortuitam
consequentiam, sed terminata naturae suae
ordinatione constant, res enim semper
comitantur eum qui ab ipsis concipitur
intellectum, ipsum vero intellectum vox
sequitur, sed voces elementa id est
3 quarum? 17 — 20 res —
vocibus om. F, in marg. add. F1?
26 significent SF 30 suae naturae E
31 constat SE comitatur F2 32 eum
dei. F2 intellectus F I c. 1.
21 litterae, rebus enim ante
propositis et in propria substantia constitutis
intellectus oriuntur, rerum enim semper
intellectus sunt, quibus iterum constitutis
mox significatio vocis exoritur, praeter
intellectum nam¬ que vox penitus nihil
designat, sed quoniam voces sunt, idcirco
litterae, quas vocamus elementa, repertae
sunt, quibus vocum qualitas designetur, ad
cognitio¬ nem vero conversim sese res
habet, namque apud quos eaedem sunt
litterae et qui eisdem elementis utuntur,
eisdem quoque nominibus eos ac verbis id
est vocibus uti necesse est et qui
vocibus eisdem utuntur, idem quoque apud
eos intellectus in animi conceptione
versantur, sed apud quos idem intellectus
sunt, easdem res eorum intellectibus
subiectas esse manifestum est. sed hoc
nulla ratione convertitur, namque apud quos
eaedem res sunt idemque intel¬ lectus,
non statim eaedem voces eaedemque sunt
lit¬ terae. nam cum Romanus, Graecus
ac barbarus simul videant equum, habent
quoque de eo eundem intel¬ lectum
quod equus sit et apud eos eadem
res sub- iecta est, idem a re
ipsa concipitur intellectus, sed Graecus
aliter equum vocat, alia quoque vox
in equi significatione Romana est et
barbarus ab utroque in equi designatione
dissentit, quocirca diversis quoque voces
proprias elementis inscribunt, recte igitur
di¬ ctum est apud quos eaedem res
idemque intellectus sunt, non statim apud
eos vel easdem voces vel ea¬ dem
elementa consistere, praecedit autem res
intel¬ lectum, intellectus vero vocem, vox
litteras, sed hoc converti non potest,
neque enim si litterae sint, mox
aliqua ex his significatio vocis exsistit,
hominibus nam¬ que qui litteras ignorant
nullum nomen quaelibet ele¬ menta
significant, quippe quae nesciunt, nec si
voces 1 positis F 8 habent T
20 sit om. F1 24 designi- ficatione
S1 28 intellectum res F 31 consistit
E 5 10 15 20
25 30 22 SECVNDA EDITIO
sint, mox intellectus esse necesse
est. plures enim voces invenies quae
nihil omnino significent, nec in¬ tellectui
quoque subiecta res semper est. sunt
enim intellectus sine re ulla subiecta,
ut quos centauros 5 vel chimaeras
poetae finxerunt, horum enim sunt in¬
tellectus quibus subiecta nulla substantia
est. sed si quis ad naturam redeat
eamque consideret diligenter, agnoscet cum
res est, eius quoque esse intellectum:
quod si non apud homines, certe apud
eum, qui pro- 10 priae divinitate
substantiae in propria natura ipsius rei
nihil ignorat, et si est intellectus,
et vox est; quod si vox fuerit,
eius quoque sunt litterae, quae si
Ignorantur, nihil ad ipsam vocis naturam,
neque enim, quasi causa quaedam vocum
est intellectus aut 15 vox causa
litterarum, ut cum eaedem sint apud
ali¬ quos litterae, necesse sit eadem
quoque esse nomina: ita quoque cum
eaedem sint vel res vel intellectus
apud aliquos, mox necesse est intellectuum
ipsorum vel rerum eadem esse vocabula,
nam cum eadem sit 20 et res et
intellectus hominis, apud diversos tamen
homines huiusmodi substantia aliter et
diverso no¬ mine nuncupatur, quare voces
quoque cum eaedem sint, possunt litterae
esse diversae, ut in hoc nomine quod
est homo: cum unum sit nomen,
diversis litte- 25 ris scribi potest,
namque Latinis litteris scribi potest,
potest etiam Graecis, potest aliis
nunc primum in¬ ventis litterarum figuris,
quare quoniam apud quos eaedem res
sunt, eosdem intellectus esse necesse est,
apud quos idem intellectus sunt, voces
eaedem non 30 sunt et apud quos
eaedem voces sunt, non necesse 2
significant F 3 est semper E 9
omnes T2 Denm b 10 snbst. div.
E 13 nataram pertinet F2 14 quaedam
causa F 15 ut enim cum S2F 16
pro litterae: uoces E2 easdem E2 pro
nomina: literas E2 18 mox non S2FE2
25 namque — potest in marg. F
28 res om. F1 29 non eaedem (non
supra lin .) F 30 prius sunt om.
F I c. 1. 23 est
eadem elementa constitui; dicendum est res
et in¬ tellectus, quoniam apud omnes
idem sunt, | esse na- p.297 turaliter
constitutos, voces vero atque litteras,
quo¬ niam diversis hominum positionibus
permutantur, non esse naturaliter, sed
positione, concludendum est 5 igitur,
quoniam apud quos eadem sunt elementa,
apud eos eaedem quoque voces sunt et
apud quos eaedem voces sunt, idem
sunt intellectus; apud quos autem idem
sunt intellectus, apud eosdem res quoque
eae¬ dem subiectae sunt: rursus apud
quos eaedem res 10 sunt, idem quoque
sunt intellectus; apud quos idem
intellectus, non eaedem voces; nec apud
quos eaedem voces sunt, eisdem semper
litteris verba ipsa vel no¬ mina
designantur, sed nos in supra dictis
sententiis elemento atque littera promiscue
usi sumus, quae 15 autem sit horum
distantia paucis absolvam, littera est inscriptio
atque figura partis minimae vocis arti¬
culatae, elementum vero sonus ipsius inscriptionis:
ut cum scribo litteram quae est a,
formula ipsa quae atramento vel graphio
scribitur littera nominatur, 20 ipse vero
sonus quo ipsam litteram voce proferimus
dicitur elementum, quocirca hoc cognito
illud dicen¬ dum est, quod is qui
docet vel qui continua oratione loquitur
vel qui interrogat, contrarie se habet
his qui vel discunt vel audiunt vel
respondent in his tribus, 25 voce
scilicet, intellectu et re (praetermittantur
enim litterae propter eos qui earum
sunt expertes), nam qui docet et qui
dicit et qui interrogat a rebus ad
intellectum profecti per nomina et verba
vim propriae actionis exercent atque
officium (rebus enim subiectis 30 ab
his capiunt intellectus et per nomina
verbaque 0 14 designentur T
doctis S1 17. 18 min. p. art.
voc. E 19 littera T pro a:
id T 20 grafio STE 24. 25 vel
qui F1 29 profecti ego : profecto
SFE, profectu T, pro¬ fectus S2F2E2
30 exercent ego: exercet codices atque
in marg. S 24 SECYNDA EDITIO
pronuntiant), qui vero discit vel
qui audit vel etiam qui respondet a
nominibus ad intellectus progressi ad res
usque perveniunt, accipiens enim is qui
discit vel qui audit vel qui
respondet docentis vel dicentis 5 vel
interrogantis sermonem, quid unusquisque illorum
dicat intellegit et intellegens rerum
quoque scientiam capit et in ea
consistit, recte igitur dictum est in
voce, intellectu atque re contrarie sese
habere eos qui docent, dicunt, interrogant
atque eos qui discunt, audiunt et re-
10 spondent, cum igitur haec sint
quattuor, litterae, voces, intellectus, res,
proxime quidem et principaliter litterae
verba nominaque significant, haec vero
principaliter qui¬ dem intellectus, secundo
vero loco res quoque designant, intellectus
vero ipsi nihil aliud nisi rerum
significativi 15 sunt, antiquiores vero
quorum est Plato, Aristoteles, Speusippus,
Xenocrates hi inter res et signifi¬
cationes intellectuum medios sensus ponunt
in sensi¬ bilibus rebus vel imaginationes
quasdam, in quibus intellectus ipsius origo
consistat, et nunc quidem 20 quid de
hac re Stoici dicant praetermittendum est.
hoc autem ex his omnibus solum
cognosci oportet, quod ea quae sunt
in litteris eam significent oratio¬ nem
quae in voce consistit et ea quae
est vocis ora¬ tio quod animi atque
intellectus orationem designet, 25 quae
tacita cogitatione conficitur, et quod haec
intel¬ lectus oratio subiectas principaliter
res sibi concipiat ac designet, ex
quibus quattuor duas quidem Aristo¬ teles
esse naturaliter dicit, res et animi
conceptiones, id est eam quae fit in
intellectibus orationem, idcirco 30 quod apud
omnes eaedem atque inmutabiles sint;
6 et om. S1 12 uerba et
nomina S2F, nomina et uerba (in ras
.) E 12 — 13 haec — designant
in marg. E 14 si¬ gnificationes F
16 //usippus S, siue usippus S2FT 19 nunc
om. SFT 20 dicunt SF 23 et quod
S2FE2 est om. S1 uocis est F 24
quod dei. S2, om. FE 29 intel¬
lectus S1 I c. 1. 25
duas vero non naturaliter, sed positione
constitui, quae sunt scilicet verba nomina
et litterae, quas idcirco naturaliter fixas
esse non dicit, quod (ut supra de¬
monstratum est) non eisdem vocibus omnes
aut is¬ dem utantur elementis, atque
hoc est quod ait: 5 Sunt ergo
ea quae sunt in voce earum quae sunt
in anima passionum notae et ea quae
scribuntur eorum quae sunt in voce,
et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem,
sic nec voces eaedem, quorum autem
haec 10 primorum notae, eaedem omnibus
passiones animae et quorum hae similitudines,
res etiam eaedem, de his quidem
dictum est in his quae sunt dicta
de anima, alterius est enim negotii.
Cum igitur prius posuisset nomen et
verbum et 15 quaecumque secutus est
postea se definire promisisset, haec
interim praetermittens de passionibus animae
deque earum notis, quae sunt scilicet
voces, pauca praemittit, sed cur hoc
ita interposuerit, plurimi |com- p.298
mentatores causas reddere neglexerunt, sed
a tribus 20 quantum adhuc sciam ratio
huius interpositionis ex- plicita est.
quorum Hermini quidem a rerum veri¬ tate
longe disiuncta est. ait enim idcirco
Aristotelen de notis animae passionum
interposuisse sermonem, ut utilitatem propositi
operis inculcaret, disputaturus 25 enim de
vocibus, quae sunt notae animae passionum,
recte de his quaedam ante praemisit,
nam cum suae nullus animae passiones
ignoret, notas quoque cum animae
passionibus non nescire utilissimum est.
neque enim illae cognosci possunt nisi
per voces quae sunt 30 1 non
om. S1 4.5 eisdem FE 10 noces
eaedem F Ar.: eaedem uoces ceteri hae
codices cf. p. 43 , 6 12 animae
sunt codices : sunt om. Ar. cf.
ed. I hae 27, he§ X: eaedem
ceteri 14 dicta post anima X enim
om. X1 (enim est X2) 16 definire
se F 20 neglexerunt h: neglexerant
codices 21. 22 explicata E ( corr .
E2) 23 Aristotelem F 26
SECVNDA EDITIO earum scilicet notae.
Alexander vero aliam huius- modi
interpositionis reddidit causam, quoniam, in¬ quit,
verba et nomina interpretatione simplici
conti¬ nentur, oratio vero ex verbis
nominibusque coniuncta 5 est et in ea
iam veritas aut falsitas invenitur; sive
autem quilibet sermo sit simplex, sive
iam oratio coniuncta atque conposita, ex
his quae significant mo¬ mentum sumunt
(in illis enim prius est eorum ordo
et continentia, post redundat in voces):
quocirca quo- 10 niam significantium
momentum ex his quae signifi¬ cantur
oritur, idcirco prius nos de his quae
voces ipsae significant docere proponit,
sed Herminus hoc loco repudiandus est.
nihil enim tale quod ad cau¬ sam
propositae sententiae pertineret explicuit. Ale-
15 x and er vero strictim proxima intellegentia
praeter¬ vectus tetigit quidem causam, non
tamen principalem rationem Aristotelicae
propositionis exsolvit. sedPor- phyrius ipsam
plenius causam originemque sermonis huius
ante oculos conlocavit, qui omnem apud priscos
20 philosophos de significationis vi
contentionem litem¬ que retexuit, ait
namque dubie apud antiquorum philosophorum
sententias constitisse quid esset proprie
quod vocibus significaretur, putabant namque
alii res vocibus designari earumque
vocabula esse ea quae 25 sonarent in
vocibus arbitrabantur, alii vero incorporeas
quasdam naturas meditabantur, quarum essent
signifi¬ cationes quaecumque vocibus
designarentur: Platonis aliquo modo species incorporeas
aemulati dicentis hoc ipsum homo et
hoc ipsum equus non hanc cuiuslibet
sub- 30 iectam substantiam, sed illum
ipsum hominem specialem et illum ipsum
equum, universaliter et incorporaliter co-
2 interpraetationis T 6 pro iam:
autem S, om. F 7 significantur b
13 ad in marg. E 20 de om.
F1 21 apud om. E1 22 sententiae
S1 24 eorum/////q; SE, eorumq; T
uocubula T 25 sonarent ego: sonauerunt
S, sonauerint S2FE, sonuerint T 31 equum
significare T I c. 1. 27
gitantes incorporales quasdam naturas
constituebant, quas ad significandum primas
venire putabant et cum aliis item
rebus in significationibus posse coniungi,
ut ex his aliqua enuntiatio vel
oratio conficeretur, alii vero sensus, alii
imaginationes significari vocibus arbitra¬
bantur. cum igitur ista esset contentio
apud supe¬ riores et haec usque ad
Aristotelis pervenisset aeta¬ tem, necesse
fuit qui nomen et verbum significativa
esset definiturus praediceret quorum ista
designativa sint. Aristoteles enim nominibus
et verbis res sub- iectas significari
non putat, nec vero sensus vel etiam
imaginationes, sensuum quidem non esse significativas
voces nomina et verba in opere de
iustitia sic de¬ clarat dicens cpvdeL
yaQ ev&vg diriQ^rai tcc rs votf- { Lata
nal ta aiGfrri [luta, quod interpretari
Latine potest hoc modo: natura
enim<(statim)>divisa sunt intellectus et
sensus, differre igitur aliquid arbi¬
tratur sensum atque intellectum, sed qui
passiones animae a vocibus significari
dicit, is non de sensibus loquitur,
sensus enim corporis passiones sunt, si
igitur ita dixisset passiones corporis a
vocibus signi¬ ficari, tunc merito sensus
intellegeremus, sed quoniam passiones animae
nomina 'et verba significare propo¬ suit,
non sensus sed intellectus eum dicere
putandum est. sed quoniam imaginatio quoque
res animae est, dubitaverit aliquis ne
forte passiones animae imagi- 14 Ar.
fragm. coli. VRose 76 2 per quas
se F2 9 designativa b: designificatiua
co¬ dices 14 dirjQ7]Tcu ego (cf. Ar.
1162,22 eth. Nic. VIII, 14: sv&vs
yocQ di7iQi]Tcu tu %Qya v.ul S6TLV
sxsQu uvSqos Y.ui yv- vaixog): anhphtai
SGNJTE; verba Graeca om. F (<4>rsEl
FAP EY& et alia in marg. F2),
dicens hic deest grecum quod interpretari
B 15 AIZTHMATA EN Latine om. F
16 potes VRose statim ego add.: om.
codices diuersa E2 est N 19 a
om. S*F 23 designificare F 26 animae
om. F 5 10 15 20
25 28 BECVNDA EDITIO
nationes, qnas Graeci (pavraCiag nominant,
dicat, sed haec in libris de anima
verissime diligentissimeque separavit dicens
etircv de cpavraoCa eteqov epaOeog nal
unoepaGeag' Gvintloxr} yaQ vorj[icctav etirlv
ro ccArjfreg 5 xcd ro tyevdog. rd
de tcqcotcc vocata t C dioCcei rov [.
irj cpavrcc<D[iuTa eivcu ; rj ovde ravra
<pavrcc6[iarcc , «AA’ ovk ccvev
cpuvratitiarav. quod sic interpretamur: est
autem imaginatio diversa adfirmatione et
ne¬ gatione; conplexio namque intellectuum
est 10 veritas et falsitas. primi
vero intellectus quid discrepabunt, ut non
sint imaginationes? an certe neque haec
sunt imaginationes, sed sine imaginationibus
non sunt, quae sententia de¬ monstrat
aliud quidem esse imaginationes, aliud in-
15 telleetus; ex intellectuum quidem
conplexione adfirma- 299 tiones fieri et
negationes: | quocirca illud quoque du¬
bitavit, utrum primi intellectus imaginationes
quaedam essent, primos autem intellectus
dicimus, qui simpli¬ cem rem concipiunt,
ut si qui dicat Socrates solum 20
dubitatque utrum huiusmodi intellectus, qui
in se ni¬ hil neque veri continet
neque falsi, intellectus sit an ipsius
Socratis imaginatio, sed de hoc quoque
aperte quid videretur ostendit, ait enim
an certe neque haec sunt imaginationes,
sed non sine imagi- 25 nationibus
sunt, id est quod hic sermo
significat qui est Socrates vel alius
simplex non est quidem imaginatio, sed
intellectus, qui intellectus praeter ima¬
ginationem fieri non potest, sensus enim
atque ima- 3 Ar. de an. III,
8: 432, 10 — 14. 1 fantasias F,
phantasias ceteri 2 haec b: hoc
codices diligentissimeque neq; N ( corr .
aeque N1?) 3 — 7 dicens. EZTIN je (
cet . om.) F, dicens hic item deest
grecum B 6 cpcivtuGiiuxci — imaginationes:
<E>ANTAZMsl codices pro rj : N
codices 7 interpretatur EN 10 aliquid
S2F 13. 14 demonstret T, corr. T2
19 quis F 25 idem ( pro id est)
T2 26 pro qui: quid S, quod S2F
I c. 1. 29 ginatio
quaedam primae figurae sunt, supra quas
velut fundamento quodam superveniens
intellegentia nitatur, nam sicut pictores
solent designare lineatim corpus atque
substernere ubi coloribus cuiuslibet exprimant
vultum, sic sensus atque imaginatio
naturaliter in 5 animae perceptione substernitur,
nam cum res aliqua sub sensum vel
sub cogitationem cadit, prius eius quaedam
necesse est imaginatio nascatur, post vero
plenior superveniat intellectus cunctas eius
explicans partes quae confuse fuerant
imaginatione praesumptae. 10 quocirca inperfectum
quiddam est imaginatio, nomina vero et
verba non curta quaedam, sed perfecta
signi¬ ficant. quare recta Aristotelis
sententia est: quae¬ cumque in verbis
nominibusque versantur, ea neque sensus
neque imaginationes, sed solam significare
in- 15 tellectuum qualitatem, unde illud
quoque ab Aristo¬ tele fluentes
Peripatetici rectissime posuerunt tres esse
orationes, unam quae scribi possit
elementis, al¬ teram quae voce proferri,
tertiam quae cogitatione conecti unamque
intellectibus, alteram voce, tertiam 20
litteris contineri, quocirca quoniam id
quod signifi¬ caretur a vocibus intellectus
esse Aristoteles puta¬ bat, nomina vero et
verba significativa esse in eorum erat
definitionibus positurus, recte quorum essent
si¬ gnificativa praedixit erroremque lectoris
ex multiplici 25 veterum lite venientem
sententiae suae manifestatione conpescuit. atque
hoc modo nihil in eo deprehenditur
esse superfluum, nihil ab ordinis
continuatione se- iunctum. quaerit vero
Porphyrius, cur ita dixerit: sunt ergo
ea quae sunt in voce, et non
sic: sunt 30 3 si quod S^1
7 ait. sub om. F enim (pro
eius) E 10 confuse b: confusae
SF, confusa TE in im. S2, in
yma- ginationem F praesumpta T 15
imaginationis SFE1? 18 sit ( pro
possit) S1 19 cogitationem SFE 20
conecti ego : conectit codices, connectitur
b 21 teneri F, corr. F2 22 esse
om. T1 28 ad T 30
SECTODA EDITIO igitur voces; et
rursus cur ita et ea quae scribun¬
tur et non dixerit: et litterae, quod
resolvit hoc modo, dictum est tres
esse apud Peripateticos ora¬ tiones, unam
quae litteris scriberetur, aliam quae pro-
5 ferretur in voce, tertiam quae
coniungeretur in animo, quod si tres
orationes sunt, partes quoque orationis
esse triplices nulla dubitatio est. quare
quoniam ver¬ bum et nomen principaliter
orationis partes sunt, erunt alia verba
et nomina quae scribantur, alia quae
10 dicantur, alia quae tacita mente
tractentur, ergo quo¬ niam proposuit
dicens: primum oportet consti¬ tuere, quid
nomen et quid verbum, triplex autem
nominum natura est atque verborum, de
quibus potis¬ simum proposuerit et quae
definire velit ostendit, et 15‘quoniam de
his nominibus loquitur ac verbis, quae
voce proferuntur, idem ipsum planius
explicans ait: sunt ergo ea quae sunt
in voce earum quae sunt in anima passionum
notae et ea quae scri¬ buntur eorum
quae sunt in voce, velut si diceret:
20 ea verba et nomina quae in vocali
oratione proferuntur animae passiones denuntiant,
illa autem rursus verba et nomina
quae scribuntur eorum verborum nominum¬ que
significantiae praesunt quae voce proferuntur,
nam sicut vocalis orationis verba et
nomina conce- 25 ptiones animi
intellectusque significant, ita quoque verba
et nomina illa quae in solis litterarum
formulis iacent ijjorum verborum et nominum
significativa sunt quae loquimur, id est
quae per vocem sonamus, nam quod ait:
sunt ergo ea quae sunt in voce,
30 subaudiendum est verba et nomina,
et rursus cum dicit: et ea quae
scribuntur, idem subnectendum rursus est
verba scilicet vel nomina, et quod
rursus 1 cur om. F1 4. 5
proferetur F2T 8 post nomen ras. sex
vel octo litt. in S 12 quid sit
n. codices 17 ergo om. SF 21
uerba rursus F 24 uerba orationis F
30. 31 cum dicit rursus F 32
vel] et b I c. 1. 31
adiecit: eorum quae sunt in voce,
addendum eo¬ rum nomimum atque verborum
quae profert atque explicat vocalis oratio,
quod si nihil deesset omnino, ita
foret totius plenitudo sententiae: sunt
ergo ea verba et nomina quae sunt
in voce earum quae sunt 5 in
anima passionum notae et ea verba et
nomina quae scribuntur eorum verborum et
nominum quae sunt in voce, quod
communiter intellegendum est, li¬ cet ea
| quae subiunximus deesse videantur, quare
non p. 300 est disiuncta sententia,
sed primae propositioni con- 10 tinua.
nam cum quid sit verbum, quid nomen
definire constituit, cum nominis et verbi
natura sit multiplex, de quo verbo et
nomine tractare vellet clara signifi¬
catione distinxit, incipiens igitur ab his
nominibus ac verbis quae in voce
sunt, quorum essent significa- 15 tiva
disseruit, ait enim haec passiones animae
desi¬ gnare. illud quoque adiecit quibus
ipsa verba et no¬ mina quae in
voce sunt designentur, his scilicet quae
litterarum formulis exprimuntur, sed quoniam
non omnis vox significativa est, verba
vero vel nomina 20 numquam
significationibus vacant quoniamque non omnis
vox quae significat quaedam positione designat,
sed quaedam naturaliter, ut lacrimae,
gemitus atque maeror (animalium quoque ceterorum
quaedam voces naturaliter aliquid ostentant,
ut ex canum latratibus 25 iracundia
eorumque alia quadam voce blandimenta
monstrantur), verba autem et nomina
positione signi¬ ficant neque solum sunt
verba et nomina voces, sed voces
significativae nec solum significativae, sed
etiam quae positione designent aliquid, non
natura: non di- 30 xit: sunt igitur
voces earum quae sunt in anima pas¬
sionum notae, namque neque omnis vox
significativa 5. 6 quae sunt in
v.— nomina in marg. F 15 sunt]
sunt designantes TGr 17 et uerba et
T 20 vel] et b 21 va¬ cant
ego: uacarent codices , carent b que
om. S1 22 qua¬ dam S2E 24
moerorem S, merore FE 32 nam FT
32 SECVNDA EDITIO est et
sunt quaedam significativae quae naturaliter
non positione significent, quod si ita
dixisset, nihil ad proprietatem verborum et
nominum pertineret, quocirca noluit communiter
dicere voces, sed dixit 5 tantum ea
quae sunt in voce, vox enim
universale quiddam est, nomina vero et
verba partes, pars autem omnis in
toto est. verba ergo et nomina
quoniam sunt intra vocem, recte dictum
est ea quae sunt in voce, velut si
diceret: quae intra vocem continentur
intel- 10 lectuum designativa sunt, sed
hoc simile est ac si ita dixisset:
vox certo modo sese habens significat
intel¬ lectus. non enim (ut dictum
est) nomen et verbum voces tantum
sunt, sicut nummus quoque non solum
aes inpressum quadam figura est, ut
nummus vocetur, 15 sed etiam ut
alicuius rei sit pretium: eodem quoque
modo verba et nomina non solum voces
sunt, sed positae ad quandam intellectuum
significationem, vox enim quae nihil
designat, ut est garalus, licet eam
grammatici figuram vocis intuentes nomen
esse con- 20 tendant, tamen eam nomen
philosophia non putabit, nisi sit posita
ut designare animi aliquam conceptio¬ nem
eoque modo rerum aliquid possit, etenim
nomen alicuius nomen esse necesse erit;
sed si vox aliqua nihil designat,
nullius nomen est; quare si nullius
est, 25 ne nomen quidem esse dicetur,
atque ideo huiusmodi vox id est
significativa non vox tantum, sed verbum
vocatur aut nomen, quemadmodum nummus non
aes, sed proprio nomine nummus, quo
ab alio aere discre¬ pet, nuncupatur,
ergo haec Aristotelis sententia 30 qua
ait ea quae sunt in voce nihil
aliud designat nisi eam vocem, quae
non solum vox sit, sed quae cum
vox sit habeat tamen aliquam proprietatem
et 4 dicere ( pro dixit) T 9.
10 des. s. intell. T, corr. T2
13 nummos S1 18 garulus F 20
putabit ego: putavit codices 22 aliq.
rer. F 25 dicitur T ideo om. F1
27 — 28 non — nummus in marg.
S 30 qua ait om. F1 I c.
1. 33 aliquam quodammodo figuram
positae significationis inpressam. horum vero
id est verborum et nominum quae sunt
in voce aliquo modo se habente ea
sunt scilicet significativa quae scribuntur, ut
hoc quod di¬ ctum est quae scribuntur
de verbis ac nominibus 5 dictum quae
sunt in litteris intellegatur, potest vero
haec quoque esse ratio cur dixerit et
quae scri¬ buntur: quoniam litteras et
inscriptas figuras et vo¬ ces, quae
isdem significantur formulis, nuncupamus (ut
a et ipse sonus litterae nomen capit
et illa quae 10 in subiecto cerae
vocem significans forma describitur), designare
volens, quibus verbis atque nominibus ea
quae in voce sunt adparerent, non
dixit litteras, quod ad sonos etiam
referri potuit litterarum, sed ait quae
scribuntur, ut ostenderet de his litteris
dicere quae 15 in scriptione consisterent
id est quarum figura vel in cera
stilo vel in membrana calamo posset
effingi, alioquin illa iam quae in
sonis sunt ad ea nomina referuntur
quae in voce sunt, quoniam sonis
illis no¬ mina et verba iunguntur.
sed Porphyrius de utra- 20 que
expositione iudicavit dicens: id quod ait
et quae scribuntur non potius ad
litteras, sed ad verba et nomina quae
posita sunt in litterarum inscriptione
referendum, restat igitur ut illud quoque
addamus, cur non ita dixerit: sunt
ergo ea quae sunt in voce 25
intellectuum notae, sed ita earum quae
sunt in anima passionum | notae, nam
cum ea quae sunt p.30l in voce
res intellectusque significent, principaliter
qui¬ dem intellectus, res vero quas
ipsa intellegentia con- prehendit secundaria
significatione per intellectuum 30 medietatem,
intellectus ipsi non sine quibusdam pas¬
sionibus sunt, quae in animam ex
subiectis veniunt rebus, passus enim
quilibet eius rei proprietatem, 3
sese E 5 et F 8 scriptas b
15 se de? 15. 16 quae
inscriptione T 17 menbrana F 23
proposita F 24 illas Tl 26 si
T 31. 32 medietatibus {pro pass.) T
Boetii comment. II. 3 34
SECVNDA EDITIO quam intellectu
conplectitur, ad eius enuntiationem
designationemque contendit, cum enim quis
aliquam rem intellegit, prius imaginatione
formam necesse est intellectae rei
proprietatemque suscipiat et fiat vel 5
passio vel cum passione quadam intellectus
perceptio, hac vero posita atque in
mentis sedibus conlocata fit indicandae ad
alterum passionis voluntas, cui actus
quidam continuandae intellegentiae protinus ex
intimae rationis potestate supervenit, quem
scilicet explicat et 10 effundit oratio
nitens ea quae primitus in mente fun¬
data est passione, sive, quod est
verius, significatione progressa oratione
progrediente simul et significantis se
orationis motibus adaequante, fit vero baec
passio velut figurae alicuius inpressio,
sed ita ut in animo 15 fieri
consuevit, aliter namque naturaliter inest
in re qualibet propria figura, aliter
vero eius ad animum forma transfertur,
velut non eodem modo cerae vel
marmori vel chartis litterae id est
vocum signa man¬ dantur. et imaginationem
Stoici a rebus in animam 20
translatam loquuntur, sed cum adiectione
semper di¬ centes ut in anima,
quocirca cum omnis animae passio rei
quaedam videatur esse proprietas, porro
autem designativae voces intellectuum principaliter,
rerum dehinc a quibus intellectus profecti
sunt signi- 25 ficatione nitantur, quidquid
est in vocibus significati¬ vum, id
animae passiones designat, sed hae
passiones animarum ex rerum similitudine
procreantur, videns 4 intellegi T ( corr
. T1) 5 intellectio T 6 Haec T
8 quidem F 9 quem actum F,
actum supra lin. J, s. actum supra
lin. S2 12 oratione ego : oratio codices
; oratio suprascr. s. explicat S2,
oratio ///////////explicat F significatione dei
et post simul transponit F2 (E in
marg .: aliter siue quod est ve¬ rius
significatione progrediente oratio progressa
simul et se signif. or. mot. adaeq.)
13 metibus S1, mentibus F1 17
transferetur T, corr. T2 17 vel om.
F 19 a om. S1 25 nitatur S^1
27 animorum SFE et T^1 I c.
1. 35 namque aliquis sphaeram
vel quadratum vel quamlibet aliam rerum
figuram eam in animi intellegentia qua¬
dam vi ac similitudine capit, nam qui
sphaeram vi¬ derit, eius similitudinem in
animo perpendit et cogitat atque eius
in animo quandam passus imaginem id
cuius imaginem patitur agnoscit, omnis vero
imago rei cuius imago est similitudinem
tenet: mens igitur cum intellegit, rerum
similitudinem conprehendit. unde fit ut,
cum duorum corporum maius unum, minus
alterum contuemur, a sensu postea remotis
corporibus illa ipsa corpora cogitantes
illud quoque memoria ser¬ vante noverimus
sciamusque quod minus, quod vero maius
corpus fuisse conspeximus, quod nullatenus
eve¬ niret, nisi quas semel mens passa
est rerum similitu¬ dines optineret. quare
quoniam passiones animae quas intellectus vocavit
rerum quaedam similitudines sunt, idcirco
Aristoteles, cum paulo post de passio¬
nibus animae loqueretur, continenti ordine
ad simili¬ tudines transitum fecit, quoniam
nihil differt utrum passiones diceret an
similitudines, eadem namque res in anima
quidem passio est, rei vero similitudo,
et Alexander hunc locum: sunt ergo ea
quae sunt in voce earum quae sunt
in anima passionum notae et ea quae
scribuntur eorum quae sunt in voce,
et quemadmodum nec litterae omni¬ bus
eaedem, sic nec voces eaedem hoc modo
conatur exponere: proposuit, inquit, ea
quae sunt in voce intellectus animi
designare et hoc alio probat exemplo,
eodem modo enim ea quae sunt in voce
passiones animae significant, quemadmodum ea
quae scribuntur voces designant, ut id
quod ait et ea quae 1 aliquis
om. T, aliqui E feram S, speram
S2FT 3 ui§ (pro vi ac) SF
speram FT 9 duum S2F2 12 sciamusque
ego: sciemusq. codices 14 mens om. T
20 pass. animae editio princeps 24
inscribuntur SFE 26 eaedem uoces codices
(item p. 36, 6. 7) 29 enim modo
F 3* 5 10 15
20 25 30 36
SECVNDA EDITIO scribuntur ita intellegamus,
tamquam si diceret: quemadmodum etiam ea
quae scribuntur eorum quae sunt in
voce, ea vero quae scribuntur, inquit
Ale¬ xander, notas esse vocum id est
nominum ac verbo- 5 rum ex hoc
monstravit quod diceret et quemadmo¬ dum
nec litterae omnibus eaedem, sic nec
vo¬ ces eaedem, signum namque est
vocum ipsarum significationem litteris contineri,
quod ubi variae sunt litterae et non
eadem quae scribuntur varias quoque 10
voces esse necesse est. haec Alexander.
Porphy- rius vero quoniam tres proposuit
orationes, unam quae litteris contineretur,
secundam quae verbis ac nominibus
personaret, tertiam quam mentis evolveret
intellectus, id Aristotelem significare pronuntiat,
15 cum dicit: sunt ergo ea quae
sunt in voce earum quae sunt in
anima passionum notae, quod ostenderet si
ita dixisset: sunt ergo ea quae sunt
in p. 302 voce et verba et
nomina animae passionum | notae, et
quoniam monstravit quorum essent voces
significa- 20 tivae, illud quoque docuisse
quibus signis verba vel nomina panderentur
ideoque addidisse et ea quae scribuntur
eorum quae sunt in voce, tamquam si
diceret: ea quae scribuntur verba et
nomina eorum quae sunt in voce
verborum et nominum notae sunt. 25
nec disiunctam esse sententiam nec (ut
Alexander putat) id quod ait: et ea
quae scribuntur ita in¬ tellegendum,
tamquam si diceret: sicut ea quae
scri¬ buntur id est litterae illa
quae sunt in voce signifi¬ cant, ita
ea quae sunt in voce notas esse animae
30 passionum, primo quod ad simplicem
sensum nihil addi oportet, deinde tam
brevis ordo tamque neces¬ saria orationis
non est intercidenda partitio, tertium vero
quoniam, si similis significatio est
litterarum vo- 5 quo TE1 9
eaedem F, eedem T 13 quae F 14
ari- stotelen T 18 prius et om.
TE 20 et b 29 sunt om. SF
30 primum? quidem quod b 31 deinde
quod b tamque] tamquam T 33 esset
E2 I c. 1. 37 cumque,
quae est vocum et animae passionum,
opor¬ tet sicut voces diversis litteris
permutantur, ita quo¬ que passiones animae
diversis vocibus permutari, quod non fit.
idem namque intellectus variatis potest
voci¬ bus significari, sed Alexander id
quod eum superius sensisse memoravi boc
probare nititur argumento, ait enim etiam
in hoc quoque similem esse significa¬
tionem litterarum ac vocum, quoniam sicut
litterae non naturaliter voces, sed
positione significant, ita quoque voces non
naturaliter intellectus animi, sed aliqua
positione designant, sed qui prius recepit,
ut id quod Aristoteles ait: et ea
quae scribuntur ita dictum esset, tamquam
si diceret: sicut ea quae scribuntur,
quidquid ad hanc sententiam videtur ad-
iungere, aequaliter non dubitatur errare,
quocirca nostro iudicio qui rectius tenere
volent Porphyrii se sententiis adplicabunt.
Aspasius quoque secundae sententiae Alexandri,
quam supra posuimus, valde consentit, qui
a nobis in eodem quo Alexander er¬
rore culpabitur. Aristoteles vero duobus
modis esse has notas putat litterarum,
vocum passionumque ani¬ mae constitutas:
uno quidem positione, alio vero na¬
turaliter. atque hoc est quod ait: et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem,
sic nec voces eaedem, nam si litterae
voces, ipsae vero voces in¬ tellectus
animi naturaliter designarent, omnes homines
isdem litteris, isdem etiam vocibus uterentur,
quod quoniam apud omnes neque eaedem
litterae neque eaedem voces sunt, constat eas
non esse naturales, sed hic duplex
lectio est. Alexander enim hoc modo
legi putat oportere: quorum autem haec
primo- 1. 2 oporteret E 11
recipit S, corr. S2 18—19 quam —
Alexander in marg. S 21 vocum om.
S1 24. 25 eae¬ dem v. codices
{item p. 38, 10 et 29) 27
hisdem S2F2TE hisdem SF2TE 31 hae
codices {item p. 38, 18) 5
10 15 20 25 30
38 SECYNDA EDITIO rum notae,
eaedem omnibus passiones animae et quorum
eaedem similitudines, res etiam eaedem,
volens enim Aristoteles ea quae positione
significant ab bis quae aliquid designant
naturaliter 5 segregare hoc interposuit: ea
quae positione significant varia esse, ea
vero quae naturaliter apud omnes eadem,
et incobans quidem a vocibus ad
litteras ve¬ nit easque primo non
esse naturaliter significativas demonstrat dicens
: et quemadmodum nec litterae 10
omnibus eaedem, sic nec voces eaedem,
nam si idcirco probantur litterae non
esse naturaliter signifi¬ cantes, quod apud
alios aliae sint ac diversae, eodem
quoque modo probabile erit voces quoque
non natu¬ raliter significare, quoniam
singulae hominum gentes 15 non eisdem inter
se vocibus conio quantur. volens vero
similitudinem intellectuum rerumque subiectarum
do¬ cere naturaliter constitutam ait:
quorum autem haec primorum notae, eaedem
omnibus passio¬ nes animae, quorum, inquit,
voces quae apud diver- 20 sas gentes
ipsae quoque diversae sunt significationem
retinent, quae scilicet sunt animae
passiones, illae apud omnes eaedem sunt,
neque enim fieri potest, ut quod apud
Romanos homo intellegitur lapis apud barbaros
intellegatur, eodem quoque modo de ceteris
25 rebus, ergo huiusmodi sententia est,
qua dicit ea quae voces significent
apud omnes hominum gentes non mutari,
ut ipsae quidem voces, sicut supra
mon¬ stravit cum dixit quemadmodum nec
litterae omnibus eaedem, sic nec voces
eaedem, apud 30 plures diversae sint,
illud vero quod voces ipsae si¬ gnificant
apud omnes homines idem sit nec ulla
ra- 1 animae sunt codices ( item
19) 7 inchoatis T 8 si¬
gnificas S1, signifitiuas T 15
colloquuntur b 17 //////ait S, quod
ait TE (quod dei. E1?) 22 apud
om. F, add. F1 23 qui T
24 modo quoq. F 29 apud ego:
cum apud codices 31 fit F I
c. 1. 39 tione valeat
permutari, qui sunt scilicet intellectus
rerum, qui quoniam naturaliter sunt
permutari non possunt, atque hoc est
quod ait: quorum autem haec primorum
notae, id est voces, eaedem om¬ nibus
passiones animae, ut demonstraret voces 5
quidem esse diversas, quorum autem ipsae
voces signi¬ ficativae essent, quae sunt
scilicet animae passiones, easdem apud
omnes esse nec | ulla ratione,
quoniam p. 303 sunt constitutae naturaliter,
permutari, nec vero in hoc constitit,
ut de solis vocibus atque intellectibus
10 loqueretur, sed quoniam voces atque
litteras non esse naturaliter constitutas
per id significavit, quod eas non
apud omnes easdem esse proposuit, rursus intel¬
lectus quos animae passiones vocat per
hoc esse na¬ turales ostendit, quod
apud omnes idem sint, a quibus 15
id est intellectibus ad res transitum
fecit, ait enim quorum hae similitudines,
res etiam eaedem hoc scilicet sentiens,
quod res quoque naturaliter apud omnes
homines essent eaedem: sicut ipsae animae
passiones quae ex rebus sumuntur apud
omnes horni- 20 nes eaedem sunt, ita
quoque etiam ipsae res quarum similitudines
sunt animae passiones eaedem apud omnes
sunt, quocirca quoque naturales sunt, sicut
sunt etiam rerum similitudines, quae sunt
animae passiones. H er minus vero
huic est expositioni con- 25 trarius.
dicit enim non esse verum eosdem apud
omnes homines esse intellectus, quorum
voces signi¬ ficativae sint, quid enim,
inquit, in aequivocatione dicetur, ubi unus
idemque vocis modus plura signi¬ ficat?
sed magis hanc lectionem veram putat,
ut ita 30 sit: quorum autem haec
primorum notae, hae omnibus passiones
animae et quorum hae si¬ militudines,
res etiam hae: ut demonstratio vi-
4 hae codices (item 31) 5
animae sunt codices (item 32) 21
quarum b: quorum codices 23 homines
F, corr. F2 res quoq. b 28 sunt
F 31 autem ovi. S1 40
SECVNDA EDITIO deatur quorum voces
significativae sint vel quorum passiones
animae similitudines, et lioc simpliciter
ac¬ cipiendum est secundum Her minum, ut
ita dicamus: quorum voces significativae
sunt, illae sunt animae 5 passiones,
tamquam diceret: animae passiones sunt,
quas significant voces, et rursus quorum
sunt simili¬ tudines ea quae intellectibus
continentur, illae sunt res, tamquam si
dixisset: res sunt quas significant in¬
tellectus. sed Porphyrius de utrisque acute
subti- 10 literque iudicat et Alexandri
magis sententiam pro¬ bat, hoc quod
dicat non debere dissimulari de multi¬
plici aequivocationis significatione, nam et
qui dicit ad unam quamlibet rem
commodat animum, scilicet quam intellegens
voce declarat, et unum rursus intel-
15 lectum quemlibet is qui audit
exspectat, quod si, cum uterque ex
uno nomine res diversas intellegunt, ille
qui nomen aequivocum dixit designet
clarius, quid illo nomine significare
voluerit, accipit mox qui audit et ad
unum intellectum utrique conveniunt, qui
rursus 20 fit unus apud eosdem illos
apud quos primo diversae fuerant animae
passiones propter aequivocationem no¬ minis.
neque enim fieri potest, ut qui voces
positione significantes a natura eo
distinxerit quod easdem apud omnes esse
non diceret, eas res quas esse
naturaliter 25 proponebat non eo tales
esse monstraret, quod apud omnes easdem
esse contenderet, quocirca Alexander vel
propria sententia vel Porphyrii auctoritate
pro¬ bandus est. sed quoniam ita
dixit Aristoteles: quorum autem haec
primorum notae, eaedem 30 omnibus passiones
animae sunt, quaerit Ale- 9. 10
suptiliterq. SE 11 hoc dei. S2, om.
F quod F: quo STEGN, quoque E2
dicit E2 14 voce eras, in F
16 utrique? 17 designat T quod
T 18 nomen S1 23 distinxerint T
quos ( suprascr . d) S, qui (in marg.
quod) T 24 eas] is? 25 demonstraret
T 27 pro porphirii E 29 hae
codices I c. 1. 41 x
and er: si rerum nomina sunt, quid
causae est ut primorum intellectuum notas
esse voces diceret Ari¬ stoteles? rei
enim ponitur nomen, ut cum dicimus
homo significamus quidem intellectum, rei
tamen no¬ men est id est animalis
rationalis mortalis, cur ergo 5 non
primarum magis rerum notae sint voces
quibus ponuntur potius quam intellectuum?
sed fortasse quidem ob hoc dictum
est, inquit, quod licet voces rerum
nomina sint, tamen non idcirco utimur
vocibus, ut res significemus, sed ut
eas quae ex rebus nobis io innatae
sunt animae passiones, quocirca propter
quo¬ rum significantiam voces ipsae proferuntur,
recte eo¬ rum primorum esse dixit
notas, in hoc vero Aspa- sius
permolestus est. ait enim: qui fieri
potest, ut eaedem apud omnes passiones
animae sint, cum tam 15 diversa
sententia de iusto ac bono sit? arbitratur
Aristotelem passiones animae non de rebus
incorpo¬ ralibus, sed de his tantum
quae sensibus capi pos¬ sunt passiones
animae dixisse, quod perfalsum est. neque
enim umquam intellexisse dicetur, qui
fallitur, 20 et fortasse quidem passionem
animi habuisse dicetur, quicumque id quod
est bonum non eodem modo quo est,
sed aliter arbitratur, intellexisse vero
non dicitur. Aristoteles autem cum de
similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat,
neque enim fieri potest, ut qui 25
quod bonum est malum esse arbitratur
boni simili¬ tudinem mente conceperit,
neque enim intellexit rem subiectam. sed
quae sunt iusta ac bona ad positionem
omnia naturamve referuntur, et si de
iusto ac | bono p. 304 ita
loquitur, ut de eo quod civile ius
aut civilis in- 30 1 quod T
causa S F 2 dixerit b 4 pro
tamen : quidem T 6 sunt E, corr.
E2 8 quidem post dictum F 10
nris STE (corr. S2E2) 11 sint S
praeter T 13 esse prim. F 22
///////id S, cum id TE (cum dei.
E2) quidem (pro quod est) T quo
S2F2: quod SFTE 23 dicetur? 29
si om. S1 30 ita om. F1
42 SECYNDA EDITIO iuria dicitur,
recte non eaedem sunt passiones animae,
quoniam civile ius et civile bonum
positione est, non natura, naturale vero
bonum atque iustum apud omnes gentes
idem est. et de deo quoque idem:
cuius 5 quamvis diversa cultura sit, idem
tamen cuiusdam eminentissimae naturae est
intellectus, quare repe¬ tendum breviter a
principio est. <(a^>partibus enim ad
orationem usque pervenit: nam quod se
prius quid esset verbum, quid nomen
constituere dixit, hae mi- 10 nimae
orationis partes sunt; quod vero
adfirmationem et negationem, iam de
conposita ex verbis et nomini¬ bus
oratione loquitur, quae eaedem rursus
partes sunt enuntiationis, et post
enuntiationis propositionem de oratione loqui proposuit,
cuius ipsa quoque enuntiatio , 15
pars est. et quoniam (ut dictum est)
triplex est oratio, quae in litteris,
quae in voce, quae in intel¬ lectibus
est, qui verbum et nomen definiturus
esset eaque significativa positurus, dicit
prius quorum signi¬ ficativa sint ipsa
verba et nomina et incohat quidem 20
ab his nominibus et verbis quae sunt
in voce dicens: sunt ergo ea quae
sunt in voce et demonstrat quorum
sint significativa adiciens earum quae sunt
in anima passionum notae. rursus nominum
ipsorum verborumque quae in voce sunt
ea verba et 25 nomina quae essent
in litteris constituta significativa esse
declarat dicens et ea quae scribuntur
eorum quae sunt in voce, et quoniam
quattuor ista quae¬ dam sunt: litterae,
voces, intellectus, res, quorum lit¬ terae
et voces positione sunt, natura vero
res atque 30 intellectus, demonstravit
voces non esse naturaliter, sed positione
per hoc quod ait non easdem esse
apud omnes, sed varias, ut est et
quemadmodum nec 1 non recte F 7
a ego add.: om. codices 8 quod
om. T 15. 16 or. est F 16
postrem. in om. FE 18 ea quae
FE positurus b: positurus est codices
22 sign. sint F eorum SFE 30
litteras et voces? 31 per om. SFT
quod b: quo///F, quo STE I c.
1. 43 litterae omnibus eaedem,
sic nec voces eae¬ dem. ut vero
demonstraret intellectus et res esse
naturaliter, ait apud omnes eosdem esse
intellectus, quorum essent voces significativae,
et rursus apud omnes easdem esse res,
quarum similitudines essent animae passiones,
ut est quorum autem haec pri¬ morum
notae, scilicet quae sunt in voce,
eaedem omnibus passiones animae et quorum
hae si¬ militudines, res etiam eaedem,
passiones autem animae dixit, quoniam alias
diligenter ostensum est omnem vocem
animalis aut ex passione animae aut
propter passionem proferri, similitudinem vero
pas¬ sionem animae vocavit, quod secundum
Aristotelem nihil aliud intellegere nisi
cuiuslibet subiectae rei proprietatem atque
imaginationem in animae ipsius reputatione
suscipere, de quibus animae passionibus in
libris se de anima commemorat diligentius
disputasse, sed quoniam demonstratum est,
quoniam et verba et nomina et oratio
intellectuum principaliter significa¬ tiva sunt,
quidquid est in voce significationis ab
in¬ tellectibus venit, quare prius paululum
de intellecti¬ bus perspiciendum ei qui
recte aliquid de vocibus disputabit, ergo
quod supra passiones animae et si¬
militudines vocavit, idem nunc apertius intellectum
vocat dicens: Est autem, quemadmodum
in anima ali- quotiens quidem intellectus
sine vero vel falso, aliquotiens autem
cui iam necesse est horum alterum
inesse, sic etiam in voce; circa con-
positionem enim et divisionem est falsitas
veri- 1. 2 eaedem v. codices 2
et] ut E, corr. E2 3 intel¬ lectus
esse E 5 quarum b: quorum codices
6 haec E Ar. tcivxcc : hae E 2
et ceteri 8 animae sunt codices 14
aliud S: aliud est S2F, est aliud
TE 18 ait. quon.] quomodo E 22
perspiciendum S: persp. est S2FTE de
om. SF 23 disputauit S^F1TE 28 cui
Ar. <p cf. ed. I: cum codices
30 autem 2% falsitas ueritasq; 2%:
ueritas fals. ceteri 5 10
15 20 25 30 44
SECVNDA EDITIO tasque. nomina
igitur ipsa et verba consimilia sunt sine
conpositione vel divisione intel¬ lectui,
ut homo vel album, quando non additur
aliquid; neque enim adhuc verum aut
falsum 5 est. huius autem signum hoc
est: hircocervus enim significat aliquid,
sed nondum verum vel falsum, si non
vel esse vel non esse addatur, vel
simpliciter vel secundum tempus. Pietro
Caramello. Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino, blityri – blythyri SG
blithyri NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”. “signatiuis”
“significativis” garalus garulus F. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777304810/in/dateposted-public/
Grice e Carando – l’implicatura di Socrate
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Pettinengo).
Filosofo. Grice: “I like Carando; a typical Italian philosopher, got his
‘laurea,’ and attends literary salons! – There is a street named after him –
whereas at Oxford the most we have is a “Logic lane!” -- Ennio Carando (Pettinengo), filosofo. Studia
a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo attraverso l'influenza di Juvalta (con
cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti. Collaborò alla Rivista di
filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su Spir. Insegna a Cuneo,
Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi completamente cieco dopo
l'armistizio si diede ad organizzare formazioni partigiane in Liguria e in
Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN spezzino). Era ispettore del
Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese, quando fu catturato in seguito
ad una delazione. Sottoposto a torture
atroci, non tradì i compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore,
capitano di artiglieria a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di
stato maggiore della I Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La
metafisica civile di un filosofo socratico. Partigiano. Dopo l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La Spezia presso il
Liceo Classico Costa, entrò attivamente nella lotta di liberazione organizzando
formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi gli chiedeva di non
avventurarsi in quella decisione così pericolosa rispondeva fermamente:
"Molti dei miei allievi sono caduti: un giorno i loro genitori potrebbero
rimproverarmi di non aver avuto il loro stesso coraggio". AGON AND
ALKIBIADES: AN INTERPRETATION OF PLATO'S FIRST ALKIBIADES. For centuries
the First Alkibiades was respected as a major dialogue in the Platonic
corpus. It was considered by the Academy to be the proper introduction to
the study of Plato's dialogues, and actually formed the core of the
serious beginner's study of philosophy. Various ancient critics have written
major commentaries upon the dialogue (most of which have subsequently
been lost). In short, it was looked upon as a most important work by
those arguably in the best position to know. In comparatively
recent times the First Alkibiades has lost its status. Some leading
Platonic scholars judge it to be spurious, and as a result it is seldom
read as seriously as several other Platonic dialogues. This thesis
attempts a critical examination of the dialogue with an eye towards
deciding which judgement of it, the ancient or the modern, ought to be
accepted. I wish to take advantage of this opportunity at last to thank
my mother and father and my sister. Lea, who have always given freely
of themselves to assist me. I am also grateful to my friends, in
particular Pat Malcolmson and Stuart Bodard, who, through frequent and
serious conversations proved themselves to be true dialogic partners.
Thanks are also due to Monika Porritt for her assistance with the
manuscript. My deepest gratitude and affection extend to Leon
Craig, to whom I owe more than I am either able, or willing, to express
here. Overpowering curiosity may be aroused in a reader upon his noticing
how two apparently opposite men, Socrates and Alkibiades, are drawn to
each other's conversation and company. Such seems to be the effect
achieved by the First Alkibiades , a dialogic representation of the beginning
of their association. Of all the people named in the titles of Platonic
dialogues, Alkibiades was probably the most famous. It seems reasonable
to assume that one's appreciation of the dialogue would be en¬ hanced by
knowing as much about the historical Alkibiades as would the typical
educated Athenian reader. Accordingly, this examination of the dialogue
will commence by recounting the major events of Alkibiades' scareer, on the
premise that such a reminder may enrich a philosophic understanding of
the First Alkibiades. The historical Alkibiades was born to Kleinias and
Deinomakhe. Although the precise date of his birth remains unknown
(cf. 121d), it was most surely before 450 B.C. His father,
Kleinias, was one of the wealthy men in Athens, financially capable
of furnishing and outfitting a trireme 3 in wartime. Of
Deinomakhe we know nothing save that she was well born. As young
children Alkibiades and his brother, Kleinias, lost their father
4 in battle and were made wards of their uncle, the renowned
Penkles. He is recognized by posterity as one of the greatest
statesmen of Greece. Athens prospered during his lengthy rule in office
and flourished to such an extent that the "Golden Age of
Greece" is also called the "Age of Perikles." When Alkibiades
came under his care, Perikles held the highest office in Athens and
governed almost continuously until his death which occurred shortly after
the outbreak of the Peloponnesian War. At an early age Alkibiades
was distinguished for his striking beauty and his multi-faceted
excellence. He desired to be triumphant in all he undertook and generally
was so. In games and sport with other boys he is said to have taken a
lion's share of victories. There are no portraits of Alkibiades in
existence from which one might judge his looks, but it is believed that
he served his contemporaries as the standard artistic model for representations
of the gods. No doubt partly because of his appearance and demeanor, he
strongly influenced his boyhood companions. For example, it was rumored
that Alkibiades was averse to the flute because it prevented the player
from singing, as well as dis¬ figuring his face. Refusing to take
lessons, he referred to Athenian deities as exemplars, calling upon
Athena and Apollon who had shown disdain for the flute and for flautists.
Within a short time flute-playing had ceased to be regarded as a
standard part of the curriculum for a gentleman's education. Alkibiades was
most surely the talk of the town among the young men and it is
scarcely a wonder that tales of his youthful escapades abound.
Pursued by many lovers, he for the most part scorned such attentions. On
one occasion Anytos, who was infatuated with Alkibiades, invited him to a
dinner party. Instead, Alkibiades went drinking with some of his friends.
During the evening he collected his servants and bade them interrupt
Anytos' supper and remove half of the golden cups and silver ornaments
from the table. Alkibiades did not even bother to enter. The other guests
grumbled about this hybristic treatment of Anytos, who responded that on the
contrary Alkibiades had been moderate and kind in leaving half when he
might have absconded with all. Alkibiades certainly seems to have enjoyed
an extraordinary sway over some of his admirers. Alkibiades sought to
enter Athenian politics as soon as he became eligible and at about
that time he first met Socrates. The First Alkibiades is a dramatic
representation of what might have happened at that fateful meeting. Fateful it
was indeed, for the incalculable richness of the material it has provided for
later thought as well as for the lives of the two men. By his own admission,
Alkibiades felt that his feeling shame could be occasioned only by
Socrates. Though it caused him discomfort, Alkibiades nevertheless
chronically returned to occasion to save Alkibiades' life. The
generals were about to confer on him a prize for his valor 12
but he insisted it be awarded to AlkiThis occurred near the
beginning of their friendship, at the start of the Peloponnesian War.
Later, during the Athenian defeat at the battle of Delion,
Alkibiades repaid him in kind. In the role of cavalryman, he
defended Socrates who 13 was on foot. Shortly thereafter,
Alkibiades charged forward into politicsbiades. , campaigns
he mounted invariably meeting with success. Elected strategos (general)
in 420 B.C. on the basis of his exploits, he was one of the youngest ever
to wield such high authority. Generally opposing ] ■
! 4 Nikias and the plan for
peace, Alkibiades as the leader of the democrats allied Athens with
various enemies of Sparta. His grandiose plans for the navy rekindled
Athenian ambitions for empire which had been at best smouldering since
the death of Perikles. Alkibiades' policy proposals favored the
escalation of the war, and he vocally supported Athens' con¬ tinuation of
her position as the imperial power in the Mediterranean. His first
famous plan, the Athenian alliance with Argos, is recounted in
14 detail by Thucydides. Thucydides provides an especially
vivid portrait of Alkibiades and indicates that he was unexcelled,
both in terms of 15 diplomatic maneuvering and
rhetorical ability. By arranging for the Spartan envoys to modify
their story from day to day, he managed to make 16
Nikias look foolish in his trust of them. Although Alkibiades
suffered a temporary loss of command, his continuing rivalry with Nikias
secured him powerful influence in Athens, which was heightened by an
apparent failure of major proportions by Nikias in Thrace in 418-417
B.C. Alkibiades' sustained opposition to Nikias prompted some of
the radical democrats under Hyperbolos to petition for an ostrakismos .
This kind of legal ostracism was a device intended primarily for the
over¬ turning of stalemates. With a majority of the vote an ostrakismos
could be held. Citizens would then write on a potsherd the name of the
one man in all of Attika they would like to see exiled. There has been
famous ostracisms before this time, some ofwhich were almost
immediately regretted (e.g., Aristeides the Just, in 482 B.C.). At any
rate, Hyperbolos campaigned to have Alkibiades ostracized. Meanwhile, in
one of their rare moments of agreement, Alkibiades persuaded Nikias to
join with him in a counter-campaign to ensure that the percentage of
votes required to effect Alkibiades' exile would not be attained. They
were .
5 so successful that the result of the ostrakismos was the
exile of Hyperbolos. That was Athen's last ostrakismos.
17 Thucydides devotes two books (arguably the most
beautiful of his History of the Peloponnesian War) to the Sicilian
Expedition. This campaign Alkibiades instigated is considered by many to
be his most note¬ worthy adventure, and was certainly one of the major
events of the war. Alkibiades debated with Nikias and convinced the
Ekklesia (assembly) to 18 launch the expedition in 415
B.C. Clearly no match for Alkibiades' rhetoric, Nikias, according
to the speeches of Thucydudes, worked an effect opposite his
intentions when he warned the Athenians of the ex- 19
Rather than being daunted by the magnitude of the cost of the
20 pense expedition, the Athenians were eager to
supply all that was necessary. This enthusiasm was undoubtedly
enhanced by the recent reports of the vast wealth of Sicily.
Nikias, Alkibiades and Lamakhos were appointed co-commanders with
full power (giving them more political authority than 21
anyone in Athen's recent history). Immediately prior to the
start of the expedition, the Hermai throughout Athens were
disfigured. The deed was a sacrilege as well as 22 a
bad omen for the expedition. Enemies of Alkibiades took this oppor¬
tunity to link him with the act since he was already suspected of pro¬faning
the Eleusian Mysteries and of generally having a hybristic dis¬ regard
for the conventional religion. He was formally charged with impiety.
Alkibiades wanted to have his trial immediately, arguing it would
not be good to command a battle with the charge remaining un- 23
decided. His enemies, who suspected the entire military force would
take Alkibiades' side, urged that the trial be postponed so as not to
delay the awaiting fleet's scheduled departure. As a result they sailed
6
with Alkibiades' charge untried. When the generals arrived at
Rhegion, they discovered that the 24 stories of the
wealth of the place had been greatly exaggerated. Nonetheless,
Alkibiades and Lamakhos voted together against Nikias to 25
remain and accomplish what they had set out to do. Alkibiades
thought it prudent that they first establish which of their allies
actually had been secured, and to try to persuade the rest. Most
imperative, he 26 believed, was the persuasion of the
Messenians. The Messenians would not admit Alkibiades at first, so
he sailed to Naxos and then to Katana. Naxos allied with Athens
readily, but it is suspected that the Katanaians 27 had
some force used upon them. Before the Athenians could address the
Messenians or the Rhegians, both of whom held important geographic
positions and were influential, a ship arrived to take Alkibiades
back to Athens. During his absence from Athens, his enemies had
worked hard to increase suspicion that he had been responsible for
the sacrilege, and now, with the populace aroused against
Alkibiades, they urged he be 28 immediately
recalled. Alkibiades set sail to return in his own ship, filled
with his friends. At Thouri they escaped and went to the
Peloponnese. Meanwhile 29 the Athenians sentenced him
to death. He revealed to the Spartans his idea that Messenian
support in the west was crucial to Athens. The Spartans weren't
willing to trust Alkibiades given his generally anti- Spartan
policies, and they particularly did not appreciate his past
treatment of the Spartan envoys. In a spectacular speech, as
recounted by Thucydides, Alkibiades defended himself and his
conduct in leaving 30 Athens. Along with a delegation of
Korinthians and Syrakusans, Alkibiades argued for Sparta's participation
in the war in Sicily. He
7 also suggested to them that their best move against
Athens was to fortify a post at Dekelia in Attika. In short, once
again Alkibiades proved himself to be a master of diplomacy,
knowing the right thing to say at any given time, even among sworn
enemies. The Spartans welcomed 31 Alkibiades. Because of his
knowledge of Athenian affairs, they acted 32 upon his
advice about Dekelia (413 B.C.). Alkibiades did further service for
Sparta by inciting some Athenian allies in Asia Minor, par¬ ticularly at
Khios, to revolt. He also suggested to Tissaphernes, the Persian
satrap of Asia Minor, that he ought to consider an alliance with 33
Sparta. However, in 412 B.C. Alkibiades lost favor with the
Spartans. His loyalty was in doubt and he was suspected of having
seduced the Spartan 34 queen; she became pregnant
during a long absence of the king. Alkibiades prudently moved on,
this time fleeing to the Persian court of Tissaphernes where he
served as an advisor to the satrap. He counselled
Tissaphernes to ally neither with Sparta nor with Athens; it would be
in his best interests to let them wear each other down.
Tissaphernes was pleased with this advice and soon listened to
Alkibiades on most matters, having, it seems, complete confidence
in him. Alkibiades told him to lower the rate of pay to the Spartan
navy in order to moderate their activities and ensure proper
conduct. He should also economize and reduce expenditures.
Alkibiades cautioned him against being too hurried 35
in his wish for a victory. Tissaphernes was so delighted with
Alkibiades' counsel that he had the most beautiful park in his
domain 36 named after him and developed into a luxury
resort. The Athenian fleet, in the meantime, was at Samos, and with
it lay the real power of Athens. The city had been brought quite low
by B| 8 the war,
especially the Sicilian expedition, which left in the hands of the
irresolute and superstitious Nikias turned out to be disastrous for the
Athenians. Alkibiades engaged in a conspiracy to promote an oligarchic
revolution in Athens, ostensibly to ensure his own acceptance there. How¬
ever, when the revolution occurred, in 411 B.C., and the Council of Four
37 Hundred was established, Alkibiades did not associate
himself with it. He attached himself to the fleet at Samos and
relayed to them the promise of support he had exacted from Tissaphernes.
The support was not forth¬ coming, however, but despite the sentiment
among some of the Athenians at Samos that Alkibiades intended to trick
them, the commanders and 38 soldiers were confident
that Athens could never rise without Alkibiades. They appointed him
general and re-instated him as the chief-in-command of the Athenian Navy.
He sent a message to the oligarchic Council of Four Hundred in Athens
telling them he would support a democratic boule of 5,000 but that the
Four Hundred would have to disband. There was no immediate
response. In the meantime, with comparatively few men and ships,
Alkibiades managed to deflect the Spartans from their plan to form
an alliance with the Persian fleet. Alkibiades became an
increasingly popular general among the men at Samos, and with his
rhetorical abilities he dissuaded them from adopting policies that
would likely have proven disastrous. He insisted they be more
moderate, for example, in their treatment of unfriendly ambassadors,
such as those from Athens. The Council of Four Hundred sent an
emissary to Samos, but Alkibiades was firm in his refusal 39
to support them. This pleased the democrats, and since most of the
oligarchs were by this time split into several factions, the rule of
the 40 Four Hundred fragmented of its own accord.
Alkibiades sent advice from ■
9 41 Samos as
to the form of government the 5,000 should adopt, but he still
42 did not consider it the proper time for his own
return. During this time Alkibiades and the Athenian fleet gained
major victories, defeating the Spartans at Kynossema, at Abydos
(411 B.C.), and 43 at Kyzikos (410 B.C.)
Seeking to regain some control, Tissaphernes had Alkibiades
arrested on one occasion when he approached in a single ship. It
was a diplomatic visit, not a battle, yet Tissaphernes had him
imprisoned. Within a month, however, Alkibiades and his men escaped.
In order to ensure that Tissaphernes would live to regret the
arrest, Alkibiades caused a story to be widely circulated to the
effect that Tissaphernes had arranged the escape. Suffice it to say
the Great King 44 of Persia was not pleased. Alkibiades
also recovered Kalkhedonia and 45 Byzantion for the
Athenians in 408 B.C. After gathering money from various sources
and assuring himself of the security of Athenian control of the
Hellespont, he at last decided to return to Athens. It had been an
absence of seven years. 46 He was met with an
enthusiastic reception in the Peiraeus. All charges against him
were dropped and the prevailing sentiment among the Athenians was
that had they only trusted in his leadership, they would still be the
47 great empire they had been. With the hope that he would be
able to restore to them some of their former glory, they appointed
Alkibiades general with full powers, a most extraordinary command. He
gained further support from the Athenians when he led the procession to
Eleusis (the very mysteries of which he had earlier been suspected of
blaspheming) on the overland route. Several years earlier, through fear
of the Spartans at Dekelia, the procession had broken tradition and gone
by sea. This restoration of tradition ensured
Alkibiades political support
10
from the more pious sector of the public who had been hesitant about
48 him. He had so consolidated his political support by this time
that such ever persons as opposed him wouldn't have dared to
publicly declare 49 their opinions.
Alkibiades led a number of successful expeditions over the next
year and the Athenians were elated with his command. He had never
failed in a military undertaking and the men in his fleet came to
regard them- 50 selves a higher class of soldier.
However, an occasion arose during naval actions near Notion when
Alkibiades had to leave the major part of his fleet under the command of
another captain while he sailed to a near¬ by island to levy funds. He
left instructions not to engage the enemy under any circumstances, but
during his absence a battle was fought none¬ theless. Alkibiades
hurriedly returned but arrived too late to salvage victory. Many men and
ships were lost to the Spartans. Such was his habit of victory that
the people of Athens suspected that he must have 51
wanted to lose. They once again revoked his citizenship.
Alkibiades left Athens for the last time in 406 B.C. and retired
to a castle he had built long before. Despite his complete loss of
civic status with the Athenians, his concern for them did not cease.
In his last attempt to assist Athens against the Spartan fleet
under Lysander, Alkibiades made a special journey at his own
expense to advise the new strategoi . He cautioned them that what
remained of the Athenian fleet was moored at a very inconvenient
place, and that the men should be held in tighter rein given the
proximity of Lysander's ships. They disregarded his advice with
utter contempt (only to regret it upon their almost 52
immediate defeat) and Alkibiades returned to his private retreat.
There he stayed in quiet luxury until assassinated one night in 404
B.C. 53
11 The participants in the First Alkibiades ,
Socrates and Alkibiades, seem at first blush to be thoroughly
contrasting. To start with appear¬ ances, the physical difference between
the two men who meet this day could hardly be more extreme. Alkibiades,
famous throughout Greece for his beauty, is face to face with Socrates
who is notoriously ugly. They are each represented in a dramatic work of
the period. Aristophanes refers to Alkibiades as a young lion; he
is said to have described 54 Socrates as a
"stalking pelican." Alkibiades is so handsome that his
figure and face served as a model for sculptures of Olympian gods on
high temple friezes. Socrates is referred to as being very like the
popular representation of siloni and satyrs; the closest he attains
to Olympian heights is Aristophanes' depiction of him hanging in a
basket from the 55 rafters of an old house.
Pre-eminent among citizens for his wealth and his family,
Alkibiades is speaking with a man of non-descript lineage and
widely advertised poverty. Alkibiades, related to a family of great men,
is the son of Kleinias and Deinomakhe, both of royal lineage. Socrates,
who is the son of Sophroniskos the stone-mason and Phainarete the
midwife, does not seem to have such a spectacular ancestry.
Even as a boy Alkibiades was famous for his desire to win and his
ambition for power. Despite being fearful of it, people are familiar with
political ambition and so believe they understand it. To them, Alkibiades
seemed the paragon of the political man. But Socrates was more of a
mystery to the typical Athenian. He seemed to have no concern with im¬
proving his political or economic status. Rather, he seemed preoccupied
to the point of perversity with something he called 'philosophy, 1
literally 'love of wisdom.' Alkibiades sought political office as soon
12 as he became of
age. He felt certain that in politics he could rise above all Athenians
past and present. His combined political and military success made it
possible for him to be the youngest general ever elected. Socrates, by
contrast, said that he was never moved to seek office; he served only
when he was required (by legal appointment). In his lifetime Socrates was
considered to have been insufficiently concerned with his fellows'
opinions about him, whereas from his childhood people found Alkibiades'
attention to the demos remarkable - in terms either of his quickness at
following their cue, or of his setting the trend. Both men were
famous for their speaking ability, but even in this they contrast dramatically.
The effects of their speech were different. Alkibiades could persuade
peop le, and so nations, to adopt his political proposals, even
when he had been regarded as an enemy. Socrates' effect was far less
widespread. Indeed, for most people acquainted with it, Socratic speech
was suspect. People were moved by Alkibiades' rhetoric despite their
knowing that that was his precise intention. It was Socrates, however,
who was accused of making the weaker argument defeat the stronger, though
he explicitly renounced such intentions. Alkibiades' long moving speeches
persuaded many large assemblies. Socrates' style of question and answer
was not nearly so popular, and convinced fewer men. Socrates is
reputed to have never been drunk, regardless of how much he had imbibed. This
contrasts with the (for the most part) notoriously indulgent life of
Alkibiades. He remains famous to this day for several of his drunken
escapades, one of which is depicted by Plato in a famous dialogue. The
Symposium . Though both men were courageous and competent in war,
Socrates never went to battle unless called upon, and
distinguished himself only
13 during general retreats.
Alkibiades was so eager for war and all its attendant glories that he
even argued in the ekklesia for an Athenian escalation of the war. He was
principally responsible for the initiation of the Sicilian expedition and
was famous for his bravery in wanting to go ever further forward in
battle. It was, instead, battles in speech for which Socrates seemed
eager; perhaps it is a less easily observed brand of courage which is
demanded for advance and retreat in such clashes. Both men could
accommodate their lifestyles to fit with the circum¬ stances in which
they found themselves, but as these were decidedly dif¬ ferent, so too
were their manners of adaptation. Socrates remained ex¬ clusively in
Athens except when accompanying his fellow Athenians on one or two
foreign wars. Alkibiades travelled from city to city, and seems to have
adjusted well. He got on so remarkably well at the Persian court that the
Persians thought he was one of them; and at Sparta they could not believe
the stories of his love of luxury. But, despite his outward con¬ formity
with all major Athenian conventions, Socrates was st ill con¬
sidered odd even in his home city. In a more speculative vein, one
might observe that neither Alkibiades nor Socrates are restricted because
of their common Athenian citizenship, but again in quite different
senses. Socrates, willing (and eager) to converse with, educate and
improve citizen and non-citizen alike, rose above the polis to dispense
with his need for it. Alkibiades, it seems, could not do without
political or public support (as Socrates seems to have), but he too did
not need Athens in particular. He could move to any polis and would be
recognized as an asset to any community. Socrates didn't receive such
recognition, but he did not need it. Still, Alkibiades, like
Socrates, retained an allegiance to Athens until his
. 14 death and continued to
perform great deeds in her service. Despite their outwardly
conventional piety (e.g., regular observance of religious festivals),
Alkibiades and Socrates were both formally charged with impiety, but the
manner of their alleged violations was different. Alkibiades was
suspected of careless blasphemy and con¬ temptuous disrespect, of
profaning the highest of the city's religious Mysteries; Socrates was
charged with worshipping other deities than those allowed, but was
suspected of atheism. Though both men were convicted and sentenced to
death, Alkibiades refused to present himself for trial and so was
sentenced in absentia . Socrates, as we know, conducted his own defense,
and, however justly or unjustly, was legally convicted and condemned.
Alkibiades escaped when he had the chance and sought refuge in Sparta;
Socrates refused to take advantage of a fully arranged escape from his
cell in Athens. Alkibiades, a comparatively young man, lived to see his
sentence subsequently withdrawn. Socrates, an old man in 399 B.C. seems
to have done his best not to have his sentence reduced. His rela¬
tionship with Athens had been quite constant. Old charges were easily
brought to bear on new ones, for the Athenians had come to entertain a
relatively stable view of him. Alkibiades suffered many reverses of
status with the Athenians. Surprised from his sleep, Alkibiades met
his death fighting with assassins, surrounded by his enemies. After
preparing to drink the hem¬ lock, Socrates died peacefully, surrounded by
his friends. It seems likely that Plato expects these contrasts to
be tacitly in the mind of the reader of the First Alkibiades . They
heighten in various ways the excitement of this dialogue between two men
whom every Athenian of their day would have seen, and known at least by
reputation. 15
Within a generation of the supposed time of the dialogue, moreover, each of
the participants would be regarded with utmost partiality. It is un¬
likely that even the most politically apathetic citizen would be neutral
or utterly indifferent concerning either man. Not only would every
Athenian (and many foreigners) know each of them, most Athenians would
have strong feelings of either hatred or love for each man. The extra¬
ordinary fascination of these men makes Plato's First Alkibiades all the
more inviting as a natural point at which to begin a study of political
philosophy. In the First Alkibiades , Socrates and Alkibiades,
regarded by posterity as respective paragons of the philosophic life and
the political life, are engaged in conversation together. As the dialogue
commences, Alkibiades in particular is uncertain as to their relationship
with each other. Especially interesting, however, is their implicit
agreement that these matters can be clarified through their speaking with
one another. The reader might first wonder why they even bother
with each other; and further wonder why, if they are properly to be
depicted together at all, it should be in conversation. They could be
shown in a variety of situations. People often settle their differences
by fighting, a challenge to a contest, or a public debate of some kind.
Alkibiades and Socrates converse in private. The man identified with
power and the man identified with knowledge have their showdown on the
plain of speech. The Platonic dialogue form, as will hopefully be
shown in the commentary, is well suited for expressing political philosophy
in that it allows precisely this confrontation. A Platonic dialogue is
different from a treatise in its inclusion of drama. It is not a
straightforward explication for it has particular characters who are
interacting in •-
16 specific ways. It is words
plus action, or speech plus deed. In a larger sense, then, dialogue
implicitly depicts the relation between speech and deed or theory and
practice, philosophy and politics, and re¬ flecting on its form allows
the reader to explore these matters. In addition, wondering about
the particulars of Socratic speech may shed light upon how theory relates
to practice. As one attempts to discover why Socrates said what he did in
the circumstances in which he did, one becomes aware of the connections
between speech and action, and philosophy and politics. One is also
awakened to the important position of speech as intermediary between
thought and action. Speech is unlike action as has just been indicated. But
speech is not like thought either. It may, for instance, have immediate
consequences in action and thus demand more rigorous control. Philosophy
might stand in relation to thought as politics does to action;
understanding 'political philosophy' then would involve the complex
connection between thought and speech, and speech and action; in other
words, the subject matter appropriate to political philosophy embraces
the human condition. The Platonic dialogue seems to be in the middle
ground by way of its form, and it is up to the curious reader to
determine what lies behind the speech, on both the side of thought and
action. Hopefully, in examining the First Alkibiades these general
observations will be made more concrete. A good reader will take special
care to observe the actions as well as the arguments of this dialogue
between the seeker of knowledge and the pursuer of power.
Traditionally, man's ability to reason has been considered the
essential ground for his elevated status in the animal kingdom. Through
reason, both knowledge and power are so combined as to virtually place
man on an altogether higher plane of existence. Man's reason allows him
17
to control beasts physically much stronger than he; moreover, herds
out- 56 number man, yet he rules them. Both
knowledge and power have long attracted men recognizably superior
in natural gifts. Traditionally, the highest choice a man could
57 confront was that between the contemplative and the active
life. In order to understand this as the decision par excellence , one
must compre¬ hend the interconnectivity between knowledge and power as
ends men seek. One must also try to ascertain the essential features of
the choice. For example, power (conventionally understood) without
knowledge accomplishes little even for the mighty. As Thrasymakhos was
reminded, without knowledge the efforts of the strong would chance to
work harm upon them¬ selves as easily as not ( Republic 339 a-e).
The very structure of the dialogue suggests that the reader
attentive to dramatic detail may learn more about the relation between
power and knowledge and their respective claims to rule. Alkibiades and
Socrates both present arguments, and the very dynamics of the conversation
(e.g., who rules in the dialogue, what means he uses whereby to secure
rule, the development of the relationship between the ruler and the
ruled) promise to provide material of interest to this issue. B.
Knowledge, Power and their Connection through Language As this
commentary hopes to show, the problem of the human use of language
pervades the Platonic dialogue known as the First Alkibiades . Its
ubiquity may indicate that one's ability to appreciate the signifi¬ cance
of speech provides an important measure of one's understanding of the
dialogue. Perhaps the point can be most effectively conveyed by simply
indicating a few of the many kinds of references to speech with which it
is replete. Socrates speaks directly to Alkibiades in complete
18 privacy, but he employs numerous conversational devices
to construct circumstances other than that in which they find themselves.
For example, Alkibiades is to pretend to answer to a god; Socrates feigns
a dialogue with a Persian queen; and at one point the two imagine
themselves in a discussion with each other in full view of the Athenian
ekklesia . Socrates stresses that he never spoke to Alkibiades
before, but that he will now speak at length. And Socrates emphasizes
that he wants to be certain Alkibiades will listen until he finishes
saying what he must say. In the course of speaking, Socrates employs both
short dialogue and long monologue. Various influences on one's speaking
are mentioned, including mysterious powers that prevent speech and
certain matters that inherently demand to be spoken about. The two men
discuss the difference between asking and answering, talking and
listening. They refer to speech about music (among other arts), speech
about number, and speech about letters. They are importantly concerned
with public speaking, implicitly with rhetoric in all its forms. They
reflect upon what an advisor to a city can speak persuasively about. They
discuss the difference between per¬ suading one and many. The two men
refer to many differences germane to speaking, such as private and public
speech, and conspiratorial and dangerous speech. Fables, poems and
various other pictures in language are both directly employed by Socrates
and the subject of more general discussion. Much of the argument centers
on Alkibiades' understanding of what the words mean and on the implicit
presence of values embedded in the language. They also spend much time
discussing, in terms of rhetorical effect, the tailoring of comments to
situations; at one point Socrates indicates he would not even name
Alkibiades' condition if it weren't for the fact that they are completely
alone. They refer to 1
19 levels of knowledge
among the audience and the importance of this factor in effectively
persuading one or many. And in a larger sense already alluded to,
reflection on Plato's use of the dialogue form itself may also reveal
features of language and aspects of its relation to action. Socrates
seems intent upon increasing Alkibiades' awareness of the many dimensions
to the problem of understanding the role of language in the life of man.
Thus the reader of the First Alkibiades is invited to share as well in
this education about the primary means of education: speech, that
essential human power. Perhaps it may be granted, on the basis of
the above, that the general issue of language is at least a persistent
theme in the dialogue. Once that is recognized it becomes much more
obvious that speech is connected both to power, or the realm of action,
and knowledge, the realm of thought. Speech and power, in the politically
relevant sense, are thoroughly interwoven. The topics of freedom of
speech and censorship are of paramount concern to all regimes, at times
forming part of the very foundation of the polity. This is the most
obvious connection: who is to have the right to speak about what, and who
in turn is to have the power to decide this matter. Another aspect of
speech which is crucial politically seems to be often overlooked and that
is the expression of power in commands, instruction and explanation. The
more subtle side of this political use of speech is that of education.
Maybe not all political men do understand education to be of primary
importance, but that clearly surfaces as one of the things which
Alkibiades learns in this dialogue. At the very least, the
politically ambitious man seeks control over the education of others in
order to secure his rule and make his political achievements lasting.
With respect to education, the skilled .
20
user of language has more power than someone who must depend solely
on actions in this regard. Circumstances which are actually unique may
be endlessly reproduced and reconsidered. By using speech to teach,
the speaker gains a power over the listener that might not be available
had he need to rely upon actions. Not only can he tell of things that
cannot be seen (feelings, thoughts and the like), but he can invent
stories about what does not even exist. Myths and fables are
generally recognized to have pedagogic value, and in most societies form
an essential part of the core set of beliefs that hold the people
together. Homer, Shakespeare and the Bible are probably the most
universally recognized examples influencing western society. To mold and
shape the opinions of men through fables, lies and carefully chosen
truths is, in effect, to control them. Such use of language can be
considered a weapon also, propaganda providing a most obvious example.
Hobbes, for instance, recognizes these qualities of speech and labels
them 'abuses.' Most of the abuse appears to be consti¬ tuted by the
deception or injury caused another; Hobbes all the while 58
demonstrates himself to be master of the insult. Summing up these
observations, one notices that speech plays a crucial part in the realm
of power, especially in terms of education, a paramount political
activity. The connection of speech to knowledge, the realm of
thought is much less in need of comment. The above discussion of
education points to the underlying concern about knowledge. Various
subtleties in language (two of which - metaphor and irony - will be
presently introduced), however, make it more than the instrument through
which knowledge is gained, but actually may serve to increase a person's
interest in attaining knowledge; that is, they make the end, knowledge,
more attractive. .
21 A most interesting understanding of
speech emerges when one abstracts somewhat from actual power and actual
knowledge to look at the relationship between the realms of action and
thought. Action and thought, epitomized by politics and philosophy, both
require speech if they are to interact. Politics in a sense affects
thought, and thought should guide action. Both of these exchanges are
normally effected through speech and may be said to describe the bounds
of the subject area of political philosophy. Political philosophy deals
with what men do and think (thus concerning itself with metaphysics, say,
to the extent to which metaphysical considerations affect man). Political
philosophy may be understood as philosophy about politics, or philosophy
that is politic. In this latter sense, speech via the expression of
philosophy in a politic manner, suggests itself to be an essential aspect
to the connection be¬ tween these two human realms - thought and action.
The reader of the First Alkibiades should be alert to the ways in which
language pertains to the relationship between Socrates and Alkibiades.
For example, their concern for each other and promise to continue
conversing might shed some light on the general requirements and
considerations power and knowledge share. As has already been indicated,
considerable attention is paid to various characteristics of speech in
the discussion between the two men. Rhetoricians, politicians,
philosophers and poets, to mention but a few of those whose activity
proceeds primarily through speech, are aware of the powers of language
and make more or less subtle use of various modes of speech. The First
Alkibiades teaches about language and effectively employs many linguistic
devices. Called for at the outset is some introductory mention of a few
aspects of language, in order that their use in the dialogue may be more
readily reflected upon.
22
Metaphor, a most important example, is a complex and exciting
feature of language. A fresh and vivid metaphor is a most effective
influence on the future perceptions of those listening. It will often
form a lasting impression. Surely a majority of readers are familiar with
the experience of being unable to disregard an interpretation of
something illuminated by an especially bright metaphor. Many people have
probably learned to appreciate the surging power of language by having
themselves become helplessly swamped in a sea of metaphor. There are
two aspects to the power of attracting attention through language that a
master of metaphor, especially, can summon. Both indicate a rational
component to language, but both include many more features of reason than
mere logical deduction. The first is the power that arises when someone
can spark connections between apparently unrelated parts of the world.
This is an interesting and exciting feature of man's rational capability,
deriving its charm partly from the natural delight people apparently take
in having connections drawn between seemingly distinct objects.
The other way in which he can enthrall an audience is through
harvesting some of the vast potential for metaphors that exist in the
natural fertility of any language. There are metaphors in everyday speech
that remain unrecognized (are forgotten) for so long that dis¬ belief is
experienced when their metaphoric nature is revealed. Men's opinions
about much of the world is influenced by metaphor. A most im¬ portant set
of examples involve the manner in which the invisible is spoken of almost
exclusively through metaphoric language based on the visible. This
curious feature of man's rationality is frequently ex¬ plored by Plato.
The most famous example is probably Socrates' %
23 description of
education as an ascent out of a cave ( Republic , 514a.ff.), but another
perhaps no less important example occurs in the First Alkibiades . Not
only is the invisible metaphorically explained via some¬ thing visible,
but the metaphor is that of the organ of sight itself (cf. 132c-133c,
where the soul and the eye are discussed as analogues)! The general
attractiveness of metaphor also demonstrates that man is essentially a
creature with speech. That both man and language must be understood in
order for a philosophic explanation to be given of either, is indicated
whenever one tries to account for the natural delight almost all people
take in being shown new secrets of meaning, in discovering the richness
of their own tongue, and in the reworking of images - from puns and
complex word games to simple metaphors and idiomatic expressions. Man's
rationality is bound up with language, and rationality may not be
exclusively or even primarily logic; it is importantly metaphor. Subtle use is
often made of the captivating power of various forms of expression. One
of the most alluring yet bedevilling of these is irony. Irony never
unambiguously reveals itself but suggests mystery and disguise. This
enhances its own attractiveness and simultaneously increases the charm of
the subject on which irony is played; there seems little doubt that
Socrates and Plato were able to make effective use of this feature for
they are traditionally regarded as the past masters of it. Eluding
definition, irony seems not amenable to a simple classifi- catory scheme.
It can happen in actions as well as speeches, in drama as well as actual
life. It can occur in an infinite variety of situations. One cannot be told how
exactly to look for irony; it cannot be reduced to rules. But to discover its
presence on one's own is thoroughly- exciting (though perhaps biting).
The possibility of double ironies increases the anxiety attending ironic speech
as well as its attractive¬ ness. The merest suggestion of irony can upset
an otherwise tranquil moment of understanding. Probably all listeners of
ironic speech or witnesses of dramatic irony have experienced the
apprehensiveness that follows such an overturned expectation of simplicity.
It appears to be in the nature of irony that knowledge of its
presence in no way diminishes its seductiveness but rather enhances its
effectiveness. Once it is discovered, it has taken hold. This charming
feature of Socrates' powerful speech, his irony, is acknowledged by Alkibiades
even as he recognizes himself to be its principal target (Symposium 215a-216e).
The abundance of irony in the First Alkibiades makes it difficult for any
passage to be interpreted with certitude. It is likely that the following
commentary would be significantly altered upon the recognition of a yet
subtler, more ironic, teaching in the dialogue. It is thus up to each
individual, in the long run, to make a judgement upon the dialogue, or
the interpretation of the dialogue; he must be wary of and come to
recognize the irony on his own. The Superior Man is a Problem for
Political Philosophy One mark of a great man is the power of
making lasting impressions upon people he meets. Another is so to have
handled matters during his life that the course of after events is
continuously affected by what he did. Winston Churchill
Great Contemporaries It may be provisionally suggested that both
Socrates and Alkibiades are superior men, attracted respectively to
knowledge and power.
25 Certainly a surface reading of the First Alkibiades would
support such a judgement. One could probably learn much about the
character of the political man and the philosophic man by simply
observing Socrates and Alkibiades. It stands to reason that a wisely
crafted dialogue repre¬ senting a discussion between them would reveal to
the careful, reflective reader deeper insight into knowledge, power and
the lives of those dedicated to each. Socrates confesses that
he is drawn to Alkibiades because of the youth's unquenchable
ambition for power. Socrates tells Alkibiades that 59
the way to realizing his great aspirations is through the
philosopher. Accordingly Socrates proceeds to teach Alkibiades that the
acquisition of knowledge is necessary in order that his will to power be
fulfilled. By the end of the dialogue, Socrates' words have managed to
secure the desired response from the man to whom he is attracted:
Alkibiades in a sense redirects his eros toward Socrates. This sketch,
though super¬ ficial, bespeaks the dialogue's promise to unravel some of
the mysterious connections between knowledge and power as these phenomena
are made incarnate in its two exceptional participants. The
significance of the superior man to political philosophy has, for the
most part, been overlooked in the last century or so, the ex¬
ceptions being rather notorious given their supposed relation to the
largest political event of the Twentieth Century.^ in contemporary
analysis, the importance of great men, even in the military, has tended
to be explained away rather than understood. This trend may be partly
explained by the egalitarian views of the dominant academic observers of
political things. As the problem was traditionally understood, the
superior man 26 tends to
find himself in an uneasy relationship with the city. The drive, the
erotic ambition distinguishes the superior man from most others, and in
that ambition is constituted their real threat to the polity as well as
their real value. No man who observed a war could persist in the belief
that all citizens have a more or less equal effect on the outcome, on
history. A certain kind of superiority becomes readily apparent in battle
and the bestowal of public honors acknowledges its political value. Men
of such manly virtue are of utmost necessity to all polities, at least in
times of extremes. Moreover, political philosophers have heretofore
recognized that there are other kinds of battlefields upon which superior
men exercise their evident excellence. It is, however, during times
of peace that the community ex¬ periences fear about containing the
lions,^ recognizing that they constitute an internal threat to the
regime. Thus, during times of peace a crucial test of the polity is made.
A polity's ability to find a fitting place for its noble men speaks for
the nobility of the polity. In many communities, the best youths
turn to narrow specialization in particularized scientific disciplines,
or to legal and academic sophistry, to achieve distinction. It is not
clear whether this is due to the regime's practicing a form of politics
that attracts but then debases or corrupts the better sort of youth, or
because the best men find its politics repugnant and so redirect their
ambitions toward these other pursuits. In any event, the situation in
such communities is a far cry from that of the city which knows how to
rear the lion cubs. Not surprisingly, democracy has always had
difficulty with the superior men. Ironically, today the recognition of
the best men in society arises most frequently among those far from power
or the desire 27 to enter
politics. Those who hold office in modern democracies are not able to
uphold the radically egalitarian premises of the regime and still
consistently acknowledge the superiority of some men. This has reper¬
cussions at the base of the polity: the democratic election. Those bent
on holding public office are involved in a dilemma, a man's claim to
office is that he possesses some sort of expertise, yet he cannot main¬
tain a platform of simple superiority in an egalitarian regime. Many
aspirants are required to seek election on the basis of some feature of
their character (such as their expenditure of effort) instead of their
skills, and such criteria are often in an ambiguous relation to the
duties of office. The problem is yet more far-reaching. Those
regimes committed to the enforced equalization of the unequal incongruously
point with pride to the exceptional individuals in the history of their
polities. A standard justification for communist regimes, for example, is
to refer to the distinguished figures in the arts and sports of their
nation. Implicitly the traditional view has been retained: great men are
one of the measures of a great polity. A less immediate but
more profound problem for political philosophy is posed by the very
concept of the best man. Three aspects of this problem shall be raised, the
last two being more fully discussed as they arise in commenting upon the
First Alkibiades . All who have given the matter some thought will
presumably agree that education is, in part at least, a political
concern, and that the proper nurture of youth is a problem for political
philosophy. According¬ ly, an appropriate beginning is the consideration
of the ends of nurture. The question of toward what goal the nurture of
youth is to aim is a
28 question bound up with the views of what
the best men are like. This is inevitably the perspective from which
concerned parents adopt their own education policies. Since the young are
nurtured in one manner or another regardless, all care given to the
choice of nurtures is justified It must be remembered that children
will adopt models of behavior regardless of whether their parents have
guided their choice. As the tradition reminds is, the hero is a
prominent, universal feature in the nurture of children. Precisely for
that reason great care ought to be taken in the formation and
presentation (or representation) of heroic men and deeds. The heroes of
history, of literature and of theater presumably have no slight impact on
the character of youth. For instance canons of honesty are suggested by
the historical account of young Lincoln, codes of valor have been
established by Akhilleus, and young men's opinions about both
partnerships and self-reliance are being in¬ fluenced by the Western
Cowboy. The religious reverence with which many young observe the
every word and deed of their idols establishes "the hero" as a
problem of considerable significance. One could argue that the hero
should be long dead. His less than noble human characteristics can be
excised from the public memory and his deeds suitably embellished (cf.
Republic 391d.6). Being dead, the possibility of his becoming decadent or
otherwise evil is eliminated. Although attractive, this suggestion
presents a rather large problem, especially in a society in which there
is any timocratic element. The honors bestowed on living men may be
precisely what trans¬ forms them into the "flesh and blood"
heroes of the young. Should honors not be delivered until after a man's
death, however (when he cannot turn to drink, women or gambling), it may
dampen many timocrats' aspirations. 62
*
29 If the superior man is not recognized during his lifetime,
he must at least obtain some assurance of a lasting honor after his
death. This might be difficult to do, if he is aware of how quickly and
completely the opinions of those bestowing honor, the demos , shift.
Since this turned out to assume great importance historically for
Alkibiades, the reader of the First Alkibiades might be advised to pay
attention to what Socrates teaches the young man about power and
glory. The role of heroes extends beyond their pedagogic function
of supplying models to guide the ambitions of youth. Heroes contribute
to the pride of a family, help secure the glory of a nation and provide
a tie to the ancestral. Recognition of this should suffice to
indicate that the problem of superior men is a significant one for
political philosophy. Presumably any political theory
requires some account of the nature of man. It may already be clear at
this point that a compre¬ hensive philosophic account of man's nature
must include a consideration of the superior man. Traditionally, in fact,
the concept of the best man has been deemed central to an adequate
understanding. Many people who would readily grant the importance of the
problem of understanding human nature consider it to be a sort of
statistical norm. That position does not concede the necessity of looking
toward the best man. For the immediate purpose of analyzing this
dialogue, it seems sufficient that the question be reopened, which may be
accomplished simply by indicating that there are problems with seeing
nature as "the normal." Without any understanding of the
best man (even one who is not actualized), comparison between men would
be largely meaningless and virtually any observation of, or statement
about persons would be .
30 ambiguous since they involve terms which imply
comparing men on some standard. There would be no consistent way to
evaluate any deviation whatsoever from the normal. For example, sometimes
it is better to be fierce, sometimes it is not. If one describes a man as
being more capable of fierceness than most men one would not know how to
evaluate him relative to those men, without more information. It is
necessary to have an understanding of the importance of those matters in
which it is better to be fierce, to the best man. If it is important for
the best man to be capable of being very fierce, then, and only then,
it seems, could one judge a man who is able to be fierce at times to be
a better man with respect to that characteristic. Any meaningful
description of him, then depends on the view of the best man. This is
implicit in the common sense understanding anyway. The statement "X
is more capable of fierceness than most men,' prompts an implicit
qualitative judgement in most men's minds on the basis of their views of
the best man. The statement "X has darker hair than most men,"
does not, precisely because most understandings of the best man do not
specify hair color. A concept of the best is necessary if a man is
to be able to evaluate his position vis a vis others and discern with
what he must take pains with himself. The superior man understands this.
Aiming to actualize his potential to the fullest in the direction of his
ideal, he obviously does not compete with the norm. He strives with the
best of men or even with the gods. Whenever he sees two alternatives, he
immediately wonders which is best. The superior youth comes to learn that
a central question of his life is the question of with whom is his
contest. Having raised this second aspect of the philosophic
concern about
31 the best man, one is led quite naturally to a related
problem he poses for political philosophy with respect to what has been a
perennial concern of the tradition, indeed perhaps its guiding question,
namely: "What is the best regime?" The consideration
of the best regime may be in light of a concern for the "whole"
in some sense, or for the citizen or for the "whole" in some
sense, or from some other standpoint. Apart from the problem of how to
understand "the whole," a large philosophic question remains
regarding whether the best for a city is compatible with the best for a
man. The notion of the superior man provides a guide of some sort (as the
'norm' does not) to the answer regarding what is best for a man; the view
of the best regime suggests (as the 'norm' does not) what is good for a
city. But what must one do if the two conflict? As has become
apparent, the complex question of the priority of the individual or the
social order is raised by the very presence of the superior man in a
city. The dialogue at various points tacitly prompts the reader to
consider some of the intricacies of this issue. Upon
considering what is best for man generally, for a man in particular, and
for a city, one notices that most people have opinions about these
things, and not all of them act upon these opinions. One eventually
confronts a prior distinction, the difference between doing what one
thinks is good, knowing what is good, and doing what one knows is good.
While it is not entirely accurate to designate them respectively as
power, knowledge, and knowledge with power, these terms suggest how the
problems mentioned above are carried through the dialogue in terms of the
concern for the superior man. Provisionally, one may suggest that
Alkibiades provides a classic .
32 example of the superior man. In a sense not
obvious to the average Athenian, so too is Socrates. They both pose
distinct political problems, and they present interesting philosophic
puzzles as well. But there is another reason, no less compelling
for being less apparent, that recommends the study of the First
Alkibiades . Since antiquity the First Alkibiades has been
subtitled, "On the Nature of Man." At first blush this subtitle
63 is not as fitting as the subtitles of some other aporetic
dialogues. The question "What is the nature of Man?" is
neither explicitly asked nor directly addressed by either Socrates
or Alkibiades, yet the reader is driven to consider it. One might
immediately wonder why " Alkibiades " is the title of a
dialogue on the nature of man, and why Socrates chooses to 64
talk about man as such with Alkibiades. Perhaps Alkibiades is par¬
ticularly representative, or especially revealing about man. Perhaps he
is unique or perhaps he is inordinately in need of such a discourse. One
must also try to understand Socrates' purpose, comprehend the
significance of any of Alkibiades' limitations, and come to an
understanding of what the character of his eros is (e.g., is it directed
toward power, glory, or is it just a great eros that is yet to be
directed). In the course of grappling with such matters, one also
confronts one's own advantages and liabilities for the crucial and
demanding role of dialogic partner. Perhaps the very things a
reader fastens his attentions upon are indicative of something essential
about his own particular nature. If the reader is to come to a decision
as to whether the subtitle affixed in antiquity to the dialogue is indeed
appropriate, these matters must be judged in the course of considering
the general question of whether the dialogue is indeed about "the
nature of man." The mystery and challenge of a dialogue may
serve to enhance its . "•
33
attractiveness. One of the most intriguing philosophic problems of
the First Alkibiades may well be the question of whether it is in fact
about man's nature. With a slight twist, the reader is faced with
another example of Socrates' revision of Meno's paradox ( Meno 80e).
Sometimes when a reader finds what he is looking for, discovering
something he was hoping to discover, it is only because his narrowness of
attention or interest prevented him from seeing conflicting material, and
because he expended his efforts on making what he saw conform to his
wishes. The good reader of a dialogue will, as a rule, take great care to
avoid such myopia. In order to find out whether the dialogue is primarily
about the nature of man (and if so, what is teaches about the nature of
man), the prudent reader will caution himself against begging the
question, so to speak. If one sets out ignorant of what the nature of man
is, one may have trouble recognizing it when one finds it. Conversely, to
complete the paradox, to ask how and where to find it (in other words,
inquiring as to how one will recognize it), implies that one ought
already know what to expect from knowledge of it. This could be
problematic, for the inquiry may be severely affected by a preconceived
opinion about which question will be answered by it. "Philosophical
prejudices" should have no part in the search for the nature of
man. This is a difficulty not faced to the same extent by other
aporetic dialogues which contain a question of the form "What
is _?" Once this first question is articulated, the normal way
of pursuing the answer is open to the reader. He may proceed naturally
from conventional opinion, say, and constantly refine his views according
to what he notices. It ap¬ pears, however, that the reader of the First
Alkibiades cannot be certain that it will address the nature of
man, and the dialogue doesn't seem to .
34 directly commence with a
consideration of conventional opinions. Most readers of the dialogue know
what a man is insofar as they could point to one (111b,ff.), but very few
know what man is. Perhaps as the dialogue unfolds the careful reader will
be educated to a point beyond being ignorant of how to look for something
that he mightn't recognize even when he found it. By this puzzle the
reader is drawn more deeply into the adventure of touching on the
mysteries of his own nature. To borrow a metaphor from a man who likely
knew more about Socrates and Alkibiades than has anyone else before or
since, the same spirit of adventure permeates the quest for knowledge of
man as characterizes sailing through perilous unknown waters on a tiny,
frail craft, attempting to avoid perishing on the rocks. One can only
begin with what one knows, such as some rudimentary views about
navigation technique and more or less correct opinions about one's home
port. Upon coming to appreciate the difficulties of knowing, fully and
honestly, one's own nature, one realizes how treacherous is the journey.
In all likelihood one will either be swamped, or continue to sail
forever, or cling to a rock under the illusion of having reached the far
shore. This thesis is an introduction to the First Alkibiades .
Through their discussion, and more importantly through his own
participation in their discussion, Socrates and Alkibiades reveal to the
reader something about the nature of man. Both the question of man's
nature and the problem of the superior man have been neglected in recent
political theory; especially the connection between them has been
overlooked. To state the thesis of this essay with only slight
exaggeration: an under¬ standing of politics - great and small - is
impossible without knowledge of man, and knowledge of man is impossible
without knowledge of the best .
35 of men. This thesis, investigating the dialogue entitled
the First Alkibiades , focusses on certain things the dialogue seems to
be about, without pretending to be comprehensive. It is like the dialogue
in one respect at least: it is written in the interest of opening the
door to further inquiry, and not with subsequently closing that door.
Through a hopefully careful, critical reading of the First Alkibiades , I
attempt to show that the nature of man and the superior man are centrally
tied both to each other and to any true understanding of (great)
political things. The spirit of the critique is inspired by the
definition of a "good critic" ascribed to Anatole France:
"A good critic is one who tells the story of his mind's adventures
among the masterpieces."
AGON AND
ALKIBIADES: AN INTERPRETATION OF PLATO'S FIRST ALKIBIADES
The First Alkibiades begins abruptly with the words "Son of
Kleinias, I suppose you are wondering..." The reader does not know
where the dialogue is taking place; nor is he informed as to how Socrates
and Alkibiades happened to meet on this occasion. Interlocutors in
other direct dramatic dialogues may sooner or later reveal this
information in their speeches. In narrated dialogues, Socrates or another
participant may disclose the circumstances of the discussion. In the case
of this t dialogue, however, no one does. The reader
remains uncertain that it is even taking place in Athens proper and not
in the countryside about the city. It may be reasonable to suggest that
in this case the setting of the dialogue does not matter, or more
precisely, the fact that there is no particular setting is rather what
matters. The discussion is not dependent on a specific set of
circumstances and the dialogue becomes universally applicable. The
analysis will hopefully show the permanence of the problems thematically
dealt with in the dialogue. Philosophically it is a discussion in no way
bound by time or place. Further support is lent to this suggestion by the
fact that there is no third person telling the story and Socrates is not
reporting it to anyone. Nobody else is present. Plato
presents to the reader a dramatic exchange which is emphatically private.
Neither Socrates nor Alkibiades have divulged the events of this first
dialogic encounter between the man and the youth. The thorough
privacy of the discussion as well as the silence concerning
36
37 the setting help to impute
to the reader an appreciation of the autonomous nature of the discourse.
There is a sense in which this dialogue could happen whenever two such
people meet. Consequently, the proposition implicitly put forth to the
reader is that he be alive to the larger significance of the issues
treated; the very circumstances of the dialogue, as mentioned here,
sufficiently support such a suggestion so as to place the onus for the
argument in the camp of those who want to restrict the relevance of the
dialogue to Socrates and Alkibiades in 5th century Athens.
That the two are alone is a feature that might be important to much
of the reader's interpretation, for attention is drawn to the fact by the
speakers themselves. Such privacy may have considerable philosophic
significance, as it has a clear effect on the suitability of some of the
material being discussed (e.g., 118b.5). There is no need for concern
about the effect of the discussion upon the community as there might be
were it spoken at the ekklesia ; the well-being of other individuals need
not dissuade them from examining radical challenges to conventional
views, as might be the case were they conversing in front of children or
at the marketplace; and there is no threat to either partici¬ pant, as
there might be were they to insult or publicly challenge some¬ one's
authority. Conventional piety and civic-mindedness need place no
limitations on the depth of the inquiry; the only limits are those im¬
plicit in the willingness and capability of the participants. For
example, an expectation of pious respect for his guardian, Perikles,
could well interfere with Alkibiades' serious consideration of good
statesmanship. The fact that they are unaccompanied, that Perikles is
spoken of as still living, and that Socrates first mentions Perikles in
41 .
38 a respectful manner (as per
118c, 104b-c), permits a serious (if finally not very flattering)
examination of his qualifications. Socrates and Alkibiades are alone and
are not bound by any of the restrictions normally faced in discussions
with an audience. The reader's participa¬ tion, then, should be
influenced by this spirit of privacy, at least in so far as he is able to
grasp the political significance of the special "silence" of
private conversation. Somewhere in or about their usual haunts,
Socrates and Alkibiades chanced to meet. If their own pronouncements can
be taken literally, they were in the process of seeking each other.
Alkibiades had been about to address Socrates but Socrates began first
(104c-d). Since his daimon or god had only just ceased preventing him
from talking to Alkibiades (105d), Socrates was probably waiting at
Alkibiades' door (106e.10). Although the location is unknown,
the reader may glean from various of their comments a vague idea of the
time of the dialogue. In this case, it appears, the actual dramatic date
of the dialogue is of less importance than some awareness of the substance
of the evidence enabling one to deduce it. Alkibiades is not yet twenty
(123d) but he must be close to that age for he intends shortly to make
his first appearance before the Athenian ekklesia (106c). Until today
Socrates had been observing and following the youth in silence; they had
not spoken to each other. This corroborates the suggestion that the
action of the dialogue takes place before the engagement at Potidaia
(thus before the outbreak of the Peloponnesian War, i.e. before 432 B.C.)
for they knew each other by that time ( Symposium, 219e). Perikles and
his sons are referred to as though they were living, offering
further .
.
39 confirmation
that the dramatic date is sometime before or about the onset of the war
with Sparta. The action of the dialogue must take place be¬ fore that of
the Protagoras ,^ since Socrates has by then a reputation of sorts among
the young men, whereas Alkibiades seems not to have heard very much of
Socrates at the beginning of the First Alkibiades . Socrates
addresses Alkibiades as the son of Kleinias. This per¬ haps serves as a
reminder to the young man who believes himself so self- sufficient as to
be in need of no one (104a). In the first place, his uniqueness is
challenged by this address. His brother (mention of whom occurs later in
the dialogue - 118e.4) would also properly turn around in response to
Socrates' words. More importantly, however, it indicates that he too
descended from a family. His ancestry is traced to Zeus (121a), his
connections via his kin are alleged to be central to his self-esteem
(104b), and even his mother, Deinomakhe, assumes a role in the discussion
(123c) . He is attached to a long tradition. Through observation of
Alkibiades' case in particular, the fact that a man's nature is tied to
descent is made manifest. Alkibiades lost his father, Kleinias, when he
was but a child (112c) . He was made a ward of Perikles and from him
received his nurture. For most readers, drawing attention to parentage
would not distinguish nature from nurture. One is a child of one's
parents both in terms of that with which one is born, one's
biological/genetic inheritance, and of that which one learns. In the case
of Alkibiades, however, to draw attention to his father is to draw
attention to his heredity, whereas it was Perikles who raised him. The
philosophic distinction between nature and nurture is emphasized by the
apparent choice of addresses open to Socrates. Alkibiades is both the son
of Kleinias and the ward of Perikles. It seems fitting that a
< .
40 dialogue on human nature
begin by drawing attention to two dominating features of all men's
characters, their nature and their nurture. Socrates believes that
Alkibiades is wondering. He is curious about the heretofore hidden
motives for Socrates' behavior. As a facet of a rational nature, wonder
or curiosity separates men from the beasts. Wondering about the world is
characteristic of children long before they fully attain reason, though
it seems to be an indication of reason; most adults retain at least some
spark of curiosity about something. The reader is reminded that the
potential for wonder/reason is what is common to men but not possessed by
beasts, and it serves to distinguish those whom we call human.
Reason in general, and wonder in particular, pose a rather complex
problem for giving an account of the nature of man. Though enabling one
to distinguish men from beasts, it also allows for distinctions between
men. Some are more curious than others and some are far more rational
than others. The philosopher, for example, appears to be dominated by his
rational curiosity about the true nature of things. Some people wonder
only to the extent of having a vague curiosity about their future. It
appears that the criteria that allow one to hierarchically differ¬
entiate man from beast also provide for the rank-ordering of men. Some
people would be "more human" than others, following this line
of analysis. This eatablishes itself as an issue in understanding
what, essentially, man is, and it may somehow be related to the
general problem of the superior man, since his very existence invites
comparison by a qualitative hierarchy. He might be the man who portrays
the human characteristics in the ideal/proper quantities and proportions.
He may thus aid our understanding of the standard for humans.
Another 4 41
opportunity to examine this issue will arise upon reaching the part of
the dialogue wherein Socrates points out that Alkibiades can come to know
himself after he understands the standard for superior men, after he
understands with whom he is to compete (119c,ff.). There are at
least two other problems with respect to the analysis of human curiosity.
The first is that it seems to matter what people are curious about.
Naturally children have a general wonder about things, but at a certain
stage of development, reason reveals some questions are more important
than and prior to others. It seems clear that wondering about the nature
of the world (i.e., what it really is), its arche (basic principles), and
man's proper place in it, or the kind of wondering traditionally
associated with the philosophic enterprise, is of a higher order than
curiosity about beetles, ancient architecture, details of history, or
nuances of linguistic meaning. This further complicates the problems of
rank-ordering men. The second problem met with in giving an account
of wonder and its appropriate place in life is that next to philosophers
and children, few lives are more dominated by a curiosity of sorts than
that of the "gossiping housewife." She is curious about the
affairs of her neighbors and her neighbor's children. The passion for
satisfying that curiosity is often so strong as to literally dominate her
days. It seems im¬ possible to understand such strong curiosity as
"merely idle," but one would clearly like to account for it as
essentially different from the curiosity of the philosopher. That the
reader may not simply disregard consideration of gossiping women, or
consider it at best tangential, is borne out by the treatment of
curiosity in the First Alkibiades. It is indicated in the dialogue
that daughters, wives and mothers
42 must figure into an account of wonder. There are
seven uses of 'wonder' 6 V ( thaumadzein ). The first
three involve Socrates and Alkibiades attest¬ ing to Alkibiades' wonder,
including a rare pronouncement by Socrates of his having certain
knowledge: he knows well that Alkibiades is wondering (104c.4; 103a.1,
104d.4). The last three are all about women wondering (123c.8,123e.3,
124a.2). Keeping in mind the centrality of wondering to the nature of the
philosopher (it seems to be a chief thing in his nature), one sees that
careful attention must be given to curiosity. We have other reasons to
suspect that femininity is in some way connected to philosophy, and
perhaps a careful consideration of the treatment of women in the dialogue
would shed light on the problem. There is a sense in which wonder
is a most necessary prerequisite to seeking wisdom (cf. also Theaitetos
155d). To borrow the conclusion of Socrates' argument with Alkibiades
concerning his coming to know justice (106d-e; 109e), one has to be aware
of a lack of something in order to seek it. A strong sense of wonder, or
an insatiable curiosity drives one to seek knowledge. This type of
intense wondering may con¬ ceivably be a major link in the connection
between the reason and the spirit of the psyche (cf. Republic 439e-440a).
In the Republic these two elements are said to be naturally allied, but
the reader is never explicitly told how they are linked, or what
generally drives or draws the spirit toward reason. An overpowering sense
of wonder seems the most immediate link. Perhaps another link is supplied
when the import¬ ance of the connection of knowledge to power is
recognized; a connection between the two parts of the psyche might be
supplied by a great will to power, for power presumably requires
knowledge to be useful. However, final judgement as to how the sense of
wonder and the desire for power '
43
differ in this regard, and which, if any, properly characterizes the
connections between the parts of Alkibiades' psyche must await the
reader's reflection on the dialogue as a whole. Likewise, his evaluation
as to which class of men contains Alkibiades will be properly made after
he has finished the dialogue. Socrates believes that Alkibiades is
wondering. Precisely that feature of Alkibiades' nature is the one with
which Socrates chooses to begin the discussion and therewith their
relationship. One may thus explore the possibility that wondering is what
distinguishes Alkibiades, or essentially characterizes him. The
discussion to this point would admit of a number of possibilities.
Curiosity could set Alkibiades apart from other political figures,
or it may place him above men generally, indicating that he is one of the
best or at least potentially one of the best men - should
reason/curiosity prove to be characteristic of the best. Alkibiades'
ostensible wondering could bespeak the high spirit which characterized
his entire life; perhaps one of the reasons he would choose to die rather
than remain at his present state (105a-b) is that he is curious to see
how far he can go, how much he can rule. Socrates remarks that he
is Alkibiades' lover; he is the first of Alkibiades' lovers. Socrates
suggests two features of his manner which, taken together, would be
likely to have roused the wonder of Alkibiades. Socrates, the first
lover, is the only one who remains; all the other lovers have forsaken
Alkibiades. Secondly, Socrates never said a word to Alkibiades during his
entire youth, even though other lovers pushed through hoardes of people
to speak with Alkibiades. A youth continuously surrounded by a crowd of
admirers would probably wish to know the motives of a most constant,
silent observer - if he noticed him. Socrates has <
44 at
last, after many years, spoken up. Assuring Alkibiades that no
human cause kept him from speaking, Socrates intimates that a daimonic
power had somehow opposed his uttering a single word. The precise nature
of the power is not divulged. Obviously not a physical restraint
such as a gag, it can nevertheless affect Socrates' actions. Socrates,
one is led to believe, is a most rational man. If it was not a human
cause that kept him from speaking, then Socrates' reason did not cause
him to keep silent. It was not reason that opposed his speech. Whatever
the daimonic power was, it was of such a force that it could match the
philosopher's reason. An under¬ standing of how Socrates' psyche would be
under the power of this daimonic sign would be of great interest to a
student of man. In at least Socrates' case, this power is comparable in
force to the power of reason. Socrates tells Alkibiades that the power of
the daimon in opposing his speaking was the cause of his silence for so
many years. The reader does not forget, however, that the lengthy
silence was not only Socrates'. Something else, perhaps less divine, kept
Alkibiades silent. It is noteworthy that the first power
Socrates chooses to speak of with Alkibiades is a non-human one, and one
which takes its effect by restraining speech. Alkibiades is interested in
having control over the human world; the kind of power he covets involves
military action and political management. Young men seem not altogether
appreciative of speech. Even when they acknowledge the power made
available by a positive kind of rhetorical skill, they do not appear
especially con¬ cerned with any negative or restraining power that limits
speech such as the power of this daimon. Not only is talk cheap, but it
is for women ■ - -f.
45 and old men, in other words, for those who aren't capable
of actually doing anything. The first mention of power ( dynamis) in the
dialogue cannot appear to Alkibiades to pertain to his interest in ruling
the human world, but it does offer the reader both an opportunity for
re¬ flection on power in general, and a promise to deal with the
connection between power and speech in some fashion. What the dialogue
teaches about language and power will be more deeply plumbed when
Alkibiades learns the extent of the force of his words with Socrates
(112e, ff.). According to Socrates, Alkibiades will be informed of
the power of this daimonic sign at some later time. Since apparently the
time is not right now, either Socrates is confident that he and
Alkibiades will continue to associate, or he intends to tell Alkibiades
later during the course of this very dialogue. Socrates, having complied
with his daimon, comes to Alkibiades at the time when the opposition
ceases. He appears to be well enough acquainted with the daimon to
entertain good hopes that it will not oppose him again. By
simple observation over the years, Socrates has received a general notion
of Alkibiades' behavior toward his lovers. There were many and they were
high-minded, but they fled from Alkibiades' surpassing self-confidence.
Socrates remarks that he wishes to have the reasons for this self-confidence
come to the fore. By bringing Alkibiades' reasons to speech, Socrates
implies, among other things, that this sense of superiority does not have
a self-evident basis of support. He also sug¬ gests that there is a
special need to have reasons presented. Perhaps Alkibiades' understanding
of his own feelings either is wrong or in¬ sufficient; at any rate, they
have previously been left unstated. If they are finally revealed,
Alkibiades will be compelled to assess them. .
I 46 Socrates proceeds to list the
things upon which Alkibiades prides himself. Interestingly, given
his prior claim that he learned Alkibiades' manner through observation,
most of the things Socrates presently mentions are not things one could
easily learn simply through observation of actions. One cannot see the
mobility of Alkibiades' family or the power of his connections. More
important to Socrates' point, one cannot see his pride in his family. He
might "look proud," but others must determine the reason. It is
difficult to act proud of one's looks, family and wealth while completely
abstaining from the use of language. It has thus become significant to
their relationship that Socrates was also able to observe Alkibiades'
speech, for it is through speech that pride in one's family can be made
manifest. By listing these features, Socrates simultaneously shows
Alkibiades that he has given considerable thought to the character of the
youth. He is able to explain the source of a condition of Alkibiades' psyche
without having ever spoken to Alkibiades. Only a special sort of
observer, it seems, could accomplish that. Alkibiades presumes he
needs no human assistance in any of his 68 affairs; beginning
with the body and ending with the soul, he believes his assets make him
self-sufficient. As all can see, Alkibiades is not 69
in error believing his beauty and stature to be of the highest
quality. Secondly, his family is one of the mightiest in the city and his
city the greatest in Greece. He has numerous friends and relatives
through his father and equally through his mother, who are among the best
of men. Stronger than the advantages of all those kinsmen, however, is
the power he envisions coming to him from Perikles, the guardian of
Alkibiades and his brother. Perikles can do what he likes in Greece and
even in barbarian countries. That kind of power - the power to do as one
likes - 4
47 Alkibiades is seeking (cf.
134e-135b). The last item Socrates includes in the list is the one
Alkibiades least relies on for his self-esteem, namely his wealth.
Socrates places the greatest emphasis on Alkibiades' descent and
the advantages that accrue therefrom. This is curious for he was pur¬
portedly supplying Alkibiades' reasons for feeling self-sufficient; if
this is a true list, he has done the contrary, indicating Alkibiades to
be quite dependent upon his family. Even so, the amount of stress on the
family appears to exceed that necessary for showing Alkibiades not to be
self-sufficient. As has already been observed, this is accomplished by
paying close attention to the words at the start of the dialogue. At this
point, Alkibiades' father's relations and friends, his mother's relations
and friends, his political connections through his kinsmen and his
uncle's great power are mentioned as well as the position of his family
in the city and of his city in the Hellenic world. Relative to the other
resources mentioned, Socrates goes into considerable depth with regards
to Alkibiades' descent. It is literally the central element in the set of
features that Socrates wanted to be permitted to name as the cause of
Alkibiades' self-esteem. Quite likely then, the notion of descent and its
connections to human nature (as Alkibiades' descent is connected, by
Socrates' implication, to qualities of his nature) are more important to
the understanding of the dialogue than appears at the surface. This
discussion will be renewed later at the opening of the longest speech in
the First Alkibiades . At that point both participants claim divine
ancestry immediately after agreeing that better natures come from
well-born families (120d-121a). That will afford the reader an
opportunity to examine why they might both think their descent
significant. #
48 Socrates has offered this account of Alkibiades'
high-mindedness suggesting they are Alkibiades' resources "beginning
with the body and ending with the soul." In fact, after mentioning
the excellence of his physical person, Socrates talks of Alkibiades'
parents, polis , kinsmen, guardian, and wealth. Unless the reader is to
understand a man's soul to be made by his family (and that is not said
explicitly), these things do not even appear to lead toward a
consideration of the qualities of his soul, but lead in a different
direction. One might expect a treatment of such things as Alkibiades'
great desires, passions, virtues and thoughts, not of his kinsfolk and
wealth. Perhaps the reader is not yet close enough to an understanding of
the human soul. At this point he may not be prepared to discern the
qualities of soul in Alkibiades which would properly be styled
"great." Socrates and Alkibiades may provide instruction for
the reader in the dialogue, so that by the end of his study he will be
better able to make such a judgement were he to venture one now, it might
be based on conventional opinions of greatness. By not explicitly stating
Alkibiades' qualities of soul at this point, the reader is granted the
opportunity to return again, later, and supply them himself. The psyche
is more difficult to perceive than the body, and as is discussed in the
First Alkibiades (129a-135e), this significant¬ ly compounds the problems
of attaining knowledge of either. If this is what Socrates is indicating
by apparently neglecting the qualities of Alkibiades' soul, he debunks
Alkibiades' assets as he lists them. The features more difficult to
discern, if discerned, would be of a higher rank. Fewer men would
understand them. Socrates, however, lists features of Alkibiades that are
plain for all to see (104a; cf. 110e.2-3). The qualities that even
the vulgar can appreciate, when said to be such.
-
49
are not what the superior youth would most pride himself upon. The many
are no very serious judges of a man's qualities. In view of these
advantages, Alkibiades has elevated himself and overpowered his lovers,
and according to Socrates, Alkibiades is well aware of how it happened
that they fled, feeling inferior to his might. Precisely on account of
this Socrates can claim to be certain that Alkibiades is wondering about
him. Socrates says that he "knows well" that Alkibiades must be
wondering why he has not gotten rid of his eros . What he could possibly
be hoping for, now that the rest have fled is a mystery. Socrates, by
remaining despite the experience of the rest, has made himself
intriguing. This is especially the case given his analysis of Alkibiades.
How could Socrates possible hope to compete with Alkibiades in terms of
the sort of criteria important to Alkibiades? He is ugly, has no
famous family, and is poor. Yet Socrates had not been overpowered; he
does not feel inferior. Here is indeed a strange case, or so it must seem
to the arrogant young man. Socrates has managed to flatter Alkibiades by
making him out to be obviously superior to any of his (other) lovers -
but he also places himself above Alkibiades, despite the flattery.
In his first speech to Alkibiades, Socrates has praised him and yet
undercut some of his superiority. He has aroused Alkibiades' interest
both in Socrates and in Socrates' understanding of him. It is conceivable
that no other admirer of Alkibiades has been so frank, and it is likely
that none have been so strange - to the point of alluding to daimons. Yet
something about Socrates and Socrates' peculiar erotic attraction to
Alkibiades makes Alkibiades interested in hearing more from the
man. It is clear that he cannot want to listen merely because
H£fl
50 he enjoys being flattered and gratified,
for Socrates' speech is ironic in its praise. He takes even as he
gives. Philosophically, this op ening speech contains a
reference to most of the themes a careful reader will recognize as being
treated in the dialogue. Some of these should be listed to
give an indication of the depths of the speech that remain to be
plumbed. The reader is invited to examine the nature of power - what it
is essentially and through what it affects human action. As
conventionally understood, and as it is attractive to Alkibiades, power
is the ability to do what one wants. According to such an account, it
seems Perikies has power. This notion of power is complicated by the
non-human power referred to by Socrates which stops one from doing what
one wants. Power is also shown to be connected to speech. Another closely
related theme is knowledge. All of these are connected explicitly in that
the daimonic power knew when to allow speech . In the opening speech by
Socrates, he claims to know something, and the reader is introduced to a
consideration of observation and speech as sources of knowledge. He is
also promised a look at what distinguishes one's perception of oneself
from other's opinions of one, through Socrates' innuendo that his
perception of Alkibiades may not be what Alkibiades perceives himself to
be. There is also reference to a difference in ability to perceive
people's natures - namely the many's ability is contrasted with
Socrates', as is the ability of the high- minded suitors. The dialogue
will deal with this theme in great depth. Should it turn out that this
ability is of essential importance to a man's fulfillment, the reader is
hereby being invited to examine what are the essentially different
natures of men. Needless to say, the reader of the dialogue should return
again and again to this speech, to the initial
.
51 treatment of these
fundamental questions. The relationship of body to soul, as well as
the role of 'family' and ' polis ' in the account of man's nature, are
introduced here in the opening words. They indicate the vastness of the
problem of understanding the nature of man. Socrates and Alkibiades seem
superior to everyone else, but they too are separate. Socrates is shown
to be unique in some sense and he cites especially strange causes of his
actions. There is no mention of philosophy or philosopher in this
dialogue, but the reader is introduced to a strange man whose eros is
different from other men, in¬ cluding some regarded as quite excellent,
and who is motivated by an as yet unexplained daimonic power. On
another level, the form of the speech and the delivery itself attest to
some of the thought behind the appropriateness or inappropriate¬ ness of
saying certain things in certain situations. Even the mechanics or
logistics of the discussion prove illuminating to the problem. In
addition, the very fact that they are conversing tog ether and
not depicted as fighting together in battle, or even debating with each
other in the public assembly, renders it possible that speech - and
perhaps even a certain kind of speech (e.g., private, dialectical) - is
essential to the relation between the two superior men said to begin in
the First Alkibiades . Finally (though not to suggest that
the catalogue of themes is complete), one must be awakened to the significance
of the silence being finally broken. With Socrates' first words, the
dialogue has begun to take place. Socrates and Alkibiades have commenced
their verbal relationship. There is plenty of concern in the dialogue
about language: what is to be said and not said, and when and how it is
to be said. The * ’
f J •, 52
first speech by Socrates in the First Alkibiades has alerted the reader
to this. Alkibiades addresses Socrates for the first time. Though
already cognizant of his name, Alkibiades does not appear to know
anything else about him. To Socrates' rather strange introduction he
responds that he was ready to speak with reference to the same issue;
Socrates has just slightly beat him. Alkibiades seems to have been
irritated by Socrates' constant presence and was on the brink of asking
him why he kept bother¬ ing him. Socrates' opening remarks have probably
mitigated his annoyance somewhat and allowed him to express himself in
terms of curiosity instead. He admits, indeed he emphatically affirms
(104d), that he is wondering about Socrates' motives and suggests he
would be glad to be informed. Alkibiades thus expresses the reader's own
curiosity; one wonders in a variety of respects about what Socrates'
objective might be. Alkibiades might perceive different possibilities
than the reader since he seems thoroughly unfamiliar with Socrates. A
reader might wonder if Socrates wanted to influence Alkibiades, and to
what end. Did Socrates want to make Alkibiades a philosopher; what kind
of attraction did he feel for Alkibiades; why did he continue to
associate with him? These questions and more inevitably confront the
reader of the First Alkibiades even though they might at first appear to
be outside the immediate bonds of the dialogue. For these sorts of
questions are carried to a reading of the dialogue, as it were; and given
the notoriety of Alkibiades and of Socrates, it is quite possible that
they were intended to be in the background of the reader's thoughts.
Perhaps the dialogue will provide at least partial answers.
If Alkibiades is as eager to hear as he claims, Socrates can
. 53 assume that he will pay
attention to the whole story. Socrates will not then have to expend
effort in keeping Alkibiades' attention, for Alkibiades has assured him
he is interested. Alkibiades answers that he certainly shall
listen. Socrates, not quite ready to begin, insists that Alkibiades
be prepared for perhaps quite a lengthy talk. He says it would be
no wonder if the stopping would be as difficult as the starting
was. One does not expect twenty years of non-stop talk from
Socrates, naturally, and so one is left to wonder - despite (or
perhaps because of) his claim that 70 there is no cause
for wonder - why he is making such a point about this beginning and the
indeterminacy of the ending. The implication is that there remains some
acceptable and evident relation between beginnings and endings for the
reader to discern. In an effort to uncover what he is, paradoxically, not
to wonder about, the careful reader will keep track of the various things
that are begun and ended and how they are begun and ended in the First
Alkibiades . Although innocuous here, Alkibiades' response "speak
good man, I will listen," gives the reader a foreshadowing of his
turning around at the end of the dialogue. There it is suggested that
Alkibiades will silently listen to Socrates. Until the time of the
dialogue the good man has been silent, listening and observing while any
talking has been done by Alkibiades or his suitors. Assured
of a listener, Socrates begins. He is convinced that he must speak.
However difficult it is for a lover to talk to a man who disdains lovers,
Socrates must be daring enough to speak his mind. This is the first
explicit indication the reader is given concerning certain qualities of
soul requisite for speaking, not only for acting. It also
' ■ • 54
suggests some more or less urgent, but undisclosed, necessity for
Socrates to speak at this time. Should Alkibiades seem content with the
above mentioned possessions, Socrates is confident that he would be re¬
leased from his love for Alkibiades - or so he has persuaded himself.
Socrates is attracted to the unlimited ambition Alkibiades possesses.
The caveat introduced by Socrates (about his having so persuaded
himself) draws attention to the difference between passions and reason as
guides to action, and perhaps also a difference between Socrates and
other men. For the most part one cannot simply put an end to passions on
the basis of reason. One may be able to substitute another passion or
appetite, but it is not as easy to rid oneself of it. However, instead of
having to put away his love, Socrates is going to lay Alkibiades' thought
open to him. Socrates intends to reveal to Alkibiades the youth's
ambition. This can only be useful in the event that he has never
considered his goals under precisely the same light that Socrates will shed
on them. By doing this Socrates will also accomplish his intention
of proving to Alkibiades that he has paid careful attention to the youth
(105a). Alkibiades should be in a position to recognize Socrates' concern
by the end of this speech; this suggests a capability on the part of
both. Many cannot admit the motives of their own actions, much less
reveal to someone else that person's own thoughts. Part of the
significance of the following discussion, therefore, is to indicate both
Socrates' attentiveness to Alkibiades and Alkibiades' perception of
it. Should some (unnamed) god ask Alkibiades if he would choose
to die rather than be satisfied with the possessions he has, he
would choose to die. That is Socrates' belief. If Socrates is right,
it '
55 bespeaks a high ambition for
Alkibiades, and it does so whether or not Alkibiades thought of it
before. His possessions, mentioned so far, include beauty and stature,
great kinsmen and noble family, and great wealth (though the last is
least important to him). In an obvious sense, Alkibiades must remain
content with some of what he has. He cannot, for example, acquire a
greater family. His ambition, then, as Socrates indicates, is for
something other than he possesses. The hopes of Alkibiades' life are to
stand before the Athenian ekklesia and prove to them that he is more
honorable than anyone, ever, including Perikles. As one worthy of
honor he should be given the greatest power, and having the greatest power
here, he would be the greatest among Greeks and even among the barbarians
of the continent. If the god should further propose that Alkibiades
could be the ruler of Europe on the condition that he not pass into Asia,
Socrates believes Alkibiades would not choose to live. He desires to fill
the world with his name and power. Indeed Socrates believes that
Alkibiades thinks no man who ever lived worthy of discussion besides
Kyros and Xerxes ( the Great Kings of Persia). Of this Socrates claims to
be sure, not merely supposing - those are Alkibiades' hopes.
There are a number of interesting features about the pretense of
Alkibiades responding to a god. Alkibiades might not admit the extent of
his ambition to the Athenian people who would fear him, or even to his
mother, who would fear for him; it therefore would matter who is
allegedly asking the question. It is a god, an unidentified god whose
likes and dislikes thus remain unknown. Alkibiades cannot take into
account the god's special province and adjust his answer accordingly.
The significance of the god is most importantly that he is more
powerful ■ ■
56 than Alkibiades can be. But why could not Socrates have
simply asked him, or, failing that, pretend to ask him as he does in a
moment? It is pos¬ sible that speaking with an omniscient god would allow
Alkibiades to reveal his full desire; he would not be obliged to hid his
ambition from such a god as he would from most men in democratic Athens.
But it is also plausible that Socrates includes the god in the discussion
for the purpose of limiting Alkibiades' ambition (or perhaps as a
standard for power/knowledge). Not to suggest that Socrates means to
moderate what Alkibiades can do, he nevertheless must have realistic
bounds put upon his political ambition. Assume, for the moment, that more
questions naturally follow the proposal of limiting his rule to Europe.
If Alkibiades were talking to Socrates (instead of to a deity with
greater power), he might not stop at Asia. If he thought of it, he might
wish to control the entire world and its destiny. He would dream that
fate or chance would even be within the scope of his ambition.
The god in this example is presented as being in a position to
determine Alkibiades' fate; he can limit the alternatives open to
Alkibiades and can have him die. With Socrates' illustration, Alkibiades
is confronting a being which has a power over him that he cannot control.
The young man is at least forced to pretend to be in a situation in which
he cannot even decide which options are available. It is import¬ ant for
a political ruler to realize the limits placed on him by fate. The
notion that the god is asking Alkibiades these questions makes it
unlikely that Alkibiades would answer that he should like to rule heaven
and earth, or even that he would like supreme control of earth (for that
is likely to be the god's own domain). Alkibiades probably won't suggest
to a god that he wants to rule Fate or the gods of the Iliad
.
57 who hold the fate of humans so much in hand. Chance
cannot be controlled by humans, either through persuasion or
coersion. It can only have its effect reduced by knowledge.
Alkibiades' political ambitions have to be moderated to fit what is
within the domain of fate and chance and to be educated about the
limits of the politically possible. Socrates, by pretending that a
god asks the questions, can allow Alkibiades to admit the full
extent of his ambitions over humans, but it also serves to keep him
within the arena of human politics. If he would have answered
Socrates or a trusted friend in discussion, he might not have
easily accepted that limit. It is necessary for any politically
ambitious man, and doubly so if he is young, to cultivate a respect
for the limits of what can politically be accomplished under one's
full control. This may ... .71 have helped Alkibiades
establish a political limit m his own mind. Another feature of the
response to the god which should be noted is that it marks the second of
three of Socrates' exaggerated claims to know aspects of Alkibiades'
soul. In the event that the reader should have missed the first one
wherein he claims to "know well" that Alkibiades wonders
(104c), Socrates here emphasizes it. He is not simply inferring or
guessing, he asserts; he knows this is Alkibiades' hope (105c). Shortly
he will claim to have observed Alkibiades during every moment the boy was
out of doors, and thus to know all that Alkibiades has learned
(106e). Just as it is impossible for Socrates to have watched
Alkibiades at every moment, so he cannot be certain of what thought is
actually going through Alkibiades' mind. Socrates' claim to knowledge has
to be based on something other than physical experience or being
taught. Alkibiades has not told anyone that these are his high
hopes. « - '
58 Perhaps Socrates' knowledge is grounded in
some kind of experience He knows what state Alkibiades' soul is in
because he knows what Alkibiades must hope, wonder and know. It may
be that Socrates has an access to this knowledge of Alkibiades'
soul through his own soul. His soul may be or may have been very
like Alkibiades'. Since Socrates will later argue that one cannot
know another without knowing oneself (133c-e) perhaps one of the
reasons he knows Alkibiades' soul so well is that it 72
matches his in some way. It is not out of the question that their souls
share essential features and that those features perhaps are not shared
by all other men. Clearly not all other men have found knowledge of
Alkibiades' soul as accessible as has Socrates. And Socrates will be
taking Alkibiades' soul on a discussion beyond the bounds of Athenian
politics and politicians. He instructs Alkibiades that his soul cannot be
patterned upon a conventional model, just as Socrates is obviously not
modelling himself upon a standard model. These two men are somehow in a
special position for understanding each other, and their common sight
beyond the normally accepted standards may be what allows Socrates to
make such apparently outrageous claims. At this point, instead of
waiting to see how Alkibiades will respond, Socrates manufactures his own
dialogue, saying that Alkibiades would naturally ask what the point is.
He is supposing that Alkibiades recognizes the truth of what has gone
before. Since it is likely that Alkibiades would have enjoyed the speech
to this point and thought it good, Socrates must bring him back to the
topic. By using this device of a dialogue within a speech, Socrates is
able to remind Alkibiades (and the reader) - by pretending to have
Alkibiades remind Socrates - that they were supposed to learn not
Alkibiades' ambitions, but those ■ 59
of Socrates (supposing that they are indeed different).
Socrates responds (to his own question) that he conceives himself
to have so great a power ove r Alkibiades that the dear son
of Kleinias and Deinomakhe will not be able to achieve his hopes without
the philosopher's assistance (105d). Because of this power the god
prevented him from speaking with Alkibiades. Socrates hopes to win as
complete a power over Alkibiades as Alkibiades does over the polis . They
both wish to prove themselves invaluable, Socrates by showing himself
more worthy than Alkibiades' guardian or relatives in being able to
transmit to him the power for which he longs. The god prevented Socrates
from talking when Alkibiades was younger, that is, before he held such
great hopes. Now, since Alkibiades is prepared to listen, the god has set
him on. Alkibiades wants power but he does not know what it is,
essentially. Yet he must come to know in order not to err and harm
himself. Part of the relationship between philosophy and politics is
suggested here, and perhaps also some indication of why Socrates and
Alkibiades need each other. An understanding of the causes of their
coming together would be essential to an account of their relation, it
seems, and such under¬ standing is rendered more problematic by the role
of the god. Socrates wants as complete power over Alkibiades as
Alkibiades does over the polis . If one supposes that the power is
essentially similar, this might imply that Socrates would actually have
the power over the polis . A complete power to make someone else do as
one wants (as power is conventionally understood) seems to be the same
over an individual as over a state. Socrates and Alkibiades hope to prove
themselves invaluable (105a). That is not the same as being worthy of
honor (105b); past performance is crucial to the question of one's
« ■ •::
60
honor, whereas a possibility of special expertise in the future is
sufficient to indicate one is invaluable. If a teacher is able to promise
that his influence will make manifest to one the problems with one's
opinions, and will help to clarify them, the teacher has indicated
himself to be invaluable. Should one then, on the basis of the teacher's
influence change one's opinions, and thus one's advice and actions, the
teacher will, in effect, be the man with power over all that is affected
by one's advice and actions, over all over which one has power. Socrates,
in affecting politically-minded youths, has an effect on the polity. To
have power over the politically powerful is to have power in politics.
Socrates' daimon had not let Socrates approach while Alkibiades' hopes
for rule were too narrowly contained. His ambitions had to become much
greater. If for no other reason than to see that over which Socrates
expects or intends to have indirect power, one should be eager to
discover Alkibiades' ambition - to discover that end which he has set for
himself, or which Socrates will help to set for him. The reader also has
in mind the historical Alkibiades: to the extent to which Alkibiades'
designs in Europe and Asia did come to pass, was Socrates responsible as
Plato, here, has him claim to be? The reader might also be curious about
the reverse: what actions of the historical Alkibiades make this dialogue
(and Socrates' regard) credible? Alkibiades is astounded, Socrates
sounds even stranger than he looks. But Alkibiades' interest is aroused,
even if he is skeptical. He doesn't admit to the ambitions that
have been listed; however he will concede them for the sake of finding
out just how Socrates thinks of himself as the sole means through whom
Alkibiades can hope to realize them. Perhaps he never had the opportunity
to characterize his ambitions
■
i-
61 that way - he may never have talked to a god.
Socrates may only have clarified those hopes for Alkibiades; but on
the other hand, the philosopher (partly, at least) may be
responsible for imparting them to the young man. At any rate, even
if Socrates merely made these goals obvious to the youth, one must
wonder as to his purpose. Alkibiades feels confident in claiming
that no denial on his part will persuade Socrates. He asks Socrates
to speak (106a). Socrates replies with a question which he answers
himself. He asks if Alkibiades expects him to speak in the way
Alkibiades normally hears people speak - in long speeches.
Alkibiades' background is thus 73 indicated to some
extent. He has heard orators proclaim. Socrates points out that he
will proceed in a way that is unusual to Alkibiades - at least in
so far as proving claims. By suggesting there is more than one way
to speak, Socrates indicates that differences of style are
significant in speech, and he invites the reader to judge/consider
which is appropriate to which purposes. Socrates protests
that his ability is not of that sort (the orator's), but that he
could prove his case to Alkibiades if Alkibiades consents to do one
bit of service. By soliciting Alkibiades' efforts, Socrates may be
intending to gain a deeper commitment from the youth. If he is
responsible somewhat for the outcome he may be more sincere in 74
his answers. Alkibiades will consent to do a service that is not
difficult; he is interested but not willing to go to a
great deal of trouble. At this stage of the discussion he has no
reason to believe 75 that fine things are hard. Upon
Socrates' query as to whether answering questions is considered
difficult, Alkibiades replies that it is not. Socrates tells him
to a nswer and Alkibiades tells Socrates to .
.
62 ask. His response
suggests that Alkibiades has never witnessed a true dialectical
discuss ion. He has just played question and answer
games. Not many who have experienced a dialogue, and even fewer who
have spoken with Socrates, would say it is not hard.
Alkibiades, too, soon experiences difficulty. Socrates asks
him if he'll admit he has these intentions but Alkibiades won't
affirm or deny except toget on with the conversation. Should
Socrates want to believe it he may; Alkibiades desires to know what
is coming before he acknowledges more. Accepting this, Socrates
proceeds. Alkibiades, he notes, intends shortly to present himself
as an advisor to the Athenians. If Socrates 76 were to
take hold of him as he was about to ascend the rostrum in front of the
ekklesia and were to ask him upon what subject they wanted advice such as
he could give, and if it was a subject about which Alkibiades knew better
than they, what would he answer? This is an example of a common
Socratic device, one of imagining that the circumstances are other than
they are. Socrates hereby employs I it for the third
time in the dialogue, and each provides a different effe ct.
On the first occasion, Socrates pretended a god was present to provide
Alkibiades with an important choice. Socrates did not speak in his own
name. The second example was when Socrates ventured that Alkibiades would
ask a certain question, and so answered it without waiting to see if he
would indeed have asked that question. In both of those, the physical
setting of the First Alkibi ades was appropriate to his
intentions. This time, however, Socrates supplies another setting - a
very different setting - for a part of the discussion. Speech is
plastic in that it enables Socrates to manufacture an , 3
ajifi ■' • - - 1 1 ^ v - r **
63 almost limitless variety of situations. By
the sole use of human reason and imagination, people are able to consider
their actions in different lights. This is highly desirable as it is
often difficult to judge a decision from within the context in which it
was made. The malleability of circumstances that is possible in speech
allows one to examine thoughts and policies from other perspectives. One
may thus, for example, evaluate whether it is principle or prejudice that
influences one's decisions, or whether circumstance and situation play a
large or a small role in the rational outcome of the deliberation. This
rather natural feature of reason also permits some consideration of consequences
without having to effect those consequences, and this may result in
the _ . 77 aversion of disastrous results.
The plastic character of speech is crucial to philosophic dis¬
course as well, providing the essential material upon which dialectics is
worked. In discussion, the truly important features of a problem may be
more clearly separated from the merely incidental, through the care¬ ful
construction of examples, situations and counterexamples. If not for the
ability to consider circumstances different from the one in which one
finds oneself, thinking and conversing about many things would be
impossible. And this is only one aspect of the plasticity of speech which
proves important to philosophic discussion. Good dialogic partners
exhibit this ability, since they require speech for much more than
proficiency in logical deduction. Speech and human imagination must work
upon each other. Participants in philosophical argument must recognize
connections between various subjects and different circum¬ stances. To a
large extent, the level of thought is determined by the thinker's ability
to 'notice' factors of importance to the inquiry at
■ | -M
64 hand. The importance
of 'noticing' to philosophic argument will be con¬ sidered with reference
to two levels of participation in the First Alkibiades , both of which
clearly focus on the prominence of the above mentioned unique properties
of speech as opposed to action. 'Noticing' is important to
dialectics in that it describes how, typically, Socrates' arguments work.
An interlocutor will suggest, say, a solution to a problem,
and upon reflection, Socrates - or another inter¬ locutor (e.g., as per
llOe) - will notice, for example, that the solution apparently doesn't
work in all situations (i.e., a counter-example occurs to him), or that
not all aspects of the solution are satisfactory, and so on. The ability
of the participants to recognize what is truly im¬ portant to the
discussion, and to notice those features in a variety of other situations
and concerns, is wha t lends depth to the analysis.
As this has no doubt been experienced by anyone who has engaged in
serious arguments, it presumably need not be further elaborated.
The other aspect in which 'noticing' is important to philosophy and
how it influences, and is in turn influenced by, rational discourse is in
terms of how one ought to read a philosophic work. As hopefully will be
shown in this commentary on the First Alkibiades , a reader's ability to
notice dramatic details of the dialogue, a nd his persistence in
carefully examining what he notices, importantly affects the benefit he
derives from the study of the dialogue. Frequently, evidence to this
effect can be gathered through reflective consideration of Socrates'
apparently off-hand examples, which turn out upon examination to be
neither offhand in terms of their relation to significant aspects of the
immediate topic, nor isolated in terms of bringing the various topics in
the dialogue into focus. As shall become more apparent as the analysis
65
proceeds, the examples of ships and doctors, say, are of exceedingly more
philosophic importance than their surface suggests. Not only do they
metaphorically provide a depth to the argument (perhaps unwitnessed by
any participant in the dialogue besides the reader) but through
their repeated use, they also help the reader to discern
essential philosophic connections between various parts of the subject
under discussion. The importance of 'recognition' and 'noticing' to
dialectics (and the importance of the malleability of subject matter
afforded by speech) may be partly explained by the understanding of the
role of metaphor in human reason. Dialectics involves the meticulous
division of what has been properly collected (c.f., for example Phaidros
266b). Time and time again, evidence is surveyed by capable partners and
connections are drawn between relevantly similar
matters before careful distinctions are outlined. The ability to
recognize similarities, to notice connections, seems similar to the
mind's ability to grasp metaphor. Metaphor relies to an important extent
on the language user's readiness to 'collect' similar features from
various subjects familiar to him, a procedure the reader of the First
Alkibiades has observed to be crucial to the philosophic
enterprise. Socrates often refrains from directly asking a
question, pre¬ facing it by "supposing someone were to ask" or
even "supposing I were to ask." The circumstances of the
encounters need to be examined in order to understand his strategy. What
might be the relevance of Socrates asking Alkibiades to imagine he was
about to ascend the plat¬ form, instead of, for example, in the market
place, in another city, near a group of young men, or in the privacy of
his own home? And why could not the setting be left precisely the same as
the setting of the dialogue? The situation at the base of the platform in
front of the .
66 ekklesia is, needless to say, quite a bit
different from the situation they are in now. Alkibiades is not likely to
give the same answer if his honor and his entire political career are at
stake, as they might be in such a profoundly public setting. Socrates'
device, on this occasion helps serve to indicate that what counts as
politic, or polite, speech varies in different circumstances.
As Socrates has constructed the example, the Athenians proposed to
take advice on a subject and Alkibiades presumed to give them advice.
This might severely limit the subjects on which Alkibiades or another
politician could address them. Were the ekklesia about to take counsel on
something, it would be a m atter they felt was settled by special
knowledge, and a subject on which there were some people with
recognizable expertise. The kinds of questions they believe are settled
by uncommon knowledge or expertise may be rather limited. It is not
likely that they would ask for advice on matters of justice. Most people
feel they are competent to decide that (i.e., that the knowledge relevant
to deciding is generally available, or common). Expertise is
acknowledged in strategy and tactics, but knowledgeability about politics
in general is less likely to be conceded than ability in matters of
efficacy. All of these sentiments limit the kinds of advice which can be
given to the ekklesia , and the councillor's problems are compounded by
such considera¬ tions as what things can be
persuasively addressed in public speeches to a mixed
audience, and what will be effective in pleasing and attracting the
sympathy of the audience to the speaker. To be rhetorically effect¬ ive
one must work with the beliefs/opinions/prejudices people confidently and
selfishly hold. Alkibiades agrees with Socrates that he would
answer that it was '
67 a subject about which he had
better knowledge. He would have to. If Alkibiades wishes to be taken
seriously by them, he should so answer in front of the people. Even if he
would be fully aware of his ignorance, he might have motives which demand
an insistence on expertise. He couldn't admit to several purposes for
which he might want to influence the votes of the citizenry. Not all of
those reasons can be made known to them; not all of those reasons can be
voiced from the platform at the ekklesia . Sometimes politicians have to
make decisions without certain knowledge, but must nevertheless pretend
confidence. These considerations indicate again the importance of the
role of speech to the themes of this dialogue. There is a difference
between public and private speech. Some things simply cannot be said in
front of a crowd of people, and other things whi ch would
not be claimed in private conversation with trusted friends would have to
be affirmed in front of the ekklesia . Just as a speaker may take
advantage of the fact that crowds can be aroused and swept along by
rhetoric that would not so successfully move an individual (e.g.,
patriotic speeches inciting citizens to war, and on the darker side,
lynch mobs and riots), so he understands that he could never admit to a
crowd things he might disclose to a trusted friend (e.g., criticizing re
ligious or political authorities). Socrates suggests that
Alkibiades believes he is a good advisor on that which he knows, and
those would be things which he learned from others or through his own
discovery. Alkibiades agrees that there don't seem to be any other
alternatives. Socrates further asks if he would have learned or
discovered anything if he hadn't been willing to learn or inquire into it
and whether one would ask about or learn what one thought one knew.
Alkibiades readily agrees that there must have been
68
a period in his life when he might have admitted to ignorance to which he
doesn't admit now. Socrates suggests that one learns only what one is
willing to learn and discovers only what one is willing to inquire into .
The asymmetry of this may indicate the general problems of the argument
as the difference in phrasing (underlined) alerts the reader to examine
it more closely. Discoveries, of course, usually involve a large
measure of accident or chance. And if they are the result of an inquiry,
the in¬ quiry often has a different or more general object. Columbus
didn't set out to discover the New World; he wanted to establish a
shorter trading route to the Far East. Darwin did not set out to discover
evolution; he sought to explain why species were different. Earlier he
did not set out to discover that species were different; he observed the
animal kingdom. Not only may one stumble upon something by accident, but
by looking for one thing one may come to know something else. For
example, someone might not be motivated by a recognition of ignorance but
may be trying to prove a claim to knowledge. In the search for proof he
may find the truth. Or, alternatively, in the pursuit of some¬ thing
altogether different, such as entertainment through reading a story, one
may discover that another way of life is better. The argu¬ ment thus
appears to be flawed in that it is not true that one discovers only what
one is willing to inquire into. Thus Alkibiades may have discovered what
he now claims to know without ever having sought it as a result of
recognizing his ignorance. Socrates has been able to pass this argument
by Alkibiades because of the asymmetry of the statement. Had he said "one
discovers only what one is willing to discover," Alkibiades
might have objected. 4 .
69 Another
difficulty with the argument is that one is simply not always willing to
learn what others teach and one nevertheless may learn. One might
actually be unwilling, but more often one is simply neutral, or oblivious
to the fact that one is learning. In the case of the former (learning
despite being unwilling), one need only remember that denying what one
hears does not keep one from hearing it. Propa¬ ganda can be successful
even when it is known to be propaganda. However, by far the most
common counter-example to Socrates' argument is the learning that occurs
in everyday life. Many things are not learned as the result of setting
out to learn. Such knowledge is acquired in other ways. Men come to have
a common sense understanding of cause and effect by simply doing and
watching. One learns one's name and who one's mother is long before
choosing to learn, being willing to study, or coming to recognize one's
ignorance. Language is learned with almost no conscious effort, and one
is nurtured into conventions without setting out to learn them. Notions
of virtues are gleaned from stories and from shades of meaning in the
language, or even as a result of learning a language. And, in an obvious
sense, whenever anything is heard, something is learned - even if only
that such a person said it. One cannot help observing; one does not
selectively see when one one's eyes are open, and one cannot even close
one's ears to avoid hearing. The above are, briefly, two problems
with the part of Socrates' argument that suggests people learn or
discover only what they are willing to learn or inquire into. The other
parts of the argument may be flawed as well. Socrates has pointed to the
reader's discovery of some flaws by a subtle asymmetry in his question.
It is up to the reader to examine the rest (in this case - to be willing
to inquire into 70 it). For example, there may be
difficulties with the first suggestion that one knows only what one has
learned or discovered. It is possible that there are innate objects of
knowledge and that they are important to later development. Infants, for
example, have an ability to sense comfort and discomfort which is later
transferred into feeling a wide variety of pleasures and pains. They
neither learn this, nor discover it (in any ordinary sense of
"discovery"). The sense of pleasure and pain quite naturally is
tied to and helps to shape a child's sense of justice (110b), and may
thus be significant to the argument about Alkibiades' knowledge or
opinions about justice. In any event, closer examination of Socrates'
argument has shown the reader that the problem of knowing is sufficiently
complex to warrant his further attention. The rest of the dialogue
furnishes the careful reader with many examples and problems to consider
in his attempt to understand how he comes to know and what it means to
know. Socrates knows quite well what things Alkibiades has learned,
and if he should omit anything in the relating, Alkibiades must correct
him. Socrates recollects that he learned writing, harping and wrestling -
and refused to learn fluting. Those are the things Alkibiades knows
then, unless he was learning something when he was unobserved - but
that, Socrates declares, is unlikely since he was watching whenever
Alkibiades stepped out of doors, by day or by night. The
reader will grant that the last claim is an exaggeration. Socrates could
not have observed every outdoor activity of the boy for so many years.
Yet Socrates persists in declaring that he knows what Alkibiades learned
out of doors. As suggested earlier, Socrates may be indicating that he
knows Alkibiades through his own soul. In that event '
■
71 one must try to understand
why Socrates couldn't likewise claim to know what went on indoors, or why
Socrates doesn't announce to Alkibiades an assumption that what goes on
indoors is pretty much the same everywhere. The reader may find what
Alkibiades may have learned "indoors" much more mysterious, and
he may consider it odd that Socrates does not have access to that- What
occurs indoors (and perhaps to fully understand one would need to
acknowledge a metaphoric dimension to "indoor") that would
account for Socrates drawing attention to his knowledge of the outdoor
activities of Alkibiades? Even if one confines one's attention to
the literal meaning, there is much of importance in one's nurture that
happens inside the home. Suffice it to notice two things. The first is
that the domestic scene in general, and household management in
particular, are of crucial im¬ portance to politics. The second is that
the teachers inside the home are typically the womenfolk.
These are of significance both to this dialogue and (not un¬
related) to an understanding of politics. Attention is directed, for
example, toward the maternal side of the two participants in this
78 dialogue. In addition, as has already been mentioned, the
womenfolk in this dialogue are the only ones who wonder, besides
Alkibiades. The women are within (cf. Symposium 176e); they have quite an
effect on the early nurture of children (cf. Republic 377b-c and
context). Perhaps the women teach something indoors that Socrates could
not see, or would not know regardless of how closely akin he was to
Alkibiades by nature. If that is so, the political significance of
early education, of that education which is left largely to women,
assumes a great importance. Women> it is implied, are able to
do something to sons that men cannot. ■:
72 and perhaps even something which men cannot fully
appreciate. An absolutely crucial question arises: How is it proper for
women to in¬ fluence sons? Socrates proceeds to find out
which of the areas of Alkibiades' expertise is the one he will use in the
assembly when giving advice. In response to Socrates' query whether it is
when the Athenians take advice on writing or on lyre playing that
Alkibiades will rise to address them, the young man swears by Zeus that
he will not counsel them on these matters. (The possibility is left open
that someone else would advise the Athenians on these matters at the
assembly). And, Socrates adds, they aren't accustomed to deliberating
about wrestling in the ekklesia . For some reason, Socrates has
distinguished wrestling from the other two subjects. Alkibiades will not
advise the Athenians on any of the three; he will not talk about writing
or lyre-playing even if the subject would come up; he will not speak
about wrestling because the subject won't come up. Regardless of the
reader's suspicion that the first two subjects are also rarely deliberated
in the assembly, he should note the distinction Socrates draws between
the musical and the gymnastic arts. The attentive reader will also have
observed that the e ducation a boy receives in school
does not prepare him for advising men in important political matters; it
does not provide him with the kinds of knowledge requisite to a citizen's
participation in the ekklesia . But then on what will Alkibiades
advise the Athenians? It won't be about buildings or divination, for a
builder will serve better (107a- b). Regardless of whether he is short,
tall, handsome, ugly, well-born or base-born, the advice comes from the
one who knows, not the wealthy; the reader might notice that this
undercuts all previously mentioned » ••
. f
73 bases of Alkibiades' self-esteem. According to Socrates,
the Athenians want a physician to advise them when they deliberate on the
health of the city; they aren't concerned if he's rich or poor, Socrates
suggests, as if being a successful physician was in no way indicated by
financial status. There are a number of problems with this
portion of the argument. Firstly, the advisor's rhetorical power (and not
necessarily his knowledge) is of enhanced significance when that of which
he speaks is something most people do not see to be clearly a matter of
technical expertise, or even of truth or falsity instead of taste. This
refers especially to those things that are the subject of political
debate. Unlike in the case of medicine, people do not acknowledge any
clear set of criteria for political expertise, besides perhaps 'success'
for one's polity, a thing not universally agreed upon. Most people have
confidence in their knowledge of the good and just alternatives available
(cf. llOc-d). Policy decisions about what are commonly termed
’value judgements' are rarely decided solely on the basis of reason.
Especially in democracies, where mere whims may become commands, an
appeal to irrational elements in men's souls is often more effective.
Men's fears too, especially their fear of enslavement, can be manipulated
for various ends. Emotional appeals to national pride, love of family and
fraternity, and the possibility of accumulating wealth are what move men,
for it is these to which men are attracted. Rational speech is only
all-powerful if men are all-rational. Secondly, it is not
clear that a man's nobility or ignobility should be of no account in the
ekklesia. At least two reasons might be adduced for this
consideration. There is no necessary connection between
'
74 knowing and giving good advice. Malevolence as
well as ignorance may- cause it. A bad man who knows might give worse
advice than an ignorant man of good will who happens to have right
opinions. Unless the knower is a noble person there is no guarantee that
he will tender his best advice. An ignoble man may provide advice that
serves a perverse interest, and he might even do it on the basis of his
expert knowledge. Another reason for considering nobility important in
advisors is that it might be the best the citizens can do. Most Athenians
would not believe that there are experts in knowledge about justice as
there are in the crafts. If they won't grant that expertise (and there
are several reasons why it would be dangerous to give them the power to
judge men on that score), then it is probably best that they take their
advice from a gentleman, a nobleman, or even a man whose concern for his
family's honor will help to prevent his corruption. Thirdly,
since cities obviously do not succumb to fevers and 79 bodily
diseases, one must in this case treat the "physician of the diseased
city" metaphorically. It is not certain that the Athenians would
recognize the diseased condition of a city. To the extent to which they
do, they tend to regard political health in economic terms (as one speaks
of a "healthy economy"). In that case, whether a man was rich
or poor would make a great deal of difference to them. They wouldn't be
likely to take advice on how to increase the wealth (the health) of a
city from someone who could not prove his competence in that matter in
his private life. In addition, since most people are im¬ portantly
motivated by wealth, they will respect the opinions of one who is
recognizably better at what they are themselves doing - getting wealthy.
It seems to be generally the case that people will attend to
' IP *
75 the speech of a wealthy man more
than to a poorer but perhaps more virtuous man. In other
words, then, it is not clear that what Socrates has said about the
Athenian choice of advisors is true (107b-c). Moreover, it is not clear
that it should be true. Factors such as conventional nobility probably
should play a part in the choice of councillors, even if it is basically
understood in terms of being well-born. People's inability to evaluate
the physicians of the city, and people's emphasis on wealth also are
evidence against Socrates' claims. Socrates wants to know what
they'll be considering when Alkibiades stands forth to the
Athenians. It has been established that he won't advise on writing,
harping, wrestling, building or divination. Alkibiades figures he
will advise them when they are considering their own affairs.
Socrates, in seeming perversity, continues by asking if he means
their affairs concerning ship-building and what sorts of ships they
should 80 have. Since that is of course not what Alkibiades
means, Socrates proposes that the reason and the only reason is that the
young man doesn't understand the art of ship-building. Alkibiades agrees,
but the reader need not. Socrates, by emphasizing the exclusivity of
expertise through the use of so many examples, has alerted the reader,
should he otherwise have missed the point, that there are many reasons
for not advising about something besides ignorance. In some
matters, for example, it is hard to prove knowledge and it may not always
be best to go to the effort of establishing one's claim to expertise. If
the knowledgeable can perceive, say, that no harm will come the way
things are proceeding, there might not be any point to claiming
knowledge. Another reason for perhaps keeping silent is that
* . r 76
the correct view has been presented. There are thus other things with
which to occupy one's time. Perhaps a major reason for keeping silent
about advising on some matters is simply indifference; petty politics can
be left to others. In fact there are, it would seem, quite a number of
reasons for keeping silent besides ignorance. And, on the other hand, it
is unlikely that someone with a keen interest would acknowledge ignorance
as a sufficient condition for their silence. Many who voice their
opinions on public matters do not thereby mean to implicitly claim their
expertise, but only to express their interestedness. Socrates'
ship-building example has a few other interesting features. Firstly, in a
strict sense what Socrates and Alkibiades agree to is wrong: knowledge of
shipbuilding is not the exclusive basis for determining which ships to
build. Depending on whether it is a private or public ship-building
program, the passenger, pilot or politician decides. Triremes or
pleasure-craft, or some other specific vessels are demanded. The
ship-builder then builds it as best he can. But his building is dictated
by his customers, if he is free, or his owners, if he is a slave.
The prominence of Plato's famous "ship-of-state" analogy (
Republic 488a-489c) allows the reader to look metaphorically at the
example of 'ship-building,' and the question of what sort of 'ships'
ought to get built. In terms of the analogy, then, Socrates is asking
Alkibiades if he will be giving advice on statebuilding and what kind of
polis ought to be constructed. This is, it seems, the very thing upon
which Alkibiades wants to advise the Athenians. He wants very much to
build Athens into a super Empire. The recognition of the
ship-of-state analogy brings to the surface a most fundamental political
question ■
77 which lurks behind much of the
discussion of the dialogue: which sort of regime ought to be constructed?
The importance of the question of the best regime to political philosophy
is indicated and reinforced by the very test of the importance of the
question in the analogy. The con¬ sideration of what sort of ship ought
to be built stands behind the whole activity of ship-building, and yet is
one that is not answered by the technical expert. The user
(passenger/citizen) and the ruler (pilot/ statesman) are the ones that
make the decision. On the basis o f an
example that has already been shown to be suspect, namely Socrates'
mention of ship-building, the reader of the First Alkibiades is provided
with the opportunity to consider the intricasies of the analogy and a
question of central importance to the political man. Alkibiades must gain
t he ability to advise the Athenians as to what ships they ought to
build. For the moment, however, Socrates asks on what affairs
Alkibiades means to give advice, and the young man answers those of
war or peace or other affairs of the polis . Socrates asks for
clarification on whether Alkibiades means they'll be deliberating
about the manner of peace and war; will they be considering
questions of on whom, how, when and how long it is better to make
war (107c). But if the Athenians were to ask these sorts of
questions about wrestling, Socrates remarks, they'd call not on
Alkibiades but on the wrestling master, and he would answer in
81 light of what was better. Similarly, when singing and
accompanying lyre-playing and dancing, some ways and times are better.
Alkibiades agrees. The word 'better' was used both in the
case of harping to accom- 82 pany singing and in the case of
wrestling (108a-b). For wrestling. ’
78 the
standard of the better is provided by gymnastics; what supplies it in
the case of harping? Alkibiades doesn't understand and Socrates
suggests that he imitate him, for Socrates' pattern could be
generalized to yield 83 a correct answer in all cases.
Correctness comes into being by the art, and the art in the case of
wrestling is fairly ( kalos) said to be gymnastics (108c). If Alkibiades
is to copy Socrates, he should copy him in fair conversation, as well,
and answer in his turn what the art of harping, singing and dancing is.
But Alkibiades still cannot tell him the name of the art (108c). Socrates
attempts another tact and deviates slightly from the pattern he had
suggested Alkibiades imitate. Presumably Alkibiades will be able to
answer the questions once Socrates asks the right one. He doesn't assume
that Alkibiades is ignorant of the answer, so he takes care in choosing
the appropriate questions. Perhaps his next attempt will solicit the
desired response. The goddesses of the art are the Muses. Alkibiades can
now acknowledge that if the art is named after them, it is called
'Music.' The musical mode, as with the earlier pattern of gymnastics,
will be correct when it follows the musical art. Now Socrates wants
Alkibiades to say what the 'better' is in the case of making war and
peace, but Alkibiades is unable. There are a number of reasons why
he would be unable on the basis of the pattern Socrates has supplied. One
of these has to do with the pattern itself. It is not clear there is an
art ( techne) , per se , of making war and peace. The closest one could
come to recognizing such an art would be to suggest it is the art of
politics, but even if that is properly an art (i.e., strictly a matter of
technical expertise) knowing only its name would not provide a clear
standard of 'better.' The term 'political' does not of its own designate
a better way to wage war and .
79 peace. Despite
the possibility that the art in this case is of a higher order than music
or gymnastics, it remains unclear that Alkibiades can use the same
solution as Socrates suggested in the case of music. Who are the gods or
goddesses who give their name to the art of war and peace? Perhaps one
way to understand this curious feature of the discussion is to consider
that Socrates might be suggesting that there is a divine standard for
politics as well as for music. According to Socrates, Alkibiades'
inability to answer about the standard or politics is disgraceful (108e).
Were Alkibiades an advisor on food, even without expert knowledge (i.e.,
even if he wasn't a physician), he could still say that the 'better' was
the more wholesome. In this case, where he claims to have knowledge
and intends to advise as though he had knowledge (notice the two are not
the same), he should be ashamed to be unable to answer questions on
it. At this point the reader must pause. If Socrates simply
wanted to make this point and proceed with the argument, he has chosen an
un¬ fortunate example in discussing the advisor on food. There are a
number of features of his use of this example that, if transferred, have
quite important repercussions for the discussion of the political
advisor. Firstly, it may be remarked that Socrates has admitted that the
ability to say what the 'better' is, is not always necessarily contingent
upon technical knowledge. Secondly, someone who answers "more
wholesome" as the better in food has already implicitly or
explicitly accepted a hierarchy of values. He has architectonically
structured the arts that have anything to do with food in such a manner as
to place health at the apex. Someone who had not conceded such a
rank-ordering might have said "cheapest," "most
flavorful," or even "sweetest." Thus this example
. V * 80 clearly
indicates the centrality of understanding the architectonic nature of
politics. Thirdly, and perhaps least importantly, Socrates has more
clearly indicated a distinction that was suggested in the previous
example. It is a different matter to know that 'wholesome' food is better
for one than it is to know which foods are wholesome. Socrates had, prior
to this, been attempting to get Alkibiades to name the art which provides
the standard of the good in peace and war. Even if Alkibiades had been
able to name that art, there would have been no indication of his substantive
knowledge of the art. Conversely it might be possible that he would have
substantive knowledge of something without being able to refer to it as a
named art. One might account for Alkibiades' inability to n
ame the art of political advice by reference to something other
than his knowledge and ignorance. Perhaps the very subject matter would
render such a statement difficult. For instance, if politics is the 'art'
which structures all others, it would be with a view to politics that the
respective 'betters' in the other arts would be named. The referent of
politics would be of an entirely different order however. Perhaps its
'better,' the compre¬ hensive 'better,' would be simply 'the good.' At
any rate, it is a question of a different order, a different kind of
question, insofar as the instrumentally good is different from the good
simply. This suggestion is at least partly sustained by the observation
that Socrates uses a different method to discover the answer in this case
than in the previous 'patterns' supplied by wrestling and harping.
Alkibiades agrees that it does indeed seem disgraceful, but even
after further consideration he cannot say what the 'better' (the aim or
good providing a standard of better) is with respect to peace and war.
. ' ; 81
As Socrates' question about the goddesses of harping deviated from
the example of wrestling, so Socrates' attempt here is a deviation. He
asks Alkibiades what people say they suffer in war and what they call
it. The reader might note peace has been omitted from
consideration. Alkibiades says that what is suffered is deceit, force and
robbery (109b), and th at such are suffered in
either a just or an unjust way. Now it is clearer why 'peace' was
not mentioned. It might be more diffi¬ cult to argue in parallel fashion
that the most important distinction in peace was between just peace and
unjust peace. Socrates asks if it is upon the just or the unjust
that Alkibiades will advise the Athenians to make war.
Alkibiades immediately recognizes at least one difficulty. If for some
reason it would be necessary to go to war with those who are just, the
advisor would not say so. That is the case not only because it is
considered unlawful, but, as Alkibiades adds, it is not considered
noble either. Socrates assumes Alkibiades 84 will
appeal to these things when addressing the ekklesia . Alkibiades
here proves he understands the need for speaking differently to the
public, or at least for remaining prudently silent about certain
matters. Within the bounds of the argument to this point, wealth
and prestige (not to mention dire necessity) may be 'betters' in
wars as 85 readily as justice. One may only confidently
infer two things from Alkibiades' admissions. The people listening to the
advice cannot be told that those warred upon are just; and to tell them
so would be un¬ lawful and ignoble. One might be curious as to the proper
relation between lawfulness, nobility and justice, and the reader of the
dialogue, in sorting out these considerations, might examine the argument
surround¬ ing this statement of their relation.
: ’ t
82 The next few discussions in the First Alkibiades
seem to focus on establishing Alkibiades' claim to knowledge about
justice. Either Alkibiades has not noticed his own ignorance in this
matter or Socrates has not observed his learning and taking lessons on
justice. Socrates would like to know, and he swears by the god of
friendship that he is not joking, who the man.was who taught Alkibiades
about justice. Alkibiades wants to know whether he couldn't have
learned it another way. Socrates answers that Alkibiades could have
learned it through his own discovery. Alkibiades, in a dazzling display
of quick answers, responds that he might have discovered it if he'd
inquired, and he might have inquired if there was a time when he thought
he did not know. Socrates says that Aliibiades has spoken well (110a),
but he wants to know when that time was. Socrates seems to
acknowledge Alkibiades' skill in speaking. These formally sharp answers
would probably be the kind praised in question and answer games.
Socrates says Alkibiades has spoken well, but immediately instructs
Alkibiades about how to speak in response to the next question.
Alkibiades is to speak the truth; the dialogue would be futile if he
didn't answer truly. So here it is acknowledged that truth (at least for
the sake of useful dialogue) is the standard for speaking well. He
quickly follows the insincere praise with an indication of the real
criteria for determining if something was well-spoken. Socrates is not
destroying Alkibiades' notion of his ability to achieve ideals, he is
instead destroying the ideals. He acknowledged Alkibiades' skill and then
suggests it is not a good skill to have. Socrates, in effect, tells
Alkibiades to forget the clever answers and to speak the truth. One of
the themes of Socrates' instruction of the youth seems to be the teaching
of proper .
83 goals or standards.
Alkibiades admits that a year ago he thought he knew justice and
injustice, and two, three and four years ago as well. Socrates remarks
that before that Alkibiades was a child and Socrates knows well enough
that even then the precocious child thought he knew. The philosopher had
often heard Alkibiades as a boy claim that a playmate cheated during a
game, and so labelled him unjust with perfect confidence (110b).
Alkibiades concedes that Socrates speaks the truth but asks what else
should he have done when someone cheated him? Socrates points out that
this very question indicates Alkibiades' belief that he knows the answer.
If he recognized his ignorance, Socrates responds, he would not ask what
else he should have done as though there was no alternative.
Alkibiades swears that he must not have been ignorant because he
clearly perceived that he was wronged. If this implies that, as a child,
he thought he knew justice and injustice, then so he must. And he admits
he couldn't have discovered it while he thought he knew it (110c).
Socrates suggests to Alkibiades that he won't be able to cite a time when
he thought he didn't know, and Alkibiades swears again that he can¬ not.
Apparently, then, he must conclude that he cannot know the just on the
basis of discovery (llOd). This argument appears to depend on the
premise that one begins at a loss, completely ignorant, and then one
subsequently discovers what justice is. But such an assumption is surely
unwarranted. The discovery could be a slow, gradual process of continual
refinement of a child's understanding of justice. Often one's opinions
are changed because one discovers something that doesn't square with
previous beliefs. If one is sufficiently confident of the new factor,
one's beliefs may change. » *
84 During the course of the succeeding dialogue, the reader may
see a number of ways in which this procedure might take place in a
person's life. Socrates draws to Alkibiades' attention that
if he doesn't know justice by his own discovery, and didn't learn
it from others, how could he know it. Alkibiades suggests that
perhaps he said the wrong thing before and that he did in fact
learn it, in the same way as everyone else. It is not clear that
this is a sincere move on Alkibiades' part (though it proves later
in the dialogue to have support as being the actual account of the
origin of most people's views of justice). Perhaps in order to win
the argument he is willing to simply change the premises.
Unfortunately, his changing of this one entirely removes the need
for the argument. Socrates doesn't bother to point out to
Alkibiades that if everybody knows it, and in the same way, then
Alkibiades has no claim to special expertise, and so no basis for
presuming to advise the Athenians. Alkibiades' abilities in speaking
have been demonstrated, a care and willingness to learn from
dialogue 86 have yet to be instilled. As is
presently indicated to Alkibiades, his answer brings about a return
to the same problem - from whom did he learn it? To his reply that
the many taught him (llOe), Socrates responds that they are not
87 worthy teachers in whom he is taking refuge. They are not
competent 88 to teach how to play and how not to play
draughts and since that is insignificant compared to justice, how can
they teach the more serious matter? Alkibiades perceptively counters this
by pointing out that they can teach things more worthy than draughts; it
was they and no single master who taught Alkibiades to speak
Greek. 85 Alkibiades by
this point proves that he is capable of quick and independent thought. He
doesn't merely follow Socrates' lead in answer¬ ing but in fact points
out an important example to the contrary. The Greek language is taught by
the many quite capably even though they can¬ not teach the less important
draughts nor many other peculiar skills. A number of issues
important to the discussion are brought to the surface by this example.
First, one should notice that language is another thing Alkibiades has
learned which Socrates didn't mention. Language is necessary for learning
most other subjects, and one can learn quite a lot by just listening to
people speaking. A common language is the precondition of the
conversation depicted in the First Alkibiades , as is some general
agreement, however superficial, between Socrates and Alkibiades as to
what they mean when they say 'justice.' In order to have an argument over
whether or not one of them is indeed knowledgeable about justice and
injustice, they must have some notion of what 'justice' conventionally
means. They are not talking about the height of the sky, the price of
gold, or the climate on mountaintops. Justice ( dikaios) is a word in the
Greek language. Most people share sufficient agreement about its meaning
so as to be able to teach people how the word should be used. This
conventional notion of justice thus informs a child's sense of justice,
and as is shown by the strategy of the Republic as well as of the First
Alkibiades , the conventional opinions about justice must be dealt with
and accounted for in any more philosophic treatment. One must
assume that conventional opinions about justice have some connection,
however tenuous, with the truth about it. This exempli¬ fies the peculiar
nature of 'agreement' as a criterion of knowledge. That experts
agree about their subject matter is not altogether beside
. '
86
the point, but too much emphasis should not be placed upon it. There are
innumerable examples of "sectarian" agreements, none of which by
that fact have any claim to truth. There is also considerable agreement
in conventional opinions and the "world-views" of various
communities which must be accounted for but not necessarily
accepted. Socrates admits to Alkibiades (whom he chooses to
address, at this moment, as "well-born," perhaps in order to
remind him that he dis¬ tinguishes himself from the many) that the people
can be justly praised for teaching such things as language, for they are
properly equipped (and actually the many do not teach one how to use
language well). To teach, one ought to know, and an indication of their
knowing is that they agree among each other on the language. If they
disagreed they couldn't be said to know and wouldn't be able to teach.
One might parenthetically point to some other important things that the
many teach. Children learn the laws from the many, including the
laws/rules of games. To call some¬ one a cheater (110b) does not mean
someone knows justice; they simply must know the rules of the game and be
able to recognize when such rules have been violated. Rules of games are
strictly conventional. They gain their force from an agreement, implicit
or explicit, between the players. One might wonder if justice is,
correspondingly, the rules of a super- game, or if it is something
standing behind all rule-obeying. The many agree on what stone and
wood are. If one were to say "stone" or "wood," they
could all reach for the same thing. That is what Alkibiades must mean by
saying that all his fellow citizens have knowledge of Greek. And they are
good teachers in as much as they agree on these terms in public and
private. Poleis also agree among each other (111b, 118d, 126c-e;
cf. Lakhes 186d). Anyone who wanted to learn what stone
' 87 and wood were would be rightly sent to the
many. The fact that Greeks agree with each other when they name
objects hardly accounts for their knowledge of the language, much less
their ability to teach it. Naming is far from being the bulk of
speaking a , 89 language, (Hobbes and Scripture to the
contrary notwithstanding ). Not only is it improper to consider
many parts of speech as having the function of designating things,
but even descriptive reference to the sensible world is only a
partial aspect of the use of language. To mention only a few
everyday aspects of language that do not obviously conform,
consider the varied use of commands, metaphors, fables, poetry and
exclamation. To suggest that what constitutes one's knowledge of a
language is to point to objects and use nouns to name them, would
be completely inadequate. It would be so radically insufficient, in
fact, that it could not even account for its own
articulation. Language consists of much more than statements which
correspond to observables in the actual world. But even were one to restrict
one's examination of language to understanding what words mean, or refer
to, one would immediately run into difficulties. All sorts of words
are used in everyday language which demand some measure of evaluation on
the part of the user and the listener. A dog may be pointed to and
called "dog." A more involved judgement is required in calling
it a "wild dog," or "wolf," not to say a "bad
dog." Agreement or disagreement on the use of such terms does not
depend on knowledge of the language as much as on the character of the
thing in question. There are problems even with Socrates' account
of naming. One cannot be certain that the essence of a thing has been
focussed upon by those giving the name to the thing. One might fasten
upon the material. k? -isprthfc ■
. 88 or the form, or yet some other
feature of the object. For example, a piece of petrified wood, or a stone
carving of a tree would significantly complicate Socrates' simple
example. It is not at all clear that the same thing would be pointed to
if someone said "stone." The reader may remember that the
prisoners in the cave of the Republic spend quite a bit of their time
naming the shadows on the wall of the cave ( Republic 515b, 516c). The
close connection between this discussion and that of the Republic is
indicated also by the fact that the objects which cast the shadows in the
cave are made of stone and wood ( Republic 515a.1). People in the cave
don't even look at the objects when they name things. According to the
analogy of the cave they would be the people teaching Alkibiades to speak
Greek; they are the people in actual cities. And what they call
"stone" and "wood" are only an aspect of stone and
wood, the shadowy representations of stone and wood. If the essences of
stone and wood, comparatively simple things, are not denoted by language,
one can imagine in what the agreement might consist in the popular use
of words like "City" and "Man." The question of the
relation of a name to the essential aspect of the thing adds a
significant dimension to the philosophic understanding of the human use
of language. Alkibiades and Socrates seem to be content with this
analysis of naming, however, and Socrates readily proceeds to the next
point in the argument. If one wanted to know not only what a man or a
horse (note the significance of the change from stone and wood) was, but
which was a good runner, the many would not be able to teach that - proof
of which is their disagreement among themselves. Apparently finding this
example insufficient, Socrates adds that should one want to know which
men were healthy and which were diseased, the many would also not be able
to ■ 89
teach that, for they disagree (llle). Notice two features of
these examples that may be of philosophic interest. To begin with,
the respective experts are, first the gymnastics . . 90
trainer and second, the physician. In this dialogue, both the
gymnastics expert and the doctor have arguments advanced on their behalf,
supporting their claim to be the proper controllers of, or experts about,
the whole body (126a-b, 128c). As supreme rulers of the technae of the
body they have different aspects of the good condition in mind and consequently
might give different advice (for example on matters of diet). Thereupon
one is confronted with the standard problem of trying to maintain two or
more supreme authorities: which one is really the proper ruler in the
event of conflict. There is yet another aspect of the same problem
that is of some concern to the reader of the First Alkibiades . One might
say that the relation of the body to the soul is a very persuasive issue
in this dialogue, and the suggestion that there are two leaders in matters
of the body causes one to wonder whether there is a corresponding
dual leadership in the soul. Secondly, the reader notices
that the composition of "the many" shifts on the basis of what
is being taught. On the one hand, the doctor fits into "the
many" as being unable to tell the good runner; on the other hand,
when the focus is on health, all but the doctor appear to constitute
"the many." The question of how to understand the make-up
of the many points to a very large issue area in philosophy, namely that
which is popularly termed the 'holism vs. individualism debate,' or more
generally, the question of the composition and character of
groups. What essentially ffogproaiiS . ic eaasdM ao
elqpa** icS) *o*‘/&* tusislilt tAup
90 characterizes groups - in particular
that politically indispensible group, "the many?" This issue is
not superfluous to this dialogue, nor to this portion of this dialogue.
By placing the doctor alone against the many (in the second example), one
unwittingly contradicts oneself. Alkibiades and Socrates fall among the
ranks of the Many as well as the Few. Perhaps the most
obvious problem connected with determining the composition of the group,
"the many," is brought into focus when one tries to discover
how one "goes to the many" to learn (llld). There are quite a
few possibilities. Does the opinion of "the many" become the
average (mean) opinion of all the different views prevalent in a city?
Or is it the opinion held by the majority? One might go to each
indi¬ vidual, to each of a variety of representative individuals, or even
to 51% of the individuals in a given place, and then statistically
evaluate their opinions, arriving at one or another form of majority
consensus. Or, one might determine conventional opinion by asking
various indi- 91 viduals what they believe everyone
else believes. There seem to be countless ways of understanding "the
many," each of which allows for quite different outcomes. The
problems for the student of political affairs, as well as for the
aspiring politician, are compounded because the many do not appear to
hold a single view unanimously or unambiguously on many of the important
questions. Regardless of which is the appropriate understanding of
"the many, the reader must at all events remember that "the
many" and "the few" are a perennial political division.
There are, likewise, several ways in which "the few" are
conceived. Some consider them to be the men of wealth, the men of
virtue, the men of intelligence, and so on. Reference '.! ' *'«•
“’ 0 •' ri ° JBk: ® 91 to
"the few," however, is rarely so vague as reference to the
many, since people who speak of "the few" are usually aware of
which criteria form the bases of the distinction. Despite the lack of
clarity con¬ cerning the division between "the many" and
"the few," it is appealed to, in most regimes as being a
fundamental schizm. Most regimes, it may be ventured, are in fact based either
upon the distinction, or upon trying to remove the distinction, and they
appeal to this division, however vague, to legitimate themselves.
At this point in the discussion of the First Alkibiades (llle),
Alkibiades and Socrates are considering whether the many are capable
teachers of justice. They appear to be making their judgement solely on
the basis of the criterion of agreement. One might stop to consider not
only whether agreement is sufficient to indicate knowledge, but indeed
whether it is even necessary. One cannot simply deny the possi¬ bility
that one might be able to gain knowledge because of disagreements.
Profound differences of opinion might indicate the best way of learning
the truth, as, for example the disagreements among philosophers about
justice teaches at the very least what the important considerations might
be. Socrates continues. Since disagreement among the many
indicates that they are not able to teach (though lack of ability rarely
prevents them from trying anyway, cf. Apology 24c-25a; Gorgias 461c),
Socrates asks Alkibiades whether the many agree about justice and
injustice, or if indeed they don't differ most on those very concerns.
People do not 92 fight and kill in battle because they
disagree on questions of health, but when justice is in dispute,
Alkibiades has seen the battles. And if he hasn't seen them
(Socrates should know this, after all, cf. 106e) he
■
92 has heard of the fights from many,
particularly from Homer, because he's heard the Odyssey and Iliad .
Alkibiades' familiarity with Homer is of great significance. It,
along with his knoweldge of Greek, are probably the two most crucial
"oversights" in Socrates' list of what Alkibiades learned. In fact,
they are of such importance that they overshadow the subjects in which he
did take lessons, in terms of their effect on his character development,
his common-sense understanding, and on his suitability for political
office. Homer is an important source of knowledge and of opinion, and is
respons¬ ible for there being considerable consensus of belief among the
Greeks in many matters. He provides the authoritative interpretation of
the gods as well as of the qualities and actions of great men. If
Alkibiades knows Homer and if he knows that Homer is about justice, then
he has learned much more about justice than one would surmise on the
basis of his formal schooling. Alkibiades agrees with
Socrates' remark that the Iliad and Odyssey are about disagreements about
justice and injustice. He also accepts the interpretation that a
difference of opinion about the just and the unjust caused the battles
and deaths of the Akhaians and Trojans; the dispute between Odysseus and
Penelope's suitors; and the deaths and fights of the Athenians, Spartans
and Boiotians at Tanagra and Koroneia. (One notes that Socrates has
blended the fabulous with the actual, and has chosen, as his non-mythic
example, probably the one over which it is most difficult for Alkibiades
to be non-partisan - the battle in which his father died. This also
raises his heritage to the level of the epic.) The reader need not agree
with this interpretation on a number of counts. Firstly, the central case
is noteworthy in that Socrates t .
93 interprets Odysseus' strife with the men of
Ithaka to be over a woman, and not primarily the kingdom and palace. It
is not at all clear, more¬ over, that what caused the altercation between
Odysseus and the suitors was a difference of opinion about justice. They
might have all wanted the same thing, but the reaction of the suitors at
Odysseus' return indicates that they didn't feel they were in the
right - they admitted 93 gurlt. Secondly, what is noticeable
in Homer is that only one aspect of the epic is about the dispute about
justice (and also, both Homeric examples involve a conflict between eros
and justice, represented by Helen and Penelope). In the epics the
disagreement among the many refers not to the many of one polis but of
various poleis against each other. Indeed the many of each polis in the
Trojan war agree. These observations foreshadow the discussion that
will presently come to the fore in the dialogue under somewhat different
circumstances. The problem of the difference between the just and the
expedient is a key one in political philosophy, and it is introduced by
the reflection that in a number of instances disagreement does not focus
on what the just solution is, but on who should be the victor, who will
control the thing over which the sides are disputing. Both sides agree
that it would be good to control one thing. More shall be said about this
later in the context of the discussion. Socrates inquires of
Alkibiades whether the people involved in those wars could be said to
understand these questions if they could disagree so strongly as to take
extreme measures. Though he must admit that teachers of that
sort are ignorant, Alkibiades had nevertheless re¬ ferred Socrates to them.
Alkibiades is quite unaware of the nature of justice and injustice and he
also cannot point to a teacher or say when he discovered them. It
thus seems hard to say he has knowledge of them.
» ijf 94
Alkibiades agrees that according to what Socrates has said it is not
likely that he knows (112d). Socrates takes this opportunity to teach
Alkibiades a most important lesson. Though apparently a digression, it
will mark a pivotal point in the turning around of Alkibiades that occurs
by the middle of the discussion. Socrates says that Alkibiades'
last remark was not fair ( kalos) because he claimed Socrates said that
Alkibiades was ignorant, whereas actually Alkibiades did. Alkibiades is
astounded. Did he_ say it? Socrates is teaching Alkibiades that the
words spoken in an argument ought indeed to have an effect on one's life,
that the outcomes of argu¬ ments are impersonal yet must be taken
seriously, and that responsibility for what is said rests with both partners
in dialogue. The results of rational speech are to be trusted; reason is
a kind of power necessarily determining things. Alkibiades cannot agree
in speech and then decide, if it is convenient, to dismiss conclusions on
the grounds that it was someone else who said it. Arguments attain much
more significance when they are recognized as one's own. One must learn
they are not merely playthings (cf. Republic 539b). Accepting
responsibility for them and their conclusions is essential. It is important
politically with reference to speech, as well as in the more generally
recognized sense of assuming responsibility for one's actions. To cite an
instance of special importance to this dialogue, who is responsible for
Alkibiades - Perikles? Athens? Socrates? Alkibiades himself? One can
often place responsibility for one's actions on one's society, one's
immediate environment, or one's teachers. Perhaps it is not so easy to
shun responsibility for conclusions of arguments. Most men desire
consistency and at least feel uneasy when they are shown to be
involved in ■ .
95 contradictions. In this discussion of who
must accept responsibility for the conclusions of rational discourse,
Alkibiades learns yet another lesson about the power of speech. He has,
by his own tongue, convicted himself of ignorance. Socrates
demonstrates to Alkibiades that if he asks whether one or two is the
larger number, and Alkibiades answers that two is greater by one, it was
Alkibiades who said that two was greater than one. Socrates had asked and
Alkibiades had answered; the answer was the speaker. Similarly, if
Socrates should ask which letters are in "Socrates" and
Alkibiades answered, Alkibiades would be the speaker. On the basis
of this the young man agrees that, as a principle, whenever there is
a questioner and an answerer, the speaker is the answerer. Since so
far Socrates had been the questioner and Alkibiades the answerer,
Alkibiades is responsible for whatever has been uttered. What
has been disclosed by now is that Alkibiades, the noble son of
Kleinias, intends to go to the ekklesia to advise on that of which he
knows nothing. Socrates quotes Euripides - Alkibiades "hear it
from 94 [himself] not me." Socrates doesn't pull
any punches. Not only does he refer to an almost incestuous woman to
speak of Alkibiades' condition, but he follows with what must seem a
painfully sarcastic form of address (since it is actually ironic) which
the young man would probably wish to hear from serious lips. Alkibiades,
the "best of men,' is contemplating a mad undertaking in teaching
what he has not bothered to learn. Alkibiades has been hit, but not
hard enough for him to change his mind instead of the topic. He thinks
that Athenians and the other Greeks don't, in fact, deliberate over the
justice of a course of action - they consider that to be more or
less obvious - but about its advantageousness
. 96 (113d).
The just and the advantageous are not the same, for great in¬ justices
have proven advantageous, and sometimes little advantage has been gained
from just action. Socrates announces that he will challenge Alkibiades'
knowledge of what is expedient, even if he should grant that the just and
the advantageous are ever so distinct (113e). Alkibiades perceives
no hindrance to his claiming to know what is advantageous unless Socrates
is again about to ask from which teacher he learned it or how he
discovered it. Hereupon Socrates remarks that the young man is treating
arguments as though they were clothing which, once worn, is dirtied.
Socrates will ignore these notions of Alkibiades, implying that they
involve an incorrect understanding of philosophic disputation. Alkibiades
must be taught that what is ever correct according to reason remains
correct according to reason. Variety in arguments is not a criterion
affecting their rational consistency. Socrates shall proceed by
asking the same question, intending it to, in effect, ask the whole
argument. He claims to be certain that Alkibiades will find himself in
the same difficulty with this argument. The reader will recognize
that Alkibiades is not likely to en¬ counter precisely the same problems
with this new argument. The nature of the agreement and disagreement by
individuals and states over the matter of usefulness or advantageousness
is different than that concern¬ ing justice. A man may know it would be
useful to have something, or expedient to do something, and also know it
to be unjust. States, too, may agree on something's advantageousness, say
controlling the Hellespont but they may disagree on who should control
it. The conflict in these cases is not the result of a disagreement as to
what is true (e.g., it is true that each country's interests are better
served by control of y»iM am s****^#’**- QakSWte ei rx^a
pn^ ®/i;t 97 key sea
routes), but it is based precisely on their agreement about the truth
regarding expediency. When states and individuals are primarily concerned
with wealth, then knowing what is useful presents far fewer problems than
knowing what is just. Since Alkibiades is so squeamish as to
dislike the flavor of old arguments, Socrates will disregard his
inability to corroborate his claim to knowledge of the expedient. Instead
he will ask whether the just and the useful are the same or different.
Alkibiades can question Socrates as he had been questioned, or he can
choose whatever form of discourse he likes. As he feels incapable of convincing
Socrates, Alkibiades is invited to imagine Socrates to be the people of
the ekklesia ; even there, where the young man is eager to speak, he will
have to persuade each man singly (114b). A knowledgeable man can persuade
one alone and many together (114b-c). A writing master is able to
persuade either one or many about letters and likewise an arithmetician
in¬ fluences one man or many about numbers. For quite a few
reasons the reader might object to Socrates' inference from these
examples to the arena of politics. Firstly, they are not the kinds of
things discussed in politics, and one might suspect that the
"persuasion" involved is not of the same variety. Proof of this
might be offered in the form of the observation that the inability to
persuade in politics does not necessarily imply the dull-wittedness of
the audience. Strong passions bar the way for reason in politics like
they rarely do in numbers and letters. This leads to the second
objection. Not only is knowledge of grammar and arithmetic fundamentally
different than politics, but they represent extreme examples in them¬
selves. They correspond to two very diverse criteria of knowledge both
.
. 98 of which have
been previously introduced in the dialogue. The subject matter of letters
is decided upon almost exclusively by agreement; that of numbers is
learned most importantly through discovery, and this does not depend on
people's agreement (cf. 112e-113a, 126c; and 106e reminds one that
Alkibiades has taken lessons only in one of these). Presumably,
however, if the arithmetician and grammarian can, then Alkibiades also
will be able to persuade one man or many about that which he knows.
Apparently the only difference between the rhetorician in front of a
crowd and a man engaged in dialogue is that the rhetorician persuades
everyone at once, the latter one at a time. Given that the same man per¬
suades either a multitude or an individual, Socrates invites Alkibiades
to practice on him to show that the just is not the expedient.
(Ironically, there may be no one Alkibiades ever meets who is further
from the multitude). If it weren't for his earlier statement (109c)
where he indicated his recognition of the difference between private and
public speech, it would appear that Alkibiades had quite a lot to learn
before he confronted the ekklesia . One might readily propose that there
is indeed very little similarity between persuading one and persuading
the multitude. In a dialogue one man can ask questions that reveal the
other's ignorance; Socrates does this to Alkibiades in this
dialogue, he might not in public (118b). In a dialogue, there needn't
always be public pressure with which to contend (an important exception
being courtroom dialogue); a public speech, especially one addressing the
ekklesia must yield to or otherwise take into account the strength of the
many. Often when addressing a crowd one only has to address the
influential. At other times one need only appeal to the least common
denominator. There are factors at work in crowds which affect
reactions to a speaker, factors which do not seem to • . c
ib . *
99 be present in
one-to-one dialogue. When addressing a multitude, a speaker must be aware
of the general feelings and sentiments of the group, and address himself
to them. When in dialogue he can tailor his comments to one man's
specific interests. To convince the individual, however, he will have to
be precisely right in his deduction of the individual's senti¬ ments - in
a crowd a more general understanding is usually sufficient. Mere
hints at a subject will be successful; when addressing a multitude with
regard to a policy, a rhetorician will not be taken to task for every claim
he makes. If his general policy is pleasing to the many, it is unlikely
that they will critically examine all of his reasons for pro¬ posing the
policy. Also, when speaking to a crowd, one is not expected to prove
one's technical expertise. An individual may be able to discover the
limits of one's knowledge; a crowd will rarely ask. This whola analysis,
however, is rendered questionable by the ambiguity of the composition of
"the many," discussed above. One could, for example, come
across a very knowledgeable crowd, or a stupid individual and many of the
above observations would not hold. However, the situations most directly
relevant to the dialogue involve rhetoric toward a crowd such as that of
the ekklesia , and thoughtful dialogue between individuals such as
Alkibiades and Socrates. If Alkibiades ever intends to set forth a
plan of action to the Athenians, the adoption of his proposal will depend
on his convincing them in the ekklesia . The ability to persuade the
multitude attains great political significance; and especially in
democracies, a man's ability in speaking is often the foundation of his
power. Once recognized, this power is susceptible to
cultivation. Rhetoric, t he art of persuasive speech, is the
art which provides the '
100 knowledge requisite to gain
effective power over an audience. All political men are aware of
rhetoric; their rhetorical ability to a large 95 extent
determines their success or failure. Of course, there are at least two
important qualifications or limits on the power of even the most
persuasive speech. The first limit is knowledge. A man who knows grammar
and arithmetic will not be swayed wrongly about numbers, when they are
used in any of the conventional ways. That an able rhetorician escape
detection in a lie is a necessity if he is to be successful among those
knowledgeable in the topic he addresses. Presumably those who possess
only beliefs about the matter would be more readily seduced to embrace a
false opinion. The second limit is more troubling. It is the
problem of those who simply are not convinced by argument. They
distrust the spoken word. These seem to fall into three categories.
The first is exemplified in the character of Kallikles in the
Gorgias . It primarily includes those who are unwilling to connect
the conclusions of arguments to their own lives. They may agree to
something in argument and, moments later, do something quite
contrary to their conclusions. This characteristic is well-
displayed in Kallikles who, when driven to a contradiction doesn't
even 96 care. He holds two conflicting opinions and holds
them so strongly that he doesn't even care that they support conclusions
that are contrary to reason and yield contrary results. Kallikles is
unwilling to continue discussing with Socrates ( Gorgias 505c. 1-e.l; 506
c.5; 519d); he does not want to learn from rational speech. He remains
unconvinced by Socrates' argument and by his rhetoric ( Gorgias 511a.
3-5; 513c.5; 516b-d; 519d- 522e). If Socrates is to rule Kallikles, he
will need more than reason and wisdom and beautiful speech ( Gorgias
523a-527e); he will need some *
101 kind of coercive power. Secondly,
almost all people have some experience of those who in¬ consistently
maintain in speech what they do not uphold in deed. This is the most
immediate level on which to recognize the problem of the rela¬ tion of
theory to practice. Alkibiades seems to have this opinion of speech at
the beginning of the dialogue, for he can admit almost anything in speech
(106c.2). Two things, however, show that he is far above it. He
implicitly recognizes that the realm of speech is the realm within which
he must confront Socrates, and he has a desire for consistency. Kallikles
is too dogmatic to even recognize his inconsistency. But when Socrates
forces Alkibiades to take responsibility for all the conclusions they
have reached to that point (112e. 5ff.), he realizes he must have made an
error either in his premises or his argument. This marks the first and
major turning around of Alkibiades. He recognizes that he has said he is
ignorant. A third type of person who is not convinced by
rhetoricians is the one who distrusts argument because he recognizes the
skill involved in speaking. Not because he is indifferent to the
compulsion of reason but precisely because he wants to act according to
reason, he desires to be certain of not being tricked. (Most people are
also familiar with the feeling that something vaguely suspicious is going
on in a discussion.) He is convinced that there are men - e.g.,
sophists - who are skilled at the game of question and answer and can
make anyone look like a fool. And so what? He is not at all moved
by their victory in speech. Some¬ thing other than rational speech is
needed to convince him. Indeed, this is one of the most difficult
challenges Socrates meets in the Republic , and indicates a higher
level of the theory/practice relationship.
' ■ 102
Adeimantos is not convinced by mere words. He has to be shown that
philosophy is useful to the city, among other things ( Republic
487b.1-d.5; 498c.5 ff; 367d.9-e.5; 367b.3; 389a.10). Although he is
distrustful of mere speech, he learns to respect it as a medium through
which to under¬ stand the political. He has the example of Socrates whose
life matches, or is even guided by, his speech. Socrates' difficulty lies
in making the case in speech to this man who does not put full stock in
the con¬ clusions of speech. One must wonder, moreover, what kinds of
deeds will suffice for those others who cannot even view Socrates. This
is the problem faced by all writers who want to reach this sort of
person. Perhaps one might consider very clever speakers like Plato
to be per¬ forming the deed of making the words of a Socrates appear like
the deeds of Socrates, in the speech of the Dialogues. Almost
paradoxically, they must convince through speech that speech isn't
"mere talk." Alkibiades charges Socrates with hybris and
Socrates acknowledges it for the time being, for he intends to prove to
Alkibiades the opposite view, namely that the just is the expedient
(114d). Socrates doesn't deny the charge, or even, as one might expect,
playfully redirect it as might be appropriate; the accusation is made by
a man who, not much later, will be considered hybristic by almost the
entire Athenian public. It is not clear precisely what is hybristic about
Socrates' last remarks. Hybris is a pride or ambition or insolence
inappropriate to men. Perhaps both men are hybristic as charged; in this
instance it is not imperative that they defend themselves for they are
alone. Possibly anyone who seeks total power as does Alkibiades, or
wisdom like Socrates, is too ambitious and too haughty. They would be
vying with the gods to the extent that they challenge civic piety and the
supremacy of the deities ’
'
103 of the polis . One wants to rule the universe
like a god, the other to know it like a god. The charge of
hybris has been introduced in the context of persuading through speech.
Allegedly the person who knows will have the power to persuade through
speech. This is itself rather a problematic claim as it implies all
failure to persuade is an indication of ignorance. However questionable
the assertion, though, the connection it recalls between these three
important aspects of man's life - knowledge, power and language - is too
thoroughly elaborated to be mere coincidence. It is very likely that the
reader's understanding of these two exceptional men and the
appropriateness of the charge of hybris will have something to do with
language's relation to knowledge and power. Alkibiades asks
Socrates to speak (114d), if he intends to demonstrate to Alkibiades that
the just is not distinct from the ad¬ vantageous. Not inclined to answer
any questions (cf. 106b), Alkibiades wishes Socrates to speak alone. Socrates,
pretending incredulity, asks if indeed Alkibiades doesn't desire most of
all to be persuaded and Alkibiades, playing along, agrees that he
certainly does. Socrates suggests that the surest indication of
persuasion is freely assenting, and if Alkibiades responds to the
questions asked of him, he will most assuredly hear himself affirm that
the just is indeed the advantageous. Socrates goes so far as to promise
Alkibiades that if he doesn't say it, he never need trust anybody's speech
again. This astonishingly extravagant declaration by Socrates
bespeaks certain knowledge on his part. Socrates implies he is confident
of one of two things. Perhaps he knows that the just is advantageous, or
the true relationship between the two, and thus argues for the proof of
the ■ ■ 104
claim that anyone who knows can persuade. (The immense difficulties with
this have already been suggested.) What is more likely, however, is that
he does not think the just is identical to the advantageous, but he knows
he can win the argument with Alkibiades and drive him to assert whatever
conclusion he wants (that he could in effect make the weaker argument
appear the stronger). If the latter is true, the reader is reminded of
the power of speech and the possible dangers that can arise from its use.
He will also wonder if Socrates is quite right in his proposal that
Alkibiades need never trust anyone's speech if he cannot be made to
agree. It seems to be more indicative of the untrustworthiness of speech
if Alkibiades should agree, not that he refuse to agree. However, the
reader has been placed in the enviable position of being able to judge
for himself, through a careful review of the argument. His personal
participation, to the limit of his ability, is after all the only means
through which he can be certain that he isn't being duped into believing
something instead of knowing it. Alkibiades doubts he will admit
the point, but agrees to comply, confident that no harm will attend his
answers. Whereupon Socrates claims that Alkibiades speaks like a diviner
(cf. 127e, 107b, 117b), and proceeds, presuming to be articulating
Alkibiades' actual opinion. Some just things are advantageous and
some are not (115a). Some just things are noble and some are not. Nothing
can be both base and just, so all just things are noble. Some noble
things might be evil and some base things may be good, for a rescue is
invested with nobility on account of courage, and with evil because of
the deaths and wounds. However, since courage and death are distinct, it
is with respect to separate aspects that the rescue can be said to be
both noble and evil. aft 105
Insofar as it is noble it is good, and it is noble because of courage.
Cowardice is an evil on par with (or worse than, 115d) death. Courage
ranks among the best things and death among the worst. The rescue is
deemed noble because it is the working of good by courage, and evil
because it is the working of evil by death. Things are evil because of
the evil produced and good on account of the good that results. In as
much as a thing is good it is noble and base inasmuch as it is evil.
To designate the rescue as noble but evil is thus to term it good
but evil (116a). In so far as something is noble it is not evil, and
neither is anything good in so far as it is base. Whoever does nobly does
well and whoever does well is happy (116b). People are made happy
through the acquisition of good things. They obtain good things by doing
well and nobly. Accordingly, doing well is good and faring well is
noble. The noble and good are the same. By this argument all that
is noble is good. Good things are expedient (116c) and as has already
been admitted, those who do just things do noble things (115a); those who
do noble things do good things (116a). If good things are expedient then
just things are expedient. As Socrates points out, it is
apparently Alkibiades who has asserted all of this. Since he argues that
the just and the expedient are the same, he could hardly do other than
ridicule anyone who rose up to advise the Athenians or the Peparathians
believing he knew the just and the unjust and claiming that just things
are sometimes evil. Before proceeding, the reader must pause and
attempt to determine the significance of the problem of the just versus
the expedient. No intimate familiarity with the tradition of political
philosophy is re¬ quired in order to observe that the issue is dominant
throughout the 106
tradition/ perhaps most notably among the moderns in the writings of
Machiavelli and Hobbes who linked the question of justice and expediency
to the distinction between serving another's interest and serving one's
own interest. They, and subsequent moderns, in the spirit of the
"Enlightenment," then proceed with the intention of eradicating the
dis¬ tinction. Self-interest, properly understood, is right and is the
proper basis for all human actions. Not only is there a widespread
connection between the issue, the traditional treatment of the issue, and
human action - but the reader might recall that the ancient philosophers,
too, considered it fundamental. One need only realize that the
philosophic work par excellence , Plato's Republic , receives its impetus
from this consideration. The discussion of the best regime (perhaps the
topic of political philosophy) arises because of Glaukon's challenging
reformula¬ tion of Thrasymakhos' opinion that justice is the advantage of
the stronger. Recognition of this fact sufficiently corroborates the
view that this issue warrants careful scrutiny by serious students of
political philosophy. Socrates has chosen this topic as the one on which
to demonstrate the internal conflicts in Alkibiades' soul. Perhaps
that is a subtle indication to the reader as to where he might focus when
he begins the search for self-knowledge, the inevitable prerequisite
for his improvement. Alkibiades swears by all the gods. He is
overwhelmed. Alkibiades protests that he isn't sure he knows even what he
is saying; he continual¬ ly changes his views under Socrates'
questioning. Socrates points out to him that he must be unaware of what
such a condition of perplexity signifies. If someone were to ask him
whether he had two or three eyes, or two or four hands, he would probably
respond consistently because he . .
107 knows the answer. If he voluntarily gives
contradictory replies, they must concern things about which he is
ignorant. Alkibiades admits it is likely; but there are probably other
reasons why one might give contra¬ dictory answers, just as one might
intentionally appear to err - in speech speech. Alkibiades'
ignorance with regard to justice, injustice, noble, base, evil and good is
the cause of his confusion about them. Whenever a man does not know a
thing, his soul is confused about that thing. By Zeus (fittingly),
Alkibiades concedes he is ignorant of how to rise into heaven. There is
no confusion in his opinion about that simply because he is aware that he
doesn't know. Alkibiades must take his part in discerning Socrates'
meaning. He knows he is ignorant about fancy cookery, so he doesn't get
confused, but entrusts it to a cook. Similarly when aboard ship he
knows he is ignorant of how to steer, and leaves it to the pilot.
Mistakes are made when one thinks one knows though one doesn't. Otherwise
people would leave the job to those who do know. The ignorant person who
knows he is ignorant doesn't make mistakes (117e). Those who make
mistakes are those who think they know when they don't; those who know
act rightly; those who don't, leave it to others. All this is
not precisely true for a number of reasons. Chance or fortune always
plays a part and something unexpected could interfere in otherwise
correctly laid plans. Also, as any honest politician or general would
have to say, sometimes courses of action must be decided and acted upon,
even when one is fully cognizant of one's partial ignorance.
The worst sort of stupidity, Socrates testifies is the stupidity
108 conjoined with confidence. It is a cause
of evils and the most pernicious evils occur through its involvement with
great matters like the just, the noble, the good and the advantageous.
Alkibiades' bewilderment regarding these momentous matters, coupled with
his ignorance of his very ignorance, imputes to him a rather sorry
condition. Alkibiades admits he is afraid so. Socrates at this
point (118b) makes clear to Alkibiades the nature of his predicament. He
utters an exclamation at the plight of the young man and deigns to give
it a name only because they are alone. Alkibiades, according to his own
confession, is attached to the most shameful kind of stupidity. Perhaps
to contrast Alkibiades' actual condition with what he could be, Socrates
chooses precisely this moment to refer to Alkibiades as "best of
men" (cf. also 113c). With such apparent sarcasm still reverberating
in the background, Socrates intimates that because of this kind of
ignorance he is eager to enter politics before learning of it.
Alkibiades, far from being alone, shares this lot with most politicians
except, perhaps, his guardian Perikies, and a few others. Already
recognized to be obviously a salient feature of the action of the dialogue,
the fact that the two are alone, engaged in a private conversation, is
further stressed here as the reader approaches the central teaching of
the First Alkibiades . Alkibiades has been turned around and now faces
Socrates. They can confide in each other even to the extent of
criticizing all or nearly all of Athens' politicians. They shall,
in the next while, be saying things that most people should not hear. And
at this moment it seems to be for the purpose of naming Alkibiades'
condition that Socrates reminds the reader of their privacy. A
number of possible reasons for the emphasis on privacy in this regard
come to mind. Socrates likely would not choose to call Alkibiades
109 stupid in front of a crowd. In
the first place, his having just recognized his ignorance makes him far
less stupid than the crowd and it would be inappropriate to have them
feel they are better than he. Alkibiades is by nature a cut above the
many, and it would be a sign of contempt to expose him to ridicule in
front of the many. Though he may be in a sorry condition, he is being
compared to another standard than the populace. Secondly, to expose
and make Alkibiades sensitive to public censure is probably not in his
best interests. A cultivation in most noble youths of the appropriate
source of their honor and dishonor is important. Socrates, by not making
Alkibiades feel mortified in front of the many, is heightening his
respect for the censure of men like Socrates. Without this alternative, the
man who seeks glory is confronted with a paradox of sorts. He wants the
love/adoration of the many, and yet he despises the things they love or
adore. Alkibiades is being shown that the praise of few (and if the
principle is pushed to its limit, eventually the praise of one - oneself,
i.e. pride) is more to be prized. Thirdly, as Socrates explains to
Meletus in his trial ( Apology 26a), when someone does something
unintentionally, it is correct to instruct him privately and not to
summon the attention of the public. Alkibiades is not ignorant on
purpose; Socrates should privately instruct him. It is also probable that
Alkibiades will only accept private criticism which doesn't threaten his
status. And perhaps fourthly, if Socrates were to insult Alkibiades
in public the many would conclude that there was a schizm between
them. Because they are men whose natures are akin, and because of
their (symbolic) representation of politics and philosophy, or power
and . 110
knowledge, any differences they have must remain private. It is in their
best interest as well as the interest of the public, that everyone per¬
ceive the two as being indivisible. And as was observed earlier, even the
wisest politicians must appear perfectly confident of their knowledge and
plans. This is best done if they conceal their private doubts and display
complete trust in their advisors, providing a united front when facing
the many. When Socrates suggests Perikles is a possible exception,
Alkibiades names some of the wise men with whom Perikles conversed to
obtain his wisdom. Those whom he names are conventionally held to be
wise; Alkibiades might not refer to the same people by the end of this
conversation with Socrates. In any event, upon Alkibiades' mention of the
wise men, Socrates insinuates that Perikles' wisdom may be in
doubt. Anybody who is wise in some subject is able to make another wise
in it, just as Alkibiades' writing teacher taught Alkibiades, and
whomever else he wishes, about letters. The person who learns is also
then able to en¬ lighten another man. The same holds true of the harper
and the trainer (but apparently not the flute player, cf. 106e). The
ability to point to one's student and to show his capability is a fine proof
of knowing anything. If Perikles didn't make either of his sons wise, or
Alkibiades' brother (Kleinias the madman) ,why is Alkibiades in his sorry
condition? Alkibiades confesses that he is at fault for not paying
attention to Perikles. Still, he swears by the king of gods that there
isn't any Athenian or stranger or slave or foreman who is said to have
become wise through conversation with Perikles, as various students of
sophists have been said to have become wise and erudite through lessons. Socrates
doesn't need to explicate the conclusion. Instead, he asks Alkibiades
_ Ill what he intends to do.
The conclusion of the argument is never uttered. It is obviously
meant to question Perikles' wisdom, but rather than spell it out, the
topic is abruptly changed. If Perikles were dead, not alive and in power,
piety would not admit of even this much criticism to be levied.
Alkibiades would be expected to defend his uncle against those outside
the family; and all Athenians to defend him against critics from other
poleis . In addition, if this was a public discussion, civic propriety
would demand silence in front of the many concerning one's doubts about
the country's leaders. But since they are indeed alone, and need not
worry about the effects on others of their discussion of Perikles'
wisdom, they might have concluded the argument. The curious reader will
likely examine various reasons for not finishing it. Three possibilities
appear to be somewhat supported by the discussion to this point.
One notices, to begin with, that it would be adequate for the
argument, if a person could be found who was reputed to have gained
wisdom from Perikles. Given that a reputation among the many has not been
highly regarded previously in the dialogue, there seems little need to
press this point in the argument. If a man was said to have been made
wise by Perikles, the criteria by which that judgment would be made seem
much less reliable than the criteria whereby the many evaluate a man's skill
in letters. There is no proof of Perikles' ability to make another wise
in finding someone who is reputed to be wise. Conversely, Perikles may
well have made someone wise who did not also achieve the reputation for
wisdom. A second point in connection with the argument is that the
three subjects mentioned are those in which Alkibiades has had
lessons. . 112 Alkibiades
has ability in them, yet cannot point to people whom he has made wise in
letters, harping or wrestling. That does not seem sufficient proof that
he is ignorant (thus that his master was ignorant and so on) . It
is also not clear that Alkibiades' teachers could have made any student
whomsoever they wished, wise in these subjects; Perikles 1 sons must have
achieved their reputation as simpletons (118e) from failing at something.
Knowledge cannot require, for proof, that one has successfully taught
someone else. Not all people try to teach what they know. There must be
other proofs of competence, such as winning at wrestling, or pleasing an
audience through harping. Similarly, not having taught someone may not
prove one's ignorance; it may just indicate unwilling and incapable
students. Alkibiades, for example, didn't learn to play the flute. There
is no indication that his teacher was incapable - either of playing or of
teaching. Alkibiades is said to have refused to learn it becaus e of
con¬ siderations of his own. It might also be suggested that pointing
to students doesn't solve the major problem of proving someone's
knowledge. Is it any easier to recognize knowledge in a student
than in a teacher? A third closely connected point is that some
knowledge may be of such significance that the wise man properly
spends his time actively 98 using it (e.g., by ruling)
and not teaching it. Perikles, through ruling, may have made the
Athenians as a whole better off, and perhaps even increased their
knowledge somewhat. Had his son and heirs to his power observed his
example while he was in office, they too might have become wiser. Adding
further endorsement to this notion is the quite reasonable supposition
that some of the things a wise politician knows cannot be taught through
speech but only through example, just as some kinds of knowledge must be
gained by experience. He may communicate his .
113 teaching through his example, or even less obviously, through
whatever institutions or customs he has established or revised.
Some subjects should probably also be kept secret for
the state, and some types of prudential judgement are acquired only
be guided experience. Perikles' 99 very
silence, indeed, may be a testimony to his political wisdom.
In response to Socrates' question as to what Alkibiades will do,
the young man suggests that they put their heads together (119b). This
marks the completion of Alkibiades' turning around. Alkibiades, who began
the discussion annoyed and haughty has requested Socrates' assist¬ ance
in escaping his predicament. He is ready to accept Socrates' advice. This
locution (of putting their heads together) will be echoed later by
Socrates (124c) and will mark another stage of their journey together.
The central portion of the dialogue, the portion between the two
joinings of their heads, is what shall be taken up next.
Since most of the men who do the work of the polis are uneducated
(119b), Alkibiades presumes he is assured of gaining an easy victory over
them on the basis of his natural qualities. If they were educated, he
would have to take some care with his learning, just as much training is
required to compete with athletes. But they are ignorant amateurs and
should be no challenge. Socrates launches into an exclamatory
derision of this "best of men." What he has just said is
unworthy of the looks and other resources of his. Alkibiades doesn't know
what Socrates means by this and Socrates responds that he is vexed for
Alkibiades and for his love. Alkibiades shouldn't expect this contest to
be with these men here. When Alkibiades inquires with whom his contest is
to be, Socrates asks if that is a question worthy of a man who considers
himself superior. Alkibiades wants ■
114 to ascertain if Socrates is suggesting that his contest is not
with these men, the politicians of the polis . This passage
is central to the First Alkibiades . The answer im¬ plicit in Socrates'
response I deem to be far more profound than it might seem to the casual
observer. Hopefully the analysis here will support this judgement and
show as well, that this question of the contest (agon) is a paramount
question in Alkibiades' life, in the lives of all superior men, and in
the quest for the good as characterized by political philosophy. If
Alkibiades' ambition is really unworthy of him, if he thinks he ought to
strive only be be as competent as the Athenians, then Socrates is vexed
for his love. Earlier (104e) the reader was informed that Socrates would
have had to put aside his love for Alkibiades if Alkibiades proved not to
have such a high ambition. Thus Socrates was attracted to Alkibiades'
striving nature. He followed the youth about for so long because
Alkibiades' desires for power were growing. What thus differ¬ entiates
Alkibiades from other youths (such as several of those with whom Socrates
is shown in the dialogues, to have spent time) is that he has more
exalted ambitions than they. Should Socrates come to the con¬ clusion
that Alkibiades does not in fact have this surpassing will for power, the
philosopher would be forced to put away his love for Alkibiades. Now,
after some discussion, it seems there is a possibility that Alkibiades
wants only to be as great as other politicians. Many boys wish this;
Alkibiades' eros would not be outstanding. Were this true, it would indeed
be no wonder if Socrates were vexed for his love. However, it
appears that this is just something Alkibiades has said (119c.3, 9).
Socrates' love is not released, so Alkibiades passes this, the test of
Socrates' love. It is at this point in the dialogue
.
115 that one can finally discern the
character of the test. The question, really, is what constitutes a high
enough ambition. An athlete must try to find out with whom to train and
fight, for how long, how closely, and at what time (119b; 107d-108b). He
determines all of this himself; he determines, in other words, the extent
of his ambition to improve and care for himself in terms of his contest.
That with whom he fights determines how he prepares himself. The contest
is thus a standard against which to judge his achievement.
The next step appears to be obvious: for the athlete of the soul as
well as the athlete of the body, the question is with whom ought he
contest. Socrates suggests shortly that should Alkibiades' ambition be to
rule Athens, then his contest would rightly be with other rulers, namely
the Spartan kings and the Great King of Persia. Since Socrates apparently
proceeds to compare in some detail the Spartan and Persian princes' preparations
for the contest, the surface impression is that Alkibiades really must
presume his contest to be with the Persians and Spartans. The reader
remembers, however, that Alkibiades would rather die than be limited to
ruling Athens (105b-c). What is the proper contest for someone who
desires to rule the known, civilized world and to have his rule endure
beyond his own lifetime; what is the preparation requisite for truly
great politics? At this point the question of the contest assumes an
added significance. The reference cannot be any actual ruler; the inquiry
has encountered another dimension of complexity. The larger
significance is, it is suspected, connected to the earlier, discussion
about the role of the very concept of the superior man in political
philosophy, particularly in understanding the nature of man. The very
idea that a contest for which one ought to prepare oneself
116 is
with something not actualized by men of the world (at least not in an
obvious sense since it cannot be any actual ruler) poses problems for
some views of human nature. For example, in the opinion of those who
believe that man's "nature" is simply what he actually is, or what
is "out there"; the actual men of the world and their demonstrated
range of possibilities are what indicate the nature of man. On this
view, man's nature, typically is understood to be some kind of
statistical norm. These people will agree that politics is limited by man
and thought about political things is thus limited by man's nature, but
they will not con¬ cede the necessity of looking toward the best
man. The argument to counter this position is importantly
epistemo¬ logical. It is almost a surety that any specific individual will
deviate from the norm to some degree, and the difference can only be
described as tending to be higher or lower than, or more or less than,
the norm. This deviation, which is to one side or other of the norm,
makes the individual either better or worse than the norm. Thus
individuals, it may be said, can be arranged hierarchically based on
their position relative to the norm and "the better" (cf.
107d-109a). Whenever one tries to account for an individual's
hierarchical position vis a vis the norm, it is done in terms of
circumstances which limit or fail to limit his realization of his
potential. Since no one is satisfied with an explanation of a deviation
such as "that is under¬ standable, 25% of the cases are higher than
normal," some explanation of why this individual stopped short, or
proceeded further than average is called for. 100 The implicit
understanding of the potential, or of the proper/ideal proportions, then,
is what allows for comparison between individuals. By extension, this
understanding of the potential, whether
117 or not it is actualized, is what provides the ability to
judge between regimes or societies. The amount a polity varies (or its
best men, or its average men) from the potential is the measure of its
quality relative to other polities. The explanation of this variation
(geo¬ graphic location, form of regime, economic dependency, or other
standard reasons) will be in terms of factors which limit it from
nearing, or allow it to approach nearer the goal. As it is
not uniformly better to have more and not less the normal of any
characteristic, any consistent judgement of deviation from the norm must
be made in light of the best. Indeed, it usually is, either ex¬ plicitly
or implicitly. This teleological basis of comparison is the
common-sensical one, the prescientific basis of judgement. When someone
is heard to remark "what a man," one most certainly does not
understand him to be suggesting that the man in question has precisely
normal characteristics. Evaluating education provides a clear and
fitting example of how the potential, not the norm, serves as the
standard for judging. A teacher does not attempt to teach his students to
conform to the norm in literary, or mathematical ability. It would be
ludicrous for him to stop teaching mid-year, say, because the normal
number of his students reached the norm of literacy for their age.
Indeed, education itself can be seen as an attempt to exceed the norm (in
the direction of excellence) and thereby to raise it. That can only be
done if there is a standard other than the norm from which to judge the
norm itself. The superior man understands this. He competes with the
best, not the norm. As a youth he comes to know that a question
central to his ambition, or will for power is that of his proper
contest. The theoretical question of how one knows with whom to
compete is . 118 very
difficult although it may (for a long time) have a straightforward
practical solution. It is at the interface between the normally accepted
solution and the search for the real answer that Alkibiades and Socrates
find themselves, here in the middle of their conversation. For most
people during part of their lives, and for many people all of their life,
the next step in one's striving, the next contestant one must face, is
relatively easy to establish. Just as a wrestler pro¬ ceeds naturally
from local victory through stages toward world champion¬ ship, so too
does political ambition have ready referents - up to a point. It is at
that point that Alkibiades finds himself now, no doubt partly with the
help of Socrates prodding his ambitions (e.g., 105b. ff, 105e). What had
made it relatively easy to know his contestant before were the pictures
of the best men as Alkibiades understood them, namely politically
successful men, Kyros and Xerxes (much as an ambitious wrestler usually
knows that a world championship title is held by some¬ one in
particular). Alkibiades' path had been guided. Socrates has chosen to address
Alkibiades now, perhaps because Alkibiades' ambition is high enough that
the conventional models no longer suffice. Alkibiades is at the stage
wherein he must discover what the truly best man is, actual examples have
run out. He recognizes that he needs Socrates' help (119b); no one else
has indicated that Alkibiades' contest might take place beyond the
regular sphere of politics, with contestants other than the actual rulers
of the world. But how is he to discover the best man in order that he may
compete? This is the theoretical question of most significance to
man, and could possibly be solved in a number of ways. Within the
confines of the dialogue, however, this analysis will not move further
than to recognize \
119 both
the question/ and its centrality to political philosophy. 101 To note in
passing, however, there may be many other questions behind that of the
best man. There may, for example, be more than one kind of best man, and
a decision between them may involve looking at a more prior notion of
"best." At any rate, it has been shown that it is
apparently no accident that the central question in a dialogue on the
nature of man is a question by a superior youth as to his proper contest.
What is not yet understood is why a philosophic man's eros is devoted to
a youth whose erotic ambition is for great politics, a will to power over
the whole world. By means of a thinly veiled reference to Athen's
Imperial Navy, over which Alkibiades would later have full powers as
commander, Socrates attempts to illustrate to the youth the importance of
choosing and recog¬ nizing the proper contestants. Supposing, for
example, Alkibiades were intending to pilot a trireme into a sea battle,
he would view being as capable as his fellows merely a necessary
qualification. If he means to act nobly ( kalos ) for himself and his
city, he would want to so far sur¬ pass his fellows as to make them feel
only worthy enough to fight under him, not against him. It doesn't seem
fitting for a leader to be satis¬ fied with being better than his
soldiers while neglecting the scheming and drilling necessary if his
focus is the enemy's leaders. Alkibiades asks to whom Socrates is
referring and Socrates responds with another question. Is Alkibiades
unaware that their city often wars with Sparta and the Great King? If he
intends to lead their polis , he'd correctly suppose his contest
was with the Spartan and Persian kings. His contest is not with the likes
of Meidias who retain a slavish nature and try to run the polis by
flattering, not ruling it. If he looks to that sort
1 . '
120 for his goal, then indeed he needn't learn what's
required for the greatest contest, or perform what needs exercising, or
prepare himself adequately for a political career (120c). Alkibiades, the
best of men, has to consider the implications of believing that the
Spartan generals and the Persian kings are like all others (i.e., no
better than normal). 103 Firstly, one takes more care of oneself if one
thinks the opponents worthy, and no harm is done taking care of oneself.
Assuredly that sufficiently establishes that it is bad to hold the
opinion that they are no better .. . 104 than anyone
else. Almost as a second thought, Socrates turns to another
criterion which might indicate why having a certain opinion is bad
- truth (cf. Republic 386c). There is another reason, he continues,
namely that the opinion is probably false. It is likely that better
natures come from well-born families where they will in the end
become virtuous in the event 105 they are well brought
up. The Spartan and Persian kings, descended from Perseus, the son
of Zeus, are to be compared with Socrates' and Alkibiades' ancestral
lines to see if they are inferior. 100 Alkibiades is quick to point out
that his goes back to Zeus as well, and Socrates adds that he comes from
Zeus through Daidalos and Hephaistos, son of Zeus. Since ancestral origin
in Zeus won't qualitatively differentiate the families, Socrates points
out that in both cases - Sparta and Persia - every step in the line was a
king, whereas both Socrates and Alkibiades (and their fathers) are
private men. The royal families seem to win the first round. The
homelands of the various families could be next com¬ pared, but it is
likely that Alkibiades' her itage, which Socrates is able to
describe in detail, would arouse laughter. In ancestry and in birth and
breeding, those people are superior, for, as Alkibiades should have
■
121 observed,
Spartan kings have their wives guarded so that no one outside 107
the line could corrupt the queen, and the Persians have such awe
for the king that no one would dare, including the queen.
With the conclusion of Socrates' and Alkibiades' examination of the
various ancestries of the men, and before proceeding to the dis¬ cussions
of their births and nurtures, a brief pause is called for to look at the
general problem of descent and the philosophic significance to have in
this dialogue. References to familial descent are diffused
throughout the First Alkibiades . It begins by calling attention to
Alkibiades' ancestry and five times in the dialogue is he referred to as
the son of Kleinias (103a, 105d, 112c, 113b, 131e). On two occasions he
is even addressed as the son of Deinomakhe (105d, 123c). If that weren't
enough, this dialogue marks one of only two occasions on which Socrates'
mother, the midwife Phainarete, is named (cf. Theaitetos 149a). The
central of the things on which Socrates said Alkibiades prides himself is
his family, and Socrates scrutinizes it at the greatest length. The sons
of Perikles are mentioned, as are other familial relations such as the
brother of Alkibiades. The lineages of the Persian kings, of the Spartan
kings, of Alkibiades and Socrates are probed, and Socrates reveals that
he has bothered to learn and to repeat the details. The mothers of the
Persian kings and Spartan kings are given an important role in the
dialogue, and in general the question of ancestry is noticeably dominant,
warranting the reader's exploration. As already discussed in
the beginning, the reference to Alkibiades' descent might have
philosophic significance in the dialogue. Here again, the context of the
concern about descent is explicitly the consideration
I 122 of the natures of men.
Better natures usually come from better ancestors (as long as they also
have good nurtures). At the time of birth, an individual's ancestry is
almost the only indication of his nature, the most important exception
being, of course, his sex. But, as suggested by Socrates' inclusion of
the proviso that they be well brought up (120e), a final account of man's
nature must look to ends not only origins, and to his nurture, not only
descent. Nurture ( paideia) is intended to mean a comprehensive sense of
education, including much more than formal school¬ ing; indeed, it
suggests virtually everything that affects one's up¬ bringing. The
importance of this facet in the development of a man's nature becomes
more obvious when one remembers the different character¬ istics of
offspring of the same family (e.g., Kleinias and Alkibiades, both sons of
Kleinias and Deinomakhe, or the sons of Ariston participating in the
Republic ). These suggestions, added to the already remarked upon
importance of nurture in a man's life, mutually support the contention
that nature is to be understood in terms of a fulfilled end providing a
standard for nurture. The nature of man, if it is to be understood in
terms of a telos , his fulfilled potential, must be more than that which
he is born as. An individual's nature, then, is a function of his descent
and his nurture. Often they are supplementary, at least super¬ ficially;
better families being better educated, they are that much more aware and
concerned with the nurture of their offspring. 'Human nature' would be
distinguished from any individual's nature in so far as it obviously does
not undergo nurture; but if properly understood, it pro¬ vides the
standard for the nurture of individuals. To the point of birth, then,
ancestry is the decisive feature in a man's nature, and thus sets limits
on his nature. When his life begins, that turns around, and
; 123 education and practice
become the key foci for a man's development. 108 After
birth a man cannot alter his ancestry, and nurture assumes its role
in shaping his being, his nature. The issue is addressed in a
rather puzzling way by Socrates' claim that his ancestry goes
through Daidalos to Hephaistos, the son of Zeus. This serves to
establish (as authoritatively as in the case of the others) that he
is well-born. It does nothing to counter Alkibiades' claim that he,
like the Persian and Spartan kings, is descended from Zeus (all of
them claiming descent from the king of the Olympians); in other words,
it does not appear to serve a purpose in the explicit argument and
the reader is drawn to wonder why he says it. Upon
examination one discovers that this is not the regular story.
Normally in accounts of the myths, the paternal heritage of
Hephaistos is ambiguous at best . Hesiod relates that Hephaistos was
born from Hera 109 with no consort. Hera did not mate
with a man; Haphaistos had no father. 1 '*’ 0 Socrates thus
descends from a line begun by a woman - the queen of the heavens, the
goddess of marriage and childbirth (cf. Theaitetos 148e-151e; also 157c,
160e-161e, 184b, 210b-c; Statesman 268b). By mentioning Hephaistos as an
ancestor, Socrates is drawing attention to the feminine aspect of his
lineage. An understanding of the feminine is crucial to an account of
human nature. The male/female division is the most fundamental one for
mankind, rendering humans into two groups (cf. Symposium 190d-192d). The
sexes and their attraction to each other provide the most basic
illustration of eros , perhaps man's most powerful (as well as his most
problematic) drive or passion. Other considerations include the female
role in the early nurture of children (Republic 450c) and thus the
certain, if indirect effect of sex on the
. 124 polls (it is not even
necessary to add the suspicions about a more subtle part for femininity
reserved in the natures of some superior men, the philosophers). Given
this, it is quite possible that Socrates is sug¬ gesting the importance
of the male/female division in his employment of 'descent' as an extended
philosophic metaphor for human nature. A brief digression
concerning Hephaistos and Daidalos may be use¬ ful at this point.
Daidalos was a legendary ingenious craftsman, in¬ ventor and sculptor
(famous for his animate sculptures). He is said to have slain an
apprentice who showed enough promise to threaten Daidalos' supremacy, and
he fled to Krete. In Krete he devised a hollow wooden cow which allowed
the queen to mate with a bull. The offspring was the Minotaur. Daidalos
constructed the famous labyrinth into which select Athenian youths were
led annually, eventually to be devoured by the Minotaur. ^ Daidalos,
however, was suspected of supplying the youth Theseus (soon to become a
great political founder) with a means to exit from the maze and was
jailed with his son Ikaros. A well known legend tells of their flight.
Minos, the Kretan king was eventually killed in his pursuit of
Daidalos. Hephaistos was the divine and remarkably gifted craftsman
of the Olympians, himself one of the twelve major gods. Cast from the
heavens as an infant, Hephaistos remained crippled. He was, as far as can
be told, the only Olympian deity who was not of surpassingly
beautiful physical form. It is interesting that Socrates would claim
descent from him. Hephaistos was noted as a master craftsman and
manufactured many wondrous things for the gods and heroes. His most
remarkable work might have been that of constructing the articles for the
defence of the noted warrior, Akhilleus, the most famous of which was the
shield (Homer, . 125 Iliad
y XVIII/ 368-617). The next topic discussed in this, the longest
speech in the 112 dialogue, is the nurture of the
Persian youths. Subsequently Socrates discourses about Spartan and
Persian wealth and he considers various possible reactions to
Alkibiades' contest with the young leaders of both countries. The
account Socrates presents raises questions as to his possible
intentions. It is quite likely that Socrates and Xenaphon, who also
gives an account of the nurture of the Persian prince, have more in
mind than mere interesting description. Their interpretations and
presentations of the subject differ too markedly for their purposes
to 113 have been simply to report the way of life in
another country. Thus, rather than worry over matters of historical
accuracy, the more curious features of Socrates' account will be
considered, such as the relative emphasis on wealth over qualities of
soul, and the rather lengthy speculation about the queens', not the
kings', regard for their sons. In pointed contrast to the
Athenians, of whose births the neighbors do not even hear, when the heir
to the Persian throne is born the first festivities take place within the
palace and from then on all of Asia celebrates his birthday. The young
child is cared for by the best of the king's eunuchs, instead of an
insignificant nurse, and he is highly honored for shaping the limbs of
the body. Until the boy is perhaps seven years old, then, his attendant
is not a woman who would provide a motherly kind of care, nor a man who
would provide an example of masculinity and manliness, but a neutered
person. The manly Alkibiades, as well as the reader, might well wonder as
to the effect this would have on the boy, and whether it is the intended
effect. At the age of seven the boys learn to ride horses and
commence to
126 hunt. This physical activity, it seems,
continues until the age of four¬ teen when four of the most esteemed
Persians become the boys' tutors. They represent four of the
virtues, being severally wise, just, temperate, and courageous. The
teaching of piety is conducted by the wisest tutor of the four (which
certainly allows for a number of interesting possi¬ bilities) . He
instructs the youth in the religion of Zoroaster, or in the worship of
the gods, and he teaches the boy that which pertains to a king -
certainly an impressive task. The just tutor teaches him to be completely
truthful (122a); the temperate tutor to be king and free man overall of
the pleasures and not to be a slave to anyone, and the brave tutor trains
him to be unafraid, for fear is slavery. Alkibiades had instead an old
(and therefore otherwise domestically useless) servant to be his tutor.
Socrates suspends discussion of the nurture of Alkibiades'
competitors. It would promise to be a long description and too much of a
task (122b). He professes that what he has already reported should
suggest what follows. Thereby Socrates challenges the reader to examine
the manner in which this seemingly too brief description of nurture at
least indicates what a complete account might entail. This appears
to be the point in the dialogue which provides the most fitting
opportunity to explicitly and comprehensively consider nurture. It has
become clear to Socrates and Alkibiades that the correct nurture is
essential to the greatest contest, and Socrates leaves Alkibiades (and
the reader) with the impression that he regards the Persian nurture to be
appropriate. One might thus presume that an examination of Persian
practices would make apparent the more important philosophical questions
about nurture. 127 Socrates had been
specific in noticing the subjects of instruction received by Alkibiades
(106e), and the reader might follow likewise in observing the lessons of
the Persian princes. On the face of it, Socrates provides more detail
regarding this aspect of their nurture than others, so it might be
prudent to begin by reflecting upon the teaching of religion and kingly
things, of truth-telling, of mastering pleasures, and of mastering fears.
Perhaps the Persian system indicates how these virtues are properly seen
as one, or how they are arranged together, for one sus¬ pects that conflicts
might normally arise in their transmission. These subjects are being
taught by separate masters. A consistent nurture demands that they are
all compatible, or that they can agree upon some way of deciding
differences. If the four tutors can all recognize that one of them ought
to command, this would seem to imply that wisdom some¬ how encompasses
all other virtues. In that case, the attendance of the one wise man would
appear to be the most desirable in the education of a young man. The wise
man's possession of the gamut of virtues would supply the prince with a
model of how they properly fit together. With¬ out a recognized
hierarchy, there might be conflicts between the virtues. Indeed, as the
reader has had occasion to observe in an earlier context of the dialogue,
two of the substantive things taught by two different tutors may conflict
strongly. There are times when a king ought not to be honest. The teacher
of justice then would be suggesting things at odds with that which
pertains to a king. How would the boys know which advice to choose,
independently of any other instruction? In addition, Socrates suggests
that the bravest Persian (literally the 'manliest') tells or teaches the
youth to fear nothing, for any fear is slavery. But surely the expertise
of the tutor of courage would seem to consist *
128 in his knowing what to fear and what not to fear. Otherwise
the youth would not become courageous but reckless. Not all fears
indicate that one is a slave: any good man should run out of the way of a
herd of stampeding cattle, an experienced mountain climber is properly
wary of crumbling rock, and even brave swimmers ought to remain well
clear of whirlpools. For this to be taught it appears that the courageous
tutor would have to be in agreement with the tutor of wisdom. These sorts
of difficulties seem to be perennial, and a system of nurture which
can overcome them would provide a fine model, it seems, for education
into virtues. If the Persian tutors could indeed show the virtues to
be harmonious, it would be of considerable benefit to Alkibiades to
under¬ stand precisely how it is accomplished. The question
of what is to be taught leads readily to a considera¬ tion of how to
determine who is to teach. The problem of ascertaining the competence of
teachers seems to be a continuing one (as the reader of this dialogue has
several occasions to observe - e.g., llOe, ff.). But besides their public
reputation there is no indication of the criteria employed in the
selection of the Persian tutors. To this point in the dialogue, two
criteria have been acknowledged as establishing qualifica¬ tion for
teaching (or for the knowledge requisite for teaching). Agree¬ ment
between teachers on their subject matter (lllb-c) is important for
determining who is a proper instructor, as is a man's ability to refer to
knowledgeable students (118d). As has already been indicated, both of
these present interesting difficulties. Neither, however, is clearly or
obviously applicable to the Persian situation. The present king might
prove to be the only student to whom they can point (in which case they
may be as old as Zopyros) and he might well be the only one in a position
129 to agree with them. It is conceivable that some
kinds of knowledge are of such difficulty that one cannot expect too many
people to agree. If the Persians have indeed solved the problems of
choosing tutors, and of reconciling public reputation for virtue with
actual possession of virtue, they have overcome what appears to be a most
persistent diffi¬ culty regarding human nurture. Another
issue which surfaces in Socrates' short account of the Persian
educational system is that of the correct age to begin such nurture.
Education to manhood begins at about the age of puberty for the prince.
If the virtues are not already quite entrenched in his habits or thoughts
(in which latter case he would have needed another source of instruction
besides the tutors - as perhaps one might say the Iliad and Odyssey provide
for Athenian youths such as Alkibiades), it is doubtful that they could
be inculcated at the age of fourteen. Socrates is completely silent about
the Persians' prior education to virtue, dis¬ closing only that they
began riding horses and participating in "the hunt." Since both
of those activities demand some presence of mind, one may presume that
early Persian education was not neglected. This earliest phase of
education is of the utmost importance, however, for if the boy had been a
coward for fourteen years, one might suspect tutoring by a man at that
point would not likely make him manly. And to make temperate a lad
accustomed to indulgence would be exceedingly difficult. Forcibly
restricting his consumption would not have a lasting effect un¬ less
there were some thing to draw upon within the understanding of the boy,
but Socrates supplies Alkibiades with no hint as to what that might be.
Presently the young man will be reminded of Aesop's fables and the
various stories that children hear. If, in order to qualify as proper
. 130 nurturing,
such activities as children participate in - e.g., music and gymnastics -
ought to be carried out in a certain mode or with certain rules (cf.
Republic 377a-e; 376c-414c), Socrates gives no indication of their manner
here. Unless stories and activities build a respect for piety and
justice, and the like, it is not obvious that the respect will be
developed when someone is in his mid-teens. It would seem difficult, if
not impossible, to erase years of improper musical and gymnastic
education. Socrates remains distressingly silent about so very much of
the Persian (or proper) method of preparing young men for the great
contest. The only one who would care about Alkibiades 1 birth,
nurture or education, would be some chance lover he happened to have,
Socrates says in reference to his seemingly unique interest in
Alkibiades' nature (122b). He concludes what was presumably the account
of the education of the Persian princes, intimating that Alkibiades would
be shamed by a comparison of the wealth, luxury, robes and various
refinements of the Persians. It is odd that he would mention such items
in the context immediately following the list of subjects the tutors were
to teach in the education of the soul of the king - including the
complete mastery of all pleasure. It is even more curious that he would
deign to mention these in the context of making Alkibiades sensitive to
what was required for his preparation for his proper contest. The
historical Alkibiades, it seems, would not be so insensitive to these
luxuries as to need re¬ minding of them, and the dialogue to this point
has not given any indica¬ tion that these things of the body are
important to the training Alkibiades needs by way of preparing for
politics. The fact that Socrates expressly asserts that Alkibiades would
be ashamed at having less of those 1
131 things corroborates the suggestion that more is going on
in this long speech than is obvious at the surface. Briefly,
and in a manner that doesn't appear to make qualities of soul too
appealing, Socrates lists eleven excellences of the Spartans: temperance,
orderliness, readiness, easily contented, great-mindedness,
well-orderedness, manliness, patient endurance, labor loving, contest
loving and honor loving. Socrates neither described these glowingly, nor
explains how the Spartans come to possess them. He merely lists them.
Then, interestingly, he remarks that Alkibiades in comparison is a child
. He does not say that Alkibiades would be ashamed, or that he would
lose, but that he had somehow not yet attained them. Like some children
presumably, he may have the potential to grow into them if they are part
of the best nature. There is no implication, then, that Alkibiades'
nature is fundamentally lacking in any of these virtues, and this is of
special interest to the reader given the more or less general agreement,
even during his lifetime, as to his wantonness. Socrates here suggests
that Alkibiades is like a child with respect to the best nature.
This part of Socrates' speech reveals two possible alternatives to
the Persian education, alternatives compatible with the acquisition of
virtue. A Spartan nurture was successful in giving Spartans the set of
virtues Socrates listed. Since Alkibiades obviously cannot regain the
innocence necessary to benefit from early disciplined habituation, and
since Socrates nevertheless understands him to be able to grow into
virtue in some sense, there must be another way open to him. This twenty
year old "child" has had some early exposure to virtue, at
least through poetry, and perhaps it is through this youthful persuasion
that ■ .
132 Socrates will aid him in his education. Indeed Socrates
appeals often to his sense of the honorable and noble - which is related
to virtue even if improperly understood by Alkibiades. As the dialogue
proceeds from this point/ Socrates appears to be importantly concerned
with making Alkibiades virtuous through philosophy. He is trying to
persuade Alkibiades to let his reason rule him in his life, most
importantly in his desire to know himself. Perhaps, on this account, one
might acquire virtue in two ways, a Spartan nurture, for example, and
through philosophy. Again, however, Socrates stops before he has
said everything he might have said, and turns to the subject of wealth.
In fact, Scorates claims that he must not keep silent with regard to
riches if Alkibiades thinks about them at all. Thus, according to
Socrates, not only is it not strange to turn from the soul to wealth, but
it is even appropriate. Socrates must attest to the riches of Spartans,
who in land and slaves and horses and herds far outdo any estate in
Athens, and he most especially needs to report on the wealth of gold and
silver privately held in Lakedaimon. As proof for this assertion, which
certainly runs counter to almost anyone's notion of Spartan life,
Socrates uses a fable within this fabulous story. Socrates
assumes Alkibiades has learned Aesop's fables - somehow - for without
supplying any other details he simply mentions that there are many tracks
of wealth going into Sparta and none coming out. In order to explain
Socrates' otherwise cryptic remarks, the children's fable will be
recounted. Aesop's story concerns an old lion who must eat by his wits
because he can no longer hunt or fight. He lies in a cave pretending to
be ill and when any animals visit him he devours them. A fox eventually
happens by, but seeing through the ruse he remains outside the cave. When
133 ths lion asks why he doesn't
come in, the fox responds that he sees too many tracks entering the cave
and none leaving it. The lion and the fox represent the classic
confrontation between power and knowledge. 114 One notices that in the
fable the animals generally believe an opinion that proves to be a fatal
mistake. The fox doesn't. He avoids the error. The implication is that
Socrates and Alkibiades have avoided an important mistake that the rest
of the Greeks have made. One can only speculate on what it is precisely.
They seem to be the only ones aware of one of Sparta's qualities, a
quality which, oddly, is in some sense essential to Alkibiades' contest.
Perhaps Socrates' use of the fable merely suggests that erroneous
opinions about the nature of one's true contestant may prove fatal, but
there may be more to it than that. This fable fittingly
appears in the broad context of nurture; myths and fables are generally
recognized for their pedagogic value. Any metaphoric connection this
fable brings to mind with the more famous Allegory of the Cave in
Plato's Republic will necessarily be speculative. 115
But they are not altogether out of place. The cave, in a sense,
represents the condition of most people's nurtures and thus represents
a fitting setting for a fable related in this dialogue. Given
Socrates' fears of what will happen to Alkibiades (132a, 135e) and
Alkibiades' own concern for the demos , the suggested image of people
(otherwise fit enough to be outside) being enticed into the cave and
unable to leave it might be appropriate. At any rate, in
terms of the argument for Sparta's wealth, this evidence does nothing to
show that the wealth is privately held. It is apparent, after all, that
the evidence indicates gold is pouring into '
. 134 Spsi’ts. from all over Greece, but
not coining' out of the country, whereas Socrates seems to interpret this
as private, not public wealth. Perhaps the reader may infer from this
that a difference between city and man is being subtly implied. Socrates
is suggesting that wealth is an important part of the contest, and yet he
includes himself in the contest at a number of points. This rather
inconclusive and ambiguous reference to the wealth of Sparta and the
Spartans might suggest that the difference between the city and man
regarding riches, may be that great wealth is good for a city (for
example, as Thucydides observes, wealth facilitates warmaking), and is
thus something a ruler should know how to acquire - but not so good for
an individual. Socrates' next statement supports this interpretation. A
king's being wealthy might not mean that he uses it privately. Socrates
informs Alkibiades that the king possesses the most wealth of any
Spartans for there is a special tribute to him (123a- b) . In any case,
however great the Spartan fortunes appear compared with the fortunes of
other Greeks, they are a mere pittance next to the Persian king's
treasures. Socrates was told this himself by a trustworthy person who
gathered his information by travelling and finding out what the local
inhabitants said. Socrates treats this as valuable information, yet
which, given his chosen way of life, he couldn't have acquired
firsthand. Large tracts of land are reserved for adorning the
Persian queen with clothes, individual items having land specially set
aside for them. There were fertile regions known as the "king's
wife's girdle," veil, etc.Certainly an indication of wealth, it also
seems to suggest a wanton luxury, especially on the part of women (and
which men flatter with gifts). Returning to the supposed
contest between Alkibiades and the ■ 135
Spartan and the Persian kings, Socrates adopts a very curious framework
for the bulk of the remainder of this discourse. He continues in terms of
the thoughts of the mother of the king and proceeds as though she were,
in part, in a dialogue with Alkibiades 1 mother, Deinomakhe. If she found
out that the son of Deinomakhe was challenging her son, the king's
mother, Amestris, would wonder on what Alkibiades could be trusting. The
manner in which Socrates has the challenge introduced to Amestris does
not reveal either of the men's names. Only their mothers are referred to
- and the cost of the mothers' apparel seems to be as important to
the challenge or contest as the size of the sons' estates. Only after he
is told that the barbarian queen is wondering does the reader find out
that her son's name is Artaxerxes and that she is aware that
it is Alkibiades who is challenging her son. She might well have been
completely ignorant of the existence of Deinomakhe's family, or she may
have thought it was Kleinias, the madman (118e), who was the son
involved. Since there is no contest with regards to wealth - either in
land or clothing - Alkibiades must be relying on his industry and wisdom
- the only thing the Greeks have of any worth. Perhaps
because she is a barbarian, or because of some inability on her part, or
maybe some subtlety of the Greeks, she doesn't recognize the Greeks'
speaking ability as one of their greatest accomplishments. Indeed, both
in the dialogue and historically, it was his speaking ability on which
Alkibiades was to concentrate much of his effort, and through which he
achieved many of his triumphs. Greeks in general and Athenians in
particular spent much time cultivating the art of speaking. Sophists and
rhetoricians abounded. Rhapsodists and actors took part in the many
dramatic festivals at Athens. Orators and politicians addressed crowds of
' _
136 people almost daily Cor so it
seems). Socrates continues. If she were to be informed (with
reference to Alkibiades' wisdom and industriousness) that he was not yet
twenty, and was utterly uneducated, and further, was quite satisfied with
himself and re¬ fused his lover's suggestion to learn, take care of
himself and exercise his habits before he entered a contest with the
king, she would again be full of wonder. She would ask to what the youth
could appeal and would conclude Socrates and Alkibiades (and Deinomakhe)
were mad if they thought he could contend with her son in beauty ( kalos
), stature, birth, wealth, and the nature of his soul (123e). The last
quality, the nature of the soul, has the most direct bearing on the theme
of the dialogue, and as the reader remembers, is the promised but not
previously included part of the list of reasons for Alkibiades' high
opinion of himself (104a. ff.). Since it is also the most difficult to
evaluate, one might reasonably wonder what authority Amestris' judgement
commands. It is feasible for the reader to suspect that this is simply
Socrates' reminder that a mother generally favors her own son. But
perhaps her position and experience as wife and mother to kings enables
her in some sense to judge souls. Lampido, another woman, the
daughter, wife and mother of three different kings, would also wonder,
Socrates proposes, at Alkibiades' desire to contest with her son, despite
his comparatively ignoble ( kakos ) upbringing. Socrates closes the
discussion with the mothers of kings by asking Alkibiades if it is not shameful
that the mothers and wives (literally, "the women belonging to the
kings ) of their enemies have a better notion than they of the qualities
necessary for a person who wants to contend with them.
' . 137
The problem of understanding human nature includes centrally the
problem of understanding sex and the differences between men and women.
Thus political philosophy necessarily addresses these matters. Half of a
polity is made up of women and the correct ordering of a polity re¬
quires that women, as well as men, do what is appropriate. However,
discovering the truth about the sexes is not simple in any event, partly
at least because of one's exclusion from personal knowledge about the
other sex; and it has become an arduous task to gather honest opinions
from which to begin reflecting. The discussion of women in this
central portion of the dialogue is invested with political significance
by what is explored later re¬ garding the respective tasks of men and
women (e.g., 126e-127b). Before proceeding to study the rest of this long
speech, it may be useful to briefly sketch two problem areas. Firstly the
outline of some of the range of philosophic alternatives presented by
mankind's division into two sexes will be roughly traced out. This will
foreshadow the later discussion of the work appropriate to the sexes.
Secondly, a suggestion shall be ventured as to one aspect of how 'wonder'
and philosophy may be properly understood to have a feminine element - an
aspect that is con¬ nected to a very important theme of this
dialogue. Thus, in order to dispel some of the confusion before
returning to the dialogue, the division of the sexes may imply, in terms
of an understanding of human nature, that there is either one ideal that
both sexes strive towards, or there is more than one. If there is one
goal or end, it might be either the 'feminine,' the 'masculine, a
combina¬ tion of the traits of both sexes, or a transcendent
"humanness" that rises above sexuality. The first may be
dismissed unless one is willing '
138 to posit that everything is
"out-of-whack" in nature and all the wrong people have
been doing great human deeds. Traditionally, the dominant ■
opinion has implicitly been that the characteristics of 'human' are
for the most part those called 'masculine', or that males typically
embody these characteristics to a greater extent. Should this be correct,
then one may be warranted in considering nature simply "unfair"
in making half of the people significantly weaker and less able to attain
those character¬ istics. Should the single ideal for both sexes be a
combination of the characteristics of both sexes, still other
difficulties arise. A normal understanding of masculine and feminine
refers to traits that are quite distinct; those who most combine the
traits, or strike a mean, appear to be those who are most sexually
confused. The other possibility mentioned was that there be two (or
more) sets of characteristics - one for man and one for woman. The
difficulty with this alternative is unlike the difficulties encountered
in the one- model proposal. One problem with having an ideal for each
sex, or even with identifying some human characteristics more with one
sex than the other, is that all of the philosophic questions regarding
the fitting place of each sex still remain to be considered.
Some version of this latter alternative seems to be endorsed later
in the First Alkibiades (126e-127b). There it is agreed £md agreement
frequently is the most easily met of the suggested possible criteria of
knowledge mentioned in the dialogue) that there are separate jobs for men
and women. Accordingly, men and women are said to be rightly unable to
understand each other's jobs and thus cannot agree on matters sur¬
rounding those jobs. One of the implications of this, however,
unmentioned by either %
139 Socrates or Alkibiades, is that women therefore ought
not to nurture young sons. A woman does not and cannot grasp what it is
to be a man and to have manly virtue. Thus they cannot raise manly boys.
However, this is contrary to common sense. One would think that if there
was any task for which a woman should be suited (even if it demands more
care than is often believed) it would be motherhood. Because of this a
mother would have to learn a man's business if she would bear great sons.
At this point the problems of the surface account of the First
Alkibiades become apparent to even the least reflective reader.
If it is the same task, or if the same body of knowledge (or
opinion) is necessary for being a great man as for raising a great man,
then at least in one case the subjects of study for men and women are not
exclusive. Women dominate the young lives of children. They must be able
to turn a boy's ambitions and desires in the proper direction until the
menfolk take over. Since it would pose practical problems for her to
attempt to do so in deed, she must proceed primarily through speech, in¬
cluding judicious praise and blame, and that is why the fables and myths
women relate ought to be of great concern to the men (cf. for example.
Republic 377b-c). If, on the other hand, it requires completely differ¬
ent knowledge to raise great sons than it does to be great men, then men,
by the argument of the dialogue should not expect to know women's work.
If this is the proper philosophic conclusion the reader is to reach,
then it is not so obviously disgraceful for the womenfolk to know better
than Socrates and Alkibiades what it takes to enter the contest (124a).
The disgrace, it seems, would consist in being unable to see the
contra¬ dictions in the surface account of the First Alkibiades , and
thus not being in a position to accept its invitation to delve deeper
into the
140 problem of
human nature. At this point a speculation may be ventured as to
why, in this dialogue, wonder takes on a feminine expression, and
why elsewhere. Philosophy herself is described as feiminine Ce.g.,
Republic 495-b-c, 536c, 495e; Gorgias 482a; cf. also Letter VII
328e, Republic 499c-d, 548b-c, 607b). One might say that a woman's
secretiveness enhances her 117 seductiveness. Women are
concerned with appearance (cf. 123c; the very apparel of the
mothers of great sons is catalogued) . Philosophy and women may be more
alluring when disclosure ("disclothesure") of their innermost
selves requires a certain persistence on the part of their suitors.
Philosophy in its most beguiling expression is woman-like. When
subtle and hidden, its mystery enhances its attractiveness. Perhaps it
will be suggested - perhaps for great men to be drawn to philosophy she
must adopt a feminine mode of expression, in addition to the promise of a
greater power; if viewed as a goddess she must be veiled, not wholly
naked. To further explore the analogue in terms of expression, one
notices that women are cautious of themselves and protective of their
own. They are aware, and often pass this awareness on to men that in some
circles they must be addressed or adorned in a certain manner in order to
avoid ridicule and appear respectable. As well, a woman's protection of
her young is expected. Philosophy, properly expressed, should be careful
to avoid harming the innocent; and a truly political philosopher should
be protective of those who will not benefit from knowing the truth. If
the truth is disruptive to the community, for example, he should be
most reluctant to announce it publicly. The liberal notion that every
truth is to be shared by all might be seen to defeminize philosophy.
Women, too
141 in speech will lie and dissemble to protect their own; in
deed, they are more courageous in retreat, able to bear the loss of much
in order to ensure the integrity of that of which they are certain is of
most im¬ portance . Political philosophy is not only
philosophy about politics; it is doing (or at least expressing) all of
one's philosophizing in a politic way. Its expression would be
"feminine." This suggestion at least appears to square with the
role of women in the dialogue. It accounts for the mothers' lively
concern over the welfare and status of the power¬ ful; it provides a
possible understanding of how the 'masculine' and 'feminine' may have
complementary tasks; it connects the female to 'wonder'; it lets the
reader see the enormous significance of speech to politics; it reminds
one of the power of eros as a factor in philosophy, in politics, in
Socrates' attraction to Alkibiades, and in man's attraction to
philosophy; it helps to explain why both lines of descent, the maternal
as well as the paternal, are emphasized in the cases of the man coveting
power and the man seeking knowledge. Through the very ex¬ pression of
either, politics and philosophy become interconnected. Socrates
addresses Alkibiades as a blessed man and tells him to attend him and the
Delphic inscription, "know thyself." These people (presumably
Socrates is referring to the enemy, with whose wives they were speaking;
however, the analysis has indicated why the referent is left ambiguous:
there is a deeper sense of 'contest' here than war with Persians and
Spartans) are Socrates' and Alkibiades' competitors, not those whom
Alkibiades thinks. Only industriousness and techne will give them
ascendancy over their real competitors. Alkibiades will fail in achieving
a reputation among Greeks and barbarians if he lacks those
_
142 qualities. And Socrates can see
that Alkibiades desires that reputation more than anyone else ever loved
anything. The reader may have noticed that the two qualities
Socrates men¬ tions are very similar to the qualities of the Greeks
mentioned by the barbarian queen above. Socrates is implicitly raising
the Greeks above the barbarians by making the Greek qualities the most
important, and he diminishes the significance of their victory in terms
of wealth and land. He thus simultaneously indicts them on two
counts. They do not recognize that Alkibiades is their big challenge,
sothey are in the disgraceful condition of which Alkibiades was accused,
namely not having an eye to their enemies but to their fellows. By
raising the Greek virtues above the barbarian qualities, Socrates
throws yet more doubt on the view that they are indeed the proper
contestants for Alkibiades. It is interesting that the barbarian queen
knew or believed these were the Greek's qualities but she did not
correctly estimate their importance. Another wonderful feature of
this longest speech in the First Alkibiades is the last line: "I
believe you are more desirous of it than anyone else is of
anything," (124b). Socrates ascribes to Alkibiades an extreme eros .
It may even be a stranger erotic attraction or will to power than that
marked by Socrates' eros for Alkibiades. But the philosopher wants to
help and is able to see Alkibiades' will. Socrates even includes himself
in the contest. Socrates is indeed a curious man. So ends the longest
speech in the dialogue. Alkibiades agrees. He wants that. Socrates'
speech seems very true. Alkibiades has been impressed with Socrates' big
thoughts about politics, for Socrates had indicated that he is familiar
enough with the greatest foreign political powers to make
plausible/credible his implicit
. is* orfJ U ' * 4 * •* *•***
143 or explicit criticism of them. Socrates has also tacitly
approved of Alkibiades 1 ambitions to rule not only Athens, but an empire
over the known world. Alkibiades must be impressed with this sentiment
in democratic Athens. In addition to all this, Socrates has hinted to
the youth that there is something yet bigger. Alkibiades requests
Socrates' assistance and will do whatever Socrates wants. He begs to know
what is the proper care he must take of himself. Socrates
echoes Alkibiades' sentiment that they must put their heads
together (124c; cf. 119b). This is an off-quoted line from Homer's
119 Iliad. In the Iliad the decision had been made- that
information must be attained from and about the Trojans by spying
on their camp. The brave warrior, Diomedes, volunteered to go, and asked
the wily Odysseus to accompany him. Two heads were better than one and the
best wits of all the Greek heroes were the wits of Odysseus. Diomedes
recognized this and suggested they put their heads together as they
proceed to trail the enemy to their camp, enter it and hunt for
information necessary to an Akhaian victory. Needless to say,
the parallels between the Homeric account, the situation between
Alkibiades and Socrates, and the Aesopian fable, are intriguing. When
Alkibiades uttered these lines previously, it was appropriate in that he
requested the philosopher (the cunning man) to go with him. Alkibiades
and Socrates, like Diomedes and Odysseus, must enter the camp of the
enemy to see what they were up against in this contest of contests, so to
speak. Alkibiades, assuming the role of Diomedes, in a sense initiated
the foray although an older, wiser man had supplied the occasion for it.
Alkibiades had to be made to request Socrates' assistance. The part of
the dialogue following Alkibiades' '
144 quoting of Homer was a discussion of the contest of the
superior man and ostensibly an examination of the elements of the
contest. They thoroughly examined the enemy in an attempt to understand
the very nature of this most important challenge. This time,
however, the wilier one (Socrates/Odysseus) is asking Alkibiades/Diomedes
to join heads with him. The first use of the quote served to establish
the importance of its link to power and knowledge. The second
mention of the quote is perhaps intended to point to a con¬ sideration of
the interconnectedness of power and knowledge. In what way do power and
knowledge need each other? What draws Socrates and Alkibiades
together? The modern reader, unlike the Athenian reader, might find
an example from Plato more helpful than one from Homer. Some of the
elements of the relationship are vividly displayed in the drama of
the opening passages of the Republic . The messenger boy runs
between the many strong and the few 120 ... wise. His role is
similar to that of the auxiliary class of the dialogue but is
substantively reversed. Although he is the go-between who carries the
orders of one group to the other and has the ability to use physical
means to execute those orders (he causes Socrates literally to "turn
around," and he takes hold of Socrates' cloak), he is carrying
orders from those fit to be ruled to those fit to rule. What is es¬
pecially interesting is the significance of these opening lines for the
themes of the First Alkibiades . The first speaker in the Republic pro¬
vides the connection between the powerful and the wise . And he speaks to
effect their halt. There has to be a compromise between those who know
but are fewer in number, and those who are stronger and more numer¬
ous but are unwise. The slave introduces the problem of the
competing ' .
145 claims to rule despite the fact that he has been
conventionally stripped of his. Polemarkhos, on behalf of the
many (which includes a son of Ariston) uses number and strength as his
claims over the actions of Socrates and Glaukon. Socrates suggests that
speech opens up one other possibility. Perhaps the Few could persuade the
Many. He does not sug¬ gest that the many use speech to persuade the few
to remain (although this is what in fact happens when Adeimantos appeals
to the novelty of a torch race). Polemarkhos asks "could you really
persuade if we don't listen?" and by that he indicates a limit to
the power of speech. Later in the dialogue it is interesting that the
two potential rulers of the evening's discussion, Thrasymakhos and
Socrates, seem to fight it out with words or at least have a contest. The
general problem of the proper relation between strength and wisdom might
be helpfully illuminated by close examination of examples such as those
drawn from the Republic , the Iliad and Aesop's fable. In any
event, Socrates and Alkibiades must again join heads. Pre¬ sumably, the
reader may infer, the examination of the Spartans and Persians was
insufficient. (That was suspected from the outset because Alkibiades
would rather die than be limited to Athens. Sparta and Persia would be
the proper contestants for someone intending only to rule Europe.) Per¬
haps they will now set out to discover the real enemy, the true contestant.
The remainder of the dialogue, in a sense, is a discussion of how to com¬
bat ignorance of oneself. One might suggest that this is, in a crucial
sense, the enemy of which Alkibiades is as yet not fully aware.
Socrates, by switching his position with Alkibiades vis-a-vis the
guote, reminds the reader that Odysseus was no slouch at courage and that
146 Diomedes was no fool. It also foreshadows the
switch in their roles made explicit at the end of the dialogue. But even
more importantly, Socrates tells Alkibiades that he is in the same
position as Alkibiades. He needs to take proper care of himself too, and
requires education. His case is identical to Alkibiades' except in one
respect. Alkibiades' guardian Perikles is not as good as Socrates'
guardian god, who until now guarded Socrates against talking with
Alkibiades. Trusting his guardian, Socrates is led to say that Alkibiades
will not be able to achieve his ambitions except through Socrates.
This rather enigmatic passage of the First Alkibiades (124c) seems
to reveal yet another aspect of the relation between knowledge and power.
If language is central to understanding knowledge and power, it is thus
instructive about the essential difference, if there is one, between men
who want power and men who want knowledge. Socrates says that his
guardian (presumably the daimon or god, 103a-b, 105e), who would not let
him waste words (105e) is essentially what makes his case different than
that of Alkibiades. In response to Alkibiades' question, Socrates only
emphasizes that his guardian is better than Perikles, Alkibiades'
guardian, possibly because it kept him silent until this day. Is Socrates
perhaps essentially different from Alkibiades because he knows when to be
silent? The reader is aware that according to most people, Socrates and
Alkibiades would seem to differ on all important grounds. Their looks,
family, wealth and various other features of their lives are in marked
contrast. Socrates, however, disregards them totally, and fastens his
attention on his guardian. And the only thing the reader knows about his
guardian is that it affects Socrates' speech. Socrates claims that
because he trusts in the god he is able to La
J&OQ8. 147 say (he does not sense
opposition to his saying) that Alkibiades needs Socrates. To this
Alkibiades retorts that Socrates is jesting or playing like a
child. Not only may one wonder what is being referred to as a 121
jest, but one notices that Socrates surprisingly acknowledges that
maybe he is. He asserts, at any rate, he is speaking truly when he
re¬ marks that they need to take care of themselves - all men do, but
they in particular must. Socrates thereby firmly situates himself and
Alkibiades above the common lot of men. He also implies that the higher,
not the lower, is deserving of extra care. Needless to say, the notion
that more effort is to be spent on making the best men even better is
quite at odds with modern liberal views. Alkibiades agrees, recognizing
the need on his part, and Socrates joins in fearing he also requires
care. The answer for the comrades demands that there be no giving up or
softening on their part. It would not befit them to relinquish any
determination. They desire to become as accomplished as possible in the
virtue that is the aim of men who are good in managing affairs. Were one
concerned with affairs of horseman¬ ship, one would apply to horsemen,
just as if one should mean nautical affairs one would address a seaman.
With which men's business are they concerned, queries Socrates.
Alkibiades responds assured that it is the affairs of the gentlemen (
kalos kai agathos) to whom they must attend, and these are clearly the
intelligent rather than the unintelligent. Everyone is good only in
that of which he has intelligence (125a). While the shoemaker is good at
the manufacture of shoes, he is bad at the making of clothing. However,
on that account the same man is both bad and good and one cannot uphold
that the good man is at the same time bad (but cf. 116a). Alkibiades must
clarify whom he means by the good man.
By altering the emphasis of the discussion to specific
intelligence or skills, Socrates has effectively prevented Alkibiades
from answering 148 "gentlemen" again, even
if he would think that the affairs of gentlemen in democracies are the
affairs with which a good ruler should be concerned. Given his
purported ambitions, it is understandable that Alkibiades thinks good men
are those with the power to rule in a polis (125b). Since there are a
variety of subjects over which to rule, or hold power, Socrates wants to
clarify that it is men and not, for example, horses, to which Alkibiades
refers. Socrates undoubtedly knew that Alkibiades meant men instead of
horses; the pestiness of the question attracts the attention of the
reader and he is reminded of the famous analogy of the city made by
Socrates in the Apology . Therein, the city is likened to a great horse (
Apology 30e). It would thus not be wholly inappropriate to interpret this
bizarre question in a manner which, though not apparent to Alkibiades,
would provide a perhaps more meaning¬ ful analysis. Socrates might be
asking Alkibiades if he intends to rule a city or to rule men (in a
city). It is not altogether out of place to adopt the analogy here;
corroborating support is given by the very subtle philosophic
distinctions involved later in distinguishing ruling cities from ruling
men (cf. 133e). For example, cities are not erotic, whereas men are;
cities can attain self-sufficiency, whereas men cannot. It does not
demand excessive reflection to see how erotic striving and the
interdependency of men affects the issues of ruling them. What is good
for a man, too, may differ from what is good for a city (as mentioned
above with reference to wealth), and in some cases may even be
incompatible with it. These are all issues which demand the consideration
of rulers and political thinkers. Additional endorsement for the
suitability of the . ■
149 analogy between city and man for interpreting
this passage, is provided by Socrates in his very next statement. He asks
if Alkibiades means ruling over sick men (125b). Earlier (107b-c) the two
had been dis¬ cussing what qualified someone to give advice about a sick
city. Alkibiades doesn't mean good rule to be ruling men at sea
or while they are harvesting (though generalship and farming, or defence
and agriculture, are essential to a city). He also doesn't conclude that
good rule is useful for men who are doing nothing (as Polemarkhos is
driven to conclude that justice is useful for things that are not in use
- Republic 333c-e). In a sense Alkibiades is right. Rulers rule men when
they are doing things such as transacting business, and making use of
each other and whatever makes up a political life (125c). But rule in a
precise, but inclusive, sense is also rule over men when they are
inactive. The thoughts and very dreams are ruled by the true rulers, who
have con¬ trolled or understood all the influences upon men.
Socrates fastens onto one of these and tries to find out what kind
of rule Alkibiades means by ruling over men who make use of men.
Alkibiades does not mean the pilot's virtue of ruling over mariners
who make use of rowers, nor does he mean the chorus teacher who
rules flute 122 players who lead singers and employ
dancers; Alkibiades means ruling men who share life as fellow citizens
and conduct business. Socrates in¬ quires as to which techne gives that
ability as the pilot's techne gives the ability to rule fellow sailors,
and the chorus teacher's ability to rule fellow singers. At this point
the attentive reader notices that Socrates has slightly altered the
example. He has introduced an element of equality. When the consideration
of the polis was made explicit, the pilot and chorus teacher became
"fellows" - "fellow sailors" and
"fellow ■ L
150 singers." This serves at least to suggest that
citizenship in the polis is an equalizing element in political life. To
consider oneself a fellow citizen with another implies a kind of
fraternity and equality that draws people together. Despite, say, the
existence of differences within the city, people who are fellow citizens
often are closer to each other than they are to outsiders who may
otherwise be more similar. There is another sense in which
Socrates' shift to calling each expert a "fellow" illuminates
something about the city. This is dis¬ covered when one wonders why
Socrates employed two examples - the chorus teacher and the pilot.
One reason for using more than a single example is that there is
more than one point to illustrate. It is then up to the reader to scrutinize
the examples to see how they importantly differ. The onus is on the
reader, and this is a tactic used often in the dialogues. Someone is much
more likely to reflect upon something he discovered than some¬ thing that
is unearthed for him. One important distinction between these two technae
is that a pilot is a "fellow sailor" in a way that the chorus
teacher is not a "fellow singer." Even in the event a pilot
shares in none of the work of the crew rules (as the chorus teacher need
not actually sing), if the ship sinks, he sinks with it. So too does the
ruler of a city fall when his city falls. This is merely one aspect of
the analogy of the ship-of-state, but it suffices to remind one that the
ruler of a polity must identify with the polity, perhaps even to the ex¬
tent that he sees the fate of the polity as his fate (cf. Republic 412d).
Perhaps more importantly, there is a distinction between the chorus
master and the pilot which significantly illuminates the task of
political rule. A pilot directs sailors doing a variety of tasks that
151 make sailing
possible# whereas the chorus master directed singers per¬ forming in
unison . Perhaps political rule is properly understood as in¬ volving
both. Alkibiades suggests that the techne of the ruler (the
fellow- citizen) is good counsel# but as the pilot gives good not evil
counsel for the preservation of his passengers, Socrates tries to find
out what end the good counsel of the ruler serves. Alkibiades proposed
that the good counsel is for the better management and preservation of
the polis (126a). In the next stage of the discussion
Socrates makes a number of moves that affect the outcome of the argument
but he doesn't make a point of explicating them to Alkibiades. Socrates
asks what it is that becomes present or absent with better management and
preservation . He suggests that if Alkibiades were to ask him the same
question with respect to the body, Socrates would reply that health
became present and disease absent. That is not sufficient. He pretends
Alkibiades would ask what happened in a better condition of the eyes# and
he would reply that sight came and blindness went. So too deafness and
hearing are absent and present when ears are improved and getting better
treatment . Socrates would like Alkibiades# now# to answer as to what
happens when a state is improved and has better treatment and management
. Alkibiades thinks that friend¬ ship will be present and hatred and
faction will be absent. From the simple preservation of the
passangers of a ship# Socrates has moved to preservation and better
management# to improved and getting better treatment# to improvement,
better treatment and management. Simple preservation# of course# is only
good (and the goal of an appropriate techne) when the condition of a
thing is pronounced to be satisfactory,
152 such that any change
would be for the worse. In a ship the pilot only has to preserve the
lives of his passengers by his techne , he does not have to either make
lives or improve them. In so far as a city is in¬ volved with more than
mere life, but is aiming at the good life, mere preservation of the
citizens is not sufficient. Socrates' subtle trans¬ formation indicates
the treatment necessary in politics. Another point that Socrates
has implicitly raised is the hierarchy of technae . This may be quite
important to an understanding of politics and what it can properly order
within its domain. Socrates employs the examples of the body and the eyes
(126a-b). The eyes are, however, a part of the body. The body cannot be
said to be healthy unless its parts, including the eyes, are healthy; the
eyes will not see well in a generally diseased body. The two do
interrelate, but have essentially different virtues. The virtue of the
eyes and thus the techne attached to that virtue, are under/within the
domain of the body and its virtue, health. The doctor, then, has an
art of a different order than the optometrist. (The doctor and his techne
may have competition for the care of the body; the gymnastics expert has
already been met and he certainly has things to say about the management
of the body - cf. 128c but the principle there would be a comprehensive
techne .) Given the example of the relation of the parts to the whole,
perhaps Socrates is suggesting that there is an analogue in the city: the
health of the whole city and the sight of a part of the city. The reader
is curious if the same relation would hold as to which techne had the
natural priority over the other. Would the interests of the whole rule
the interests of a part of the city? Socrates' examples of the body
and the part of the body could, in yet another manner, lead toward
contemplation of the political. There is
153 a possible connection between all
three. The doctor might well have to decide to sacrifice the sight of an
eye in the interests of the whole body. Perhaps the ruler (the man possessing
the political techne) would have to decide to sacrifice the health (or
even life) of individuals (may¬ be even ones as important as the
"eyes" of the city) for the well-being of the polis . Thus,
analogously# the political art properly rules the various technae of the
body. Earlier the reader had occasion to be introduced to a system
of hierarchies (108c-e). Therein he found that harping was ruled by music
and wrestling by gymnastics. Gymnastics, as the techne of the body, is,
it is suggested, ruled by politics. Perhaps music should also be ruled
by politics. In the Republic , gymnastics is to the body roughly what
music is to the soul. Both, however, are directed by politics and are a
major concern of political men. It is fortunate for Alkibiades that he
is familiar with harping and gymnastics (106e), so that as a politician
he will be able to advise on their proper performance. One already has
reason to suspect that the other subject in which Alkibiades took lessons
is properly under the domain of politics. Alkibiades believes
that the better management of a state will bring friendship into it and
remove hatred and faction. Socrates in¬ quires if he means agreement or
disagreement by friendship. Alkibiades replies that agreement is meant,
but one must notice that this sig¬ nificantly reduces the area of concern
to which Alkibiades had given voice. He had mentioned two kinds of
strife, and one needn t think long and hard to notice that friendship
normally connotes much more than agreement. Socrates next asks which
techne causes states to agree about numbers; does the same art,
arithmetic, cause individuals to agree among each other and with
themselves. In addition to whatever suspicion one
'
154 entertains that this is not the kind of agreement
Alkibiades meant when he thought friendship would be brought into a city
with better management/ one must keep in mind the similarity between this
and an earlier argument (111c). In almost the same words, people agreed
"with others or by them¬ selves" and states agreed, with regard
to speaking Greek, or more pre¬ cisely, with naming. There are two
features of this argument which should be explored. Firstly, one might
reflect upon whether agreement between states is always essentially
similar to agreement between people, or agreement with oneself. People
can fool themselves and they can possess their own "language."
Separate states may have separate weights and measures, say, but
individuals within a state must agree. Secondly, there may be more than
one kind of agreement with which the reader should be concerned in this
dialogue. This might be most apparent were there different factors which
compelled different people, in different circum¬ stances, to agree. Men
sometimes arrive at the same conclusions through different reasons.
The first two examples employed by Socrates illuminate both of
these points. Arithmetic and mensuration are about as far apart as it is
possible to be in terms of the nature of the agreement. Mensuration is
simply convention or agreement, and yet its entire existence depends on
people's knowing the standards agreed upon. Numbers, on the contrary,
need absolutely no agreement (except linguistically in the names given to
numbers) and no amount of agreement can change what they are and their
relation to each other. The third example represents the type of
agreement much closer to that with which it is believed conventional
politics is permeated. It is the example of the scales — long symbolic of
justice. Agreement with people and states about weights on scales depends
on a number of factors, ' 155
as does judgement about politics. There is something empirical to
observe, namely the action as well as the various weights; there is a
constant possibility of cheating (on one side or another) against which
they must take guard; there is a judgement to be made which is often
close, difficult and of crucial importance, and there is the general
problem of which side of the scale/polity is to receive the goods, and
what is the standard against which the goods are measured. To spell out
only one politically important aspect of this last factor, consider the difference
between deciding that a certain standard of life is to pro¬ vide the
measure for the distribution of goods, and deciding that a certain set of
goods are to be distributed evenly without such a standard. In one case
the well off would receive no goods, they being the standard; in the
other case all would supposedly have an equal chance of receiving goods.
Other political factors are involved in determining what should be
weighed, what its value is, who should preside over the weighing, and what
kind of scale is to be used. The third example, the scales, surely
appears to be more pertinent to Socrates and Alkibiades than either of
the other two, although one notices that both arithmetic and mensuration
are involved in weighing. Alkibiades is requested to make a
spirited effort to tell Socrates what the agreement is, the art which
achieves it, and whether all parties agree the same way. Alkibiades
supposes it is the friendship of father and mother to child, brother to
brother and woman to man (126e). A good ruler would be able to make the
people feel like a family - their fellow citizens like fellow kin. This
seems to be a sound opinion of Alkibiades; many actual cities are
structured around families or clans or based on legends of common ancestry
(cf. Republic 414c-415d) . There is a ' .
156
complication, however, which is not addressed by either participant in
the dialogue. Socrates had suggested three parts to the analysis of
agreement - its nature, the art that achieves it, and whether all agree
in the same way. Alkibiades in his response suggests three types of
friendship which may differ dramatically in all of the respects Socrates
had mentioned. And the political significance of the three kinds of
friendship also has different and very far-reaching effects. Consider the
different ties, and feelings that characterize man-woman relation¬ ships.
And imagine the different character of a regime that is patterned not on
the parent-child relation, but instead characterized by male-female
attraction! In a dialogue on the nature of man in which there is
already support for the notion that "descent" and
"family" figure prominently in the analysis of man's nature, it
seems likely that the three kinds of familial (or potentially familial)
relationships mentioned here would be worthy of close and serious
reflection. Socrates, however, does not take Alkibiades to task on this,
but turns to an examination of the notion that friendship is agreement,
and the question of whether or not they can exist in a polis . Socrates
had himself suggested that Alkibiades meant agreement by friendship
(126c), and in this argument that restricted sense of friendship plays a
significant role in their arriving at the unpalatable conclusion. The
argument leads to the assertion that friendship and agreement cannot
arise in a state where each person does his own business.
asks Alkibiades if a man can agree with a woman about wool—working
when he doesn't have knowledge of it and she does. And further, does he
have any need to agree, since it is a woman's
157
accomplishment? A woman, too, could not come to agreement with a
man about soldiering if she didn't learn it - and it is a business for
men. There are some parts of knowledge appropriate to women and some to
men on this account (127a) and in those skills there is no agreement
between men and women and hence no friendship - if friendship is
agreement. Thus men and women are not befriended by each other so far as
they are per¬ forming their own jobs, and polities are not well-ordered
if each person does his own business (127b). This conclusion is
unacceptable to Alkibiades; he thinks a well-ordered polity is one
abounding in friend¬ ship, but also that it is precisely each party doing
his own business that brings such friendship into being. Socrates points
out that this goes against the argument. He asks if Alkibiades means
friendship can occur without agreement, or that agreement in something
may arise when some have knowledge while others do not. These are
presumably the steps in the argument which are susceptible to attack.
Socrates incidentally provides another opening in the argument that could
show the conclusion to be wrong. He points out that justice is the doing
of one's own work and that justice and friendship are tied together. But
Alkibiades, per¬ haps remembering his shame (109b-116d), does not pursue
this angle, having learned that the topic of justice is difficult. In
order to determine what, if anything, was wrongly said, various stages of
the argument will now be examined. By beginning with the
consideration of why anyone would suppose a state was well-ordered when
each person did his own business, one observes that otherwise every
individual would argue about everything done by everybody. The reader may
well share Alkibiades suspicion that what makes a state well-ordered is
that each does what he is capable of •»
158 and trusts the others to do the same. This indicates,
perhaps, the major problems with the discussion between Socrates and
Alkibiades. Firstly, there are many ways that friendship depends less
upon agreement than on the lack of serious disagreement. Secondly,
agreement can occur, or be taken for granted, in a number of ways other
than by both parties having knowledge. As revealed earlier in
the dialogue, Alkibiades would readily trust an expert in steering a ship
as well as in fancy cooking (117c-d). Regardless of whether it was a
man's or a woman’s task, he would agree with the expert because of his
skill. In these instances he agreed precisely because he had no knowledge
and they did. Of course, faith in expertise may be misplaced, or experts
may lose perspective in under¬ standing the position of their techne
relative to others. But though concord and well-ordered polities do not
necessarily arise when people trust in expertise, friendship and
agreement can come about through each man's doing his own business.
Agreement between people, thus, may come about when one recognizes
his ignorance. It may also arise through their holding similar opinion on
the issue, or when one holds an opinion compatible with knowledge
possessed by another. For example, a woman may merely have opinions about
soldiering, but those opinions may allow for agreement with men, who
alone can have knowledge. Soldiering is a man's work, but while men are
at war the women may wonder about what they are doing, or read stories
about the war, or form opinions from talking to other soldiers' wives, or
have confidence in what their soldier—husbands tell them. There is
also a sense in which, if war is business for men, women don't even need
opinions about how it is conducted for they are not on the
159 battlefield. They need only agree on its
importance and they need not even necessarily agree on why it is
important (unless they are raising sons). Women will often agree with men
about waging war on grounds other than the men's. For example, glory
isn't a prime motivator for most women's complying with their husbands'
desires to wage war. It has been suggested that agreement may arise on
the basis of opinion and not knowledge, and further that opinions need
not be similar, merely com¬ patible. As long as the war is agreed to by
both sexes, friendship will be in evidence regardless of their respective
views of the motives of war. Apathy or some other type of disregard
for certain kinds of work may also eliminate disagreement and discord,
provided that it isn't a result of lack of respect for the person's
profession. For example, a man and a woman might never disagree about
wool-working He may not care how a spindle operates and would not think
of interfering. And he certainly wouldn't have to be skilled at the
techne of wool-working to agree with his wife whenever she voiced her
views - his agreement with her would rest on his approval of the
resulting coat. Socrates has not obtained from Alkibiades' speech
the power to learn what the nature of the friendship is that good men
must have. Alkibiades, invoking all the gods (he cannot be sure who has
dominion over the branch of knowledge he is trying to identify), fears
that he doesn't even know what he says, and has for some time been in a
very disgraceful condition. But Socrates reminds him that this is the
cor¬ rect time for Alkibiades to perceive his condition, not at the age
of fifty, for then it would be difficult to take the proper care. In
answer¬ ing Alkibiades' question as to what he should do now that he is
aware of his condition, Socrates replies he need only answer the
questions Socrates . 160
puts to him. With the favor of the god (if they can trust in
Socrates' divination - cf. 107b, 115a) both of them shall be
improved. What Socrates may have just implied is that while
Alkibiades' speech is unable to supply the power to even name the
qualities of a good man, Socratic speech in itself has the power to
actually make them better. All Alkibiades must do is respond to the
questions Socrates asks. The proper use of language, it is suggested, has
the power to make good men. One may object that speech cannot have that
effect upon a listener who is not in a condition of recognizing his ignorance,
but one must also recog¬ nize that speech has the power to bring men to
that realization. Almost half of the First Alkibiades is overtly devoted
to this task. Indeed it seems unlikely that people perceive their plight
except through some form of the human use of language except when they
are visually able to com¬ pare themselves to others. It would be
difficult to physically coerce men into perceiving their condition. An
emotional attempt to draw a person's awarness - such as a mother's tears
at her son's plight - needs speech to direct it; the son must learn what
has upset her. Speech is also necessary to point to an example of a
person who has come to a realization of his ignorance. Socrates or
someone like him, might discern his condition by himself, but even he
surely spent a great deal of time conversing with others to see that
their confidence in their opinions was unfounded. In any event, what is
important for the under¬ standing of the First Alkibiades is that
Socrates has succeeded in con¬ vincing Alkibiades that thoughtful
dialogue is more imperative for him at this point than Athenian
politics. Together they set out to discover (cf. 109e) what is
required to take proper care of oneself; in the event that they have never
previously * 161
done so, they will assume complete ignorance. For example, perhaps one
takes care of oneself while taking care of one's things (128a). They are
not sure but Socrates will agree with Alkibiades at the end of the argu¬
ment that taking proper care of one's belongings is an art different from
care of oneself (128d). But perhaps one should survey the entire argu¬
ment before commenting upon it. Alkibiades doesn't understand the
first question as to whether a man takes care of feet when he takes care
of what belongs to his feet, so Socrates explains by pointing out that
there are things which belong to the hand. A ring, for example, belongs
to nothing but a finger. So too a shoe belongs to a foot and clothes to
the body. Alkibiades still doesn't understand what it means to say that
taking care of shoes is taking care of feet, so Socrates employs another
fact. One may speak of taking correct care of this or that thing, and
taking proper care makes something better. The art of shoemaking makes
shoes better and it is by that art that we take care of shoes. But it is
by the art of making feet better, not by shoemaking, that we improve
feet. That art is the same art whereby the whole body is improved, namely
gymnastic. Gymnastic takes care of the foot; shoemaking takes care
of what belongs to the foot. Gymnastic takes care of the hand; ring
engraving takes care of what belongs to the hand. Gymnastic takes care of
the body; weaving and other crafts take care of what belongs to the body.
Thus taking care of a thing and taking care of its belongings
involve separate arts. Socrates repeats this conclusion after suggesting
that care of one's belongings does not mean one takes care of
oneself. Further support is here recognized, in this dialogue, for
a hierarchical arrangement of the technae , but that simultaneously
somewhat ■ .
qualifies the conclusion of the argument. Gymnastic is the art of
taking care of the body and it thus must weave into a pattern all of
the arts of taking care of the belongings of the body and of its
parts. Its very control over those arts, however, indicates that
they are of some importance to the body. Because they have a common
superior goal, the taking care of the body, they are not as
separate as the argument would suggest. Just as shoes in bad repair
can harm feet, shoes well made may improve feet (cf. 121d, for
shaping the body). They are often made in view of the health or
beauty of the body as are clothes and rings. Because things which
surround one affect one, as one's activities and one's reliance on
some sorts of possessions affect one, proper care for the be-
123 longings of the body may improve one's body.
Socrates continues. Even if one cannot yet ascertain which art
takes care of oneself, one can say that it is not an art concerned with
improving one's belongings, but one that makes one better. Further, just
as one couldn't have known the art that improves shoes or rings if one didn't
know a shoe or a ring, so it is impossible that one should know the
techna that makes one better if one doesn't know oneself (124a). Socrates
asks if it is easy to know oneself and that therefore the writer at
Delphi was not profound, or if it is a difficult thing and not for
everybody. Alkibiades replies that it seems sometimes easy and sometimes
hard. Thereupon Socrates suggests that regardless of its ease or
difficulty, knowledge of oneself is necessary in order to know what the
proper care of oneself is. It may be inferred from this that most people
do not know themselves and are not in a position to know what the proper
care of themselves is. They might be better off should they adopt the
opinions of those who know, or be cared for by those who know more.
' 163 In order to understand
themselves, the two men must find out how, generally, the 'self' of
a thing can be seen (129b), Alkibiades figures Socrates has spoken
correctly about the way to proceed, but instead of 124
thus proceeding, Socrates interrupts in the name of Zeus and asks
whether Alkibiades is talking to Socrates and Socrates to Alkibiades.
Indeed they are. Thus Socrates says, he is the talker and Alkibiades the
hearer. This is a thoroughly baffling interruption, for not only is its
purpose unclear, but it is contradictory. They have just agreed that both
were talking. Socrates pushes onward. Socrates uses speech in
talking (one suspects that most people do). Talking and using speech are
the same thing, but the user and the thing he uses are not the same
thing. A shoemaker who cuts uses tools, but is himself quite different
from a tool; so also is a harper not the same as what he uses when
harping. The shoemaker uses not only tools but his hands and his
eyes, so, if the user and the thing used are different, then the
shoemaker and harper are different from the hands and eyes they use. So
too, since man uses his whole body, he must be different from his body.
Man must be the user of the body, and it is the soul which uses and rules
the body. No one, he claims, can disagree with the remark that man is one
of three things. Alkibiades may or may not disagree, but he needs a bit
of clarification. Man must be soul, or body, or both as one whole.
Al¬ ready admitted is the proposition that it is man that rules the
body, and the argument has shown that the body is ruled by something
else, so the body deesn't rule itself. What remains is the soul.
The unlikeliest thing in the world is the combination of both,
gQQj-^-(- 0 g suggests (130b) , for if one of the combined ones was said not
to ' 164 share in the rule, then
the two obviously could not rule. It is not necessary to point out to the
reader that the possibility of a body's share in the rule was never
denied, nor to indicate that what Socrates ostensibly regards as
the unlikeliest thing of all, is what it seems most reasonable to suspect
to be very like the truth. Emotions and appetites, so closely connected
with the body, are a dominant and dominating part of one's life. They
account for a major part of people's lives, and even to a large extent
influence their reason (a faculty which most agree is not tied to the
body in the same way). The soul might be seen to be at least partly ruled
by the body if it is appetites and emotions which affect whether or not
reason is used and influence what kind of decisions will be rationally
determined. Anyhow, according to Socrates, if it is not the body,
or the com¬ bined body and soul, then man must either be nothing at all,
or he must be the soul (130c). But the reader is aware that only on the
briefest of glances does this square with "the statement that no one
could dissent to," (cf. 130a). Man cannot be 'nothing' according to
that statement any more than he can be anything else whatsoever, such as
'dog,' 'gold,' 'dream,' etc. 'Nothing' was not one of the
alternatives. Alkibiades swears that he needs no clearer proof that
the soul is man, and ruler of the body, but Socrates, overruling the authority
of Alkibiades' oath, responds that the proof is merely tolerable,
sufficing only until they discover that which they have just passed by
because of its complexity. Unaware that anything had been by-passed
(Socrates had interrupted that part of the discussion with his first
conventional oath - 129b), the puzzled Alkibiades asks Socrates. He
receives the reply that they haven't been considering what generally
makes the self of a 165
thing discoverable, but have been looking at particular cases (130d;
cf. 129b). Perhaps that will suffice, for the soul surely must be said
to have a more absolute possession of us than anything else.
So, whenever Alkibiades and Socrates converse with each other, it
is soul conversing with soul; the souls using words (130d.l). Socrates,
when he uses speech, talks with Alkibiades' soul, not his face. Socratic
speech is thus essentially different from the speech of the crowds of
suitors who conversed with Alkibiades (103a, cf. also 106b). If Socrates'
soul talks with Alkibiades' soul and if Alkibiades is truly listening,
then it is Alkibiades' soul, not one of his belongings that hears
Socrates (cf. 129b-c). Someone who says "know thyself" (cf.
124a, 129a) means "know thy soul"; knowing the things that
belong to the body means knowing what is his, but not what he is.
The reader will note how the last two steps of the argument subtly,
yet definitely, indicate the ambiguous nature of the body's position in
this analysis. Someone who knows only the belongings of the body will not
know the man. According to the argument proper, someone who knew the
body, too, would still only know a man's possessions, not his being.
Socrates continues, pressing the argument to show that no doctor or
trainer, insofar as he is a doctor or a trainer, knows himself.
Farmers and tradesmen are still more remote, for their arts teach
only what belongs to the body (which is itself only a possession of the
man) and not the man (131a). Indeed, most people recognize a man by his
body, not by his soul, which reveals his true nature.
126 gocrates pauses briefly to introduce consideration of a
virtue. Seemingly out of the blue, he remarks that "if knowing
oneself is temperance" then no craftsman is temperate by his te c h
ne (131b). Because
' .
166 of this the good man disdains to
learn the technae . This sudden intro¬ duction of the virtue/ defining
temperance as self-knowledge/ will assume importance later in the dialogue
(e.g., at 133c). Returning to the argument, Socrates proposes that
one who cares for the body cares for his possessions. One who cares for
his money cares not for himself, nor for his possessions, but for
something yet more remote. He has ceased to do his own business.
Those who love Alkibiades' body don't love Alkibiades but his
possessions. The real lover is the one who loves his soul. The one
who 127 loves the body would depart when the body's bloom
is over, whereas the lover of the soul remains as long as it still tends
to the better. Socrates is the one that remained; the others left when
the bloom of the body was over. Silently accepting this insult to his
looks, one of his possessions, Alkibiades recognizes the compliment paid
to himself. The account of the cause of Socrates' remaining and the
others' departure, however, has changed somewhat from the beginning
CIO3b, 104c). Then the lovers left because a quality of Alkibiades' soul
was too much for them (but not for Socrates) to handle. Now it is a
decline in a quality of the body that apparently caused them to depart,
but it is still an appreciation of the soul that retains Socrates'
interest. Perhaps the significance of this basic shift is to
indicate to Alkibiades the true justification for his self-esteem. His
highminded¬ ness was based on his physical qualities and their
possessions, not on his soul. Socrates may be insulting the other lovers,
but he is at the same time making it difficult for Alkibiades to lose his
pride in the things of the body. Thus Socrates' reinterpretation of the
reasons for the lovers' departure reinforces the point of the argument,
namely that - ’
167 one's soul is more worthy of attention and
consideration than one's body. Alkibiades is glad that Socrates has
stayed and wants him to re¬ main. He shall, at Socrates' request,
endeavour to remain as handsome as he can. So Alkibiades, the son
of Kleinias, "has only one lover and 128 that a
cherished one," Socrates, son of Sophroniskos and Phainarite.
Now Alkibiades knows why Socrates alone did not depart. He loves
Alkibiades, not merely what belongs to Alkibiades (131e). Socrates
will never forsake Alkibiades as long as he (his soul) is not deformed by
the Athenian people. In fact that is what especially concerns Socrates.
His greatest fear is that Alkibiades will be damaged through becoming a
lover of the demos - it has happened to many good Athenians. The face
(not the soul?) of the "people of great-hearted Erekhtheos" is
fair, but to see the demos stripped is another thing. As the dialogue
approaches its end, Socrates becomes poetic in his utter¬ ances. On this
occasion he prophetically quotes Homer ( Iliad II, 547). When listing the
participants on the Akhaian side of the Trojan War, Homer describes
the leader of the Athenians, the "people of the great¬ hearted
Erekhtheos," as one like no other born on earth for the arrange¬
ment and ordering of horses and fighters. Alkibiades would become famous for
his attempts to order poleis and his arranging of naval military
forces. In the Gorgias, Scorates relates a myth about the final
judgement of men, and one of the interesting features of the story is
that the judges and those to be judged are stripped of clothes and bodies
( Gorgias 523a-527e). 129 All that is judged is the soul. This allows the
judges to perceive the reality beneath the appearance that a body and its
belong¬ ings provide. Flatterers (120b) would not be as able to get to
the . -
168 Blessed Isles/ although actually, in political regimes,
living judges are often fooled by appearances. Judges too are stripped so
that they could see soul to soul (133b; cf. Gorgias 523d), and would be
less likely to be moved by rhetoric, poetry, physical beauty or any other
of the elements that are tied to the body through, for example, the
emotions and appetites. It seems thus good advice for anyone who desires
to enter politics that he get a stripped view of the demos . In addition,
those familiar with the myth in the Gorgias might recognize the
importance of Alkibiades stripping himself, and coming to know his own
soul, before he enters politics. Socrates is advising Alkibiades to
take the proper precautions. He is to exercise seriously, learning all
that must be known prior to an entry into politics (132b). Presumably
this knowledge will counteract the charm of the people. Alkibiades wants
to know what the proper exer¬ cises are, and Socrates says they have
established one important thing and that is knowing what to take care of.
They will not inadvertently be caring for something else, such as, for
example, something that only be¬ longs to them. The next step, now that
they know upon what to exercise, is to care for the soul and leave the
care of the body and its possessions to others. If they could
discover how to obtain knowledge of the soul, they would truly "know
themselves." For the third time Socrates refers to the Delphic
inscription (132c; 124a, 129a) and he claims he has discovered another
interpretation of it which he can illustrate only by the example of
sight. Should someone say "see thyself" to one's eye, the eye
would have to look at something, like a mirror, or the thing in the eye
that is like a mirror (132d-e). The pupil of the eye reflects the face
of ■
169 the person looking into it like a
mirror. Looking at anything else (except mirrors, water, polished
shields, etc.) won't reflect it. Just as the eye must look into another
eye to see itself, so must a soul look into another soul. In addition it
must look to that very part of the soul which houses the virtue of a soul
- wisdom - and any part like wisdom (133b; cf. 131b). The part of the soul
containing knowledge and thought is the most divine, and since it thus
resembles god, whoever sees it will recognize all that is divine and will
get the greatest knowledge of himself. In order to see one's
own soul properly, then, Socrates suggests that it is necessary to look
into another's soul. Alkibiades must look into someone's soul to obtain
knowledge of himself, and he must possess knowledge of himself in order
to be able to rule himself. This last is a prerequisite for ruling
others. Since it lacks a 'pupil,' the soul doesn't have a readily
available window/mirror for observing another's soul, as the eye does for
observing oneself through another's eye. Such vision of souls can only be
had through speech. Through honest dialogue with trusted friends and
reflection upon what was said and done, one may gain a glimpse of their
soul. The souls must be "stripped" so that words are spoken and
heard truly. Socrates, by being the only lover who remained, and, having
shown his value to Alkibiades, will continue to speak (104e, 105e). He is
offering Alkibiades a look at his soul. This is in keeping, it
appears, with the advice that Alkibiades look to the rational part of the
soul. Socrates is the picture of the rational man; through his speech the
reader is also offered the oppor¬ tunity to try to see into Socrates'
soul to better understand his own. Again, as discussed above, a man's
nature can be understood by looking '
170 to the example of the best,
even if it is only an imitation of the best in Dialogues.
Socrates now recalls the earlier mention of temperance as though
they had come to some conclusion regarding the nature of the virtue.
They had supposedly agreed that self-knowledge was temperance (133c;
cf. 131b). Lacking self-knowledge or temperance, one could not know
one's belongings, whether they be good or evil. Without knowing
Alkibiades one could not know if his belongings are his. Ignorance of
one's be¬ longings prohibits familiarity with the belongings of belongings
(133d). Socrates reminds Alkibiades that they have been incorrect in
admitting people could know their belongings if they didn't know
themselves (133d-e). This latter argument raises at least two
difficulties. Firstly, it renders problematic the suggestion that one
should leave one's body and belongings in another's care (132c). These
others, it seems, would be doctors and gymnastics trainers - the only
experts of the body ex¬ plicitly recognized in the dialogue. Remembering
that neither doctor or trainer knows himself (131a), one might wonder how
he can know Socrates' and Alkibiades' belongings. He cannot, according to
the argument here (133c-d) know his own belongings without knowing
himself and he cannot be familiar with others' belongings while ignorant
of his own. The argument, secondly, creates a problem with the
understanding heretofore suggested about how men generally conduct their
lives. Most people do not know themselves and do not properly care for themselves.
The argument of the dialogue has intimated that they in fact care
for their belongings. Thus it would seem that, in some sense, they do
know their belongings, just as Alkibiades' lovers, ignorant of
Alkibiades and probably ignorant of themselves, still know that Alkibiades'
body ' 171 belonged to
Alkibiades. And they knew, like he knew C104a-c) that his looks and his
wealth belong to his body. The reader might conclude from this that the
precise knowledge they do not have is knowledge either of what the
belongings should be like, or what their true importance and proper role
in a man's life should be. Knowledge of one's soul would consist, partly,
in knowing how to properly handle one's belongings. That allows one
to do what is right, and not merely do what one likes. It is the
task of one man and one techne (the chief techne in the hierarchy) to
grasp himself, his belongings, and their belongings. Some¬ one who
doesn't know his belongings won't know other mens'. And if he doesn't
know theirs, he won't know those of the polity. This last remark
raises the consideration of what constitutes the belongings of a polity.
And that immediately involves one in reflection upon whether the city has
a body, and a soul. What is the essence of the city? The reader is
invited to explore the analogy to the man, but even more, it is suggested
that he is to reflect upon how to establish the priority of one over the
other. This invitation is indicated by the dis¬ cussion of the one techne
that presides over all the bodies and belong¬ ings. The relation of the
city to the individual man has been of perennial concern to political
thinkers, and a most difficult aspect of the problem terrain involves the
very understanding of the City and Man (cf. 125b). The
question is multiplied threefold with the possibility that an adequate
understanding of the city requires an account of its soul, its body and
its body's belongings. An account of man, it has been suggested in this
dialogue, demands knowing his soul, body, possessions, and the
relation and ordering of each. It is quite possible that what is
proper
172 best for a
man will conflict with what is best for a city. The city might be
considered best off if it promotes an average well-being. Having
its norm, or median, slightly higher than the norm of the next city would
indicate it was better off. It is also possible that the cir¬ cumstances
within which each and every man thrives would not necessarily bring
harmony to a city. The problem of priority is further complicated
by the introduction of the notion that the welfare of each citizen is not
equally important to the city. Perhaps what is best for a city is to have
one class of its members excel, or to have it produce one great man. What
is to be under¬ stood as the good of the city's very soul?
Furthermore, even if the welfare of the whole city is to be
identified with the maximum welfare of each citizen, it might still be
the case that the policies of the city need to increase the welfare of a
few people. For example, in time of war the welfare of the whole polity
depends on the welfare of a few men, the armed forces. As long as war is
a threat, the good of the city Cits body, soul, or possessions) could
depend on the exceptional treatment of one class of its men.
Knowledge of the true nature of the polity is essential for
political philosophy and so for proper political decision-making. Men ignorant
of the polity, the citizens, or themselves cannot be statesmen or
economists (133e; cf. Statesman 258e). Such a man, ignorant of his and
others' affairs will not know what he is doing, therefore making mistakes
and doing ill in private and for the demos . He and they will be
wretched. Temperance and goodness are necessary for well-being, so
it is bad men who are wretched. Those who attain temperance not those
who ' 173
become wealthy, are released from this misery. ^ Similarly, cities need
virtue for their well-being, not walls, triremes, arsenals, numbers
or size (134b; The full impact of this will be felt if one
remembers that this dialogue is taking place immediately prior to
the outbreak of the war with Sparta. Athens is in full flurry of
preparation, for she has seen the war coming for a number of years)
. Proper management of the polis by Alkibiades would be to impart
virtue to the citizens and he 131 could not impart it
without having it (134c). A good governor has to acquire the virtue
first. Alkibiades shouldn't be looking for power as it is conventionally
understood - the ability to do whatever one pleases - but he should be
looking for justice and temperance. If he and the state acted in
accordance with those two virtues, they would please god; their eyes
focussed on the divine, they will see and know themselves and their good.
If Alkibiades would act this way, Socrates would be ready to guarantee
his well-being (134e). But if he acts with a focus on the god¬ less and
dark, through ignorance of humself his acts will go godless and
dark. Alkibiades has received the Socratic advice to forget about
power as he understands it, in the interest of having real power over at
least himself. Conventionally understood, and in most applications of
it, power is the ability to do what one thinks fit ( Gorgias 469d) .
Various technae give to the skilled the power to do what they think fit
to the material on which they are working. The technae , however, are
hier¬ archically arranged, some ruling others. That is, some are
archetectonic with respect to others. What is actually fit for each
techne is dictated by a logically prior techne . The techne with the most
power is the one that dictates to the other techne what is fit and what
is not. This understanding seems to disclose two elements of
power: the ability to do .
174 what one thinks is
fit, and knowing what is fit. If a man can do what he wants but is
lacking in intelligence, the result is likely to be disastrous
(135a; Republic 339a-e, Gorgias 469b, 470a). If a man with
tyrannical power were sick and he couldn't even be talked to, his
health would be destroyed. If he knew nothing about navigation, a
man exercising tyrannical power as a ship's pilot may well
132 cause all on board to perish. Similarly in a state a
power without excellence or virtue will fare badly. It
is not tyrannical power that Alkibiades should seek but virtue, if he
would fare well, and until the time he has virtue, it is better, more
noble and appropriate for a man, as for a child, to be governed by a
better than to try to govern; part of being 'better' includes knowledge
that right rule is in the subject's interest. It is appropriate for a
bad man to be a slave; vice befits a slave, virtue a free man (135c;
it seems strange that vice should be appropriate for anyone, slave
or free, perhaps, rather, it defines a slave). One should most certainly
avoid all slavery and if one can perceive where one stands, it may not
at present be on the side of the free (135c). Socrates must indicate
to Alkibiades the importance of a clearer understanding of both what
he desires, power, and what this freedom is. In a conventional, and
ambigu¬ ous sense, the man with the most freedom is the king or tyrant
who is not sub ject to anyone. Socrates must educate Alkibiades. The
man who wants power like the man who seeks freedom, doesn't know
substantively what he is looking for; the only power worth having comes
with wisdom, which alone can make one free. Socrates confides
to Alkibiades that his condition ought not to be named since he is a
noble ( kalos) man (cf. 118b - is this another
■
175 condition which will remain unnamed
despite their solitude?). Alkibiades must endeavour to escape it. If
Socrates will it, Alkibiades replies, he will try. To this Socrates
responds that it is only noble to say "if god wills it." This
appears to be Socrates' pious defence to a higher power. However, since
he has drawn attention to the phrase himself, a reminder may be permitted
to the effect that it is not necessarily quite the conventional piety to
which he refers: a strange parade of deities has been presented for the
reader's review in this dialogue. Alkibiades is eager to agree and
wants, fervently, to trade places with Socrates (135d). From now on
Alkibiades will be attending Socrates. Alkibiades, this time, will follow
and observe Socrates in silence. For twenty years Socrates has been
silent toward Alkibiades, and now, thinking it appropriate to trade
places, Alkibiades recognizes that silence on his part will help fill his
true, newly found needs. In the noise-filled atmosphere of today,
it is especially difficult to appreciate (and thus to find an audience
that appreciates) the im¬ portance of the final aspect of language that
will be discussed in connection with knowledge and power - silence. The
use of silence for emphasis is apparently known to few. But note how a
moment of silence on the television draws one's attention, whether or not
the program was being followed. And an indication of a residual respect
for the power of silence is that one important manner of honoring political
actors and heroes is to observe a moment of silence. Think, too, how
judicious use of silence can make someone ill at ease, or cause them to
re-examine their speech. The words "ominous" and
"heavy" may often be appropriately used to describe silence.
Silence can convey knowledge as well as power, and as the above examplss
may serve to show, it may have a significant
176 role in each. When one begins to examine the role of silence
in the lives of the wise and the powerful, one begins to see some of the
problems of a loud society. To start with, the reader
acquaints himself with the role of silence in political power. As
witnessed in the dialogue, and, as well, in modern regimes, there are
many facets of this. Politicians must be silent about much. Until
recently, national defence was an acceptable excuse for silence on the
part of the leaders of a country. The exist¬ ence of a professional
"news" gathering establishment necessitates that this silence
be total, and not only merely with respect to external powers, for some
things that the enemy must not know must be kept from the citizens as
well (cf. 109c, 124a). Politicians are typically silent about some
things in order to attain office, and about even more things in order to
retain it. Dis¬ senters prudently keep quiet in order to remain
undetained or even alive. Common sense indeed dictates that one observe a
politic silence on a wide variety of occasions. Men in the public eye may
conceal their dis¬ belief in religious authority in the interests of
those in the community who depend on religious conviction for their good
conduct. Most con¬ sider lying in the face of the enemy to be in the
interests of the polity, and all admire man who keeps silent even in the
face of severe enemy torture. Parents often keep silent to protect their
children, either when concerned about outsiders or about the more general
vulnerability of those unable to reason. One important
political use of silence is in terms of the myths and fables related to
children. Inestimable damage may be done when the "noble lie"
that idealistically structures the citizen's understanding
'
177
of his regime is repudiated in various respects by the liberal desire to
expose all to the public in the interests of enlightenment. At the point
where children are shown that the great men they look up to are
"merely human," one most clearly sees the harm that may be done
by breaking silence. Everybody becomes really equal, despite appearances
to the con¬ trary, since everyone - even the heroes - acts from deep,
irrational motives, appetites, fears, etc. High ideals and motives for
action are debunked. Since many of the political uses of
silence mentioned above con¬ cern appropriate silence about things known,
the next brief discussion will focus on silence and knowledge. The
primary aspect of the general concern for silence in the life devoted to
the pursuit of knowledge is a function of the twin features of political
awareness and political con¬ cern. Though closely tied to the
aforementioned appropriate uses of silence, this is concerned less with
the disclosure of unsalutary facts about the life and times of men than
with questions and truths of a higher order. For example, if it could be
discerned that man's condition was abysmal, that he would inevitably
become decadent, it would not be politically propitious to announce the
fact on the eight-o'clock newscast There seem to be at least two
situations in which such facts are revealed A politically unaware man
might not realize it; a politically aware but somehow unconcerned man
might not care about the well-being of the community as a whole.
There are at least two additional respects in which silence is im¬
portant to the life of knowledge. Both play a part in Alkibiades' educa¬
tion in the First Alkibiades and contribute to his desire to trade places
with Socrates. Firstly one must be silent to learn what others have
to ■
178 say. On the face of it, this seems a trivial and fairly
obvious thing to say. However when one appreciates the importance of
trust and friend¬ ship in philosophic discourse, one perceives that the
notion of silence important to this aspect of learning is much broader
than the mere logistics of taking turns speaking. To mention only a
single example, one has to prove one's ability to "keep one's mouth
shut" in order to develop the kind of trust essential to frank
discussion among dialogic partners. Secondly, silence
enhances mystery if there is reason to suspect that the silent know more
than they have revealed. This attraction to the mysterious accounts for
many things, including to mention only one example, the great appeal of detective
stories. If both witnesses and the author did not know more than they let
on in the beginning, if the reader/detective did not have to take great
care in extracting the truth from muddled accounts, it is not likely that
the genre would have the enduring readership it now enjoys.
Both of these might be tied directly to Socrates' initial silence
toward Alkibiades. Socrates had kept quiet until Alkibiades had reached a
certain stage in the development of his ambition. His prolonged silence,
and then his repeated reminders of it, as he begins to speak, increases
Alkibiades' curiosity. As it becomes more and more apparent to Alkibiades
that Socrates knows what he is talking about, Alkibiades becomes
increasingly desirous of learning. He wants Socrates to reveal the truth
to him, the truth he suspects Socrates is keeping to himself (e.g., 124b,
132b, 127e, 119c, 130d, 131d, 135d). Throughout the dis¬ cussion the men
discuss ever more important subjects and it is readily apparent that
their mutual trust grows at least partly because of their
'
179 recognition of what is appropriately kept silent
(e.g., 109c, 118b, 135c). In addition, at yet another level, it has
been frequently ob¬ served that Socrates' silence ragarding a part of the
truth, or the necessity of an example, or a segment of the argument,
indicates to the careful reader a greater depth to the issues.
Recognition of this silence increases the philosophic curiosity of the
readers as he attempts to discover both the subject of, and the reason
for, the silence. Alkibiades has suggested that he shall switch
"places" with Socrates. Socrates has attended on him for all
this time and now Alkibiades wants to follow Socrates. This is only one
of a number of "switches" that occur in the turning around of
Alkibiades, witnessed only by Socrates and the careful reader.
In the beginning Socrates says that the lovers of Alkibiades left
because his qualities of soul were too overpowering. He is flatter¬ ing
Alkibiades in order, perhaps, to entice Alkibiades to begin listening. In
the end he suggests they ceased pursuing the youth because the bloom of
his beauty (the appearance of his body) has departed from him. At first
glance this is not complimentary at all. Nevertheless it is now that
Alkibiades claims to want very much to remain and listen. He will even
bear insults silently. At the start Alkibiades is haughty, superior
and self-sufficient. In the end he wishes to please Socrates,
recognizing his need for the power of speech in his coming to know
himself. At first he believes he already knows, and arguments seem
extraneous. By the end he wants to talk over the proper care of his soul
at length with Socrates. Probably the most notable turning around
in the dialogue is the lover—beloved switch between the beginning and the
end (cf. also \ '
180 Symposium 217d). But a number of puzzling
features come to the fore when one attempts to draw out the implications
of the change. In what way is their attraction switched? Socrates is
attracted to Alkibiades' un¬ quenchable eros . Perhaps a mark of its
great will for power is that it is now directed toward Socrates. However,
what does that suggest about Socrates' eros in turn, either in terms of
its strength or its direction? What kind of eros is attracted to a most
powerful eros which in turn is directed back to it? Do Socrates and
Alkibiades both have the same in¬ tensity of desires and are their ambitions
not directed toward the same ends? Perhaps Socrates' answer
will suffice. He is pleased with the well-born man. His eros is like a
stork - he has hatched a winged eros and it returned to care for him.
(This is the first indication that Socrates assumes responsibility for
the form of Alkibiades' desires; it also indicates another whole series
of problems regarding how Alkibiades will "care for" Socrates).
They are kindred souls (or at least have kindred eros) , and their
relationship is now one of mutual aid. Socrates will look into
Alkibiades' soul to find his own and Alkibiades will peer into Socrates'
soul in attempting to discern his. The reader is im¬ plicitly invited to
look too; he has the privilege starting again and examining the souls
more closely each time he returns to the beginning. Alkibiades
agrees that that is the situation in which they find themselves and he
will immediately begin to be concerned with justice. Socrates wishes
he'll continue, but expresses a great fear. In an ironic premonition of
both their fates, he says he doesn't distrust Alkibiades' nature, but,
being able to see the might of the state (cf. 132a), he fears that both
of them will be overpowered.
181 Concluding
Remarks There is always an irony involved in concluding an essay on
a Platonic dialogue. The most fitting ending, it seems, would be to
whet one's appetite for more. This I shall attempt to do by
pointing out an intriguing feature about the dialogue in general.
If one were to look at the Platonic corpus as a kind of testament
to Socrates, a story by Plato of a Socrates made young and
beautiful regardless of their historical accuracy. For example, the
Theaitetos , Sophist and Statesman all take place at approximately
the same time, shortly before Socrates' trial. Similarly, the
Euthyphro and Apology occur about then. The Crito and Phaido follow
shortly thereafter, and so on. The First Alkibiades has its own
special place. The First Alkibiades may well be the dialogue in
133 which Socrates makes his earliest appearance. The
Platonic tradition has presented us with this as our introduction
to Socrates, to philosophy. Why? This dialogue marks the first
Socratic experience with philosophy that we may witness. Why? The
fateful first meeting between Socrates and Alkibiades is also our
first meeting with Socrates. Why? The reader's introduction to the
philosopher and to philosophizing is in a conversation about a
contest for the best man. Why? One must assume 134
that, for some reason, Plato thought this fitting.
'
FOOTNOTES 1. Cf. Plato, Republic
377a.9-10. The dialogue is known as the First Alkibiades , Alkibiades I
and Alkibiades Major . Its title in Greek is simply Alkibiades but the
conventional titles enable us to distinguish it from the other dialogue
called Alkibiades . Stephanus pagination in the text of this thesis
refers to the First Alkibiades of Plato. The Loeb text (translated by W.
Lamb, 1927) formed the core of the reading. However, whenever a
significant difference was noted between the Lamb translation and that of
Thomas Sydenham ( circa 1800), my own translation forms the basis of the
commentary. Unless otherwise noted, all other works referred to are by
Plato. 2. The major sources for Alkibiades' life are Thucydides,
Xenophon, Plutarch and Plato. It seems to be the case that no history can
be "objective." Since one cannot record everything, a historian
must choose what to write about. Their choice is made on the basis of
their opinion of what is important and therein vanishes the
"objectivity" so sought after but always kept from modern
historians. The superiority of the accounts of the men referred to above
lies partially in that they do not pretend to that
"value-neutral" goal, even though their perspective may
nonetheless be impartial. I wish to take this opportunity to
emphasize the limited importance of the addition of this sketch of the
historical Alkibiades. Were it suggested that such a familiarity were
essential to the understanding of the dialogue, it would be implied that
the dialogue as it stands is in¬ sufficient, and that I was in a position
to remedy that inadequacy. As a rule of thumb in interpretation one should
not begin with such pre¬ suppositions. However, there are a number of
ways in which the reading of the dialogue is enriched by knowing the
career of Alkibiades. For example, the reader who doesn't know that
Alkibiades' intrigues with (and illegitimate son by) the Spartan queen
was a cause of his fleeing from Sparta and a possible motive for his
assassination, would not have a full appreciation of the comment by
Socrates on the security placed around the Spartan queens (121b-c). At
all events, extreme caution is necessary so that extra historical baggage
will not be imported into the dialogue. It might be quite easy to
prematurely evaluate the historical Alkibiades, and thereby misunderstand
the dialogue. 3. We are also told she had dresses worth fifty minae
(123c). 4. Plutarch, Life of Alkibiades , 1.1 (henceforth referred
to simply as Plutarch); Plato, Alkibiades I , 112c, 124c, 118d—e.
182
’ • . .' '
183 5. Plutarch, II. 4-6. 6. Diodoros Siculus,
Diodoros of Sicily , XII. 38. iii-iv (hence¬ forth Diodoros).
7. This is the Anytos who was Socrates' accuser. He was also
notorious in Athens for being the first man to bribe a jury (composed of
500 men)! He had been charged with impiety. Some suspect that Alkibiades'
preference for Socrates caused Anytos to be jealous and that this was a
motive for his accusation of Socrates. 8. Plutarch, IV. 5.
9. The historical accuracy of the representation is impossible to
determine and, so far as we need be concerned, philosophically
irrelevant. 10. Actually Alkibiades admits this in a dialogue which
Plato wrote (cf. Symposium 212c-223b, esp. 215a, ff.). 11.
Plutarch, VI. 1. 12. Plato, Symposium 219e-220e; Plutarch VII. 3.
13. Plato, Symposium 220e-221c; Plutarch VII. 4; Diadoros XIII. 69.
i-70. vi; cf. Thucydides, History of the Peloponnesian War , IV 89- 101
(henceforth: Thucydides). 14. Thucydudes, V. 40-48. 15.
Cf. also Plutarch, X. 2-3. 16. Plutarch, XIV. 6-9; Thucydides V.
45. 17. Plutarch, XIII. 3-5. Cf. Aristotle's discussion in
his Politics , 1284al5-b35; 1288a25-30; 1302b5-22; 1308bl5-20.
18. Thucydides, VI. 16-18. 19. Diodoros, XII. 84. i-iii;
Thucydides, VI. 9-25, 8-15. 20. Thucydides, VI. 25. 21.
Plutarch, XVIII. 1-2; Thucydides, VI. 26. 22. The Hermai were
religious statues, commonly positioned by the front entrance of a
dwelling. Hermes was the god of travelling and of property. Cf.
Thucydides, VI. 27-28. 23. Thucydides, VI.
29; Plutarch, XVIII. 3-XX. 1 24. Thucydides,
VI. 46. 25. Thucydides, VI.
48-50. • V
184
26. Thucydides, VI. 48. 27. Thucydides, VI. 50-51. 28.
Plutarch, XX. 2-XXI. 6; Diodoros, XIII. 4 i-iv; Thucydides, VI.
60-61. 29. Plutarch, XXII. 1-4. 30. Thucydides, VI.
88-93. 31. Plutarch, XXIII. 1-6. 32. Thucydides, VII.
27-29. 33. Thucydides, VIII. 6, 11-14. 34. Plutarch,
XXIII. 7-8; cf. also Plato, Alkibiades I , 121b-c where Plato's mention
might provide some support for a claim that the motive was other than
lust. 35. Thucydides, VIII. 45-47; Plutarch, XXV 1-2.
36. Plutarch, XXIV. 3-5. 37. Thucydides, VIII. 48-54.
38. Diodoros, XIII. 41. iv-42iii; Plutarch, XXVI. 1-6. 39.
Thucydides, VIII. 72-77. 40. Thucydides, VIII. 89-93.
41. Thucydides, VIII. 97. For an excellent and beautiful examina¬
tion of this in Thucydides, read Leo Strauss, "Preliminary Observations
of the Gods in Thucydides' Work." INTERPRETATION , IV:1, Winter
1974, Martinus Nijhoff, The Hague, Netherlands. 42.
Plutarch, XXVII. 1-4. 43.
Xenophon, Hellenika I, i, 11-18; Diodoros, XIII. 49.
iii-52ii 44. Xenophon, Hellenika, I, i,
9-10; Plutarch, XXVII. 4-XXVIII. 2 45. Xenophon,
Hellenika, I, iii, 1-22. 46. Xenophon,
Hellenika, I, iv, 8-17; Plutarch, XXXI. 1-XXXII. 3. 47.
Xenophon, Hellenika, I, iv, 20-21; Plutarch, XXXII.
4-XXXIII. 48. Plutarch, XXXIV. 2-6.
49. Diodoros, XIII. 68. i-69. iii.
. At>' Mill 1
185 50. Plutarch, XXIX.
1-2. 51. Xenophon, Hellenika I, v, 11-16; Plutarch, XXXV. 2-XXXVI.
2. 52. Plutarch, XXXVI-XXXVIII. 53. Diodoros, XIV. 11.
i-iv; Plutarch XXXVIII. 4-XXXIX. 5. There are various accounts, the
similar feature being the Spartan instigation. It is not likely that it
was a personal assassination (because of the queen), but it was probably
not purely due to political motives, either. 54. Aristophanes, Frogs
, 1420-1431; cf. Aristophanes, Clouds, 362; Plato, Symposium
221b. 55. Aristophanes, Clouds , 217 ff. 56.
Politically speaking, however, this is not to be thoroughly disregarded,
for in their numbers they can trample even the best of men. 57. Cf.
for example: Plato, Gorgias 500c, Aristotle, Politics 1324a24 ff.,
Rousseau, Social Contract , Book I, Preface and Bk. II, chap. 7, Marx,
Theses on Feuerbach , #11. 58. Hobbes, Leviathan , edited by C. B.
MacPherson, Pelican Books, Middlesex, 1968, page 102 ff. 59.
It is interesting that Socrates uses the promise of power to entice
Alkibiades to listen so that he can persuade him that he doesn't know
what power is. It is very important for the understanding of the dialogue
that the reader remember that Socrates has characterized Alkibiades'
desire for honor (105b) as a desire for power. This is of crucial
significance throughout the dialogue, and in particular in con¬ nection
with Socrates' attempts to teach Alkibiades from whom to desire honor,
and in what real power consists. The reader is advised to keep both in
mind throughout the dialogue. Perhaps at the end he may be in a position
to judge in what the difference consists. 60. The most notorious
example, perhaps, is Martin Heidegger, although he was surely not the
only important man implicated with fascism. 61. Cf. Aiskhylos,
Agamemnon 715-735, and Aristophanes, Frogs 1420-1431, for the metaphor.
The latter is a reference to Alkibiades himself, the former a statement
of the general problem. (f. also Republic 589b; Laws 707a; Kharmides
155d; and Alkibiades I 123a). 62. The fully developed model
resulting from this effort should probably only be made explicit to the
educators. The entire picture (including the hero's thoughts about the
cosmos, etc.) would be baffling to children and most adults, and would
thus detract from their ability to identify with the model. Perhaps a
less thoroughly-developed example would suffice for youths. However, the
entire conception of the best man that the youths are to emulate should
be made explicit. The task is difficult but worth the effort, since the
consistency of two or more
186 features of the model can only be positively ascertained if he
is fully developed. An obvious example of where conflicts might arise
should this not be done is where, say, a very hybristic, superior and
self- confident young man is the leader of the radical democratic faction
of a city. Some kind of conflict is inevitable there, and those
tensions are much more obvious though not necessarily more penetrating
than those caused by incompatible metaphysical views. 63. For
example, Lakhes , Kharmides , Republic , Euthyphro . 64. These
questions are not the same, for in many dialogues the person named does
not have the longest, or even a seemingly major speak¬ ing part; e.g.,
Gorgias , Phaedo , Minos , Hipparkhos . 65. Protagoras , 336d. Here
Alkibiades is familiar with Socrates, for he recognizes his "little
joke" about his failing memory. However, Socrates was not yet
notorious throughout Athens, for the eunuch guarding the door did not
recognize him ( Protagoras 314d). Much of this specula¬ tion as to the
date depends on there not being anachronisms between (as opposed to
within) Platonic dialogues. We have no priori reason to believe there are
no anachronisms. However, it might prove to be useful to compare what is
said about the participants in other dialogues. The problem of anachronisms
within dialogues is a different one than we are referring to in our
discussion of the dramatic date. Plato, for a variety of philosophic
purposes, employs anachronisms within dialogues, including perhaps, that
of indicating that the teaching is not time-bound. 66. This is
obviously related to teleology, a way of accounting for things that
concentrates on the fulfilled product, the end or teleos of the thing and
not on its origin, as the most essential for under¬ standing the thing.
The prescientific, or common-sensical, understanding of things is a
teleological one. The superior/ideal/proper character¬ istic of things
somehow inform the ordinary man's understanding of the normal. This
prescientific view is important to return to, for it is such an outlook,
conjoined with curiosity, that gives rise to philosophic wonder.
67. 103a.1, 104c.4, 104d.4, 104e.l, 123c.8, 123e.3, 124a.2. For
this kind of detailed information, I found the Word Index to Plato , by
Leonard Brandwood, an invaluable guide. 68. The challenge to
self-sufficiency is important to every dialogue, to all men. It is
something we all, implicitly or explicitly, strive towards, a key
question about all men's goals. Even these days, one thing that will
still make a man feel ashamed is to have it suggested that he depends on
someone (especially his spouse). The first step toward
self-improvement has to be some degree of self-contempt, and that might
be sparked if Alkibiades realizes his dependency. 69.
Socrates might be saying this to make the youth open up. It isn't purely
complimentary; he doesn't say you are right. (Cf. also Kharmides 158
a-b). I am indebted for this observation to Proclus whose Commentary on
the First Alkibiades , is quite useful and interesting.
187 70. In order to claim that something is or is not a cause
for wonder, one apparently would have to employ some kind of criteria.
Such criteria would refer to some larger whole which would render the
thing in question either evident or worthy of wonder or trivial.
None of these has been explicitly suggested in the dialogue with
reference either to difficulty of stopping speech or beginning to
talk. 71. It may be important to note that this discussion refers
to political limits, political ambitions. Perhaps a higher ambition
(per¬ haps indeed the one Socrates is suggesting to Alkibiades) can be
under¬ stood as an attempt to tyrannize nature herself, to rule (by
knowing the truth about) even the realm of possibility and not to be
confined by it. 72. One notices that this, by implication, is a
claim by Socrates to know himself, not exactly a modest claim.
73. Interestingly, he does not consider what Alkibiades heard in
such speeches to be part of his education, "comprehensively" listed
at 106e. 74. This appears similar to Socrates' strategy with
Glaukon. Cf. Craig, L.H., An Introduction to Plato's Republic , pp.
138-202; especially pp. 163-4; Bloom, A., "Interpretive Essay,"
in The Republic of Plato , pp. 343-4. 75. Cf. Republic
, 435c. 76. Cf. Republic , 327b, 449b; Kharmides , 153b; Parmenides
, 126a. 77. While imagined contexts may influence one's thinking
and speaking in certain ways, one is not naively assuming that then one
will speak and act the same as one would if the imagined were
actualized. Many things might prevent one from doing as well as one
imagined. An example familair to the readers of Plato might be the
construction of the good city in speech. 78. Cf. 105d, 131e,
123c, and 121a. One might be curious as to the difference between
Phainarete's indoor teaching of Socrates and Deinomakhe's indoor teaching
of Alkibiades. Also perhaps noteworthy is that Alkibiades was taught
indoors by his actual mother: the masculine side of his nurture was not
provided by his natural father. 79. Except see Hobbes, Leviathan,
chapter 29; Plato, Republic , 372e. And one must remember that when the
plague strikes, the city is dramatically affected. 80.
Thucydides, VI. 21; I. 142-3; II. 13. 81. Note two things: (1)
Athenians don't debate about this at the ekklesia ; (2) Alkibiades, as
well as the wrestling master, would be qualified (118c-d).
Socrates drops dancing here; perhaps it is similar enough to
82. ■
188
wrestling to need no separate mention/ and to provide no additional
material for consideration. But if that were so one might wonder why it
was mentioned in the first place. 83. Perhaps "all
cases" should be qualified to "all cases which are ruled by an
art." The general ambiguity surrounding this remark in¬ vites the
reader's reflection on the extent to which Socrates' suggestion could be
seen to be a much more general kind of advice. Perhaps Alkibiades would
be better off imitating Socrates - period. Or perhaps something else
about Socrates' pattern (of life) could be said to provide "the
correct answer in all cases," - he is after all a very rational man.
84. The referent here is unclear in the dialogue. It could be
'lawfulness' and 'nobility' just as readily as the 'justice' which
Socrates chooses to consider; that choice significantly shapes the course
of the dialogue. Note: Socrates brought up 'lawful' (even though there probably
is no law in Athens commanding advisors to lie to the demos in the event
they war on just people); whereas Alkibiades' concern was nobility.
85. This would be especially true if considerations of justice
legitimately stop at the city's walls. Cf. also Thucydides, I. 75, and
compare the relative importance of these motives in I. 76. 86. This
conclusion may not be fair to Alkibiades, for he is clearly not similar
to Kallikles (see below) since he is convinced that he must speak with Socrates
to get to the truth. He wants to keep talking. But he is still haughty.
He has just completed a short dis¬ play of skill that wasn't sufficiently
appreciated by Socrates, and, most importantly, there will be an
unmistakeable point in the dialogue at which Alkibiades does become
serious about learning. Alkibiades will confess ignorance and that will
mark a most important change in his attitude. His attention here
isn't focussed on the premises but on the conclusion of the
argument. 87. There are a number of possibilities here for
speculation as to the cause of his taking refuge - from shame? from the
truth? from the argument? 88. Draughts is a table game with
counters, presumably comparable to chess. Draughts is a Socratic metaphor
for philosophy or dialectics. The example arises in connection with
language, and seem to indicate the reader's participation in the
dialogue. First, of course, Plato must have us in mind, for Alkibiades
cannot know that draughts are Socrates' metaphor for philosophical
dialectics. Second, the metaphor itself de¬ mands reflecting upon. How
not to play is a strange thing to insert. Though proceeding through
negation is often the only way to progress in philosophy, one doesn't set
out to learn how not to play. The many indeed cannot teach one to
philosophize, but the question of how not to philosophize often has to be
answered in light of the many, as does the question of how not to
"argue." The philosopher must show caution both because of the
many's potential strength over himself, and through his consideration of
their irenic co-existence; he must not rock the boat, so to speak.
189 89. Cf. Hobbes,
Leviathan , p. 100; Genesis 2:19-20. 90. It is interesting that
with reference to "running" (the province of the gymnastics
expert or horseman) Socrates mentions both horses and men. In the example
of "health" he mentions only men. Pre¬ sumably he is indicating
that there is some distinction to be made between men and horses that is
relevant to the two technae . Quite likely this distinction shall prove
to be a significant aid in the analysis of the metaphors of 'physician 1
and 'gymnast' that so pervade this dialogue. Borrowing the analogy of
'horses' from the Apology (30e), wherein cities are said to be like
horses, one might begin by examining in what way a gymnastics expert
pertains more to the city than does a doctor, or why "running"
and not "disease" is a subject for consideration in the city,
while both are important for men. Perhaps a good way to begin would be by
understanding how, when man's body becomes the focus for his concerns,
the tensions arise between the public and private realm, between city and
man. 91. The practical political problem, of course, is not simply
solved either when the philosophic determination of 'the many' is made,
or when empirical observation yields the results confirming what 'the
many' believe. The opinions must still be both evaluated and accounted
for. 92. However, when it is an extreme question of health -
e.g., starvation, a plague - a question of life or death, they do. The
con¬ dition of the body does induce people to fight and the condition of
the body seems to be the major concern of most people and is thus
probably a real, though background, cause of most wars and battles.
93. Homer, Odyssey , XXII 41-54; XVIII 420-421; XX 264-272, 322-
337, 394. 94. In Euripides' play, Hippolytos , Phaedra, the wife of
Theseus, is in love with her stepson Hippolytos, and though unwilling to
admit, she is unable to conceal, her love from her old nurse. She
describes him so the nurse has to know, and then says she heard it from
herself, not Phaedra. 95. It is undoubtedly some such feature
of power as this that Alkibiades expects Socrates to mention as that
power which only he can give Alkibiades. It may be that Socrates' power
is closely tied to speech - we are not able to make that judgement yet -
but Alkibiades is certainly not prepared for what he gets.
The reader is cautioned to remember that Socrates is assuming power
to be the vehicle for Alkibiades' honor. At least one sense in which this
is necessary to Socrates' designs has come to light. Alkibiades
could be convinced that he should look for honor in a narrower group of
people once he thought they were the people with the secret to power. It
is not as likely that he would come to respect that group (especially not
for being the real keys to power) if he hadn't already had his sense of
honor reformed.
190 96. Cf. Gorgias , beginning at 499b and continuing through the
end. He certainly doesn't seem to care, although it may be a bluff or a
pose. 97. Such as, perhaps, a dagger only partially concealed under
his sleeve - Gorgias 469c-d. 98. This, of course, is from the
perspective of the city. Very powerful arguments have been made to the
contrary. The city may not be the primary concern of the wisest
men. 99. Perhaps it should be pointed out, though, that men who
devote themselves to public affairs frequently neglect their family -
again the tension between public and private is brought to our attention
(cf. Meno, 93a-94e). 100. The fact that oaks grow stunted in
the desert does not mean that the stunted oak of the desert is natural. The
only thing we could argue is natural is that 'natural' science could
explain why the acorn was unable to fulfill its potential, just as
'natural' science can explain how there can be two-headed, gelded, or
feverish horses. In any explanation of this sort the reference is to a
more ideal tree or horse. And any examination of an existing tree or
horse will involve a reference to an even more perfect idea of a tree or
a horse. 101. It may be of no small significance that Socrates uses
the word ' ideas ' in this central passage. It is the only time in
this dialogue that the word is used and it seems at first innocuous.
'Ideas' is another form of ' eidos ' - 'the looks' so famous in the
central epistemological books of the Republic. What is so exceptional
about the " * use here is that it occurs precisely
where the question of the proper contest, the question of the best man,
is raised. Socrates says, "My, my, best of men, what a thing to say!
How unworthy of the looks and other advantages of yours." We are
perhaps being told it is unworthy of 'the looks,' 'the ideas , 1 that
Alkibiades does not pose a high enough ambition. The translators (who
never noted this) are not in complete error. Their error is one of imprecision.
The modifier "your" ( soi) is an enclitic and would have been
understood (by Alkibiades) to refer to "looks" as well as to
his other advantages. However, as an enclitic, it is used as a subtle
kind of emphasis, and it is clearly the "other advantages" that
are emphasized. The 'soi' would normally appear in front of the first of
a list of articles. It doesn't here, and the careful reader of the Greek
text would certainly be first impressed with it as " the
looks." The reference to Alkibiades' looks would be a second
thought. And only in someone not familiar with the Republic or with the
epistemological problem of the best man, would the "second-
thought" be weighty anough to drown the first impression.
Incidentally, it is indeed interesting that the word for the
highest metaphysical reality in Plato's works is a word so closely tied
to everyday appearance. Once again there is support for the dialectical
method of questioning and answering, to slowly and carefully refine the
world of common opinion and find truth or the reality behind appearance.
102. Whether the war justly or unjustly is not mentioned.
'
191 103. I believe that the referent to
"others" is left ambiguous. Note also that here (120c) Socrates
speaks of the Spartan generals ( strategoi ), a subtle change from 'king'
(120a) a moment earlier. Per¬ haps he is implying a difference between
power and actual military capability. 104. This is/ of
course/ generally good advice. Cf. Thucydides I 84: one shouldn't act as
though the enemy were ill-advised. One must build on one's foresight, not
on the enemy's oversight. 105. The important provision of nurture
is added to nature. Cf. 103a and the discussion of the opening words of
the dialogue. 106. Socrates has included himself in the
deliberation explicitly at this point, serving as a reminder to the
reader that both of these superior men should be considered in the
various discussions, not just one. A comparison of them and what they
represent will prove fruitful to the student of the dialogue.
107. Plato, another son of Ariston, is perhaps smiling here; we
recall why it is suspected that Alkibiades left Sparta and perhaps why he
was killed. Two more facets of this passage are, firstly, that this
might be seen as another challenge by Socrates (in which case we should
wonder as to its purpose). Secondly, it implies that Alkibiades' line may
have been corrupted, or is at least not as secure as a Spartan or Persian
one. Alkibiades cannot be positive that his acknowledged family and kin
are truly his. 108. There is a very important exception and
one significant to this dialogue as well as to political thinking in
general. One may change one's ancestry by mythologizing it (or lying) as
Socrates and Alkibiades have both done. This may serve an ulterior
purpose; recall, for example, the claims of many monarchies to divine
right. 109. Hesiod Theogony 928; cf. also Homer, Iliad 571
ff. 110. The opposite of Athena, Aphrodite ( Symposium 180d),
and Orpheus ( Republic 620a). 111. A number of Athenians may
have thought this was much the same effect as Socrates had. He led
promising youths into a maze from which it was difficult to escape.
112. This discussion should be compared in detail with the
education outlined in the Republic . Such a comparison provides even more
material for reflection about the connection between a man's nurture and
his nature. (One significant contrast: the Persians lack a musical
education). 113. Compare, for example, the difference concerning
horseback riding: Plato, Alkibiades I, 121e; and Xenophon,
Kyropaideia , I, iii, 3.
192 114. Cf., for
example, Machiavelli, The Prince , chapters 18, 19. The only other fox in
the Platonic corpus (besides its being the name of Socrates' deme -
Gorgias 495d) is in the Republic (365c) where the fox is the wily and
subtle deceiver in the facade of justice which is what Adeimantos, in his
elaboration of Glaukon's challenge, suggests is all one needs.
115. The reader of the dialogue has already been reminded of the
Allegory of the Cave, also in the context of nurture, at 111b. 116.
Thomas Sydenham, Works of Plato Vol. I , p. 69, points out - that
Herodotos tells us that this is not exclusively a Persian custom.
Egyptians, too, used all the revenue from some sections of land for the
shoes and other apparel of the queen. Cf. Herodotos, Histories , II, 97.
117. Cf. Pamela Jensen, "Nietzsche and Liberation: The Prelude
to a Philosophy of the Future ," Interpretation 6:2, p. 104:
"[Nietzsche] does not suppose truth to be God, but a woman, who has
good reasons to hide herself from man: her seductiveness depends upon her
secretiveness..." 118. This greatly compounds the problems of
understanding the two men and their eros . What has heretofore been
interpreted by Socrates as Alkibiades' ambition for power is now
explicitly stated to be an ambition for reputation. Are we to understand
them as more than importantly connected, but essentially similar? And
what are we to make of Socrates' inclusion of himself at precisely this
point? Does he want power too? Reputation? Perhaps we are to see both men
(and maybe even all erotic attraction whatsoever) as willing to have
power. Socrates sees power as coming through knowledge. Alkibiades
sees it as arising from reputa¬ tion. Is Socrates in this dialogue
engaged in teaching Alkibiades to respect wisdom over glory in the
interests of some notion of power? The philosopher and the timocrat come
out of (or begin as) the same class of men in the Republic. The reader
should examine what differences relevant to the gold/philosophic class,
if any, are displayed by Socrates and Alkibiades. Perhaps Socrates'
education of Alkibiades could be seen as a project in alchemy -
transforming silver into gold. 119. Homer, Iliad , X. 224-6. Cf.
Protagoras , 348d; Symposium , 174d; Alkibiades II , 140a; as well as
Alkibiades I , 119b, 124c. 120. This is not intended to challenge
Prof. Bloom's interpreta¬ tion ( The Republic of Plato , p. 311). As far
as I am capable of under¬ standing it and the text, his is the correct
reading. However, with respect to this point I believe the dialogue
substantiates reading the group of men with Polemarkhos as the many with
power, and Socrates and Glaukon as the few wise. 121. This is
left quite ambiguous. The jest could refer to: a) Socrates' claim
to believe in the gods b) Socrates' reason as to why his guardian
is better c) Socrates' claim that he is uniquely capable of
providing Alkibiades with power.
193 122. In the Republic, inodes and rules of
music are considered of paramount political importance. Cf. Republic
376c-403c. 123. Cf. however. Symposium , 174a, 213b. At this stage
of the argument Socrates does not distinguish between the body and the
self. 124. This is the only time Socrates swears by an Olympian
god. He has referred to his own god, the god Alkibiades
"talked" to, a general monotheistic god, and he has sworn upon
the "common god of friendship" (cf. Gorgias 500b, 519e,
Euthyphro 6b), as well as using milder oaths such as 1 Babai 1 (118b,
119c). It would probably be very interesting to find out how
Socrates swears throughout the dialogues and reflect on their connection
to his talk of piety, and of course, his eventual charge and trial.
125. Strictly speaking that is the remark on which there won't be
disagreement, not the one following it. "Man is one of three things,"
is something no one can disagree with. (He is what he is and any
two more things may be added to make a set of three.) Why does
Socrates choose to say it this way? And why three? Are there three
essential elements in man's nature? As we shall presently see, he does
assume a fourth which is not mentioned at this time. 126.
Though first on the list of Spartan virtues, temperance ( sophrosyne ), a
virtue so relevant to the problem of Alkibiades, does not receive much
treatment in this dialogue. One might also ask: if temperance is knowing
oneself, is there a quasi-virtue, a quasi¬ temperance based on right
opinion? 127. This is what Socrates' anonymous companion at the
beginning of Protagoras suggests to Socrates with respect to
Alkibiades. 128. Homer, Odyssey , II. 364. Odysseus' son,
Telemakhos, is called the "only and cherished son" by his nurse
when he reveals to her his plan of setting out on a voyage to discover
news about his father. His voyage too (permitting the application
of the metaphor of descent and human nature) is guarded by a divine
being. Alkibiades/Telemakhos is setting out on a voyage to discover his
nature. 129. For other references to "stripping" in the
dialogues, see Gorgias 523e, 524d; cf. also Republic 601b, 612a, 359d,
361c, 577b, 474a, 452a-d, 457b; Ion 535d; Kharmides 154d, 154e;
Theaitetos 162b, 169b; Laws 772a, 833c, 854d, 873b, 925a; Kratylos
403b; Phaidros 243b; Menexenos 236d; Statesman 304a; Sophist
237d. 130. This word for release (apallattetai) has only been
used for the release of eros to this point in the dialogue (103a, 104c,
104e, 105d). Parenthetically, regarding this last passage, we note also
that the roles of wealth and goodness in well-being have not been
thoroughly 0 xplored. Perhaps he is suggesting a connection between
becoming rich and not becoming temperate. 131. One might
interject here that perhaps the virtues resulting from, say, a Spartan
nurture, do not depend on the virtues of the
■ •
194 governors. Perhaps they
depend on the virtue or right opinion of the lawgiver, but maybe not even
that. There might be other counterbalancing factors, as, for example,
Alexander Solzhenitsyn suggests about Russians today - (Harvard
Commencement Address, 1978, e.g., paragraph 22). 132. As was
mentioned with respect to their other occurrences in the dialogue, the
metaphors of the diseased city, physician of the city, doctor of the
body, pilot of ship, ship-of-state and passenger are all worth
investigating more thoroughly, and in relation to each other. 133.
There is a dialogue, the Parmenides , in which the "Young
Socrates" speaks. We do not know what to make of this, but the fact
that he is called the "Young" Socrates somehow distinguishes
his role in this, from the other dialogues. He is not called "Young
Socrates" in the Alkibiades I , nor is he referred to as
"Middle-aged Socrates" in the Republic , nor is he named "Old
Socrates" in the Apology . 134. Having come this far, the
reader might want to judge for himself some recent Platonic scholarship
pertaining to the First Alkibiades. In comparatively recent times the
major source of interest in the dialogue has been the popular dispute
about its authenticity. Robert S. Brumbaugh, in Plato for the
Modern Age , (p. 192-3) concludes: But the argument of the
dialogue is clumsy, its dialectic constantly refers us to God for philosophic
answers, and its central point of method - tediously made - is
simply the difficulty of getting the young respondent to make a
generalization. There is almost none of the inter¬ play of concrete
situation and abstract argument that marks the indisputably authentic
early dialogues of Plato. Further, the First Alkibiades includes an
almost textbook summary of the ideas that are central in the
authentic dialogues of Plato's "middle" period; so markedly
that it was in fact used as an introductory textbook for freshman
Platonists by the Neo-Platonic heads of the Academy ... it would be
surprising if this thin illustration of the tediousness of
induction were ever Plato's own exclusive philosophic theme: he had
too many other ideas to explore and offer. Benjamin Jowett, translator
of the dialogue and thus familiar with the writings, says in his
introduction to the translation: ... we have difficulty in
supposing that the same writer, who has given so profound and complex a
notion of the characters both of Alkibiades and Socrates in the
Symposium should have treated them in so thin and superficial a manner as
in the Alkibiades , or that he would have ascribed to the ironical
Socrates the rather unmeaning boast that Alkibiades could not attain
the objects of his ambition without his help; ... or that he should
have imagined that a mighty nature like his could have been reformed by a
few not very conclusive words of Socrates... There is none of the
undoubted dialogues of Plato in which there is so little dramatic verisimilitude.
195 Schleiermacher,
originator of the charge of spuriousness, analyzed the dialogue, (pp.
328-336). It is to him that we owe the current dispute. Saving the best
for last: ... there is nothing in it too difficult or too
profound and obscure for even the least prepared tyro... This ... work
... appears to us but very insignificant and poor...
and ... [genuinely Platonic passages] may be found
sparingly dispersed and floating in a mass of worthless matter...
and ... we must not imagine for a moment that in these
speeches some philosophic secrets or other are intended to be contained.
On the contrary, though many genuine Platonic doctrines are very
closely connected with what is here said, not even the slightest
trace of them is to be met with... and ... in short,
however we may consider it, [the Alkibiades ] is in this respect either a
contradiction of all other Platonic dialogues, or else Plato's own
dialogues are so with reference to the rest. And whoever does not feel
this, we cannot indeed afford him any advice, but only congratulate him
that his notions of Plato can be so cheaply satisfied... In
any event, much could be said about whether anything important to the
philosophic enterprise would hinge upon the authorship. My comments
concerning the issue will be few. Firstly there is no evidence that could
positively establish the authorship. Even should Plato rise from the dead
to hold a press conference, we are familiar enough with his irony to
doubt the straightforwardness of such a state¬ ment.
Secondly, many of the arguments are based on rather presumptuous beliefs
that their proponents have a thorough understanding of the corpus and how
it fits together. I will not comment further on such self-
satisfaction. Thirdly, there are a number of arguments based on
stylistic analyses. If only for the reason that these implicitly
recognize that the dialogue itself must provide the answer, they will be
addressed. Two things must be said. First, style changes can be
willed, so to suggest anything conclusive about them is to presume to
understand the author better than he understood himself. Second, style is
only one of the many facets of a dialogue, all of which must be taken
into account to make a final judgement. As is surely obvious by now, that
takes careful study. And perhaps all that is required of a dialogue is
that it prove a fertile ground for such study.
BIBLIOGRAPHY Aristophanes. The Eleven Comedies . New York:
Liveright Publishing Corp., 1943. The King James BIBLE.
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' . ■
'Ennio Carando. Keywords: l’amore platonico, l’amore
socratico, l’implicatura di Socrate, filosofo socratico, Socrate, Alcibiade.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carando” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51776655823/in/dateposted-public/
Grice e Carapelle – linguaggio e
metafilosofia – linguaggio oggetto – meta-linguaggio – Peano – Tarski 1944 – bootstrapping
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like
Carcano; I cannot say he is an ultra-original philosopher, but I may – My
favourite is actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather ‘language
and metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers misuse
‘believe,’ say – but Carcano has also philosophised on issues that seem very
strange to Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia del
linguaggio’ – brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei Marchesi di
Carapelle. Noto per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia del
linguaggio e più in generale di filosofia analitica. Studia a Napoli, durante i
quali si formò alla scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle scienze.
Studia a Napoli e Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle approfondire
le problematiche poste dalla filosofia e riesaminare attentamente il linguaggio
in uso. La sua tesi centrale è che correnti come il pragmatismo, il
positivismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero il
portato dell'esigenza teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non e
sufficiente -- delle varie questioni che emergevano da una crisi culturale,
vitale ed esistenziale. Al centro di tale crisi giganteggia la polemica fra
senza senso metafisico e senso anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore
critico del positivismo logico, contro il quale a sua volta lui -- che ritiene
necessaria una sostanziale alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la
metafisica e la scienza -- pone diversi rilievi critici, principale dei quali è
quello di minare alla base l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza
una cornice o una struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe
indefinitamente frammentata in percezioni fra loro irrelate. A questo
inconveniente si può rimediare temperando il positivismo con lo
sperimentalismo, ovvero accompagnando alla piena accettazione del metodo una
piena apertura all’esperienza così come “esperienza” è stata intesa, ad
esempio, nella fenomenologia intenzionalista intersoggetiva di Husserl. In
questo senso si può procedere a mantenere una costante tensione sui problemi
posti dalla filosofia, in opposizione a ogni dogma di sistema, e al contempo
non cadere nell'angoscia a cui conduce lo scetticismo radicale che tutto
rifiuta, compresa l'esperienza. Non si tratterebbe dunque per la filosofia di
definire verità immutabili ma di sincronizzarsi col ritmo del metodo basato
sull’esperienza fenomenologico, sussumendo i risultati sperimentali e
integrandoli nel continuum di una struttura metafisica mediante il ponte
dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e civiltà” (Perrella, Roma); Filosofia
(Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma); Il problema filosofico. Fratelli Bocca,
Roma); La semantica, Fratelli Bocca, Roma – cf. Grice, “Semantics and
Metaphysics”) Metodologia filosofica, una rivoluzione filosofica minore.
Libreria scientifica editrice, Napoli 1958. Esistenza ed alienazione” (MILANI,
Padova); Scienza unificata, Unita della scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e
forma logica (MILANI, Padova); Il concetto di informativita, MILANI, Padova);
La filosofia linguistica, Bulzoni Editore, Roma. Dizionario biografico degli
italiani, Roma. Ben altrimenti articolato e puntuale
ci sembra l'intervento operato sulla fenomenologia da Paolo Filiasi Carcano di
Montaltino de Carapelle, quarto duca di Montaltino, ed allievo di Aliotta a Napoli
e pur fedele estensore delle sue teorie, sulle quali, per questo mo tivo, ci
siamo nell'ultima parte dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in
esse l'opera di Husserl. L'iter formativo di Filiasi Carcano (1911-1977)
interseca situazioni ed esperienze riscontrabili, come ve dremo, anche in
altri giovani filosofi della stessa generazione. Di più, nel.suo caso, c'è una
singolare — e probabilmente indotta — analogia con la vicenda teoretica del
primo Husserl. In realtà, — scrive l'autore in un brano autobiografico del 1956
— io non posso dire di essere venuto alla filosofia in maniera diretta, per
un'intima voca zione alla speculazione o per un normale maturarsi dei miei
studi e della mia men talità giovanile, ma questa era soprattutto
caratterizzata da un'intensa passione pèrle scienze e da una viva disposizione
per la matematica54. Questo germinale orientamento, unito a una sensibilità
religiosa che non tarderà a manifestarsi, ebbe come primo e scontato effetto di
allontanare Filiasi Garcano dall'area neo-idealistica, il cui radicale immanentismo,
la esclusione dei concetti di peccato e di grazia e l'avversione per ogni for-
53 Ibidem, p. 7. 54 P. Filiasi Carcano, 17 ruolo della metodologia nel
rinnovamento della filo sofia contemporanea, in AA.W., La filosofia
contemporanea in Italia. Invito al dialogo, Asti, Arethusa, 1958, p. 219.
LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 59 ma di
naturalismo, non potevano in alcun modo essere accettati 55. Di qui un
sentimento di estraneità e di insoddisfazione subito denunciati fin dai primi
scritti, l'intima perplessità e la difficoltà di orientarsi in una temperie
culturale già decisa e fissata nelle sue grandi linee da altri. E, d'altro
canto, un naturale rivolgersi al problema metodologico, come pre liminare
assunzione di consapevolezza circa i percorsi teoretici che con veniva seguire
per ottenere uno scopo valido, senza tuttavia ancora nul la presumere circa la
necessità di quei percorsi o la natura di questo sco po. In tal senso,
l'elaborazione di una qualsivoglia metodologia doveva prevedere come esito
programmatico, da un lato, una sorta di epochizza- zione delle grandi tematiche
metafisiche e della tradizionale formulazione dèi problemi, dall'altro lato, un
lungo e paziente lavoro di analisi, con fronto, chiarificazióne e comprensione
che consentisse di recuperare, di quelle tematiche e di quei problemi, il
contenuto più autentico. Ma più lo sguardo critico del giovane filòsofo andrà
maturando fino ad abbracciare nel suo complesso il controverso panorama
culturale del tempo, più quel programma iniziale perderà la sua connotazione
prope deutica per trasformarsi in compito destinale, in una ' fighi for
clarity* che assumeva i termini di un radicale esame di coscienza nei confronti
della filosofia. Scrive Filiasi Carcano: Confesserò che varie volte ho avuto ed
ho l'impressione di non aver abba stanza compreso, e per questo alla mia
spontanea insoddisfazione (al tempo stesso scientifica e religiosa) si mescola
un senso di incomprensione. Questo stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento
che non è propriamente di critica (...), ma ha piut tosto il carattere di un
prescindere, di una sospensione del giudizio, di una messa in parentesi, in
attesa di una più matura riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote
polemiche che, nella comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta,
sembravano prevaricare sulle più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo,
Filiasi Carcano coglie i sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine
psicologica e di un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e
propria fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come
recita il titolo della sua opera prima 57, dove al desiderio di fuggire
l'alternativa del dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L.
Gavazzo, Paolo Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi», X, 1, 1987, pp. 57-74.; * P;
Filiasi Carcano, // ruolo della metodologia,;cit., p. 220. 57 Cfr. P. Filiasi
Carcano, Crisi della civiltà e orientamenti della filosofia 60.CAPITOLO
TERZO contraltare l'eterno dissidio tra ragione e fede. Crisi esistenziale, di
con seguenza, dovuta al prevalere delle tendenze scettiche e antimetafisiche
su quelle spirituali e religiose. Crisi della filosofia, infine, fondata sulla
raggiunta consapevolezza del suo carattere problematico, sull'incapacità di
realizzare interamente la pienezza del suo concetto. Come moto di reazione
immediata occorreva allora, oltreché circoscrivere le proprie pre tese
conoscitive ponendosi su un piano risolutamente pragmatico, assur gere ad una
più compiuta presa di coscienza storica e conciliare la filoso fia con una
mentalità scientificamente educata. Solo, cioè, il confronto con una seria
problematica scientifica (la quale Filiasi Carcano vedeva realizzata
nell'ottica positivista dello sperimentalismo aliottiano) avreb be potuto
segnare per la filosofia l'avvento di una più matura riflessione intorno alle
proprie dinamiche interne e ai propri genuini compiti critici. E a questo scopo
parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi d'esor dio, singolarmente
soccorrevole proprio l'opera di Edmund Husserl. Scri ve Angiolo Maros
Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. Filiasi Carcano pensò, o
sperò, che là fenomenologia sarebbe stata la ' scienza delle scienze', capace
di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le parole del suo
fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico di una
problematica acuta 58. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo metafisico,
quale eira frettolo samente spacciata in certe grossolane versioni del tempo
(non esclusa, lo ^bbiamo visto,.quella del suo, maestro), la fenomenologia
viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e un rigore
filologico — i quali pure riscontreremo in altri suoi coetanei — giustificabili
solo con l'urgenza di una richiesta culturale cui l'ambiente nostrano non
poteva evidentemente soddisfare. Non è un caso che Filiasi Carcano insista, fin
dal suo primo articolo dedicato ad Husserl, sul valore della fenomeno logia,
ad un tempo, emblematico, nel quadro d'insieme della filosofia contemporanea, e
liberatorio rispetto al giogo dei tradizionali dogmi idealistici che i giovani,
soprattutto in Italia, si sentivano gravare sulle spalle ". contemporanea,
pref. di A. Aliotta, Roma, Libreria Editrice Francesco Perrella, 1939, pp.
VIII-202. • s* Cff. Il pensiero scientifico ìtt Italia '(1930-1960),
Creiriòria, Màngiarotti Editore, 1963, p. 108. 39 Cfr. P. Filiasi Cartario/ Da
Carierò'ad H«w&f/,:« Ricerche filoSofìche », VI, 1; 1936; pp: 18*34.
LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 61 In piena
coscienza, — scriverà l'autore nel 1939 — se abbiamo voluto scio gliere
l'esperienza da una necessaria interpretazione idealistica, non è stato per
forzarla nuovamente nei quadri di una metafisica esistenziale, ma per ridare ad
essa, secondo lo schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua libertà 60.
Tale schiettezza, corroborata da un carattere decisamente antisistema tico e
dal recupero di una vitale esigenza descrittiva, avrebbe consentito lo
schiudersi di un nuovo, vastissimo territorio di indagine, sospeso tra
constatazione positivistica e determinazione metafisica, ma capace, al tem po
stesso, di metter capo ad un positivismo di grado superiore e ad un più
autentico pensare metafisico. Si trattava, in sostanza, non tanto di dedurre i
caratteri di una nuova positività oppure di rifondare una me- tafisica, quanto
piuttosto di guadagnare un più saldo punto d'osserva zione dal quale far
spaziare sul multiverso esperienziale il proprio sguar do fenomenologicamente
addestrato. È in questo punto che la fenome nologia, riabilitando l'intuizione
in quanto fonte originaria di autorità (Rechtsquelle), operando in base al
principio dell'assenza di presupposti e offrendo i quadri noetico-noematici per
la sistemazione effettiva del suo programma di ricerca, veniva ad innestarsi
sul tronco dello sperimenta lismo di stampo aliottiano, che Filiasi Carcano
aveva assimilato a Napoli negli anni del suo apprendistato filosofia). Il
ritorno ' alle cose stesse * predetto dalla fenomenologia non solo manteneva
intatta la coscienza cri tica rimanendo al di qua di ogni soglia metafisica,
ma anche e più che mai serviva a ribadire il carattere scientifico e
descrittivo della filosofia. In un passo del 1941 si possono scorrere, a modo
di riscontro, i punti di un vero e proprio manifesto sperimentalista:
Descrivere la nostra esperienza nel mondo con l'aiuto della critica più raffi
nata; cercare di raccordarne i vari aspetti in sintesi sempre più vaste e più
com prensive, esprimenti, per cosi dire, gradi diversi della nostra conoscenza
del mon do; non perdere mai il senso profondo della problematicità
continuamente svol- gentesi dal corso stesso della nostra riflessione; infine
stare in guardia contro tutte le astrazioni che rischiano di alterare e
disperdere il ritmo spontaneo della vita: sono questi i principali motivi dello
sperimentalismo e (...) al tempo stesso, i modi mediante i quali esso va
incontro alle più attuali esigenze logiche e metodologiche del pensiero
contemporaneo61. D'altro canto, si diceva, non è neppure precluso a questo
program- *° P. Filiasi Carcano, Crisi della civiltà, cit., p. 138. 61 P.
Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, Roma, Perrella, 1941, p.
120. 62......... CAPITOLO TERZO ma un esito trascendente, e a
fenderlo possibile sarà ancora una volta, in virtù della sua cruciale natura
teoretica, proprio l'atteggiamento feno menologico. Scrive Filiasi Carcano: In
realtà, il dilemma tra una scienza che escluda l'intuizione e una intui zione
che escluda la scienza, non c'è che su di un piano realistico ma non su di un
piano fenomenologicamente ridotto: su questo piano scienza e intuizione tornano
ad accordarsi, accogliendo una pluralità di esperienze, tutte in un certo senso
le gittime e primitive, ma tutte viste in un particolare atteggiamento di
spirito che sospende ogni giudizio metafisico. È questo, com'io l'intendo, il
modo particola rissimo con cui la filosofia può tornare oggi ad occuparsi di
metafisica 62. Certo, nella prospettiva husserliana, il problema del
trascendens puro e semplice, che farà da sfondo a tutto il percorso speculativo
di Filiasi Carcano, sembrava rimanere ingiudicato o, almeno, intenzionalmente
rin viato in una sorta di ' al di là ' conoscitivo, Ma in ordine alla missione
spirituale che l'uomo deve poter esplicare nel mondo storico, il metodo
fenomenologico conserva tutta la sua efficacia. Esso —nota Filiasi Carcano
nelle ultime pagine del suo Antimetafisica e spe rimentalismo — certo
difficilmente può condurre a risultati, ma compie per lo meno analisi e
descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto tende a sollevare il
velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive intuizioni della vita
religiosa 63. Dato questo suo carattere peculiare e l'orizzonte significativo
nel quale viene assunta fin dal principio, la fenomenologia continuerà a va
lere per Filiasi Carcano come referente teoretico di prim'ordine, accom
pagnandolo, con la tensione e la profondità tipiche delle esperienze fon
damentali, in tutti i futuri sviluppi della sua speculazione. III.3. -
LASCUOLATORINESE. ANNIDALEPASTOREENORBERTOBOBBIO. La terza grande area di
interesse per il pensiero hussèrliano negli anni Trenta in Italia, fa capo
all'Università.di Torino e si costituisce prin cipalmente intorno all'attività
4i tre studiosi: il primo, già incontrato e che, in qualche modo, fa da ponte
fra questa e la neoscolastica mila nese è Carlo Mazzantini; il secondo è
Annibale Pastore —ne parleremo ora — che teneva nell'ateneo torinese la
cattedra di filosofia teoretica; 6- P, Filiasi Corcano,. Crisi.della civiltà,.eit,,.
p.., 184.,:; 63 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, cit., p.
153. Apparently, David Hilbert was the first to use the prefix meta(from
the Greek over) in the sense we use it in metalanguage, metatheory, and now
metasystem. He introduced the term metamathematics to denote a mathematical
theory of mathematical proof. In terms of our control scheme, Hilbert's MST has
a non-trivial representation: a mapping of proofs in the form of usual
mathematical texts (in a natural language with formulas) on the set of texts in
a formal logical language which makes it possible to treat proofs as precisely
defined mathematical objects. This done, the rest is as usual: the controlled
system is a mathematician who proves theorems; the controlling person is a
metamathematician who translates texts into the formal logical language and
controls the work of the mathematician by checking the validity of his proofs
and, possibly mechanically generating proofs in a computer. The emergence of
the metamathematician is an MST. 9. OBJECT-LANGUAGE AND META-LANGUAGE.
Since we have agreed not to employ semantically closed languages, we have to
use two different languages in discussing the problem of the definition of
truth and, more generally, any problems in the field of semantics. The first of
these languages is the language which is "talked about" and which is
the subject- matter of the whole discussion; the definition of truth which we
are seeking 350 PHILOSOPHYAND PHENOMENOLOGICARLESEARCH applies to
the sentences of this language. The second is the language in which we
"talk about" the first language, and in terms of which we wish, in particular,
to construct the definition of truth for the first language. We shall refer to
the first language as "the object-language,"and to the second as
"the meta-language." It should be noticed that these terms
"object-language" and "meta- language" have only a relative
sense. If, for instance, we become inter- ested in the notion of truth applying
to sentences, not of our original object-language, but of its meta-language,
the latter becomes automatically the object-language of our discussion; and in
order to define truth for this language, we have to go to a new
meta-language-so to speak, to a meta- language of a higher level. In this way
we arrive at a whole hierarchy of languages. The vocabulary of the
meta-language is to a large extent determined by previously stated conditions
under which a definition of truth will be considered materially adequate. This
definition, as we recall, has to imply all equivalences of the form (T): (T) X
is true if, and only if, p. The definition itself and all the equivalences
implied by it are to be formulated in the meta-language. On the other hand, the
symbol 'p' in (T) stands for an arbitrary sentence of our
object-language. Let “A(p)** mean “I
assert p between 5.29 and 5.31’*. Then q is “there is a proposition p
such that A(p) and p is fake”. The contradiction emerges from the
supposition that q is the proposition p in question. But if there is a
hierarchy of meanings of the word “false** corresponding to a hierarchy
of propositions, we shall have to substitute for q something more definite,
i.e. “there is a proposition p of order «, such that k{p) and p has
falsehood of order n*\ Here n may be any integer: but whatever integer it
is, q will be of order « + i? and will not be capable of truth or
falsehood of order n. Since I make no assertion of order n, q is false,
62 THE OBJECT-LANGUAGE The hierarchy must
extend upwards indefinitely, but not downwards, since, if it did,
language could never get started. There must, therefore, be a language of
lowest type. I shall define one such language, not the only possible
one.* I shall call this sometimes the “object-language”, sometimes the
“primary language”. My purpose, in the present chapter, is to define
and describe this basic lai^age. The languages which follow in the
hierarchy I shall call secondary, tertiary, and so on; it is to be
understood that each language contains all its predecessors. The
primary language, we shall find, can be defined both logically and
psychologically; but before attempting formal definitions it will be well
to make a preliminary informal explora- tion. It is clear,
from Tarski’s argument, that the words “true” and “false” cannot occur in
the primary language; for these words, as applied to sentences in the language,
belong to the (« -t- language. This does not mean that sentences in
the primary language are neither true nor false, but that, if “/>” is
a sentence in this language, the two sentences “p is true” and “p
is false” belong to the secondary language. This is, indeed, obvious
apart from Tarski’s argument. For, if there is a primary language, its
words must not be such as presuppose the existence of a language. Now
“true” and “false” are words applicable to sentences, and thus presuppose
the existence of language. (I do not mean to deny that a memory
consisting of images, not words, may be “true” or “false”; but this is in
a somewhat different sense, which need not concern us at present.) In
the primary language, therefore, though we can make assertions, we
cannot say that our own assertions or those of others are either true or
false. When I say that we make assertions in the primary
language, I must guard against a misunderstanding, for the word
“assertion” and, since q is not a possible value of p, the argument
that q is also true collapses. The man who says ‘T am telling a lie of
order n” is telling a He, but of order n 4 - I. Other ways of evading the
paradox have been suggested, e.g. by Ramsey, “Foundations of
Mathematics”, p. 48. * My liierarchy of languages is not identical
with Carnap's or Tarski's. Proceeding psychologically, I construct a
language (not the language) fulfilling the logical conditions for the
langu^e of lowest type; I call this the “object-language” or the “primary
language”. In this language, every word “denotes” or “means” a sensible
object or set of such objects, and, when used alone, asserts the sensible
presence of the object, or of one of *9 AN
INQUIRY INTO MEANING AND TRUTH the set of objects, which it denotes
or means. In defining this language, it is necessary to define “denoting”
or “meaning” as applied to object-words, i.e., to the words of this
language. Paolo Filiasi Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo
Filiasi Carcano. Paolo Carcano. Montaltino. Keywords: linguaggio e
metafilosofia, semantica, quarto duca di montaltino, semantica ed esperienza,
semantica e fenomenologia, filiasi carcano, montaltino, carapelle. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carapelle” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777277620/in/dateposted-public/
Grice e Carbonara – l’esperienza e la
prassi – Cicerone e il pratico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Potenza).
Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ –
another one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura:
immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits
nicely with my functionalist method in philosophical psychology: there is input
(esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer
this to the tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need
‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least in the way Carbonara
does use ‘reflessione,’ alla Husserl. Conseguito
il diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia.
Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera
Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.
Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi
alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in
rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto.
Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto
sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero
e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella
che si raccoglie nell'eterno atto del pensare».. Il problema secondo
Carbonara anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto
tra esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato
dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto
dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso.
La soluzione invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori
kantiana dove convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la
coscienza è per un verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato)
storico e per un altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il
contenuto (segnato) non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza
segnante. La successiva questione si pone considerando oltre il rapporto
del pensiero – il segnante -- con la materia quella collegata all'origine del
pensiero stesso. Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria
dell' “io penso” che però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica
della realtà storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale*
o "esistenziale", secondo una concezione della "filosofia
dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire
della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è propriamente
di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da una realtà
diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta Carbonara ad
indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia” in Galilei, in
cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si può andare oltre
l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing a noise” di
Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla necessità
di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro – intersoggetivita).
Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione
dello stesso idealismo verso se stesso non potendo rinunciare a se stesso ma neppure
al suo opposto -- nec tecum nec sine te -- solus ipse. Si interessa anche
della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse
realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad
esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale
dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua
spiritualità religiosa: In Ficino, il platonismo si congiunge al
cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il
primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per
cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si
ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei
dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la
sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi
fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone,
Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata dalla
Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone
figura nella catena dei platonici romani. Riallacciandosi a quella
tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato
a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è
considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi
coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale
argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo
rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad
ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e
gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e
filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello;
Introduzione alla Filosofia (Napoli; Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo
e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo
(Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica
del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il
platonismo nel Rinascimento. Iu un momento diverso dalla storica ora
presente of¬ frire in veste italiana alla coltura filosofica del nostro
paese il Sistema di Dottrina morale secondo i principi della Dot¬
trina della scienza di Giovanni Amedeo Fichte (‘) sarebbe stata opera già
esaurientemente giustificata e dalla gran¬ dezza di quel genio
speculativo, e dal vivo crescente inte¬ resse del nostro tempo per il suo
originale sistema ideali- stico-romantico, e dalla capitale importanza
che nella strut¬ tura del sistema stesso ha la Dottrina morale, e
dall’op¬ portunità, quindi, di agevolare la diretta conoscenza di
questa a quanti tra noi non fossero in grado di leggerla e gustarla nè
nella classica (nonostante i suoi difetti) edi¬ zione tedesca dovuta alla
pietà filiale di Emanuele Er¬ manno Fichte ( 2 ) — divenuta oggi assai
rara, ma di recente (* *) lori. Gotto. Fichte, Das System der
Sittenlehre nach <leu Prin- zipletl (lev Wìsseuschaftslehre, Jena und
Leipzig, Gabler, 1798. (*) V. il voi. IV delle Opere complete
(Sitmmtliche 1 Verke) di Giov. Am. Fichte, edite in otto volumi e con
assai utili prefazioni da Eli. Ehm. Fichte (Berlin, Veit e C., 1845-46),
dopo altri tre volumi di Opere postume (Nachgelasseiie Werlce) apparsi
per cura dello stesso editore a Bonn fin dal 1884-35, ma aggiunti come
ultimi agli otto prece¬ denti, i quali diventano perciò undici. I difetti,
che sono stati rim-
V fedelmente riprodotta (con tatti i suoi difetti) da Fritz
Me- proverati all’ edizione del Fichte figlio, consistono, tra gli
altri — a parte le critiche riguardanti 1’ordinamento generale degli
scritti pa¬ terni (sulle quali v. A. Ravà, Le opere di Fichte, in Rivista
di Filo¬ sofia, sett.-die. 1914) — in errori di stampa, lacune casuali o
sop¬ pressioni arbitrarie di una o più parole, aggiunte o trasposizioni
di vocaboli, deposizione dei capoversi e punteggiatura non sempre
quali si avrebbe ragione di aspettarsi, ecc. ; donde non poche nè lievi
diffi¬ colta per intendere bene e rendere esattamente in altra lingua il
pen¬ siero dell’autore. La qual cosa ci preme far rilevare, anche perchè
non sembri esagerazione, se diciamo che fu lavoro di non poca lena,
sostenuta soltanto dall’interesse per l’opera fiehtiana, quello da noi
compiuto attorno a una traduzione che ci proponemmo eseguire con la più
'scrupolosa fedeltà al testo originale, ma, in pari tempo, cu¬ rando il
più possibile la chiarezza del contenuto e l’italianità della forma. Al
quale duplice fine ci parve opportuno di riportare tra pa¬ rentesi curve
( ) le espressioni genuine e più caratteristiche dell’au¬ tore, quando il
nostro idioma non si prestava a riprodurle se non inadeguatamente ovvero
assumendo un certo aspetto di stranezza, e di chiudere tra parentesi
quadre [ J le espressioni aggiunte dal tra¬ duttore con intento
interpretativo o dilucidativo. Il lettore, in tal modo, è sempre messo
sull’avviso circa i punti in cui il linguaggio dell’autore è meno
trasparente e può giudicare se talvolta al tradut¬ tore — secondo il noto
bisticcio - non sia accaduto di essere involon¬ tariamente il traditore
del pensiero tichtiano. TI quale pensiero riesce tanto più difficile a
restituire nella sua forma genuina, in quanto che esso non solo fu iu
continua evoluzione e trasformazione, ma ebbe dal Fichte, più oratore
elio scrittore , le mutevoli formulazioni occa¬ sionali adatte alla predicazione,
all’insegnamento e alla polemica, an¬ ziché la stabile struttura
definitiva di un’opera d’arte destinata a tra¬ mandare ai posteri il
documento autentico di un sistema compiuto; e la Dottrina inorale, di cui
ci occupiamo qui, risente anch’essa, nello stile, del carattere proprio a
quella gran parte delle opere del Fichte, che sono o riproduzioni o
preparazioni, ampiamente elaborate in iscritto, di lezioni e corsi
accademici. Si aggiunga a ciò che la Sit- tenlehre (1798), e nel
contenuto e uella forma, è la continuazione c l’applicazione di quella
Wissetischaflslehre (1794) che il Medicus, in una sua monografia dedicata
al Fichte, uou esita a chiamare “ il libro, torse, più difficile che
esista in tutta la letteratura filosofica (sie ist vielleicht das
schiiieriijste Rudi in der yesmnten philósophischen Luc¬ ratile) „ (cfr.
Grosse Denker, editi nel 1911 a Lipsia, Verlag Quelle
VII dicus ( 1 ) — , uè nella libera e, proprio nei punti
ove H testo è meno chiaro, monca versione inglese fattane dal Kroe-
ger ( 2 ); (in francese o in altra lingua non ci risulta sia stata mai
tradotta, il che non ha certo contribuito ad accrescerle et Meyer,
senza «lata, <la E. vou Aster, voi. 2.” p. 170) — della Dottrina della
Scienza abbiamo iu italiano la traduzione fattane da A. Tilouer (Bari,
Laterza, 1910) — j si noti, inline, che il Fichte figlio sconsi¬ gliava
il Bouillier dal tradurre in altra lingua quelle, tra le opere del padre,
che non avessero un contenuto popolare e fossero scritte in una rigorosa
forma scientifico-filosofica — ecco le sue parole: “ .Te conseille de ne
pas traduire les oeuvres scientifiques proprement dites, «:t d’ uno forme
philosophique rigoureuse. 11 est à peu près impossi- ble de les traduire
«lana votre luugne; il faudrait les transformer et eu changer
l’exposition. Uue traduction littérale mirait le doublé iu- convénient de
taire violence à votre 1 angue, et de ne pas reproduire le veritable
esprit du système. „ (cfr. MéUiode pour arrivar à la tir bica heureuse
par Udite, traditit par M. Bouillier, aver, uno Introdaction par Fichte
le File, Paris, Ladrango, 1846, p. 38) — : e si sarà, spe¬ riamo, meglio
disposti a giudicare con qualche indulgenza le man¬ chevolezze anche da
noi sentite, ma che non riuscimmo ad evitare, so pur erano evitabili, iu
questa nostra traduzione, in cui la lettera do¬ veva più che mai
venir suggerita e giustificata dallo spirito della dot- liiua tradotta,
onde ci s imponeva di continuo la necessità di ripen- norr e, per quanto
ci fu possibile, di rivivere il pensiero del Fichte. '' 11 Jmc
Gotti*. Fichte, IVerke, Auswahl in sechs Btinden (mit nielli ci en
Bildnisxen Fichtes ), edizione e introduzione di FimtzMediCUS, Leipzig,
1908-1912. Non intendiamo detrarre nulla alle lodi giustamente! tributate
d’ ogni parte a questa nuova edizione delle principali opere del Fichte,
condotta di recente a termine e salutata nel mondo fìloso- tico come un
importante e lieto avvenimento, soprattutto per il con¬ tributo che
porterà alla diffusione e alla conoscenza della dottrina lichtiana;
dobbiamo soltanto osservare che, almeno per quanto concerne .1 System der
Sittenlehre, di cui diamo qui la traduzione, la collazione del testo
nelfediz. del Medicus non presenta assolutamenta nulla di diverso e nulla
di migliorato, rispetto a quella del 1845-46 curata da Lm. Era. Fichte ;
se mai, anzi, qualche errore di stampa in più ; onde essa non ci è stata
di nessun aiuto. Tanto per la verità. (■) The Science of Etìlica as
based on thè Science of knowledge by Ioh. Gotti. Fichte, tradnz. di A. E.
Kroeoeh. edita da W. T. Har¬ ris (London, Kegau Paul, Treucli, Trubner et
Co., Ltd., 1907). — vm — il numero dei
lettovi). Dorante, poi, l’attuale immane cata¬ clisma bellico che sì inaspettatamente
ha tutta Europa scon¬ volto e le nostre coscienze profondamente turbato,
in questa tragica ora chè tigne il mondo di sanguigno, perchè
proprio nella terra classica dell’idealismo filosofico, sfrenatasi
l'eb¬ brezza mistica di una supposta superiorità di razza e di col¬
tura, prevalso un malinteso spirito di egemonia mondiale, straripata la
prepotenza del militarismo, scatenatisi gli istinti e le cupidigie più
basse, la civiltà sembra inabis¬ sata nel buio e la scienza si è
trasformata, con scempio di ogni leggo umana e divina, in strumento di
barbarie, rin¬ negando quel carattere umano che della scienza è e
deve essere la vera, sovrana, immortale bellezza, in questa im¬
mensa mina di tutta la scala dei valori, due forti ragioni di più —
contrariamente a quanto potrebbe parere a prima vista — c’inducono
all’opera stessa: da un lato mostrare con quale serenità, imparzialità e
altezza di vedute noi ita¬ liani, che più volte nella storia fummo
maestri di civiltà, sappiamo riconoscere, pur quando gli animi nostri
siano agitati da moti sentimentali avversi, il possente contributo
di pensiero e di moralità che gli spiriti geniali, a qualun¬ que nazione
appartengano, hanno recato alla coltura ; dal- 1’ altro fornire, con la
divulgazione delle dottrine morali di un filosofo tedesco come il Fichte
— da cui più spe¬ cialmente con grave errore si vorrebbe derivare il
panger¬ manismo — una prova di più della radicale deviazione che le
fiualità della Germania odierna, rappresentata dai Nietz¬ sche, dai
Treitschke, dai Bernhardi, dai Chamberlain, dai Woltmaun, segnano
rispetto alle idealità profondamente umane e universali rifulgenti in
tutta la letteratura e in tutta la filosofia della Germania classica, rappresentata
da IX un Leibniz, da un Lessing, da un Herder, da un
Gboethé, da uno Schiller, da un Kant e dallo stesso Fichte (*).
Perchè anche il Fichte, al pari del suo grande predeces- soro
Emanuele Kant — il filosofo della pace a cui Con esat- *
tozza soltanto relativa egli fu contrapposito come il filosofo
della guerra —, aspirava, pur con tutte le esagerazioni es¬ senzialmente
teutoniche del suo pensiero, al regno della ra¬ gione, al Vemunftstaat,
basato sul riconoscimento del va¬ lore dello spirito quale unico, vero e
assoluto valore, e co¬ stituito da personalità autonome e responsabili
che devono svolgersi soltanto entro le linee di un ordinamento
razio¬ nale del tutto. Che se la magnificazione e la glorificazione
della lingua e del popolo tedesco a cui il Fichte assurge, a cominciare
dai Caratteri fondamentali dell’età presente (*) (*) V. in
proposito nella Revue de Métaphysique et de Morale (nov, 1914, pubbl. nel
nov. 1915) l’importante articolo di V. Basch, L’Al- le magne classique et
le pangermanisme. — V. inoltre Sante Ferra ni, Fra la guerra e V
Università (Seatri Ponente, 1915); in questo di¬ scorso inaugurale
dell'anno accademico 1915-16 all’università di Ge¬ nova, l'A., dopo avere
stigmatizzato con indignata parola “ la nuova sofìstica, più audace e più
operativa dell'antica, die in Germania per decenni lavorò a eccitare gli
spiriti e a iriebbriarsi nel sogno del dominio mondiale a qualunque
patto,,, “ le iniquità senza pari, cor¬ ruttrici, vigliacche, brutali, e
le violazioni dei patti più solenni che quel popolo sostituisce .... al
valore degli eroi pagani, alla cavalleria del guerriero medievale „ e u
la volontà sinistra che informò i me¬ todi alla subdola preparazione
dell'immane delitto „ (p. 7), invita a distinguere in'quella nazione lo
opere dei grandi avi e quelle dei ue- poti : “ Quali e quante pagine
troveremmo nei primi, atto a rintuz- i zare, a riprovare, a distruggere
le smodate ambizioni dell’ oggi ! e quanti successori vedremmo
rinnegati!,, (p. 13) e, per antitesi, si ferma a illuminare nella loro
sublime purezza le figure del Kant e a» del Fichte. ( 2 )
Grundziige dea gegenviirtigen Zeilullers (Sanimi!. Werke, VI). Queste
conferenze, tenute nel 1804-05, si direbbero quasi altrettanti aifreschi
di filosofia della storia, di cui lo Herder aveva dato il mo.
X sino ai Discorsi alla, nazione tedesca (*),
attraverso la serie di opuscoli politici intermedi ( 2 ), hanno potuto
giustamente apparire come la radice del pangermanismo, non ne segue
perciò che il Pielite stesso fosse un pangermanista. u Come ! esclama il
Basoh ( 3 ), pangermanista quel Fichte che parla nel 1807-08 a Berlino,
ancora occupata dai francesi, dinanzi a spie francesi, dopo Auerstftdt e
Iena, dopo Eylau e Fried iand, dopo quel trattato di Tilsit di cui
sappiamo le stipu¬ lazioni draconiane ! Chi non vede che appunto perchè
il suo popolo era asservito, umiliato, esposto a essere can¬
cellato dalla carta d Europa con un tratto di penna del- l’onnipossente
imperatore francese, e appunto perchè la Germania era stata spezzettata,
la Prussia smembrata, egli ha, per legittima reazione e con sflflrzo
ammirevole, esaltato, idealizzato, divinizzato quel popolo, opponendo
alla realtà la visione magnifica di un avvenire che a lui stesso
appa¬ riva problematico ? Le Reden sono un’ utopia ; un’ utopia
cento volte quel Germano autoctono, quel Mut ter land , quella lingua
madre ; e il Fichte lo sapeva bene e 1’ ha dello, e in cui il
Ciclite, con una miscela di nazionalismo mistico o di cosmopolitismo
umanitario, tratteggia a grandi periodi l’evoluzione dei genere umano
dalle sue più lontane origini sino ai suoi più remoti destini futuri,
passaudo attraverso le cinque età: ni dell’ innocenze o ragiono
istintiva, b) dell’ autorità o ragione coercitiva, c) del peccato o
ribellione contro la ragione sia istintiva sia coercitiva, d) della giu¬
stizia o arte della ragione, e) della santità o scienza della ragione.
(') Reden an die deutsche Nailon ( Summit. Werke, VII). (-)
Segnaliamo, tra gli altri, i Discorsi ai combattenti tedeschi al- 1
inizio della campagna del 1806 (Reden an die deutschen Kricgev zu All
funge des Feldzuges) (Stillanti. 11 erke t VII) e i dialoghi patriottici
dell’anno 1807, Il patriottismo e il suo contrario (Dei- Patriotismus und
sein Gegentheil), (Sananti. Werke, XI, Nacliyel. Werke, III). ( 3 1
V. art. cit., pp. 783-784. det-.fo egli st.esso. Questa
lingua, questo popolo egli li póneva non come già esistenti, ma come
qualcosa che bisognava creare, se si voleva salvare la nazione tedesca
dalla rovina totale e impedire che fosse radiata dal numero dei
popoli \ilidipendenti. Questa lingua e questo popolo non erano una
Veallà, ma un ideale, o meglio un imperativo „ ('). Del lèsto non abbiamo
avuto anche noi, nella nostra letteratura, un (fenomeno analogo ai
Discorsi alia nazione tedesca, in <\\i<\Primato morale e virile
degli italiani , in cui, inver¬ tendo, il puuto di vista fichtiano, il
Gioberti costruiva una filosofa della storia non meno utopistica, ma che
pur tanti petti sdpsse, taute anime accese negli anni più belli del
nostro riscatto (*) ? Che se poi il libro eloquente ed essen¬ zialmente.
opera di fede del Fichte sia inteso non alla let¬ tera ma nel suo profondo
significalo filosofico, spogliato dei suoi particolari riferimenti
spaziali e temporali e con¬ siderato sub specie aeternitatis , allora non
solo oltrepassa il valore di ubo scritto d’occasione, ma si eleva
all’altezza di un’ opera sublime, perennemente suggestiva di nobili
pensieri e di eroiche azioni. L’ autore, sempre ispirandosi a quel suo
idealismo immanente, che egli contrappone a (') Li il leit-motiv
proprio di tutta la filosofia fichtiana porre il “ dover essere ossia 1'
“ idealo „, come condizione creatrice e ragione sufficiente e spiegazione
finale dell’ u essere ossia del “ reale „. Se il Kant potè dirsi il
Coporuico dolla filosofia, in quanto trasferì il punto di vista del
problema filosofico dall' oggetto al soggetto, dal¬ l'essere al
conoscere, il Fichte può dirsi anch’egli il Copernico della filosofia, in
quanto spostò di nuovo quel punto di vista dal conoscere al fare,
dall’essere al dover-esserc : la vera realtà, il vero assoluto sta per
lui nell’ideale, nel dovere. ( ! ) V., in Rivista di Filosofa
(ott.-dec. 1915 ), A. Faggi, Il “ Pri¬ mato „ del Gioberti e i “ Discorsi
alla nazione tedesca „ del Fichte. qualsivoglia dogmatismo,
specialmente se materialistico, sostiene in sostanza che non c’è
possibilità di filosofia e di poesia, di religione e di educazione, di
libertà e di progresso, se non là dove lo spirito crei o trovi in sè, e
in nessun modo attinga dal di fuori, il principio propulsore e
direttivo di tutta l’esistenza (*). Questo idealismo immanent/ egli chiama
filosofia tedesca, ossia viva, di fronte a qualsiasi filosofia straniera,
ossia morta. E che intende egli , per tedesco ? / (*) Non
occorre ricordare che secondo il Fichte vi sono dué sistemi filosofici
rigorosamente conseguenti, ciascuno dal suo punto/di vista: a) il
dogmatismo, b) l’ idealismo. Ul^cio della filosofia è spiegare l’espe¬
rienza, la quale è costituita dalle rappresentazioni delle Còse. Ora si
può a) o far derivare la rappresentazione dalle cose, come fa il dogma¬
tismo, b) o far derivare la cosa dalla rappresentazione, cóme fa l’idea¬
lismo. Lo scegliere l’una piuttosto che l’altra delle dué vie possibili
dipende dal carattere individuale. Un sistema filosofico — bastereb¬ bero
queste parole a mostrare quanta fede pratica, quanta iniziativa per¬
sonale ed energia spirituale il Fichte mettesse nella sua filosofia e
quanta ne esigesse da chi questa filosofia voglia comprendere — non è uno
strumento inanimato che si possa a piacimento possedere o alie¬ nare :
esso scaturisce dal più profondo dell’anima umana: “ Iras far eine
Philosophie man wàihle, hangt... davon ab, was man far ein Mensch ist:
demi ein philosophisclies System ist nicht ein todter Hausrath , dea man
ablegen oder abnehmen honnte, irte es mis beliebte, sonderà es ist
beseelt durch die Seele des Menschen, der es ìiat. „ (Erste Ein lei- tung
in die Wissensehaftsle'ire , Scimmtl. IVerke, I, p. 434). La scelta sarà
diversa secondo che prevarrà in noi il sentimento dell’indipen¬ denza e
dell’attività o il sentimento della dipendenza e della passi¬ vità; un
carattere flaccido per natura, ovvero rilassato e incurvato dalla
schiavitù dello spirito, dal lusso raffinato o dalla vanità, non
s’innalzerà mai all’idealismo: 11 ein von Notar schiaffar oder durch Geistesknechtschaft
gelehrten Luxus and Eitelkeit erschla/fler und gekrùmmler Chardhter toird
sich nie zum Idealismus erheben. „ (ibid.). E ciò, indipendentemente
dalle ragioni teoretiche che anch’esse dànno un’incontestabile
superiorità di filosofia esaurientemente persuasiva all’idealismo di
fronte all’in9ufficiente e assurdo dogmatismo. XIII
Nel settimo discorso, in cui si approfondisce il .con- ' cotto
àe]Y originarie là, e germanicità di un popolo (‘) l’au¬ tore stesso ha
cura di far rilevar^ u con chiarezza per¬ fetta „ ciò che in tutto il suo
libro ha intesò per tedesco (was uoir in unsrer bishcrigen Schilderung
unter Deut- schen verstanden haben). “ Il vero e proprio punto di
di¬ visione — egli scrive — sta in questo: o si crede che nel¬
l’uomo ci sia qualcosa di assolutamente primo e originario, si crede
nella libertà, nell’infinito miglioramento e nell’e¬ terno progresso
della nostra specie, oppure si nega tutto ciò e si crede di vedere e
comprendere chiaramente che è vero tutto il contrario. Coloro che vivono
creando e pro¬ ducendo il nuovo, coloro che, se non hanno questa
sorte, almeno abbandonano decisamente quel che non ha valore (,das
Nichtige) e vivono aspettando che da qualche parte la corrente della vita
originaria venga a rapirli con sè, coloro che, non essendo neppure tanto
avanti, almeno pre¬ sentono la verità, e non l’odiano o non la paventano,
ma l’amano: tutti costoro sono uomini originari e, considerati come
popolo, sono un popolo vergine ( Urvolk), sono il popolo per eccellenza,
sono tedeschi. Coloro, invece, che si rassegnano a essere un che di
secondo e derivato e chia¬ ramente concepiscono e riconoscono sè stessi
come tali, tali sono in realtà, e sempre più tali divengono in
forza di questa loro credenza; essi sono un’appendice della vita
che una volta prima di loro o accanto a loro viveva per impulso proprio,
essi sono l’eco che la roccia rimanda di (■) S’intitola: Noch
tiefere Erfassung der Ursprunglichkeit utid Deutscheit eines Volkes (Sammtl.
Werke, VII, pp. 359-377), (nella trad. ita!. Burich, Palermo, Sandron,
1915, pp. 125-147). — XIV una
voce già spenta, e, considerati come popolo, non sono un popolo vergine,
anzi di fronte a questo sono stranieri ed estranei (Fremete und Andando-)
„ (»). Ecco, dunque, che cosa significa: tedesco! non già il tedesco
considerato Ine et nune, ma il simbolo di un tipo ideale, onde il
Fichte, continuando, aggiunge: u Chiunque crede nella spiritualità,
nella libertà e nel progresso di questa spiritualità mediante la libertà,
egli, dovunque sia nalo, qualunque lingua parli (wo es auch geboren seg
und in welcher Sprache cs reile) e dei nostri, appartiene a noi, ci
seguirà; chiunque, invece, crede nella stasi generale, nella decadenza,
nel ricorso circo¬ lare e pone a governo del mondo una natura morta,
egli, dovunque sia nato, qualunque^lingua parli, è non-tedesco
(undeutscll), è per noi uno straniero, ed è desiderabile che quanto prima
si stacchi completamente da noi „ ( 2 ). I Di¬ scorsi alla nazione
tedesca, dunque, soltanto occasional¬ mente si rivolgono al popolo
germanico, mentre nella loro profonda verità si rivolgono a tutti i
popoli moderni, a tutti gli uomini che hanno fede nella libera
spiritualità, di qualunque paese essi siano, additando a ciascuno la
via sulla quale si può servire alla propria patria particolare e
insieme alla gran patria comune, si può essere a un tempo nazionalista e
cosmopolita, perchè gl’ interessi su¬ premi ed essenziali dell’umanità
sono sempre e dovunque gli stessi. Ma a dimostrare in modo* 1
definitivo quanto l’autore dei Discorsi sia alieno dal cosidetto
pangermanismo sta il (■) Reden an die deutsche Nalioti (Stimmll.
Werke, VII, p, 874), (nella trad. ital., pp. 143-144). (’)
Ibid. p. 375, (nella trad. ital., pp. 144-145); il nerette delle parole
" dovunque sia nato ecc. „ è nostro. . XV
discorso decimoterzo, donde trae maggior luce il significato di tutti gli
altri. Si direbbe che i pangermanisti, ai quali piace farsi forti
dell’auLorità del uostro filosofo, si siano di proposito arrestati
dinanzi a questa sua arringa, che pure è il punto culminante verso cui
tendono le rimanenti e che può dirsi un vero catechismo
antimperialistico. Tutto ciò che all’imperialismo della Germania odierna
sembra l’ideale che essa sarebbe chiamata ad attuare: il possesso di
colonie, l’esclusiva libertà dei mari, il commercio e l’industria
mon¬ diali, le guerre di aggressione e ili conquista, la barbarie
scientificamente organizzata, le vessazioni sui paesi invasi, la visione
di una monarchia universale, l’egemonia assoluta, vi ò rappresentato come
odioso e insensato (‘). Ammettiamo pure che il Fichte abbia
combattuto questa criminosa megalomania perchè essa nel 180G s’incarnava
sotto i suoi occhi nella Francia napoleonica; non è men vero, però, che
l’ideale opposto, a lui caro, rispondeva in modo re¬ ciso a tutta una
concezione politica che fa di lui il figlio e il rappresentante più
genuino della rivoluzione francese. La sua vita, i suoi scritti di filosofia
pratica e di filosofia della storia nte sono prova ampia, piena, sicura,
e se anche su¬ birono modificazioni, queste riguardano non il suo
pen¬ siero e i suoi sentimenti, i quali in fondo rimasero sempre
gli stessi, ma le mutate circostanze esteriori, il mutato aspetto della
Francia, divenuta, da repubblicana e libera¬ trice, imperialistica e
liberticida. Nato popolo — figlio di un povero tessitore, infatti,
comincia la vita avviandosi al mestiere paterno e guardando le oche — ,
egli sempre po- (*) Kedeii ecc. (Sàmmll. I Verke, VII, pp.
459-480), nella irad. ital., pp. 256-280). XVI
polo è rimasto nel più profondo dell’anima, per quanto ricca e
forte sia divenuta poi la sua coltura, a qualunque sommità della scienza,
dell’eloquenza e della gloria siasi inalzato il sùo genio. Già sin dagl’
inizi della sua fama si rivela un democratico ardente, giacobino quasi,
irrecouci- 1 iabile avversario di ogni pregiudizio religioso, politico
e nazionalistico. Subito dopo la sua Rivendicazione delia li- berlà
di pensiero dai principi d'Europa die /ino allora l'acecano oppressa
(1793) (‘), egli, nei suoi Contributi alla rettifica dei giudizi del
pubblico sulla rivoluzione fran¬ cese (1793) (*), plaude ai principi
dell’89 col fervido entu¬ siasmo d’un uomo la cui classe usciva redenta
da quel grande atto di liberazione sociale, e aterina la sua fede nella
rivo¬ luzione stessa, proclama i diritti del popolo, frusta a
sangue il militarismo, maledice alle guerre mosse da interessi o da
capricci dinastici, e lancia contro principi e monarchie as¬ solute i
primi strali di quell’eloquenza appassionata che fa di lui forse il più
grande oratore della Germania ( 8 ). (') Zuruckfarderung der
Denkfreihe.it von den Filrsten Europas, die eie bisher unterdriikten
(Sdmmtl. If erke, VI). (*) Beitriige zar Berichtigung der Urtheile
des PubVcuins iiber die franzòsische Revolution (Sananti. Werke,
VI). C) In queste sue prime opere politiche, elio per lungo tempo
furono messe all’indice in tutta la Germania, il Fichte mostra che la
ri¬ voluzione francese fu il prodotto necessario della libertà del
pensiero, che la persona morale ha il diritto di elevarsi contro lo
Stato, e che l’uomo uscito dalle mani della natura è autonomo, e che è
inaliena¬ bile il diritto dei cittadini di moditicare la costituzione, di
uscire da un’associazione politica per crearne una nuova, di fare ciò che
ap¬ punto si chiama una rivoluzione. Fine ultimo degli uomini ò
la coltura di tutti per la libertà, ma le monarchie, egli afferma,
invece di lavorare al perfezionamento dei sudditi, sono state centro di
de¬ pravazione morale. Come hanno inteso, infatti, i sovrani la
coltura dei sudditi a loro affidati? Sotto forma di educazione alla
guerra; perchè, dicono essi, la guerra coltiva. « Qra, è vero che la
guerra — XVl( — Il Fondamento del Diritto
naturale secondo i principi inalza le nostre anime a sentimenti e
azioni eroiche, al disprezzo del pericolo e della morte, alla noncuranza
dei beni continuamente esposti ni saccheggio, a una simpatia per tutto
ciò che ha aspetto umano, perchè i pericoli e i dolori sopportati in
comune stringono di più gli altri a noi. Ma non crediate di vedere in
queste mie parole un pa¬ negirico della vostra follia bellicosa, o fors’anco
l’umile preghiera che l’umanità dolente v’indirizzerebbe perchè non
cessiate dal decimarla con guerre sanguinose. La guerra non inalza
all’eroismo se non le anime già per natura eroiche; incita, invece, le
anime poco nobili alla ruberia e all'oppressione della debolezza priva di
difesa. La guerra crea a un tempo eroi e vili rapinatori, ma aitimi ’
delle due specie quale in numero maggiore ? „ (cfr. Sàmmtl. Werke, VII,
pp. 90-91). Nel fondare e governare i loro Stati i monarchi mirano a rafforzare
la loro onnipotenza all’interno, ad allargare le loro frontiere
all’esterno: due fini, questi, tutt’altro che favorevoli alla coltura dei
loro sudditi. 1 monarchi pretendono di essere i custodi del necessario
equilibrio delle forze europee; ma questo fine, se è il loro, è perciò
anche quello dei loro popoli? “ Credete proprio — egli domanda ai
principi tede¬ schi — che l'artista o il contadino lorenese o alsaziano
abbia molto a cuore di veder menzionata la propria città o il proprio
villaggio, nei manuali di geografia, sotto la rubrica dell’impero
germanico, e che por ottenere ciò butti via lo scalpello o l’aratro ? Il
pericolo della guerra, ossia di ciò che lede e ferisce a morte la
coltura, ultimo fine dell’evoluzione umana, deriva unicamente dalla
monarchia assoluta, la (piale tende per necessità alla monarchia
universale. Sopprimete questa causa, e tutti i mali che ne derivano
scompariranno anch’essi, e le guerre terribili e i preparativi della
guerra, ancor più terribili, non saranno più necessari (ibid. p. 95). —
Più oltre, poi, troviamo il Fichte antisemita e antimilitarista:
antisemita contro quegli ebrei “ che sono refrattari ad assimilarsi alle
nazioni in mezzo a cui plu¬ vi vono „; antimilitarista contro l’esercito
del suo tempo “ che met¬ teva il proprio onore nella propria umiliazione
e trovava nell’impu¬ nità per le sue angherie contro i borghesi e i
contadini un compenso ai pesi del proprio stato „. E continua: “ Il più
brutale semibarbaro crede acquistare con la divisa militare una
superiorità sul contadino timido e spaventato, che sopporta le sue
prepotenze e i suoi insulti per non essere, per soprammercato, anche
bastonato. Il giovincello che può vantare più antenati, ma non certo più
coltura, considera la propria spada come un titolo sufficiente per
guardare dall’alto e con disprezzo il commerciante, l’uomo di scienza e
l’uomo di Stato.... n (ibid. p. 151). — \Vilt —
della Dottrina della scienza (1796) (') e Lo Stato commer¬ ciale
chiuso (1800) (*) contengono auch’essi una filosofia poli¬ tica che,
scaturita interamente, oltreché dal pensiero kan¬ tiano, dai principi
della rivoluzione francese, supera quel pensiero e questi principi per le
conseguenze economiche che egli fu il primo a trarne, e approda
aH’atfermazione di un diritto dei popoli e di un diritto dei cittadini
del mondo (Volker- und Weltbnrgerrechl) e alla necessità di un’a¬
nione di popoli ( Vdlkerbund) — ben diversa da uno Stato di popoli
(Volkerstaat) — che garantisca la giustizia e porti gradatamele alla Pace
perpetua (zUm ewigen Friede) ( 3 ). E - \ (’) Grundlage
des Natnrrechte nach Prinzipien dee ìVissenscliafls Pin e (Siimmil.
Werhe, IH). (*) Ber geschlossene Handelsstaat (StillimiI. Werhe,
III). Vediue- auclie la traduz. ita!, di tì. B. P., Dell'intimo
ordinamento di uno Stato ec<\, Lugano, 1851, e l’altra (anonima) Lo
Stato secondo ragione e lo Stato commerciale chiuso, Torino, Bocca,
190». ( 3 ) Ecco, sommariamente, la dottrina politico-economica del
Fichte: La radice più profonda dell’Io è l’Io pratico o la libera
volontà; e poiché alla libera volontà di eiasenu individuo si contrappone
quella degli altri, nasce una libera azione reciproca tra lo diverse
volontà individuali, per regolare la quale gli uomini'hanno concluso il
con¬ tratto sociale da cui è uscito lo Stato. Nello Stato il potere
legisla¬ tivo appartiene alla comunità dei cittadini; l’esecutivo può
essere af¬ fidato sia all’elezione (democrazia), sia alla cooptazione
(aristocrazia), sia all’elezioue e alla cooptazione insieme
(aristodemocrazia). Tutte queste forme di governo sono egualmente
legittime, purché vi sia accanto a esse uu altro potere ìndipendente,
VSforato, il quale decida dei casi in cui il potere esecutivo, essendo
caduto in errori o colpe, deve risponderne dinanzi alla comunità. Oltre a
questo contratto sociale- politico, il Fichte, oltrepassando la prudenza
borghese del Kant, il quale ammetteva come legittima l’ineguaglianza
economica accanto all’eguaglianza politica, istituisce uu contratto
sociale-ecouomico (Eitjenthumverlrag) / egli proclama originari in
ciascun uomo il diritto alla vita e il diritto al lavoro, e di fronte
alla proprietà privata (pro¬ dotti del suolo coltivato, bestiame, case,
mobili, ecc.) dichiara pro¬ prietà dello Stato ciò che la natura produce
da sola e ciòcia' la col- sino all’alt,imo anno della sua
vita, nelle lezioni sulla Z>n/- ' letti vitti produce meglio
del singolo individuo (miniere, foreste, grandi industrie, seryizì
pubblici, ecc.). Per l’elaborazione dei prodotti na¬ turali richiede
corporazioni di competenza tecnica, e sulla qualità o quantità dei
prodotti industriali il diritto di sorveglianza Ha parte dello Stato.
Donde segue la necessità che da uu lato i cittadini ri- uuuzino alla
libertà industriale, e dall’altro si stabilisca uno scambio armonico tra
i prodotti naturali e i prodotti industriali, essendo reci¬ procamente
gli uni indispensabili alla produzione degli altri. Per questo scambio si
è formata la classe speciale dei commercianti. Per impe¬ dire ai
produttori di elevare ad arbitrio i prezzi dei prodotti, lo Stato
accumula iu magazzini generali, mediaute prestazioni in natura degli
agricoltori e prestazioni d’opera degli artigiani, i frutti della terra e
gli strumenti del lavoro, si che i prezzi veugouo livellati. Per obbli¬
gare i produttori a vendere, lo Stato mette iu circolazione la moneta, la
quale rappresenta la somma di ricchezza che può essere venduta, e rende
possibile a uu produttore di cedere i suoi prodotti anche in un momento
iu cui non gli occorra ancora di prendere in cambio altri prodotti. E
atiinehè sia garantita la proprietà e regolata la circola¬ zione dei
prodotti e mantenuto l’equilibrio tra agricoltori, industriali e
commercianti — equilibrio che sarebbe turbato dall’importazione di
prodotti stranieri, dei quali i cittadini debbono assolutamente poter
fare a meno - è necessario che lo Stato vieti tutti gli accessi ai
commercianti di fuori e ai contrabbandieri di dentro, che sia cioè uno
Stato commerciale rigorosamente chiuso. Il Fichte si ripromette le
conseguenze più vantaggiose per la moralità del “ popolo fortu¬ nato „
elio adotti la perfetta chiusura commerciale e viva soltanto di ciò che ò
prodotto e fabbricato dal paese, venduto e consumato nel paese (cfr. Der
geschlossene llandelsstaat, Sàmmll. ÌVerke, III, pp. 501-509), e conclude
che di li innanzi sarà la scienza il miglior le¬ game intemazionale tra
tutte le nazioni divenute Stati chiusi : perché “ nessuno Stato della
terra, dopoché il sistema politico-economico dianzi descritto sia
diventato universale, e siasi fonduta pace perpe¬ tua tra i popoli, avrà
il menomo interesse a celare ad altri le proprie scoperte, giacché ogni
Stato potrà servirsene soltanto all’interno per il proprio sviluppo e non
già per opprimere gli altri Stati o acqui¬ stare una qualsivoglia
preponderauza su di essi. Nulla, quindi, impedirà la libera comunicazione
tra i dotti e gli artisti di tutte le nazioni: di 11 innanzi i giornali, invece
di guerre e battaglie, trattati di pace e di alleanza, conterranno
soltanto notizie dei progressi della scienza, delle nuove invenzioni, del
perfezionamento della legislazione e degli trina dello Sialo
('), tenute a Berlino nel 1813, proprio quando la Prussia si preparava a
quella guerra d’indi¬ pendenza che egli tanto si era adoperato a
suscitare, si domanda ancora una volta quale sia la guerra
legittima (der Wahrhafte Krieg) e risponde: Una guerra è giusta
soltanto qualora la libertà e l’indipendenza nazionale di un popolo siano
attaccati; gli uomini, per compiere il loro destino, devono formare
società libere, e uno Stato non ha valore se non in quanto può
contribuire all’avvento del regno universale della libertà e della
ragione. A questa guerra veramente popolare vuole il Fichte nelle sue
le- ordinamenti di governo; e. ogni Stato si affretterà ad
arricchirsi delle scoperte degli altri popoli. „ (ibid. pp. 612-513). Nè
si ha a temere, del resto, dalla chiusura commerciate dei singoli Stati
il loro isolamento, perchè i rispettivi sudditi, iu quanto cittadini del
mondo (Weltbiirger), circolano liberamente da uno Stato all’altro,
portando seco i diritti inerenti alla persona e alla proprietà; occorre
anzi, per questo, una legislazione comune che garantisca tali diritti e
punisca l’ingiu¬ stizia commessa dal cittadino di uno Stato a danno del
cittadino di un altro Stato. I diversi Stati, inoltre, fanno contratti,
concludono trattati e sono rappresentati gli uni presso gli altri da
ambasciatori. Nel caso che uno degli Stati contraenti violi il contratto,
la guerra è 1’ unico mezzo per punirlo di questa violazione. Ma ogni
guerra è aleatoria, e se proprio lo Stato che violò il contratto
rimanesse vit¬ torioso, in quanto più forte?! A evitare tale ingiustizia
bisogna che un’Unione distati, meglio ancora, un’Unione di popoli
(VSlkerbund) s'impegni a punire, viribus uniti», lo Stato che,
appartenente o no all’Unione, si rifiuti di riconoscere l’indipendenza degli
Stati uniti o violi un contratto concluso con uno di essi (Orundlage des
Na¬ ta rrechts nach Prinsipien der Wissenscliaftslelire, Sa minti- Werke
, III, p. 379). Quanto più questa Unione si allargherà, estendendosi
a poco a poco su tutta la terra, tanto meglio sarà assicurata la
Pace perpetua (der ewige Friede), che è il solo rapporto legale tra gli
Stati: la guerra dev’essere soltanto mezzo al fine supremo, che è la
conser¬ vazione della pace; mai fine a sé stessa (ibid. p. 382).
(*) Die Slaalslehre oder uber das Verhaltniss des Urstaates zum
Vernunftreiche (Siimintl. Werke, IV). XXI
zioni preparare gli uditori, perchè è questa “ la guerra
legittima, la guerra cioè in cui non si tratta di famiglie regnanti, ma
in cui il popolo si leva a difendere la pro¬ pria vita, la propria
individualità, le proprie prerogative, la guerra a eui soltanto i vili
vorrebbero sottrarsi, e per cui invece i cittadini con esultanza daranno
i loro beni, il loro sangue, rifiutando ogni proposta di pace sino
a che non siano garantiti contro ogni minaccia ulterio- re „ (').
L’oratore, è vero, contrappone ancora una volta qui il carattere
germanico al carattere neolatino e spe¬ cialmente al francese, per
concluderne che non bisognava aspettarsi certo da un Napoleone, strangolatore
della na¬ scente libertà della Francia rivoluzionaria, l’attuazione
del regno di giustizia che l’architetto del mondo affidava invece
al popolo tedesco; ma ciò attesta anche come il filosofo pa¬ triota del
1813 fosse sempre sotto la medesima ispirazione che lo animava veut’anni
prima nel suo entusiasmo per la rivoluzione francese; e, malgrado tutte
le apparenze in con¬ trario, è sempre la medesima ispirazione quella che
tra¬ spare nel Disegno ili uno scritto politico della prima cera Ì813
( 2 ), destinato a illustrare il proclama del re di Prussia “ Al mio
popolo „ : quivi il Fichte, se, dinanzi al pericolo mortale che
minacciava la nazione tedesca, riconosce la necessità di porle a capo
come despota sovrano (, Zwingherr) il re di Prussia, uou perciò rimane
meno fedele al suo ideale democratico; per lui — ha dovuto riconoscerlo
lo stesso (*) Veber den Begriff des wahrhaften Krieges (Summit.
IVerke, IV, pp. 409-414). (*) 4 «a dem Entwurfe zu etnei-
politischen Schrift ini FruhUnge 1813 (Stimma. Werke, VII).
— xxrt — Treifcscbke (') — la "Repubblica,
senza re, senza principe, senza signori, è sempre il vero Stato di
ragione. Passato il pericolo, il sovrano stesso dovrà adoperarsi con
tutte le sue forze a disabituare i suoi sudditi dalla soggezione, a
(>) Fichte nini die nationale Idee, in Historische und
politiseli* Aufsalse, 4. ediz. Leipzig, Hirzel, 1*71, voi. I, p. ISo. «
Nodi inumo- sehwebt ihm als hòchtes Zini vor Augeu eine “ Republik dei-
Deutschen oline FUrsten und Erbadel „, dodi er begreift, dosa diesea Zini
in weiter Ferne liege. Fui- jetzt gilt ee da* “ die Deutscbeu sioh
selbst mit Bewus 9 tsein maoheu „ ». Si, è vero, il Fichte colloca in
un tempo ancora assai lontano la vagheggiala attuazione del suo
ideale repubblicano, al punto che uno ilei frammenti di una sua opera
po¬ litica, scritta a Kònigsberg nell’inverno 18011-07 e rimasta
incom¬ piuta s’intitola: La repubblica tedesca al principio del sec.
XXII, sotto il suo V." protettore (Die Republik der Deutschen su
Anfani / des sirei- und zwanzigsten Jahrhunderls, un ter ihrem fiinften
Reichsvogtei, ina intanto quale coraggioso e severo linguaggio
rivoluzionario egli tiene contro i principi alemanni, cosi in questo
frammento come al¬ trove! Cou la spietata crudeltà del chirurgo che, per
guarire radical¬ mente una piaga purulenta, affonda il bisturi nel pili
vivo delle carni, egli mette a nudo tutti i difetti e le turpitudini del
suo tempo e del suo paese e propone come rimedio una nuova costituzione,
la quale dovrebbe stabilire l’eguaglianza di tutti' i popoli teutonici e
non am¬ mettere altra disuguaglianza tra gl’individui elio non sia quella
del- p ingegno; una costituzione adatta a una nazione come la germanica,
la quale, die’egli, pressoché incurante del giudizio dello altre na¬
zioni, ha la caratteristica di raccogliersi in se stessa e di min chie¬
dere nulla più che di vivere pacificamente secondo il proprio genio. “
Una nazione, la quale, còme la tedesca, non mira che ad affermare e
conservare per sé la propria torma disesistenza (ibr eigentìiiimliches
St'jti) e in nessun modo a imporla ad altri (keinesweges anderen es
aufzudringen), non senza intenzione é stata collocata in mezzo a po¬ poli
, i quali, tosto che abbiano acquistato una mediocre quantità di coltura,
sentono il bisogno di diffonderla al di fuori; nell’eterno di¬ segno
della storia umana essa è destinata a servire di diga a questa
intempestiva invadenza e a fornire non solo a sé stessa , ma a tutti gli
altri popoli d’Europa la garanzia di poter progredire, ciascuno a suo
modo, verso il fine comune (.... sie seg [die deutsche Natimi ], im
eteigen Entwurfe eines Menschengeschlechles jm Qanzen, bestimint, als ein
Damm dazustehen gegen jene unzeitige Zudringlichheit, und uni
— xxnt — renderli, in altri termini, capaci
di fare a meno di lui.. u Se cosi non dovesse avvenire nel futuro della
Germania — esclama egli con forza — importerebbe poco che una parte
di essa fosse governata da un maresciallo francese come Bernadotte, nel
cui spirito almeno sono passate le visioni entusiasmanti della libeità,
piuttosto che da un signorotto tedesco, tronfio d’orgoglio, immorale e di
una brutalità e di un’arroganza sfrontate „ ('). Quando si leggano
queste parole contenute in quel medesimo Scritto politico della
pri¬ mavera. ISIS, che non interamente a torto si è potuto con¬
siderare come il luogo letterario in cui l’autore si è più inoltrato
sulla via del nazionalismo, e quando si ricordi il noto particolare della
vita del Fichte, ili avere cioè, nel febbraio 1813, dopo la disastrosa
campagna di Russia, impe¬ dito come un orrendo delitto il macello a
tradimento della guarnigione lfaucese rimasta a Berlino, chi vorrà
ancora vedere nel nostro filosofo un pangermanista a cui si possa
far risalire la responsabilità non solo delle teorie insensate degli
odierni teutomani, ma persino del cinismo satanico con cui e per terra e
per aria e per mare pretendono ap- nichf tuie sich, sonderà nudi
alien anderen europaischen Vblkern die Garantie zu leisten, ilass sie auf
dire eigene Weise laufen konnten zìi detti gemeinsamen Siete) „ (Sdmmtl.
Werke, VII, p. 633). Quale stridente contrasto tra l'ufficio
storico-politico che il Pielite asse¬ gnava alla nazione tedesca o quello
che la Germania odierna pre¬ tende arrogarsi ! (*) Aus dem
Enluourfe eie. {Siimitili. ÌVerke, VII, p. 669). « Weun wir dahor nieht
im Auge behielten, vvas Deutschland zu werden hat, so 18ge an sich nicht so
viel durun, ob ein franzusischer Marscliall, wie Bernadotte, an dem
weuigstens friiher begeisternde Bilder der Freiheit voriibergegangen
sind, oder ein deutscher aufgehaseuer Edel- maun, ohne Sitten uud mit
Rohlieit und frechem Ueberrauthe, iiber eineu Theil von Deutschland gebiete.
» XXIV plicarle i novelli barbari
odierni, i rossi devastatori joiù veri e maggiori dello stesso Attila
flagellum Dei? Tanto più tempestivo, e tanto più salutare e
conforte¬ vole ci sembra, dunque, dinanzi alla mostruosa degenera-
zioue del senso morale di cui dà spettacolo l’odierna nazione tedesca,
ostentando di non riconoscere altro diritto all’in¬ fuori del despotismo
e della forza bruta, rievocare dalla letteratura classica di questa
stessa nazione la dottrina mo¬ rale di uno dei più grandi assertori e
della forza del diritto e del diritto che individui e pispoli hanno alla
giustizia, all’indipendenza, alla libertà. * »
* Chi abbia seguito nella storia della filosofia le vicende
toccate alla dottrina di G. A. Fichte ('), avrà notato come al grande
entusiasmo e ai vivaci dibattiti suscitati dal suo primo apparire
succedesse per vari decenni un immeritato oblio, dovuto al predominio
delle 1 dottrine uscite dal suo seno e specialmente dello hegelismo, i
cui rappresentanti, imponendo alla storia della filosofia un loro
preconcetto di scuola, quello cioè di non tener conto nella
speculazione prehegeliana se non di quanto avesse contribuito a
prepa¬ rare il sistema del loro maestro, avevano abituato a vedere
nel Fichte nulla più che il pensatore da cui era derivato un deciso
indirizzo idealist ico alla speculazione post kan¬ tiana (’). Vani furono
gli sforzi del figlio ilei Ficht.e, Ema- (') Ofr. in proposito A.
Ravà, Introduzione allo studi» tirila filo- sofia (li Fichte, Modena,
Formiggiui, 1909, pp. 13-22. ( s ) V., per es., Karl Ludw.
Michelet, Geschichte der lefzten Sy- steme der Philosophie in Deutschland
voli Kant bis Hegel (Berlin, 1837-38), in cui alla prima filosofia del
Fichte seno dedicate le XXV miele
Ermanno, per mostrare il valore che la filosofia, pa¬ terna aveva per sè
stessa ('). Soltanto verso la metà del sec. XIX, col risvegliarsi dello
spirito nazionale germanico, risorse la fortuna del grande rigeneratore
della coscienza tedesca, del filosofo popolare, dell’oratore
eloquente, del fer- * vido nazionalista, ilei supposto
pangermanista; ma, appunto per questa circostanza, l’attenzione fu
rivolta di preferenza alla sua filosofia politica, arbitrariamente o
artificiosamente interpretata (*), e il centenario della nascita del
Fichte, nel 1862, fu solennemente celebrato da tutta la Germania
pp. 481-587 ilei voi. I, e alla seconda filosofia le pp, 129-204 del
voi. II; A. Oli', avendo avuto il torto di prendere quest’opera come
guida principale per una conoscenza della filosofia tedesca postkantiana,
fu trattò a un’eccessiva reazione contro il Kant e contro lo
hegelismo nel suo libro: Hegel ri la philosophie allemande (Paris,
1844). (') Di Em. Ehm. Fichte, oltre le Prefazioni (dianzi
ricordate) a vari degli undici voli, delle Opere complete di G. A.
Pielite, vedi ancora: i Beitràge sur Charuk'teristik dar ncueren
Philosophie (Sulzbach, 1829) di cui la 2.“ ediz. (18-11) può considerarsi
come un’opera nuova; il voi. .7. G. Fichte ' s Lehen and litterarlscher
Briefwechsel (Sulzbach, ISSO), con cui, prima ancora che con la
pubblicazione delle opere, cercò richiamare l’attenzione sulla
personalità e sull’attività pratica del padre, affinchè nascesse cosi
gradatamente anche l’interesse per il suo pensiero; e infine V Introduci
ion (in frane.) alla Méthodc pour arriver à la vie blenheureuse par
Fichte (traduz. Bouillier) (Paris, 1845). ( s ) V., per es.: t due
voli, del Busse, Fidile und sei ne Bezìehung zar Gegenwart des deutsehen
Volkes (Halle, 1848-49), la conferenza dello Zeli.eh, l'idi lo aìs
Politiker (1859, ristampata in Zelleh, Vor- Irdgr und Abliandlinigen,
voi. 1, Leipzig, 1865) e l’opuscolo del Las¬ sa lle, Melile's poìilisches
Vermdchtnis and die neuesle Gegenwart (Hamburg, 1860, ristampato in
Lassallk, Reden und Schriflen, Berlin, 1891-93, voi. I). Bisogna, invece,
uscire dalla Germania per trovare, negli anni immediatamente anteriori
alla metà del sec. XIX, un’espo¬ sizione prettamente storica e serenamente
obiettiva di tutta la filo¬ sofia del Fichte quale si ha nella solida
opera del Willm, Histoire de la Philosophie allemande drpttis Kant
jusqu’k Hegel (voi. 11, Paris 1847), opera premiata, su relazione del de
iléinusat, dall'istituto di ►
XXVI con significato più politico che filosofico; — mia
singolare fatalità, poi, (che sembra un’ironia della storia a chi
in¬ tenda il vero senso delle teorie politiche del Fichte) ha vo¬
luto che il cèntenario della sua morte, nel 1914, coincidesse con
l’irrompere improvviso della premeditata aggressione pangermanistica! —
('). Francia e ancora utile e pregevole, nonostante la sua
vetustà; la si può leggere con profitto anche dopo le ampie ed eccellenti
monografie posteriori del Fischer (Fichles Leben,\Verke und Lehre,
Heidelberg, 18691900 3 ") e del Leon (La philosophie de Fichte et
ses rapportò uvee la conscience coti tempo faine, Paris, 1902), il quale
ultimo ha de¬ dicato al suo soggetto per molti anni un lungo studio e un
grande amore. ( l ) Questo carattere politico-nazionalistico
degli scritti usciti in occasione del centenario del Fichte fu ben
rilevato da von Rkichi.IN- Memusco nel suo articolo l)er hundertòte
Geburistng ./. O. Fichtes (in Zeitschrift fiir Philosophie uud philos.
Kritih, Nuova serie, voi. 42, Halle, 1863). Vedine la lunga lista
nell’UKBERWKO-HEiNZE. Grundriss der Geschiclite dcr Philosophie, IV,
Berlin, 1906, p. 8; qui basti ricor¬ dare per tutti il discorso già
citato del Treitbchke, Fichte i ind die nutionale Idee. L’uso e l’abuso
del Fichte a scopi patriottici e impe¬ rialistici non cessò io Germania
col conseguimento dell'unità tedesca ; più di una volta le conferenze
tenute nelle università tedesche in occa¬ sione del natalizio dell’Imperatore
hanno avuto per argomento pre ferito la personalità o qualche dottrina
particolare del Fichte: per es., nel 1890 all’università di Strasburgo,
terra di conquista, il Windel- band faceva un’alta affermazione di
germaniSmo parlando del Videa dello Stato tedesco secondo il Fichte
(Windelband, Fiehte's Idee des dent- schen Stante, Freiburg i. Breisgau,
189oT; nel 1909, all’università di Kiel, Golz Martius inneggiava al
cinquantesimo anno di Guglielmo II, ricordando la vita e l’opera “ di un
uomo, il quale ha grandemente cooperato all’elevazione e
all’emancipazione delle forze morali della Germania, e della cui azione
efficacissima, insieme e accanto alla con¬ cezione politica dello Stein,
ricorre oggi il centenario; di un uomo, a cui appunto ora la nazione
tedosca si appresta a dimostrare la pro¬ pria gratitudine inalzandogli un
monumento nella capitale [e il mo¬ numento è poi sorto a Berlino],
insomma, di Giovanni Amedeo Fichte „. (Redc zur Feier des Geburtstages
seiner Majeshit des Deutschen Kai- sers Kdttigs von Preiissen Wilhelm 11
von Golz Martius, Kiel, 1909). XXVII
Se nella seconda metà del sec. XIX tra molti scritta' rolli di
occasione cominciò ad apparire qualche studio serio di tutta l’opera
fichtiaua ('), il suo aspetto, per lo sposta¬ mento dell’attenzione dal
lato politico ai fondamenti teo¬ retici del sistema, fu non meno
unilaterale di quello che continuarono a presentare, in tempi più
recenti, le disser¬ tazioni te le monografie sulla dottrina giuridioo-sociale
del (•) Ricordiamo, per es. : il Lòwio, Die Philosophie Fichte’s
iiach (lini Gesaimntergehnisse ihrer EntuHchelung und in ihrem
Verhiilt- nitise zìi Kant unii Spinosa (Stuttgart, 1862) [l’Autore,
seguace del dualismo de[ Giintlior e perciò d’indirizzo radicalmente
opposto a tinello del Fichte, mira specialmente a mostrare la logica
coerenza in cui le due diverse forme assunte dal sistema fichtiauo
stanno al prin¬ cipio fondamentale del sistema stesso anche là dove,
secondo lui, si con¬ traddicono, pei concluderne l’insufficienza del
principio stesso]; il L.\s- soN, ./. G. Fichte Un Verhaltniss zu Kirche
und Slaat (Berlin, 1863) [l’Autore, dominato, com’è, dall’ idea religiosa
quale può rientrare nella concezione hegelismi, considera fondamentale la
seconda forma della lilosolia lichtiana, quella in cui prevale il
pensiero religioso, pur giu¬ dicandola non riuscita e insoddisfaeeute] ;
e sopra tutti il già ricor¬ dato Fibciusr, Fichtes Leben, Werke und Lehre
(voi. V della 1." ediz. Heidelberg, 1869, e voi. VI della 3.“ ediz..
1900 della Geschichtc der neueren Fhilosophic) [opera veramente classica
per la larghissima e accuratissima esposizione di quasi tutte le opere
del grande idealista; in essa si sostiene la tesi che le due forme della
filosofia lichtiana, quella anteriore al 1800 e quella posteriore, non
sarebbero che duo opposte direzioni assuute rispetto allo stesso
principio fondamentale del sistema: uel primo periodo il Fichte, partendo
dalla lilosolia teore¬ tica, si sarebbe elevato alla filosofia del
diritto, alla lilosolia morale, alla filosofia religiosa, all'Assoluto;
quivi, infatti, il postulato di quell'ordiuamento morale del mondo, che
per lui la tutt uno con 1 In assoluto e con Dio (die lebendige unii
loirkende moralische Ordnung itti selbst Goti), è il punto di arrivo; noi
secondo periodo, invertito il cammino e trasformato quel postulato da
punto di arrivo in putito di partenza, il Fidilo avrebbe preceduto
dall’Assoluto alla religione, alla morale, al diritto e alla scienza. —
Più denigratore che profoudo è stato giustamente giudicato, infine, il
libro del NoàCK, J. G. Fichte nach sei non Leben, Leliren und Wirken
(Leipzig, 1862). — XXVIII —
filosofo tedesco, inopportunamente staccata da tutto il resto deli’edifizio
speculativo. Anche nella maggior parte degli odierni studi
storici sul Lichte divenuti più che mai frequenti dopoché al moto
neo-kantiano iniziatosi al grido: ritorniamo al Kant! (zurìick zu Kant!)
(') si associò, come orientamento filo¬ sofico, un moto neo-fichtiano:
ritorniamo al Fichte!j(zuriick zu Fichte!) che è andato sempre più
accentuandosi dagli ultimi decenni del secolo scorso ai giorni nostrf (*)
è - \ j (') 11 ritorno al Kant si suole farlo risalire
alla celebre lezione dello Zellar: Ueber die Bedeutung und Aufgabe der
Er/iJnntnistheorie (Heidelberg, 1862); ma già nel 1847 il Weisse
pronunziava a Lipsia un discorso: In welchem Sitine sich die deutsche
Philisopkie wieder a " Kanl zu orientieren hai (Leipzig, 1847),. dal
quale si rileva la sua avversione alla dialettica hegeliana e il suo
sforzo por contrapporre al panteismo idealistico un teismo etico.
n? V ' m P ro P oa ìto I’Uebeuweg-Hbinzb, Grundtjss der Geschichle
(ter p/iilosop/tie seit Beginn des neunzehnten Jahrhundcrts (Berlin,
1906, 10» ediz.), § 26, Elnwìrkung Fichtes auf neuere Lahren, pp.
264-269* e .coltre le pp. 317, 347, 361, 514, .547-548. Se ne ricava il
largo é potente influsso che la filosofia fichtiana, intesa sia come
idealismo soggettivo, sia come idealismo etico, sia come panpsichismo, ha
eser¬ citato e sopra le varie nuove dottrine sorte in Germania e sopra
menti speculative di altri paesi (Inghilterra, Nord-America, ecc.). Per
la re¬ cente e assai ricca letteratura intorno al nostro filosofo vedi lo
stesso voi. dell’Uebervveg-Heinze, pp. 8-9, il Baldwin, Dictionary of
philoso- phy and psychology (New York-London, 1905) voi. IH, parte
I, pp. 204-208, e per quella recentissima, ancor yù abbondante, cfr. i
quat-’ tro voli, editi da Arnold Rude, Die P/iilosop/tie der Gegemoarl
(Hei¬ delberg, 1910-1914) e contenenti pressoché tutta la bibliografia
filosofica internazionale degli anni 1908-1912. Nel 1914 (centenario
della morte del Fichte e scoppio della guerra europea) la Bibliotheh fUr
Philosop/tie, edita da Ludwig Stein, pubblicava l’opuscolo di P. Stàhler,
./. G. Fichte, ein deutscher Den/ter (conferenza tenuta il 23 aprile nel
cir¬ colo tedesco di Charcow in Russia), in cui FA., movendo dal*
bisogno spirituale oggi sempre più intensamente sentito di una nuova
orien¬ tazione circa la concezione del mondo, affermava essere appunto
il Fichte il più atto a fornire una chiara risposta alla questione,
una XXIX forse da rilevare una
certa esclusività d’interesse, corri¬ spondente all’ interesse
prevalentemente critico e gnoseolo¬ gico che ha animato siuo a ieri il
pensiero contemporaneo; di guisa che in questa rifioritura di studi
fichtiani, mentre alla teoria della conoscenza ò assegnato per lo
più il posto * d’onore, le altre parti del sistema, in
ispecie le più pra¬ tiche, vengono relativamente lasciate nell’ombra. Il
che nuoce alla dottrina e anche alla figura del nostro filosofo, le
quali così risultano monche e diminuite, e spesso oscu¬ rale e falsate;
quando invece il Fichte reclamava sempre e vivamente che i futuri critici
non giudicassero la sua con¬ cezione se non nella sua totalità, se non
ponendosi cioè in quel punto di vista centrale, da cui si dominano e
s'illu¬ minano tutti gli aspetti; tanto più, poi, che nessuu’altra
con¬ cezione come la sua aspirava a essere una rigorosa unità, or¬
ganica, inscindibile, completa, a rispecchiare, quasi, quei¬ raltra
rigorosa unità, altrettanto massiccia quanto severa e semplice, che era
la personalità stessa del Fichte, il quale appartiene all’eletta schiera
di spiriti eminenti che nella storia deH’uinauità seppero unire in intima
connessione la speculazione filosofica con la vita vissuta, fondendo
armo¬ nicamente pensiero e azione, investendo del medesimo pro¬
risposta che 11 non ha nè corna nè denti „ (die u tceder Horner
nodi Zàhne hai „), ed essere sempre il Fichte “ la stella polare (der
Leit- sternj verso la quale possiamo di nuovo orientare la nostra vita e
il nostro sapere „ (cfr. la prefazione, p. 3). Peccato che l’opuscolo
dello Srahler uscisse accompagnato nello stesso anno da altri due
volu¬ metti della stessa Biblioteca, riguardanti, sebbene con intento
pura¬ mente storico, figure filosofiche ben diverse dall’ideale figura
del Fichte, e di significato più sintomatico in quel nefasto anno, e
cioè: il Pro- tagoras-Niclzsche-Stirner di B. Iachsiann e il Nietzsches
Metaphysik- limi ihr Verhdltniss zu Erkenntnialheorie u. Ethih di S.
Flemming. XXX fondo interesse le più fredde
concezioni astratte della ricerca teoretica e le più ardenti questioni
concrete dell’attività pratica, intensificando la luce diffusa dalla loro
opera in- stauratricè nel campo del sapere col calore irradiantesi
dalla loro missione riformatrice nel campo del dovere (').
* # * E invero non si può negare al sistema del
nostro filo¬ sofo la sua principale caratteristica : quella di essere
cioè (') È veramente ammirevole nel Fichte — che lo Zeller
giustamente definiva anche per il carattere morale un idealista nato — il
rapporto stretto che uni sempre la sua vita alla sua dottrina. “ Jamais
la manière d’agir et di sentir — cosi scrive Cristiano Bauthoi.mf.ss
nella sua Ili- gioire critique des doefriu^s religieuses de la
philosophie moderne (Pa¬ ris, 1855, voi. I, pp. 384-885) — jamais la
conduite et l’àrae ne fu- rent séparées chez lui de la manière de penser
et de voir. Ce qu : il croyait était eu méme temps le nerf de sa volonté,
le soufflé et. l’in- spiration de son existence entière. Prenant au
sérieux tous les mou- vements de son intelligence, il vonlait vivre de ce
qu' il coucevait, et taire vivre ce qu’ il savait, cornine il ne vonlait
savoir que ce qu’ il pouvait aimer, admirer et pratiquer. Ce n’ótait pas
lii l’héroique effet d’uu parti pris, c’était le propre de sa naturo
méme, où lo seu- timent de la valeur morale, de la diguité personnelle,
se confondait avec une telle hauteur de pensée, avec une hardiesso de
speculatimi si intrèpide, qu’ elle pouvait, semidei- la rósolution d’nn caractère
l'u- domptable. La ilestiuée, il est vrai, avait surtout coutribué à
Pac- croissemeut de nette énergie, de cette trempe primitive. Fiofite
avait eu longtemps à combattre, non seulement des adversaires et des
enne- mie, mais les soucis et la misère, le froid ot la faim. Avant, do
lutter pour la libertà de penser et pour P indépendance de sa patrie, il
avaiti pour s'assurer le pain dn jour, endnré tout.es les rigueurs
matórielles ot sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était sorti
plus vigou- reux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut
la no- b lesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à.la
foia tou- chó et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses
victoires, na'i- vemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et
correspondance, qu’ a publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son
illustre nom. „ XXXI — con tutti
i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure, la sua oscurità — un
vero sistema. In esso trovi subito un’idea che l’ha generato tutto
quanto, che ne è il centro, l’anima e ne fa l’unità : idea ovunque
presente e ovunque feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli
svolgi¬ menti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni dire¬
zione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi teore¬ tici e
pratici. Esso è non solo uno nel suo insieme e omo¬ geneo nelle sue
parti, ma universale: tutte le grandi que¬ stioni intorno a Dio,
all’uomo, alla natura, e ai loro rap¬ porti, rientrano nel suo quadro e
vi si coordinano; vi si potranno notare lacune, rifacimenti, mutevolezza
di atteg¬ giamenti e di espressioni, indefinitezza di disegno e
incom¬ piutezza di linee, ma ciò va attribuito più alle contingenze
esteriori in mezzo a cui il sistema si svolse (‘), che non alla sua idea
ispiratrice, la quale, posta l’universalità della dottrina a cui dà vita,
non poteva non esercitare un in¬ flusso auch’esso universale sulla
coltura del tempo e delle età posteriori sino a noi, assicurando così al nome
dell’au¬ tore una fama imperitura nella storia dello spirito umano (*
*). (') Intorno itilo svolgimento del pensiero lichtiano et'r. \V.
Kaiutz, .S ludi<’u z. EnUoicklungsgeschichU der Fichteschen
Wissemchaftslehre (Berlin, 1902) e nnolie E. Focus, Vom Werden rlreier
Denker : Fichte, Schelling, Schleiermachcr (Tiibingen, 1904).
(*) V. la nota nella pree. p. XXVIU e cfr. anello IC. VoitLÀNDlSK,
Oeschichte der Philosophie (Leipzig, 1902, 8* edili. 1911, voi. II, pp.
28(5- 287). — Federigo Schlegel considerava la Wissenschaftslehre del
Fichte una delle “ tre maggiori tendenze del secolo (circi griissten
Tetidenzen iteti Jahrshunderts) „ accanto al Wilhelm Meister del Goethe e
alla Rivoluzione francese. E innegabile che il filosofo di Jena fu il filo¬
sofo per eccellenza della scuola romantica, le cui idee, a giudizio
concorde degli storici e in particolare dello I-Iaym, che su ciò insiste
ctm forza (cfr. Die romantische Schuie, p. 214 e segg.), sono derivate in
XXXII Quale questa idea ispiratrice? È l’idea più
alta e, pei la coscienza comune, la più paradossale che sia sorta
nella storia della filosofìa : la sintesi, cioè, di due termini in
ap¬ parenza così inconciliabili come l’io e il non-io, il cono¬
scere e l’essere, la libertà e la necessità, lo spirito e la na¬ tura,
nel monismo superiore, nella “ superiore filosofia (Jiohere Phihsophie) „
. direbbe lo Schelling, della libertà. 11 sistema del Fichte consiste,
intatti, in una * filosofia della libertà „ /e poiché il suo principio
metafisico s’iden¬ tifica con l’ideale morale, giustamente fu chiamato un
Idea¬ lismo elico ('). La vecchia metafisica s’intitolava scienza
dell’essere, ontologia, e nell’essere riponeva l’assoluto, il reale, e
dall’essere derivava ciò che dev’essere l’ideale. Se¬ condò il Fichte,
invece^l’assoluto, il principio ultimo e su¬ premo da cui veniamo e a cui
tendiamo non ù 1 essei e, ma grandissima parte dalla Dottrina
tirila scienza. E si spiega la predi- lezione dei romantici per un
sistema come il ttchtiano, il «piale tra¬ sforma il kantismo ancora
esitante in un idealismo assoluto, e a tutto uscire, sotto il rispetto
metafisico, da «piella stessa genialità dell’ lo, da cui i romantici
tutto derivavano sotto il rispetto estetico. (•) Fu detto anche
Idealismo soggettivo, ma tale definizione e ei- ronea, perchè V Io che il
Fichte pone al principio di tutto il suo si¬ stema non è l’io
individuale, sì bene 1 ’/o collettivo, universale, che sta a fondamento
di tutti gl’individui, l’/o,assoluto, l’originaria in¬ cognita X, dalla
cui unità, ancora chiusa in sè stessa e incosciente, dovrà uscire, in
virtù di quel misterioso urto (Ansiosa), che è il t eus er m china di
tutta la metafisica Uchtiana, l’antitesi cosciente del soggettivo e
dell’oggettivo. “ Il mio lo assoluto - dice il Fichte - non è
l’individuo; soltanto cortigiani offesi e filosofi irritati contro di me
hanno cosi male interpretato la mia filosofia, per attribuirmi l’infame
dottrina dell’egoismo pratico (.... mein absolutes Teh tst mcht das Individuili»
; so haben beleidigte Hóflinge und drgerhchc Phiìo- sophm mich erklàrt,
uni mir die sehandliche Lehre des prahtischen Egoismus anzudichten). „
(Cfr. G. Ws ioi.lt. Zar GescMchte derneue- reti Philosophie (Hamburg,
1864, 2* ediz. 1864, p. 74). — xxxnl
— il dovere, è un ideale che non è, ma dev'essere. L’essere
in quanto essere, in quanto quid stabile e compiuto, in quanto cosa o
materia inerte, a rigore non esiste ; la fis¬ sità, l’immobilità di ciò
che chiamiamo sostanza, soStrato, materia, non è che apparenza.
Agire, tendere, volere, ecco * in che consiste la
realtà vera. L’universo è il fenomeno della Volontà pura, il simbolo
dell’ Idea morale, che è la vera cosa in se, il vero Assoluto. Filosofare
significa com vincersi che l'essere non è nulla, che il dovere è tutto
; significa riflettere sul proprio io empirico, individuale, unica
ultivilà libera che tende incessantemente ad attuare ciò che dev' essere,
ossia il Dovere, il Bene, /.’ Io asso¬ luto, universale; significa
acquistare la coscienza di por- lare con sè la libertà che crea e
soggioga il mondo, ap¬ punto per attuare il Dovere, il Bene, l'Ideale
morale, l' “ Io „ o la Libertà assoluta. Il Kant aveva bene
ammesso che il soggetto, ossia la ragione e la libertà, impone una forma
e una legge agli oggetti della conoscenza: dell’ Io egli aveva fatto, si,
il legislatore del mondo, ma non era giunto a farne addirit¬ tura
il creatore; poiché aveva lasciato sussistere ancora, ili fronte al
soggetto, uu oggetto, una cosa in sè, capace d’imporre un limite al
soggetto. Per il Fichte, invece, il quale dà all’ io empirico un
significato universale, questa pretesa cosa in sè, ultimo residuo del
dogmatismo, è una chimera che bisogna esorcizzare, perchè è semplicemente
la parte dell’ Io ancora incosciente che il progresso della conoscenza
trae a poco a poco alla luce della coscienza ; sarebbe assurda, infatti,
di fronte alla Libertà assoluta, al- V Io assoluto e universale, una
materia non creata da lui e a lui imposta dal di fuori. E poi, questa
misteriosa cosa icxxtv — in sè. supposta al
ili là di ogni conoscenza, questo essere senza intelligenza, a che si
riduce, se non a un contenuto mentale ( Oeilankending ) e quasi a un
fantasma, creato da noi stessi a spiegarci le sensazioni e le
rappresentazioni che in noi sorgono, non per libera creazione nostra,
ma prodotte dal di fuori. Se un limite esiste all'attività del-
]> jo , gli è perchè l ’lo stesso lo pone liberamente alla pro¬ pria
attività illimitata, con lo scopo di avere il modo di sop¬ primerlo e di
esentare cosi quella stessa attività propria e di rivelare a si stesso la
propria essenza, che è la libertà. La moralità e la virtù, del resto, non
suppongono lo sforzo e la lotta? bisogna, dunque, per attuarle, crearsi
perenue- mente ostacoli e superarli; onde V Io nel primo momento
della propria evoluzione “ pone sè stesso „ (tesi), nel se¬ condo momento
u contrappone a sè il non-lo „ (antitesi), e nel terzo momento “ si
riconosce nel non-Io „ (sintesi); tre aiti, questi, a cui corrispondono i
tre modi di esistenza, i tre oggetti del sapere, che sono l’uomo, il
mondo, Dio. Guai se l’7o desistesse un solo istante dali’esercizio
della propria libera attività! cesserebbe immantinente di esistere;
di qui il carattere “ titanico „ che il Fischer ammira nel- p Jo
fichtiano, destinato per natura sua a continuamente agire, produrre,
volere ('). f (•) Per approssimarsi in qualche modo al concetto
dell lo iich- tiauo nel quale va ricercato il fondamento di ogni
esperienza, giova fare completamente astrazione da qualsiasi contenuto
rappresentalo della nostra coscienza empirica. Dopo questa immensa
sottrazione, si consideri la rappresentazione più vuota che possa
pensarsi, 1 unica affermazione che non abbisogni di nessuna
dimostrazione, il principio logico d’identità: A è A, col quale uon si
afferma nemmeno che zi esiste, ma soltanto che: se A esiste, A dev’essere
A. Orbene, quan¬ tunque con tale affermazione si formuli soltanto una vuota
venta e — XXXV — Un cosi intenso
idealismo non era mai sorto prima.del Pielite. Esso insegna che il
variopinto e multisono mondo sensibile, che si estende nello spazio e si
svolge nel tempo, non ha esistenza propria e indipendente : 1’ unico ch'e
ve¬ ramente esista è l’ lo. E lo stesso Io esiste solo in quanto
agisce. Dal suo operare, dal suo rifrangersi in In e non-lo, sorge per
lui il mondo visibile, percepibile e connesso da non ■ i ponga
nessuna esistenza, si compie, tuttavia, un atto del pen¬ siero, un
giudizio, e un giudizio d’incrollabile certezza, il quale porta
direttamente a porre e a riconoscere 1'esistenza reale dell’/o. Infatti,
donde proviene il verbo “ è „, con cui il primo A è messo in rela¬ zione
col secondo A, il soggetto col predicato? Il nesso tra i due ter¬ mini
del giudizio è beu soltanto nell’/o e per opera dell’/o. Dunque, nellu
precedente proposizioue: A è A, ebe è la più evidente, per quanto la più
vuota di contenuto, che si possa formulare, si nasconde già l’ lo, si
trova già l’attività certa di aè stessa; perché, meutre per A non si ha
il diritto di fare, oltre il giudizio ipotetico: se A esiste, A è A,
nnehe il giudizio categorico: A esiste, in quantiche anatale affermazione
richiederebbe un’ulteriore dimostrazione, per V Io, invece, anello se non
sappiamo assolutamente nulla più di questo: che è A, possiamo dire non
solo: se V Io esiste, l’ Io è l’/o, ma altresì: l’ Io esiste (ciò elio
ricorda l’agostiniano e il cartesiano: Cogito ergo sum). Ma V Io è, per
natura sua, essenzialmente attività, e, prima ancora di acquistare
coscienza dei propri prodotti, dei propri atti, e di sè stesso, crea, con
la sua immagiuazione produttrice, perenne e inesau¬ ribile, le
innumerevoli rappresentazioni, che poi lu riHeasioue farà apparire alla
sua intelligenza come oggetti, come non-lo; perchè — va sempre ricordato
questo punto originale della dottrina del Fichte - il non-lo, ossia il
mondo esterno, è posto ilall’/o inconscio, non già dall' Io cosciente; è
un prodotto, quindi, anteriore a quella rela¬ zione di antitesi e sintesi
tra soggettivo e oggettivo che è la co¬ scienza, e quando la coscienza
nasce, s’impone a essa come già dato. Così, grazie a questa produzione
inconscia dell’ immaginazione dell' lo — di quell’immaginazione che già
per il Descartes era il trait d’u- nion tra l’anima e il corpo, e per il
Kant l’intermediaria tra le in¬ tuizioni pure della sensibilità e le
categorie dell’intelletto —, il non-lo apparisce all’ intelligenza come un
limite dal di fuori senza essere perciò estraneo all’/o, essendo sempre
un prodotto dell’/o inconscio. leggi, il quale perciò
non è che il sistema delle nostre rap¬ presentazioni, il rispecchiarsi
dell’ lo nell’/o. Ma anche que¬ sto rispecchiamento non ci rivela in modo
puro e immediato ]’ intima essenza del nostro spirito, perchè non uel
rappre¬ sentarsi è il nostro più alto operare, non nel
rappresentarsi è tutto il nostro Io. Noi operiamo veramente soltanto
nel libero volere morale; noi attuiamo completamente il nostro Io
soltanto «piando, con attività rinnovata al lume della coscienza, ci
sforziamo di soggiogare il mondo delle rappre¬ sentazioni scaturite
dall’inesauribile fonte dell’ lo inconscio _ il quale mondo non è
che “ il materiale sensibilizzato del nostro dovere (unsre Welt ist
das versinnlichte Mute- rial unsrer Pjlicht) „ — e ci sforziamo di
trasformarlo nel mondo della libertà, nel mondo soprasensibile ed
eterna¬ mente in fieri del Bene; poiché, esclama il Fichte, “ es¬
sere liberi è nulla, divenir liberi è il cielo (frei se‘in ist nichts,
frei wenlen ist dei' Ilimmel) ! „ La costruzione filosofica del
Fichte può dirsi monolitica, ed è tale da superare in semplicità persino
quella eretta, da un punto di vista e con centro «li gravita affatto
opposti, dallo Spinoza: — al Jacobi il sistema del filosofo tedesco
appariva il rovescio del sistema del filosofo olaudese —. E qui sta il
vantaggio della concezione fichtiana anche sulla kantiana ; il Kant non
aveva tanto fornito un sistema, quanto, piuttosto, i germi e i materiali
per più sistemi ; nella lotta contro il dogmatismo e contro lo
scetticismo egli aveva voluto inalzare alla scienza propriamente
detta, più che un tempio, una fortezza; e, per rendere questa fortezza
iuespuguabile da tutti i lati, ne aveva costruito -i bastioni quasi in
tempi diversi, quasi in stile diverso : onde nella sua filosofia non solo
rimane il dualismo incon- — XXXVII —
ciliabile tra l’essere e il conoscere, tra il conoscere'e il lai
e, ma nell ambito stesso del conoscere manca una rigo¬ rosa unità tra i
diversi poteri conoscitivi, tra la sensibilità con lo sue intuizioni
pure, l’intelletto con le sue categorie, la ragione con le sue idee
metafisiche. Il filosofa di Ko- nigsbei'g da una parte pareva chiudere lo
spirito umano tutto nel giro del proprio mondo interno, nel
fenomeno, dall altra gli lasciava intravedere, al di là di questo
mondo interno, un altro mondo, il noumeno, avvolto sempre da densa
nebbia e sempre refrattario alla conoscenza. Donde la domanda : questo
mondo esistente in sè è quello stesso che ci si i ivela nella voce della
coscienza, ed è possibile tiadui lo in atto con la pura e buona volontà?
La risposta del Kant, almeno nell’espressione datale dall’autore, se
non nello spirito dell’autore stesso, era stata cosi cauta, che
ognuno poteva trarne le conseguenze a suo proprio rischio. Iusomma, non
si poteva non riportare l’impressione che nella, dotti ina kantiana la verità
fosse svelata soltanto a mezzo, e che a essa mancasse, dal punto di vista
scienti¬ fico, cosi il fondamento come il coronamento. Il Fichte,
invece, da quel pensatore ben più ardito e deciso ch’egli eia e che si
era formato sullo stampo dello Spinoza, s’im¬ possessò dei materiali
kantiani, e fece della Critico un si¬ stema unitario: Tutto ciò che è, è
per noi; tutto ciò che è per noi, può essere soltanto per opera nostra;
nell’atti¬ vità dell’ lo è racchiuso il conoscere e l’essere, il
sensibile e il soprasensibile, il reale e 1’ ideale ;
nell’autocoscienza (Se/bstbeiousstsein) — lo stesso Kant aveva già
insinuato che la misteriosa incognita nascosta sotto i fenomeni
sensibili poteva benissimo essere quella stessa che portiamo con noi
— è l’unità di tutti i poteri dello spirito, l’unità delle forme
— XXXVIlt — cosi del
fenomeno come della cosa in sè che sta a fonda¬ mento del fenomeno,
l’unità del sistema delle nostre rap¬ presentazioni e del sistema dei
nostri doveri, l’unità della nostra essenza teoretica e della nostra
essenza pratica : 1’ unità, e con 1’ unità il fondamento e il coronamento
di tutta la dottrina. Se il Reinhold aveva cercato un principio
superiore, come principio unico indispensabile a dare forma sistematica
di scienza alla dottrina della conoscenza, se il Beck aveva interpretato
lo spirito della filosofia kantiana nel senso idealistico, se il Jacobi
aveva reclamato l’elimi¬ nazione della “ cosa in sè „, ecco nella
filosofia del Fichte soddisfatti tutti insieme questi desideri, e in pari
tempo fornita ai risultati della Critica della ragione 1’ evidenza
richiesta dallo Schulze ('). (!) La filosofia del Kant, raccoglie,
a dir cosi, in un'unità vivente tutti i germi e principi motori del pensiero
moderno, e il sistema del Fichte non è che una delle direzioni che poteva
prendere il kan¬ tismo. La direzione fichtiana, quindi, scaturisce
naturalmente dalle premesso kantiane, ma non deve considerarsi perciò.,
come vorrebbe il Leon, quusi l’unico e necessario completamento del
kantismo: altre direzioni, assai divergenti dalla fichtiana, l'anno capo
legittimamente aneli’ esse al Kaut., dei cui discepoli può ripetersi ciò
che Cicerone dicova dei diversi discepoli di Socrate: alii aliuiì
suinpsenuit • il Fichte è un kantiano all’ incirca nel medesimo senso che
Platone fu un socratico, e sta allo Spinoza come Platone a Parmenide ;
col Kaut afferma l’ideale morale, con lo Spinoza l’unità dei “ due
moudi onde la Bua filosofia, dicemmo già, è un’originale sintesi, forse Unica
nel suo genere ai tempi moderni, di ciò che sembra assolutamente
inconciliabile: il monismo e la libertà, il mondo delle cause o il inondo
dei fini. Anziché ritornare sui singoli problemi della Critica della
ragione, egli s’impadronisce del centro animatore di quella Critica, e
trae fuori dal pensiero fondamentale dell’ auto-attività dello spirito,
in quanto forza reale e fine a sé stesso, un uuovo quadro del mondo di
grandiosa arditezza, entro il quale l’idealismo, che nella filosofia
kautiana era latente sotto 1’ involucro di prudenti re-
— XXXIX — *• * * La filosofia del
Fichte, abbiamo detto, è una filosofia della Libertà, poiché ha per
principio una realtà assoluta, intesa come Io pratico, come Attività
pura, come Auto-deter¬ minazione, ed è uno sforzo poderoso per dedurre da
questo principio oltreché le condizioni della vita etica, anche le
funzioni della ragione teorica, celebrando in tal modo quel primato della
ragione pratica che il Kant aveva già pro¬ clamato , e facendo perciò
della ragione pura un organo della moralità. L’attività dell’ Io assoluto
alterna i suoi atti di produzione inconscia con i suoi atti di
riflessione cosciente, la sua direzione centrifuga ed espansiva che
si protende verso l’infinito, con la direzione centripeta e cou-
strizioni, viene chiamato a potente vita, e ciò che di sublime il
grande lilosofo dell’ imperativo categorica aveva insegnato intorno alla
libertà morale di fronte alla necessità naturale, viene tradotto dal
linguaggio di un moderato contegno in quello di un energico en¬ tusiasmo.
li mondo può comprendersi soltanto in base allo spirito e lo spirito
soltanto in base alla volontà. La dottrina del Fichte è tutta nel vivere
e nel fare, tanto vero che comincia non con la definizione di un
concetto, ma con la richiesta di un atto (Thathandlung): “ poni te
stesso, fai con coscienza ciò che bui fatto inconsapevolmente ogni qual
volta ti sei chiamato io, analizza questo atto di autocoscienza e
riconosci nei suoi elementi le energie da cui scaturisce ogni realtà
Questa intima vitalità del principio lichtiaiio, che ricorda l'atto puro
aristotelico e il perpetuo divenire eracliteo, e in conseguenza della
quale Dio, anziché una sostanza assoluta già compiuta, sarebbo un ordino
cosmico sempre attenutesi, mai attuato, si ridette anche uel- l’opera
filosòfica dell’autore, il cui spirito, fiero e irrequieto, si svolse iu
continua lotta non solo nella pratica, ma anche nel pensiero. Nelle sue
lezioni, come nei suoi scritti, spesso egli riprende daccapo la serie
delle sue deduzioni e sempre iu modo diverso e quasi conver¬ sando coi
suoi uditori e coi suoi lettori, mai trascurando le possibili obiezioni
da parte di questi ; sicché il suo filosofare sembra compiersi
* — XL — trattile che arresta la prima
e respinge V Io in sè stesso; pone a sè stessa V urto (Anstoss) della
sensazione, il limite della rappresentazione, l’intoppo del non-Io ; è
insomma teoretica : soltanto al fine di diventare pratica. Tutto 1’
apparato della conoscenza non serve che a darci la pos¬ sibilità di
compiere il nostro dovere: quel dovere che è 1’ unica realtà vera, 1’
unico in-sè (An-sich) del mondo fe¬ nomenico, perchè le cose sono in sè
ciò che noi dobbiamo farne ; 1’ io teoretico pone oggetti, affinchè 1’ io
pratico trovi resistenze (il tedesco Gegenstand = oggetto è qui
preso come sinonimo di Widerstund = resistenza) ; 1’ og¬ gettività esiste
soltanto per essere la materia indispensa¬ bile all’azione, per ricevere
da questa la forma che deve elaborarla e inalzarla sì da rendere sempre
più visibile alla presenza d’interlocutori, è come un filosofare
in comune e per più rispetti richiama alla mente il dialogo platonico.
Del resto al Fichte sarebbe parsa vana una filosofia avulsa dal suo
ambiente na¬ turale, l’umanità, ond'egli si faceva un dovere di agire e
influire energicamente sui suoi contemporanei e su quanti fossero in
rela¬ zione con lui , e visse in continuo coutatto col mondo e con la
so¬ cietà; al contrario del Kant, tra la vita e la speculazione del
quale non appare certo Io stretto connubio che è nel nostro filosofo ;
in¬ fatti, i rapporti sociali e tutto il contegno esteriore del grande
soli¬ tario di Konigsberg furono, rispetto alla sua vita interiore e al
suo pensiero, cosi indifferenti come il guscio al gheriglio ma turo ;
mentre il Kant per molti e molti auui aveva portato entro di so,i suoi
gravi pensieri senza che alcuno sospettasse nemmeno che cosa
accadesse nell’ intimo di questo professore che senza differenza dagli
altri teneva i suoi corsi universitari, il Fichte, invece, impaziente di
ogni ritardo nella missione rigeneratrice, a cui con orgogliosa coscienza
di sè si sentiva chiamato, lasciava prorompere la manifestazione delle
sue idee, anche se non definitivamente elaborate, man mano che
scaturi¬ vano dal profondo della sua anima agile e trasmutabile e
disposta agli atteggiamenti più diversi secondo i campi a cui si
applicava, se¬ condo i problemi ché affrontava, secondo i momenti in cui
agiva. XLI 1’ attività dell lo. In
conclusione , noi siamo Intelligenza Per poter essere Volontà. La
Dotti-ina della Scienza , quindi , nel sistema del Fichte, è tutta in
servigio della filosofia pratica , la quale , attraverso la Dottrina del
Di¬ ritto, va a culminare nella Dottrina morale, e'mira ad attuare
quel regno dei fini che il Kant contrapponeva al regno delle cause, e che
jier il nostro filosofo consiste nel- 1’adempimento completo del Dovere,
nel dominio assoluto dell’ lo, nel trionfo supremo della Libertà.
E invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza ci apprende
che il fondo, l’essenza dello spirito umano non è l’intelligenza ma 1’
attività, non il pensare ma il volere — nella forma , almeno, in cui
attività e volere sono accessibili all’ uomo — , e che l’intelligenza —
pur essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e di
cui e condizione — resta subordinata all’ attività come la forma al
proprio contenuto, come la riflessione al proprio oggetto, d’altra parte
la Dottrina morale ci mostra il pro¬ cedimento con cui lo spirito umano
si sforza — il che è preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante
l’in¬ telligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di
quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo , la sua essenza
assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso che avvince la
Dottrina morale alla Dottrina della Scienza ; quella si deduce
direttamente dai principi di questa, in quanto la moralità, secondo il
Fichte, non è che uno dei momenti pii\ importanti, anzi il più
essenziale, dell’ attua¬ zione di quell’ Io puro , di quella Libertà
assoluta che la Dottrina della Scienza pone al di là dei limiti di
ogni coscienza , e da cui 1’ io empirico deriva e a cui 1’ io em¬
pirico aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e infinito,
XLII per via di limiti e determinazioni, all’ io empirico,
relativo e finito, ossia dalla Libertà all’Intelligenza, è il
problema a cui pili specialmente si applica la Dottrina della Scienza
; il passaggio dall’io empirico, relativo e finito, per via di
superamenti e liberazioni, all’Io puro, assoluto, infinito, è il problema
a cui più specialmente si applica la Dottrina morale. L’ un problema è il
reciproco dell’ altro, e la so¬ luzione di entrambi dipende dalla
soluzione dell’antinomia tra la finitezza dell’Io-intelligenza , attività
oggettivante (= che pone oggetti, limitazioni, resistenze), e
l’infinitezza dell’ Io-libertà , attività pura (= che ha per essenza 1’
as¬ solutezza, l’illimitatezza, l’autonomia). E come il Fichte
risolve tale antinomia con quell’attività a un tempo finita e infinita
che è lo sforzo (Streben) — attività finita, perchè lo sforzo implica una
limitazione, una determinazione, che impedisce l’immediato compimento
dell’atto nella sua infi¬ nità; attività infinita, perchè questa
determinazioue non ha nulla di assoluto, di fisso, è un limite che
l’attività fa indietreggiare incessantemente per conseguire l’infinità —
, ne segue che l’idea dello sforzo è , nella sua filosofia, il
cardine fondamentale dell’ attività teoretica non meno che dell’ attività
pratica, dell’ Intelligenza non meno che della Volontà, della Dottrina
della Scienza non meno che della Dottrina morale. Nella Dottrina morale ,
a oui ora è ri¬ volta la nostra attenzione, lo sforzo esprime la
tendenza dell’Io a identificare la sua attività oggettivante con la
sua attività pura, e lo svolgimento dell’ Io è tutto nel rapporto
tra queste due attività : l’infinita Libertà non può attuarsi se non at
traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma non c’è limitazione uè
Intelligenza se non rispetto all’infinita Attività pura elle di continuo
le sorpassa. Lo sforzo, quindi, — L 11
— — XL11I — può definirsi un’attività in cui
l’infinito è posto non come stato attuale, ma come meta da raggiungere,
un’attività in cui 1’ adeguazione del finito e dell’ infinito non è ,
ma dev'essere , un’attività, insomma, che ha per contenuto il
Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto. Diamo, in
breve, il disegno della Dottrina morale. * *■ *
La Dottrina morale si apre I) con un’ Introduzione , in cui sono
sinteticamente presentati i presupposti filosofici dell’etica; e si
svolge in tre Libri, dei quali II) il primo trae da quei presupposti il
principio della moralità, III) il secondo deduce da essi la realtà e 1’
applicabilità di questo principio, IV) il terzo fa l’applicazione
sistematica del prin¬ cipio stesso, ed espone quindi la morale
propriamente detta. I. - I presupposti filosofici dell' etica,
contenuti nel¬ l’Introduzione e perfettamente conformi alla Dottrina
della Scienza , muovono dal principio che la vera filosofia sol¬
tanto allora è possibile, quando si abbia un punto in cui il soggettivo e
l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresenta¬ zione di esso non siano
divisi, ma facciano tutt’uno, e che un tal punto si trova nell’Egoità o
Io puro, nell’Intel¬ ligenza o Ragione. Senza questa assoluta identità
del sog¬ getto e dell’oggetto nell’Io, la quale peraltro non si
lascia cogliere immediatamente come un dato della coscienza at¬
tuale, ma soltanto argomentare per via di ragionamento, la filosofia non
approda a nessun risultato. Bisogna, dunque, ammettere un’Unità fondamentale
e primitiva, la quale, tosto che nasce una coscienza attuale — o anche
soltanto l’autocoscienza —, si scinde necessariamente in soggetto e
— 3LIV — r oggetto, poiché “ solamente
in quanto io, essere cosciente, mi distinguo da me, oggetto della
coscienza, divengo co¬ sciente di me stesso „ ( 1 ). Bisogna ammettere,
inoltre, che l’oggettivo abbia causalità sul soggettivo, e viceversa
il soggettivo sull’oggettivo, per rendere concordi tra loro, e in
generale possibili, il pensiero e il pensato, la ragione e il suo dominio
sulla natura. E appunto perchè il legame causale tra soggetto e oggetto è
duplice — ognuna delle due parti è causa ed effetto dell’altra: il
soggettivo è ef¬ fetto dell’oggettivo uel conoscere , Soggettivo è effetto
del soggettivo nell 'operare — , la filosofia si divide in teore¬
tica e pratica. Senonchè, come avemmo già occasione di notare
(*), l’Io puro, ossia 1’ U.nità soggettivo-oggettiva ancora indi¬
visa, non è un fatto ( Thatsache ), ma un atto ( Thathand - tutiff), la sua
natura originaria è attività: è, dunque, pra¬ tica. Perciò il principio :
“ Io mi trovo come operante nel mondo sensibile „ ( 3 ) è di capitale
importanza per il nostro conoscere. Da esso comincia ogni coscienza ;
senza la co¬ scienza della mia attività non è possibile nessuna
autoco¬ scienza, senza l’autocoscienza nessuna coscienza di un quid
diverso da me. Infatti, la percezione della mia atti¬ vità suppone una
resistenza al di fuori di noi; “ ovunque e in quanto tu percepisci
attività, tu percepisci necessa¬ riamente anche resistenza ; altrimenti
tu non percepisci attività „ ( 4 ). Ora la resistenza è affatto
indipendente dalla (') Sittenlehre (Stimanti. Werke, Voi. IV,
ediz. cit.), pag. 1 (nostra traduz. pag. 1). ( 2 ) Cfr. pvec.
p. XXXIX, nota. ( 3 ) Sittenlehre, p. 3 (nostra traduz. p.
3). ( 4 ) Ibid. p. 7 (ibid. p. 6). XI.V
mia attività, è anzi il suq opposto; è qualcosa che esiste
soltanto e in nessun modo agisce, qualcosa di quieto e morto, die tende
semplicemente a rimanere quel che è, qualcosa che nel proprio campo
contrasta all’azione*della libertà, ma non può mai invadere il campo di
questa. Un qualcosa di simile, dunque, è “ pura oggettività „ , e
si chiama., col suo proprio nome, materia. Senza la rap¬ presentazione
di una tale materia, niente resistenza alla nostra attività, quindi
niente attività, niente autocoscienza, niente coscienza, niente essere.
La rappresentazione del puro oggettivo resta così dedotta necessariamente
dalle leggi stesse della coscienza ( l ). Con la medesima
necessità con cui viene dedotto il puro oggettivo, viene posto anche il
suo contrario, il sogget¬ tivo, ossia 1’ attività propriamente detta,
sotto la forma di un’ agilità (Agililàt) o forza efficiente. Ma poiché
nella coscienza, quasi come in un prisma, ogni unità si rifrange in
soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo sdoppia¬ mento dell’Io puro
in soggettivo e oggettivo, anche il sog¬ gettivo si sdoppia a sua volta,
e si ha da una parte 1’ at¬ tività propriamente detta, veduta come una
forza reale, come un oggettivo esistente in me, dall’altra il
soggettivo, fonie inesauribile di questa forza reale, fonte
originaria non derivante da nessun oggettivo, e dalle cui
profondità oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e
talora impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre rap¬
presentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia attività —
ossia il soggettivo ancora indiviso nella sua unità anteriore alla coscienza
— , quando sia veduta attra- (*) Ibid. pp. 7-8 (itici, p.
7). XLVI verso il tramite della
coscienza, appare come un oggettivo, che da un lato scaturisce da un
soggettivo perennemente rinascente a ogni estrinsecarsi dell’oggettivo,
dall'altro de¬ termina l’oggetti vita pura dianzi chiamata materia (‘).
Così si rivela alla coscienza la nostra assoluta auto-attività, la
cui essenza sta nel produrre rappresentazioni, nel creare concetti, e la
cui manifestazione sensibile dicesi libertà. Ciascun concetto, riguardato
come determinante l’oggettivo in virtù della propria causalità, diventa
un concetto-line, e allora esso stesso appare un qualcosa di oggettivo e
si chiama uua volizione; e lo spirituale che in noi si consi¬ dera
come principio immediato delle volizioni dicesi volontà. Spetta,
dunque , alla volontà agire sulla materia ed esercitare causalità nel
mondo sensibile ; ma ciò non le sarebbe possibile se non avesse uno
strumento che sia esso stesso materia , ossia quel corpo articolato che è
il nostro (‘) Nel Leon (op. cit. pp. 255-260) trovasi ben
descritta la natura dell’attività spirituale nel senso fichtiano,
attività clic è, a un tempo e continuamente, produzione di sè e
riflessione sopra di sè, oggetti¬ vazione e soggettività, io reale e io
ideale, attualità e potenzialità; chi voglia intendere una tale attività,
che ha la caratteristica di esi¬ stere e di essere anteriore alla propria
esistenza, devo ricordarsi che essa non va pensata alla maniera delle
cose, perché, contrariamoute alla natura di queste ultime, la cui realtè
si esaurisce tutta quanta nell'essere oggettivo, l’attività spirituale
può ripiegarsi su di sé, può riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno
meraviglioso e cosi lontano dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza
ideale deter¬ mina l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è
libertà. Onde si vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva
ailermato, senza però dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato,
la creazione di un’ esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’
altra esi¬ stenza. E si vede altresì che solamente 1’ essere ragionevole,
dotato d’intelligenza e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui
soltanto è possibile una causalità in forza di un concetto.
XLVII organismo. E invero u io ,
consideralo come un principio di attività nel mondo dei corpi, sono un
corpo articolato, e la rappresentazione del mio corpo non è altro
che la rappresentazione di me stesso come causa nel inondo
materiale 5 e perciò, mediatamente, non altio che un ceito aspetto della
mia attività assoluta „ ('). Volontà e corpo sono quindi una medesima
cosa , riguardata però da due lati diversi: una medesima cosa, perchè
soltanto fin dove si estende l'immediata causalità della volontà sul
corpo, si estende il corpo articolato , necessario strumento della
causalità sulla materia; riguardata però da due lati di¬ versi , perchè ,
in virtù dell’ azione sdoppiatrice della co¬ scienza, la volontà appare
come il soggettivo che esercita la sua causalità sul corpo, e il corpo
come 1 ’oggettivo i cui mutamenti coincidono con quelli di tutta
l’oggettività o realtà corporea. Similmente una medesima cosa,
riguar¬ data però anch’ essa da due lati diversi, sono la natura
che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione e T ordinamento
della materia , e la natura non cangiabile , ossia la materia pura : la
natura mutevole è 1 ’ oggettivo considerato soggettivamente e in
connessione con 1 ’ io, in¬ telligenza attiva ; la natura immutevolo è
Soggettivo con¬ siderato oggettivamente e soltanto in sè.
Secondo il precedente ragionamento , i molteplici ele¬ menti che
l’analisi ritrova nella percezione della nostra causalità sensibile
vengono dedotti dalle leggi della co¬ scienza e ridotti all' unità, all’
unico assoluto su cui si tonda ogni coscienza e ogni essere, all
'attività pura. Questa at¬ tività, in virtù della legge fondamentale
della coscienza, (!) Sittenlehre, p. 11 (nostra traduz. pp. 10-11).
V — XLVIII — per cui 1 essere attivo non
si comprende senza una resi¬ stenza su cui agisce, non si comprende cioè
se non come un Io-soggetto operante sopra un Non-Io-oggetto, appare
sotto forma di efficienza su qualcosa fuori dell'Io. Ma tutti gli
elementi contenuti in questa apparenza, a partire dal con¬ cetto-fine
propostomi assolutamente da me stesso, sino alla materia greggia del
mondo esterno su cui esercito la mia causalità, non sono che anelli
intermedi dell’apparenza totale, e perciò semplici apparenze anch’essi.
L’unico reale 1 vero è la mia auto-attività, la mia indipendenza,
la mia libertà. IL - Da tali presupposti bisogna ora dedurre
il principio della moralità. L’ uomo trova in sè un’ obbliga¬ zione
assoluta e categorica a fare o non fare certe azioni indipendentemente da
ogni fine esteriore, la quale si ac¬ compagna immancabilmente con la
natura umana e costi¬ tuisce la nostra caratteristica morale. Donde ha
origine questa obbligazione o Dovere, che vai quanto dire la leggo
morale, ossia il' principio della moralità? Secondo che esige la Dottrina
della Scienza , tale origine non va ricercata altrove che in noi stessi,
nell’ Jo. Onde il primo problema da risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè
stesso come puramente sè stesso, ossia come distaccato da tutto ciò
che non è io. „ (*). La soluzione di questo problema si ottiene
così : Io non trovo me stesso se non nella mia volontà, se non come
volente ; e trovarsi volente significa riconoscere in se una sostanza che
vuole. L’intelligenza è la coscienza fl ) Ibid. p. 18 (ibid. p.
20). — XLJX puramente soggettiva; la
coscienza del proprio io in quanto io non può nascere che dalla volontà,.
Ma la volontà non si concepisce se non supponendo qualcosa di diverso
dal- 1’ io, perchè ogni volontà reale è una determinata volizione
che ha un concetto-fine, che tende cioè ad attuare un og¬ getto concepito
come possibile, un oggetto che stia fuori di noi. Ne segue che, per
trovare me stesso e nuli’altro che me stesso , bisogna fare astrazione da
questo oggetto esterno della mia volontà: ciò che rimane allora sarà il
mio es¬ sere puro, la volontà assoluta, il principio della nostra
filo¬ sofia. Ne segue altresì che il carattere essenziale e distin¬
tivo dell’ io è una tendenza ad agire di propria iniziativa e
indipendentemente da ogni impulso estraneo, a determi¬ nare sè stesso in
modo incondizionato e autonomo , è, in una parola, la libertà. Ora,
appunto questa tendenza e questa libertà costituisce l’io preso in sè,
l’io considerato all’ infuori di ogni relazione con checchessia di
diverso da sè. Ma ogni essere non è se non in quanto viene
riferito a un’ intelligenza, la quale sa che esso è ; in altri
termini suppone una coscienza. L’io, quindi , non è se non in quanto
si pone, non è se non in forza della coscienza che ha di sè; onde esso
deve avere la coscienza di quella ten¬ denza alla libera
auto-determinazione che dicemmo costi¬ tuire la sua essenza. E invero
l’io che, mediante l’intelli¬ genza, pone sè stesso come tendenza
all’autonomia assoluta o libertà, è un essere il cui principio si trova
non in un altro essere, ma in un quid di categoria diversa —
l’unico quid che possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pen¬
siero , inteso non come qualcosa di sostanziale, sì bene come attività
pura, come movimento dell’intelligenza senza restrizioni e
senza fissità. Orbene, da questa intima fusione dell’io in quanto
tendenza all’attività assoluta o libertà e dell’io in quanto
intelligenza, dell’io in quanto essere e dell’ io in quanto riflessione ,
è possibile dedurre il prin¬ cipio della moralità. Come? L’Io
assoluto, non ancora rifratto dal prisma della coscienza, è determinato,
come abbiamo detto, dalla sua tendenza all’attività assoluta, e questa
determinazione di¬ venta oggetto o contenuto dell’ intelligenza. Ma ,
siccome l’Io assoluto nella sua unità integrale, nella sua
semplicità e identità originaria non può essere mai oggetto della
co¬ scienza , bisogna che questa si sforzi di apprenderlo , al¬
meno per approssimazione, attraverso la dualità dell’essere oggettivo e
della riflessione soggettiva, mediante quella specie di espediente che
consiste nel considerare il sog¬ gettivo e 1’oggettivo come
determina»tisi reciprocamente 1’ uno 1’ altro, come complementari, quindi
come insepara¬ bili e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si
con¬ cepisce il soggettivo come determinato dall’ oggettiv'o (nel
qual caso nasce quella relazione psicologica che si chiama sentimento),
essendo l’oggetto, rispetto al soggetto, qual¬ cosa di per sè stante, di
fisso .e permanente, si troverà che il contenuto del pensiero è
immutabile e necessario e che l’intelligenza impone a sè stessa la legge
di una attività propria e assoluta. Se poi si concepisce
l’oggettivo come determinato dal soggettivo (nel qual caso nasce
quel- l’altra relazione psicologica che si chiama volontà), es¬
sendo il soggetto, rispetto all’ oggetto, qualcosa di mobile, di attivo e
indipendente, si troverà che l’io si pone come libero. Si arriverà cosi —
combinando, i due risultati , la legge necessaria da una parte e la
libertà illimitata dal- 1’ altra — all’ idea di una
legge che l’io liberamente -im¬ pone a sè stesso : la legge ha per
contenuto la libertà , e la libertà è sottoposta alla legge. Legge e
libertà, per tal modo , si determinano reciprocamente : esse fanno
insieme una sola e medesima unità. Tra la libertà ( = attività in-
condizionata e illimitata) e l’autonomia ( = imposizione spontanea di una
legge a sè stesso) non c’ è incompatibi¬ lità; esse nascono entrambe da
quello sdoppiamento che è dovuto alla natura dell’ attività spirituale e
che è a un tempo posizione di sè e riliessione sopra di sè, oggetto
e soggetto. In altri termini, si ha qui l’intima fusione, nel- 1’
unità dell’ io, tra 1’ intelligenza, che concepisce la nostra essenza
come libertà, e la volontà, che è 1’ attuazione del- 1’autonomia, tra la
libertà-concetto e la libertà-atto, e il legame che unisce 1’ una all’
altra è di causalità non Inec- canico-coercitiva ma psichico-imperativa,
è di necessità non teorica ma pratica, è il legame morale del dovere.
La libertà-idea non può non tradursi, dece tradursi in libertà-
realtà; il Dovere, obbligazione per eccellenza, sta nell’at¬ tuare
l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la coscienza, quel ohe siamo
in fondo al nostro essere assoluto anteriore alla coscienza, nel renderci
cioè liberi ; e in ciò precisa¬ mente consiste il principio supremo di
tutta la moralità, il quale per tal guisa risulta dedotto, come ci
proponevamo, dalla natura dell’ io. Posto l’io, è in pari
tempo posta anche la tendenza all’assoluta auto-attività, alla libertà;
ma la libertà non acquista valore se non per un’ intelligenza che ne
faccia la legge determinante delle nostre azioni ; ne segue che
l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà alla legge della
propria natura, che è la legge della libertà, senz’altro fine che
la libertà, stessa. La moralità, appunto perchè esprime direttamente
l’essenza dell’io, la sua pra¬ ticità assoluta e la sua autonomia, è una
perpetua legisla¬ zione dell’io imposta a sè stesso, sotto un triplice
rispetto : a) rispetto all’adozione stessa della legge morale, ado¬
zione la quale non può essere che una libera sottomissione, una spontanea
adesione alla logge; h) rispetto all’applica¬ zione della legge a ciascun
caso particolare, applicazione nella quale il giudizio morale è sempre un
atto di auto¬ nomia, un consenso di noi con noi stessi ; c) rispetto
al contenuto della legge, uel quale contenuto è evidente che ogni
determinazione della volontà da parte di una causa estranea a sè stessa,
che vai (pianto dire alla ragione, co¬ stituirebbe un’eteronomia affatto
contraria alla legge mo¬ rale. Per tal modo si può concludere che la vita
morale tutta quanta non è altro che una ininterrotta auto-legisla¬
zione dell’io, una perenne autonomia dell’essere razionale; e dove questa
autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immo¬ ralità ('). IH-
- Alla deduzione del . principio della moralità segue la deduzione della
realtà e dell’ applicabilità del principio stesso, senza di che quest’
ultimo rimarrebbe un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un
formalismo vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la
legge morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ; onde
il principio della moralità è non solo vero , logica¬ ci Tbid. p.
5C ibid. p. 55). A chiarire ancor meglio la deduzione della legge morale
dall’Io, ricollegandola con i principi e le conse¬ guenze della Dottrina
della Scienza giova il seguente schema fornito — un
— mente possibile e giustificato dalla ragione, ma altresì
reale e applicabile : reale, perchè è un concetto che deve attuarsi nel
mondo sensibile (*) ; applicabile, perchè il mondo sensibile è tale, per
origine e natura, da prestarsi* come strumento all’attuazione di quel
principio. dal Fischer ( Geschichte der neuem Philosophie, voi.
VI, Fichte unti seine Vorgànger, 4 a ediz. 1914, p. 458) e nel quale
viene simboleggiato lo sdoppiarsi dell’ Io nella coscienza teorica e il
suo reintegrarsi nella legge morale : Io
Soggetto = Oggetto Coscienza (Divisione)
Soggetto . Autoattività Causalità del Concetto Libertà
Oggetto Materia Causalità della Materia
Necessità Libertà = Necessità Legge della Libertà
Libertà sotto la Legge della Libertà (Assoluta Autonomia)
Legge Morale (‘) Come si vede, qui la realtà del principio
morale non è la realtà già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico
dei fatti naturali o nel mondo giuridico della convivenza sociale , ma la
realtà di ciò che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime
due specie di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi
naturali) o della coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui
ora si tratta, è sotto la categoria della contingenza, della libertà
(legge morale). «
— LIV — Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto
è a un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina da
sè dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indi- pendente e libero
— il che costituisce la materia della legge morale —, e un principio
pratico, in quanto l’io im¬ pone da sè a sè stesso 1’ attuazione della
propria natura — il che costituisce la forma (imperativa) della legge
mo¬ rale —. Ogni singolo io è libero, ecco il principio teo¬ rico ;
Ovatterai ogni singolo io come un essere libero, ecco il principio
pratico derivante, sotto forma di comando , da quel principio teorico. In
sostanza la legge pratica della libertà potrebbe formularsi così : “
Opera secondo la cono¬ scenza che hai della natura e del fine originario
degli es¬ seri Giusta i principi della Dottrina della Scienza, le
cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo, che le nostre
idee ; di qui l’armonia tra la determina¬ zione teorica degli oggetti e
gl’ imperativi morali che da questa determinazione teorica scaturiscono
rispetto agli og¬ getti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei fenomeni
con la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la na¬
tura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo volere se non
ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo impulso non è la legge
morale, ma^ legge morale non può nulla comandare il cui oggetto non sia
nella sfera di questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve
porre sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può
far ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo mondo mediante
la rappresentazione ; e la sua libertà, che è un principio pratico, esige
che questa determinazione teo¬ rica da parte del pensiero si mantenga e
si completi me¬ diante l’azione da parte della volontà. L’azione della
li- LV berta dell’ io sul mondo
determinato come rappresenta¬ zione consiste nella modificazione di uno
stato del mondo stesso mercè il dominio di un concetto anteriormente
posto ; è la produzione di una realtà conformemente a un’idea data
come suo principio ; significa, per conseguenza, proprio l’in¬ verso
della rappresentazione, la quale è la determinazione di un concetto
secondo una realtà anteriormente posta. E come l’enigma della
rappresentazione, ossia il rapporto tra la cosa e l’idea, trovava la sua
soluzione nell’identità ori¬ ginaria dei due termini, essendo la cosa un
prodotto in¬ conscio dell’ io, similmente qui il l’apporto tra il
concetto e la realtà ha il suo fondamento nel fatto che la produ¬
zione di questa realtà non è la produzione di una cosa in sè, di una
realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo esteriore alla coscienza, ma
è sempre uno stato di coscienza, una determinazione dell’ io. E allora
non è più questione di sapere come sia possibile nel mondo una modificazione
da parte della libertà, poiché, essendo il mondo esso stesso un prodotto
della libertà , un limite che l’io pone a sè stesso, è questione di
sapere come sia possibile, mediante la libertà, un cangiamento nell’io,
un’estensione dei suoi limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di
questa modifi¬ cazione, è l’io limitato., ossia l’io empirico, e che la
legge della libertà, sotto la quale si operano nell’ io empirico
queste modificazioni, esprime l’io puro, l’io assoluto, è evidente che il
problema circa la realtà del principio mo¬ rale, circa l’attuazione della
libertà , si riduce , in fondo , alla questione già esposta anteriormente
circa i rapporti tra l’io empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto
(*). (‘) Sittenlehre, pp. 63-75 (nostra traduz. pp. 63-74). — Cfr.
anche prec. pp. XLI-XLII. — I.VI — Per
dedurre ora la realtà e la conseguente applica¬ bilità del principio
dell’ etica, bisogna dedurne la materia e la sfera d’ azioue, bisogna
stabilire, cioè, anzitutto l'og¬ getto della nòstra attività in generale
('), poi la causalità reale dell’essere ragionevole (*). — Quanto al
primo punto si ha questo teorema: “ L’essere l'agionevole non può
attri¬ buirsi nessun potere, senza pensare in pari tempo qualcosa
fuori di sè a cui quel potere sia diretto „ ; egli, infatti, non può
attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e determinate come
possibili per opera della libertà, e non può pensare nessun’ azione come
reale e determinata, senza sup¬ porre all’ esterno qualcosa su cui quest’
azione sia eser¬ citata ( 3 ). Esiste, dunque, fuori di noi e posta dal
pensiero, una materia a cui la nostra attività si riferisce e che
può essere modificata all’ infinito. — Quanto al secondo punto si
ha quest’altro teorema: u L’essere ragionevole non può trovare in sè
nessun’ applicazione della propria libertà, ossia nessun volere reale,
senza in pari tempo attribuire a sè stesso una reale causalità o
efficienza sul mondo esterno r , e non può attribuirsi una siffatta causalità
o.efficienza, senza deter¬ minarla in una certa maniera. Ora, l’attività
pura non può essere determinata in sè, altrimenti non sarebbe più pura
; essa non può essere 'determinata se non da ciò che le si oppone,
ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono es¬ sere percepiti se
non nell’esperienza sensibile e, inquanto oggetto d’intuizione sensibile,
consistono in una diversità o varietà di materia. Onde l’io, il quale non
sarebbe at- (*) Ibid. pp. 75-88 (ibid. pp. 75-87). (*j
Ibid. pp. 89-101 (ibid. pp. 87-98). ( 3 ) Ibid. pp. 75, 79 e 81
(ibid. pp. 75, 78 e 80). « LVII —
tivo se non si sentisse limitato, viene posto come un’ at¬ tività che
preme, per allargarli, sopra i limiti entro cui lo rinserra la diversa
materia che gli resiste, il nou-io che gli si oppone. L’essere
ragionevole, dunque, esercita una causalità reale nel mondo sensibile, e
tale causajit.à con¬ siste non già nel creare o distruggere la materia su
cui si esercita — tale materia è condizione indispensabile per
l’attività dell’essere ragionevole —, ma nell’introdurvi ul¬ teriori
determinazioni nuove ; u io ho causalità „ significa sempre: u io allargo
i miei confini „, che vai quanto dire: “ io attuo progressivamente il
concetto di libertà — se¬ condo che mi è imposto dalla legge morale —,
pur non giun¬ gendo mai a un’ attuazione completa „. Di guisa che la
no¬ stra esistenza, mentre uel mondo intelligibile è legge mo¬
rale, nel mondo sensibile è azione reale: il punto in cui le due
esistenze si riuniscono è la libertà intesa come facoltà assoluta di
determinare 1’ azione mediante la legge (*). Risulta da quanto
precede che il principio della mo¬ ralità, ossia la libertà, non può
attuarsi se non opponendo all’attività pura dell’ io una limitazione o un
sistema di limitazioni, e imponendo alla medesima attività un
progres¬ si Ibid. pp. 91-92 (ibid. pp. 89-90). — Abbiamo qui una
delle idee fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè: l’impossibilità per
noi di separare il sensibile dall’intelligibile, la negazione del
dualismo, l’as¬ surdità di concepire nell’ àmbito della coscienza un
carattere noume- nico radicalmente distinto dal carattere fenomenico.
Secondo il Fichte — scrive il Léon (op. cit. p. 269) — il sensibile è la
condizione per l’intelligibile....; Benza il sensibile, il quale
determinandolo lo attua, il puro intelligibile rimarrebbe allo stato di
potenza indeterminata e vuota. Questa concezione segua la rovina del
misticismo, che pretende isolare lo spirito dal corpo e relegarlo in una
sfera chimerica ; l'Io iichtiano non è fatto di singoli pezzi separabili
ad arbitrio ; esso forma in tutti i suoi elementi una gerarchia, un vero
organismo. LVIII sivo
ampliameuto di questa limitazione o sistema di limi¬ tazioni. Il che si
verifica anche quando si tratti non di un fine ultimo, come la libertà
assoluta, ma di fini intermedi. Il più spesso’ci accade di non poter
attuare immediata¬ mente un determinato fine scelto dalla nostra volontà,
e siamo costretti, per conseguirlo, a servirci di certi mezzi già
determinati in* antecedenza senza il nostro intervento : non perveniamo
al nostro fine se non attraverso una serie di gradi interposti ; che
equivale a dire : tra il sentimento da cui sono partito con la volontà e
il sentimento a cui mi sforzo di giungere intercedono altri sentimenti,
di cui ognuno è l’esponente dei limiti che mi si oppongono, li¬
miti che con la mia causalità, con la mia azione, io fo in¬ dietreggiare
ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva- mente la mia attività
reale. La mia causalità, dunque, ap¬ pare come un’azione continua e
diversa, come una serie ininterrotta di sforzi e di sentimenti svariati ;
poiché essa è assolutamente una e identica in quanto attività, ma
pre¬ senta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della
multiforme resistenza che incontra da parte degl’ infiniti oggetti
esterni; — esterni, s’intende, e posti indipendente¬ mente da noi, per
chi non adotti o ignori il punto di vista della filosofia trascendentale
e rimanga al punto di vista della coscienza comune —. Intesa
nel modo descritto, la causalità dell’ essere ra¬ gionevole contiene in
sé la sintesi assoluta della cono¬ scenza e dell’ attività,
determinantisi reciprocamente nella concezione e nel perseguimento di un
medesimo fine. L’es¬ sere ragionevole, infatti, non ha una conoscenza se
non in se¬ guito a una limitazione della propria attività (tesi); ma
d’altro canto non ha attività se non in seguito a una conoscenza
LIX (antitesi) ; conoscenza e attività
sono poste come identiche nella volontà (sintesi) ( l ). Come si ottiene
questa sintesi? Basta pensare all’ essenza originaria dell’ io
oggettivamente considerato : sappiamo che tale essenza è assoluta
attività e nuli’altro che attività; e poiché l’attività,
oggettivamente presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o accade di cui
egli non abbia coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un im¬
pulso, vien posto altresì iu esso un sentimento di questo impulso. Il
sentimento o coscienza primitiva dell’impulso è, dunque, l’anello
sintetico in cui con l’attività è posta la conoscenza e con la conoscenza
l’attività. Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di
vista pratico la conoscenza e l’attività sono inseparabili, la co¬
scienza che accompagna qui l’impulso non è affatto la co¬ scienza
riflessa e iu nessun grado una riflessione libera ; in essa non c’ è
neppure quella specie di libertà che caratte¬ rizza la rappresentazione e
che ci permette di non rappre¬ sentarci l’oggetto, di fare cioè
astrazione da esso ; è una coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi
con necessità, è un sentimento di cui non siamo in nessun modo
padroni. Il sistema d’impalisi e di sentimenti di che s’intesse 1’
io empirico oggettivo deve quindi concepirsi come na¬ tura, come la
nostra natura, come cioè qualcosa di dato, di non prodotto da noi, d’
indipendente dalla libertà , ma su cui la libertà può esercitarsi, e si
esercita, allorché l’io-soggetto ne fa oggetto di riflessione e consente
o no a soddisfarlo ; e invero, tosto che riflettiamo sui nostri
impulsi originari, non siamo più dominati da essi ; sono essi, invece,
dominati da noi, perchè dipende da noi asse¬ di Ibid. pp. 102-105
(ibid. pp. 99-102). condarli o no ; comincia allora il vero
ufficio della nostra libertà cosciente. Nasce così la differenza tra la
facoltà appetitiva inferiore del semplice impulso di natura e la
facoltà appetitiva superiore del medesimo impulso sottoposto alla
riflessione e alla libertà (*). Giova chiarire meglio la facoltà
appetitiva inferiore, prima di passare alla superiore. Abbiamo detto che
essa costituisce ciò che in noi si chiama natura; ma bisogna
distinguere la natura nostra dalla natura delle cose in cui regna il puro
meccanismo. Nel mondo meccanico non c’è attività propriamente detta, c’ è
soltanto una trasmissione di urti attraverso tutta la serie di cause ed
effetti, senza che nessun anello produca o modifichi la forza
trasmessa. Nella natura nostra, al contrario, c’è una vera spontaneità,
la quale non è ancora la libera causalità del pensiero, del concetto,
perchè è una necessaria determinazione dell’esi¬ stenza reale per opera
di questa esistenza stessa, ma sta tuttavia al disopra del puro
meccanismo, perchè consiste in una determinazione proveniente da una
serie di cause ed effetti disposta non più secondo un ordine lineare di
suc¬ cessione, sì bene secondo un ordine ricorrente di recipro-
canza ; quivi, infatti, le singole parti sono a un tempo ef¬ fetti e
cause del tutto, onde si ha quel che si dice un or- ( l ) Ibid.
pp. 105-109 (ibid. pp. 102-106). — Per essere più chiari : l’impulso e il
sentimento che l’accompagna mancano di libertà; la volontà e la
riflessione che ne è condizione hanno per essenza la li¬ bertà; a parte,
però, questa differenza di capitale importanza ma sol¬ tanto formale,
l’impulso e il sentimento, per quanto riguarda il loro contenuto
materiale, sono identici alla volontà e alla riflessione; l’og¬ getto a
cui tendono necessariamente i primi diventa l’oggetto libe¬ ramente
accettato o ripudiato dalle seconde. LXI —
gallismo, ossia una costituzione, la quale, lungi dal dipen¬ dere da
un’azione esterna, Ira in sè stessa il principio della propria determinazione,
è dotata insomma di spontaneità,. La reciprocanza di azione tra le parti
di un tutto orga¬ nico in natura si spiega così: a ciascuna di esse le
altre non lasciano che una certa quantità di realtà, onde cia¬
scuna parte per la rimanente realtà che le manca non ha che una tendenza
(o impulso) risultante dallo stato de¬ terminato delle altre parti :
ciascuna tende a formare il tutto, a integrarsi con la realtà delle altre
; e cosi in un’ unità organica la realtà è in proporzione inversa
della tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza di realtà; realtà e
tendenzfP (o impulso) si completano a vicenda ; ciascuna parte tende a
soddisfare il bisogno di tutte, e tutte a loro volta tendono a soddisfare
il bisogno di ciascuna ; ogni singola parte tende a combinare la
pro¬ pria essenza e la propria azione con l’essenza e l’azione
delle rimanenti, e questa tendenza giustamente si dice im¬ pilino
plastico (Bildungstrieb), cosi nel senso attivo come nel senso passivo
della parola, perchè è la facoltà a un tempo così d’imprimere come di
ricevere forme. Questa facoltà organizzatrice è universale, essenziale,
inerente a tutte le parti e a tutti gli elementi, onde ciò che si chiama
un tutto naturale, ossia un tutto chiuso, può altresì chiamarsi un
prodotto organico della natura, a costituire il quale certi elementi
della natura, in virtù della causalità di cui questa è dotata, hanno
riunito il loro essere e il loro operare in un solo e medesimo essere, in
un solo e medesimo ope¬ rare ('). (*) (*) Ibid. pp. 109-122
(ibid. pp. 106-118j. LXI1
Ciò posto, ecco quanto accade in quel tutto organico della natura che è
1’ io individuale, empirico, a partire dai più bassi impulsi sino alle
più alte tendenze. Iu ciascun io individuale, appunto perchè esso è
un tutto organico della natura, l’essenza delle parti consiste in
una tendenza a conservare unite a sè altre determinate parti, e siffatta
tendenza, se attribuita al tutto, dicesi im¬ pulso all' autoconservazione
; alla conservazione, s’intende, non dell’esistenza in generale, che è
un’astrazione, ma di un’esistenza determinata. L’impulso
all’autoconservazione, che è poi la tendenza a perseverare nel proprio
essere, porta 1’ essere organico a inferire a sè certi oggetti
della natura; di qui l’appetito o la brama verso questi oggetti,
appetito o brama dapprima vaghi e indeterminati, quasi come il primo
grido inarticolato dell’orgauismo ancora in¬ fante, poi sempre più
determinati e differenziati, come il linguaggio articolato dell’orgauismo
adulto. E — si noti bene — non già la diversità degli oggetti determina
lo specificarsi dei vari appetiti e desideri ; al contrario, i di¬
versi modi del desiderio, mediante le proprie determina¬ zioni, si creano
i propri oggetti. La coscienza o l’intelli¬ genza* che ci rappresenta gli
oggetti non è che il riflesso dei nostri istinti,, inclinazioni,
tendenze, della nostra vita pratica in generale; non, dunque, gli oggetti
suscitano, quasi loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il
proprio fine in sè stessi, nella propria soddisfazione, e noi non
per¬ seguiamo, attraverso gli oggetti, altro che i nostri desideri
esteriorizzati nelle cose (‘). Ma se è così, se ciò che ci sfor¬ ziamo
d’ottenere è non l’oggetto — il quale si riduce a (‘) Ibid. p. 124
(ibid. p. 120). LXIII im simbolo
—, sì bene la soddisfazione della nostra _ten- • denza, della nostra
brama, in altri termini, il nostro godi¬ mento, il nostro piacere, si
comprende come, tanto dal punto di vista della pura natura irriflessa, quanto
da quell» della riflessione sulla natura, sia il piacere il fine supremo
della nostra condotta ; di guisa che, nel primo passaggio imme¬
diato dallo stato di pura natura allo stato di coscienza ri¬ flessa, la
nostra azione cangia di forma — da necessaria e istintiva diventa libera
e riflessa, e tale cangiamento ne modifica radicalmente il carattere — ,
ma il suo contenuto rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al
punto da far sembrare che l’uomo con la riflessione non si elevi al
di sopra della natura, se non per sottoporlesi meglio e perse¬
guire con pili luce e sicurezza il fine edonistico. Ora, finché è spinto
al piacere e dipende dagli oggetti dei suoi appetiti, ]' uomo
rimane confinato nell’ esercizio della facoltà appeti¬ ti va inferiore.
Ma l’attività ragionevole in lui tende con co- 1 scienza e riflessione a
determinarsi assolutamente da sé, a rendersi indipendente da ogni oggetto
che non sia essa stessa, quindi anche e soprattutto dal piacere; e allora
la nostra azione si differenzia da quella compiuta allo stato di
pura natura, oltreché per la forma, anche per il contenuto, es¬
sendo questo costituito non pili dal piacere — comunque ricercato, per
istinto cieco e necessario, ovvero per volontà , cosciente e libera — ,
ma dalla libertà stessa, che è l’es senza nostra e il nostro vero fine
supremo. L’ uomo si eleva cosi all’esercizio della facoltà appetitiva
superiore, di quella che appartiene non a lui prodotto di natura, ma a
lui spi¬ rito puro (*). (*) Ibid. pp. 122-131 (ibid. pp.
118-127). LXIV — Ciò non ostante, le due
facoltà appetitive, l’inferiore e la superiore, costituiscono un solo e
medesimo impulso origi¬ nario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi
: nella facoltà appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi
conce¬ pisco come oggetto, uella facoltà appetitiva superiore,
ossia nell’impulso spirituale, mi concepisco come soggetto, mentre
tutta la mia essenza si ritrova nell’ identità del soggetto e dell’oggetto,
ò soggetto-oggetto. Dall’azione reciproca dei due impulsi nascono tutti i
fenomeni dell’ io ; ma en¬ trambi si fondono in un unico e medesimo io ,
onde deb¬ bono essere conciliati, unificati ; ed ecco in qual modo
: l’impulso superiore rinunzia alla purezza della propria at¬
tività — purezza che consiste nel non essere determinato da un oggetto —,
lasciandosi determinare da un oggetto, e l’impulso inferiore rinunzia al
piacere in quanto fine, al piacere per il piacere ; si ha così per risultato
della loro unione un’ attività oggettiva, il cui oggetto e fine
ultimo è un’ assolute libertà, un’assoluta indipendenza da ogni na¬
tura;'un fine, questo, proiettato all’infinito e perciò irrag¬ giungibile
— raggiungerlo sarebbe porre termine in pari tempo all’attività e alla
natura che dell’attività è il limite correlativo, la condizione
indispensabile —; un fine , tut¬ tavia , a cui è possibile avvicinarsi
sempre più, facendo uso della libertà e della facoltà appetitiva
superiore ('). (*) Ibid. p. 131 (ibid. p. 127). — Non si obietti
qui — dice il Fichte ( Sittenlehre, p. 150, nostra traduz. pp. 145-146) —
che un’approssima¬ zione all’infinito è contraddittoria, in quantoche un
infinito a cui po¬ tessimo avvicinarci cesserebbe d’essere un infinito e
diverrebbe in certo qual modo suscettivo di misura. L’infinito non è una
cosa, un oggetto posto come dato e verso il quale si avanzerebbe come
verso un termine fissato in precedenza, ma è igu ideale, ossia appunto
ciò che si oppone alla realtà del dato, ciò che nessun dato può esaurire
; LXV — ' Infatti, grazie alla sintesi dianzi
descritta, l’io svelle sè stesso da tutto ciò che sembra trovarsi fuori
di lui, entra in possesso di sè e si pone dinanzi a sè come asso¬
lutamente indipendente, essendo l’io riflettente indipen¬ dente per sè
stesso, l’io riflettuto tutfc’ uno con l’io riflet¬ tente, ed entrambi
uniti in una sola inseparabile persona, alla quale il riflettuto dà la
forza reale e il riflettente la co¬ scienza. La persona così costituita non
può più agire ormai se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto
ciò che ha la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto
della libertà , cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non
liberamente, anche quando non faccia che assecondare l’im¬ pulso di
natura , perchè anche in tal caso egli non opera meccanicamente ma con
coscienza, e in lui non più il cieco impulso naturale , si bene la
coscienza da lui acqui¬ stata di questo impulso naturale è il primo fondamento
del suo operare, il quale perciò è libero — come poco fa no¬ tammo
— se non nel contenuto, almeno nella forma (‘). Ma che significa
essere libero e agire liberamente? Prima di giungere alla riflessione
l’io è di natura sua e questo ideale clie portiamo in noi stessi
indietreggia dinanzi a noi man mano che ci eleviamo verso di esso. Noi
possiamo bene allar¬ gare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso la
libertà, ma non pos¬ siamo mai sopprimere totalmente questi limiti,
attuare cioè la li¬ bertà; a qualunque grado di liberazione noi si
giunga, la libertà as¬ soluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con
l’idea di un progress o infinito il Fichte risolve la contraddizione tra
la libertà e la natura : la natura deve tendere alla libertà come a un
fine infinito, e se l’infi¬ nito potesse essere attuato, la natura
s’identificherebbe con la li¬ bertà ; la realtà di questo progresso non è
nel conseguimento — im¬ possibile — di un fine fissato a un dato punto,
ma nel valore sempre più alto della nostra azione. (Cfr. Léon, op. cit.
p. 276). (*) Ibid. pp. 133-136 (ibid. pp. 129-132).
LXVI libero, ma per un’ intelligenza fuori di lui,
non già per sè stesso ; per essere libero anche agli occhi propri egli
deve porsi come tale , e come tale non si pone se non allorché
diventa cosciente del suo passaggio dallo stato indetermi¬ nato a uno
stato determinato. L’ io determinante e l’io determinato scftio un solo e
medesimo io, prodotto dalla sin¬ tesi del inflettente e del riflettuto ,
dell’ io-soggetto e del- 1’ io-oggetto. Per siffatta sintesi la
concezione di un fine di¬ venta immediatamente azione e l’azione diventa
conoscenza della libertà. Senonchè l’indeterminatezza non è
soltanto uon-determinatezza (ossia zei'o), sì bene un deciso
librarsi tra più possibili determinazioni (ossia una grandezza ne¬
gativa) ; altrimenti essa non potrebbe essere posta e sa¬ rebbe un nulla.
Ora, finché non intervenga la facoltà appeti¬ tiva superiore, non si vede
in che modo la libertà possa scegliere tra più determinazioni possibili;
perchè: o si trova in presenza del solo impulso naturale, e allora
non ha nessuna ragione per non seguirlo, anzi ha ogni ragione per
seguirlo; ovvero si trova in presenza di più impulsi — la quale ipotesi
non si comprende nel caso di cui ora si tratta — e allora seguirà
naturalmente il più forte ; nel- l’una e nell’altra ipotesi, dunque,
nessuna possibilità d’in¬ determinatezza. Siccome però l’essere
ragionevole non può esistere senza quella tra le condizioni della sua ragione¬
volezza che si chiama sentimento morale e consapevolezza della libertà,
bisogna bene ammettere, nell’ impulso origi¬ nario delirio, un impulso ad
acquistare la coscienza e della moralità e della libertà. Ma tale
coscienza, si è visto, ha per condizione uno stato indeterminato, e non
si produce se l’io obbedisce unicamente all'impulso naturale ; occorre,
dunque, che vi sia nell’io un impulso o tendenza a trarre dal
proprio Lxvn seno, e non già dall’impulso
naturale, il contenuto o l’oggetto dell’azione; occorre, in altri
termini, che vi sia una ten¬ denza alla libertà per sè stessa-, e che
alla libertà formale — quella per cui lo stesso risultato, che la natura
avrebbe prodotto se avesse potuto ancora agire, nasce invece da un
nuovo principio, da una nuova forza, ossia dalla coscienza libera — si
aggiunga la libertà materiale — quella per cui si ha non solo un nuovo
principio operante, ma altresì una serie di effetti tutta nuova anche nel
contenuto, onde non solo è l’intelligenza la forza che opera, ma essa
in¬ telligenza opera qualcosa di ben diverso da ciò che avrebbe
operato la natura — (‘). In virtù della libertà materiale io mi
sento emancipato dall’ impulso di natura, gli oppongo resistenza, e tale
resi¬ stenza, considerata come essenziale all’ io, quindi come im¬
manente, è essa stessa un impulso, l ’impulso pwro*dell’ io. L’impulso
naturale si manifesta come iuclinazione e, per il fatto che io posso
dominare la sua forza e sottoporla alla mia libertà, questa forza diventa
qualcosa di cui non fo stima. L’impulso puro, invece, in quanto mi eleva
sopra la natura e mi pone in grado di contrappormele con la più
semplice risoluzione, si manifesta come tale da ispi¬ rarmi stima e da
investirmi di una dignità, la quale, es¬ sendo al disopra di ogni natura,
m’ impone rispetto verso me stesso; l’impulso puro, anziché al piacere,
porta al di¬ sprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la
conserva¬ zione della mia assoluta indipendenza e libertà (*).
(*) Ibid. pp. 136-139 (ibid. pp. 132-185). (*) Ibid. pp. 139-142
(ibid. pp. 135-138). LXVI1I
L’adempimento di questa esigenza e il suo contrario significano
rispettivamente l’accordo e il disaccordo tra l’i- deale tendenza
essenziale dell’ io puro all’assoluta libertà e il reale stato
accidentale dell’io empirico ; suscitano, quindi, il mio interesse —
m’interessa, infatti, ossia tocca diretta- mente il mio sentimento, tutto
ciò che lia immediata rela¬ zione col mio impulso fondamentale (‘) —, si
accompagnano, dunque, a piacere o dolore ; ma — e questo è di
capitale importanza — si tratta qui di stati affettivi che non
hanno nulla a fare con l’affettività comune, perchè consistono in
una contentezza e in un disgusto di sè la cui natura non si confonde mai
con quella del piacere o del dolore dei sensi. Il piacere sensibile che
nasce dall’ accordo tra l’im¬ pulso naturale e la realtà non dipende da
me in quanto sono un io, ossia in quanto sono libero ; esso è tale
da strappare me a me, da rendermi estraneo a me stesso e da farmi
dimenticare in esso ; è, in una parola, involontario , e questa qualità
lo caratterizza nel modo più esatto. Al¬ trettanto vale del suo opposto,
ossia del dolore sensibile. Il piacere morale, al contrario, che nasce
dall’accordo tra l’impulso puro e la realtà, è qualcosa non di estraneo
ma di dipendente dalla mia libertà, qualcosa che potrei aspet¬
tarmi in conformità d’una regola, come non potrei aspet¬ tarmi, invece,
il piacere involontario ; esso, quindi, non mi trasporta fuori di me,
anzi mi fa rientrare in me stesso e, meno tumultuario, ma più intimo del
piacere sensibile, m’in- (‘) Intorno al concetto dell’ interesse
il Fichte fa una specie di digressione ( Sittenlehre, pp. 142-147, nostra
traduz. pp. 138-142) per¬ meglio illuminare la sua trattazione sul
sentimento morale e sulla coscienza morale.
— LXIX -r fonde, in quanto soddisfazione e auto-stima, nuovo
coraggio' e nuova forza. Similmente il suo opposto, ossia il dolore
morale, appunto perchè dipende dalla libertà, è un rimpro¬ vero interno,
si associa a un sentimento di auto-disistima e sarebbe insopportabile se
il sentirci ancora capaci di pro¬ varlo non ci risollevasse dinanzi a noi
stessi, e non ravvi¬ vasse la coscienza della nostra natura superiore e
della no¬ stra assoluta libertà, insomma la coscienza morale fdas
Oetoissen), vale a dire : la consapevolezza immediata dell’a¬ dempimento
del dovere, dell’accordo cioè tra l’azione (nel mondo della natura) e il
fine ideale (la libertà) (‘). ' Ora, la coscienza morale si
connette strettamente con l’impulso morale, il quale è di natura mista,
perchè parte¬ cipa a un tempo dell’impulso puro e dell’impulso
naturale. Come ? Ogni volizione reale tende all’azione e ogni
azione si porta sopra un oggetto : ogni volizione reale, quindi, è
em¬ pirica. E poiché non posso agire sugli oggetti se non me¬
diante una forza fisica, la quale non proviene che dal- I’ impulso
naturale, cosi ogni fine concepito dall’intelligenza finisce per coincidere
con 1^ soddisfazione di un impulso naturale. Certo, chi vuole è l'io
-intelligenza non già la na- /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al
contenuto, il mio volere non può avere materia diversa da quella che la
natura vorrebbe anch’essa, se di volere fosse capace : non c’ è li¬
bertà circa la materia delle azioni. E allora quale causalità rimane
all’impulso puro, che pur non può esserne destituito? Affinchè rimanga
una causalità all’ impulso puro, bisogna che la materia dell’azione sia
conforme a esso non meno * (') Siltenlekre, p. 146
(nostra trai! uz. p. 142). che all’
impulso naturale. Tale duplice conformità si com¬ prende soltanto così :
1’ impulso puro nell'operare tende alla piena emancipazione dalla natura
; ma i limiti che l’attività dell' io impone a sè stessa costringono
l’operare entro i con¬ fini dell’ impulso naturale ; onde l’azione
conforme a questo secondo impulso diventa conforme anche al primo
quando al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla natura,
si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale all’infinito,
l’io si approssima sempre più all’indipendenza assoluta. Deve esservi una
serie di tal genere, che muova dal punto in cui la persona si trova posta
per la propria natura e si prolunghi all’ infinito verso il .fine supremo
e ideale — si badi bene a questo appellativo che esclude ogni
possibilità, di attuazione completa — di ogni attività, altrimenti uon
sarebbe possibile una causalità dell’ impulso puro : questa serie si può
chiamare la destinazione morale dell’ essere ragionevole finito, e
seguendola possiamo sapere in ogni momento quale è il nostro dovere. Il
principio della morale può, dunque, formularsi cosi : Adempì in ogni
mo¬ mento la tua destinazione. Quel che in ogni momento è con¬
forme alla nostra destinazione morale, ossia al fine a cui si dirige
l’impulso puro, è in pari tempo conforme all’impulso naturale, ma uon
tutto quel che è conforme all’impulso natu¬ rale è conforme alla nostra
destinazione morale. Appunto perciò l’impulso morale è misto: esso riceve
dall’impulso na¬ turale la materia dell’operare, dall’impulso pui'O la
forma; per esso io debbo agire con la coscienza di adempiere un do¬
vere ; gl’ impulsi ciechi della natura, come la simpatia, la compassione,
la benevolenza spontanea, in quanto tali non hanno nulla di morale,
perchè contraddice alla moralità il lasciarsi spingere ciecamente.
L’impulso morale differisce — 1.XX1 profondamente dal
cieco impulso naturale, e molto ai av¬ vicina all’ impulso puro, perchè
la sua causalità è ambigua (può avere effetto e può anche non averne),
perchè esso co¬ manda: sii libero (cioè: sii in grado di fare e di
a'stenerti dal fare). E in questo comando appare per la prima volta
un imperativo categorico, un imperativo che è un prodotto nostro proprio
(nostro in quanto siamo intelligenze capaci di agire per concetti), e il
cui oggetto è il fine non subor¬ dinato a nessun altro fine. L’impulso
morale, infatti, non ha per fine nessun godimento ; esso esige u la
libertà per la libertà „. È poi evidente in questa formula
imperativa il duplice significato della parola “ libertà „, la quale sta
a designare nel primo posto un operare in quanto tale, ossia un pu¬
ramente soggettivo, e nel secondo posto uno stato oggettivo che
dev’essere conseguito, ossia 1’ ultimo fine assoluto , la piena nostra
indipendenza da tutto ciò che è fuori di noi. In altri termini : io debbo
agire con libertà per divenire libero; e soltanto determinandomi da me
stesso e non se¬ guendo altro che le ispirazioni del sentimento del
dovere agisco con libertà e divengo veramente indipendente dalla
natura, veramente libero. A questa distinzione tra la li¬ bertà come
attività e la libertà come risultalo , che è di così grande importanza
nel nostro sistema, se ne aggiunge un’ altra entro il concetto stesso di
libertà intesa come at¬ tività : la distinzione, cioè, tra la forma e la
materia del- 1’ attività libera ; distinzione da cui nasce la divisione della
dottrina morale e con cui si passa all’ applicazione siste¬ matica del
principio della moralità ; di che si tratta nel terzo libro (').
(*) Ibid. pp. 142-156 (ibid. pp. 188-152).
— l.XXI! — IV. - Quest’ultimo libro si divide in tre parti:
A) la prima discorre delle condizioni formali della moralità delle
nostre azioni : B) la seconda del contenuto materiate della legge morale;
C) la terza, infine, espone la dottrina dei doveri propriamente
delta. A) Condizioni formali della moralità delle nostre azioni.
— Il principio formale di ogni moralità può enun¬ ciarsi così : “ opera
sempre secondo la convinzione che hai intorno al tuo dovere „. Questo
imperativo o legge — che presuppone naturalmente e logicamente una
libera volontà (') — si scinde in due precetti, di cui 1’ uno con¬
cerne la forma o la condizione : u procurati la convinzione di ciò che è
tuo dovere „ , 1’ altro la materia o il condi¬ zionato : “ fai ciò che
ritieni con convinzione tuo dovere 9 failo soltanto perchè lo ritieni
tale Ora, la convinzione nasce dall’ accordo di un atto della facoltà
giudicatrice con t’ impulso morale, e il criterio della giustezza della
nostra convinzione è un sentimento intimo al di là del quale non si
può risalire, perchè con esso si raggiunge 1’ espressione diretta della
nostra essenza assoluta e della nostra finalità. Per conseguenza, la
coscienza morale, che in quel senti¬ mento ha radice, va immune per
natura sua da dubbio e da errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di
rettifiche da parte di un’ inconcepibile coscienti più interiore, è
essa stessa giudice di ogni convinzione e le sue sentenze non
ammettono appello. Voler oltrepassare la propria coscienza morale per
timore che possa essere erronea, sarebbe come voler uscire fuori di sè,
voler separarsi da sè stesso. È condizione formale della moralità ,
quindi, non decidersi (*) Della volontà iu particolare e della sua
natura cosi opposta al juro meccanismo, il Pielite tratta nel § 14 della
Sitlenlehre, pp. 157-103 (nostra traduz. pp. 155-160).
V — LXX1II — all’azione se non per soddisfare
alla propria coscienza mo¬ rale, all’impulso originario dell’io puro,
senza sottostare ad altra autorità che non sia quella della propria
convin- zione, del proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza con¬
sultare la sua coscienza, senza essersi prima assicurato j delle
decisioni di questa, agisce, come suol dirsi, senza co¬ scienza, e
perciò immoralmente, è colpevole e non può im¬ putare la sua colpa ad
altri che a sè stesso (*). Similmente opera senza coscienza, e perciò
senza moralità, chi si lascia guidare dall’autorità altrui, perchè la
convinzione della co¬ scienza morale e la certezza della sua giustezza
non na¬ scono mai da giudizi estranei, ma traggono origine esclu¬
sivamente dal soggetto : sarebbe una flagrante contraddi¬ zione far-e di
qualche cosa che non sono io stesso un sen- • timento di me stesso. In
conclusione: in tutta la nostra condotta (si tratti della ricerca
scientifica, ovvero della vita pratica) 1’ azione , per essere morale,
deve uscire da un’ intima convinzione, perchè soltanto allora essa
esprime veramente la nostra autonomia spirituale ; ogni azione
fatta per autorità (si tratti dell’ accettazione di una verità che
non risponde in noi a una convinzione, ovvero del compi¬ mento di un’
azione che accettiamo come un ordine) va direttamente contro il verdetto
della coscienza, è male, è I colpa (*). (') Giova ricordare
che per il Fichte non vi sono azioni indiffe¬ renti; tutte debbono essere
riferite alla legge morale, uon foss’altro per assicurarsi che sono
lecite; onde anche le azioni più indifferenti iu apparenza, vanno
sottoposte a matura riflessione, sempre iu vista della legge
morale. ,(*) Siltenlehre, pp. 1 B8-175 (nostra tradnz. pp.
KìO-172). — Risulta qui ancora una volta definitivamente stabilito il
primato della ragione pratica sulla ragione teorica; di quella ragione
pratica che agli occhi — LXX1V — « >
E facile argomentare da ciò quale sia la causa del male o della
colpa nell’essere ragionevole finito. Quel che in generale costituisce
l’essere ragionevole trovasi neces¬ sariamente ih ciascun individuo
ragionevole, altrimenti questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la
legge morale, P io individuale, finito, empirico, che vive nel tempo,
deve tendere a divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, ori¬
ginario, infinito, extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla condizione
del t^mpo, non può acquistare la chiara co¬ scienza di tutto ciò che
primitivamente e originariamente fa l’essenza dell’Io, se non mediante un
lavoro successivo e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più
o meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non abbiano
compiuto nell’ io empirico individuale il passaggio dallo stato d’
irriflessione al massimo sviluppo della co¬ scienza morale, c’ è sempre
luogo nella nostra condotta al- l’immoralità, alla colpa, al male.
Conviene, dunque, seguire questa storia dello sviluppo della coscienza
emjnrica, per vedere attraverso quali fasi germogli e maturi il seme
della moralità, notando a tal proposito ohe tutto sembrerà suc¬
cedere come casualmente, perchè tutto dipende dalla libertà, e in nessun
modo da una meccanica legge di natura ('). Anzitutto, e al suo
grado pivi dàsso, l’io empirico si riduce a un’attività istintiva ;
l’istinto, senza dubbio, si ac¬ compagna con la coscienza, dista però
ancor molto dalla del Fichte è veramente la ragione, e nella quale
si attua l’accordo dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e del soggetto,
della produzione e della riflessione, e che ci fornisce l’intuizione, la
coscienza immediata dell’ Io assoluto. E risulta anche come la morale del
Fichte fluisca per essere in sostanza una morale del sentimento.
(<) Jhid. pp. 177-178 (ibid. pp. 171-175).
riflessione; l’uomo allora segue meramente e semplicemente M’ impulso
naturale e, così facendo, è libero per un’ intelli¬ genza fuori di lui,
ma per sè stesso è puro animale. I Tuttavia l’uomo può riflettere
su questo stato; e tale riflessione è per natura sua un atto di libertà :
essa non è nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto
mo¬ ralmente obbligatoria: chi vuole adempiere la propria de¬
stinazione e acquistare in sè la coscienza dell’ Io puro, deve riflettere
su questo suo stato, e mercè tale riflessione si eleva, quasi, sopra sè
stesso, si stacca dalla natura, se ne distingue e le si oppone come
intelligenza libera ; ac¬ quista cosi il potere di differire ‘la propria
autodetermi¬ nazione e di scegliere quindi tra più modi — la
pluralità dei modi nasce appunto dalla riflessione e dal
differimento della risoluzione — di soddisfare l’impulso naturale.
Tale scelta si compie secondo una massima liberamente adottata
dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa dal prin¬ cipio
supremo che scaturisce dalla legge morale e che non è, come la massima,
un libero prodotto della coscienza em¬ pirica ; per conseguenza, nel caso
di una massima cattiva, la colpa spetta tutta all’ io individuale. Ora,
in questa se¬ conda fase di sviluppo, dovuta al primo grado della
rifles¬ sione, l’io acquista coscienza del fine a cui tende 1’ im¬
pulso naturale, lo fa suo e adotta come regola di .condotta la massima
della felicità. L’uomo rimane dunque ancora un animale, ma diventa un
animale intelligente, prudente: è già formalmente libero; soltanto mette
la sua libertà al servigio dell’ impulso naturale. La massima della
felicità, per quanto sia un prodotto della sua libertà, non può es¬
sere diversa da quella che è, e, una volta posta, egli le ob¬ bedisce
necessariamente. Senonchè la massima stessa, e con I.XXVT —
essa il carattere ohe ne risulta, non ha nulla di neces-, sario e
non è detto che l’io individuale debba arrestarvi»]/ se vi si arresta è
soltanto sua colpa; nulla lo costringe L progredire, è vero, ma egli deve
e può progredire, facenti uso della propria libertà ed elevandosi
liberamente a qn piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva
ile non dal fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la
propria libertà, onde a ragione il Kant riteneva il male radicale innato
nell’uomo e nondimeno prodotto dalla sua libertà. Quando però
— con nuovo miracolo della sua sponta¬ neità — 1’ uomo, nella fase ora
descritta, esercita la pro¬ pria libertà, una seoonda riflessione si
compie, che, al pari della precedente, ha carattere non di necessità
fisica o lo¬ gica, ma di obbligatorietà morale, e in virtù di essa
nasce una terza fase, nella quale l’io individuale prende coscienza
della sua opposizione rispetto alla natura e della sponta¬ neità del
proprio operare, ed erige questa spontaneità stessa, ossia la propria
volontà, a nuova massima di con¬ dotta. Non piu la ricerca della felicità
guida ora le sue azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal
nou-io la quale non ammette freno al proprio capriccio e fa di sè
stessa il proprio idolo. Si ha, quindi, un progresso verso la libertà
assoluta, ma non ancora la vera libertà morale, non ancora la volontà
riflessa sottoposta alla legge del do¬ vere. Anzi, mentre la massima
della felicità è, si, man¬ canza di legge, ma non addirittura
rovesciamento della l e gg®> n ® ostilità contro questa, lt^ massima
della volontà egoistica e arbitraria, invece, può portare sino alla
trasgres¬ sione intenzionale della legge. Il carattere della
condotta ispirata a tale massima è soltanto la soddisfazione
dell’amor L.XXVII proprio, dell’
orgoglio, del bisogno di dominare, ottenuta a qualsiasi costo, anche di
dolori corporei ; e appunto questa idolatria della volontà egoistica
spiega pressoché tutta la storia umana : essa riempie grandissima parte
del teatro del inondo con le sue lotte e le sue guerre, con, le sue
vittorie e le sue sconfitte. u II soggiogamento dei corpi e delle anime
dei popoli, le guerre di conquista e di reli¬ gione, e tutti i misfatti
cou cui l’umanità si è disono¬ rata non si spiegano altrimenti. Che cosa
indusse l'inva¬ sore, l - oppressore a perseguire il proprio fine con pericolo
e fatica ? Sperava egli forse che per tal modo si ac¬ crescerebbero le
fonti dei suoi godimenti sensitivi? No davvero. 1 Ciò ohe io voglio deve
accadere, a quel che io dico si deve stare ’ : ecco 1’ unico principio
che lo mo¬ veva „ (‘). Un siffatto culto della volontà egoistica
certa¬ mente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché
giunge anche al disinteresse: non al disinteresse che deriva dall'
obbedienza al dovere e che solo ha significato morale, ma a un
disinteresse di carattere impulsivo, derivante dal desiderio di suscitare
ammirazione, di cattivarsi stima, e che rimane tuttora una forma di amor
proprio e di orgoglio. E un culto che porta sino al sacrifizio della vita
— e ci vuole del coraggio a vincere in noi la natura — , ma questo
sacrifizio è senza valore etico, perché è fatto soltanto al proprio io
individuale, è puro egoismo. «Certo, rispetto alla fase precedente, la
quale non mirava che alla felicità sensibile, la fase ora descritta segna
un progresso e sta come a rappresentare 1’ età eroica dello sviluppo
morale ; ma dal punto di vista della moralità nulla di più perico¬
li Ibid. p. 190 (ibid. p. 186).
ì.xxvm luso che arrestarvisi, perchè essa ci abitua a
considerare come nobili e meritori, come rari e ammirevoli, come
opera mpererogativa, atti che sono semplicemente dove¬ rosi, e a
considerare d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio nostro si fa da Dio,
dalla natura, dagli altri uomini, come nulla più che doveri verso di noi.
Con siffatte pretensioni la massima della volontà egoistica e senza,
freno, adottata in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce
ad¬ dirittura col corrompere le stesse radici della moralità : “
>1 pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente giusto, in
quanto che nessuno dei due ha il menomo va¬ lore ; ma il secondo è assai
più difficile a convertire del primo „ (*). Per elevarsi al
disopra di questa terza fase basta che l’uomo — con un terzo atto di
riflessione, al pari dei precedenti spontaneo ma inesplicabile, non
necessario ma obbligatorio — acquisti coscienza chiara di quell’
originario impulso all’ indipendenza assoluta che, considerato
(analo¬ gamente a un eminente grado di capacità intellettuale) come
un dono gratuito della natura, può chiamarsi genio della virtù, ma che,
allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce un carattere assai immorale. Mercè
la riflessione, quell’ im¬ pulso si trasforma in una legge assolutamente
imperativa, e poiché ogni riflessione limita e determina ciò che è
ri¬ flettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla riflessione,
e da cieco impulso verso una causalità sconfinata diventerà una legge di
causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo sa di dovere assolutamente
qualche cosa ; e affinchè questo sapere si tramuti in azione, bisogna che
egli adotti la mas- (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 187).
LXXIX sima : adempì il Ino dovere perchè è tuo
dovere. Sorge così la coscienza morale, la quale impone appunto alla volontà
arbitraria, alla volontà senza regola uè freno della fase pre¬ cedente,
l’obbedienza al principio assoluto della ragione. Una volta
conseguita questa chiara coscienza del do¬ vere, la nostra condotta vi si
conforma necessariamente, essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di
proposito e con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a
mancare al nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, ap¬
punto perchè è il nostro dovere : vi sarebbe in ciò, oltre che una
contraddizione evidente, una condotta veramente diabolica, se lo stesso
concetto u diavolo „ non fosse contrad¬ dittorio (*).
Soltanto può accadere che la chiara coscienza del do¬ vere si
annebbii, si oscuri, che la riflessione non si mantenga sempre alle
altezze della moralità, e la nostra condotta, perciò, cessi di essere
conforme alla legge morale. Il do¬ vere primo, quindi, e anche il più
alto, è mantenere la coscienza del dovere in tutta l’intensità della sua
luce e «Iella sua forza. Bisogna vegliare continuamente su noi
stessi, alimentare senza tregua il fuoco sacro della rifles¬ sione;
possiamo fare di questa riflessione un’abitudine, •senza perciò renderla
una necessità, senza pregiudizio cioè della libertà, allo stesso modo
diesi può fare un’abitudine dell’irriflessione, con cui la coscienza
empirica comincia, e persistere in essa, senza renderla perciò una
necessità e senza escludere quindi 1’ esercizio della libertà ( 8
). (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 188). (*> Nella sua
Ascetih «fa Animili/ zur Murai ( Ascetica conir ap~ pendice alta Morale)
i 1708) — contenuta in Nuahgelarsene Werke , voi. Ili, pp. 119-144
e tradotta in inglese dal Kroeger nel voi.
1/XXX Se la coscienza morale svanisce del tutto, si da
non lasciar sopravvivere più nessun sentimento del dovere, noi
The sciunce of Elltics bij Fichte (1907) dianzi ricordato — il
Pielite si adopera a fornire il mozzo pratico per mantener viva o
luminosa, una volta nata per opera della libertà, la coscienza del
dovere, 'l'ale mezzo consiste ned’associazione delle idee, intermediaria
tra la ne¬ cessità della natura e la libertà della ragione, e
precisamente nel- l’associare in precedenza la rappresentazione dell'atto
futuro con la rappresentazione dell’atto conforme al dovere. Occorre, in
altri ter¬ mini, che i due propositi : 1) voglio fare quest’ azione, 2)
non voglio agire se non conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti
in ima sintesi, e la funzione propria dell’ Ascetica consiste appunto
in questa associazione permanente e anticipata del concetto del do¬
vere non solo col concetto della nostra condotta in generale il che
sarebbe ancora troppo vago e astratto — ma con i concetti di azioni
determinate, soprattutto di quelle abituali, quotidiane, in cui più fa¬
cilmente possiamo peccare per omissione o violazione del dovere; mentre
invece per le azioni eccezionali e straordinarie difficilmente manca I
intervento della riflessione e la conseguente chiarezza della coscienza.
Di qui due regole: 1) un esame di coscienza generale dei casi in cui
siamo più esposti al pericolo di cadere in colpa; 2) la risoluzione ferma
e sempre attiva di ridettero, in questi casi, sopra noi stessi e di
sorvegliarci, opponendo alla forza cieoa e alla resi¬ stenza passiva di
certi stati di coscienza, divenuti abitudini quasi invincibili, la
causalità iutelligAte della coscienza morale: è noto ohe spesso basta
ridettero sulla propria passione e rendersi consape¬ voli delle
associazioni che la costituiscono per liberarsene, dissociando
mentalmente i fattori da cui nasce e controbilanciando il piacere che ci
aspettiamo dal suo soddisfacimento col disprezzo che accom¬ pagna la
trasgressione del dovere. Ma, affinchè l’esame della propria coscienza
abbia valore etico, bisogna che non si riduca a una pura aulocontemplazione,
a un’ analisi fatta quasi per semplice giuoco estetico; bisogna, invece,
che si proponga la nostra riforma morale, il miglioramento della nostra
attività. Tale esortazione, del resto, si rivolge non già agli uomini
privi di coltura, la cui vita é tutta ri¬ volta all’azione, ond’essi non
ridettono se non per agire, ma agli artisti, ai letterati, e persino ai
lilosotì e ai sacerdoti, per i quali è frequente il grave pericolo di
dimenticare il valore pratico delle coso, di arrestarsi alla contemplazione
e di nou tradurre la speculazione in azione.
LXXXI ricadiamo in uno degli stati che precedono la moralità
e operiamo secondo la massima o della felicità o del dominio
arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci ri¬ mane ancora
un sentimento vago e intermittente del dóvere. possono verificarsi le
seguenti tre specie d’indeterminatezza corrispondenti alle tre condizioni
che rendono determinato il dovere. L’indeterminatezza può concernere: a)
la materia del dovere, cioè l’applicazione della legge morale a un
dato caso : in ciascun singolo caso tra più azioni possibili non ce
n è che una conforme al dovere ; ma, per insufficiente attenzione e
riflessione, noi cediamo segretamente, e quasi a nostra insaputa, a qualche
altra sollecitazione e perdiamo il filo conduttore della coscienza ; b)
il momento del do¬ vere : in ciascun singolo caso si deve adempiere
subito ciò che è dovere; ma, per l’affievolirsi della coscienza, ci
illudiamo che non occorra affrettarsi a ciò, procrastiniamo il nostro
perfezionamento e ci abituiamo a procrastinarlo all’ infinito ; c) la
forma del dovere : l’imperativo mo¬ rale è categorico, esige obbedienza
assoluta e incondi¬ zionata ; ma, se perdiamo di vista tale sua
caratteristica, consideriamo il dovere, anziché come un comando,
come un semplice consiglio che si può seguire quando piaccia e non
costi troppa abnegazione, e con cui si può anche transigere; di qui quei
compromessi, quegli accomodamenti con la propria coscienza che sono
altrettanti modi di elu¬ dere la legge morale, altrettante cause di
torpore per la riflessione, e che pongono nel massimo pericolo la
nostra salvezza spirituale, quando per caso non sopravvenga
dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione a rientrare in
noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’in¬ tendere il dovere, infatti,
accusa la morale di rigorismo LXXX1I
impraticabile, sotto lo specioso pretesto che l’ adempimento del dovere
impone troppi sacrifizi, quasi che non fosse ap¬ punto in ciò 1’ obbligo
nostro: nel sacrificar tutto al dovere, la vita, l’onore e ogni cosa
all’uomo più caramente di¬ letta (*). Quale che sia il modo
di oscurarsi della coscienza, si può dire in generale che la causa di
questo suo oscurarsi e del conseguente smarrirsi della moralità, la causa
iu- somma del male, va ricercata in una sconfitta della libertà. Se
la riflessione che ci eleva alla libertà consiste in una creazione da
parte della libertà e quasi in un colpo di grazia che ci strappa
all’oppressione della natura, il man- tenimento della chiara coscienza
del dovere non può es¬ sere che un perpetuo riprodursi di questo atto
creativo, una creazione continuata, uno sforzo incessante della ri¬
flessione, dell’ attenzione ; e appunto perciò al menomo affie¬ volirsi
della nostra vigilanza consegue la nosti-a caduta e il trionfo delle
forze antagonistiche della natura, le quali sono sempre e necessariamente
in azione : tosto che cessa lo sforzo morale, l’impulso^ naturale inevitabilmente
ha il sopravvento e, con la luce della coscienza, si spegue anche
la virtù. Ogni uomo, dallo stato di natura, con cui s’inizia la sua vita
in una specie d’innocenza — perchè sono ancora ignorati gli stati
superiori in cui l’innocenza primitiva assume aspetto di colpa —,
perviene necessariamente alla coscienza di sé stesso : a ciò gli basta
riflettere sulla li¬ bertà che ha di scegliere tra più azioni possibili
per sod¬ disfare 1’ impulso naturale; siamo allora in quella fase
in cui egli opera secondo la massima dell’ interesse o della
(') Siuenlehre, pp. 192-197 (nostra traduz. pp. 186-193).
LXXXIII felicità. In questo grado di sviluppo rimano
volentieri, trat- ' tenutovi dalla forza d 'inerzia che l’uomo, in quanto
essere sensibile, ha in comune con tutta la natura fisica. È vero
che, in virtù della sua natura superiore, egli deve 'strap¬ parsi a
questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà ; ma proprio la sua
libertà è impedita in questo stato, essendo essa alleata con quella forza
d'inerzia, da cui dovrebbe in¬ vece svincolarsi ; come farà egli a
elevarsi alla libertà, quando per questa elevazione stessa deve far uso
della libertà ? donde attingerà la forza che faccia da contrap¬
peso nella bilancia per vincere la forza d’inerzia ? Cer¬ tamente non
nella sua natura empirica, la quale in nessun modo fornisce alcunché di
simile ; gli occorre, dunque, un aiuto superiore ; 1’ uomo naturale qui
non può nulla da sé: vedremo presto da qual miracolo sarà salvato.
Intanto sappiamo che F inerzia , la pigrizia — la quale a forza di
riprodursi indefinitamente diviene impotenza morale — è il vizio
radicale, il male innato, il peccato originale: l'uomo è per natura
pigro, dice assai giusta¬ mente il Kant. — Da pigrizia nasce immediatamente
viltà, il secondo vizio fondamentale dell’ uomo ; la viltà è la
pigrizia d’affermare la propria libertà e indipendenza nello scambio ili
azione con gli altri : donde tutte le specie di schiavitù fisica e morale
tra gli uomini. In genere si ha abbastanza coraggio dinanzi a coloro di
cui si conosce la debolezza relativa, ma si è disposti a cedere, a
umiliarsi, dinanzi a una supposta e temuta superiorità qualsiasi ;
si preferisce la sottomissione piuttosto che lo sforzo neces¬ sario
a resistere; precisamente come quel marinaio che pre¬ feriva le eventuali
pene dell’ inferno al lavoro faticoso di correggersi in questa vita. — Il
vile si consola di questa I.XXX1V sottomissione
forzata con 1’ astuzia e con la frode ; da viltà nasce inevitabilmente il
terzo vizio fondamentale : falsità. È questa il risultato di uno sforzo
indiretto che si compie per ricuperare l’indipendenza perduta,
quell’indipendenza che nessun nomo può sacrificare ad altri cosi
interamente come il pigro finge di fare per essere dispensato dalla
fatica di difenderla in aperta battaglia. Falsità, menzogna, ma¬
lizia, insidia derivauo dall’esistenza di un oppressore, e ogni
oppressore deve aspettarsi tali frutti. Soltanto il vile è falso; il
coraggioso non mente e non è falso: per orgo¬ glio, se non per
virtù. Ma come pud aiutarsi l’uomo, quando in lui è radi¬
cata la pigrizia, la quale paralizza appunto l’unica forza con cui' egli
deve aiutarsi ? che cosa gli mauca propria¬ mente? — Non già t la forza,
che egli ben possiede, ma la coscienza della forza e l’Impulso a farne
uso. — E donde gli verrà questo impulso? — Non da altra foute che
dalla riflessione: è necessario che 1’ io empirico, avendo in sè
l’im¬ magine dell’Io assoluto, e vedendosi in tutta la propria
bruttezza, senta orrore di sè ; soltanto per questa via potrà formarsi la
coscienza di quel che deve essere, soltanto di là verrà l’impulso. In
genere gl’ individui che formano la grande maggioranza degli uomini hanno
bisogno di ap¬ prendere la propria libertà da altri individui liberi,
che essi contemplano come modelli ; ma vi souo nella moltitu¬ dine
spiriti eletti a cui fu dato di essere gl’ iniziatori della moralità e
quasi i primi maestri dell' umanità, per es. i fondatori di religione. Si
comprende come costoro, non avendo attinto dall’ esempio altrui la
consapevolezza della propria indipendenza, e non trovando nella propria
natura empirica il principio dell’ emancipazione da questa natura
— l.XXXV empirica, si credano ispirati dall' alto da una
grazia so¬ prannaturale, da uno spirito divino, mentre invece non
han fatto che obbedire alla propria natura superiore, all’Io as¬
soluto, di cui l’io finito e individuale deve divenire la copia fedele (
J ). B) Contenuto materiale della legge morale, ovvero veduta
sistematica dei nostri doveri. — Una volta eman¬ cipato dalla schiavitù
della natura e divenuto cosciente della propria libertà formale, 1’ uomo
deve far uso di questa per compiere l’infinita serie di azioni diretta
verso 1’ as¬ soluta libertà materiale. Quale la materia di queste
azioni? In qual modo 1’ io individuale si eleverà gradatamente sino
a quell’ indipendenza assoluta, a quello stato oggettivo di libertà, che
è il fine ultimo della sua libera attività sog¬ gettiva? — L’accennammo
già: l’attuazione dello stato di libertà non si ottiene se non
determinando il mondo in funzione della libertà stessa, operando cioè
come chi considera e tratta le cose dal punto di vista non della
loro esistenza data, ma della loro finalità, non del loro es¬ sere, ma
del loro dover-essere, e le modifica perciò e le adatta progressivamente
nella direzione di questa finalità, di questo dovere. Tale determinazione
del mondo secondo 1’ idea della libertà, determinazione posta come
obbligatoria e come praticamente necessaria, costituisce il sistema
dei nostri doveri, la materia della moralità. In altri termini, la
morale propriamente detta non è che l’insieme delle con¬ dizioni a cui il
mondo va sottoposto e a cui deve prestarsi per essere strumento all’
attuazione della libertà. Queste condizioni possono ridursi a tre,
perchè triplice * (') 1 bici. pp. 198-205 (ibid.
194-201). I.XXXVI è il punto di vista da
cui può considerarsi il mondo. Il mondo si può considerare : a) in sè,
come pura e semplice materia, come natura corporea ; b) nel suo rapporto
col pensiero, come materia di conoscenza ; c ) nel suo rapporto col
volere, come oggetto indispensabile all’ esercizio dell’ at¬ tività, come
il luogo d’incontro delle molteplici sfere di li¬ bertà individuale, come
il teatro della società. E per la morale si tratta appunto di mostrare a)
nella nostra na¬ tura corporea, b) nella nostra intelligenza, c) nella
nostra vita sociale, gli strumenti per l’attuazione della libertà,
la quale non può divenire reale se non operando sul mondo
oggettivo, per mezzo del corpo, dell’intelligenza e della società. Come,
dunque, dobbiamo trattare, in vista del fine ideale da raggiungere, a) il
corpo, b) l’intelligenza, c) la società ? ' « a) Il nostro
corpo, essendo da una parte prodotto di natura, dall’ altra strumento
della causalità del concetto, funziona da intermediario tra la necessità
e la libertà. La volizione si esercita immediatamente su di esso, e per
esso modifica mediatamente il mondo esterno secondo i nostri
concetti. Di qui risulta chiaro un triplice dovere rispetto al corpo : 1)
un dovere negativo : non far mai del proprio corpo il fine ultimo delle
proprie azioni ; 2) un dovere po¬ sitivo : conservare e coltivare il
proprio corpo nell’interesse della libertà ; 3) un dovere limitativo :
evitare come illecito ogni piacere corporeo che non si riferisca al fine
ultimo della nostra attività. u Mangiate e bevete in onore di Dio:
se questa morale vi sembra troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce
n’ è un’ altra „ (*). (*) Ibid. pp. 20C-21G (ibid. pp.
202-212). ì.xxx vi i b) L’intelligenza è
la forma indispensabile attraverso cui può attuarsi la libertà, poiché
soltanto la riflessione dà alla libertà la sua legge; fuori
dell’intelligenza ci sarà 1’ istinto cieco, non già la coscienza morale ;
l’intelligenza è il veicolo stesso della moralità. Diciamo di più-: per
la legge morale , mentre il corpo è condizione materiale pu¬
ramente esterna e soltanto della sua causalità, l’intel¬ ligenza è
condizione materiale veramente interna e di tutta quanta la sua essenza.
Di qui un triplice dovere anche verso l’intelligenza : 1) un dovere
negativo : non subordinare mai materialiter — ossia nelle sue
ricerche e cognizioni — l’intelligenza a nessuna autorità,
foss’anche quella della legge morale ; la ricerca da parte della
ragione teorica dev’ essere assolutamente libera e disinteressata ,
non deve preoccuparsi di altro che non sia l’acquisto della conoscenza ;
2) un dovere positivo : formare l’intel¬ ligenza il più possibile ; il
più possibile imparare, pensare, indagare ; 8) un dovere limitativo :
subordinare formaliier l’intelligenza alla moralità, la quale rimane
sempre il fine supremo ; riferire al dovere tutte le nostre
investigazioni ; coltivare la scienza non per curiosità ma per dovere,
es¬ sendo essa strumento di moralità ('). c) La società,
infine, può dirsi addirittura l’espres¬ sione vivente della libertà , in
quanto questa non si con¬ cepisce come qualcosa d’individuale, ma
soltanto come una recijjrocanza di rapporti tra più individui
corporei, intelligenti e volenti. L’ideale della libertà, quindi,
si attua non nel singolo uomo , ma nella comunità di tutti gli uomini,
in seno alla quale V individuo diviene persona. (*) (*) Ibid. pp.
217-218 (ibid. pp. 213-214). LXXXV1I1 —■
e senza la quale per l’ individuo nessun perfezionamento, anzi nemmeno
l’esistenza stessa, sarebbe possibile, essendo individuo e società
termini correlativi, coudizionantisi a vicenda. Se così è, se 1’ io
empirico non può porsi altri¬ menti che come individuo, e se come tale
non può pre¬ scindere dai suoi rapporti con la società , che vai
quanto dire dalla esistenza di altri individui e dalla loro
libertà, è evidente che egli non può voler sopprimere questa esi¬
stenza e questa libertà, da cui sono determinate l’esistenza e la libertà
sua propina. La mia tendenza all’indipendenza assoluta, fine supremo della
mia attività, è dunque subor¬ dinata alla libertà .degli altri. Le libere
azioni degli altri sono gli originari punti di confine della mia
individualità, e a esse io reagisco f non meno liberamente,
autodetermi- nandomi a quella serie di azioni che prescelgo e da
cui uscirà costituita la mia personalità, non essendo io se non
quel che mi fo • con le mie azioni, e non consistendo il mio essere in
altro che nel mio operare. Soltanto che mentre il mio operare, rispetto a
quegli originari punti di confine della mia individualità, ossia rispetto
ai liberi in¬ flussi degli altri , mi appare 1’ effetto della mia
assoluta autodeterminazioue, della mia libera causalità, quei punti
di confine , quei liberi influssi^ degli altri , invece , mi ap¬ paiono
come predeterminati p priori ; alla stessa guisa che dal punto di vista
altrui s’invertono le parti , e agli altri appare liberamente
autodeterminato il loro agire su di me e predeterminato a priori il mio
reagire su di loro. Il che dà luogo , è vero , a un’ antinomia tra
predetermi¬ nazione e autodeterminazione, ma a un’ antinomia che si
risolve facilmente cosi : tutte le azioni libere (le mie come le altrui)
sono predeterminate ab aeterno (ossia fuori del
LXXXIX tempo) dalla ragione universale ; ma il momento in
cui ciascuna deve accadere e gli attori di essa non sono pre- ^
determinati : ecco, quindi, predestinazione e libertà perfet¬ tamente
conciliate (*). Ciò premesso - è evidente il-dovere fondamentale verso la
società : non impedire , con 1’ eser¬ cizio della propria libertà, la
libertà degli altri, hou trat¬ tare gli altri uomini come cose, come
semplici strumenti della propria libertà. Ma anche nell’ interno di
questo do¬ vere sembra annidarsi un’ antinomia : da una parte devo
tendere all’ indipendenza assoluta , all’ emancipazione da ogni
limitazione, dall’altra devo rispettare la libertà altrui, la quale è una
vera limitazione alla mia libertà ; da una parte devo agire sul moudo
sensibile si da farne, come il mio corpo, il mezzo per giungere al line
supremo , all’ as¬ soluta libertà, dall’ altra non mi è lecito modificare
i pro¬ dotti della libertà altrui. Come comporre questa nuova
contraddizione ? Non difficile la soluzione : basta supporre tra le
molteplici libertà individuali , anziché contrasto, vera comunanza di
azione ; se dal punto di vista giuridico occorre una forza coercitiva
(l’autorità dello Stato), la quale, restringendo l’esercizio delle
libertà individuali an¬ tagonistiche , renda possibile il loro mutuo
sviluppo , dal punto di vista morale, invece, tutti gli individui
sottostanno alla medesima legge, tutti perseguono il medesimo fine
, tutti sono in certo qual modo identici nella loro condotta
conforme al dovere. perchè tutti hanno il medesimo do¬ vere, e l’emancipazione
degli uni, lungi dall’opporlesi, è necessaria all’ emancipazione degli
altri, perchè l’indipen- (') Ibiil. pp. 226-220 (iliid. pp.
222-224). xc denza di ciascuno va di
pari passo con l’indipendenza di tutti, perchè la libertà , intesa nel
senso morale, non si attua se uon uella collettività, degli esseri
liberi. Dunque, non già limitazione o interferenza tra le libertà
indivi¬ duali, sì bene confluenza, collaborazione a un’opera
comune, al trionfo della ragione : il rispetto della libertà altrui
è qui compatibile con 1’ esercizio assoluto della libertà pro¬
pria, perchè questa e quella si accordano e si completano reciprocamente,
la liberazione dell’uno è in pari tempo la liberazione di tutti.
E invero , 1’ originaria tendenza all’ indipendenza as¬ soluta non
si riferisce a un determinato individuo ; ha per oggetto la libertà
assoluta, l’autonomia della ragione in generale. L’ultimo fine della
moralità è il regno della ragione in quanto ragione, il che non si
ottiene se non nella comunanza e con la cooperazioue di tutti gli
esseri che partecipano della ragione, di tutta l’umanità ; la
libertà, — ripetiamo — non hì concepisce sotto la forma dell' in¬
dividualità, essa è di natura essenzialmeute sociale e uni¬ versale, e non
si attua nel singolo uomo se uon in quanto questi da u individuo „ si
eleva a “ persona „ per confon¬ dersi in ispirito con tutti, gli esseri
ragionevoli. Di qui trae luce e spiegazione la nota formula kantiana : u
Opera in modo da poter pensare la massima della tua volontà come
principio d’ una legislazione universale „ , formula più euristica che
costitutiva della moralità, perchè non è un principio — come sembrava al
Kant, a cui il metodo da lui adottato interdiceva di penetrare sino al
fondo delle cose — ma soltanto una conseguenza di quel vero prin¬
cipio che consiste nel comando dell’ assoluta indipendenza
XCI della ragione ('). Di qui deriva la necessità che
tutti-siano veramente liberi , che nessuno sia impedito nell* esercizio
dulia ragione e nell’adempimento del dovere, che ciascuno si adoperi ad
avvicinare sempre più quell’ ideale" — per quanto destinato a
rimanere sempre un ideale — che è la moralizzazione dell’umanità.
Soltanto l’uso della libertà contrario alla legge morale ho il dovere di
annullare ; ma siccome ciascuno deve operare secondo le proprie
convin¬ zioni , cosi mi è lecito cercar di determinare o modificare
soltanto la convinzione degli altri, mai la loro azione. E poiché non si
può agire sulle convinzioni degli altri uomini se non vivendo in mezzo a
essi, anche per questa via si ribadisce la necessità morale della società
e il dovere per ognuno di vivere in essa. Segregarsi dalla società
significa rinunziare ad attuare il fine della ragione ed essere
indif¬ ferente al propagarsi della moralità, al trionfo della
libertà, al bene dell’ umanità ; “ chi si propone di aver cura
sola- (*) Ilari, p. 234 ibici. pp. 229-230). Secondo il Fichte la
suddetta formula kantiana va intesa non già nel senso : — perchè un
quid può essere principio di una legislazione universale, perciò
dev’essere massima della mia volontà — ma nel senso opposto : — perchè
un quid dev’ essere massima della mia volontà, perciò può essere
anche principio di uua legislazione universale — ; in altri termini, non
la forma determina il contenuto della moralità, ma il contenuto
deter¬ mina la forma: se la moralità ha per contenuto 1’ attuazione
univer¬ sale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale operi
di- siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria
condotta come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime
circostanze ; la proposizione kantiana, appunto con questa
universalizzazione della condotta individuale , non fornisce altro che un
eccellente mezzo di controprova per accertarci se, agli effetti della
morale , la condotta di un individuo sopporti o no universalità, possa o
no erigersi a legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non
già costitu¬ tiva della moralità. xcn
mente di sè , dal lato morale, in verità non ha cura nep¬ pure di
si, perchè suo fine ultimo dev’essero il prendersi cura di tutto il
genere umano, la sua virtù non è virtù, ma soltanto im servile, venale
egoismo....; non già con una vita eremitica, dedita a pensieri sublimi e
speculazioni pure, non già col fantasticare , ma soltanto con 1’
operare nella e per la società si soddisfa al dovere (*). La
necessità etica della società e il dovere che ne deriva all’ individuo di
vivere in essa e di lavorarvi alla moi'alizzazione degli uomini, operando
sul loro spirito e formando le loro convinzioni, implica l’istituzione di
quella repubblica morale che i?i chiama la Chiesa e che è condi¬
zione indispensabile per la reciproca azione sociale diretta a produrre
credenze pratiche concordi e con esse il pro¬ gresso della moralità. La
Chiesa , infatti, rappresenta nel suo simbolo, accettato da tutti i suoi
membri, quell’accordo primitivo e, a dir così, minimo, che solo rende possibile
una comunità spirituale. Ma il simbolo non è, nè può es¬ sere, che un
punto di partenza o un mezzo, nou già un punto di arrivo o uu fine ; esso
è indefinitamente perfet¬ tibile mercè la continua reciproca azione degli
spiriti gli uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità
, e non può, quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, ap¬ punto,
l’intende il protestantismo. Iuvece, come fa il pa¬ pismo, lavorare pur
contro la propria convinzione a man¬ tenere il simbolo in una fissità
assoluta, a rendere la ra¬ gione stazionaria, a costringere gli altri in
una fede già superata , significa, oltre che ignoranza , trasgressione
del dovere, perchè allora si fa del simbolo non più 1’ espres-
(') Ibid. p. 235 (ibid. p. 230). xeni
sione puramente prdVvisoria di un accordo destinato a permettere la
discussione delle diverse opinioni in vista dell’ ulteriore sviluppo
morale della comunità, ma la for¬ mula definitiva di una verità assoluta
e immutevole, il che sta in recisa opposizione con lo spirito della
moralità, la cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’
in¬ finito (*). Come la Cliiesa è istituzione necessaria al
perfeziona¬ mento morale per quanto riguarda le convinzioni
interne, così lo Stato è istituzione necessaria per quanto riguarda
le azioni esterne, 1’ operare sul mondo sensibile. Ciò che sta fuori del
mio corpo, ossia tutto il mondo sensibile , è patrimonio comune e il
coltivarlo secondo le leggi della ragione non spetta a me soltanto, ma a
tutti gli individui ragionevoli ; di guisa che il mio operare su di esso
inter¬ ferisce con l’ operare degli altri, e può accadermi ,
perciò, di arrecar danno alla libertà altrui, quando il mio operare
non sia all’ unisono con 1’ altrui volontà : il che assoluta- mente non mi
è lecito. Quel che interessa tutti io non posso fare senza il consenso di
tutti, e senza seguire, quindi, principi universalmente accettati, previo
accordo, tacito o esplicito, circa una parziale restrizione
volontaria e generale delle diverse libertà individuali. Il consenso
a questa restrizione e 1’ accordo che determina i comuni di¬ ritti
e la reciproca azione sul mondo sensibile è oggetto del cosidetto
contratto sociale e costituisce lo Stato. Lo Stato , grazie alle leggi
conosciute e accettate da tutti i cittadini , rende possibile a ciascuno
di essi di conciliare l’esercizio della propria libertà col rispetto
dovuto alla (') Ibid. p. 230 e pp. ‘241-245 (ibid. p. 231 e pp.
233-240). — xciv —
libertà degli altri; rende passibile, iu altri termini, preve¬
nendo eventuali conflitti nell’incontro delle libertà indivi¬ duali,
quella convivenza sociale die è condizione strie iy ua non della
moralità'; di qui il suo alto significato e il suo valore etico (').
La necessità del simbolo nella Chiesa, il rispetto delle leggi
nello Stato, impongono, non tanto alle convinzioni dell’ individuo — le
quali sono incoercibili — quanto alla loro manifestazione e
comunicazione, certi limiti che non si possono oltrepassare senza mettersi
fuori del simbolo o fuori della legge, fuori, iusomma, della comunità
morale e civile ottenuta iu un dato momento del progresso umano. E
pur tuttavia si è tenuti non solo a formarsi una con¬ vinzione
indipendente da ogni autorità, ma anche ad affer¬ marla e parteciparla
agli altri. Come conciliare questa con¬ traddizione tra 1’ assoluta
libertà delle singole coscienze e il rispetto alla fede comune ? come
risolvere questo con¬ flitto di doveri ? Non altrimenti che mediante una
limita¬ zione reciproca dei due doveri , che vai quanto dire : am¬
mettere la libertà assoluta delle convinzioni e della loro comunicazione,
ma circoscrivere questa libertà e questa comunicazione a quel particolare
gruppo sociale che è il ■pubblico dotto (*). E invero,
l’assoluta libertà delle convinzioni e della loro comunicazione, se è
impraticabile nel vasto ambito della Chiesa e dello Stato , perchè per
essere morale do¬ vrebbe raccogliere — cosa impossibile — 1’ adesione
una¬ nime di tutti i membri della comunità chiesastica e poli-
(') Ibid. pp. 237-238 (ibid. pp. 232-233). ( ! ) Ibid. pp. 247-248
(ibid. 242-243). xcv tica, è, invece,
praticabile nel ristretto pubblico dei dotti, il quale sta come anello di
congiunzione tra la convinzione comune e la privata. Il
carattere distintivo del pubblico dotto è uifa asso¬ luti libertà e
indipendenza di pensiero ; il principio della sua costituzione è la
massima di non sottoporsi a nes¬ suna autorità , di basarsi in tutto sulla
propria riflessione e di rigettare assolutamente da sè tutto ciò che non
sia da questa confermato. Nella repubblica dei dotti non è
possibile nessun simbolo, nessuna direttiva prestabilita, nessun riserbo
; tra dotti si deve poter dichiaral e tutto ciò di cui si è persuasi,
appunto come si oserebbe dichia¬ rarlo alla propria coscienza ; giudice
della verità sarà il tempo, ossia il progresso della coltura. E come
assoluta¬ mente libera è l’investigazione scientifica, così pure
libero a tutti deve essere 1’ adito a essa. Per chi nel suo intimo
non può più credere all’ autorità , è contro coscienza con¬ tinuare a
credervi, è dovere di coscienza associarsi al pub¬ blico dotto. Lo Stato
e la Chiesa debbono tollerare i dotti, altrimenti violerebbero» te
coscienze, perchè nessuna po¬ tenza terrena ha il diritto d’imporsi in
materia di co¬ scienza. Lo Stato e la Chiesa debbono anzi riconoscere
la repubblica dei dotti, perchè questa è condizione del loro
progresso morale , in quanto che soltanto in essa possono elaborarsi i
concetti che modificheranno , perfezionandoli, e il simbolo e la
costituzione dello Stato: sin anche come pubblici ufficiali — per es.
nelle università — i dotti pos¬ sono lavorare all’educazione degli uomini
e alla formazione scientifica degli insegnanti e dei funzionari tutti
della Chiesa e dello Stato. È da aggiungere, però, che il dotto,
insieme con l’incontestabile diritto che ha all’ esistenza,
« XCV1 all' indipendenza e alla massima
libertà di ricerca e cri¬ tica nel campo del pensiero, lia anche il
preciso dovere di sottomettersi all’autorità della Chiesa e dello Stato
nel campo deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne faccia parte nè
diffondere le propine convinzioni, ancora discutibili e non universalmente
accettate, tra i fedeli e i cittadini che vivono fuori della repubblica
dotta, nè , tanto meno , attuarle senz’ altro nel mondo sensibile ,
minando cosi, o addirittura sovvertendo, senza il consenso di tutti, gli
ordi¬ namenti e i poteri costituiti ; Stato e Chiesa hanno il di¬
ritto di impedire ciò. Sarebbe un’oppressione della coscienza proibire al
predicatore di esporre in scritti scientifici le sue convinzioni
dissenzienti, ma rientra perfettamente nel- 1’ordine vietargli di
portarle sul pulpito, ed egli stesso, se'è illuminato, sentirebbe la
propria immoralità quando facesse così. In conclusione:
l’ultimo fine di ogni attività sociale è l’accordo universale tra gli
uomini, accordo non possibile se non sul puro ragionevole, perchè qui
soltanto ritrovasi ciò che agli uomini è comune. Col presupposto d’ un
tale accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e un pub¬
blico non dotto ; scompaiono anche Chiesa e Stato. Condi¬ videndo tutti
le medesime convinzioni, a che servirebbe più il potere legislativo e
coercitivo dello Stato? Riunite tutte le coscienze individuali nella
visione diretta della verità assoluta, a ohe servirebbero più i simboli
provvisori e mutevoli della Chiesa ? Il pensiero e l’azione di
ciascuno confluirebbe col pensiero e 1’ azione di tutti, la legge
mo¬ rale troverebbe la sua espressione nella sublime armonia di
tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella suprema comu¬ nione dei
santi, l’io empirico e individuale, completamente — xovrt
liberato da ogni limitazione, svanirebbe completamente in seno all’Io
puro e assoluto, si attuerebbe, insomma, nella realtà l’Ideale,
l’Infinito, Dio. Il contenuto materiale della moralità è tutto in Questo
perenne e progressivo attuarsi del regno della ragione nel regno della
natura, è tutto in questa ascensione, in quest’approssimarsi del mondo
verso lo Spirito, vei’so la Libertà ('). C) Dottrina dei
doveri propriamente detta. —- Da quanto precede risulta evidente che l’io
empirico q la persona è soltanto mezzo all’ attuazione del fine
supremo morale. La proposizione del Kant : L’uomo è /ine in se, è
giusta purché completata così : l'uomo è fine in .sr. ma per gli altri.
Siccome la legge si dirige a ciascuno e il suo fine è la ragione in
generale , ossia 1’ umanità tutta quanta , ne segue che tutti sono fine a
ciascuno , ma nes¬ suno è fine a se stesso ; 1’ attività di ciascuno è
semplice strumento per attuare la ragione. Con che la dignità del-
1’ uomo non è abbassata, è anzi inalzata, poiché a ciascun individuo vien
affidato il raggiungimento del fine univer¬ sale della ragione e dalla
cura e dall’ attività di lui di¬ pende l’intera comunità degli esseri
ragionevoli, mentre egli , invece, non dipende da nulla. Ciascuno diventa
Dio nella misura che gli è possibile , ossia con riguardo alla
libertà degli altri, e appunto perchè tutta la sua iudivi- dualità
scompare, egli diventa pura rappresentazione della legge morale nel mondo
sensibile, vero Io puro. Errano di molto coloro che pongono la perfezione
in pie medita¬ zioni, in un devoto covare sopra sé stessi, e di qui
aspet¬ tano l’annientarsi della propria individualità e il loro
con- (‘) Ibid. pp. 248-253 (ibid. pp. 243-248).
— xcvm fluire culi la divinità; la loro virtù
è, o rimane, e geliamo ; essi vogliono fare perfetti soltanto se stessi.
La vera virtù, invece, consiste nell’operare, e nell’operare per la
comu¬ nità : è quindi oblio, abnegazione intera di sè
nell’interesse della totalità degli esseri ragionevoli. Se
cosi è, se l’io empirico o individuale serve sola¬ mente di mezzo
all’attuazione del fine supremo, ossia all’av¬ vento del regno della
ragione, ne segue che i doveri verso l’io empirico sono mediati e
condizionati di fronte a quelli che, riferendosi direttamente al fine
supremo , diconsi im¬ mediati e incondizionati, ossia assoluti. Senonchè
la pro¬ mozione del fine supremo è possibile soltanto in virtù di
una ben disegnata divisione di lavoro, altrimenti potrebbe molto accadere
in più modi, e molto non accadere affatto. È necessario, dunque, attuare
una tale divisione di lavoro, mediante 1’ istituzione di divei'se
professioni , da cui na¬ scono doveri diversi, che diremo particolari o
trasferibili (perchè s’impongono soltanto a chi abbia scelto quella
data professione) di fronte ai doveri che sono generali o intrasferibili
(perchè s’impongono indistintamente a tutti gli esseri umani). Combinando
questa seconda classifica¬ zione dei doveri, fatta dal punto di vista del
soggetto della moralità, con la precedente, fatta dal punto di
vista dell’oggetto della moralità, si hanuo quattro specie di
doveri : 1) generali condizionati 2) particolari
condizionati 3) generali incondizionati 4) particolari
incondizionati (’). (') Ibid. pp. 257-251) (ibid. pp. 251-253).
XOIX 1. I doveri generali condizionati —
abbiamo dette — ' si riferiscono all’io empirico in quanto mezzo e
strumento indispensabile per 1 adempimento della legge morale:
primo tra essi, dunque , V autoconservazione , la conservazione
, cioè , di questo mezzo o strumento. *L’ autoconservazione
* già richiesta dal diritto naturale come condizione
ne¬ cessaria al I attuarsi di quel futuro da cui attendiamo la
soddisfazione implicita nell’oggetto del nostro volere pre¬ sente , e
perciò come qualcosa di relativo — diventa per la moralità materia di un
comando assoluto ; per 1’ uomo morale si tratta non più di attendere un
risultato più o meno egoistico e interamente conseguibile nel tempo,
ma di lavorare disinteressatamente all’attuazione di quel fine
supremo di cui egli non potrà mai godere , perchè posto all’
infinito. Dal dovere dell’ autoconservazione nasce : — a) un
divieto : evita tutto ciò che, secondo la tua coscienza, può mettere in
pericolo la tua conservazione in quanto stru¬ mento della moralità (il
digiuno e 1’ intemperanza in ri¬ guai do al corpo, l’inerzia
intellettuale, il soverchio sforzo, l’occupazione irregolare, il
disordine della fantasia, la col¬ tura unilaterale, ecc. in riguardo all’
intelligenza) ; non espone al pericolo la tua salute, il tuo corpo, la
tua vita, quando non vi sia necessità morale. Segue da ciò la più
recisa condanna del suicidio : la moralità può comandare di esporre la
vita, non già di distruggerla ; la vita è la condizione stessa dell’
adempimento del dovere, e il sui¬ cidio, distruggendo la vita, la sottrae
appunto al dominio della legge ; suicidarsi significa dichiarare di non
voler più adempiere il dovere. — b) un comando : opera tutto quello
che ritieni necessario alla tua conservazione (il buon
mauteuimeuto del corpo, il nuo adattamento perfetto ai fini che
deve conseguire, la coltura dell’intelligenza, la ricreazione estetica,
eco.). Non va mai dimenticato, però, che il dovere dell’auto-
conservazioue è condizionato , essendo l’io empirico sem¬ plice strumento
della moralità : quindi , dove il fine della moralità non fosse
compatibile col dovere «Iella conserva¬ zione , sarebbe moralmente
necessario che la vita dell’ in¬ dividuo venisse sacrificata a quel fine,
che il dovere coudi- zionato fosse subordinato al dovere incondizionato :
quando la moralità lo esige, ho il dovere di arrischiare la mia
vita, e tutti i pretesti con cui cercassi di nascondere la mia viltà —
per es., quello di risparmiarmi la vita per operare ancora dell’ altro
bene che altrimenti rimarrebbe incompiuto — andrebbero contro il dovere,
il quale co¬ manda in modo assoluto e non ammette indugi al suo
adempimento ('). 2. Tra i doveri particolari condizionati —
attinenti , cioè, ai diversi uffici e alle diverse professioni
individua¬ li — sta anzitutto quello d’avere un ufficio, d’esercitare
una professione nell’interesse della società, di contribuire in
qualche misura all’ esistenza e all’ organizzazione sociale ; poi 1’
altro di scegliersi a ogni modo un ufficio , una pro¬ fessione, e non già
secondo l’inclinazione, ma con la co¬ scienza d’ avere la migliore
attitudine all’ uno o all’ altra , considerate le proprie forze , la
propria coltura , le condi¬ zioni esterne dipendenti da noi , poiché non
il sodisfaci- mento dei nostri gusti dev’ essere lo scopo della
nostra vita, ma 1’ avanzamento del fine della ragione : onde gli
(') Ibid. pp. 259-271 (ibid. pp. 254-2C5). CI
— uomini uou dovrebbero scegliersi uno stato prima d’essere
giunti alla necessaria maturità della ragione, e sino a questa maturità
si dovrebbe educarli tutti allo stesso modo; infine il dovere di
attendere con tutta coscienza all’ufficio o alla professione prescelta,
formando sempre meglio all’uno o all’ altra il corpo e lo spirito ,
secondo che più occorre (all’agricoltore, per es., occorre più la forza e
la resistenza fisica , all’ artista la destrezza e 1’ agilità dei
movimenti, allo scienziato la coltura spirituale in tutte le direzioni,
ecc.). Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo il
loro grado di dignità , si può parlare dal punto di vista sociale
soltanto nel senso che le molteplici occupazioni umane sono subordinate
le une alle altre come il condi¬ zionato e la condizione, come il mezzo e
il fine ; ma dal punto di vista morale esse hanno tutte lo stesso valore
, tutte la stessa dignità : quel che importa è adempieide bene
(*). 3. I doveri generali incondizionati si riferiscono non
più allo strumento, ma al fine stesso della moralità , che è il dominio
della ragione nel mondo sensibile e nella tota¬ lità degli individui per
opera di ciascun individuo. Primo tra essi il dovere verso quella
libertà formale di tutti gli esseri ragionevoli, nella quale sta 1’
origine , la radice stessa della moralità. La libertà formale di
eia- scun individuo poggia sopra due condizioni : A) la perma¬
nenza del rapporto tra la volontà individuale e il corpo che ue è 1’
organo esecutivo ; B) la permanenza del rap¬ porto tra il corpo
individuale e il mondo sensibile che ne è la sfera d’ azione. Di qui due
specie di doveri concer- * (*) Ibid. pp. 271-274
(ibiil. pp. 2G5-268). cn neuti
l’inviolabilità: A) del corpo altrui; B) della altrui libertà d’azione.
A) L'inviolabilità del corpo altrui im¬ plica : a) il divieto di
esercitare qualsiasi violenza o coer¬ cizione fisica su altri (la
condanna, quindi, della schiavitù, della tortura, dell’ omicidio eoe.),
b) il comando d’aver cura della vita e della salute degli altri come
della propria, essendo gli altri, al pari di noi, strumenti della
moralità (ama il tuo prossimo come te stesso). B) L’ altrui libertà
d’azione esige : — in primo luogo l’esatta conoscenza dei rapporti tra le
cose, senza la quale manca ogni garanzia che il risultato dell’ azione
sarà conforme al disegno della volontà ; di qui il dovere della veracità,
il quale implica : a) il divieto d’ingannare il prossimo (con
l’inganno si dan- neggia la libertà degli altri, trattandoli non come
persone ma come cose) e la conseguente condauna del venir meno alle
promesse e del mentire (nessuna menzogna è lecita, neppure la menzogna
pietosa, o la pretesa menzogna ne¬ cessaria, neppure col pretesto
dell’interesse altrui, o, peggio ancora, con quello dell’ interesse della
moralità, perchè la menzogna stessa, per essenza sua, nasce da viltà ed
è sempre radicalmente immorale; b.) il comando d’illuminare e
istruire il prossimo e di comunicargli la verità ; — in secondo luogo la
proprietà, ossia quella sfera d’azione nel mondo sensibile senza la quale
manca, oltreché la materia prima per attuare i disegni della propria
volontà, altresì la sicura coscienza di non disturbare, con l’esercizio
della propria libertà, la libertà degli altri, come esige la legge
morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e della conserva¬ zione della
proprietà, il quale implica : a) il divieto di distruggerla, usurparla o
menomarla in qualsiasi maniera; b) il comando d’acquistarsi una
proprietà e di procurarne una a ciascun individuo (come ogni
oggetto dev’ èssere proprietà di ciascuno affinchè tutto il mondo
sensibile rientri nel dominio della ragione, così ognuno deve avere
una proprietà ; in uno Stato in cui un sol cittadino non abbia una
proprietà, ossia una sfera esclusiva se non di oggetti, almeno di diritti
a certe azioni, non esiste in ge¬ nerale nessuna legittima proprietà ; la
beneficenza consiste non nel fare l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno
il modo di vivere del proprio lavoro) (*). Un’ osservazione
importante : in fatto di libertà non può mai nascere conflitto tra esseri
che operino secondo ragione ; ma quando della libertà si faccia un uso
con¬ trario al diritto, nasce collisione tra determinati atti di
più individui e viene posta in pericolo , quindi, la vita o la proprietà
, insomma la libertà del singolo. E poiché è proprio dello Stato attuare
l’idea della legalità, così spetta allo Stato appianare gli eventuali
conflitti tra individui , contenendo , mediante la forza della legge
giuridica, cia¬ scuno entro i propri confini. Non sempre , però , lo
Stato può immediatamente intervenire a comporre contese : sot¬
tentra allora il dovere della persona privata. È dovere universale, in
tal caso, salvare dal pericolo la libertà del- 1’ essere ragionevole,
senza far distinzione se si tratti di noi o di altri, perchè tutti,
indistintamente , siamo stru¬ menti della logge morale. Se sono io
l’aggredito, il dovere dell’ autoconservazione m’impone di difendermi con
tutte le forze ; se è in pericolo il mio simile a me vicino,
l’amore del prossimo m’impone di salvarlo anche a rischio della mia vita
; se più di uno è assalito nello stesso tempo, (*) Ibid. pp.
275-299 (ibid. pp. 269-292). \ — CJV
— si devo portare aiuto anzitutto a quello ohe si può salvare
più presto e del quale oi accorgiamo prima. In questo adempimento del
dovere non può essere mai mio fine uc¬ cidere 1’ aggressore , il nemico ,
ma soltanto disarmarlo ; posso cercare d’indebolirlo , di ridurlo all’
impotenza . di ferirlo , ma sempre in modo che la sua morte non sia
il mio fine. u Se, peraltro, rimanesse ucciso, ciò dipende dal
caso, contro la mia intenzione, e io non sono perciò re¬ sponsabile „. Si
deve, insomma, trattare il nemico con 1’ amore dovuto a ogni altro
prossimo, perchè è aneli’ egli strumento della moralità e se dalle sue
azioni per il mo¬ mento non si può concludere che 1’ opposto, non si
deve, tuttavia , mai disperare che egli sia capace di migliora¬
mento. L’ uomo animato da sentimento morale non ha. nè riconosce, nessun
nemico personale; chi sente piu viva¬ mente un’ ingiustizia soltanto
perchè fatta a lui, è ancora un egoista, è ancora lontano dalla vera
moralità (‘). La libertà formale altrui, verso la quale s’impongono
i doveri ora descritti, è condizione necessaria ma non suf¬ ficiente per
la moralità negli altri ; questa è resa possibile da quella , ma,
alfiuchè sia anche reale, bisogna che gli altri prendano di fatto
coscienza del loro dovere. Di qui il comando, per chi si sia già elevato
alla coscienza del dovere, di allargare e promuovere la vita morale
intorno a sè, di elevare gli altri alla moralità. In qual modo ?
poiché sarebbe assurdo voler produrre la virtù con mezzi coercitivi, con
premi o gastighi : la moralità non si lascia imporre dal di fuori, nè per
forza , ma nasce soltanto da una determinazione interiore ; come può,
dunque, tale de- (») Ibid. pp. 300-313 (ibid. pp. 293-304).
— cv — terminazione nascere per opera di un altro in
colui che. ne è il soggetto e che deve possedere già dentro di sé
le condizioni atte a produrla? 14li è che, per chi guardi bene,
realmente esiste la possibilità, di un influsso ^morale da coscienza a
coscienza, ed esiste grazie a un sentimento che serve di leva alla virtù,
ma il cui sviluppo esige ap¬ punto un’ azione dal di fuori, l’azione
dell’esempio altrui : è questo il sentimento del rispetto o della stima,
il quale, sempre latente nel cuore dell’uomo, da cui è inestirpa¬
bile, si desta, dinanzi alla condotta virtuosa degli altri, suscita, a
sua volta, il bisogno di provare il medesimo sentimento dinanzi alla
condotta propria, il bisogno, cioè, dell’autostima, e sprona, per tal
via, alla moralità. Sorge, così, per ognuno il dovere del buon esempio,
essendo l’esempio il vero strumento dell’educazione morale. E poi¬
ché l’esempio, per avere efficacia, per agire sulla coscienza altrui,
dev’ essere pubblico, ne segue che anche la pubbli¬ cità della condotta
morale è per noi un dovere : essa nasce dalla franchezza dell’ operare
virtuoso e non ha nulla di comune con 1’ ostentazione, la quale deriva
dal desiderio d’ essere ammirato ('). 4. I doveri particolari
condizionati si dicono così perchè hanno sempre per oggetto il fine
supremo della moralità, il dominio della ragione, ina, anziché
all’umanità o alla società in genere, si riferiscono a ben
determinate relazioni umane, a ben definiti organismi sociali,
quale che sia la loro origine , vuoi da una stabile legge di na¬
tura — nel qual caso diconsi naturali — vuoi dalla mo¬ bile scelta delle
singole volontà — nel qual caso diconsi (*) lbid. pp. 813-325
(itaci, pp. 304-816). evi — artificiali —. .4)
Dalle relazioni naturali nascono i doveri di stato, dalle artificiali i
doveri di vocazione ('). A) Due relazioni naturali sono possibili
per l’uomo, e insieme costituiscono l’organismo sociale della famiglia
: a) la relazione tra coniugi, b) la relazione tra genitori e
figli. Di qui due specie di doveri di stato : a) doveri tra coniugi, b)
doveri tra genitori e figli, a) La relazione co¬ niugale è già 1’ inizio
della moralità nella natura, segna già il passaggio da questa a quella ,
perchè è uno stato che da una parte si fonda sopra un impulso naturale
— l’istinto sessuale — dall’ altra implica, in entrambi x sessi,
sentimenti — reciproca dedizione completa e perpetuo re¬ ciproco amore,
reciproca fedeltà — che trasformano la sen¬ sualità brutale in una
spiritualità umana. Il coniugio , as¬ sociazione naturale e morale a un
tempo, è condizione precipua per l’esistenza di quella società che
vedemmo essere a sua volta condizione cosi indispensabile per 1’
at¬ tuarsi della moralità, e, in quanto t,ale, costituisce un do¬
vere che implica : a) il comando di contrarre matrimonio, quando si
verifichi la sua base naturale , 1’ amore, (l’indi¬ viduo umano fisico
non è un uomo o una donna, è, a un tempo, 1’ uno e 1’ altra ; lo stesso
dicasi dell’ individuo umano morale : vi sono in lui aspetti dell’
umanità — e proprio i più nobili e disinteressati — i quali
solamente nel matrimonio possono formarsi ; perciò u rimaner celibi
senza propria colpa è una grande infelicità, ma rimaner celibi per
propria colpa è una gran colpa „) ; fi) il divieto di relazioni sessuali fuori
del matrimonio (queste relazioni, infatti, sono fondate o sull’ amore
della donna , e allora (*) Ibid. pp. 326-327 (ibid. pp.
316-318). CVII s’ impone moralmente il
matrimonio , ovvero soltanto sul' piacere o sull’interesse, ohe vai quanto
dire sull’indegnità della donna, e allora sono immorali non solo per la
donna ohe si avvilisce, ma anche per l’uomo che l’avvilisce, che
vede in lei non più un essere umano e ragionevole , ma un semplice
strumento di voluttà ('). b) La relazione tra genitori e figli dà luogo a
due serie inverse di doveri : u) da parte dei genitori il dovere di
vigilare la vita e la salute dei loro nati e in pari tempo di suscitare e
favo¬ rire in essi lo sviluppo della libertà secondo la direzione
del fine umano : insomma il dovere dell’allevamento e del- P educazione
alla moralità. L’adempimento di questo do¬ vere — che del resto è una
specificazione del dovere uni¬ versale che a tutti incombe di plasmare sè
e gli altri in conformità della legge morale — risponde nella
famiglia a un bisogno del cuore, perchè la prole, per i coniugi,
non è semplicemente prossimo , ma il prodotto del loro reci¬ proco
amore ; (1) da parte dei figli, se minorenni il dovere di obbedienza, se
maggiorenni il dovere di rispetto, vene¬ razione, assistenza ai genitori
( ! ). B) Due relazioni artificiali ,ma non meno indispen¬
sabili delle naturali alla vita comune, possono essere sta¬ bilite dalla
libera scelta dei singoli individui e insieme costituiscono l’organismo
sociale dello Stato: a) agire di¬ rettamente sugli uomini , in quanto
esseri ragionevoli ; b ) agire sulla natura, in quanto mezzo o strumento
per le nostre azioni verso gli uomini. Su questa base e in forza
della suaccennata necessità di una armonica divisione del (•)
Ibid. pp. 327-398 (ibid. pp. 318-324). (*) Ibid. pp. 333-343 (ibid. pp.
324-333). — cvm lavoro movale e di una
organizzazione gerarchica dell’ at- 1’ attività degl’ individui per la
promozione del fine su¬ premo, si distinguono due specie di classi
sociali, con due corrispondenti specie di doveri di vocazione : a) classi
su¬ periori (scienziati, educatori, artisti, impiegati), che lavo-
t vano al progresso spirituale della società, e sono, perciò,
quasi 1’ anima dello Stato ; b) classi inferiori (minatori, agricoltori ,
artigiani, commercianti) che assicurano 1’ esi¬ stenza economica della
società e sono, perciò, quasi il corpo dello &tato. a)
Quali i doveri di vocazione delle classi superiori ? — L’ uomo allora
soltanto adempirà la sua vera destina¬ zione quando abbia una visione
chiara del dovere ; è ne¬ cessario, dunque, formare anzitutto la sua
conoscenza teo¬ rica. Tale ufficio è la missione del dotto (*). Chi
consideri tutti gli uomini come una sola famiglia , è tratto a fare
delle loro cognizioni un unico sistema, il quale si accresce e si elabora
attraverso i secoli, come si accresce e si ela¬ bora attraverso gli anni
l’esperienza del singolo individuo. Ciascuna generazione, quindi, eredita
dal passato un tesoro di formazione scientifica, che la classe dotta è
chiamata a conservare e aumentare. I dotti sono i depositari e
quasi 1’ archivio della coltura della loro età ; non però alla ma¬
niera dei non dotti, che si arrestano ai risultati, si bene come chi
possiede anche i principi ohe condussero lo spi- (*) L’essenza e
la missione del dotto furono più volte per il Fichte argomento di
conferenze e di lezioni. Vedi in proposito nel voi. VI dei Sàmmtl. Werke
Ueber die Bestimmung des Gelchrten (le¬ zioni tenute a Erlangen nel 1805)
; e nel voi. Ili dei Nachgel. Werhe, Ueber die Bestimmung des Gelchrten
(cinque lezioni tenute a Berlino nel 1811). —
CIX A rito umano a questi risultati. E primo dovere
del dotto, quindi, acquistare una veduta stori co-filosofica del
cam¬ mino della scienza sino al suo tempo: altrimenti egli non
potrebbe nè intendere il significato della verità , uè epu¬ rarla dagli
errori che 1* offuscano. È inoltre dovere del dotto amare rigorosamente la
verità e lavorare al suo pro¬ gresso mediante una ricerca sincera e
disinteressata. la quale non si proponga altro che servire al fine
ultimo dell’umanità, all’avvento del regno della ragione nel mondo.
Il dotto, come ogni virtuoso, deve obliare se stesso in questo fine :
fare sfoggio di abilità nel difendere errori sfuggiti o brillanti
paradossi è soltanto egoismo e vanità che la morale disapprova e un’
elementare prudenza scon¬ siglia ; perchè soltanto il vero e il buono
permane : il falso, per quanto sfolgori a tutta prima , è destinato
a perire ('). La formazione della conoscenza teorica è
solfante mezzo al fine supremo di promuovere la moralità, ed è un
mezzo inefficace quando non vi si aggiunga l’operare pra¬ tico, quando, cioè,
alla visione da parte dell’intelligenza non si aggiunga 1’ azione da
parte della volontà. Ora, è ufficio d’ur.a speciale classe di dotti,
dedicarsi in modo particolare all’ educazione della volontà del pubblico
non dotto, alla moralizzazione del popolo : sono essi i ministri della
Chiesa, i quali, appunto perchè si sono messi al ser¬ vizio della
comunità etico-religiosa, hanno il dovere di adempiere il loro ufficio in
nome della comunità stessa, attenendosi scrupolosamente a ciò ohe è
oggetto di fede generale, al simbolo. Debbono, si, essere uomini di
scienza (*) lbid. pp. 5543-347 (ibid. pp. 333-337;.
— ex e, ilei loro campo speciale, vedere al
di là e meglio di quanto vedano le anime affidate alla loro cura, ma
nel- 1 educare queste anime, nell’ inalzarle a vedute superiori ,
devono procedere in modo che tutte a un tempo possano seguirli,
altrimenti si romperebbe quell’accordo spirituale che fa 1 essenza della
Chiesa. Gli educatori del popolo , in quanto tali , non devono svolgere o
dimostrare cono¬ scenze teoretiche e principi, e tanto meno
polemizzarvi sopra, come si fa nella repubblica dotta; non è loro
mis¬ sione porre articoli di fede o creare la fede — perchè ar¬
ticoli e fède esistono già come legame vivente della co¬ munità
etico-religiosa — ma ravvivare e rafforzare la fede che il credente ha
già nel progresso morale , ed elevare con essa lo spirito di lui
all’eterno, al divino. Soprattutto l’esempio che danno è importante a tal
fine ; la fede della comunità riposa in grandissima parte sulla fede
loro, e il più spesso non è che una fede nella loro fede. Ora, se
in essi la vita non risponde alla fede , la fiducia in questa
rimane profondamente scossa (‘). Spetta al dotto formare
1’intelligenza, spetta all’edu¬ catore morale formare la volontà dell’
uomo : sta tra i due l’artista, il quale ha il privilegio di educare il
senso este¬ tico , interposto come tratto d’unione tra la
conoscenza teoretica e 1 attività pratica. L’ artista non agisce
soltanto sull’ intelletto, come fa 1’ uomo di scienza, nè soltanto
sul cuore, come fa il moralista popolare, ma sullo spirito umano
tutto quanto : 1’ arte bella investo e pervade tutta l’anima in quanto
siuLesi di tutte le facoltà. La formula pili espres¬ siva di ciò che 1’
arte fa è la seguente : l' arie rende co- (') Ibid. pp. 348-853
(ibid. pp. 887-341). CXI — ninne il
punto di vista trascendentale. Il filosofo si eleva ed eleva con sé gli
altri a questo punto di vista col la¬ voro del pensiero e seguendo una
regola ; l’artista vi si trova già senza rendersene conto : nou ne
conosce altri. Bai punto di vista trascendentale il mondo è fatto :
dal » * punto di vista comune il mondo è dato ; dal
punto di vista estetico il mondo è dato, sì, ma non altrimenti che
come tatto. Il mondo reale, voglio dire la natura, presenta due aspetti :
da un lato è il prodotto delle determinazioni o limitazioni a noi poste,
dall’altro è il prodotto della nostra attività libera, ideale,
trascendentale. Sotto il primo rispetto la natura è essa stessa limitata
da ogni parte, sotto il secondo è da per tutto libera. La prima
maniera di vedere è volgare , la seconda è estetica. Per es., ogni
forma nello spazio può considerarsi come circoscritta dai corpi vicini,
ma anche come la manifestazione della forza espansiva, della pienezza
interna del corpo che ha questa forma. Chi vede i corpi nelle prima
maniera uon vede che forme contorte, compresse , mostruose : vede la
brut¬ tezza ; chi li vede nella seconda maniera, vede in essi la
vigoria, la vita , lo sforzo della uatura : vede la bellezza. Vale
altrettanto della legge morale : in quanto comanda assolutamente essa
comprime ogni tendenza della natura, e veder la nostra uatura a questo
modo è come vederla schiava ; ma la legge morale fa tutt’ uno con l’Io ,
ne è anzi l’espressione più intima, onde, obbedendo ad essa,
obbediamo a noi stessi : veder la nostra natura a que¬ st’altra mauiei’a
è vederla esteticamente ^ ossia come bel¬ lezza. 1. artista vede tutto
dal lato bello, vede in tutto energia , vita , libertà ; il suo mondo è
interiore, è nel- 1 umanità , e perciò 1’ arte riconduce 1’ uomo al fondo
di CXII — ne stesso, strappandolo al
dominio della natura, liberandolo dai vincoli della sensibilità e
rendendogli l’indipendenza, che e il supremo fine morale. Idi guisa che
il senso este¬ tico non e.la virtù, ma prepara alla virtù, e la
coltura estetica ha, un rapporto positivo con l’avanzamento del
fine morale. La moralità dell’ artista può raccogliersi in questi due precetti
: u ) un itimelo per tutti gli uomini : non ti fare artista a dispetto
della natura, non pretendere di essere artista quando la natura uon
t’ispira ; b) un co¬ mando per il vero artista: guardati dal favorire, o
per egoismo, o per desiderio di fama, il gusto corrotto del tuo
tempo; sforzati soltanto a riprodurre l’ideale che è in te; ispiiati alla
santità della tua missione, e sarai, a un tempo, uomo migliore e migliore
artista (*). L opera del dotto dell’educatore e dell’artista, in
ser¬ vigio del fine supremo morale, presuppone sempre quella libera
reciprocità d’azione tra gli uomini, che è condizione prima di ogni
comunità e a garantir la quale — finché il regno della ragione non sia
una realtà — è necessario lo Stato. Quali sono ora i doveri degli
impiegati, ossia degli ufficiali dello Stato ? L’ impiegato subalterno è
rigorosa¬ mente legato alla lettera della legge, la quale, perciò ,
dev’ essere chiara e uon dar luogo a dubbi d’interpreta¬ zione. Quanto
all impiegato superiore, al legislatore, al giudice inappellabile, i
quali non sono che i gerenti della volontà comune affermatasi,
espressamente o tacitamente, nel contratto sociale, debbono aneli’ essi
conformarsi alla costituzione politica attuale , nata dalla volontà comune
, con la riserva, però, di perfezionarla secondo le idee della
(•) Ibid. pp. 353-856 (ibid. pp. 342-844;. —
asm ragione, tenendo gli occhi tìnsi alla costituzione
ideale. Chi regge lo Stato deve avere una chiara veduta circa il
fine della costituzione — il quale non può essere che il progresso umano
— deve , perciò , elevarsi mediante con¬ cetti sopra 1’ esperienza
comune, dev’essere un do'tto nella sua materia, deve, come dice Platone,
partecipare alle Idee, e lavorare all’attuazione dell’ideale, favorendo
la coltura delle classi superiori. Da queste classi il progresso si
dif¬ fonderà poi nella comunità tutta quanta e trarrà seco, col
suffragio universale, la riforma della costituzione. Il reg¬ gitore di
uno Stato, quindi, è sempre responsabile dinanzi al suo popolo del modo
ond’egli lo governa, e se può con¬ siderarsi come legittima ogni
costituzione che non renda impossibile il progresso in generale e quello
dei singoli individui, sarebbe assolutamente illegittimo e immorale
un governo che si proponesse di conservare tutto com’ è at¬
tualmente ( l ). b) Quali i doveri di vocazione delle classi
inferiori ? — La nostra vita e il nostro operare sono condizionati
dalla materia, la quale va trattata conformemente al fine supremo che è
il dominio della ragione sulla natura. Quanto piu questo dominio si
estende, tanto più l’umanità progre¬ disce ; è necessario, dunque,
elaborare la rozza natura e renderla adatta ai fini spirituali ; è qui,
appunto, 1’ ufficio delle classi sociali inferiori, il cui lavoro,
riferendosi come ogni altro alla moralità di tutti, ha il medesimo
valore etico del lavoro delle classi superiori, alla pve/sibilità
del quale è condizione indispensabile. E poiché dal perfeziona¬ mento
meccanico e tecnico del lavoro materiale è facilitata (*)
(*) Ibid. pp. 35G-3G1 (ibid. pp. 344-349).
— rxiv la conquista della natura, ed è quindi promosso il
progresso dell’ umanità, è nu dovere per le classi inferiori
migliorare e inalzare il loro mestiere. TI che riohiede 1’
adempimento d un altro dovere concernente i rapporti tra la classe
in¬ feriore e la superiore. J1 perfezionamento industriale di¬
pende da conoscenze , scoperte , invenzioni, che rientrano nell ufficio
professionale dei dotti ; è dovere, dunque, della classe inferiore,
onorare la classe piò colta appunto perchè, tale e attenersi ai consigli
e alle proposte che da essa le provengono per quanto riguarda il
miglioramento di questo o quel ramo d’industria, di questo o quel genere
di vite, domestica, di questo o quel sistema di educazione, ecc.
Dal canto suo, poi, la classe superiore, ben lungi dal disprez¬ zai
e, deve tenere nella piu alta stima la classe inferiore, rispettarne la
libertà, riconoscere il valore dell’ opera sua in riguardo agli interessi
superiori dell’ umanità. Soltanto in una giusta reciprocanza di rapporti
tra le varie classi sociali sta la base del perfezionamento umano, inteso
come fine supremo di ogni dottrina morale (*). Riassumendo :
la Dottrina Morule, nelle tre parti in cui si divide, si propone un
triplice oggetto e ottiene un triplice risultato. u)
Anzitutto nella deduzione del principio della mo¬ ralità il Fichte mostra
come la Ragione e la Libertà, le quali a tutta prima per la coscienza
empirica non sono che ideali, divengano poi in essa principi di azione,
esercitino una causalità. L’io empirico individuale non può porsi
nè d) Tbid. pp. 861-365 (Tbid. pp. 849-852).
— cxv pensarsi se non in base all’ Io puro universale , se
non in quanto ha per principio e per fine l’Ideale ; e l’Io puro
universale non può attuarsi se non ha per strumento l’io empirico
individuale. L’ unità dell’ ideale non acquista cau¬ salità, non diviene
efficace nel mondo se non pluralizzan¬ dosi, quasi in centri luminosi, in
spiriti individuali, i quali soltauto possono dirsi realmente esistenti e
attivi. Ora, ap¬ punto questo reciproco rapporto tra i molteplici io
empi¬ rici e 1’ unico Io puro fornisce il contenuto del dovere e
rende il dovere intelligibile. Il dovere, infatti, è la neces¬ sita
imposta all’ Io puro, ossia alla Libertà, di attraversare 1’ intelligenza
, ossia l’io empirico , di divenire quindi in¬ telligibile, per passare
dallo stato ideale di potenza a quello leale di atto, necessità che non
significa eteronomia perchè non impone alla Libertà se non la propria
attuazione. L’in¬ telligibilità del dovere : ecco il primo risultato che
il Fichte ottiene, colmando l’abisso che il Kant aveva lasciato aperto
tra la conoscenza e la volontà, e facendo dell’ intelligenza la
condizione interna, il veicolo della libertà; poiché l’in¬ telligenza
esprime quasi lo sforzo della libertà infinita per assumere, con la
coscienza di sè, la forma del reale. b) In secondo luogo, a proposito
dell’applicabilità del principio morale, il Fichte mostra come il mondo
si presti all attuazione della ragione e della libertà ; il che
significa che la natura non è radicalmeute cattiva, non è assoluta-
mente refrattaria allo spirito ; c’ è anzi una stretta paren¬ tela tra lo
spirito e la natura, non essendo questa che un prodotto inconscio di
quello. Soltanto che l’attuazione del- 1 ideale morale non si compie a un
tratto nel mondo con un semplice decreto della volontà, ma è la meta di
un progresso. L’idea di sviluppo, di progresso è una categoria
— CXV1 della moralità ; ecco il secondo
risultato che il Fichte ot¬ tiene eliminando l’assoluta irriducibilità
riaffermata dal Kant tra libertà e natura . spirito e materia, idealità
e realtà, e facendo la natura, la materia, la realtà suscettive di
un progressivo liberarsi, spiritualizzarsi, idealizzarsi al-
l’infinito. c) Infine, nel fare 1’ applicazione del principio
mo¬ rale, il Fichte mostra come il progresso richieda, per com¬
piersi, una duplice condizione ; l’uua formale : occorre che 1’ individuo
acquisti in sè la coscienza della libertà e della legge morale ; 1’ altra
materiale : occorre che 1’ individuo apprenda come il contenuto del
dovere sia nell’ attuare la moralità non solo in lui, ma anche fuori di
lui, negli altri individui, nel genere umauo tutto quanto , la cui
totalità appunto rappresenta la ragione universale ; occorre,
insom¬ ma , che 1’ individuo sappia di essere strumento indispen¬
sabile per 1’ attuarsi dell’ ideale nel mondo , per 1’ emanci¬ pazione
cioè dell’ umanità intera dai vincoli della natura e per la sua
elevazione al regno dello spirito. La sosti¬ tuzione d’ un ideale sociale
a un ideale individuale : ecco il terzo risultato che il Fichte ottiene
trasformando la for¬ mula kantiana : “ Ogni uomo è esso stesso fine „ in
que¬ st’ altra : “ ogni uomo è esso stesso fine in quanto mezzo ad
attuale la ragione universale „ e subordinando così il singolo al tutto,
1’ individuo all’ umanità. È facile argomentare, in base a questo
triplice risul¬ tato, le radicali innovazioni di cui, rispetto alla
morale tra¬ dizionale, è feconda la dottrina fichtiana.
L’intelligibilità del dovere porta seco la razionalità dell’azione
e sostituisce alla fede, opera della grazia divina o di uu impulso
incosciente, la convinzione della propria —
CXVII coscienza, l’unione indissolubile dell’energia della
volontà con la luce del pensiero. Per ben operare, all’
intellettua¬ lismo socratico basta il retto giudizio, al volontarismo
cri¬ stiano basta il cuore puro : il Fichte fonde i due 'punti di
vista ed esige per la moralità degli atti così la dirittura del giudizio
come la purezza del cuore, così l’intima per¬ suasione come la buona
volontà. Un dovere irrazionale, im¬ penetrabile a ogni sforzo della
riflessione è, secondo lui, altrettanto immorale quanto un dovere
adempiuto per se¬ condi fini. Inintelligibilità e insincerità sono per il
Fichte ugualmente incompatibili col concetto del dovere. L’
idea di sviluppo e di progresso, intesa come cate¬ goria della moralità,
porta seco la riabilitazione della na¬ tura rispetto allo spirito, alla
cui attuazione, anziché osta¬ colo, è condizione e mezzo. Senza la natura
— vedemmo — mancherebbe allo spirito l’oggetto su cui esercitare la
pi-o- pria attività, la quale ha bisogno d’agire sulla natura per
liberarsi dalla natura; senza i corpi individuali, che della natura fanno
parte, mancherebbe alla libertà dello spirito il modo di pluralizzarsi in
tante sfere d’ azione, le quali, sebbene distinte, sono in recipi'oco
rapporto fra loro, sì da applicarsi tutte al medesimo universo e da
rappresentare, unite insieme, e attuare la vivente unità del cosmo e
della ragione universale. Ogni organismo corporeo, infatti, è stru¬
mento indispensabile affinchè la libera attività spirituale abbia
causalità nel mondo ; e da ciò deriva a esso e , per estensione, a tutta
quanta la natura, una consacrazione mo¬ rale, che non si accorda con la
condanna della natura e del corpo pronunziata dall’ ascetismo cristiano ,
ma nem¬ meno con l’apoteosi della natura e del corpo celebrata dal¬
l’edonismo pagauo ; una consacrazione morale che vieta a *
— cxviii un tempo così la macerazione, come il
blandimento della carne, e che mentre, restituisce alla vita dei sensi il
suo ufficio subordinato e la sua vera finalità nella vita morale
— si ricordi la prescrizione fichtiana già citata : u Man¬ giate e
bevete a gloria di Dio ; se questa morale vi sembra troppo austera, tanto
peggio per voi ; non ce n’ è un’ al¬ tra „ — non ritiene necessario nè
una risurrezione dei corpi, nè un’ immortalità personale. Perché il
Fichte non si contenta più di una moralità che miri a una vita
futura, o che si appaghi di un sogno di perfezione interiore, ma
vuole attuare sulla terra stessa il regno dei cieli, ripo¬ nendo la
beatitudine, come già il Lessing aveva detto della verità, non nel
possesso, ma nella conquista della libertà : “ essere liberi è nulla,
divenire liberi è il cielo ! „ — La sostituzione dell’ ideale
sociale all’ ideale indivi¬ duale porta seco l’inversione del rapporto di
dipendenza tra morale e diritto , 1’ accentuazione massima del
valore del regime di giustizia e la radicale trasformazione del concetto
tradizionale di carità. È, infatti, un’ originale ca¬ ratteristica della
dottrina fichtiana l’aver posto non più — come si soleva in passato
— la morale a condizione del diritto, ma il diritto a condizione della
morale. Per il Fichte la libertà, materia del dovere, non si concepisce
senza la società, ma la società non si concepisce senza rapporti di
giustizia, dunque la giustizia, ossia il diritto (juslitiu da jus =
diritto) è il fondamento della morale ; affinchè la moralità possa
attuarsi, occorre prima assicurare a tutti 1’ eguaglianza nel possesso
della libertà esteriore, e procu¬ rare a tutti indistintamente, con una
legislazione regola¬ trice dell’attività economica, quella parte di
agiatezza ma¬ teriale che è necessaria all’opera di emancipazione
morale CXIX o di elevazione verso la vita
dello spirito. Questa emanci¬ pazione ed elevazione spirituale, poi, non
deve uè può fi¬ nire nel singolo individuo, che nella dottrina fiohtiana
nou ha per sè nessun valore assoluto, ma dev’ essere promossa da
ciascun uomo in tutti gli altri uomini, perchè l’ideale etico, ben lungi
dal ridurci a una salvezza individuale, a una perfezione interiore, a una
santità eremitica incurante della sorte delle altre anime, o una santità
operosa sol¬ tanto per conquistarsi un posto nel cielo , consiste
invece nella moralizzazione e nella salvezza di tutto il genere
umano, nell’avvento del regno della ragione su questa terra e in tutta 1’
umanità. Di qui deriva , secondo il Fichte, il vero concetto della carità
: sforzarsi d’inalzare i nostri si¬ mili alla moralità. Ciascuno deve
proporsi non la propria felicità, e nemmeno soltanto la propria libertà e
indipen¬ denza particolare, ma la libertà universale, la salute spiri¬
tuale di tutti; il culmine della virtù per l’individuo è darsi in
olocausto per la salvezza del mondo, accettando coraggiosamente
l’imperativo ingrato, se si vuole, ma ca¬ tegorico, di lavorare senza
riposo e senza ricompensa, a un fine di cui non vedrà mai l’adempimento
completo, al trionfo infinitamente lontano della ragione , e di
lavorarvi in un ambiente spesso indifferente ed ostile, con penosi
sa¬ crifizi , senz’ altro stimolo che il puro amore del dovere ,
senz’ altra gioia che quella di avere colla propria abnega¬ zione
contribuito all’ordine universale ! Concezione sublime questa, che
ricorda l’altra affine dello Zend Avesta, la quale fa dipendere aneli’
essa la salvezza di ciascuno dalla salvezza di tutti e comanda a ognuno
di combattere, se¬ condo i propri mezzi e secondo il posto assegnatogli,
il regno delle tenebre e del male e di lavorare al trionfo —
CSX della luce e del bene. E nonostante questa abnegazione
di sè nell’ interesse della ragione universale, l’io individuale
conserva tutta la propria realtà e personalità, nè potrebbe avere una
dignità ma'ggiore , poiché quale dignità può ri¬ tenersi più grande di
quella di un essere dalla cui azione dipende la salvezza di tutti e alla
salvezza del quale con¬ corre 1’ universalità degli esseri ragionevoli
(’) ? (*) (*) Tale concezione trovasi eloquentemente illustrata
dal Ficlite anche nella terza delle conferenze da lui tenute a Jena nel
1794 sulla Missione ilei dotto ; ne riportiamo qui, liberamente tradotta,
la bella chiusa che è quasi una lirica: “ Se l’idea liuora svolta si
con¬ sidera auche prescindendo da ogni rapporto con noi stessi, siamo
por¬ tati a vedere fuori di uoi una collettività in cui nessuno può
lavo¬ rare per sè senza lavorare per gli altri, nè lavorare per gli altri
senza lavorare in pari tempo per sè , essendo il progresso dell’ uno
progresso di tutti, la perdita dell’ uno perdita di tutti : spettacolo
questo che ci sodisfa intimamente e solleva alto il nostro spirito con la
visione dell’armonia nella varietà. L’interesse aumenta se, ripor¬ tando
lo sguardo sopra noi stessi, ci riconosciamo membri di questa grande e
stretta comunione. Sentiamo rafforzarsi la coscienza della nostra dignità
e della nostra forza, quando diciamo a noi stessi ciò che ognuno può dire
: la mia esistenza non è inutile e senza scopo ; io sono un anello
necessario dell’ infinita catena che, dal momento in cui 1’ uomo assurse
per la prima volta alla piena consapevolezza del proprio essere, si
svolge verso l’eternità; quanti, tra gli uomini, furono grandi, buoni e
saggi, i benefattori dell' umanità i cui nomi leggo registrati nella
storia del inondo, e i tanti i cui meriti riman¬ gono, mentre i nomi sono
dimenticati, tutti hanno lavorato per me; io raccolgo i frutti delle loro
fatiche; ricalco sulla via che essi per¬ corsero le loro orme benefiche.
Io posso, tosto che lo voglia, ripren¬ dere 1’ ufficio altissimo che essi
si erano proposto ; rendere , cioè, sempre più saggi e più felici i
nostri fratelli ; posso continuare a costruire là dove essi dovettero
smettere; posso portare più vicino al compimento il tempio magnifico che
essi dovettero lasciare incom¬ piuto. — u Ma anch’ io dovrò smettere il
[mio lavoro come essi „ , dirà qualcuno — Oh ! questo è il pensiero più
elevato di tutti. Se assumo quell’ ufficio altissimo, non lo potrò mai
portare a termine ; quanto è certo che è mio dovere l’accettarlo,
altrettanto è certo che CXXI Amiamo
sperare che la precedente esposizione della Dol/t'ina morale del Fichte
non riesca inutile per chi si accinga a leggere il volume, se non nella
lingua, nello stile del suo autore. Certo non tutti accetteranno
integral¬ mente l’ardita metafisica ivi presupposta — che
volentieri chiameremmo Etilica come quella dello Spinoza e che è
forse, per adoperare una felice espressione del Barzel¬ letti (') , la
più eroica presa di possesso che mai mente umana abbia potuto fare, a un
tempo, e del mondo delle idee e del mondo della realtà — ma tutti*, senza
dubbio, saranno colpiti dalla originalità, profondità e finezza
delle vedute psicologiche ivi proiettate e analizzate con arte
insuperabile, e in particolar modo dalla nobiltà dei senti- non
potrò mai cessare d’operare; quindi non potrò mai cessare d’es¬ sere. Ciò
che si suoi chiamare morte non può interrompere 1’ opera mia; perchè
l’opera mia dev’essere compiuta, e non può essere com¬ piuta nel tempo ;
perciò la mia esistenza non è limitata nel tempo ed io sono eterno.
Assumendo parte di quell’ufficio sommo, ho fatto mia l’eternità. Sollevo
fieramente il capo verso le rocce minaccioso, verso le cascate
spumeggianti, verso le nuvole velegginoti in un oceano di fuoco , e dico
: io sono eterno e sfido il vostro potere. Ir¬ rompete tutti su di me, e
tu, cielo, e tu, terra, precipitate in un sel¬ vaggio tumulto, e voi
tutti, o elementi, spumeggiate e rumoreggiato e stritolate nella lotta
selvaggia pur 1’ ultimo atomo del corpo che io dico mio ; la mia volontà
sola, col suo fermo proposito, aleggerà ardita e fredda sopra le rovine
dell’ universo , perchè io ho assunto la mia missione, e questa è più
duratura di voi : è eterna, e, al pari di essa, sono eterno io „.
(Einige Vorlesungen ilber din Bcstimmung dea Gelehrten, 1794,
Summit. Werke, VI, pp. 321-828) — V. la traduz. frane, di M. Ni¬ colas ,
De la destinatimi da savant et de l'liomine de lettres par J. G. Fichte,
Paris, De Ladrauge 1838; e la trad. ital. di E. Roncali, con prefaz. di
G. Vitali, G. A. Fichte, La missione del dotto, Lanciano, Carabba,
1912. (') La Storia della Eiloso/ia (estratto dalla Nuova
Antologia, 1° gen¬ naio 1908) p. 2. —
CXX1I — menti ivi espressi con forza sempre, e spesso con
vivezza di colorito. Del resto non c’è una sola opera del nostro
filosofo che non elevi e non fortifichi l’anima del lettore perchè i suoi
seritti, .emanazione diretta delle più intime e salde convinzioni, e la
sua vii* di pensiero, rientrano nel ciclo di quella vita d’azione che fa
del Fichte una personalità tipica, un represen latice man, direbbe 1*
Emer¬ son. E invero egli appartiene — come già affermammo (’) —
all’eletta schiera di quegli eroi, la cui apparizione nella storia
diventa un possesso eterno per l’umanità, e la memoria dei quali durerà
quanto il mondo lontana. Il carattere adamantino della sua figura morale,
la quale è un’ unità altrettanto solida quanto ben fusa, grazie
alla più perfetta armonia tra idee pai-ole e opere, risulta scul¬
toreamente espresso in questa solenne dichiarazione, da lui fatta all’
inizio della sua carriera universitaria : u Io sono un sacerdote della
verità ; la mia esistenza è votela al suo servizio; sono impegnato a
tutto fare, tutto osare, tutto soffrire per essa. Se per causa sua fossi
perseguitato e odiato, se dovessi anche morire, che farei di
straordi¬ nario? nulla più che il mio assoluto dovere „ ( ! ).
Parole, queste, che spiegano bene il poderoso influsso, spiritual-
mente rigeneratore, esercitato dal Fichte sui suoi conna- ziouali e
contemporanei, influsso che , propagandosi nello spazio e nel tempo, ha
suscitato e susciterà sempre su¬ blimi emozioni e risoluzioni virili in
mille e mille anime, (') Cfr. prec. pp. XXIX-XXX. ( 2
) Einiye Vorlesungen iiber die Bestini muny (Ics Gelehrten 1794 (Sdmmtl.
Werke, VI, pp. 333-334). V — oxxm
— che pur non udirono mai la voce di lui (’). Costante mia- *
sione di questo eminente spirito fu : destare negli uomini il senso della
divinità della propria natura, fissare i loro pensieri sopra una vita
spirituale come l’unica e*vera, insegnar loro a guardare a qualcos’ altro
che la pura ap¬ parenza e irrealtà e guidarli così allo sforzo tenace
verso i più alti ideali di purezza, abnegazione, giustizia, solida¬
rietà e libertà. (') Questa infinita risonanza di idee, sentimenti
e propositi, at¬ traverso le generazioni, nel tempo e nello spazio,
questa immensa simpatia e solidarietà umana — che eccelle tra i principi
fondamen¬ tali della dottrina liclitiana — era profondamente sentita dal
Fichte stesso, come può rilevarsi anche dalla seguente bella pagina con
cui si chiude la seconda conferenza sulla Missione del Dotto (1794)
: “ Ognuno può dire : chiunque tu sia, tu che hai sembianze umane ,
sei un membro di questa grande comunità; sia pure infinito il nu¬ mero di
quelli che stauuo tra me e te, io so, nondimeno, che il mio influsso
giungerà sino a te , e il tuo sino a me ; chiunque porti sul viso, per
quanto rozzamente espressa, l’impronta della ragione, non esiste invano
per me. Ma io non ti conosco, nè tu conosci me. Oh! quanto è corto che
ambedue siamo chiamati a esser buoni e a dive¬ nire sempre migliori,
tanto è certo che verrà il giorno, e sia pure tra milioni e bilioni d’
anni (che è mai il tempo ?), verrà il giorno, dico, in cui trascinerò anche
te nella mia sfera d’azione, in cui potrò beneficarti e ricevere benefizi
da te, in cui anche il tuo cuore sarà avvinto al mio coi viucoli, i più
belli, di un libero scambio di reci¬ proche azioni! „ (Siimmtl. Werke,
(VI, p. 311). Cleto Carbonara. Keywords: l’esperienza e la prattica, esperienza,
dull title: “l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti
conversazionale – esperienza dell’altro, persona e persone – solipsism,
anti-solipsismo – esperienza, sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare,
fahren, --. altri, altro, l’altro, l’altri, la filosofia pratica, etica e
diritto, la filosofia pratica di Giovanni Amedeo Fichte, il pratico e
l’aletico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The Swimming-Pool
Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777011254/in/dateposted-public/
Grice e Carbone – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Mantova).
Grice: “I love Carbone; my favourite of his tracts are on the ‘unexpressible’ –
a contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’ – but the favourite-favourite are his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’)
and even more, his “La dialettica”. Si
laurea a Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova.
Insegna a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del
romanzo di Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso
anno. Fonda a Pisa con il sostegno del Leverhulme Trust un
Programma di ricerca sulla filosofia, concentrandolo
su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la
vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica,
fenomenologia, per Mimesis Edizioni. Si
concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma
unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza
percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo interesse
manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di studi si è
allargato dapprima a una più vasta considerazione della fenomenologia e poi a
quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in Francia, pur
mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione filosofica
sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha inoltre
condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e
ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la
filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco
in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca,
sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla
dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme,
dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty
(Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile
oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos
ed eidolon, il bello. Influenzato prevalentemente
da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale
alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile",
intesa quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da
questo rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo
mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini
dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta
a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto
di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende
caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume
nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione
e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente
data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando
quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che
Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità
retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni
etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di
"deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di
cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto
mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali
implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di
"a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare
l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di
ogni identità. Altre opere: “Ai confini
dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano,
Guerini e Associati); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte,
pensiero, Milano, Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust,
Milano, Libreria Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed
etica, Milano, Mimesis); Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo
schermo dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano,
Mimesis). Una deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata,
Quodlibet). Wikipedia Ricerca Mereologia Lingua
Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento concetti e
principi filosofici è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le
convenzioni di Wikipedia. In filosofia la mereologia (composizione del
grecoμέρος, méros, "parte" e -λογία, -logìa, "discorso",
"studio", "teoria"[1]) è uno dei "cosiddetti"
«sistemi di Leśniewski»[2], ossia è la teoria, o scienza[2], delle relazioni
parti-tutto[3]; presentata da Achille Varzicome teoria «delle relazioni della
parte al tutto e da parte a parte con un tutto»[4] (o «teoria delle parti e
dell'intero»[5]), da Hilary Putnam come «"il calcolo delle parti e degli
interi"»[6] e da Claudio Calosi come la «teoria formale delle parti e
delle relazioni di parte»[7]. Per Maurizio Ferraris tale relazione
parte-interopuò essere tra oggetti concreti, regioni spazio-temporali, processi
(parti temporali), eventi e oggetti astratti.[8] Storia Modifica Lo
studio delle parti affonda le sue radici nelle speculazioni filosofiche dei
presocratici, per poi essere portato avanti da Platone, Aristotele e Boezio. Di
grande importanza nello sviluppo della mereologia furono anche i contributi di
numerosi filosofi medievali, tra i quali Tommaso d'Aquino, Pietro Abelardo ed
Guglielmo di Occam. Nel periodo illuminista, anche Kant e Leibniz si
interessarono a quest'ambito. Tuttavia, la diffusione della mereologia in età
contemporanea si dovette a Franz Brentano e ai suoi studenti, in particolare
Husserl, assieme al primo vero tentativo di avviarne un'analisi attraverso
strumenti formali.[4] Stanisław Leśniewski creò il termine mereologia nel
1927[4] per denominare la teoria (che gli si presentò tramite un ragionamento
di Husserl[6]) delle relazioni tra le parti e il tutto a partire dalla differenziazione
— il cui principale fine era "evitare" l'antinomia di Russell[2]— tra
interpretazione distributiva (un oggetto come elemento di una classe) e
interpretazione collettiva (un oggetto come parte di un intero) dei simboli di
classe. Leśniewski, parzialmente influenzato da Alfred Whitehead, elaborò poi
la teoria in un sistema assiomatico deduttivo entro cui poter esprimere il
calcolo proposizionale e il calcolo delle classi[3]. I sistemi di
Leśniewski Modifica Anche se cronologicamente è il primo dei sistemi di
Leśniewski la mereologia contiene gli altri due: la prototetica
(scienza delle tesi più originarie, fondamentali ..le «prototesi») che è una
logica proposizionale con l'equivalenza come unico termine primitivo, la
proposizione come categoriafondamentale (ammettente la quantificazione per le
proposizioni e i funtori di qualunque categoria), un solo assioma, e delle
regole di separazione, sostituzione, definizione, separazione dei
quantificatori e di estensionalità. l'ontologia così denominata per la presenza
del funtore indicato con ε «preso nel suo senso esistenziale» (non indica
l'appartenenza insiemistica), essa è derivante dalla prototetica ed è anche
denominata «calcolo dei nomi» poiché gli è aggiunta la categoria dei nomi. Con
la mereologia si presenta una differente definizione d'insieme. Esso non è
definito distributivamente ma collettivamente(mereologicamente): l'insieme è
una concreta totalità di elementi, un aggregato e dunque un oggetto fisico
composto di parti, che è solo se, e finché, esse sono (v. dipendenza
ontologica[8]). Da ciò risultano varie differenze dalla "normale"
teoria degli insiemi tra le quali che in mereologia è "insensato"
ammettere l'esistenza di un insieme vuoto; indi insiemi di un solo elemento
sono tale elemento e la proprietà, unico termine primitivo della mereologia, di
«essere un elemento» è transitiva e antisimmetrica e riflessiva.[2][9]
Assiomi e definizioni Modifica Il fondamento concettuale alla base della
mereologia è la nozione di parte. In generale, nelle lingue naturali con
«parte» si intende una porzione costitutiva di un oggetto, gruppo o situazione.
Si può dire, ad esempio, che «la maniglia è parte della porta», che «il Gin è
parte del Martini», che «il cucchiaio è parte dell'argenteria» o che «il
calciatore è parte della squadra». Tuttavia, nell'ambito della mereologia si
cerca di seguire un impianto nominalista definendo questa nozione in termini
puramente logici, prendendo in esame le relazioni tra gli oggetti senza entrare
nel merito di eventuali considerazioni ontologicheriguardo questi ultimi. Di
conseguenza, la relazione di parte si può applicare anche a concetti più
astratti, come ad esempio nelle frasi «la razionalità è parte dell'essere
umano» o «la lettera 'c' è parte della parola 'cane'». Assiomi
fondamentali Modifica La nozione mereologica di parte può essere formalizzata
mediante il linguaggio della logica del primo ordine come un predicato,
solitamente indicato con P. Un'espressione del tipo {\displaystyle Pxy} dunque
si legge «x è parte di y». Per convenzione, questo predicato è concepito come
una relazione binaria che gode di tre proprietà fondamentali: il principio
della riflessivitàdella nozione di parte (Rp), il principio dell'antisimmetria
della nozione di parte (aSp) e il principio di transitività della nozione di
parte (Tp). (Rp) ogni cosa è parte di se stessa {\displaystyle (\forall
x)(Pxx)}, (aSp) per ogni x e y distinti, se x è parte di y, allora ynon è parte
di x {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(Pxy\land x\neq y\rightarrow \neg
Pyx)}, (Tp) per ogni x, y e z, se x è parte di y e y è parte di z, allora x è
parte di z {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(\forall z)(Pxy\land
Pyz\rightarrow Pxz)}.[9][4] In altri termini, la relazione di parte è un ordine
parzialelargo. Nonostante bastino solo questi assiomi per porre le fondamenta
della mereologia standard (o sistema M), si possono definire ulteriori concetti
a partire dal predicato P. Di seguito sono riportati quelli più
frequenti: Uguaglianza {\displaystyle EQxy:=Pxy\land Pyx} (x e y sono
uguali se sono uno parte dell'altro), Parte propria {\displaystyle
PPxy:=Pxy\land \neg (x=y)} (x è una parte propria di y se è parte di y ma è
distinto da esso), Sovrapposizione {\displaystyle Oxy:=(\exists z)(Pzx\land
Pzy)} (x è sovrapposto a yse c'è una parte di x che è anche parte di y),
Disgiunzione {\displaystyle Dxy:=\neg Oxy} (x è disgiunto da y se non ha
sovrapposizioni con esso). In particolare, la nozione di parte propria descrive
un ordine parziale stretto (irriflessivo, asimmetrico e transitivo) a
differenza del suo corrispondente primitivo, mentre la sovrapposizione è
riflessiva, simmetrica ma non necessariamente transitiva. È anche possibile
ridefinire il concetto di parte in termini di parte propria: {\displaystyle
Pxy:=PPxy\lor x=y}, ovvero x è parte di y quando è parte propria di y oppure
quando è identico a y. Decomposizione e composizione Modifica Per
disporre di una teoria mereologica che sia realmente in grado di rendere conto
dell'uso del termine «parte» in maniera adeguata, occorre imporre ulteriori
restrizioni sull'ordine parziale P. Nello specifico, vi sono due tipologie di
principi aggiuntivi: quelli di decomposizione (che ragionano dall'intero alle
parti) e quelli di composizione (che ragionano dalle parti all'intero).
Tra gli assiomi di decomposizione, il principio di supplementazione debole (o
WSpp) afferma che nessun intero può avere una singola parte propria. Ciò
risponde all'intuizione comune secondo la quale se un intero possiede una parte
propria, allora deve averne almeno anche un'altra, che costituisce il
rimanente. In simboli si ha che: (WSpp) {\displaystyle PPxy\rightarrow
(\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}, ovvero se x è una parte propria di y, allora
esiste (almeno) un zche è parte di y ma non è sovrapposto ad x. Similmente, il
principio di supplementazione forte (o SSp) prevede che un se y non è parte di
x, allora y ha una parte che non è sovrapposta a x. In simboli: (SSpp)
{\displaystyle \neg Pyx\rightarrow (\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}. Una conseguenza
logica del principio di supplementazione forte è l'estensionalità (Exp). Questa
importante proprietà afferma che due oggetti non possono essere differenti se
hanno le stesse parti proprie, o, in maniera equivalente, se due oggetti hanno
le stesse parti proprie, allora sono lo stesso oggetto. In simboli: (Exp)
{\displaystyle x=y\rightarrow (\forall z)(PPzx\leftrightarrow PPzy)}. Un
sistema mereologico che accetta, oltre agli assiomi fondametali di M, anche i
principi di supplementazione debole, supplementazione forte ed estensionalità è
detto mereologia estensionale (o EM). Considerazioni ulteriori, che però
non fanno riferimento al significato della nozione di parte, possono includere
l'idea che esista un oggetto privo di parti proprie, ovvero l'atomismo, oppure
l'idea che, al contrario, ogni cosa ha parti proprie, o simili, come la
proprietà della densità, che nega l'esistenza di parti proprie immediate.
Atomismo {\displaystyle (\forall x)(\exists y)(Pyx\land \neg (\exists
z)(PPzy))} Infinitismo {\displaystyle (\forall x)(\exists y)(PPyx)} Densità
{\displaystyle (\forall x)(\forall y)(PPxy\rightarrow (\exists
z)(PPxz\land PPzy))} Tra gli assiomi di composizione, il principio di somma
mereologica o fusione formalizza l'idea esistano degli interi composti
esclusivamente ed esattamente da un certo numero di parti. Ad esempio, la
Spagna e il Portogallo compongono la Penisola Iberica (o, in maniera
equivalente, la Penisola Iberica è la somma mereologica di Spagna e
Portogallo). Di contro, la mano destra e la mano sinistra non compongono il
corpo umano, poiché quest'ultimo possiede anche altre parti (gli occhi, il
naso, i piedi, ecc.). Nei casi che, come in quest'esempio, prevedono solo due
parti la somma mereologica può essere definita come segue: {\displaystyle
Szxy:=Pxz\land Pyz\land (\forall w)(Pwz\rightarrow (Owx\lor Owy))}(ovvero z è
la somma mereologica di x e y se x e ysono parte di z e ogni parte di z è
sovrapposta a x o y) Si tratta di un principio controverso, soprattutto se le
parti che compongono la somma sono potenzialmente infinite e non soltanto due.
È infatti possibile generalizzare tale definizione per indicare una somma di
infinite parti: {\displaystyle Sz\varphi x:=(\forall x)(\varphi
x\rightarrow Pxz)\land (\forall w)(Pwz\rightarrow (\exists x)(\varphi x\land
Owx))}, dove φ indica una generica proprietà. Vi sono almeno tre possibili
posizioni che si possono assumere nei confronti dell'esistenza somma
mereologica: Nichilismo mereologico Non esistono somme mereologiche, e
anche gli oggetti che a prima vista sembrano composti sono in realtà semplici.
In altri termini, utilizzando un'immagine già evocata da Peter van Inwagen, non
esiste il tavolo, ma esistono solo atomi disposti a forma di tavolo.[10] Per un
nichilista mereologico la Spagna e il Portogallo non compongono la Penisola
Iberica allo stesso modo di come la mano destra e la mano sinistra non
compongono il corpo umano, perché né la Penisola Iberica né il corpo umano
esistono (in senso mereologico, perlomeno). Moderatismo Le somme mereologiche
esistono soltanto in determinati casi e solo qualora vengano soddisfatte
determinate circostanze. Un moderatista potrebbe ammettere che la Spagna e il
Portogallo compongano la Penisola Iberica in virtù di qualche proprietà di
queste parti, ma negare che la mano destra e quella sinistra compongano
qualcosa. Universalismo Le somme mereologiche esistono in tutti i casi, anche
qualora non sembri possibile a prima vista. Per un universalista qualsiai
insieme di oggetti, ancorché totalmente differenti, compone qualcosa. Non
soltanto, dunque, la Spagna e il Portogallo compongono la Penisola Iberica, ma
anche la mano destra e quella sinistra compongono una somma, benché non esista
un termine per riferirsi ad essa. La nozione di somma mereologica, assieme a quella
di prodotto mereologico,[11] costituisce la base della mereologia estensionale
classica (o CEM). Note Modifica ^ -Logia, in Treccani.it – Vocabolario
Treccanion line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 2
giugno 2014. ^ a b c d Francesco Coniglione ^ a b Leśniewski, Stanisław, in
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ a b
c d Achille Varzi ^ Achille Varzi, Ontologia e metafisica ( PDF ), in Franca
D’Agostini e Nicla Vassallo (a cura di), Storia della Filosofia Analitica,
Torino, Einaudi, 2002, p. 41 [del pdf], ISBN 9788806162665. URL consultato il
02/06/2014. ^ a b Hilary Putnam ^ Carlo Calosi (2011), p. 24. ^ a b Maurizio
Ferraris ^ a b Giuliano Torrengo ^ Peter van Inwagen, Material Beings, New York,
Cornell University Press, Ithaca, 1990, ISBN 9780801483066. ^ Cfr. Achille
Varzi (2014) per una definizione di prodotto mereologico. Bibliografia Modifica
A. J. Cotnoir e Achille Varzi, Mereology, Oxford, Oxford University Press,
2021. Giorgio Lando, Mereology: A Philosophical Introduction, Londra,
Bloomsbury Publishing, 2017. ( EN ) Achille Varzi, Mereology, in The Stanford
Encyclopedia of Philosophy, primavera 2014, Stanford, Edward N. Zalta, 2014,
ISSN 1095-5054 (WC · ACNP). URL consultato il 02/06/2014. Claudio Calosi,
Mereologia, in APhEx (Analytical and Philosophical Explanation), n. 3, gennaio
2011, pp. 23–78, ISSN 2036-9972 (WC · ACNP). URL consultato il 02/06/2014.
Hilary Putnam, Lezione 2 - In difesa della relatività concettuale., in Etica senza
ontologia, tr. it. di Eddy Carli, prefazione di Luigi Perissinotto, Milano,
Paravia Bruno Mondadori Editori, 2005 [2004] , pp. 52 e sgg., ISBN
9788842492863, SBN IT\ICCU\RAV\1388829. URL consultato il 02/06/2014. Francesco
Coniglione, 2.2.8. I contributi in campo logico, in Nel segno della scienza: la
filosofia polacca del Novecento, Milano, FrancoAngeli, 1996, p. 182, ISBN
9788820473976, SBN IT\ICCU\MIL\0278584. URL consultato il 02/06/2014. Giuliano
Torrengo, 2.6.5. Parte-intero, in Maurizio Ferraris (a cura di), Storia
dell'ontologia, Milano, Bompiani, 2008, pp. LXXXII e sgg., ISBN 9788858700075,
SBN IT\ICCU\LO1\1210985. URL consultato il 02/06/2014. Maurizio Ferraris,
Glossario, in Ontologia, Napoli, Guida, 2003, pp. 163-164, ISBN 9788871886633,
SBN IT\ICCU\MOD\0809275. URL consultato il 03/06/2014. Voci correlate Modifica
Logica Ontologia Collegamenti esterni Modifica ( EN ) Achille Varzi, Spatial
reasoning and ontology: parts, wholes, and locations ( PDF ), in M. Aiello, I.
Pratt-Hartmann, e J. van Benthem (a cura di), Handbook of Spatial Logics,
Berlino, Springer-Verlag, 2007, pp. 945-1038, ISBN 978-1402055867. URL
consultato il 02/06/2014. Achille Varzi, Ontologia ( PDF ), in SWIF - Edizioni
Digitali di Filosofia, Volume Supplementare 2, Roma, Università degli Studi di
Bari , 2005, ISSN 1126-4780 (WC · ACNP). URL consultato il
03/06/2014(archiviato dall' url originale il 31 luglio 2013). Francesca
Bosco, La Fundierung nella Terza ricerca logica di Husserl, in Dialegesthai,
Roma, 20/12/2009, ISSN 1128-5478 (WC · ACNP). URL consultato il 02/06/2014.
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BNCF 68914 · LCCN( EN ) sh85146571 · GND ( DE ) 4184609-6 ·BNE ( ES ) XX548342
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alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 18 giorni fa
di FrescoBot PAGINE CORRELATE Quantificatore Rappresentabilità Geometria senza
punti Wikipedia Il contenuto èMauro Carbone. Keywords: mereologia,
organicismo in Hegel, il tutto e le parti, dialettica, “individuo e dividuo”,
divisio, visio, compositio, de-compositio, divisum, indivisum -- eidos, forma,
shape, il bello, essere en comune, mit-sein, l’impersonale, l’intrapersonale,
l’interpersonale – tutto, parte, tutto-parte, totum-pars, unita, a-tomon,
a-tomism, atomismo logico. tomismo logico, il tutto e le parti -- #DialetticaDegl’EntrambiDividui
-- -- --. Merleau-Ponty ‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carbone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774461752/in/dateposted-public/
Grice e Carboni – disegno dal vivo,
disgeno del nudo dal vero, disegno dal vero, disegno del nudo dal vero -- disegno
dall’antico, desegno dalla natura -- drawn from life -- tratto dalla vita – royal
academy –drawn from the antique -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Livorno).
Filosofo. Grice: “I love Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the image
and the ‘parable’” – a semiotics of communication with sections on ‘the tacit
response,’ through the looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and quoting
extensively from some ‘conversational-implicature’ passages in Aristotle’s
metaphysics, ‘To ask ‘why is man man?’ is to ask nothing!” “For some expressions,
analogy suffices!” Insegna a Roma, Bari, Viterbo. Altre opere: L’angelo del fare. Melotti e la
ceramica (Skira) e Il colore nell’arte (Jaca).
Cura Dorfles, Brandi, Deleuze, Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei
suoi saggi si segnalano: Giacomo Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo
Dorfles (“Il Corriere della Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al
Festival delle Letterature di Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini e Didi-Huberman. Scrive su “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di
Estetica”. “L’Impossibile Critico. Paradosso della
critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori
Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi);
“Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento,
Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la
pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza
estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della
contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso,
Castelvecchi); “Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare,
Castelvecchi); “Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee”
Jaca); “Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca). Drawing after the Antique at the British Museum,
1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State, Martin
Myrone Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art
Education and the Advent of the Liberal State Martin Myrone Abstract From 1808
the British Museum in London began regularly to open its newly established
Townley Gallery so that art students could draw from the ancient sculptures
housed there. This article documents and comments on this development in art
education, based on an analysis of the 165 individuals recorded in the
surviving register of attendance at the Museum, covering the period 1809–17.
The register is presented as a photographic record, with a transcription and
biographical directory. The accompanying essay situates the opening of the
Museum’s sculpture rooms to students within a farreaching set of historical
shifts. It argues that this new museum access contributed to the early
nineteenth-century emergence of a liberal state. But if the rhetoric
surrounding this development emphasized freedom and general public benefit in
the spirit of liberalization, the evidence suggests that this new level of
access actually served to further entrench the “middleclassification” of art
education at this historical juncture. Authors Martin Myrone is an art
historian and curator based in London, and is currently convenor of the British
Art Network based at the Paul Mellon Centre for Studies in British Art.
Acknowledgements The register of students admitted to the Townley Gallery was
originally consulted during my term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in
2014–15. Thank you to Mark Hallett and Sarah Victoria Turner of the Mellon
Centre for their continuing support and guidance, to Baillie Card and Rose Bell
for their careful editorial work, Tom Scutt for crafting the digital
presentation of my research, the two anonymous readers for their valuable
critical input, and to Antony Griffiths, formerly of the British Museum, and
Hugo Chapman, Angela Roche, and Sheila O’Connell of the British Museum, for
providing access to the register and for their advice. I am especially indebted
to Mark Pomeroy, archivist, and his colleagues at the Royal Academy of Arts for
the access provided to materials there and for advice and suggestions. I would
also like to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin Hopkinson, Sarah Monks,
Sarah Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg Sullivan, and Alison Wright.
Cite as Martin Myrone, "Drawing after the Antique at the British Museum,
1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State",
British Art Studies, Issue 5,
https://dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of
1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established
galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up
almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been
purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the
Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier in 1808. After some
protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection
was made available for its students in time for the royal opening of the
Townley Gallery on 3 June 1808. From January 1809, a written record was kept of
students admitted to draw from the antique. This volume survives in the library
of the Department of Prints and Drawings at the British Museum and identifies
one hundred and sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The
register forms the focus of this essay and is presented here as a facsimile and
transcription, with an accompanying directory of student biographies (see
supplementary materials below). This may be taken as a straightforward
contribution to the literature on early nineteenth-century art education, and
the author hopes it may be useful as such. However, it also situates the
opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a rather more
far-reaching set of historical shifts. Namely, it argues that this new form of
museum access was part of the early nineteenth-century emergence of a liberal
state that “actively governs through freedom (free ‘individuals’, markets,
societies, and so on, which are only ‘free’ because the state makes them so)”.
2 Access to the British Museum was “free” in that there were no charges or
fees. Meanwhile, the arrangement offered a degree of freedom to the students
themselves; they were expected to be largely self-selecting and
self-regulating. When the arrangement was exposed to public scrutiny, as a
result of questions asked in parliament in 1821, the freedom of access and the
service this did to the public good were emphasized. But, once closely
scrutinized, the evidence suggests that this manifestation of the freedoms
encouraged by the liberal state had a social disciplinary role (even if
disciplinary function can hardly be recognized as such), in serving to further
entrench the “middle-classification” of art at this historical juncture. 3 The
conjunction of art education and a grandiose notion such as the liberal state
may be unexpected, and rests on three key assertions. The first is that art
worlds are structured and in their structure have a homological relationship
with the larger social environment. 4 The initial part of this statement (that
art worlds are structured) may not be especially hard to swallow, given the
relatively formalized and hierarchical nature of the London art world during
the early nineteenth century, when cultural authority was vested in a small
number of institutions, and the practices associated with academic tradition in
principle still held sway. However, that the structure of the art world, in its
hierarchical dimension, may also be homologically related to the larger field
of power, so that social relationships are reproduced within this relatively
autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs contrary to
commonplace beliefs and expectations about talent and luck in determining
personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially. In fact, in
the period under review here, the artist became an exemplary figure in the new
narratives of social mobility: the art world came to serve as a model of how
talent or sheer good fortune could override social origins and destinies. 5 The
second assertion is that the Royal Academy and British Museum were developing
new forms of state institution, underpinned by the conjoined principles of
freedom of access and public benefit. Such has been argued importantly by
Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key regards, his
insights into the status of these institutions and the role of forms of
public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third
assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a
stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below”
historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and dispositions
ostensibly volunteered by these historical agents in all their multitude and
variety. The crucial point of reference here is the sustained body of work on
the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the work of Bruno
Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more materialistic and
decentralized understanding of the emergence and role of state bodies. 7 The
state, in this view, is composed of technologies, disciplinary structures,
habits of mind, and ways of doing things. The mechanics of art education,
insofar as this involves the movement through or exclusion of individuals from
identified places, the arrangement of their bodies in relation to one another
and to their model, the management of their behaviour within those places, the
very motion of their bodies, hands, and eyes under the surveillance of their
peers, teachers or other authorities, may be considered as a form of
biopolitics; the student who entered his or her name into the British Museum’s
register of admission was producing his or her governmentality. 8 The argument
here is emphatically historical and states that this arrangement, while it may
have precedents and may have been seminal, belongs to an historical moment—the
emergence of the liberal state. My case, which can be sketched out only in
outline in this context, is that the emergence of the familiar institutional
arrangements of the modern art world between the 1770s and the 1830s (in the
form of actual institutions and regulatory structures or permissions, including
annual exhibitions, centralized art schools supported by the state directly and
indirectly, emphasis on quantifiable measures of access and engagement as the
test of public value, and so forth) represents in an exemplary way the illusory
freedoms promoted by liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”,
as addressed by commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the
later work of Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve
Chiapello, among others. 9 The early nineteenth-century art world can be
proposed as a privileged focus of attention because it was still of a scale
which can allow for the kinds of data-based analysis which must underpin any
sort of sociological exploration, and because its individual membership can be
documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an
earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to
non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated
huge amounts of documentation about society and its individual members—tax
records, parochial and civil records, the national census from 1801—which
digitilization has made more readily available than ever before, allowing this
generation of artists to be documented as never previously. 10 The production
of artistic identities through these records is not unrelated to changes in
artistic identity itself over the same timeframe. One way of realizing this
might be to consider the period outlined above—c. 1770–1830s—not as a period
from the foundation of the Royal Academy (1769) to its removal to Trafalgar
Square, or even as the era of Romanticism, as much literary and cultural
history-writing would dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of
Nations (1776) to the Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last
experiment in patrician social care before the Poor Law Amendment Act (1834),
taking in Thomas Malthus and David Ricardo. The challenge is thinking of these
two frameworks not in sequential or spatially differentiated ways, but as
simultaneous and identical. Within this emerging liberal state the figure of
the artist is attributed with a special degree and form of freedom, what has
conventionally been alluded to, in generally sociologically imprecise ways, as
a feature of “Romanticism”, slumping into “bohemianism” and a generic idea of
art student lifestyle. If this was a moment of unprecedented state investment
in the arts (from the Royal Academy through to the Schools of Design) and
government scrutiny (notably with the Select Committees), it simultaneously saw
the emergence of artistic identities expressing the values of personal freedom,
freedom from regulation, and even active opposition to the state. I propose
that art education, as it took shape in the emerging liberal state, might be
explored as a “liberogenic” phenomenon: among those “devices intended to
produce freedom which potentially risk producing exactly the opposite.” 11 As
such, it may have renewed pertinence for our own time, although this does not
entail seeing a “causal” relationship between the past and present, or a linear
genetic relationship between then and now. In fact, the purpose of this
commentary, and the larger project it arises from, 12 is rather to trouble our
relationship with that past. The intention is not, however, to point
unequivocally to the era under consideration as here entailing “the making of a
modern art world”, with the rise of art education and museums access
representing a stage towards democratization, as illuminated in stellar fashion
by the great Romantic artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly
London barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques
Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of the
present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the
relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the
“freedom” of art education at the advent of the liberal state provides any
insight at all, it should do so by troubling rather than affirming our
narratives of the genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery
The arrival at the Museum of the Townley marbles, together with the development
of the prints and drawings collection and its installation in new, secure rooms
in the same wing, fundamentally changed the character of the institution. As
Neil Chambers has noted, having been primarily a repository of (often
celebrated) curiosities of many different forms, quite suddenly “The Museum was
now a centre for art and the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged
internally at the Museum by the creation in 1807 of a distinct Department of
Antiquities, which also had responsibility for the collection of prints and
drawings. But while the significance of the opening of the Townley Gallery in
the history of the British Museum is clear, the opening of the collection to
students has barely been noticed in the art-historical literature. The register
has been overlooked almost entirely, and the relevance of this development in
student access may not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William
Chambers, The Sculpture Collection of Charles Townley in the dining room of his
house in Park Street, Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of
the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum
Figure 2. Attributed to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing,
48 x 35 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of
Trustees of the British Museum Townley’s collection had already famously been
on display for many years at his private house in Park Street, London. William
Chambers’ (or Chalmers’) drawing of the Park Street display from 1794 includes
a well-dressed young woman drawing under the supervision or advice of a man,
promoting the idea that the collection was available for sufficiently genteel
students of the art more generally (fig. 1). In his recollections of the London
art world, J. T. Smith described “those rooms of Mr Townley’s house, in which
that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in
the Royal Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former
employer, the sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more
established artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in
the collection (fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park
Street, Westminster became an unofficial counterpoint to the English arts
establishment that was the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture,
much as Sir John Soane’s London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would
become an academy of architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a
number of the students and artists admitted to draw from the Townley marbles
once they were at the British Museum knew them formerly at first hand from
visiting 7 Park Street; for instance, William Skelton, admitted to draw at the
Museum in 1809, had apparently already studied and engraved three busts from
the collection for inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3).
Townley had hoped for a separate gallery to be erected to house the collection,
but his executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley
were unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a
compromise. With the erection of a new gallery space for the collection
underway, the Museum considered how special access might be given to artists.
That the question was posed at all should be an indication of how far the realm
of cultural consumption and production was being folded in to the emerging
liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February
1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings
collections might be used by artists, and to draw up “Regulations... for the
Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately
from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of
Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card,
1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under
construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved
to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the
Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian,
Joseph Planta, reported “his opinion of the best time & mode of admission
of Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the request
that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend a
further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the
Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with
additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the
British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of
the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his
Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the
Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee,
with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General
Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the
existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21
May, over three months after what should have been a straightforward matter was
raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of
Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some
consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington.
26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a
contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements
with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals
were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The
subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At
yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision
of superintendents to monitor the students while at the British Museum was
referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller
account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for
the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been
granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the
Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose,
& that an Academician shall attend each day at the Museum & to be paid
2 guineas for each day’s attendance’... Much discussion took place.” 30 At a
further meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of
the British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had
about the supervision of the students, Farington making the point that: as the
studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to
learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose
abilities & conduct wd. not warrant it, that it should be considered the
last stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection;
therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31
The point of contest may have concerned the right of the Council to organize
things independent of the General Assembly of the Academicians, and a more
general question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in
rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West
thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in
indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be
largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom
because they had already internalized the discipline required by these
institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled,
students were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of
1809: the first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4
and 5 to 11). On that date four students were enrolled, although only one of
them was at the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas
Monro, Physician at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential
“academy” at his home in Adelphi Terrace. The other students included two of
the daughters of Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph
Irvine of Great Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh
Irvine, the Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine
family of Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the
British Institution’s show in 1809. Another five students registered in
February and July. This included another recently registered Royal Academy
student, Henry Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805,
recommended for study at the British Museum by the architect and RA John Soane,
and the artists William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria
Singleton. The mix of amateur and professional artists, young and old, and
indeed the mix of male and female students (discussed below), continued
throughout the register. View this illustration online Figure 5. Page 1,
Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection
of the British Museum. Digital image courtesy of British Museum View this
illustration online Figure 6. Page 2, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 7. Page 3, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities,
1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees
of the British Museum View this illustration online Figure 8. Page 4, Register
of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View
this illustration online Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 10. Page 6, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17.
Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum View this illustration online Figure 11. Page 7, Register of
Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Eight
of the twelve students registered on 11 November were current Academy students;
this proportion of Academy students to others continues throughout the record.
But on the same day Planta noted to the standing committee that the Royal
Academicians not having availed themselves of the Regulations in favour of
their Pupils, & many applications having been made to him for leave to draw
in the Gallery of Antiquities, he therefore submitted to the consideration of
the Trustees, whether persons duly recommended might not be admitted in the
same manner as in the Reading Room. 33 The matter was referred on to the
general meeting. 34 On 9 December 1809 the new regulations were confirmed:
Students who apply for Admission to the Gallery are to specify their
descriptions & places of abode; and every one who applies, if not known to
any Trustee or Officer, will produce a recommendation from some person of known
& approved Character, particularly, if possible, from one of the Professors
in the Royal Academy. 35 On 10 February 1810 it was instructed “That the
Regulation respecting the mode of Admission of Students to the Gallery of
Sculpture, as made at the last General Meeting be printed & hung up in the
Hall, & at the entrance into the Gallery”. 36 The students admitted through
1810 were predominantly students at the Royal Academy, but also included the
emigré natural history painter the Chevalier de Barde and Charles Muss, already
established as an enamel and glass painter. The same pattern was apparent in
subsequent years. Twenty-five students were registered in 1811 and again in
1812, before numbers dropped to twelve in 1813, eight in 1814, picking up with
nineteen in 1815, and dropping to nine in 1816. The Museum’s original
stipulation that no more than twenty Academy students be admitted each year did
not, it appears, create any undue constraints on the flow of admissions. Far
from having a monopoly over student admissions, as the Museum’s original
regulations had anticipated, the Royal Academy had apparently been distinctly
laissez-faire, doing little to try to push students forward to make up the
numbers. The galleries the students gained access to comprised a sequence of
rooms within the new wing added to accommodate the growing collection of
sculptural antiquities, notably the Egyptian material taken from the French at
Alexandria in 1801. The Egyptian antiquities dominated the galleries in terms
of sheer size, although the visual centrepiece, whether viewed from the
Egyptian hall or through the extended enfilade of rooms II–V where the Townley
marbles were displayed, was the Discobolus (fig. 12). 37 The intimate scale of
the galleries brought benefits, as German architect Karl Friedrich Schinkel
noted on his visit of 1826: “Gallery of antiquities in very small rooms, lit
from above, very restful and satisfying”. 38 But is also imposed a practical
limit on the numbers of students who could attend. This changed when, in 1817,
the Elgin marbles were put on display at Montagu House in spacious, if
warehouse-like, temporary rooms newly annexed to the Townley Gallery (fig. 13).
The spike of interest recorded in the register, with thirty-seven students
listed under the heading “1817”, must reflect this new opportunity. The register
terminates at this point, although the volume continued to be used to record
students and artists admitted to the prints and drawings room (upstairs from
the Townley Gallery) from 1815 through to the 1840s. 39 Figure 12. Anonymous,
View through the Egyptian Room, in the Townley Gallery at the British Museum,
1820, watercolour, 36.1 x 44.3 cm. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 13. William Henry
Prior, View in the old Elgin room at the British Museum, 1817, watercolour,
38.8 x 48.1 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of
Trustees of the British Museum Some form of register must have been maintained,
but appears not to have survived, and evidence of student attendance after 1817
is largely a matter of anecdotal record. 40 These later records also,
incidentally, point to the variety of student practice in the galleries. While
the Museum’s original stipulations made the presumption that admitted artists
would be drawing (“each student shall provide himself with a Portfolio in which
his Name is written, and with Paper as well as Chalk”), students evidently
worked in different media as well. James Ward referred explicitly to
“modelling” in the Museum in his diary entries of 1817; and George Scharf’s
watercolour of the interior of the Townley Gallery from 1827 (fig. 14) shows a
student sitting on boxes at work at an easel, with what appears to be a
paintbrush in his right hand and a palette in his left. 41 Nonetheless, the Townley
marbles had lost much of their allure. Jack Tupper, a rather unsuccessful
artist associated with the Pre-Raphaelite Brotherhood, recalled his growing
disillusion when studying at the British Museum in the late 1830s: “So the
glory of the Townley Gallery faded: the grandeur of ‘Rome’ passed.” 42 Figure
14. George Scharf, View of the Townley Gallery, 1827, watercolour, 30.6 x 22
cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum The material record of student activity in the Townley Gallery,
in the form of images which seem definitely to derive from this special access
to the Museum, is extremely scarce. 43 Whatever was produced in the Gallery
was, after all, generally only for the purposes of study, and was unlikely to
be retained or valued after the artist’s death. John Wood, a dedicated student
at the Royal Academy from 1819, noted: “I am surprised at the comparatively few
drawings I made in the Antique School at the Royal Academy, including my
probationary one, not exceeding five, with an outline from the group of the
Laocoon.—In the British Museum I made a chalk drawing from the statue of Libēra
for Mr Sass”, that is, the Townley Venus, apparently drawn by Wood as an
exercise for the well-known drawing teacher Henry Sass. 44 Student drawings
after the antique must have been numerous, but that does not mean they were
preserved. J. M. W. Turner had apparently attended the Plaster Academy over one
hundred and thirty times up to the point he became an ARA, in 1799. 45 Yet even
with a figure of his stature, whose studio contents were so completely
preserved, and whose dedication to academic study was so notable, we have only
a handful of drawings which appear certainly to derive from his time at the
schools. 46 There are, doubtless, traces of study in the Museum to be uncovered
in finished works of the period. Charles Lock Eastlake’s youthful figure of
Brutus in his ambitious early work is evidently a direct lift from the marble
of Actaeon attacked by his own hounds in the Townley collection; he had been
admitted to draw from the antique in 1810 (figs. 15 and 16). But given the
dissemination of classical prototypes (in graphic form as well as in plaster)
it would be hard to insist that it was only access to the British Museum’s
antiquities which made such allusion strictly possible. Figure 15. Charles Lock
Eastlake, Brutus Exhorting the Romans to Revenge the Death of Lucretia, 1814,
oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm. Collection of the Wiliamson Art Gallery &
Museum. Digital image courtesy of Wiliamson Art Gallery & Museum Figure 16.
Anonymous, Marble figure of Actaeon attacked by his hounds, Roman 2nd Century,
marble, 0.99 metres high. Collection of the British Museum (1805,0703.3).
Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The Register of
Students as Social Record Of arguably greater interest than the question of the
“influence” of access to the marbles on artistic practice is the evidence the
register provides about the social profile of the students. This takes us to
the heart of the question about the relationship between art education and the
state. This was, in fact, a question raised at the time. The British Museum was
in 1821 obliged to draw up a report on student and public attendance of the
Museum, prompted by Thomas Barrett Lennard MP, who had entered a motion in the
House of Commons seeking reassurance that this publicly funded institution was
not “merely an establishment for the gratification of private favour or
individual patronage”. 47 Lennard’s questions arose from a growing body of
criticism directed against the Museum, which turned on the question of whether,
as a publicly funded body, everyone could expect free access, or only a more
specialist minority. As one critic jibed in 1822, “If the British Museum is
open only to the friends of the librarians, & their friends’ friends, it
ceases to be a public institution.” 48 The report elicited by Lennard’s
question provided a detailed breakdown of admissions. With regard to providing
access to draw from the antique, the Museum indulged the impression that it not
only fulfilled but exceeded its commitment to admitting Royal Academy students:
providing the figures for the period 1809–17 (based, surely, on the register
under consideration here), the Museum’s report elaborated: The Statute for the
admission of Students in the Gallery of Sculptures being among those required
by the Order of the House of Commons, it may not be irrelevant to add, that the
number of students who were admitted to make drawings in the Townley Gallery,
from the year 1809 to the year 1817, amounted to an average of something more
than twenty. 49 Notably, this summary gives the clear impression that the
antiques were being opened to the students of the Royal Academy; such is, quite
reasonably, presumed by Derek Cash in his recent, careful commentary on
admission procedures at the Museum. 50 The report also pointed to recent
changes: In 1818, immediately subsequent to the opening of the Elgin Room, two
hundred and twenty-three students were admitted: in 1819, sixty-nine more were
admitted, and in 1820, sixty-three. It asserted that, now: Every student sent
by the keeper of the Royal Academy, upon the production of his academy ticket,
is admitted without further reference to make his drawings: and other persons
are occasionally admitted, on simply exhibiting the proofs of their
qualification. According to the present practice, each student has leave to
exhibit his finished drawing, from any article in the Gallery, for one week
after its completion. 51 Thus stated, the Museum appeared to be fulfilling its
public duty in providing free access to appropriately qualified students. The
bare figures might seem to indicate a steady rise in student interest, which
could be taken as a marker of quantitative success. In one of the earliest
historical accounts of the Museum, Edward Edwards implied that the statistical
record was evidence of how Planta had progressively extended access to the
Museum: “From the outset he administered the Reading Room itself with much
liberality... As respects the Department of Antiquities, the students admitted
to draw were in 1809 less than twenty; in 1818 two hundred and twenty-three
were admitted.” 52 At that level of abstraction the information appears beyond
dispute. What I test in the remainder of this essay is how these statements
stand up to the more individualized account of student activity represented in
the biographical record. That record does include the most assiduous students
of the Royal Academy of the time, who certainly did not need the kind of
“constant inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated
by the Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F.
B. Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs,
William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the
Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a
more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named
in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for
the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending
students, although in most of those cases we can conjecture at least some
biographical context. 54 Slightly less than half the total number of
individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which
makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when
they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more
established male artists attended, and several of these were formerly students
at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward.
Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific
professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where
the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was
explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both
William Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with
his ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that
the “Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry
Meyer, were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended
by the publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined
presence in the register of artists who did not pursue the art professionally
or full-time, including the relatively well-documented Chevalier de Barde,
Arthur Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph
Irvine” who appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward
Vernon Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from
the polite classes, even if their exact identities remain unclear. There are at
least fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently
socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur
interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known
to have practised art to make it quite certain that they were not, at least
generally, being admitted to consult the collection without intending to draw,
and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”.
Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most
of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus
sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth
Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour
Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art
as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family
circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were
admitted without special comment or notice despite the issues of propriety
around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which
crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking
given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum
library over the same period: only three out of the three hundred and
thirty-three admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On this
evidence, the field of artistic study was, in the most literal terms,
relatively female compared even to the study of literature or history. This
points to an under-explored context for the inculcation of the students into
life as an artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether
brothers or sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to
consider the family as the context in which artists are made as much as, if not
more than, the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that
those individuals who had enrolled as Academy students also had expectations
about the professional pursuit of the art. Among the Academy students who
attended, a large proportion, including a majority of the most assiduous, were from
polite social backgrounds, with fathers in the professions, or who were
office-holders or from the landowning classes, including Henry Monro, John
Penwarne, Richard Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry
Perronet Briggs, Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew
Geddes, John Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel
Hancock. Others were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen
or merchants, including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert
Leslie, Gideon Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either,
predestined to be artists, by simply following in their father’s footsteps, but
were opting in to an artistic career, having had, usually, a decent education,
and access to material and social support. In many cases their brothers, who
shared the same upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or
merchants. A number of individual students gave up the practice of the
art—Thomas Christmas became a landowner in Willisden; Richard Cook was able to
retire, wealthy; Seymour Kirkup languished in Rome dabbling in the arts;
William Brockedon became more engaged as an inventor and traveller; while
others were never really obliged to draw an income from their practice but pursued
art as a pastime. It remains the case that there was a high level of
occupational inheritance; perhaps thirty-eight of the students (23 percent) had
fathers who were architects, engravers or artists in painting or sculpture.
Many were the sons of established artists (including Rossi, Bone, Stothard,
Ward, Dawe, Wyatt, Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of
“dynasties” encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon,
Hakewill, Landseer). Even then, there is the case of John Morton (noted
confusingly as “John Martin” in the register, although the address given
provides for a firm identification), who, although the son of an artist and a
student at the Royal Academy, exhibited personally as an “Honorary”, suggesting
he was not professionally engaged. That his brother became quite prominent as a
physician suggests that this was a quite emphatically middle-class family
setting. There are several points to derive from this information, even as
lightly sketched as it necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that
while female students were a minority they were a definite presence; in this
regard, the British Museum was like other spaces of artistic study, notably the
painting school at the British Institution. 60 The observation is upheld by the
contemporary records of student attendance at the British Institution or of
copyists at Dulwich Picture Gallery, and should serve as a reminder that the
Royal Academy was exceptional among the spaces of art education in being so
entirely male. 61 Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds
unconnected with the art world; really, only a handful, which would include
John Tannock (son of a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in
York), John Jackson (son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry
Hunt (whose father was a London tin-plate worker). The circumstances which led
to their gaining access to the London art world are, therefore, noteworthy, as
a third and most important point would be to emphasize how emphatically
metropolitan, polite, and middle-class was the British Museum as a site of
artistic education. The Townley Gallery on student days was a place where
working artists, students, amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal
Academy is conventionally seen as an engine of professionalization, it is
striking that the social affiliations of artists point to strong, arguably
increasingly strong, affiliations between amateurs and professionals—to the
extent that our terminology around this point needs to be reconsidered. Looking
over the biographical survey, the kind of social suffering or precariousness
typically associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of
industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with
the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the
minority of students from backgrounds neither closely connected with the art
world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social
ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the
exceptions rather than representative. The relative weight of personal and
Academic connection is exposed in the record of the provision of references for
students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than
half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper
of the Academy Schools through this period must have provided references as
part of his duties, and accordingly provided the second largest number of
recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in
providing references was taken by William Alexander, artist and keeper of
prints and drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall,
officers and Trustees were most active in admitting students. Most only ever
provided a reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends
of the librarians, & their friends’ friends” contains some truth. But the
same point applies to the artists, most of whom only ever recommended one
student, often known personally to them already: David Wilkie recommended his
assistant, John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own
son; Thomas Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John
Flaxman, the relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a
neighbour (Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees
often coming from the same area as their favoured student: Francis Horner recommended
John Henning, whom he had known in their native Scotland; the Scottish George
Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put forward William
Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from Devon to the
metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow West
Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to visiting
American students, two such (Leslie and Morse). If the admission procedure
could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a corporate,
professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless detect
underlying patterns of kinship, personal, social, and geographical affiliation.
Simply stated, even if study at the Museum was free and freely available, any
given student would still need to access a letter of reference and the time to
go to the Museum (as well as the material means to acquire the portfolio,
paper, and chalks anticipated by the Trustees). The opening hours for students
militated against anyone attending who had to use these daylight hours for
work, a point which was made quite often with reference to the Reading Room
through this period. 63 The most assiduous students needed the time free to
study at the British Museum, something that well-off students like Eastlake,
Brockedon, Briggs, and Monro had readily available to them. Their peers at the
Academy who were obliged to work during the day to make a living, or who were
serving apprenticeships, would simply not be able to make the hours available
at the Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to attend the
Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk, but his
brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit Office,
would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had told
Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office,
Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep
His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a
feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the
Townley Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees
continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was
scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although
he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father
was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism,
visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment
or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the
Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students.
Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of
individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this
“micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging
cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow
Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force
ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of
history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed)
promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of
preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely
available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be
in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed,
to know or at least be able to access the right people, to get in. This point
may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a
denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic
time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed
from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw
certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so
seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and
a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the
most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the
bronze and porcelain department at Messrs Howell & James, Regent-street,
was examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he
noted: The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture
is now acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he
draws from the antique at the British Museum for a certain time, and when he
shows that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal
Academy he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge
is considerable, and the young artist must also be maintained by his relatives
during the time that he is acquiring it. 69 The following year, in a further
parliamentary committee, this time dedicated to testing out the British
Museum’s claims to public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane,
Fleet Street, was asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of
casts, from the better specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to
which he replied, “I should derive assistance from them if I had the
opportunity, but I have not time.” 70 Considered sociologically, as the
personal experience of these men seems to have obliged them to do, time was
certainly of the essence. The prevalence of students with secure middle-class
backgrounds at the British Museum might, then, be taken as evidence of an early
phase in the “middle-classification” of art practice, the awkward but evocative
phrase used recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of
careers in the present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put
on equality of access to educational opportunity, however rigorously fairminded
and anonymized the tests and measures involved in admission procedures, without
forms of positive support to counterbalance or actively adjust social
inequalities, those same inequalities will tend to be reproduced,
homologically, in the educational field. This is patently not a simple matter
of social and material advantage underpinning artistic enterprise in a wholly
predictable way; such would be a nonsense, in light of the many students who
did not enjoy such advantages. Instead, it is the very flexibility built into
the exclusionary processes of the emerging cultural field which is
significant—the possibility that talented students could get access, gain
reputation, achieve success, without being limited by their social origins.
“Freeing” art education allowed for the expression of personal preferences or
dispositions at an individual level, which at an aggregate level reproduced
larger power relations. Exposing that ultimately exclusionary process, which
may be marked only in small differences, in personal dispositions and
behaviours, in the personal choices and decisions which are neither truly
personal nor really pure as choices, is no small task. This essay, and the
biographical survey accompanying it, with its details of a multitude of student
lives otherwise scarcely recorded or recognized, is intended as a small
contribution to that larger project, with the excess of data presented here perhaps
imposing, in itself, new requirements on our understanding of the history of
art education. Appendix Regulations for the admission of students of the Royal
Academy to the Townley Gallery at the British Museum (May 1808): [7] That the
students of the Royal Academy be admitted into the Gallery of Antiquities upon
every Friday in the months of April, May, June, & July, & every day in
the months of August and September, from the hours of twelve to four, except on
Wednesdays and Saturdays the Students, not exceeding twenty at a time, to be
admitted by a Ticket from the President and Council of the Royal Academy,
signed by their Secretary. [8] The better to maintain decorum among the
Students, a person properly qualified shall be nominated by the Royal Academy
from their own body, who shall attend during the hours of study; the name of
such person to be signified in writing, from time to time, by the Secretary of
the Royal Academy to the Principal Librarian of the British Museum. [9] That
the members of the Royal Academy have access to the Gallery of Antiquities at
all admissible times, upon application to the Principal Librarian or the Senior
under Librarian in Residence [10] That on the Fridays in April, May June &
July one of the officers of the Department of Antiquities do attend in the
Gallery of Antiquities according to Rotation in discharge of his ordinary Duty.
[11] That in the months of August & September some one of the several
Officers of the Museum, then in Residence, do (according to a Rotation to be
agreed upon by themselves & confirmed by the Principal Librarian) attend on
the Gallery upon the Days for the admission of Students. [12] That the
attendants in the Department of Antiquities be always present in the Gallery
during the times when the Students are admitted. 72 Footnotes The original
register is held in the Keeper’s Office, Department of Prints and Drawings,
British Museum. Patrick Joyce, “Speaking up for the State” (2014),
https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/patrick-joyce/ speaking-up-for-state.
These points are made in light of a larger research project, which has given
rise to the present study: a biographical survey of all the students of
paintings, sculpture, and engraving who were active at the Royal Academy
schools between its foundation in 1769 and 1830 together with a monograph,
provisionally titled The Talent of Success: The Royal Academy Schools in the
Age of Turner, Blake and Constable, c. 1770–1840 (forthcoming). This fuller
survey indicates several important shifts over these decades, including a
fundamantal shift in the proportion of students coming from family
backgrounds in the arts and design-oriented trades, in comparison with those
coming from professional and genteel backgrounds. It exposes, specifically, a new
group whose fathers were engaged as “officers”, in the civil service or
bureaucratic roles, who in turn had a disproportionate representation within
the developing art establishment (as Academicians, or as officials in other
cultural bodies). The term “art world”, as designating a space of
co-production, stems from Howard S. Becker, Art Worlds (1984), rev. edn
(Berkeley, CA: University of California Press, 2008). As deployed here, it is
closer in conception to the sociological “field” as detailed by Pierre Bourdieu
across a succession of influential works. Notable among these, for present
purposes because of its methodological statement about the homological analysis
of the world (field) of art in relation to the field of power, is The Rules of
Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press, 1996), esp. 214–15. See,
notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel Smiles’s Self-Help, first
published 1859 with numerous further editions. On the self-motivated artist as
the model for all forms of work, see Angela McRobbie, Be Creative: Making a
Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity Press, 2016), esp.
70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy of Arts and the
Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford University Press, 2003)
and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars Over Antiquities,
1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. Patrick Joyce, The Rule
of Freedom: Liberalism and the Modern City (London: Verso, 2003) and Joyce, The
State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800 (Cambridge:
Cambridge University Press, 2013); also his “What is the Social in Social
History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. On this Foucauldian
framing of art education and creative production within liberalism, see
McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The Great
Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944; Boston,
MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics: Lectures at
the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans. Graham Burchell
(Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve Chiapello, The
New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New York: Verso,
2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de France,
1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach (Cambridge:
Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A History of
Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury, 2011), 97–119.
Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties and rights
secured by this rising documentation. The position taken here is more
determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in
“liberalisation”, and the hidden affinities between the liberal and the
totalitarian, see Michael Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the
Collège de France, 1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana, trans.
David Macey (London: Penguin, 2004). Foucault, Birth of Biopolitics, 69. A
biographical dictionary of Royal Academy students from 1769–1830. See note 3,
above. Jacques Rancière, The Method of Equality: Interviews with Laurent
Jeanpierre and Dork Zabunyan, trans. Julie Rose (Cambridge: Polity Press,
2016), 108. Neil Chambers, Joseph Banks and the British Museum: The World of
Collecting, 1770–1830 (London: Routledge, 2007), 107. The register is mentioned
in the notice of Seymour Kirkup in G. E. Bentley, Blake Records, 2nd edn (New
Haven, CT, and London: Yale University Press, 2004), 289n. Kirkup was an
unusually assiduous student at the Museum, admitted in 1809 and renewing his
ticket through to 1812. The reference in Bentley appears to be the only
published reference to the register. The admission of the Paytherus sisters to
draw at the Museum is noted by James Hamilton in his London Lights: The Minds
that Moved the City that Shook the World, 1805–51 (London: John Murray, 2007),
72, although with reference to the early Reading Room register (marked “1795”)
in the British Museum Central Archive, rather than the volume in Prints and
Drawings. See J. T. Smith, Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London:
Henry Colburn, 1829), 1: 242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the
Culture of Collecting in Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press,
2009), 242–44. See B. F. Cook, The Townley Marbles (London: British Museum
Press, 1985) and Ian Jenkins, Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture
Galleries of the British Museum, 1800–1939 (London: British Museum Press,
1992). Chambers, Joseph Banks, 107. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17
18 19 Derek Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to
1836”, British Museum Occasional Papers 133 (2002), 68. http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52.
Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum,
Central Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1043–144. Cf. “Chapter III: Concerning the Admission into the British
Museum”, in Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of
the Contents of the British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The
Diary of Joseph Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17
vols. (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284.
Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the
Royal Academy of Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts,
London, GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph
Farington, 9: 3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum,
Central Archive, C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428.
The British Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central
Archive, C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a
written description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals
(London, 1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in
the British Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles,
59–61. Karl Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to
France and Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven,
CT, and London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings
must have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November
1814; see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the
First Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994):
536. In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I
last Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas
Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London:
Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859):
Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from
the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of
drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40)
appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the
installation of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the
objects rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the
Getty Research Institute are evidently preparatory for the prints published in
Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures
in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s
plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it
could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann
Chumbley and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary
Life, exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr
Turner: The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale
University Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821,
c.724 (online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/
1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for
a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access
to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the
Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23
February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary
Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the
British Museum (London: Trübner and Co., 1870), 520. 20 21 22 23 24 25 26 27 28
29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52
Bibliography Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of
the Contents of the British Museum. London, 1808. Becker, Howard S. Art Worlds
(1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University of California Press, 2008. Bentley,
G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and London: Yale University Press,
2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New Spirit of Capitalism. Trans.
Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007. See Martin Myrone,
“Something too Academical: The Problem with Etty”, in William Etty: Art and
Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner (London: Philip
Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural biographies include those
for William Carr of New Broad Street; W. W. Torrington; Edward Thomson; Richard
Moses; and Mr Lewer. Information is most notably lacking for the trio of Miss
Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower Street; William Hamilton of Stafford
Place; William Irving of Montague Street; Thomas Williams of Hatton Garden;
Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street; Miss Edgar; Miss Carmichael of
Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of Norfolk Street; George Pisey of
Castle Street; Charles White of George Street; Robert Walter Page of Wigmore
Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John Hall. Students were entered as
“probationers” for a period of three months (which might be extended), and once
registered could attend the Schools for a period of ten years. Ralph Irvine;
Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde; John Disney; John Campbell; Edward
Utterson; John Lambert; Robert Batty; Alexander Huey; Richard Thomson; Charles
Toplis; John Frederick Williams; Edward Burrows; William Carr; W. W.
Torrington. Jane Landseer; Janet Ross; Georgiana Ross; the two Misses
Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth Appleton; Louisa Champernowne;
Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances Edwards; Eliza Kempe; Ann Damer; Miss
Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss Adams; Sarah Newell; Emma Kendrick; Jane
Gurney. Gentleman’s Magazine (1820) and A Trip to Paris in August and September
(1815), quoted by William T. Whitley in his Art in England, 1800–1820 (London:
Medici Society, 1928), 263, as evidence that “It was still thought improper for
women to study from such figures” as the Apollo Belvedere. Cash, “Access to
Museum Culture”, 113. As the American Samuel F. B. Morse (a student at the
Royal Academy and the British Museum) noted in 1811: “I was surprised on
entering the gallery of paintings at the British Institution, at seeing eight
or ten ladies as well as gentlemen, with their easels and palettes and oil
colours, employed in copying some of the pictures. You can see from this
circumstance in what estimation the art is held here, since ladies of
distinction, without hesitation or reserve, are willing to draw in public.” See
Edward Lind Morse, ed., Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals, 2 vols.
(Boston, MA: Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of students admitted to copy
at the British Institution appear in the Directors’ minutes, NAL RC V 12–14,
and in contemporary press reports. Individuals admitted to copy at Dulwich
Picture Gallery were routinely listed in the “Bourgeois Book of Regulations”
from 1820; photocopies and notes at Dulwich Picture Gallery, C1 and H3. This is
expecially clearly expressed in James Ward’s diary notes on his visits in 1817,
meeting there the artists William Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and
William Long, but also the gentlemen collectors and scholars William Lock,
Edward Utterson, and Francis Douce (Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to
Museum Culture”, 217 and passim. Although the timing of the Academy’s evening
classes might seem to be more accommodating, even this may have been
challenging. The master of Richard Westall, later a watercolour painter,
“permitted him to draw at the Royal Academy, in the evenings; but for that
indulgence he worked a corresponding number of hours in the morning”.
Gentleman's Magazine, February 1837, 213. Diary of Joseph Farington, 4: 4783. On
educational tests as linking “macro” and “micro”, “both sectoral mechanisms or
unique situations and societal arrangements”, see Boltanski and Chiapello, New
Spirit of Capitalism, 32. See Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations, trans.
Richard Nice (Stanford, CA: Stanford University Press, 2000). “Acts of
nomination, from the most trivial acts of bureaucracy, like the issuing of an
identity card, or a sickness or disablement certification, to the most solemn,
which consecrate nobilities, lead, in a kind of infinite regress, to the
realization of God on earth, the State, which guarantees, in the last resort,
the infinite series of acts of authority certifying by delegation the validity
of the certificates of legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations,
245. The potentially trivial nature of the acts of nomination involved in
gaining access to the British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own
account of providing recommendations (for the Reading Room) often only on the
basis of casual conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207.
Report of the Select Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4
September 1835, 40. Report of the Select Committee on the British Museum,
quoted in Edward Edwards, Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the
Select Committee on the British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie,
Be Creative. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. 53 54 55 56
57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 Bourdieu, Pierre. On the State:
Lectures at the Collège de France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others.
Trans. David Fernbach. Cambridge: Polity Press, 2014. – – –. Pascalian
Meditations. Trans. Richard Nice. Stanford, CA: Stanford University Press,
2000. – – –. The Rules of Art. Trans. Susan Emanuel. Cambridge: Polity Press,
1996. Cash, Derek. “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to
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1928. drawn from the antique Artists
& the Classical Ideal Adriano Aymonino and Anne Varick Lauder with
contributions from Eloisa Dodero, Rachel Hapoienu, Ian Jenkins, Jerzy Kierkuc
́-Bielin ́ski, Michiel C. Plomp and Jonathan Yarker sir john soane’s museum
2015 Drawn from the Antique: Artists & the Classical Ideal An
exhibition at Teylers Museum, Haarlem 11 March – 31 May 2015 Sir John Soane’s
Museum, London 25 June –26 September 2015 This catalogue has been generously
supported by the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen Stiftung, Vaduz
This exhibition has been made possible through the support of the Government
Indemnity Scheme Sir John Soane’s Museum is a non-departmental body and is
funded by the Department for Culture, Media and Sport Published in Great
Britain 2015 Sir John Soane’s Museum, 13 Lincoln’s Inn Fields, London, wc2a 3bp
Tel: 020 7405 2107 www.soane.org Reg. Charity No. 313609 Text © the listed
authors All photographs © as listed on pages 254–56 ISBN (paperback):
978-0-9573398-9-7 ISBN (hardback): 978-0-9932041-0-4 Designed and typeset in
Albertina and Requiem by Libanus Press Ltd, Marlborough Printed by Hampton
Printing (Bristol) Ltd Frontispiece: Michael Sweerts, A Painter’s Studio
(detail), c. 1648–50, cat. 12 (p. 134) Page 10: Hendrick Goltzius, The Apollo
Belvedere (detail), 1591, cat. 6 (p. 107) Page 78: William Pether, An Academy
(detail), 1772, cat. 24 (p. 189) Contents Preface 6 Abraham Thomas Introduction
7 Adriano Aymonino and Anne Varick Lauder Acknowledgements 9 Ideal Beauty and
the Canon in Classical Antiquity 11 Ian Jenkins and Adriano Aymonino ‘Nature
Perfected’: The Theory & Practice of 15 Drawing after the Antique Adriano
Aymonino Catalogue Bibliography Photo credits 79 232 254 - authors
of catalogue entries AA: Adriano Aymonino: cats 12, 15, 16, 20, 21, 22, 25, 26,
27 AVL: Anne Varick Lauder: cats 3, 5, 10, 12, 13, 14, 17, 18, 19, 23, 30, 34,
35 ED: Eloisa Dodero: cats 9, 22 JK-B: Jerzy Kierkuc ́-Bielin ́ski: cat. 29 JY:
Jonathan Yarker: cats 24, 25, 26, 27, 28 MP: Michiel C. Plomp: cats 6, 7, 8,
11, 31, 32 RH: Rachel Hapoienu: cats 1, 2, 4, 33. The exhibition ‘Drawn from
the antique: artists and the classical ideal” examines the crucial role played
by antique sculpture in artistic education and practice, a theme which lies at
the heart of the conception of Sir John Soane’s Museum. As a student at the
Royal Academy, Soane wins a travelling scholarship to embark on the grand tour.
This forms the basis of a classical education which would prove to be an
enduring influence on his subsequent career as one of the most important
architects of the Regency period. The drawings, paintings and prints selected
for the exhibition ‘Drawn from the antique – artists and the classical ideal’ offer
a glimpse into an intriguing world of academies, artists’ workshops and private
studios, each populated with carefully chosen examples of statuary which
provide compelling snapshots of classical antiquity. Similarly, within his
house and museum at Lincoln’s Inn Fields, Soane creates his own bespoke
arrangements of ancient statuary and architectural fragments, providing
educational tools which defined an informal curriculum for both his Royal-Academy
students and the apprenticed pupils working within his on-site architectural
office. In fact, one could consider much of Soane’s museum as an extended
series of studio spaces, intended for academic improvement and personal
inspiration. The concept of the exhibition ‘Drawn from the antique – artists
and the classical ideal’ evolves from a series of conversations between Timothy
Knox, and the collector K. Bellinger, to see if there may be some way to
showcase the Bellinger extraordinary and unique collection of art-works *depicting*
artists’ studios. We extend a special thanks to K. Bellinger, not only for her
generosity in allowing us to exhibit these wonderful pieces but also for all the
hard work in securing some stunning loans from other collections. We are
grateful for the loans from the Getty Collection, the Rijksmuseum, the
Kunsthaus Zürich, the Kunstbibliothek in Berlin. For the UK loans we would like
to thank The British Museum, the Victoria and Albert Museum, the Royal Academy
of Arts and the Courtauld Gallery. “Drawn From The Antique: Artists and The
Classical Ideal” is a collaboration between The Soane Collection and the
Teylers Collection, and I am grateful to M. Scharloo for agreeing to host the
first leg of this exhibition, and also to Michiel Plomp, for facilitating the
exhibition in Haarlem. It feels rather appropriate that the founders of our two
institutions, Teyler and Soane, were both collectors with singular visions of
how their collections should provide a resource for academic study and creative
practice. This exhibition would not have been possible without the fantastic curatorial
team that K. Bellinger assembled: A. Aymonino, A. Varick Lauder, and R. Hapoienu.
I would like to express my gratitude to them for bringing the project to
fruition. I would also like to thank Paul Joannides for his editing work on the
catalogue and all of my colleagues at the Soane who worked to make this
exhibition a reality, especially S. Palmer, D. Jenkins and J. Kierkuc-Bielinski,
as well as S. Wightman at Libanus for designing such a beautiful catalogue.
Finally, I would like to extend a special thanks to the Tavolozza Foundation
and the Wolfgang Ratjen Stiftung, Vaduz, for their generous support of the
exhibition and the catalogue. The exhibition explores one of the central
practices of artists for years: drawing after the antique – l’antico. Ancient
Graeco-Roman statuary provides artists with a “model” from which he learns how
to represent the volume, the pose and the expression of the male nude and which
simultaneously offers a perfected example of anatomy and proportion. For an established
artist, a piece of antique statuary or a elief offers a repertory of form that
serves as inspiration. Because the imitation (mimesis) and representation of nature
is the principal aim of the classical artist, education in a workshop or an academy
revolves around the study of geometry and perspective – to represent space –
and anatomy, the antique but also THE LIVE MODEL – to learn how to deploy and
mould the male body convincingly in a piece of statuary. This practical
approach to the antique – as a convenient model for depicting or moulding the naked male form – is accompanied by a more
theoretical, aesthetic, and philosophical one. A piece of ancient Graeco-Roman
statuary statue is perceived as a bench-mark of perfection and of the Platonic
concept of ideal beauty, the physical result of a careful selection of the best
parts of nature. Classical Graeco-Roman authors, such as the Italians Vitruvio,
Cicerone or Plinio, reveal to the artist and the philosopher that antique statuary
is based on a system. There is a Pythagoreian harmonic proportions. This rests
on the mathematical relationships between a part of the body and the whole
body. A piece of ancient statuary therefore embodies the same rational
principle on which the harmony of the cosmos and nature are based. It is the
powerful combination of this rational and universal principle that the antique
expresses, together with its extreme versatility as a model of forms, that
guarantees its ubiquitous success. Students in the early stages of their
training are encouraged to ‘assimilate’ fully the idealised beauty of a classical
statue through the copying of plaster casts. Only then can he be exposed to an
‘imperfections of nature’ as embodied by the live naked male model (“Drawn From
Life”). This is intended to provide the craftsman with a standard of perfection
that is then infused into his own statuary. For an artist, it was considered
essential to travel to Rome. At Rome, the artists confront the venerated
antique ‘original’ – not the copy -- and assembles his own ‘drawn’ collections
of models – ‘drawn from the antique’ only, not ‘drawn from life’, for which you
don’t need to go to Rome. Drawing (desegno) is considered the only intellectual
part of an art – the first sensorial (specifically visual) manifestation of an idea.
Drawing from and ‘after’ the Antique (desegno dall’antico) is the union of
intellectual medium and intellectual subject. It becomes an integral part of
the learning process and the activity of the artist who aims at pleasing the
Society gentleman. It proves crucial for legitimising the ambitions of the artist
who fashions himself as a practitioner of a liberal and intellectual activity.
So widespread is it, that representing the practice itself developed into an
artistic genre. Through a selection of pieces exemplifying this fascinating
category of images, by artists as diverse as the Italian Zuccaro, Dutch Goltzius
and Rubens, French Natoire, Swiss Fuseli and English Turner, we may attempt to
analyse this phenomenon. We begin with an image relating to an early Italian
academy and with a portrait, in which a piece of ancient statuary is included.We
may proceed to an image of an artist as he ‘draws’ after a celebrated statue –
the Apollo del Belvedere and the Laoconte, il torso del Belvedere, l’Antino del
Belvedere – in the cortile ottogono del casino della villa Belvedere in Monte
Vaticano, the Belvedere collection that serves as a model. We next may explore
the varied approaches of artists to a piece of ccanonical statuary in Rome and
the ways in which the Italian academic curriculum – with the antique (l’antico)
as one of the two cornerstones (the other being: ‘natura’) – spreads all over
Rome, where each palazzo claims its collection – Farnese, Ludovisi, Albani – and
even up to La Tribuna di Firenze.An Italian drawing manual is a powerful
vehicle for the uncostested establishment and entrenchment of the classical
ideal. Significantly, a manual illustrates the practice of copying after the antique
in their frontispieces. Next follow two of the most relevant images embodying
the classicist credo of the accademia dell’arte at Rome and academie des beaux
arts a Paris. The accademia a Roma codifies a structured syllabus. First-hand
experience of the Antique ‘original’ in Rome becomes a must. Fuseli magnificently
draws the fragments of the head, right hand, and left foot of the colossal
statue of Constantine at the
Campidoglio. Fuseli’s image expresses a ‘romantic’ attitude towards
classical statuary, based on the direct emotion and empathy – the eros of
Plato, and the catharsis of Aristotle -- rather than a ‘study’ (studio) of an idealised
beauty and proportion. Classicism is embraced and an academic syllabus is
developed to graduate from the academy – as opposed to the nobility who can
still practice amateur and present their statues at the annual exhibitions. The
elite, educated in the classics, has a crucial role in disseminating the
classical ideal. For less privileged students at Oxford (‘only the poor learn at
Oxford’) the Ashmolean starts collecting a plaster cast of this or that
original in Rome. Statues serve a decorative purpose in the villa garden
fountain --- and the palazzo interior -- a clear sign of the commercialisation
and further diffusion of the Antique. But while classical statuary becomes a n
attract when doing the calls. Its role within academic curricula remains well-established.
The Antique as a canonical model begins to be challenged by the more dynamic
and innovative forces of art, a challenge that led to its rapid decline. The
last exhibit shows a plaster copy of the celebrated ancient bust of Homer at
the Farnese collection in Napoli is placed on equal footing with a bust of a
non-classical author, neo-classical statuary, and even with a multicoloured
porcelain parrot, reveals how the Antique becomes just one of the many
historical references favoured by society, if not by Society. Although focused
on images representing the relationship of an artist WITH the Antique, that is,
the act or performance of copying or drawing from or after it, this catalogue
includes also examples of the product of the practice: sketches actually ‘drawn
from the antique’ not by students wanting to pass, but by professionals such as
Goltzius, destined to be disseminated through the engraving. We have also
included drawings by Rubens and Turner showing the compromising practice of
setting a live model in the pose of the antique model – lo spinario, i
lottatori in the case of a syntagma or statuary group -- and an early academic
study by Turner the student of the torso del Belvedere (Aiace contempla
suicidio). An image may portray how the artist HIMSELF in the presence of the
Antique. The point of view should always be that of the intended addressee: the
noble Epicurean connoisseur. The form and ideas that he enjoys and seeks in the
classical model, the diversity of his taste according to his mood, and the
kinds of image that are created to show their own relationship with the
Antique. The attitudes towards classical statuary of a manic collector or an antiquarian,
although touched upon in the essays and in some of the entries, are not
discussed at length. We also decided to focus primarily on free-standing in the
round male nude statue or syntagma (i lottatori), as opposed to a relief. The
free-standing in the round reproduction of the male naked body is what the
gentleman enjoys in terms of the proportion, the anatomy and his beauty. A
relief rather serves as a compositional model and inspiration for a narrative mythological
or historical scene. Drawings after reliefs would be the subject of a different
exhibition. The choice of the two venues is entirely appropriate. Haarlem is one
of the earliest Northern cities where the Antique is a subject of debate –
within the private academy established by Mander, Cornelisz, and Goltzius –
whose magnificent series of drawings after canonical classical statues is
preserved in the Teylers Collection. The Soane Collection at Lincoln Fields, on
the other hand, represents an incarnations of the classicist curriculum. It is
an eccentric, kaleidoscopic academy where, in the name of the union of the
arts, the study of Vitruvian and Palladian architecture gets integrated with
the copying of paintings, classical statuary and plaster casts, to attain that
mastery of drawing of the human forms (uomo
vitruviano) advocated by Vitruvius as a crucial element of architecture (to be
replaced by Le Corbusier’s functionalist metron!). The idea for this exhibition
has evolved. The Bellinger Collection is based on a just one theme: the sculptor
at work. Fascinated by the creative process and the mystique surrounding it.
The Bellinger Collection includes items in a range of media – drawings,
paintings, prints, photographs and sculpture. Rather than stage an obvious
‘greatest hits’ exhibition focusing on celebrity, my idea is to show
little-known, rarely exhibited, works and to present aspects of the collection,
which had been rather neglected by scholarship in an attempt to open new
ground. A preliminary step is made by Knox, who approached K. Bellingerto
enquire whether she might showcase works from the collection in the piano
nobile of the Palazz Soane. It soon became apparent that the theme of the
relationship between the sculptor and antique statuary, which seemed so
suitable to the venue of an architect’s palazzo-cum-academy-cum-museum with its
rooms filled with antiquities and plaster reproductions, would have resonance
with the Few. Accompanying a selection of works from the Bellinger Collection
we have attempted to borrow on loan some of the most ‘iconic’ images, and
others less well-known, that demonstrate the evolution of this practice of this
class of ‘Drawn from the Antique’ over an extended period. Almost half of the
works on display have never previously been exhibited and most have not been
shown. The resulting display provides the first overview of a phenomenon
crucial for the understanding and appreciation of ancient Roman art of the
classical Augustean period, which lays stress on the creative processes of the
Italophile artist and on the norms and conventions that guides and inspires his
art. Presenting a relatively small yet coherent display on a topic that
encompasses one of the major themes in the history of Art has been a serious
challenge but a most pleasurable one. Our exhibition could not have been
accomplished without the unwavering support of K. Bellinger, who generously
agreed to part with fourteen choice examples from her little-seen private
collection of images of artists at work and who has remained committed to the
project since its inception: to Ballinger we owe our deepest gratitude. For the
other works on display, we have benefited from the great generosity of
colleagues at lending institutions for agreeing to send works in their care –
some of them among their most popular and requested – to one or both venues of
the exhibition. We owe sincere thanks to H. Chapman at the British Museum, S. Buck
at the Courtauld, R. Hibbard and H. Dawson at the Victoria and Albert, C.
Saumarez-Smith, H. Valentine and R. Comber at the Royal Academy. Abroad we wish
to acknowledge the generosity of L. Hendrix and J. Brooks at Villa Getty, Bernhard
von Waldkirch at the Kunsthaus Zürich, T. Dibbits at the Rijksmuseum, Amsterdam
and K. Käding at the Kunstbibliothek, Berlin. We are enormously grateful both
to the Soane Collection and the Teylers Collection for hosting this two-venue
exhibition. Thanks are due to T. Knox and A/ Thomas, for their support for the
project, and to S. Palmer, and D. Jenkins, for assisting with the loans. M. Scharloo,
of the Teylers and Michiel Plomp, kindly agreed to house the first showing of
the exhibition and to lend works from their collection. The catalogue was
thoughtfully designed and produced by S. Wightman at Libanus, to whom we owe
our warmest thanks, and printed by Hampton Printing in Bristol. R. Hapoienu,
oversaw the photography and contributed immeasurably to the catalogue. Other
curatorial colleagues have given their time and effort in preparing scholarly
entries or essays: E. Dodero, I. Jenkins, J. Kierkuc -Bielinski, M. Plomp and J.
Yarker. Special thanks are due to Dodero for sharing an infinite knowledge of
antique sources. Finally, we are greatly indebted to P. Joannides for his
input. Any and all errors are entirely our own. We wish to acknowledge warmly P.
Taylor and Rembrandt Duits for granting us unfettered access to the
Photographic Collection of the Warburg and other colleagues and friends who
assisted in various ways in bringing this project to fruition: Mattia Biffis, R
Blok, Yvonne Tan Bunzl, Wolf Burchard, Elisa Camboni, Martin Clayton, Zeno
Colantoni, Paul Crane, Daniela Dölling, Alexander Faber, Cameron Ford, Ketty
Gottardo, Martin Grässle, Axel Griesinger, Florian Härb, Eileen Harris, John
Harris, Niall Hobhouse, Matthew Hollow, Peter Iaquinandi, Catherine Jenkins,
Theda Jürjens, Jill Kraye, David Lachenmann, Alastair Laing, Barbara Lasic,
Huigen Leeflang, Cornelia Linde, Anne-Marie Logan, Olivia MacKay, Austeja
MacKelaite, Bernard Malhamé, Patrick Matthiesen, Mirco Modolo, Jane Munro,
Lorenzo Pericolo, Benjamin Peronnet, Camilla Pietrabissa, Eugene Pooley, Pier
Paolo Racioppi, Cristiana Romalli, Gregory Rubinstein, Susan Russell, Nick
Savage, Nicolas Schwed, Ilaria Sgarbozza, Kim Sloane, Perrin Stein, MaryAnne
Stevens, Marja Stijkel, Michael Sullivan, C. Treves, Michiel Ilja M. Veldman,
Anna Villari, Rebecca Wade and Alison Wright. Support for the exhibition and
catalogue was provided by the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen
Stiftung, Vaduz, to whom we owe our sincere gratitude. Ideal Beauty is the
Canon in Classical Antiquity. The practice of drawing from the antique is a
time-honoured one – if not antique! But even the Augustean copy makers knew who
to imitate --. Since Antino became such an icon, we can say that Adrian
finished the practice of ‘drawing from the antique’: He started to ask his
slaves to ‘draw from nature’ – the nature of his lover! The philosopher should
be reminded of the substantial role that the Antique has played in the
education and inspiration of artists for years. Soane famously mixed marble
sculpture with plaster reproductions in the learned and decorative interiors of
his Lincolnfields villa. A constant theme in ancient philosophy (with which any
Oxonian with a Lit. Hum. is more than acquainted with) is that behind the
surface chaos of the tangible sensible world, there is a hidden order (kósmos).
Harmony occurs when the opposite forces in nature (natura, physis), such as wet
and dry, hot and cold, strong and weak, are properly balanced. Well-being
depends upon a set of complementary humours. Reason (logos) – but cf. Dodds on
the irrational -- is the weapon wielded in a constant struggle against the dark
forces of the natural and non-natural artificial conventional realms alike. The
concept of ‘number’ plays an especially important role in the Graeco-Roman, or
Italic world view. Mathematics was most probably acquired from Babylon and
first took root in the cities of Ionia. Pythagora, who had settled in Crotona
and Melosponto in southern Italy, discovers the measurable intervals of the
musical scale This demonstrates that number holds the key to the mysteries of
the harmony of the Universe. Pythagoras was born on the Aegean island of Samos,
which was just one of the many city states that participated in the Ionian
Enlightenment with its concentration of natural philosophers. Applied
mathematics finds a new purpose in the creation of colossal temples in an
architectural culture that takes its inspiration from that of East. The
technical aspects of this new tectonic art are explained in philosophical
treatises. None of them survive but they were known to the Roman philosopher Vitruvio,
who uses them extensively for “De Architectura”. His is the only complete
treatise on ancient Roman architecture to survive. It is the main channel
through which knowledge of ancient Roman architectural principles are handed
down. The impact it has on architecture is paramount. Colossal temples are erected
and foremost among them is the archaic temple of Diana at Efeso. Its forest of
columns, some of them carved pictorially and its painted and gilded mouldings
are breath-taking. The Ionian Enlightenment terminates by the catastrophic
destruction of Mileto y the Persians. The Persians next set out to punish
Athens for her instigation of the revolt. The failure of the Persian invasion
in a series of battles on land and sea serve as a catalyst for a great surge of
art and thought in the city that was the world’s first democracy. It was in
Athens – the ‘Athenian dialectic’ -- that humanity’s sense of self is forged.
It is there that mankind acquires a unique and individual soul with personal
responsibility for its welfare. In classical antiquity mankind places itself at
the centre of the universe and is as Protagoras famously says, ‘the measure of
all things’. Protagoras’s contemporary, the philosopher Socrates, leads the way
in a moral philosophy aimed at penetrating the dark hinterland of human
existence. Humanism prompts a “realism” (de rerum matura) in product of an ‘ars’ that re-presents the naked
male body in a ‘naturalistic’ way. There were those, however, who ha less
positive view of human capacity for self-determination. A recurring theme in
the philosophy of Socrates’ famous pupil, Plato, is the theory of ‘mimesis’ (‘imitatio’),
whereby the product of an ‘ars’ is twice
removed from reality by virtue of its being a ‘copy’ of Nature, which is itself
a copy of the hidden, intangible reality of the abstract world of the Idea. In
Plato’s kósmos, reality is not to be found in Nature. Reality (and ideal
beauty) cannot be detected by *sensing*. Rather, reality and beauty is ‘noetic’
and exists beyond nature (trans-naturalia) and can be grasped only through an effort
of the ‘intellectual’ (logistikon) part of the tri-partite soul (the other two
parts being the thymoeides and the epithymtikon). A man never gets to ‘know’ or
grasp this ideal beauty. Man must be governed by the philosopher king, who has the
intellectual capacity to achieve true knowledge and understanding of the universal
law. The nature that man knows is itself a ‘copy’ (mimesis, imitation –
imitative) of this suprasensible realm, so Plato argued and. As an imitation of
nature, a product of an ‘ars’ is twice removed from the meta-physical intelligible
world. There is no place for the pretensions of artists in the world of true
reality. Only the pure and virtuous abstract beauty and goodness
(kalloskagathia, bonus et pulchrus) of a ‘form’ (‘forma’) is to be found in the
realm of the idea. The clearest and most developed account of Plato’s
condemnation of the idols or products of ‘ars’ and his reasons for banning it
from his ideal state (polizia, politeia) are to be found in the Socratic
dialogue known to modern readers as The Polizia (Politeia). The ‘Polizia’
(Politeia) is beautifully crafted in a series of carefully honed set-piece
speeches in which, and the irony is obvious, Plato demonstrates his skills as a
philosophical artist – the dialogue aimed at beauty, rather than truth. It is
difficult to say to what extent Plato puts words into or takes them out of the
mouth of Socrates. The historical Socrates never wrote anything himself. We can
at least be sure of Socrates’ insistence upon the imperative to pursue
justified true belief (knowledge) as distinct from mere belief or opinion
(doxa) and to seek understanding, as distinct from mere creed. These are after
all the goals by which Socrates measures the moral integrity of man’s
intelligence. When it comes to the standing of the product of an ‘ars’ in
Socrates’s moral landscape, we may wonder whether this marble worker who had
followed in his father’s ‘ars’ himself shares aristocratic Plato’s anti-thetical
view of the ‘artista’. In a dialogue recorded by Xenophon between Socrates and
Parrhasio, it is concluded that the product of an ‘ars’ cannot achieve beauty
by simply ‘reproducing’ (or imitating, or copying) an individual, particular, single,
naked male live model. He who pursues to give a product of an ‘ars’ must
instead select the best part of more than one particular, singular male naked
live model – this is not Adriano’s portraiture of Antino -- melding (or moulding) those parts (individua) together
in such a way as to transcend, by way of a universalium, nature itself (the
natural naked male live model) and turn the ‘re-presentation’ of a ‘beautiful’
(kalos) naked male live model into an ‘ideally’ beautiful naked male body. Aristotle.
ever practical, ever helpful, opposes Plato in arguing that, instead of being a
slave to Nature, man may create (poien) as nature itself created. In his
Poetics and Politics he recognises the civic role of the product of an ‘ars’,
as he praises the value of the products of the ‘ars’ of Polygnotos. “For
Polygnotos re-presents but tweaks a natural male body better than the natural
male body is. It’s an improving (perfection) on, rather than an imitation, of
‘imperfect’ nature of this or that particular naked male body – again this is
not Antino’s portraiture – To this product of the ‘ars’ Aristotle grants the
label of an ideal model – not the live model of imperfect nature. It is futile
to try to guess who said what when. Suffice it to say that the statuary-maker
is under pressure from various sides to justify the product of his ‘ars’ as a
proper exemplar that perfects the imperfection of the natural male live model,
reflecting the universal law of the kósmos. The artist has to look at
philosophical mathematics. There is a historic change in the re-presentation
(improved re-presentation, improvement) in the product of ‘ars’ of the body of
a naked live model. Ironically, the abstract concept behind a ‘youth’ or ‘kouros’
[e. g. marble 194.6 cm (h) Met Museum 32.11] with its ‘formulaic’ tendency to
convey the naked male form of a live model through a descriptive line and a block-like
(rather than waving) form gives way to contrapositum
(contrapposto), and a greater fluidity – if not ‘naturalism’ -- conjuring a three-dimensional
volume of live flesh. This ‘naturalistic’ figure type becomes the standard or
canon. The ‘canon’ itself (first canon, as we shall see – cf. Lisippo) referred
to the Doriforo of Policleto. Policleto obviously moulded and cast in bronze as
he was in front of the real ‘doriforo’ (name unknown), the canon (qua model
what exemplum) with copyists, notably in the copy of 212 com (h) at Naples –
Museo Archeologico Nazionale, Napoli, 1st century bc copy of
original of c. 440 bc, -- inv. 6011 The
canon was famous in antiquity for its elaborate system of measurements about
which Policleto wites a philosophical treatise known as ‘The Canon.’ To judge
from what philosophers say about the spear-bearer, it is an explanation of the
principle of proportion that Policleto declares to be the key to perfection in
the product of the ‘ars’ qua re-presentation of the body of the male live
model. The concept of ‘symmetria’ (commensuratio) is used to describe this
system of a measured proportion. To the ancient authors, however, it signified
a commensurability of parts measured in relation to one another and to the
whole. Thus, the length of a finger was calculated in relation to the hand and
the hand in relation to the whole arm and so on. Ideal beauty, based on
mathematical perfection was, therefore, quantifiable. The preoccupation with
numbers in idealised sculpture has strong links to the number-based aesthetics
of the Pythagorean school of mathematics, first anticipated in architecture.
Another link to the natural philosophy of the Ionian Enlightenment is the
deliberate balancing of opposite motifs. There was found a bio-mechanical
system of parts that were at once weight-bearing and weight-free, engaged and
disengaged, stretched and contracted, tense and relaxed, raised and lowered –
an overall balancing principle of contrapposto found in the statue Doryphoros
and in many classical statues extremely influential. Polykleitos trains at a
workshop (not an academy like Plato’s!) of Ageladas of Argos, along with Mirone.
Mirone’s statue [v. Museo Nazionale Romano, Roma, inv. 126371 – 155 cm (h) copy
of original of c. 460-450, marble] is said
to have more by way of ‘commensuratio’ about them than any other statues of his
generation. As with the Doryphoros so with Myron’s Discobolo, known only
through Roman copies, it is pretty difficult to hypothesise the exact system of
proportion that he uses. We detect the deployment of balanced opposites in the
composition. The creators of the doriforo and the discobolo share a common
regard for the live model that transcends the nature of the live model. Although
Polykleitos’ Canon and its physical embodiment, the original doriforo, are lost
– the most famous Roman copy was excavated ONLY AT THE END OF THE OTTOCENTO –
various literary sources handed over to the Renaissance the knowledge of them
and the classical principle that the beautiful model is based on proportion,
commensurability and mathematical perfection. This is the quest for the
beautiful model that is measured and defined within the premises of natural
philosophical mathematics. In the minds of commentators, the attribution of the
power of creation (poiesis) to the statue-maker likens him to a seer and affords
him a unique insight into his subject. It was said of Policleto that while his
skill is suitable for representing what Vico (and Carlyle) calls a ‘hero’
(Italian ‘eroe’ – cf. il culto dell’eroe), the imaginative power of Fidia –
author of the Parthenon’s sculptures, notably the Elgin marble of MARTE qua
simbolo della mascolinita – conjures a ‘deus’ (dio). His positive view of the
intuitive process of artistic creation (poiesis) becomes especially important
in Rome where copies of the great works of Greek classical sculpture are
reproduced in large numbers. ‘Re-produced’, that is, but not ‘re-plicated’ (cf.
replicatura). For no two copies are, by definition, ever exactly *the same*
(for one, the piece of marble is ‘another’). A Roman copyist, so-called, is,
mostly an ethnic [it. ennico] Greek. He probably saw his product as a variation
on a theme, or an improvisation (if not improvement) on the ‘original’, not a slavish
copy – plus, his Roman Mecenas couldn’t care less – connoisseurship was looked
own. A Roman vir has other things in mind, such as battle! It is through this
army of Roman copies that Italian artists acquire a fragmentary knowledge of
the proto-type (cf. Weber’s ideal type], the vast majority of which, in bronze,
as they should – for sculpting marble is different than moulding wax -- are
deliberately melted by Christians as blasphemous pagan, heathen, gods and
heroes. The spectre of the greatest mind of all antiquity, Plato, and his
condemnation of art always hover over the heads of artists and art lovers
alike. In the high empire of ancient Rome a neo-Platonist movement challenges Plato’s
extreme opinion and argues for the product of an ‘ars’ of being possessed of the
intellectually beautiful (even if first perceived through the senses – nihil
est in intellectu quod prior non fuerit in sensu. Plotino notes: ‘now it must
be noted that the wax [...] brought under a hand to a ‘beautiful’ ‘form’ or
‘shape’ (eidos, idea, morphe) is ‘beautiful’ not ‘he’ or qua wax – for so the
crude block would be as ‘pleasant’ or pleasurable or pleasing – but *qua* form,
eidos, shape, morphe, or idea. This practical and workable Aristotelian and
neo-Platonic rather than the Platonic philosophy of art was that adopted by most
Italians (even if they let Ficino dreamed about!). The paradoxical (feigned,
ironic, taunting) superiority of the product of an ‘ars’ art to nature – as a
selected, ideal, improved, correctio version of it (no ‘warts and all’) – has
been a central premise of the “beau ideal” where ‘beau’ can be in the Romance
languages both masculine and neuter (‘il bello’ – il bello ideale) in the humanistic
theory of art and especially in its neo-classical incarnation. A statue is admired
and enjoyed as the embodiment of a moral aesthetic that can be applied also to a
plaster cast. It serves both as the paradigm of art training and as source of
inspiration for artists for centuries. For an introduction to ancient
aesthetics and views on art, see Tatarkiewicz 1970; Pollitt 1974. Selections of
primary sources are included in Pollitt 1983; Pollitt 1990. The main source for
this famous sentence is Platone, Theaetetus 151e. See also Diogenes Laertius,
De Vitis ... philosophorum, 9.51. 3 Platone, Republic, 10, esp. 10.596E–597E. 4
Xenophon, Memorabilia, 3.10.1–5. 5 Aristotele, Poetica, 1448a1; Politica,
1340a33. See also Metafisica, 1.1, 981a. 6 Plinio, Naturalis Historia,
34.57–58. 7 Cicerone, Bruto, esp. 69–70, 296; Plinio, Naturalis Historia,
34.55; Galeno’s treatises, esp. De Placitis Hippocratis et Platonis, 5, and De
Temperamentis, 1.9; Quintiliano, Institutio Oratoria, esp. 5.12.21 and
12.10.3–9; Vitruvio’s De Architectura, 3.1. 8 Quintiliano, Institutio Oratoria,
12.10.3–9. 9 Plotino, Enneads, 5.8.1. 14 ‘Nature Plus-Quam-Perfected’: --
the ‘Drawn from the Antique’ at the Royal Academy. ‘Desegno dall’antico’,
‘desegno dalla natura’. In his inaugural lecture as Professor of Painting at
The Royal Academy of Arts in London, Opie arranged a few headings, which
included a general definition of painting, the imitation of Nature, the idea of
general beauty, the idea of general perfect beauty, the idea of perfect beauty
the true object of the highest style, as the aim of the highest style, design, drawing,
the most important part of painting, the uses of knowledge of anatomy, symmetry
and proportion the next in importance. great excellence of the *ancients*, the
ancient sculptor in those points; studying antique statuary to advantage, perfection
of the Art of painting under Vinci, Buonarroti, and Sanzio. Opie’s outline,
with its standardised categories, is a clear example of ‘inglese italianato e
un diavolo incarnato’ and a summary of a time-honoured aesthetic tradition
which indeed he is drawing from the antique! Opie’s proposal of what constitutes
‘the high style’ is a direct continuation of the humanistic theory of art, formulated
in early Renaissance Florence and expanded and modified in the succeeding
centuries, mainly in Italy. At the core of this tradition is the thesis that
art imitates nature and, in art’s highest manifestation, perfects nature by
selecting her best parts, to create (poien, design) a model of ideal beauty –
drawn from the antique -- a universal standard to which man aspires. Classical
statuary plays a crucial role in this theoretical framework. An antique statues
is perceived, and often revered, as works in which the process of this
selection of the best parts of nature is accomplished. An antique – and thus a
sketch ‘drawn from the antique’ -- offers the ‘antique’ (not natural live) model
from which the form, the pose, the gesture and the expression of a naked male is
appreciated, in its idealised anatomy and proportion. As the theory evolves
from the 16th century onwards, the three leading protagonists of the High
Renaissance, Vinci, Buonarroti and Sanzio – not mannerist Bernini, such as
Tasso is not in the canon as Ariosto is -- are placed on the same level as the antique,
as the first trio of non-antique or non-ancient (i. e. modern) artists – cf.
Hymns Ancient & Modern) whose statues equal, if not surpass, the antique
(but there was not ‘Drawn from Buonarroti!’). The humanistic theory of art
remains for centuries the philosophical aesthetics. It undergoes many
developments and was at times challenged. It is primarily through the medium of
‘desegno’, drawing, that one is educated in geometry and perspective – to learn
how to re-present space – and in anatomy and the male naked live model – to
learn how to deploy the naked male. ‘Drawn from the antique’ represents the
essential component of this educational method, initially as a convenient model
for the copying the male form, and then progressively as a bench-mark of
perfection whose appreciation one is supposed to assimilate before being
exposed to ‘fallible Nature’, embodied by the naked male LIVE model with all
its imperfections – the profession being underpayed and carried out by
Italians! – and this or that unnecessary feature – however necessary this
unnecessary feature is for the photographer of Antino, before he photoshops! In
its codified and pedantic rigidity, this Vitruvian categorization reveals that,
at the same time as they held theoretical sway, by the beginning of the 19th
century the tradition that he espoused had become increasingly stifling. At the
dawn of the Modern era, a system based on the principle that art is a rational
practice that can be taught by precepts resting on a fixed aesthetic is progressively
being dismantled by those who advocate subjectivity, individual expression and
the conceptual freedom required by inventive genius. Although the normative
principle of the humanistic theory of art remains solidly established within the
academic programme, the creative forces of art are increasingly to be found ‘outside
Plato’s Academy’. With this epochal shift of aesthetic values, classical
statuary, unsurprisingly, suffered most. Precisely because of its status as a
model and standard of perfection in academic curricula, it inevitably
encountered the indifference, if not open hostility, of Marinetti (if not
Mussolini) and those avant-garde Italian artists who did not believe in the
idealising role of art and, increasingly, not even in its imitative one. The
Antique, which sustains and inspires creativity and diversity in art, offering
an immense repertory of forms, expressions and aesthetic principles, loses its
propulsive drive. To understand the pervasive role the classical statue or statuary group plays
in the education and inspiration of artists in the Early Modern period, that is
from the 15th to the early 19th century, we return to the theoretical
foundations and the practical concerns that create and sustain the conditions
for its immense success and eventual decline. After the Middle Ages, in which
the visual arts had been essentially symbolic, aiming to represent the
metaphysical and the divine, in the early Renaissance focus shifts to an art
that, as in antiquity, aims at a convincing ‘imitation’ of the external world,
the world of Nature, with man at its centre. The primary concern of early
Renaissance artists and art theorists is to set a rational rule for the
faithful (or improved) representation of space and the human figure on a
two-dimensional surface, free-standing, in the round. In his “De Pictura”, Alberti
establishes the principle of art as an intellectual discipline, focusing on
geometry, mathematical perspective and the representation of the naked male. The
philosophical conviction that ‘man is the scale and measure of all things’ is applied
to space: Alberti’s choice of viewpoint and scale in the perspective diagrams is
based on the *height* of a well-formed male and the units into which he is divided.
This philosophical position also accepts that the main aim of the art of
statue-making is the depiction of a man’s action, emotion and deed, what
Alberti called “la storia”. Naturally, the study and drawing of the LIVE model
in a work-shop, and later of anatomy and classical statuary in a studio and an academy
or club, are essential for this purpose. Although Alberti’s approach, and even
the literary structure of De Pictura, is based on classical models and
examples, his conception of art is ‘naturalistic’. For Alberti, to become
skilled in the visual arts ‘the fundamental principle will be that all steps of
learning should be sought from nature’ (“dalla natura”, not “dall’antico”). Earlier,
more practical treatises, like Cennino Cennini’s Libro dell’Arte advocates the
study of a painting produced by a master, a practice that encourages repetition
and which could eventually lead to artistic sterility. Alberti accepts the
copying of two-dimensional works by other artists only because ‘they have
GREATER STABILITY OF APPEARANCE than the living, live, lively, model’, but he
privileges the drawing of a statue because, being life-*like* (cf. ‘natura
morta’), it does not impose just ONE viewpoint on its copyist, but infinite –
which makes ‘drawn from the antique’ a fascinating reflection on the
draughtsman, who seeks, say, for rear views!
Hence, while the practice of the early workshop often involved the
copying of three-dimensional models or drawings of such models, it is as a
preparation for life-study (“DRAWN FROM LIFE”) rather than an end in itself. This
is is not to ignore the impact of antique proto-types on artists, which was
enormous. One need only think of Donatello’s Ganimede who was responding to
antique models from very early in the Quattrocento. But from a theoretical
point of view, for Alberti, the emphasis is on the full mastery of the natural
forms (‘DRAWN FROM LIFE’) rather than on the imitation of other works of art,
even those from antiquity. The artist’s goal is to achieve an illusionistic
translation of the external world onto the flat surface of a drawing (‘DRAWN
FROM LIFE’) or into the volumes and masses of sculpture – as in Italian
statuary not based on the Antique: Michelangelo’s Bacco, Bernini’s Enea, etc.
-- Nevertheless, in Alberti we find the roots of two intertwined concepts, both
originating in classical sources, which progressively support and justify the
practice of copying as in ‘drawn from the antique’. The ultimate point is to
create a ‘beautiful’ naked male by selecting the most ‘excellent parts . . .
from the most beautiful naked males. Every effort should be made to perceive,
understand and express beauty. To substantiate this principle, Alberti recalls
the episode of the celebrated painter of antiquity -- depicted by Vasari in his
fresco at his own palazzo in Arezzo, ‘Zeusi compone Elena dalle fanciulle di
Crotona’-- the Italian Zeuxis, who, in order to create Elena, the image of
female perfection, selects the most beautiful maidens from the city of Crotona and
unfairly goes to choose the best part from each. This silly anecdote – sexist,
since the male equivalent would be unthinkable --, derives from ancient
literary sources, and becomes one of the most recurrent adaggi of the art
treatise in the following centuries. Zeuxis embodies and clearly explains the
idea of art as a form of ‘perfected nature’. The beautiful (‘il bello’, for
Italians hardly use ‘bellezza’, unless you are Sorrentino) is based on a system
of a harmonic proportion. For Alberti, in the perfect male the single part – the
two hands, the head, the two legs, he torso, the back, etc. – is related
numerically to the other parts and to the whole (il totto) in the principle of commensurability or
syn-metron, literally the measurability by a common standard. The overall
result is harmonic perfection (‘ Just look in my direction! Ain’t that
perfection!’) which Alberti defines as ‘concinnitas’, a theory that Alberti
bases on Vitruvio’s De Architectura. Pro-portion, which Alberti covers in depth
in his “De Statua” becomes a major subject of philosophical aesthetic
speculation. Vinci and Dürer produce in-depth studies, and Vinci’s ‘uomo
vitruviano’ is the perfect expression of the theory of the mathematical
conception of the naked male [Vinci, Gallerie dell’Academia, Venezia, inv. 228
– Le proporzione dei corpo umano secondo Vitruvio, metal point, pen and brown
ink with touches of wash, 344 x 245 mm c 1490] For Alberti, one selects the
best from nature and reassembles the selection according to a system of
harmonic proportion ultimately resting on the mathematical relation THAT IS
rationally inferred from Nature itself. This principle is the cornerstone of
aesthetics. Although the central textual foundation for the concept that ‘il
bello’ is based on proportion, Policleto’s Canon, had been lost, Renaissance
artists and scholars are well aware through Vitruvio and other classical
writers that ancient artist base his work on this principle. Therefore, from
the 16th century onwards, and especially in the following two centuries, the
crucial appeal that an antique statue had for artists rested not only in its
aesthetic quality and form, but also on the very fact that it embodied the
intellectual principle of proportional perfection. The rationalistic (indeed
illuministic) approach of the Canova’s French academy (when moulding the wax of
Napoleon in nudita eroica) even provides students with manuals in which the
numerical proportion of a statue is carefully laid out. This idea-guided naturalistic
attitude of art theory, which had in any case been greatly modified in High
Renaissance practice, shifts towards an even more idealistic (hyper-idealistic,
not romantic) approach and, simultaneously, a more systematic one, laying the
ground plan for the classicist theory. Because most art theoreticians consider
their era to be a period of artistic decadence and excess after the great
achievements of the High Renaissance, and also because many of them focus on
the codifying of a rule that may be imposed in the academy, the model of
perfection is increasingly deemed mandatory (Dolce, Lomazzo, Armenini), the antique
that they feel inspired and guided the ‘buona maniera’ of Buonarroti and Sanzio
(whom the pre-raphaelites hated), became the standard by which a fault (errore)
of Nature or this or that affectation (say, the length of necks in Modigliani)
is corrected. The ‘drawn from the antique’ takes a decisive lead over the ‘drawn
from life’ (DESEGNO DALLA VITA), and the construction of taste – the lure of
the antique that had lured the antiques themselves, such as Adriano! Correspondingly,
in the classicist tradition that develops in Rome – the headquarters of the
French Academy at Villa Medici -- the Antique (l’antico) becomes the essential
model for the composition. This, definable as the depiction of episodes based
on Roman mythology or Roman history, with a moral value attached, is considered
from Alberti the highest form and final aim and receives the place of honour in
the academic hierarchy of the genres. Although a naturalistic and
anti-classicist tendency remains alive even within the academic system,
classicism establishes itself as the predominant aesthetic principle, as Opie’s
inaugural lecture as Chair of Painting (but not Chair of Sculpture – since
that’s a whole different animal!) at the Royal Academy attests. Its success
rests primarily on the fact that it represents an aesthetic approach that is
considered to express a universal and a ‘true’ principle. And this, because of its
rational nature, can be taught by rule, which suits the systematic attitude of
Enlightenment culture. The proliferation of the academy encourages the
penetration of this set of values even within contexts and cultures that until
then had been only superficially exposed to it. The humanistic theory of art,
clothed in a new and codified form, eventually reaches the most remote corners
of the world, with the antique army as the herald. At the centre of the
education of any artist in the Renaissance was the practice of ‘disegno,’ drawing
or design, considered to be one of the essential foundations of art from
Cennini onwards. ‘Disegno,’ (dall’antico, dalla vita), endowed with an
intellectual role by Vasari and other
theorists, as the manifestation of the idea and invention of the artist, becomes
the essential quality of the Roman and Florentine academies. Successively, it
assumed a central role in the theory of European academies as the expression of
the rational common denominator of the three sister arts: painting, sculpture
and architecture. Opie, himself a poor draughtsman – hence his teaching of
‘disegno’ --, still considered ‘Design, or Drawing, the most important part of
Painting’. Drawing after the Antique, or Drawing from the Antique, as a union
of intellectual medium and intellectual end, becomes integral to the learning
process and the activity of artists, along with ‘Drawn from Life’. The academy
is depicted, the studio, an artists copying from some original or drawing from a
cast, in situ in, usually, Rome or back at home. Whether he is drawing from the
antique on paper to learn how to represent outlines and chiaroscuro – the
effects of light on three-dimensional forms – or to assemble a repertory of the
body’s form, pose and expression, or to assimilate a system of ‘correct’
proportions and anatomy, no would-be member of the academy can avoid
confronting the lessons of the Antique, and of adjusting his creative process
in relation to it. Apart from the didactic and inspirational functions of drawing
from the antique (as opposed as from life), many other reasons justified the
practice. As a result of their pervasiveness, a studio ‘drawin from the
antique’ (disegnato dall’antico’) – which are innumerable – are difficult to
categorise because they are produced for different reasons, serve different
purposes and display different conceptions and relations to the antique.
Nevertheless, one might attempt a division. There is the didactic ‘drawn from
the antique’: a copy produced his education as an a course assignment at the
Academy: a drawing produced by a master in a workshop to provide the apprentice
with an accessible repertory of classical forms to copy. There is RECORD drawing:
a sketch created to serve as inspiration for a form, a pose, am expressios, a composition,
a movement, a proportion, etc., for its own artistic purpose. There is translation,
a precisely finished drawings intended to be engraved, usually conveying as
much information as possible about the statue’s form and pose. There is documentary
drawings, produced with the purpose of recording accurately the physical
appearance of an antiquities obviously including any damage the statue may have
undergone. To this category belong many drawings produced specifically for the antiquarian
collector, from the “Codex Coburgensis” to those of the famous ‘Paper Museum’
assembled by Pozzo. There is the marketable
drawing: a finished copy specifically produced to be sold on the market or
commissioned by a collector to fill his ‘paper museum’ of classical
antiquities. Examples are those by Batoni for Richard Topham, Esq. – The Topham
Collection --. There is the promotional drawing, a drawing made with the
specific purpose of promoting the acquisition of an item (statue or statuary
group), such as those by Jenkins to Townley – The Townley Collection. Naturally,
as with any categorisation, these divisions are a simplification and a drawing
may overlap two or more classes, such as this or that drawing by Goltzius, intended
to be engraved, but which also function as a repertory of an antique forms to
be used in the artist’s practice. Whatever their categories, all these drawings
followed the technical evolution of the medium, from the predominant metalpoint
and pen-and-ink to the black and red chalk. Athough pen-and-ink remains a
favoured medium, chalk becomes the choice for FULL-SIZE statuary, as a softer,
more pliable medium it allows a more sophisticated rendering of a tonal passage
and, therefore, of relief and anatomu. Red chalk especially offers the impossibility
of bringing the ANTIQUE (antico) to LIFE (vita), transforming or
transubstantiating inorganic matter into ‘warm flesh’. In artists’ workshops
one of the most important aspects of an apprentice’s training, aside from
mastering the manual procedures of painting, is copying works by the master and
other artists. This is intended as a means to shorten the process of learning
how to represent the THREE-DIMENSIONS onto two thanks to examples already
produced by others. This practice is described by Cennini, although still
intended only to train the apprentice to reproduce the master’s style and not
yet Nature or Life. An aapprentices could resort to copying model books and
sketchbooks already assembled by the master or by others. These were
repertories of a drawing of an animal, a plant, decorative details, a male nude
at rest, a male nude in action, usually produced as teaching tools, and it is
in these collections on paper that we find the earliest surviving drawings
derived from classical antiquities. The Antique is included mainly as a source
of information on the anatomy, its form, modelling, pose, expression,
movementsand the interaction of all t hese elements. Most of the early
drawings that represent antique forms are produced by artists active in Rome
where the largest number of accessible physical remains from antiquity is
concentrated. AN ANCIENT FULL-SIZE STATUE IN THE ROUND may have survived above
ground. Among the most famous publicly displayed examples are the ANTONINO, or
pseudo-Constantine the Great. outside the Lateran Palace, the Spinario, and the
Camillo, both of which are moved from the Lateran to the Campidoglio by Sesto IV;
the Quirinal Horse Tamers, I DIOSCURI, and the two Quirinal Recubantes or
Rivers. Virtually no ancient painting is known, and its appearance was
conjectured from a description (ecphrasis) in a literary sources, notably
Pliny’s Naturalis Historia (esp. book XXXV). It was only with the exploration
at the end of the 15th century of the buried interiors of the Domus Aurea of
Nerone in Rome, known as grotte, that artists access ancient examples, and from
this time a wave of grotesque motifs and decorations spread widely. More
readily available is a sarcophagus relief or a large imperial relief. A drawing
may depict mainly this category of ancient artefacts. They are popular because,
with their complex, frieze-like narratives, it inspires the compostion of a
“storia” as Alberti notes. Among the most frequently represented are the
reliefs of sarcophagi and the imperial reliefs of Trajan’s Column and the
Arches of Titus and Constantine. The subjects preferred by late Gothic or early
Renaissance artists – Bacchic themes, Amazons, the story of Adone, marine
deities or ancient battles – demonstrate an interest in the nude and in the
depiction of movement, dynamism and strong expressions. Although it is recorded
that Donatello and Brunelleschi copy antiquities during their stay at Rome, no
drawings survive by either of them to reveal their approach to the Antique. The
earliest surviving drawings of an antique is by artists in the workshops of
Fabriano and Pisanello, when they were in Rome working for Martino V in St John
in Lateran. The drawings correspond in many ways to the paintings. They show
little awareness of the formal principle of classical art, transforming a figure
from a Roman sarcophagus relief into a Gothic type. They often re-interpret the
pose and, sin! -- proportion of the original, even, as in the case of a sheet of
a fantasia in the Louvre, assembling figures from different s arcophagi. This
process of extra-polation, isolation and modification is common to many
drawings from the Antique. The draughtsman creates a visual repertories of
single figures, or isolated groups of figures which are easy to re-use in their
own compositions. From a teaching point of view, an isolated figure is probably
considered, at least in the model books and sketchbooks, to be more readily
assimilable by the apprentice in the workshop than a whole composition. A good
example of such an approach is seen in a drawing attributed to the so-called
‘Anonymous of the Ambrosiana’, from a sketchbook made in Rome in The original
model is a celebrated sarcophagus relief of the Muses, Minerva and Apollo then
in the church of Santa Maria Maggiore. It was copied in drawings by several
later growing archaeological awareness, in parallel with the spread of
antiquarian studies and rising interest in the classical world and its physical
remains. On the other hand, artists display a free handling and more personal
approach to the original, as they move away from the restraints of the model
book. With the exception of Donatello, from whom he learned much, MANTEGNA is
the quattrocento artist who had the most complex and sophisticated relationship
to the antique. Mantegna’s approach is evident in the introduction of direct
quotations from ancient architecture, reliefs and sculptures in his paintings
and frescoes and in his adoption of a precise, highly sculptural painting
style. A drawing by MANTEGNA – or a copy after a drawing – executed during his stay
in Rome accurately renders a classical proto-type but with a vivacious freedom
in style. It represents one of the Trajanic reliefs inserted in the central
passage of the Arch of Constantine. MANTEGNA sketches it at an angle from the
right side and from below. He precisely records the relief’s damaged condition
by showing both the emperor and the helmeted soldier on the right without their
right hands. He interprets the composition freely, concentrating on the most
prominent actors and on the relief’s formal principle, specifically its
treatment of movement and emotion, qualities praised by Alberti as essential
for the construction of a “storia”. The flow from left to right is accentuated,
Trajan has windswept hair.The horse is shown galloping, less upright and
frontal. The mouths are wide open, as are those of the soldiers on the right,
expressing the intensity of emotion in the victory over the Dacians. A drawing
like this serves a two- fold purpose, as a study of a formal principle and a
record of antique costumes, armours, shields and helmets. Its organisational
lessons and visual references could then be re-used to demonstrate the artist’s
power of inventio and his erudite knowledge of the classical past, as Mantegna
indeed does at Mantova in his sequence of canvases of the Triumph of Caesars [Sarcophagus
of the Muses, with Apollo and Minerva, front, 2nd c. ad, marble,
Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung, Vienna, inv. I 171. Andrea Mantegna,
or circle of, Drawing after the Relief on the Arch of Constantine, end of the
15th century – beginning of the 16th, black chalk with brown ink, 273 × 189 mm,
Albertina, Vienna, inv. 2583r. Workshop of Pisanello, Three Nude Figures from
Ancient Roman Sarcophagi, c. 1431–32, silver point, pen and brown ink on vellum,
194 × 273 mm, Louvre, Paris, inv. 2397]. artists, including Lippi and Franco
and it was engraved by Raimondi. The Ambrosiana draughtsman reproduces only a
few figures, changing their position and disregarding their interrelations and
the background, no doubt with the intention of assembling a range of drapery
studies that could be re-used in the future. The artist selects primarily
figures that offered the greatest variety and movement of cascading robes,
leaving the nude Apollo in the bottom right corner unfinished. Two tendencies,
apparently opposed but both symptomatic of a more profound understanding of the
antique, gains ground in sketchbooks and loose drawings. On one hand there was
a [Anonymous of the Ambrosiana, Figures from an ancient Roman Muses Sarcophagus,
c. 1460, metal point, pen and brown ink, heightened in white, on pink prepared
paper, 310 × 200 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214 inf.] A similar
evolution is seen in drawings that reproduce FREE-STANDING classical statuary.
Not surprisingly, all are after the most famous statues then visible in Rome
which, given their size and anatomical detailing, were an invaluable source for
the study of the male body. The earliest examples are again a group of drawings
by Pisanello. They represent, among other figures, the ANTONINO and one of the
two Horse Tamers or Dioscuri on the Quirinal Hill. The latter is especially
relevant for our purpose, as the Dioscuri constitute the two most complete
free-standing nude in Rome. Both Dioscuri are copied repeatedly, praised by
contemporary written sources, and [Trajan overpowering Barbarians, Roman, c.
117 ad, marble, Arch of Constantine, central arch, north façade, Rome remained
constant sources of inspiration for artists into the 19th century. In a drawing
of one of the Dioscuri, the draughtsman isolates the sculpture from its
context, and focuses exclusively on rendering the anatomy. The cloak on the
forearm is just outlined. Although it is an impressive achievement and while
the male nude is realised much more plausibly than those figures taken from
sarcophagus reliefs, the ELONGATION and SLIMMING
of the figure and the inaccurate rendering of the idealised anatomy betrays a Gothic
mindset. The same DIOSCURO is copied in a drawing by Gozzoli [ Equestrian
Statue of Marcus Aurelius, Roman, 161–180 ad, bronze, 424 cm (h), Capitoline
Museums, Rome, inv. MC3247. Workshop of Pisanello, Marcus Aurelius, c. 1431–32,
pen, brown ink and wash heightened in white on brown-orange prepared paper, 196
× 156 mm, CASTELLO SFORZESCO, Civico Gabinetto dei Disegni, Milan, inv. B 878
SC. One of the Two Dioscuri or Horse Tamers, Roman copy of the 2nd century ad,
after a Greek original of the 5th century bc, marble, 528 cm, Quirinal Square,
Rome] Pollaiuolo. Many are modelled on an ancient proto-type, like those being
handled and studied by the artists at Bandinelli’s academy. But ‘DISEGNO DALLA VITA’
from a posed apprentice is also widely practised and becomes increasingly
common in the final decades, especially in Florence. Another drawing by Gozzoli’s
circle shows the practice of setting a male naked LIVE MODEL in the pose of
(apres, after) “l’antico” – a contradiction: DISEGNO DALLA VITA E DALL’ANTICO. In
this case the obvious reference is the Spinario, the celebrated bronze antique
figure whose complex pose remains one of the most popular for a live model. The
use of the model book as a teaching tool disappeared but sketchbooks and the travel
book reproducing antiquities became more widespread. Their progressive
diffusion is one of the clearest indications of the spread of interest in the antique
and goes hand-in-hand with the formation of collections of antiquities and the
pursuit of antiquarian studies, such as Biondo’s influential “Roma Instaurata”,
a methodical guide to the monuments of Rome. Enthusiasm for classical art and a
more attentive study of its forms and principles is reflected in the increased
dynamism, pathos and complexity of the compositions that we can see in Italian
painting and sculpture in the work of Florentine artists like Pollaiolo,
Ghirlandaio and Lippi [Workshop of Benozzo Gozzoli, A Nude Young Man Seated on
a Block, His Right Foot Crossed over His Left Leg, c. 1460, metalpoint, over
stylus indications, grey-brown wash, heightened with white, on pink-purple
prepared paper, 226 × 150 mm, The British Museum, Department of Prints and
Drawings, London, inv. Pp, 1.7] probably executed when he was in Rome to assist
Fra Angelico in the St Nicholas Chapel in the Vatican Palace]. In this case the
drawing is again far from accurate, and the draughtsman combines the Dioscuro
with the horse held by his twin. Again the forms are isolated. As in the
earlier drawing the supporting cuirass and the strut between the right arm and
thigh are omitted as is the cloak on the forearm. The group is set against a
neutral backdrop and on the ground rather than on its pedestal. Although the
Dioscuro stands firmly, and although his anatomical structure, his surface
musculature and their modelling are rendered much more convincingly than in the
Pisanello drawing, the idealisation of the male is still not emphasised and we seem
to be looking at a real MALE taming his horse rather than at a heroic marble
statue. Although it is difficult to draw general conclusions based on such
exiguous surviving material, it seems safe to say that formost 15th-century
artists, classical free-standing statuary was seen as a model for the nude male,
its poses and movements. With notable exceptions, such as Donatello, artists
did not try to grasp the anatomical and formal principle of the original nor does
he aspire to recreate the process of idealisation innate in so many classical
nudes. For this reason, the drawings are often not immediately recognisable as
copies after the Antique (‘drawn from the antique’). The Antique could also be
copied inside the workshop using SMALL-SCALE three-dimensional models. We have
plenty of evidence about collections of antique statues, often fragments, and
the ownership of plaster casts by artists. Their presence in the work-shop is also
acknowledged in “De Sculptura” by Gaurico, who speaks of artists having
cabinets ‘filled with any sort of sculptures’ and ‘chests filled with casts’. Although
a cast may OBVIOUSLY BE TAKEN from a male naked live model, as described by
Cennini, others are ‘cast from the antique’, such as those mentioned by
Ghiberti and Squarcione, the teacher of Mantegna, whose workshop at Padova
contained a collection of antiquities. Casts and antiquities are part of the
working material of the bottega. They also serve to elevate the status of the
workshop to that of a STUDIO or STUDIUM, a place of cultivation of liberal
arts, the beginning of that process of the intellectual emancipation of the
artist that would be fully developed with the foundation of the academies. A
beautiful drawing of feet, part of a sketchbook by Gozzoli eloquently shows the
use of casts, in this case most likely taken from antique fragments, as
teaching tools in the bottega. We see here one of the earliest visual records
of a [Spinario, Roman, 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums,
Rome, inv. MC1186. Pisanello, or circle of, One of the Two Dioscuri or Horse
Tamers, c. 1431–32, silverpoint, pen and brown ink on vellum, 230 × 360 mm,
Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214 inf.10v. Benozzo Gozzoli (attr.), One
of the Two Dioscuri or Horse Tamers, c. 1447–49, metalpoint, grey-black wash,
heightened with lead white, on blue prepared paper, 359 × 246 mm, The British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, inv. Pp, 1.18. Workshop of
Benozzo Gozzoli, Studies of Plaster Casts of Feet, c. 1460, silverpoint
heightened with white, on green prepared paper, 225 × 155 mm, Museum Boijmans
Van Beuningen, Rotterdam, Benozzo Gozzoli Sketchbook, fol. 53] practice,
copying from a cast, that would expand exponentially. For the study of the naked
male and the three-dimensional form, a pupil could rely also on small models in
wax, CLAY, or bronze, provided by such sculptors as Ghiberti or Sanzio, Buonarroti,
and Rome as the Centre of the Study of the Antique. The following generation,
that of Buonarroti and Sanzio, sees a seismic shift in the approach to the antique.
They now attempted to equal or even surpass the antique by penetrating its
principles.The two titans of the High Renaissance had a radically different
approach towards the classical naked male form, but they both aime at assimilating
the ancient ‘mimetic’ or imitative standard of an idealised naturalism, full
mastery of the naked male, its anatomy and proportions, and the convincing
rendering of the EMOTION or EX-pression (or affect) of the soul. Vinci expresses
a deep interest in the Antique and is directly exposed to it in Florence
and in Rome. The classical naked male form is referenced in many of his works,
particularly in the unrealised project for an equestrian statue of Francesco
Sforza in Milan. But Vinci’s naturalism, based on empirical observation, means
that he always checks his ancient sources against the scientific observation of
the natural world. He remains a naturalist at heart, famously stating that ‘he who
copies a copy is Nature’s grandchild when he may been her son’. On the other
hand, from a practical point of view, Vinci also acknowledges the usefulness of
copying from a ‘good master’ and sculpture. While for Vinci the Antique remains
an interest secondary to Nature, Sanzio’s and Buonarroti’s engagement with the
antique is on an unprecedented level. The immense impact that Sanzio and
Buonarroti have on their own generation and on Western art in the centuries
that followed lies in the very fact that they are perceived and celebrated as
the first modern masters who had equalled, if not surpassed, the ancients. Opie,
lecturing on painting at the Royal Academy, proclaims the ‘perfection of the
Arts under Leonardo da Vinci, Michael Angelo, and Raffaelle’, but their status
as modern classics was already acknowledged during their lifetime. Bembo
elevates Buonarroti and Sanzio to the same pedestal of the ‘ancient good
masters’ and Vasari sustains his uncompromising panegyric of Buonarroti by
affirming that his Davide (Galleria dell’Accademia, Florence) surpasses in
beauty and measure even the best ancient monumental sculptures of Rome, in
particular the various Rivers and the Horse Tamers on the Quirinal. The Mondern,
now capable of providing an idealised nude more convincing than the most famous
surviving classical ones, outshines the Ancient. Artists of Sanzio’s and
Buonarroti’s generation have the advantage of benefiting from more, and more
readily available, ancient statuary, including those discovered in excavations
and those displayed in relatively accessible settings. However, both Vinci and
Buonarroti must already have been exposed to drawings, casts and models after
the Antique respectively in the workshops of Verrocchio and Ghirlandaio. Both
studied (although Vinci briefly) in the Giardino di San Marco, an informal
academy set up by Lorenzo il Magnifico to train artists specifically in drawing
and copying after the antique under the supervision of the sculptor Giovanni. Vasari
informs us that Buonarroti devoted himself obsessively to the task, and Condivi,
Buonarroti’ss biographer, emphatically states that the genius ‘having savoured
their beauty [...] never again goes to Ghirlandaio’s workshop or anywhere else,
but there he would stay all day, always doing something, as in the best school
for such studies’ As a pupil Sanzio probably did not receive a similar training
in the workshop of Perugino, who had less interest in the Antique. But some
drawings with reference to classical models survive and he certainly
participates in the sophisticated antiquarian environment in Florence, where he
moves. It is the impact of what Buonarroti and Sanzio see in Rome, where they
both moved that has the most far-reaching and radical impact on the evolution
of their art and their relationship with the anqique. Under the pontificates of
Rovere (Giulio II and Leone X, Rome establishes herself as the centre for the
study of the Antique. Many of the most celebrated collections of antiquities – Medici,
Farnese, Borghese, Ludovisi, Albani -- are formed or consolidated, such as
those of Riario, Maffei, and Della Valle
and later on the Cesi and the Sassi. The collection of antiquities at
the Campidoglio is enlarged with the transfer of the statues of the Rivers, the
Nile and the Tiber from the Quirinal and the Antonino from the Lateran, the
latter a statue so important for the symbolic imagery of Rome that Buonarroti
designs a square around it. However, the real centre of attention in the early
years of Buonarroti and Sanzio in Rome are the new discoveries emerging from
the soil of the city. Within a few years some of the statues that would attract
the attention of artists and connoisseurs for centuries to come are discovered,
[Anonymous engraver after Maarten van Heemskerck, The Antique Courtyard of the
Palazzo Della Valle, 1553, engraving, 289 × 416 mm, Rijksmuseum, inv.
RP-P-1996-38] provoking enormous enthusiasm among contemporaries: the Apollo del
Belvedere, the Laoconte, the Cleopatra, the Ercole Commodo, and the large
rivers Tevere and Nilo. By 1512 all could be admired, with the addition of the
Venere Felice in the Cortile Ottogono del casino della Villa del Belvedere nel
Monte Vaticano, a purpose-built space commissioned by Giulio II from Bramante,
the great interpreter of ancient Roman architecture. The Cortile, displaying
some of the most complete and prestigious sculptures from antiquity, soon
became the canonical Roman site for making a copy ‘drawn from the antique’. It
retains its unparalleled prestige, as the many drawings after its statues
eloquently attest. It is invaluable, as the Cortile del Belvedere offers them
the opportunity to study different male forms and positions and different sub-types
of ideal beauty at the same time: moving from the Apollo, to the strong and pronounced
muscular anatomy of Ercole Commodo. Two more statues are added to the
Courtyard: the Antino del Belvedere and the Torso del Belvedere. The Antino del
Belvedere is to become the canonical model for artists for the perfect
proportions of the naked male body. The Torso del Belvedere becomes one of the
most copied of all antiquities, a compulsory reference for the body of the
muscular male at rest, especially because of Buonarroti’s admiration for it and
the popular belief that he gives instructions to leave it unrestored. The
master’s praise of the evocative fragment became a leitmotif in artistic
treatises and literary sources to the point that it [Fig. 17. Hieronymous Cock
after Anonymous Draughtsman, The Capitoline Hill, 1562, etching and engraving,
155 × 212 mm, Metropolitan Museum, New York, inv. 2012.136.358] became known in
18th-century Britain as the ‘School of Michelangelo’. The Cortile del Belvedere,
the Campidoglio, and the collections in the various palazzi: Palazzo della
Valle and others, remain the privileged centres for copying the Antique in Rome.
The increasing number of accessible classical statues makes Rome a pole of
attraction, to congregate and to complete one’s education and gather on paper a
repertory of classical forms and motifs. This was a phenomenon central to the
development of art. It is evocatively
described by Bembo. Under Giulio II and Leone X both Buonarroti and Sanzio are
at the centre of the antiquarian debate and, as Bembo puts it, play an
essential role in their efforts to emulate and surpass the antique (they fail).
Indeed Vasari attributes the rise of the ‘bella maniera’, and the great achievements
of Sanzio and Buonarroti, to their familiarity and exposure to the Belvedere
statues. Even if Vasari’s words are a retrospective celebration aimed at
establishing the primacy of the Florentine and Roman schools, the spirit of
classical art permeates much of Buonarroti’s and Sanzio’s Roman production and
specific antique proto-types are evoked in many of their works. One need only
think of the inspiration Buonarroti derives from the Torso del Belvedere for
his Ignudi in the Sistine Chapel. Given their familiarity with classical
antiquity, it may seem strange therefore that very few drawings after classical
statuary by either Buonarroti or Sanzio survive. Many might have been
intentionally destroyed. Vasari recounts Buonarroti’s burning large numbers of
drawings, sketches [Fig. 18. Apollo del Belvedere, Roman copy of
the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the 4th century bc,
marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome inv. 1015 Laocoön, possibly a Roman
copy of the 1st century ad after a Greek original of the 2nd century bc,
marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1064. Cleopatra, Roman copy of
the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the 2nd century bc,
marble, 162 (h), Vatican Museums, Rome, inv. 548] and cartoons so that none
could see the efforts of his creative process. Nonetheless, in the few
surviving drawings which bear direct references to classical models, one sees
their tendency towards ‘assimilating’ the spirit of antique forms rather than *slavishly*
copying them (as an amanuensis would). This attitude can be shown by comparing
a drawing by Aspertini after the Belvedere Cleopatra with one by Sanzio derived
from the same statue. Aspertini’s copy, paired on the facing page with one from
a relief from the Arch of Constantine, embodies the attitude typically seen in
a sketch- book: a more or less faithful rendering of the antique form, in this
case rather finished and accurate, that serves as a record. Sanzio’s drawing
represents a more evolved phase, when the ancient form takes a new shape: the
elegant and difficult pose of the body of the Cleopatra and the play of the
drapery over her intertwined [Aspertini, The Sleeping Cleopatra and a Relief
from Trajan’s Column, (verso) post 1496, pen and brown ink, over black chalk,
on two sheets conjoined, 254 × 423 mm, The British Museum, Department of Prints
and Drawings, London, inv. 1905,1110.1-2. Sanzio, Figure in the Pose of the
Sleeping Cleopatra, c. 1509, pen and brown ink, 244 × 217 mm, Albertina,
Vienna, inv. 219. Sanzio, The Muse Calliope, detail from the Parnassus, c.
1509–10, fresco, Stanza della Segnatura, Vatican Palace, Rome] legs are used as
an inspiration for the muse Calliope in his Vatican Parnassus. Sanzio nevertheless
also produces some ‘record’ drawings. Nominated by Leo X as inspector of all
the antiquities in and around Rome and embarked on a project to reconstruct the
aspect of ancient Roman buildings based on precise architectural surveys of their
remains. His method, based on a precise analysis paired with ancient literary
sources, remains unmatched. His scholarly attitude towards classical art and
his thorough understanding of it are clearly expressed in a famous letter that
he wrote to Leo X with the help of the courtier Castiglione in which he appeals
against the destruction of classical monuments. At the same time, he provides
an outstandingly accurate description of the different styles of ancient
sculpture found on the Arch of Constantine. One of the very few surviving exact
copies of classical statues in Sanzio’s hand is indicative of his precise,
almost [Hendrik III Van Cleve, Detail from View of Rome from the
Belvedere of Innocent VIII, 1550, oil on panel, 55.5 × 101.5 cm, Musées Royaux
des Beaux-Arts de Belgique, Brussels, inv. 6904. Pseudo-Antino del Belvedere,
Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the
4th century bc, marble, 195 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 907. Belvedere
Torso, Greek or Roman, 1st century bc, marble, 159 cm (h), Vatican Museums,
Rome, inv. 1192] archaeological approach to the Antique, and we can assume that
he produced similar ones during his period as inspector of Roman antiquities. It
is a clear rendering of one of the two horses from the Horse Tamers on the
Quirinal, that we encountered in Gozzoli’s study. There could not be a better
comparison to demonstrate the progress made in the understanding of classical
statuary. Sanzio’s drawing is ‘scientific’. We clearly recognise that the horse
is a piece of marble sculpture, with a faithful record of its missing left leg
and the joint between the neck and the body. The horse is COPIED, i. e. DRAWN
AT EYE LEVEL (Sanzio presumably stood on a platform) and not seen from below,
as in most other contemporary views. This allows the proper study of the
proportion of the sculpture, in a way similar to an architectural elevation. Outstandingly,
even the measurements of the statue are recorded on the drawing, probably by one
of his pupils, making this the first surviving measured drawing of a classical
statue. Incidentally Sanzio’s drawing also shows the introduction of a new
medium – red chalk – which would become one of the preferred tools for drawing
after the Antique. It is likely, nevertheless, that Sanzio generally left
making such specific records of classical sculptures to the pupils of his large
workshop, as several surviving drawings in the hand of Romano and Polidoro da
Caravaggio, among others, attest. Some of these were probably intended to be
engraved, as it is in Sanzio's circle that we find the first printed images of
celebrated statues and reliefs, such as those of Raimondi, Marco [Sanzio The
Right Horse of the Horse Tamers on the Quirinal Hill, c. 1513, red chalk and
pen and brown ink over indentations with the stylus, 219 × 275 mm, National
Gallery of Art, Washington D.C., inv. 1993.51.3.a, Woodner Collection.
Buonarroti, Study of an Antique Torso of Venus, c. 1524, black chalk, 256 × 180
mm, The British Museum, Departments of Prints and Drawings, London, inv.
1859,0625.570. Buonarroti, A Youth beckoning; A Right Leg, c. 1504–05, pen and
brown ink, black chalk, 375 × 230 mm, The British Museum, Departments of Prints
and Drawings, London, inv. 1887,0502.117. Romano (attr.), Apollo del Belvedere,
c. 1513–15, pen and brown ink, pencil, 316 × 155 mm, Albertina, Vienna, inv.
22449. Veneziano, Apollo Belvedere, engraving, c. 1518–20, 269 × 169 mm,
private collection. Dente and Agostino Veneziano (c. 1490–after 1536; fig. 29).
The print medium, which plays a crucial role in disseminating the knowledge of
the Antique is to be increasingly used in work-shops and academies for training.
One first copies the Antique from a flat image, before turning to the third
dimension of a cast or an original. Sanzio’s approach towards the Antique,
based on study, measurement, reconstruction and dissemination, cannot be more
distant from that of Buonarroti, who constantly confronts the classical models
with a challenging spirit. Several anecdotes reported by contemporaries reveal
his approach towards antiquity. Boissard informs us that shortly after having
seen the Laooconte emerging from the ground of the Esquiline, Buonarroti enthusiastically
comments that it is ‘a singular miracle of art in which we should grasp the
divine genius of the sculptor rather than trying to make an imitation of it’.This
quotation is poignant for understanding the Platonic concept of divine
inspiration for Buonarroti. At the same time it shows clearly that his
relationship with the antique model was not based on a process of imitation but
rather on that of ‘aemulatio,’ a creative rivalry possible only after the
assimilation and internalisation of its principle. This approach is reinforced
in a celebrated passage from Vasari which became a recurrent leitmotif in
subsequent art literature – in which he reports that Buonarroti creates figures
of nine, ten or even twelve heads high, searching only for the overall grace in
the artistic creation, because in matter of the proportion, ‘it is necessary to
have the compass in the eyes and not in the hand, because the hands *work* and
the eyes *judge*’. Advocating the principle of grace, consistency of artistic
creation, and the artist’s own judgement, Buonarroti therefore disregards the
canon of *eight* heads comprising the male figure established by Vitruvio,
implicitly expressing a relation with the classical proto-type based on empathy
and intimate understanding of its form, rather than on a rational adherence to a
rule based on a number– an approach he replicates in his architecture. Buonarroti’s
surviving copies after classical statues can be counted on one hand, such as a
series of reproducing the torso of an antique Venus, probably made in
preparation for one of the female figures in the Medici Chapel. His free
relationship with the Antique emerges from many of his drawings, for instance
the Beckoning Youth, loosely inspired by the Apollo del Belvedere. Buonarroti evokes
the pose and aspect of the celebrated statue, but turns it into something new,
where the hint of movement of the original is dramatically accentuated and
balance is replaced by unstable dynamism. Sanzio and Buonarroti have been
discussed at length because their different attitudes towards classical forms
resurface constantly in Art. This polarity may be defined as assimilating the
principles of the Antique by sticking to its rules and system of proportions OR
assimilating the creative spirit of the Antique by breaking its rules. At the risk
of oversimplification we could argue that Reni and Poussin fall within the
first sphere and Rubens and Bernini in the second. It is not by chance that the
classicist credo that permeates the Italian and French academies for most of
their history elects *Sanzio* as their champion, while the eccentric and unruly
Buonarroti remains a figure more difficult to celebrate from a didactic point
of view. The Antique in Theory plays a Role in the Academic ‘Alphabet of
Drawing’. More statues emerge from the soil of Rome and those already
discovered are given new life and integrity by partial or full ‘restoration’. A
statue is usually unearthed in fragmentary states, as can be seen from the
evocative drawings of Roman collections by Heemskerck. Whether philologically
correct or not, the practice of restoration allows one to copy the naked male in
its entirety rather than in mutilated fragments. Celebrated restorations
included those of the Apollo del Belvedere and the Laooconte by MONTORSI on the
recommendation of Buonarroti. Among the excavated statues three must be
mentioned as they immediately became constant references for artists. The place
of honour goes to the Ercole Farnese. It provides an ideal model for the
muscular male at rest and copies after it become ubiquitous in artists’
work-shops and academies. The other two statues are discovered together in and
immediately entered the collection of the Villa Medici in Rome: I LOTTATORI,
representing two males in a complexly interlocked ‘syntagma’ or group.
I LOTTATORI are used often in later academies as a source for posing TWO LIVE
MODELS – SYNTAGMA DISEGNATO DALLA VITA (see cats 16 and 27b); and the Niobe Group
whose suffering expressions would be widely referenced as a source for drama
and pathos, for instance by Reni, among others. In time, a standard set of
ideal types (to use Weber’s term) begins to take shape, thanks to the diffusion
of bronze and plaster casts and, especially, of prints. After the loose sheets
of Raimondi, Dente and Veneziano, more systematic enterprises are launched.
Collections such as SPECVLVM ROMANÆ MAGNIFICENTIÆ by Lafréry or ANTIQVARVM STATVARVM URBIS ROMAE by
Cavalieri, play a crucial role in the wide dissemination of a canonical
selection of classical statues, thus attracting more and more artists to Rome
to study the originals. This tendency towards codification also affects the
relationship of artists and art writers with the Antique, as the imitation of
classical statuary is given theoretical underpinning. At the same time the
Antique acquires a clear role within the curricula of the emerging academies as
a teaching tool, systemising a practice that, as we have seen, is already
widely diffused within Renaissance workshops. Art theory in general goes
through a process of radical systematization. Many artists and writers feel that
rules are required to give ‘ars’ an intellectual frame-work that would lift its
status from ‘mechanical’ to ‘liberal’ arts – (as in M. A. Magister in Arts, MA
before DPhil Lit Hum) an ambition dating back to the writings of Alberti. Most
theoreticians and artists believe that a codified precept is also vital to inculcating
the ‘correct’ principle in an age that they considered to be one of artistic
corruption. Armenini speaks explicitly of the ‘pain’ that masters like Sanzio
and Buonarroti would have felt in seeing the art of his own time. And Armenini,
Lomazzo, Zuccaro and others, notwithstanding differences among them, consider
that the rule can be inferred from study of the best examples of the great
Renaissance masters and those of antiquity. The latter especially, it was
thought, would provide with correct proportions and anatomy and inculcate the ideal
standard. A foundation of this theoretical effort is provided by the
assimilation of Artistotle’s Poetica, the first reliable Latin translation of
which circulated widely. Since no comprehensive treatise on painting had [Cavalieri,
The Laocoön, engraving plate 4, from Antiquarum statuarum urbis Romae, Rome,
1585] readily found in his work. For him the best ancient sculptures embodied
the supreme quality of ‘grazia’, which cannot be attained by study but only by
judgement – a concept that remains one of the central tenets of Italian art
theory. Vasari’s Lives also proclaims the superiority of the Central Italian
School of painting, based on ‘disegno’ to the Venetian one, based on ‘colore’,
initiating a debate over the respective merits of the two traditions. Although
traditionally the Venetians aim at imitating nature directly on the canvas
through colour and therefore are less attached to the laborious practice of
drawing after the antique, classical statuary plays a role in the formation of
many Venetian painters, and casts are used in their workshops. Tintoretto, for
instance, owns a large collection of casts and reductions of ancient and modern
sculptures. The importance attached to the study of the Antique by all the
Italian schools of painting is shown by the fact that one of the very first
consistent formulations of the principle of the ‘imitation’ of classical
statuary is to be found in Dolce’s “Dialogo della pittura.” Dolce’s “Dialogo
della pittura” contains the strongest defence of the Venetian tradition against
the Vasarian point of view. It also contains, if not fully developed, most of
the fundamental elements of the artistic theory. Dolce clearly specifies that
in the search for the perfect proportion of the naked male, the artist should ‘*partly*
imitate nature’ and partly ‘the best marbles and bronzes of the antient [sic]
masters’, because through them he can ‘correct’ this or that defects of this or
that living form – the live model -- as they are ‘examples of perfect beauty’, an
ideal version of Nature. But in Dolce we find also a warning against regarding
the copying of ancient sculpture as an end in itself rather than the means by
which an artist creates his own ideal artistic forms – something already
stressed by Vasari in his Lives. An ancient statue is to be ‘imitated’ with
‘judgement’, to avoid turning a pleasing trait into a formula or, worse, an eccentricity.
This warning would be repeated frequently, notably, y Rubens and Bernini and it
could lead to open opposition to copying the Antique. Similar advice appears in
Armenini’s Veri Precetti della Pittura. Armenini’s “VERI PRECETTI DELLA
PITTURA” is quite systematic and offers one of the most articulated approaches
towards the role of the Antique in the artist’s education. Many of Armenini’s ideas
and much of his advice would becomes standard practice. In the chapter on
‘disegno’, Armenini states that to acquire the ‘bella’ or ‘buona
[The Farnese Hercules, Roman copy of the 3rd century ad of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 317 cm (h), MUSEO ARCHEOLOGICO
NAZIONALE, Napoli, inv. 6001. I
LOTTATORI. Roman copy of a Greek original of the 3rd century bc, marble, 89 cm
(h), Uffizi, Firenze, inv. 216. The Niobe, possibly Roman copy of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 228 cm (h), Uffizi, Firenze, inv. 294] survived
from antiquity, the Poetics, together with Orazio’s Ars Poetica, offer a
theoretical structure that could be transferred from the literary disciplines
to visual art – justified by Orazio’s celebrated motto ‘ut pictura poesis’, ‘as
is painting so is poetry’. More relevant from our perspective, Aristotle’s
Poetica provides, in several passages, an authoritative ancient source for the
principle that art may ‘perfect’ nature to create an ideal model – a concept
implied but never clearly defined by Alberti – and which constituted one of the
most solid bases for the classicist doctrine of art. This Aristotelian trend
had a counter-balance in a neo-Platonic tendency in which ideal beauty does not
derive from Nature but is infused in the mind of the artist by God, two
approaches that at times were combined by the same author, such as Lomazzo or
Zuccaro. But whether of Aristotelian or Platonic origins, or indeed a
combination of both, the principle of imitation of those works of art that had
already accomplished idealisation – particularly the antique statue – becomes one
of the leitmotifs of Italian art theory (v. Dorfles, “Natura e Artificio”). The
most important writer on art of the Renaissance, Vasari, firmly establishes the
primacy of disegno, design or drawing, as the intellectual part of art, the
‘parent’ of the three sister arts of architecture, sculpture and painting. In
his Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects drawing is described
as the physical, sensible manifestation EX-pression of an idea, encompassing
‘all the objects in nature’. Although he does not provide a theoretical case
for drawing after the Antique, nonetheless passages referring to the impact
that classical statues have on artists are maniera’ of the great
Renaissance masters, the student needs fully to assimilate through drawing
those principles of the ancient statues that those Renaissance masters
themselves copy, as they embody the best of Nature. Armenini’s importance lies
also in the fact that he is the first to list the specific statues and reliefs to
copy and to praise the didactic use of plaster casts, of which he saw many
collections throughout Italy – testifying to a practice that must already have
been quite widespread. The imitation of the Antique also becomes a central
tenet of the earliest art academies. Deriving their name from the ancient
philosophical Academy (Hekademos) of Plato, an ‘accademia’ is intended as a venue
for the cultivation of the practical, but even more, the intellectual aspects
of art. Its role is conceived in parallel and not in opposition to the artist’s
workshop, where the apprentices is still supposed to learn art’s technical
rudiments. One of the first mentions of the word ‘accademia’ in conjunction
with art is found in the first object shown in this catalogue, the Accademia del
Belvedere run by BANDINELLI eengraved by Veneziano. This depicts an ‘accademia’
centred on disegno set up in the Belvedere, where Leo X gives him quarters. It
shows artists learning how to draw the naked male and it is significant that
the focus of their attention is a series of statuettes modelled after a classical
proto-type. This, and the later view of Bandinelli’s Florentine Academy, are
the very first examples of an iconographical genre: the image of an accademia,
workshop, studio, often created with a programmatic or didactic purpose,
showing pupils learning the different branches of art or going through
different stages in their education. Just glancing at the works illustrated in the
catalogue shows how the presence of the Antique becomes progressively relevant.
The centrality of disegno and the naked male is firmly stressed by the
institutional, more organised, ‘accademia’.. The first, and a model for all
future academies, was the aptly named ‘Accademia del Disegno,’ – or ‘dei
disegnanti’ -- founded in Florence by Cosimo de’ Medici on the initiative of
Vasari. Its aim is to emancipate the artist from guild control, and to affirm
the intellectual status of the art.The two most significant academies that followed
before the are ‘Gl’Incamminati’, or ‘Accademia degl’incamminati, founded in
Bologna by the three Carraccis, and the Accademia di San Luca in Rome,
relaunched and given a didactic curriculum under Zuccaro. These academies –
although there were significant differences among them, and often huge
discrepancies between the theory they supported and the everyday teaching they
practised – proposes a system that could give a broad education to aspiring
artists. This usually included the study of mathematics, geometry and
perspective, to teach the student how to represent space rationally; and of
anatomy, the antique and the live model, -- DISEGNO DALL’ANTICO, DISEGNO DALLA
VITA -- to teach him to master the correct depiction of the naked male. We can
see an idealised version of early academic practices in a complex and
fascinating drawing by Stradano,
engraved by Cort, where the stress is on anatomy, the Antique and on the three
arts of disegno. Similar practices are illustrated in an etching by Alberti
showing a structured curriculum of studies involving anatomical dissection,
geometry, the Antique and architectural drawing. These studies codify artistic
exercises (and give a bad name to ‘academic’) that had been current from the
early Renaissance onwards but important new teaching structures were
introduced. These include a rotating academic staff, a competition and a prize,
and an organised debate on artistic questions and they are supported especially
by the regulations of the Accademia di San Luca. Although we do not know to
what extent and how effectively these new structures functioned in the first
decades of the Roman institution, they soon spread to other academies, becoming
the model for the Académie Royale in Paris. All these institutions strongly
advocate the copy of the Antique, both in plaster reproduction or in the
original. The Accademia del Disegno supervises drawing from the Antique both in
the Academy and in the workshops where apprentices were trained. It also owns a
‘libreria’, which includes drawings, models of statues, architectural plans,
and ancient sculpture, all used as teaching tools. The Accademia di San Luca
lists the copying after the Antique in its first statutes and receives a donation of casts, while numerous
plasters – such as reliefs from Trajan’s Column, the bust and the head of the
Laocoonte, one of the Horse Tamers of the Quirinal, the Torso del Belvedere and
many other entire or in fragments – appear in its early inventories. The
importance accorded by Zuccaro, the founder of the Roman Academy’s curriculum,
to the thorough study of Rome’s most famous statues, emerges from his wonderful
drawing of his brother, Taddeo sketching the Laocoonte at the Belvedere. The
series to which this drawing belongs, produced around the same time as the
foundation of the Accademia di San Luca, illustrates the ideal training that am
artist should follow: imitation of the Antique and the works of Renaissance
masters, such as Sanzio’s Stanze and Loggie, Buonarroti’s Last Judgment and Polidoro’s
painted façades. Another sketch, by a Zuccaro follower, depicts Zuccaro himself
in the Accademia, surrounded by students sketching after the cast of an ancient
torso. The Carracci academy too, although primarily focused on life-drawin
(DISEGNO DALLA VITA), advocates study of the Antique and we know that Carracci makes
his collection of drawings, medals and casts available for students. Early
academies also codified a teaching model, defined as the ‘alphabet of drawing’
or the ‘ABC’ method, which, in a less regulated form, was already established
within work-shops and which would have a long-lasting impact. This contributes
significantly to giving the Antique a fixed place within teaching curricula.
Modelled on the learning of grammar, the ‘alphabet’ is a sequence that
encourage students to advance from elementary unity to complex whole and from
the simple and similar to the varied and different. The scheme once again
originated in Alberti, who advises a painter to follow the method practiced by
teachers of writing, from the alphabet to whole words. So the beginner is supposed
to learn first ‘the outlines of surfaces, then the way in which surfaces are
joined together, and after that the forms of all the members individually; and
they should commit to memory all the differences that can exist in those
members’. He recommends the same process for the study of the male anatomy:
starting from the bones, proceeding to the sinews and muscles, and finally to
the flesh and skin. An iincreased stress on the naked male means that pupils
often start from the eye, then assembles different parts of the body in ever
more intricate combinations, and finally reaches the whole naked male, via the
study of ancient sculpture AND the live model. Benvenuto [Workshop of Federico
Zuccaro, A Group of Artists Copying a Sculpture, c. 1600, 190 × 264 mm, pen,
black and red chalk on prepared paper, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F 261
inf. n. 128, p. 125] Cellini reports that starting with the eye is the common
practice and advised, like Alberti, a similar process for the study of anatomy.
This process is reflected in the various images of early academies or studios,
such as Stradanus’ The Practice of the Visual Arts, where one pupil is shown
drawing an eye on his sheet, or Alberti’s Painters’ Academy where an artist is
presenting a similar drawing to his master. A parallel progression led the
student from simplicity to complexity in the depiction of outlines, surfaces,
chiaroscuro, poses and expressions: from copying objects in the same medium and
in two dimensions, to the imitation of three-dimensional figure. The process
usually starts with copying a drawing or print, then paintings, first in
grisaille and then in colour, moving onto ancient sculpture [PRELIMINARY to the
LIVE MODEL – drawn from life], either originals or casts, and, FINALLY, to the
live model. This progression, already outlined by Vinci in his treatise on
painting, and advocated also by Vasari, is codified by Armenini, the first to
list all its stages while simultaneously assigning a central role to classical
statuary in providing a model for ideal forms. Armenini delineates both the
progression from the eye to the whole body and from a drawing or print to the
live model (via the preliminary of the ‘drawn from the antique’, and warned the reader not to subvert this
order. The earliest academies applied this method and Zuccaro’s statutes of the
Accademia di San Luca, which are the most explicit, specifically mentioned the
‘alphabet’ or ‘ABC’ of drawing. It becomes standard practice in academies. The aim is, as most writers reiterated, to
assimilate this repertory of forms through constant study and the exercise of
memory, as to finally be able to create a form from imagination – for a
mythological heroic figure -- *independent* of any object of imitation
(IMITATUM). The ‘alphabet of drawing’ has its physical manifestation in the
publication of the drawing-book, conceived in the environment of the Carracci
academy, such as Fialetti’s “Il vero modo”. The diffusion of such manuals contributed
enormously to spreading the knowledge of the didactic role of the Antique to
artists who makes a grand tour to Rome a compulsory part of his education. Odoardo
Fialetti, Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del
corpo humano, Venice, c. 1608, etching, 100 × 140 mm, The Bellinheger Collection].
Rome establishes herself as the preeminent centre for anyone eager to
assimilate the principle of Italian art. The first significant artist, and one
of the greatest of all to do the tour to the Belvedere with the specific
educational intent, is Dürer. Durer spends the years in Rome. The impact of
classical statuary is evident in many of his prints and paintings, for example,
in his “Adam and Eve”. But the largest number of artists to travel to Rome
originates from the Low Countries. Coming from a powerful and influential
pictorial tradition that privileged an analytical representation of nature, and
having received little or no exposure to classical antiquity in their training,
Netherlandish artists seek especially to learn how to master the naked male
through the lessons of the Antique and the works of Sanzio and Buonarroti. Rome
offers also the opportunity of training in one of its many workshops and the
appealing possibility of benefiting from the system of commissions. Indeed the
‘fiamminghi’, as they are called in Rome, gain an increasing number of
commissions, eventually, in their turn, influencing the Roman art world. Some
of them stayed for long periods or moved permanently, such as Stradanus, Giambologna
– il ratto delle sabine, il mcurio di Medici -- or Tetrode. We know about the
Roman years of many of these artists mainly thanks to Mander’s “Schilderboeck”,
the earliest systematic account of Netherlandish and Northern European
painters, based on Vasari’s “Vite”. The approach of these artists towards the
Antique could be varied and multi-faceted. Most fill their sketchbooks with
drawings that served as a collection of forms to be re-used. Others, like
Spranger, according to Van Mander, aim to assimilate the principles of
classical art to establish a repertoires of forms and an attitude towards the
naked male that could be infused in their own creations, rather than spending
too much time in the physical act of drawing. Although ‘Mabuse’ is the first
Fleming to pass time in the peninsula, it was only with Scorel that the lesson
of antiquity was transmitted, through his work-shop at Utrecht. Of his various
pupils, Heemskerck is certainly the most prolific and versatile in copying
antique statuary. Two albums from the
years he spent in Rome are preserved in Berlin. They constitute one of
the largest surviving collections of copies after the Antique and are filled
with exceptional drawings in different media and size, offering an invaluable
opportunity to categorise the many different approaches to classical statuary
that can be described as record drawings. Many are topographical views of Rome
in which Heemskerck indulges in the depiction of architectural ruins and
sculptural fragments, and which he later reuses in imaginary landscapes. Some
of his views are poetic meditations on the colossal ruins of the city, physical
reminders of the passage of time, of human grandeur and fragility, a mood he
shared with other artists, such as Herman [Heemskerck, View of the Santacroce
Statue Court, 1532–37, pen and brown ink, 136 × 213 mm, Staatliche Museen zu
Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I,
fol. 29r] Posthumus. Other drawings are more or less accurate depictions of classical
statues in their physical locations, from the Belvedere to the Campidoglio, to
Roman private courtyards and gardens (figs 16 and 38), where the antiquities
are shown in their still fragmentary state. In numerous detailed drawings
focusing on single statues, we see Heemskerck’s different approaches to copying
the Antique and, correspondingly, the different media he employs to do so. His
drawings range from the precise pen-and-ink study, in which he faithfully
records the condition of celebrated statues, isolating the head as a physiognomic
type to a drawing where the whole statue is presented FROM DIFFERENT ANGLES, to
record the different poses and volumes of the naked male in space. He also makes
copies in which he exploits the softness of red chalk to study anatomical
details, assembling parts from different statues on the same sheet and focusing
on torsos and legs, sometimes even disregarding the face, the drapery or other
details. Finally, in yet other red chalk drawings he carefully records decorative details
from a statue or a relief. The variety of techniques and handling deployed in
these [Fig. 39. (top left) Maarten van Heemskerck, Head of the Laocoön,
1532–36, pen and brown ink, 136 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin,
Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 39r. Heemskerck,
Two Studies of the Head of the Apollo Belvedere, 1532–36, pen and brown ink,
136 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 36v. Heemskerck, Three Studies of
a Fragmentary Statue of a Crouching Venus in the Palazzo Madama, 1532–36, pen
and brown ink, 135 × 210 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer
Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 06v. Heemskerck,
Studies of Three Torsos and a Leg from Classical Statues in the Casa Sassi,
1532–33, red chalk, 135 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer
Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 51v. Heemskerck,
The Right Foot of the So-Called ‘Colossal Genius’, 1532–33, red chalk, 135 ×
208 mm, Berlin, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 65v ] copies allowed him to
find appropriate solutions to the variety of problems posed by the style and
condition of the works that he copied. The result is a stunning visual
repertory that is easy to access and use, and which would inspire him when he
returned home. Several Frenchmen also established their residence in Rome. Many
of them, such as Beatrizet, Lafréry, or Dupérac, specialise in engraved views
of the city and its ancient remains, catering to a market increasingly
fascinated by Rome’s ruins and statues. In one engraving attributed to
Beatrizet, we find a rare image of an artist in the act of copying from ancient
statuary in situ – in this case the famous colossal “Grande Bellezza” Marforio,
at that time located in the Forum now in the courtyard of the Palazzo Nuovo of
the Campidoglio. The image clearly expresses the sense of awe that one feels in
front of the grandeur of the remains of Roman classical statuary. The
fragmentary condition of so much monumental sculpture inspired thoughts about
the fragility of the human condition and the ultimate insignificance of worldly
troubles, which, as the inscription on the print remarks, the old Marforio
‘does not consider worth a single penny’. It is against this backdrop that we
must consider Goltzius’ draughtsmanly activity in Rome, where he arrived almost
certainly on the recommendation of his friend Mander, who had already been in
Italy. Goltzius was then is celebrated as an [Fig. 44. Beatrizet (attr.), An
Artist Drawing the ‘Marforio’, 1550, engraving, 370 × 432 mm, published in
Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae] engraver throughout Europe.
With Mander and Haarlem he establishes an academy in Haarlem. Although we know
almost nothing about this artistic association, it must have involved
discussions about the Antique and its representation among the three friends,
who had the advantage of direct access to Heemskerck’s Roman drawings, then
owned by Cornelisz. It is therefore significant that while in Rome, Goltzius takes
an approach to classical statuary that is very different from Heemskerck’s. Goltzius
concentrates from the beginning on *thirty* of the most famous classical
statues, of which 43 drawings in total survive. Goltzius’s drawings are highly
finished and unprecedentedly detailed, carefully recording the tonal passages
on the muscles of the statues. The viewpoint is almost always close and frontal
to the statue, or exploits the most dramatic or informative angle. Most
importantly, unlike almost all of his predecessors, who fill single pages of
their sketchbooks with details from unrelated sculptures, he devotes a full
page to *each*, a practice followed by Rubens. Goltzius’s intent from the
beginning is clearly to produce a drawing that may be transformed into an engravings
capable of surpassing in precision all previously published series, and which,
in faithfully reproducing the volume of the naked male, would also demonstrate
his renowned virtuosity in handling the burin. His set is intended for a market
of connoisseurs and collectors, but it is also likely that Goltzius wishes to
provide anyone with correct and detailed images of classical statues that they
could copy during their apprenticeships. Goltzius engraves only three plates,
one of which, significantly, shows an artist at work copying the celebrated
Apollo del Belvedere. A few years after Goltzius’s tour to Rome, Rubens arrives.
He spends two prolonged periods in Rome. Rubens constitutes a special case,
being the perfect embodiment of the humanistic ideal of the artist-scholar: the
son of a wealthy Antwerp family, highly educated in the classics and socially
accomplished, Rubens arrives in Rome already equipped with a thorough
understanding of the Antique and its literary sources, a passion he cultivates throughout
his life with his circle of scholarly friends and patrons. Rubens’s approach
towards classical statuary is therefore fascinating, complex and varied.
Rubens’ appetite for the most famous ancient statues must have been stimulated
already in Antwerp through the engravings by Raimondi and his pupils and
through those in the collections published by Lafréry and De Cavalieri. When in
Rome Rubens devotes himself completely to copying this or that original with
unique thoroughness, both to exercise his draughtsmanship and to create an
immense repertory of forms, to which he refers for inspiration throughout his
life. His approach towards classical statuary istwofold. One is purely intellectual,
focused on understanding the mathematical proportions and volumes of this or
that emblematic antique which he divides into different categories according to
muscular strength, to capture the very essence of their perfection. The other is
more direct: to study the statue exhaustively in order to assimilate its formal
principle For Rubens it is not only necessary to ‘understand the antique’, but
‘to be so thoroughly possessed of this knowledge, that it may diffuse itself
everywhere’. Unlike Goltzius, Rubens studies a statue over and over again,
copying it from many, and often unusual, points of view, devoting a single page
to each. No one before Rubens shows such a painstaking interest in
understanding the formal logic of a single statue intended as a whole. Rubens’s
focus on the naked male – to learn the principles of a perfect naked male – on specificslly ‘muscular’ masculine male
statues, such the Laocoonte, the Torso del Belvedere, and the Ercole Farnese
and his choice of the most favourable points of view, may reflect the specific
advice and examples given in Lomazzo’s Trattato and in Armenini’s Veri Precetti.
But, as Dolce and Armenini had already done before him, Rubens also cautions to
focus on the form and not on the matter of the statue, to avoid the ‘smell’ in a
drawing or a creation. Rubens is aware of the danger of transferring the
characteristics and limits of a three-dimensional medium (is flesh the medium
of the live model?) into another – drawing or painting. In a section titled “De
Imitatione Statuarum” of a larger theoretical notebook that he compiles over
several years, Rubens refers to painters who ‘make no distinction between the
form and the matter -- the ‘figura’ and the flesh, with the result
that ‘instead of ‘imitating’ living flesh from the life of nature, they
only represent marble tinged with various colours’. We can see Rubens’s genius
at re-vitalising the ‘inert’ substance of the antique model as if it were a
live model to be drawn from life, by applying his principle of inventive and
transformative imitation in most of his drawings after the Antique, for which
he uses soft chalk on rough paper better to ‘re-translate’ the substance back into
the natural living flesh, as if drawn from life. This is particularly evident
in muscular figures such as the Torso del Belvedere and the Laocoonte, which he
brings back to life, to the life Virgil instilled Laocoonte with, or Aiace had.
-- adopting a dramatic angle and a diagonal that completely abandons the
static [Rubens, The Back of the Belvedere Torso, c. 1601–02, red
chalk, 395 × 260 mm, Metropolitan Museum of Art, New York, inv. 2002.12b] and
the academic frontal point of view of most academic drawings. This attention to
the qualities of the naked male skin and flesh, and the dynamism, pathos, and
drama that he learns mainly from classically Roman – but POST-classically
Greek] statuary is to become the main traits of his own art. In this he is following
in the footsteps of Buonarroti, who, not by chance, Rubens copied extensively,
focusing especially on the nudes of the Sistine Chapel and on his statues. Rubens
adopts a similar approach to the live model, which he often poses in attitudes
reminiscent of an antique – such as the Spinario, or the Wrestlers. Unsurprisingly,
he frequently cited the Laocoonte and the Torso, but the most recurrent is the
Spinario in the Campidoglio – even though the head is not the original one -- for
which several drawings of the complex pose made from different angles survive. The Spinario pose is already chosen by one of
the pupils of Gozzoli for this particular purpose of the antique-imitating live
model, and it remains one of the most popular, even, easiest, for posing the
live model – everyone has a thorn! -- Rubens’s drawings of the Spinario convey
the essence of Rubens’s attitude towards the ideal human form, and the
Spinario’s attitude towards his own thorn. By posing flesh as imitatiang
another substance imitating flresh, Rubens – or the artist who does this -- is
able to bypass the dangers of the ‘matter’ to focus only on the complex form and
pose of the original statue or statuary group or syntagma (think Lottatori!). Back
in Antwerp, Rubens retains until his death his drawings after the Antique,
bound together in separate books, as a distinctive part of the collection of
his house-museum, which hosted also numerous antiquities. They remain a
constant source of inspiration and they may also have been used as teaching
tools – as in the best tradition of Renaissance workshop practices – judging by
the copies deposited by his pupils in the cantoor, Rubens’s cabinet or studio.
The flux of artists coming to Rome did not cease, although most become
fascinated by the radical naturalism of Caravaggio and his followers, rather than
aiming at recreating the principles of classical art. A group of artists even
develops a successful speciality in the depiction of contemporary Roman street
life and everyday reality: a rustic tavern, a drinking scenes, brigands, street
vendors, charlatans and carnivals. The art of the ‘Bamboccianti’, so named
after their leader, Laer, dubbed ‘Bamboccio’, or ‘ugly puppet’, is fiercely
criticised as a debased form of art that deliberately chose the ‘worst’ of nature
(cf. verismo, and the customs of realistic naturalism) by the supporters of
classicism and history painting, such as Albani, Sacchi, and Rosa, as well as
by the philosophers of ‘ideal beauty’ such as Bellori. In contrast to the
Dutch, among the foreign communities in Rome, it was the French who are to take
the lead in the cause of classicism, the defence of Ideal Beauty and the copy
and study of the Antique. The contrasting attitudes of artists towards the
study of art in Rome is perfectly visualised in a canvas by Goubau, a Flemish
painter influenced by the Bamboccianti, who had been in Rome. On the right,
judicious [Rubens, Study of the Laocoön Seen from the Back, c. 1606–08, black
chalk, 440 × 283 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. 624, F 249 inf. n. 5,
p. 11. Rubens, Study of the Younger Son FIGLIO PIU GIOVANE of the Laocoön Seen
from the Back, black chalk, 444 × 265 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv.
623, F 249 inf. n. 5, p. 11] artists under the supervision of a master are busy
at work among imaginary Roman ruins, copying and measuring an ancient statue or
a relief, among them the ERCOLE FARNESE; on the left the Bamboccianti indulge
in the pleasures of wine and music under the pergola of a rustic tavern. Nevertheless,
this wittily expressed opposition should not be taken too literally, as the
educational and inspirational role of classical statuary had been deeply
assimilated by artists of every inclination or aesthetic Many move between
genres and artistic currents such as the Flemish genre painter Lint, who
produced many drawings after the Antique while in Rome. Even those close to the
Bamboccianti clearly treasured the didactic role of classical statuary, as can
be seen in the depictions of workshops and artists at work by the Flemish Sweerts.
The Antique, and its didactic role in the Italian model of artistic education,
also made rapid progress in all of civilised Europe, supported by the
publication of Karel van Mander’s Schilderboeck. Knowledge was transmitted
mainly through drawings, drawing-books and plaster casts. These are used in the
drawing schools or private academies that proliferate, some of which were
founded by the same artists who had been exponents of the Bamboccianti in Rome.
These drawing schools often had to struggle against regulations by the guilds,
which remained the dominant associations for artists, dictating what goes on in
a workshop – the notable exception being the academy founded in Antwerp by
royal [Goubau, The Study of Art in Rome, 1662, oil on canvas, 132 × 165 cm,
Royal Museum of Fine Arts, Antwerp, inv. 185] decree. But despite the heavy
hands of the guilds, many thriving workshops, while accepting individual
apprentices, adopt *Italian* academic practices, such as conducting classes for
groups of students, or implementing a training programme focused on drawing and
the mastery of the human form. This often included the ‘alphabet of drawing’,
as was the practice of Rembrandt’s studio in Amsterdam, in which many students were
taught annually, and of Rubens, who, as court painter, did not have to register
his apprentices with the Antwerp guild.142 According to Van Mander, another
studio famous for its educational efficacy was that of Abraham Bloemaert (1566–
1651) in Utrecht (see cat. 11).143 During the second half of the century, other
private drawing schools or ‘colleges’ were founded, which cater for a clientele
of artists or the dilettanti giving them the chance to draw from casts and the
nude live model alongside their studio practice. Among the most famous are those
of Sweerts, opened in Brussels and of Bisschop in The Hague. Closely connected
with workshops’ and schools’ drawing practices was the proliferation of
drawing-books and artists’ manuals. Most of them were based on the example of
Odoardo Fialetti’s Il Vero Modo and Giacomo Franco’s De excellentia et
nobilitate delineationis (1611) sometimes re- printing parts of them.147 Like
their Italian predecessors, Netherlandish drawing-books focused on the human
form, on classical statuary, and on the different stages of the academic learning
process.148 The increasing importance of 38 39 the Antique in the
Netherlands is well expressed by the various Dutch translations of François
Perrier’s Segmenta (1638) – the most successful collection of prints after
classical statues of the 17th century (fig. 57 and cat. 16, figs 3–6) – and by
the equal success of its Dutch counterpart, Jan de Bisschop’s Icones (1668, see
cat. 13), explicitly compiled as a teaching tool.149 Antique models were also
copied by young Northern artists in three dimensions, thanks to the
proliferation of casts, as shown in the frontispiece of Abraham Bloemaert’s
Konstryk Tekenboek (c. 1650) – one of the most influential draw- ing-books of
the second half of the century (see cat. 11). Many studios and drawing schools
owned collections of casts, often of famous prototypes such as the Laocoön or
the Apollo Belvedere. Inventories of the studios of Cornelis Cornelisz. van
Haarlem, Hendrik van Balen (1575–1632), and Rembrandt, for instance, testify to
their presence.150 The diffusion of casts appears explicitly in the numerous
paintings depicting young artists at work, which became popular from the middle
of the century onwards (figs 49–53, see also cats 12 and 14). These works
constitute an individual iconographical genre that probably derives from
Fialetti’s striking etching (see cat. 10), which, as we have seen, was well
known and reprinted several times in the Netherlands.151 This genre was
practised mainly by Jacob Van Oost the Elder (1601–71, fig. 50), Wallerant
Vaillant (1623–77, fig. 51), Balthasar Van den Bossche (1681–1715) and Michael
Sweerts (fig. 52 and cat. 12), whose canvases tend to represent the ideal
training curricu- lum, where the copying of plaster casts after the Antique has
the place of honour.152 As ‘low’ genre paintings that celebrate the didactic
role of the Antique – traditionally considered to be essential for the lofty
genre of history painting rather than for scenes of daily life – they
indirectly attest to the ubiquitous penetration of classical models in all
17th-century artistic practices. Incidentally they are also a direct visual
source for the most widely diffused typologies of classical statues in the
North of Europe in the 17th century: from busts of the Apollo Belvedere (figs
18 and 50), of the Laocoön group, both father and sons (figs 19 and 51), and of
the so-called Grimani Vitellius (fig. 52), to reduced copies of the Spinario
(figs 15 and 49), the Belvedere Antinous (figs 22 and 51), the Venus de’ Medici
(figs 53 and 56), and the Farnese Hercules (see fig. 32 and cat. 14). Also
frequently depicted are busts of Niobe (see fig. 34 and cat. 12), reduced
copies of the Wrestlers (fig. 33) and the Borghese Gladiator (fig. 54). The
Italian and the French Academies in the Seventeenth Century and the Establishment
of Classicism The 17th century witnessed dramatic changes of attitude towards
the study of the Antique in terms of codification, diffusion and theoretical
debate; at the same time it saw the formulation of a style heavily dependent on
classical sculp- ture, setting the stage for the final affirmation of
classicism as a pan-European phenomenon in the following century. The selection
of the most significant antique statues, begun in the 16th century, was further
refined, especially in the cos- mopolitan antiquarian environment of Rome.
Excavations continued and some of the new discoveries immediately joined the
canon of ideal models. Three of them, in particu- lar, were ubiquitously
reproduced and copied in studios and academies: the Borghese Gladiator (fig.
54), discovered in 1611, which soon became the preferred model for the anatomy
of the muscular man in action; the Dying Gladiator (fig. 55), first mentioned
in 1623, whose complex pose could be drawn from different angles and which
offered an ideal of heroic pathos expressed in the moment of death; and
finally, the Venus de’ Medici (fig. 56), first recorded in 1638 but possibly
known in the late 16th century, which rapidly became the most admired
embodiment of the graceful female body.153 New collections gradually replaced
earlier ones and a few families succeeded in acquiring some of the newly
discovered statues that had gained canonical status. The magnificent urban
palaces and suburban villas of the Medici, Farnese, Borghese, Ludovisi and Giustiniani
attracted an increasing number of visitors and artists, becoming privileged
centres for the study of the Antique, and family names became attached to
certain statues, as the Farnese Hercules or the Venus de’ Medici testify.154
Some of these, such as the Palazzo Farnese (see cat. 21), and the Casino
Borghese retained their status as ‘private museums’ until the end of the 18th
century. Prints continued to play a vital role in the dissemination of images
of classical statues throughout Europe. They were produced predominantly in
Rome, where, as in the 16th century, French printmakers played a prominent role
along- side Italian antiquarians and engravers.155 Among others, the
publications of François Perrier (1594–1649) and the duo comprising the antiquarian
and theoretician Giovanni Pietro Bellori (1613–96) and the engraver Pietro
Santi Bartoli (1615– 1700), offered artists and the educated public a choice of
Fig. 54. Agasias of Ephesus, Borghese Gladiator, c. 100 bc, marble, 199 cm (h),
Louvre, Paris, inv. Ma 527 Fig. 55. Dying Gladiator, Roman copy of a Pergamene
original of the 3rd century bc, marble, 93 cm (h), Capitoline Museums, Rome,
inv. MC0747 Fig. 49. (top left) Jan ter Borch, The Drawing Lesson, 1634,
oil on canvas, 120 × 159 cm, Rijksmuseum, Amsterdam, inv. SK-A-1331 Fig. 50.
(top right) Jacob van Oost the Elder, The Painter’s Studio, 1666, oil on
canvas, 111.5 × 150.5 cm, Groeningenmuseum, Bruges, inv. 0000.GRO0188.II Fig.
51. (bottom left) Wallerant Vaillant, The Artist’s Pupil, c. 1668, oil on
canvas, 119 × 90 cm, Bonnefantenmuseum, Maastricht, inv. 673 Fig. 52. (bottom
centre) Michael Sweerts (attr.), Boy Copying a Cast of the Head of Emperor
Vitellius, c. 1658–59, oil on canvas, 49.5 × 40.6 cm, The Minneapolis Institute
of Arts, inv. 72-65 Fig. 53. (bottom right) Pieter van der Werf, A Girl Drawing
and a Boy near a Statue of Venus, 1715, oil on panel, 38.5 × 29 cm,
Rijksmuseum, Amsterdam, inv. SK-A-472 40 41 the ‘best’ ancient statues
and reliefs; the authority of their selections lasted throughout the 18th
century. For full-length statues, crucial was the appearance in 1638 of
Perrier’s Segmenta nobilium signorum et statuarum (fig. 57 and cat. 16 figs
3–6), a collection of prints which in many ways fulfils what Goltzius had
intended to publish four decades earlier (see cats 6–7).156 Offering good
quality reproductions and different points of view– three for the Farnese
Hercules and four for the Borghese Gladiator, for instance – Perrier’s images
were essential in focusing the attention of artists on a selected number of
models considered exemplary in anatomy, proportions, poses and expressions.
Reprinted and trans- lated several times, the success of the Segmenta was
immense and it was used in studios and academies as a teaching tool for almost
two centuries, as we have seen earlier in the Netherlands. As late as 1820 John
Flaxman was still recom- mending the use of Perrier to his students at the
Royal Academy.157 Such publications were the results of the antiquarian and
theoretical interests of a French-Italian classicist milieu that flourished in
the first half of the century in Rome.158 Innumerable French artists now spent
time in the city, filling sketchbooks with copies after the Antique and
Renaissance Fig. 56. Venus de’ Medici, Greek or Roman copy of the 1st century
bc of a Greek original of the 4th century bc, marble, 153 cm (h), Uizi,
Florence, inv. 224 Fig. 57. François Perrier, Venus de’Medici, plate 81, from
Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 masters, and devoting increasing
space to the study of Raphael.159 Two of the most relevant figures in this
context were the great French painter Nicolas Poussin (1594–1665), who resided
in Rome between 1624 and 1665 (with a brief sojourn in France in 1640–42), and
his friend and biographer Giovanni Pietro Bellori, possibly the most
influential art writer of the century, who deserves to be called the pro-
tagonist in the theoretical formulation of classicism. Of similar significance
was the scholar, antiquarian, collector and patron Cassiano dal Pozzo
(1588–1657), a friend of both Poussin and Bellori – and patron of the former –
who assem- bled a vast encyclopaedic collection of drawings divided by themes,
a ‘Paper Museum’, with sections devoted to classi- cal antiquity commissioned
from several contemporary artists.160 Classicism found probably its clearest
and most influen- tial formulations in a landmark discourse composed by Bellori
and delivered in 1664, the year before Poussin’s death, in the Roman Accademia
di San Luca: the ‘Idea of the painter, the sculptor and the architect, selected
from the beauties of Nature, superior to Nature’ (see Appendix, no. 11).
Bellori’s theoretical statement, published as a prologue to his Vite in 1672,
was to become enormously influential in defining and disseminating the central
tenets of the classicist ideal (see cat. 15).161 Joining Aristotelian and
neo-Platonic premises, Bellori’s Idea advocates in the selection of the best
parts of Nature according to the right judgement of the artist in order to
create ideal beauty – a concept that we have already encountered many times.
According to Bellori, the Idea had been embodied in art at several periods of
history and he traced its development according to a scheme of peaks and
descents. It took shape first and foremost in the ancient world and was revived
in modern times by Raphael, who is accorded nearly divine status. After the
decadence and excesses of Mannerism, it was revitalised by the Bolognese
Annibale Carracci (1560–1609) and by his pupils and follow- ers, notably
Domenichino (1581–1641). Their flame was kept alive in Bellori’s time by
Poussin and Carlo Maratti (1625– 1713), a protégé of Bellori, who fashioned
himself as the new Raphael and whose Academy of Drawing is the most program-
matic representation of the principles of Roman classicism (see cat. 15).
Bellori’s classicism, heir of the rich debates of the first half of the
century, can be defined as a codification and defence of an idealistic style
and of moralising history painting against the radical naturalism introduced by
Caravaggio and his followers, whose slavish dependence on Nature and choice of
low subjects were seen to undermine the intellectual premises of art. On the
other hand, Bellori also confronted the excesses and liberties of the Baroque,
whose representatives, according to him, leaned towards artificiality and
despised the ‘ancient purity’.162 Classicism in many ways was based on the
princi- ples laid down by the art theory of the second half of the 16th
century, as it shared with it a fundamental premise: the neces- sity of the
defence of what was perceived as the ideal path of art – the ‘bella maniera’ –
against contemporary artistic trends which were considered erroneous or even
noxious.163 The classicist theoretical approach further reinforced the practice
of copying: it reinstated the intellectual value of drawing while providing a
selected group of correct models to follow, with the Antique and Raphael on the
loftiest pedestal. These premises were embraced by the Italian and French
academies, and became the basis of most of the European academies of the
following century – Opie’s words to the young pupils of the Royal Academy in
1807 still reiterate their fundamental tenets. Although the debate was at times
fierce – as for instance within the Accademia di San Luca in the 1630s – a
strict division of 17th-century artists into classicist, naturalist and Baroque
categories would be arbitrary and inaccurate, as many of them moved between
currents and at times incor- porated elements of each in their own creations.
Indeed, artists of all allegiances copied, studied and took inspiration from
the Antique. We know from surviving drawings and contemporary written sources
that ‘classicist’ artists such as Annibale Carracci, Poussin and Maratti copied
antique statues (figs 58–61), yet an equal number of ‘Baroque’ Fig. 58.
Annibale Carracci, Head of Pan from the marble group of Pan and Olympos in the
Farnese Collection, 1597–98, black chalk heightened with white chalk on grey-blue
paper, 381 × 245 mm, Louvre, Paris, inv. 7193 artists, such as Rubens
(figs 45–47 and cat. 9), Pietro da Cortona (1596–1669, fig. 62) and Bernini
(figs 63–64) spent as much time in absorbing the principles of the Antique.164
Nevertheless their approaches towards the Antique could be very different.
Poussin, the intellectual and antiquarian painter par excellence, copied
hundreds of details from classical sculpture, especially reliefs and
sarcophagi, to give archaeo- logical consistency to his art, so that his
paintings would represent classical histories with the maximum of
accuracy, 42 43 Fig. 59. Nicolas Poussin, Equestrian Statue of Marcus
Aurelius, c. 1630–32, pen and brown ink and brown wash, 244 × 190 mm, Musée
Condé, Chantilly, inv. AI 219; NI 264 Fig. 60. Carlo Maratti, The Farnese
Flora, c. 1645–70, black chalk, 294 × 159 mm, The Royal Collection, Windsor
Castle, inv. 904377 Fig. 61. Carlo Maratti, or Studio of, The Farnese Hercules,
c. 1645–70, red chalk, 292 × 165 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv.
904382 Fig. 62. Pietro da Cortona, The Trophies of Marius, c. 1628–1632,
pen, brown ink, brown wash, heightened in white, on blue sky prepared paper,
518 × 346 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv. RL 8249 integrity and
power, an approach in several ways similar to that of Mantegna and Raphael.
Bernini, arguably the greatest 17th-century sculptor, spent his youth
obsessively copying the ancient statues in the Belvedere (see Appendix, nos
9–10) and in his old age recommended that students of the Académie Royale in
Paris begin their studies by copying casts of the most famous classical statues
before approaching Nature (see Appendix, nos 9–10). But Bernini’s attitude
towards ancient statuary was poles apart from that of Poussin (whom he
nevertheless highly admired): he assimilated its principles in order to create
his own independent forms, at times deviating radically from the classical
model – an atti- tude that we have already seen in Michelangelo and Rubens. To
develop their own style and avoid a slavish dependency on the Antique –
something already stressed by Dolce, Armenini and Rubens (Appendix, nos 4, 6,
8) – he advised his students to combine and alternate ‘action and
contemplation’, that is to alternate their own production with the practice of
copy- ing (Appendix, no. 10). A wonderful example that allows us to follow
Bernini’s creative process of transforming of the antique model is provided by
a study of the torso of the Laocoön, the unbalanced and twisted pose of which
he then ingeniously adapted in reverse for the complex attitude of his Daniel
(figs 63–66). A recollection of the Laocoön is further- more recognisable in
Daniel’s powerful expression (fig. 66).165 A practical outcome of the French
and Italian theoretical formulation of a classicist doctrine was the foundation
in 1648 of the Académie Royale de Peinture et de Sculpture in Paris, followed
in 1666 by that of the Académie de France in Rome – the latter intended to give
prize-winning students the opportunity to study the Antique in situ and to
provide 44 Louis XIV (r. 1643–1715) with copies of classical and Ren- aissance
statues.166 The foundation of the French Académie in Paris is a turning point
in the history of the teaching of art, as its codified programme – based on
Italian examples, and especially the Roman Accademia di San Luca – would
constitute the basis for the academies that spread over the Western world in
the 18th and 19th centuries. Founded by several artists, most of whom had spent
periods in Rome such as Charles Le Brun (1619–90), the Paris Académie was
supported by the monarch and candidates could apply for admission only after
they had trained in a workshop. Its regulations aimed at full intellectual
develop- ment for its students to prepare them for the creation of the highest
genre, history painting, or the grande manière. Although its curriculum was
rather loosely organised and, in the first tw o decades of its history,
fairly tolerant in its aesthetic positions, during the 1660s the Académie was
drastically reformed by the powerful Minister and Super- intendent of Buildings
Jean-Baptiste Colbert (1619–83) and by Le Brun to become an institution in the
service of the absolutist policy of Louis XIV, with a codified version of
classicism as its official aesthetic. The rationalistic nature of French
17th-century culture meant that the Académie conceived of art as a science that
could be taught by rules. This was explicitly stated by Le Brun in 1670,167 and
efforts were concentrated in clarifying and applying most of the precepts
already devised by the early Italian academies and theoreticians. If a student
followed these precepts correctly he – and only he, as the institution was
limited to male pupils until the late 19th century – would be able to assimilate
the principles of ideal beauty and create grand art.168 The future European
success of this regimented version of the humanistic theory of art rested
exactly in its rational nature, as a clear system of rules easy to export and
replicate, offering at the same time a safe path towards ‘true’ and universal
art. Pupils were supposed to follow the ‘alphabet of drawing’, from copying
drawings, to casts and statues, to the live model, which remained the most
difficult task and one reserved for the most advanced students. Regular
lectures on geometry, perspective and anatomy were provided. As in Federico
Zuccaro’s statutes for the Accademia di San Luca, professors rotated monthly to
supervise the life class, prizes were awarded to students and regular debates were
initiated on the principles of art – the celebrated so-called Conférences,
regularly held from 1667 onwards on the advice of Colbert, although they
faltered by the end of the century to be revived only a few decades later.169
Other aspects of the reforms of the 1660s included the division of the drawing
course into lower classes, devoted to copying, and higher classes, for Fig. 63.
Gian Lorenzo Bernini, Study of the Torso of the Father in the Laocoön group, c.
1650–55, red chalk heightened with white on grey paper, 369 × 250 mm, Museum
der Bildenden Künste, Leipzig, inv. 7903 Fig. 64. Gian Lorenzo Bernini, Two
Studies for the Statue of ‘Daniel’, c. 1655, red chalk on grey paper, 375 × 234
mm, Museum der Bildenden Künste, Leipzig, inv. 7890 Fig. 65. Gian Lorenzo
Bernini, Daniel in the Lion’s Den, c. 1655, terracotta, 41.6 cm (h), Vatican
Museums, Rome, inv. 2424 drawing from the live model. Competitions were further
structured to lead towards the highest reward, the famous Grand Prix or Prix de
Rome, which allowed the winners to spend between three and five years at the
Académie de France in Rome, to complete their education and to assimilate the
principles of the greatest ancient and modern art. The official doctrine of the
Paris Académie was distilled and diffused by André Félibien (1619–95), the most
promi- nent French art theorist of the period, in his preface to the first
series of Conférences held in 1667 and published in 1668. Félibien offered a
clear structure for the hierarchy of genres that would be associated with
academic painting for the next two centuries: at the bottom was still life,
followed on an ascending line by landscape, genre painting, portraiture and
finally by history painting, for which the study of the Antique, of modern
masters and of the live model were considered necessary.170 The first
Conférences reveal in their subjects and approach the central tenets of the
Parisian Académie: paintings by Raphael, Poussin, Le Brun and the Laocoön were
meticulously analysed in their parts according to strict rules: invention,
expression, composition, drawing, colour, proportions etc. Some Conférences
were devoted to specific parts of painting: one given by Le Brun in 1668, on
the ‘passions of the soul’, which was printed posthumously and translated into
several languages, constituted the basis for the study of facial expres- sions
until well into the 19th century.171 The Antique remained one of the favourite
subjects to be dissected by the academicians. After the 1667 Conférence on the
Laocoön (see Appendix, no. 12),172 praised as the ideal model for drawing and
for the ‘strong expressions of pain’,173 many more followed specifically
devoted to the Farnese Hercules, Belvedere Torso, Borghese Gladiator, and Venus
de’ Medici, the ultimate selected canon of sculptures.174 Conférences were also
given on the study of the Antique in general.175 Sébastien Bourdon’s (1616–71)
Conférence sur les proportions de la figure humaine expliquées sur l’Antique,
in 1670 advised students to fully absorb the Antique from a very early age,
measure precisely its proportions and control ‘compass in hand’ the Fig. 66.
Gian Lorenzo Bernini, Daniel in the Lion’s Den, 1655–57, marble, over
life-size, Chigi Chapel, Santa Maria del Popolo, Rome 45 live model
against classical sculptures, as they are never arbitrary – a method, according
to Bourdon, approved by Poussin.176 This extreme rationalistic approach, based
on the actual measurement of the Antique, which, as we will see, would generate
opposition, was put into practice by Gérard Audran (1640–1703), engraver and
‘conseiller’ of the Académie (Appendix, no. 13). His illustrated treatise of
1682 (figs 72–73) provided students with the carefully measured proportions of
the antique statues that they were supposed to follow and became a standard
reference work in many languages, continuously republished until 1855. While
the Académie de France in Rome must have started accumulating casts after the
Antique from early on – the inventory of 1684 lists a vast collection of statues,
reliefs, busts, etc.177 – it is not entirely clear how readily the students of
the Académie in Paris had access to casts or copies in the first decades of the
institution’s history. Bernini, in his 1665 visit, explicitly advised the
formation of a cast collection for the Parisian Académie, and some, among them
a Farnese Hercules, were ordered or donated in the following years.178 But
although students certainly copied casts already in Paris, full immersion in
the practice was reserved for the period they spent in Rome.179 ‘Make the
painters copy everything beautiful in Rome; and when they have finished, if
possible, make them do it again’ Colbert tellingly wrote in 1672 to Charles
Errard (c. 1606–9 – 1689), the first Director of the Académie de France in Rome.180
In Rome a similar practice was encouraged in the Accademia di San Luca, which,
like its Parisian counterpart, was significantly reformed in the 1660s, perhaps
a sign of the increasingly important reversal of influence, from France to
Italy. From the beginning of the presidency of Carlo Maratti in 1664, a staged
drawing curriculum, competitions and lectures were implemented and new casts
were ordered (see cat. 15).181 Some twenty years later the Accademia received
the donation of hundreds of casts of antique sculp- tures from the studio of
the sculptor and restorer Ercole Ferrata (1610–86).182 Sharing the same values
and similar curricula, in 1676 the Accademia di San Luca and the Parisian
Académie Royale were formally amalgamated and on occa- sion French painters
even became principals of San Luca – Charles Errard in 1672 and 1678, and
Charles Le Brun in 1676–77.183 But the Italians could never feel wholly
comforta- ble with the extreme rationalisation of art characteristic of so much
French theory.184 After the publication of the French Conférences, debates were
held in defence of the Vasarian tradi- tion and of the value of grace,
judgement and natural talent against the rules and the overly rational analysis
of art and the Antique by the French.185 The engraving by Nicolas Dorigny
(1658–1746) after Carlo Maratti is the most eloquent 46 visual expression of
this intellectual confrontation that con- tinued into the 1680s (cat. 15). Some
of the most doctrinal aspects of the Parisian academy also generated an
internal counteraction and the supporters of disegno, classicism and Poussin,
headed by Le Brun, were challenged by the promot- ers of Venetian colore and
Rubens, led by the artist and critic Roger de Piles (1635–1709) and by the
painter Charles de la Fosse (1636–1716). The battle between ‘Poussinisme’ and
‘Rubénisme’ – a new incarnation of the debate started more than a century
earlier by Giorgio Vasari and Lodovico Dolce – captured the imagination of the
French academic world between the end of the 17th and the first decade of the
18th centuries. The victory of the Rubénistes led the way to a freer,
anti-classicist and more painterly aesthetic and to the eventual affirmation of
the Rococo in French art.186 But the next century would also witness the triumph
of the classicist ideal, as its principles spread all over Europe. The Antique
Posed, Measured and Dissected Given the rationalistic approach of French
artists and theo- rists to the Antique – ‘compass in hand’ – it does not come
as a surprise that, during the 17th century, they actually started to measure
ancient statues in order to tabulate their pro- portions. And as well as
measuring statues they began to merge the study of anatomy with study of the
Antique to provide young students with ideal sets of muscles to copy. Such
efforts produced a series of extremely influential drawing-books filled with
fascinating and disturbing images, in which ancient bodies are covered by nets
of numbers or flayed and presented as living écorchés. In a way it was inevitable
that the study of human propor- tions applied by Alberti, Leonardo and Dürer to
living bodies Fig. 67. Peter Paul Rubens, Study of the Farnese Hercules, c.
1602, pen and brown ink, 196 × 153 mm, The Courtauld Gallery, Samuel Courtauld
Trust, London, inv. D.1978.PG.427.v, Fig. 68. Charles Errard, Antinous
Belvedere, plate on p. 457 in Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori
scultori e architetti moderni, Rome, 1672 would eventually be merged with the
study of the ideal bod- ies of ancient statues, to test Vitruvius’ assertion
that ancient artists worked according to a fixed canon (Appendix, no. 1). The
main problem was that the canonical proportions of 5th-century bc sculpture had
been disregarded from the 3rd century bc onwards. Furthermore, as we now know,
most of the ‘perfect’ Greek statues were actually modified Roman copies of lost
originals. The measuring efforts of 17th- century art theorists were therefore
for the most part in vain, as most of the revered marbles did not embody the
principles of commensurability and overall harmonic proportion that they
believed they did. Although we have seen that Raphael had already initiated the
practice of measuring statues (fig. 27), the first to refer explicitly to this
exercise is Armenini in his 1587 De veri precetti della pittura, in which a
chapter is devoted specifically to the ‘measure of man based on the ancient
statues’.187 Rubens also devoted much attention to trying to discover the
perfect num- bers and forms of ancient statues, dividing for instance the
Farnese Hercules, the strongest type of male body, according to series of
cubes, the most solid of the perfect forms (fig. 67).188 Not surprisingly,
Poussin’s approach to the Antique in Rome was similar, and we know from Bellori
that he and the sculptor François Duquesnoy (1597–1643) ‘embarked on the study
of the beauty and proportion of statues, measuring them together, as can be
seen in the case of the one of Anti- nous’ – two illustrations of which he
published in Poussin’s life in his Vite (fig. 68).189 But the first artist to
provide accurate drawings of the most famous statues was the future founding
director of the Académie de France in Rome, Charles Errard, who, later, also
provided the measured Antinous illustrations for Bellori’s Vite (fig. 68). In
collaboration with the theorist Roland Fréart de Chambray (1606–76), and most
likely inspired by Poussin, he executed in 1640 a series of intriguing measured
red chalk drawings today preserved at the École des Beaux-Arts in Paris (figs
69–71).190 Produced only two years after the publication
Fig. 69. Charles Errard, or collaborator, Measured Drawing of the Belvedere
Antinous, 1640, red chalk, pencil, pen and brown ink, 430 × 280 mm, École
nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 27 Fig. 70.
Charles Errard, Measured Drawing of the Laocoön, 1640, red chalk, pen and brown
ink, 430 × 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv.
PC6415, no. 11 Fig. 71. Charles Errard, Measured Drawing of the Venus de’Medici,
1640, red chalk, pencil, pen and brown ink, 430 × 280 mm, École nationale
supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 28 47 of Perrier’s
successful Segmenta, Errard’s drawings were clearly intended to be published
and to present young artists with a set of certain and ideal proportions on
which they could base their own figures. A similar search for discipline was
undertaken by Fréart de Chambray, and later by other theorists, among the
remains of ancient architecture, which involved an even more intense effort to
discover their ‘perfect’ proportions. Although a few of Errard’s drawings were
published in 1656 by Abraham Bosse – the first professor of perspective of the
Parisian Académie Royale – the first successful manuals appeared in the 1680s,
as a result of the theoretical debates on the proportions of ancient statues
held in the Académie during the previous decade.191 By far the most influential
was a manual we have already encountered, Gérard Audran’s Proportions du corps
humain mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité, published in 1683
(Appendix, no. 13). This provided a fully ‘classicised’ drawing-book, following
the ‘alphabet of drawing’ from the measured eye, nose and mouth of the Apollo
Belvedere (fig. 72), to whole canonical statues, such as the Laocoön (fig. 73).
Audran’s book, republished several times in various languages, became the model
for many similar publications that appeared during the 18th and early 19th
centuries and espoused a practice embraced by many artists. Examples from
different nations include a Dutch manual, where, fascinatingly, the Apollo
Belvedere is presented according to Vitruvian principles (fig. 74; see also
fig. 2 and Appendix, no. 1); drawings by the sculptor Joseph Nollekens
(1737–1823; fig. 75); and measured notes drawn by Antonio Canova over an
engraving of the Apollo Belvedere from a didactic series of prints after the
Antique (fig. 76).192 In addition to being carefully measured, antique bodies
were also dissected. If classical statues displayed perfect anat- omies, then,
it was thought, they would offer an ideal starting point for young students to
study bones and muscles. Combining the study of the Antique with that of
anatomy was intended to reinforce the familiarity of young artists with ancient
canonical models, now also analysed from the inside. Students until then had
trained mainly on the immensely influential De humani corporis fabrica,
published by Andrea Vesalius in 1543, and on the anatomical treatises that were
based on it, but from the late 17th century new ‘classicised’ manuals
appeared.193 The first, Anatomia per uso et intelligenza del disegno... , based
on drawings by Errard, was published in 1691 by Bernardino Genga (1655–1720),
professor of anatomy at the Académie de France in Rome.194 Probably conceived
much earlier, the set of engravings included fascinating and somewhat morbid
images of the skeletons of classical statues (figs 77–78; although these were
not eventually included in the book) and several different views of the muscles
of the strongest types of ancient prototypes, the Laocoön, the Borghese
Gladiator, the Farnese Hercules and the Borghese Faun (figs 79–80).195 Genga
and Errard’s Anatomia was a model for several similar books which appeared in
the 18th and early 19th centuries to satisfy the needs of the increasingly
classicistic curricula of European academies. Not surprisingly, only male
antiquities, and usually the most muscular ones, were illustrated, both for
reasons of decorum and also because the Fig. 74. Jacob de Wit, Measured ‘Apollo
Belvedere’, plate 8 in Teekenboek der proportien van ‘t menschelyk lighaam,
Amsterdam, 1747 Fig. 75. Joseph Nollekens, Measured Drawing of the ‘Capitoline
Antinous’, 1770, pen and brown ink over traces of black chalk, 431 × 292 mm,
Ashmolean Museum, Oxford, inv. DBB 1460 Fig. 76. Giovanni Volpato and Rafaello
Morghen, Measured ‘Apollo Belvedere’, engraving (with inscribed measures in
pencil, red chalk, pen and brown ink by Antonio Canova), post 1786, plate 35 in
Principi del disegno. Tratti dall più eccellenti statue antiche per il giovanni
che vogliono incamminarsi nello studio delle belle arti, Rome, 1786, Museo
Civico, Bassano del Grappa, inv. B 42.69 Fig.
72. Gérard Audran, Measured Details of the ‘Apollo Belvedere’, plate 27 in Les
Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de
l’antiquité, Paris, 1683 Fig. 73. Gérard Audran, Measured ‘Laocoön’, plate 1 in
Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de
l’antiquité, Paris, 1683 48 49 Fig. 77. (above left) After Charles Errard, The
Skeleton of the ‘Laocoön’, c. 1691, engraving, 328 × 198 mm, Bibliothèque des
Arts décoratifs, Paris, Album Maciet 2-4 (4) Fig. 78. (above centre) After
Charles Errard, The Skeleton of the ‘Borghese Gladiator’, c. 1691, engraving,
334 × 280 mm, Bibliothèque des Arts décoratifs, Paris, Album Maciet 2-4 (1)
Fig. 79. (above right) After Charles Errard, Anatomical Figure of the ‘Borghese
Gladiator’, c. 1691, plate 51 in Bernardino Genga and Charles Errard, Anatomia
per uso et intelligenza del disegno . . . , Rome, 1691 Fig. 80. (left) After
Charles Errard, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’, c. 1691, plate 43 in
Bernardino Genga and Charles Errard, Anatomia per uso et intelligenza del
disegno . . . , Rome, 1691 male body was believed to provide more
anatomical infor- mation compared to the female one. One of the most dis-
turbingly accurate, printed in two colours to distinguish the muscles from the
bones, is the Anatomie du Gladiateur combatant ... published in 1812 by the
military surgeon Jean- Galbert Salvage (1772–1813). Although this provided a
precise anatomical analysis of the head of the Apollo Belvedere (fig. 81), its
main focus was on the anatomy of the Borghese Gladiator analysed in all its parts
(fig. 82). The accuracy of the manual’s plates made it extremely influential
throughout Europe.196 Fig. 81. Nicolaï Ivanovitch Outkine after Jean-Galbert
Salvage, Muscles and Bones of the Head of the ‘Apollo Belvedere’, engraving in
two colours, plate 1 in Jean Galbert Salvage, Anatomie du Gladiateur combatant
..., Paris, 1812 Fig. 82. Jean Bosq after Jean-Galbert Salvage, Anatomical
Figure of the ‘Borghese Gladiator’, engraving in two colours, plate 6 in Jean
Galbert Salvage, Anatomie du Gladiateur combatant ..., Paris, 1812 50 The
stress on anatomical precision also produced a spectacu- lar three-dimensional
écorché of the Borghese Gladiator created by Salvage in 1804 and acquired as a
teaching tool in 1811 by the École des Beaux-Arts, where it remains (fig.
83).197 An earlier model, which had served as inspiration for Salvage, was the
gruesomely naturalistic écorché posed as the Dying Gladiator (see fig. 55) made
by William Hunter (1718– 83), the professor of anatomy at the Royal Academy of
Arts in London, in collaboration with the sculptor Agostino Carlini (1718–90;
fig. 84). Casted on the body of an executed smuggler, it was aptly Latinised as
Smugglerius.198 The Antique found its way into academic anatomical manuals for
students throughout the 19th century, and its pervasiveness was enormous,
extending even beyond Western culture. A plate with a flayed Laocoön from the
popu- lar Anatomie des formes extérieures du corps humain, published in 1845 by
Antoine-Louis-Julien Fau (fig. 85), served as inspira- tion for a popular
artists’ manual produced in Japan at the end of the century, resulting in an
extraordinary image which fuses the Western canon and the Japanese woodblock
print tradition of the Ukiyo-e (fig. 86).199 The osmosis between the Antique
and other disciplines of the academic curriculum gained ground also in the
study of the live model. We have seen that already in the 15th century it was
common practice to pose apprentices in imitation of ancient sculpture (see fig.
14), and great artists like Rubens often returned to this expedient (see cat.
9). But the practice became increasingly diffused within the codified curricula
of French and Italian academies during the 17th and 18th centuries (figs
87–89). Recommended by several Fig. 83. Jean-Galbert Salvage, Écorché of the
‘Borghese Gladiator’, 1804, plaster, 157 cm (h), École nationale supérieure des
Beaux-Arts, Paris, inv. MU11927 Fig. 84. (top left) William Pink after Agostino
Carlini, Smugglerius, c. 1775 (this copy c. 1834), painted plaster, 75.5 ×
148.6 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/1436 Fig.
85. (middle left) M. Léveillé, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’, lithography,
plate 24 in Antoine-Louis-Julien Fau, Anatomie des formes extérieures du corps
humain, Paris, 1845 Fig. 86. (middle right) Anatomical Figures of the ‘Laocoön’
and of a Small Child, woodblock print, plate in Kawanabe Kyo-sai, Kyosai Gadan,
1887 Fig. 87. (bottom left) Antoine Paillet, Drawing of a
Model Posing as the ‘Laocoön’, 1670, black and white chalk on brown paper, 580
× 521 mm, École nationale supérieure des beaux-arts, Paris, inv. EBA 3098 Fig.
88. (bottom centre) Giuseppe Bottani, Drawing of a Model in the Pose of the
‘Lycean Apollo’ Type, c. 1760–70, red and white chalks on red-orange prepared
paper, 423 × 270 mm, Philadelphia Museum of Art, inv. 1978-70-197 Fig. 89.
(bottom right) Jacques-Luois David, An Academic Model in the Pose of the ‘Dying
Gaul’, 1780, oil on canvas, 125 × 170 cm, Musée Thomas Henry, Cherbourg, inv.
MTH 835.102 51 academicians, posing the live model with the same tension
and flexing of muscles as the ancient statues encouraged students to correct
their drawings after fallible Nature against the perfection of the antique
examples and to derive universal principles from particular living models (see
cats 16 and 27b).200 The Eighteenth Century and the Diffusion of the Classical
Ideal The seeds planted by 17th-century classicist theory fully blossomed
during the 18th with the affirmation of Neo- classicism in the second half of
the century. Supported by and supporting the exponential diffusion of academies
– from some nineteen in 1720 to more than 100 in 1800 – the cult of the Antique
spread to the four corners of Europe, from St Petersburg to Lisbon and
beyond.201 The ‘true style’, as classicism was often called in the 18th
century, was inextri- cably linked with many of the values of Enlightenment
culture: in an age in search of order and universal principles, the appeal of
the rational and ‘eternal’ ideals embodied by classical statuary proved
irresistible. At the same time they provided a useful tool for existing
political powers and a for- midable one for new authorities in search of
legitimisation. The new academies based their curricula mainly on that of Paris
and Rome, and the didactic role assigned to the Antique was physically imported
through an army of plaster casts – the ‘Apostles of good taste’ – as Denis
Diderot called them, which became the most recognisable trademark of the newly
founded institutions (fig. 90).202 The progressive method of the ‘alphabet of
drawing’ definitively established itself as the basis of the training of
European artists well into the 20th century. Not necessarily followed in
practice, as students often wanted to rush to the copy of the live model, its
didactic value was, in Fig. 90. After Augustin Terwesten, The Life Academy at
the Royal Academy of Fine Arts in Berlin, engraved vignette on p. 217 from
Lorenz Beger, Thesaurus Brandenburgicus Selectus..., vol. 3, Berlin, 1701
theory, supported by the vast majority of academies.203 The plate illustrating
the entry on ‘Drawing’ in Diderot and D’Alembert’s epochal Encyclopédie
significantly focuses on the three steps, being followed in different media
(fig. 91).204 While the French model was spreading throughout Europe during the
first half of the century, ironically the Parisian Académie itself underwent a
period of crisis. After the death of Colbert in 1683 and of Le Brun in 1690,
the royal institution became decreasingly relevant in determining the direction
of the national school of painting. Financial constraints and the waning of
royal patronage coincided with the fact that the vital forces of French art
were becoming less interested in adhering to the precepts of the Académie. A
change in taste under the regency of Philippe d’Orléans (r. 1715–23) favoured
the so-called petite manière, a form of painting dealing with light-hearted
subjects – ‘bergeries’, ‘fêtes galantes’ – against the grande manière. Partly
as a conse- quence, the traditional curriculum of the Académie, centred on the
study of the human figure to prepare for history painting, was increasingly
neglected.205 But things changed radically in 1745 with the appointment of
Charles-François- Paul Le Normant de Tournehem – the uncle of Madame de Pompadour
– as Surintendant des Bâtiments du Roi, the official protector of the Académie
Royale on behalf of the king. He initiated a reform involving the
reinvigoration of royal patronage, the re-establishment of Conférences and,
more generally, a series of initiatives aimed at re-establishing the leading
role of the Académie and of history painting in the French art world.206 The
principles of Le Normant’s reform, supported by the influential antiquarian and
theorist Comte de Caylus (1692–1765) and visualised by Charles-Joseph Natoire’s
beautiful drawing (cat. 16), paved the way for the final affirmation of the
grande manière in the second half of the century, despite the continuing
clamour of dissenting voices. If Paris progressively became the centre of the
modern art world, Rome retained its status as the ‘academy’ of Europe Fig. 91.
Benoît-Louis Prévost after Charles-Nicolas Cochin the younger, A Drawing
School, plate 1, illustrating the entry ‘Dessein’ from Denis Diderot and Jean
Le Ronde D’Alambert, Encyclopédie ..., Recueil de planches, sur les sciences,
les art libéraux, et les arts méchaniques ..., Paris, 1763, vol. 20 where a
thriving international community of artists congre- gated to round off their
education in the physical and spirit- ual presence of the Antique and the great
Renaissance masters.207 The crucial role that Rome occupied in 18th- century
culture is evoked in the words of the most famous art critic of the age and the
champion of classicism Johann Joachim Winckelmann (1717–68): ‘Rome’ he wrote in
his letters ‘is the high school for all the world, and I also have 208 been
purified and tried in it’. Of course, artists and travel- lers had visited the
city to study its art for at least two centu- ries, but the 18th century
represented Rome’s golden age as the traveller’s ultimate destination. The
Grand Tour – as the trip to Italy and to Rome was known – became a social and
cultural phenomenon that included artists, antiquarians, collectors and, in
general, members of European elites.209 It generated an industry of
collectibles that travellers could bring back to their homeland, and an army of
original ancient statues and modern copies in all media was exported, alongside
portraits and paintings of various kinds that would powerfully recall the time
spent by their owners in the eternal city. Among the most fascinating and
systematic evocations of Rome are a series of celebrated canvases by Giovanni
Paolo Panini (1691–1765), where ‘the best of the best’ of Roman sites and
antiquities are gathered together in imaginary galleries. In the foreground of
fig. 92, (see also cat. 20, fig. 5) artists are busy drawing and measuring with
their compasses a selected choice of canonical classical statues – a reminder
of one of the most widespread artistic activities in the city.210 The demands
of the Grand Tour ‘industry’ also generated a specific category of ‘marketable
drawings’ after the Antique destined to fill the ‘paper museums’ of collectors
and anti- quarians all over Europe. They were mainly produced for collectors
and travellers from Britain, a nation that became increasingly important in the
study of the Antique through- out the century. Among the most famous drawings
were those produced in the workshop of the entrepreneurial painter Francesco Ferdinandi
Imperiali (1679–1740) in the 1720s by various painters and draughtsmen – among
them Giovanni Domenico Campiglia (1692–1775; see cats 19–20) and the young
Pompeo Batoni (1708–87; fig. 93).211 Created for the extensive collection of
the antiquarian Richard Topham 52 53 Fig. 92. Giovanni Paolo
Panini, Roma Antica, 1754–57, oil on canvas, 186 × 227 cm, Staatsgalerie
Stuttgart, inv. Nr 3315 (1671–1730), Batoni’s red chalk drawings are
among the most extraordinary produced in the 18th century. With their preci-
sion, attention to detail, fidelity to the originals and frontal viewpoint,
they encapsulate many of the typical qualities of this category of drawings.
Their manner continues and devel- ops some of the characteristics already seen
in the classicist drawings of Carlo Maratti, of whom Batoni was the natural
artistic heir (figs 60–61). Growing interest in the classical past was also
supported by massive expansion in antiquarian publications, such as the
monumental Antiquité expliquée (Paris, 1719–24) by the Abbé Bernard de
Montfaucon, an illustrated encyclopaedia of the Antique for the use of the
European educated public. Artists could also benefit from an increase in
printed collec- tions of classical statues.212 Paolo Alessandro Maffei and
Domenico de Rossi’s Raccolta di Statue Antiche e Moderne (1704) set new
standards of accuracy, and it was followed by the various sumptuous volumes
devoted to the antiquities of the Grand Ducal collection in Florence and of the
Capitoline Museum in Rome (see cats 19–20). With its wealth of patrons,
artistic competitions, acade- mies and artists’ studios, many displaying
collections of casts, Rome also offered an unrivalled opportunity to learn and
practice the arts of disegno.213 The classicist direction given to the
Accademia di San Luca by Giovanni Pietro Bellori and Carlo Maratti, was
sanctioned by the Pope Clement XI (r. 1700–21) who in 1702 established papal-
supported competitions, the celebrated Concorsi Clementini, which thrived
especially during the second half of the century (see cat. 20).214 Open to all
nationalities, the Concorsi Fig. 93. Pompeo Batoni, Drawing of the Ceres of
Villa Casali, c. 1730, red chalk, 469 × 350 mm, Eton College Library, Windsor,
inv. Bn. 3, no. 45 were divided into three classes of increasing difficulty,
the third and lowest class being reserved for copying, usually after the
Antique (see cat. 20, fig. 4). This reinforced, as nowhere else in Europe, the
study of classical statuary as the cornerstone of the artist’s education, giving
to Italian and foreign artists alike the chance to be rewarded publicly in
sumptuous ceremonies held in the Capitoline palaces, even in early stages of
their careers. The cosmopolitan atmos- phere of the Accademia di San Luca is
reflected in the fact that among its Principals were several foreigners, such
as the Frenchman Charles-François Poerson (elected 1714) or the Saxon Anton
Raphael Mengs (1771–2) and the Austrian Anton von Maron (1784–6). The Accademia
was also open to leading women painters such as Rosalba Carriera (1675–1757) or
Elisabeth-Louise Vigée Le Brun (1755–1842), although they were not allowed to
attend meetings. Crucial for artistic education was the opening of the
Capitoline as a public museum in 1734, thanks to the enlight- ened policy of
Pope Clement XII (r. 1730–40).215 One of the main reasons behind the papal
decision was specifically to support ‘the practice and advancement of young
students of the Liberal Arts’ through the copy of the Antique.216 An evocative
vignette inserted in the Musei Capitolini – the first sumptuously illustrated
catalogue of the collection – reflects the popularity of its cluttered rooms
among artists of all nations (see cat. 20). With the opening in the Capitoline
of the Accademia del Nudo in 1754 – specifically devoted to the study of the
live model and controlled by the Acca- demia di San Luca – the museum became a
sort of ideal academy where art students could copy concurrently from the
Antique, Old Masters paintings and the live model.217 Apart from the Capitoline
and other traditional places, such as the Belvedere Court or the aristocratic
palaces where original antiquities could be studied in situ (cat. 21), the
other favoured locus for the study of the Antique in the city was the Académie
de France in Rome, which owned the largest collection of plaster casts in
Europe. Although the Académie, like its Parisian counterpart, had gone through
a troubled period in the early decades of the century – the Prix de Rome was
cancelled for lack of funds in 1706–8, 1714 and 1718–20 – its role was revamped
and its practices drastically reformed under the directorship of Nicholas
Vleughels (1668–1737) between 1725 and 1737.218 The casts were redisplayed in
Palazzo Mancini, the Académie’s prestigious new location on the Corso, and
integrated for didactic purposes with the study of the live model (see cat.
16). The collection of the Académie served as an example for similar
institutions throughout Europe, as its arrangement of many copies side- by-side
was considered ideal for the assimilation of classical forms. With the
advancing neo-classical aesthetic, their flawless white appearance was even
preferred for didactic purposes above the originals: young students could
concen- trate on their purified forms, without the signs of time shown by real
antiquities. No other nation had as many members in Rome as France, both as
pensionnaires of the Académie and permanent residents (see cats 17–18, 21).219
The long directorship of Charles-Joseph Natoire, between 1751 and 1775, greatly
devel- oped and expanded the copying of antiquities that had been reinstated by
Vleughels. But Natoire also encouraged the creation of ‘classical’ landscapes
of the Roman campagna, following the principles established by the great
17th-century French landscapists: Poussin, Dughet and Claude.220 Natoire and
his most gifted and prolific pupil, Hubert Robert (1733– 1808), who spent more
than a decade in Rome between 1754 and 1765, produced a series of drawings in
which copy- ing in the city’s museums and palaces is splendidly evoked (figs
94–97 and cat. 17).221 Focused in particular on the Capitoline collection,
Robert’s images are among the most fascinating products of a genre – that of
the artist drawing in situ surrounded by classical statues – that, as we know,
goes back to the 16th century (see cat. 5 and fig. 44). Robert specialised in
evocative views of the remains of ancient Rome, with artists and wanderers lost
among their crumbling grandeur. In many ways he recaptured the spirit of wonder
and meditation on the ruins of the city expressed by 16th-century Northern
artists, such as Maarten van Heemskerck, Herman Posthumus, and Nicolas
Beatrizet (fig. 44).222 Boosted by the enthusiasm generated by the unearthing
of the remains of Herculaneum and Pompeii in 1738 and 1748, in the second half
of the century the ‘true style’ of Neo-classicism firmly established itself,
spreading from the international community in Rome to the whole of Europe.
Significant figures in the formulation of the new taste were the architect and
engraver Giovanni Battista Piranesi (1720– 78), whose lyrical etchings and
engravings of ancient and modern Rome established – and sometimes created – the
image of Rome among a European public, and the art historian Johann Joachim
Winckelmann, whose powerful descriptions of classical statues inspired
generations of artists and travellers, firmly establishing a new classicist
doctrine in European taste.223 More than ever before, artists now aimed not
only at assimilating the principles of classical sculpture, but at recreating
its formal aspect, as a universal standard of perfection to which any great
artist should aspire. 54 55 Fig. 94. Charles-Joseph Natoire,
Artists Drawing in the Inner Courtyard of the Capitoline Museum in Rome, 1759,
pen and brown ink, brown and grey wash, white highlights over black chalk lines
on tinted grey-blue paper, 300 × 450 mm, Louvre, Paris, inv. 3931381
Fig. 95. Hubert Robert, The Draughtsman at the Capitoline Museum,
c. 1763, red chalk, 335 × 450 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie de
Valence, inv. D. 80 Fig. 96. Hubert Robert, Antiquities at the Capitoline
Museum, c. 1763, red chalk, 345 × 450 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie
de Valence, inv. D. 81 Fig. 97. Hubert Robert, The Draughtsman of the Borghese
Vase, c. 1765, red chalk, 365 × 290 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie
de Valence, inv. D28 As Winckelmann famously stated in his Reflections on the
Painting and Sculpture of the Greeks (1755): ‘There is but one way for the
moderns to become great, and perhaps unequalled; I mean, by imitating the
ancients’ (see Appendix, no. 15). Although in 1775 new regulations for the
Académie de France in Rome stressed again the centrality in the curriculum of
study of the live model, most pupils now favoured the study of the Antique, an
evident sign of the evolution of taste towards a new radical classicism.224 Of
all the artists converging on Rome, Jacques-Louis David (1748–1825), was one of
the most prolific in making copies after the Antique.225 Leaving Paris in 1775
with the firm resolution of maintaining his independence and avoiding the
seductions of the Antique, his arrival in Rome, according to his own words,
opened his eyes.226 He started his artistic education again by spending the
next five years as a pension- naire obsessively copying from modern masters and
classical statues, reliefs and sarcophagi with an attention to detail that
recalls Poussin’s approach to antiquity (fig. 98).227 Generally speaking,
between the end of the 18th century and the beginning of the 19th, artists
copying from the Antique concentrated progressively on the outlines of statues
rather than on the modelling or the chiaroscuro, as the neo-classical aesthetic
valued the purity of the line over any other pictorial element, accentuating
the stress on disegno inaugurated by Vasari more than two centuries before.
Fig. 98. Jacques-Louis David, Drawing of a Relief with a Distraught Woman with
Her Head Thrown Back, 1775/80, pen and black ink with gray wash over black
chalk, 196 × 150 mm, National Gallery of Art, Washington D.C., Patrons’
Permanent Fund1998.105.1.bbb But coinciding with David’s residence in Rome,
other interpretations of the Antique started to emerge within a circle of
artists that included Tobias Sergel (1740–1814) and Thomas Banks (1735–1805)
and which revolved around the Swiss painter Henry Fuseli (1741–1825).228 The
approach of this ‘Poetical circle’ was utterly anti-academic and prefigures
some of the principles that would be embraced by Romantic artists a few years
later. For them ancient sculptures were embodiments of the emotions of the
artists who created them, rather than models of ideal beauty and proportional
perfection. Fuseli’s extraordinary drawing, The Artist Moved by the Grandeur of
Antique Fragments (cat. 22), which he produced immediately after leaving Rome
in 1778, perfectly expresses this more empathic and meditative relation with
classical antiquity and its lost grandeur. The attitude of Fuseli and his
friends represents a turning point in the relation of the artist with ancient
statuary, stressing the creative genius of the artist, his or her individuality
and, in general, the subjective values of art: all principles that would
contribute to the decline of the classical model in the following century. The
Antique in Britain: The eighteenth century Of the various nationalities of
artists resident in Rome during the 18th century, the British were among the
most numerous. Britain had arrived late on the international artistic stage.
Until the late 17th century, several factors, including the theological
disapproval of pagan and Catholic imagery of large sections of Protestant
society, had made Britain, outside the confined patronage of the Court, a
virtual backwater in the visual arts. There was no established national school
of painting or sculpture and no academy; painters were tied to the craft guild
of the Painter Stainers’ Company; it was illegal to import pictures for sale,
and there was no proper art market.229 However, by a century later, things had
changed radically: following the nation’s dramatic political liberalisa- tion
and economic expansion, Britain had one of the most dynamic national art
schools in Europe and a Royal Acad- emy, founded in 1768. Several hundred
thousand artworks – including a multitude of original antiquities and copies –
had been imported to adorn the urban townhouses and country mansions of the
upper classes; and London had become the centre of the international art
market, displacing Antwerp, Amsterdam and Paris.230 The new ruling class that
had emerged from the Glorious Revolution of 1688 embraced classicism, defined
as the ‘Rule of Taste’; at the same time artists started gathering to form
private academies where they could study together and where beginners could receive
at least some training, based, 56 57 of course, on the continental model,
with the copy after the Antique as one of its cornerstones.231 Many British
artists also travelled to Rome, where they participated in the Concorsi of the
Accademia di San Luca or attended the Accademia del Nudo in the Capitoline and
several built national and interna- tional reputations thanks to their success
in the city.232 In Rome, furthermore, artists encountered British travellers
and potential future patrons. Plaster casts must already have been relatively
widely available during the first half of the 18th century.233 Drawings after
classical sculptures survive by British artists who did not travel to Italy:
among them some fascinating, rough, early studies by Joseph Highmore
(1692–1780), possibly from casts in the Great Queen Street Academy – which
operated under Sir Godfrey Kneller and Sir James Thornhill between 1711 and
1720 – where he enrolled in 1713 (fig. 99).234 But the insular situation of the
British art world, where many painters struggled in vain to create a modern and
national school and genre of painting, plus an innate distrust of cultural
models imported from the Continent, especially France, meant that copying the
Antique encountered strong criticism. The most vociferous opponent was William
Hogarth (1697–1764), who, as director of the second St Martin’s Lane Academy
from 1735, became increasingly hostile to a curriculum based on the French
Académie model and to history painting in general, although, paradoxically, he
demonstrated great admiration for a few classical statues in his writings (see
Appendix, no. 14).235 His war against fashionable imported taste and didactic
principles is well Fig. 99. Joseph Highmore, Study of a Cast of the Borghese
Gladiator, Seen from Behind, c. 1713, graphite, ink and watercolour on paper,
354 × 230 mm, Tate, London, inv. T04232 expressed by the celebrated first plate
in his Analysis of Beauty (1753), where the Antique, anatomy and the study of
proportions evocated in the centre of the composition are surrounded by
vignettes illustrating Hogarth’s own aesthetic ideas (fig. 100).236 But despite
such discontented voices, fascination with the Antique would only intensify,
and educational curricula based on French or Italian models would gradually
impose themselves. In 1758, a ‘continental’ enterprise was launched by the 3rd
Duke of Richmond with the opening of a gallery attached to his house in
Whitehall ‘containing a large collec- tion of original plaister casts from the
best antique statues and busts which are now at Rome and Florence’.237 With a
curriculum based on the ‘alphabet of drawing’ and under the directorship of the
Italian painter Giovanni Battista Cipriani (1727–85) and the sculptor Joseph
Wilton (1722–1803) – the first Englishman to receive, in 1750, the prestigious
first prize of the Accademia di San Luca – the gallery was set up specifically
with the didactic purpose of training youths on the basis of the Antique (fig.
101).238 To compensate for the absence of a national Academy, a semi-formal
system developed probably inspired by the joint model of the Accademia di San
Luca and the Capitoline, where many British artists had worked.239 Students
would have started by copying drawings, prints and parts of the body in the
private drawing school set up in 1753 by the entrepreneur and drawing master
William Shipley (1714– 1803); they would then progress to the Duke of
Richmond’s Academy when they were ready to study three-dimensional forms;
finally they would proceed to the study of the live model in the second St
Martin Lane’s Academy.240 Competi- tions were set up and the Society for the
Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce, which was founded Fig. 100.
William Hogarth, The Analysis of Beauty (Plate 1), 1753, etching and engraving,
387 × 483 mm, private collection, London Fig. 101. John Hamilton Mortimer,
Self-portrait with Joseph Wilton, and an Unknown Student Drawing at the Duke of
Richmond’s Academy, c. 1760–65, oil on canvas, 76 × 63.5 cm, Royal Academy of Arts,
London, inv. 03/970 in 1754, awarded prizes for the best drawings after casts
and copies, several of which survive in the institution’s archive (figs
102–03).241 The continental system also reached cities outside London. For
example, academies and artists’ societies were set up in Glasgow – in an image
of the Foulis Academy of Art and Design founded there in 1752 we see the
familiar presence of the Borghese Gladiator (fig. 104) – and in Liverpool (see
cat. 24).242 But it was with the foundation of the Royal Academy in London in
1768 that Britain finally had a national institution with a formal curriculum
based on continental models (see cats 25–27). Directed by Sir Joshua Reynolds
(1723–92) – its first president between 1768 and 1792 – the Academy had a
teaching structure that centred on the Antique or ‘Plaister’ Academy and the
Life Academy, to which students would progress after having practised for years
on plaster casts.243 To advance from one stage to another, they had to supply a
presentation drawing showing their skills in depicting antique forms: one by
the young Turner (1775–1851), who enrolled in the Academy in 1789 as a boy of
fourteen, proba- bly belongs to this category (cat. 27a). Several evocative
images testify to the study of the growing collection of plaster casts, both in
daylight and at night (fig. 105 and cats 25–27),244 while the Life Academy is
evoked in the famous painting by Johan Zoffany (1733–1810) which shows the
first academicians in discussion around two male models – one glancing at us in
the pose of the Spinario – surrounded by familiar plaster casts of classical
and Renaissance sculpture (fig. 106). In the background, on the right, an
écorché appears among the other casts, to remind us that anatomy lessons were
delivered in the Academy by the physician William Hunter (1718–83). By bringing
together plaster casts, anatomy and the study of the live model, Zoffany’s
image declared unmistakably the Royal Academy’s affinity with continental
academic models of teaching. The two female members, Mary Moser (1744–1819) and
Angelica Kauffmann (1741–1807) are evoked through their portraits, as their
presence in the Life Academy was considered improper.245 A system of
discourses, competitions and exhibitions, complemented and completed the
teaching curriculum. The official theoretical line of the Academy, fixed in
Reynolds’ celebrated Discourses – which were delivered between 1769 and 1790 –
was a distillation of the idealistic theory of the previous centuries and
included frequent references to the Antique (see Appendix, no. 17). Reynolds’
highest praise was reserved for the Belvedere Torso, which embodied the Fig.
102. William Peters, Study of a Cast of the ‘Borghese Gladiator’, c. 1760,
pencil, black and white chalk on coloured paper, 410 × 450 mm, Royal Society of
Arts, London, inv. PR/AR/103/14/621 Fig. 103. William Peters, Study of a Cast
of the ‘Callipygian Venus’, c. 1760, pencil, black and white chalk on coloured
paper, 525 × 355 mm, Royal Society of Arts, London, inv. PR/AR/103/14/669
58 59 Fig. 104. David Allan, The Foulis Academy of
Art and Design in Glasgow, c. 1760, engraving, 134 × 168 mm, Mitchell Library,
Glasgow, inv. GC ILL 156 Fig. 105. Anonymous British School, The Antique School
of the Royal Academy at New Somerset House, c. 1780–83, oil on canvas, 110.8 x
164.1 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/846 Fig. 106. Johan Zofany,
The Portraits of the Academicians of the Royal Academy, 1771–72, oil on canvas,
100.1 × 147.5 cm, The Royal Collection, Windsor Castle ‘superlative genius’ of
ancient art, and this judgement is reflected in the official iconography of the
Royal Academy, as the Torso appeared, significantly below the word ‘Study’, on
the silver medals awarded in the Academy’s competitions (see cat. 27a).246 The
muscular fragment reappears as well in one of the female allegories of
Invention, Composition, Design and Colour, commissioned by the Royal Academy
from Angelica Kauffman in 1778 to decorate the ceiling of the Academy’s new
Council Chamber and to provide a visual manifesto for Reynolds’ theory of art
(fig. 107).247 Showing her wit and erudition, Kauffman’s Design is a
significant image, as she took the traditional personification of Disegno,
depicted as male (the word is masculine in Italian), and transformed it into a
woman copying the ideal male body – thereby asserting the right of women to
study the Antique and pursue a traditional artistic career. Although
increasingly questioned by anatomists and by a growing number of artists,
plaster casts were used in the Academy’s curriculum well into the 19th century
and beyond. In London the didactic role of original sculptures and casts was
also exploited outside official institutions. This was the case of the
antiquities assembled by the influential antiquar- ian and collector Charles
Townley (1737–1805) at his house on 7 Park Street, which became a sort of
alternative academy where artists, amateurs – and also women – could study the
statues he had imported from Italy (cat. 28).248 Another private space set up
with the specific intention of training young architects in the study of the
Antique was the house- academy established by Sir John Soane (1754–1837) at No.
13 Lincoln’s Inn Fields (cat. 29). In the labyrinthine spaces of Soane’s
interiors, which were constantly enlarged to house Fig. 107. Angelica Kaufman,
Design, 1778–80, oil on canvas, 130 × 150.3 cm, Royal Academy of Arts, London,
inv. 03/1129 his growing collections, he obsessively juxtaposed paintings,
architectural fragments, copies of celebrated classical statues, drawings and
objects of all sorts.249 Architecture, sculpture and painting were seamlessly
integrated to create a whole and to express the qualities of ‘variety and
intricacy’, advocated by Reynolds in his 13th Discourse (1786). This variety
was intended to stimulate the imagination of Soane’s students – in 1806 he was
appointed the Royal Academy’s Professor of Architecture – and to invite
would-be architects not to limit themselves but to train in the three sister
arts, as recommended by Vitruvius.250 Academic training continued as students
gathered to copy the Antique in the newly built galleries of the British
Museum,251 but, as the 19th century progressed, its authority faded
dramatically as young artists looked increasingly to the modern world for their
inspiration. Dissenting Voices and Seeds of Decline The linear evolution of the
classical ideal from the early Renaissance to the beginning of the 19th century
was in reality punctuated by several opposing voices. But none of them, with
rare exceptions, ever questioned the greatness and authority of classical art.
What was at times disputed was the didactic value of copying from the Antique
or the slavish dependence on its forms demonstrated by some of the most
dogmatic devotees of classicism. We have seen that even in the 16th century,
art critics like Vasari, Dolce and Armenini had warned against excessive
dependence on classical forms and had advocated an independent and creative
approach based on the artist’s own judgement. Rubens and Bernini too had warned
against the ‘smell of stone’ in painting or psycho- logical dependence on the
model. This balanced approach to the Antique would become a leitmotif among
later genera- tions of art theorists. Furthermore, artistic traditions outside
Central Italy had always demonstrated a good dose of scepticism towards the
dependence of the Florentine and Roman schools on the forms and ideals embodied
by classical statuary. One of the most intelligent expressions of this attitude
is the famous woodcut by Nicolò Boldrini, almost certainly after an original
drawing by Titian, in which Laocoön and his sons are transformed into three
monkeys and set in a bucolic landscape (fig. 108).252 In this complex image
Titian, one of the greatest creative geniuses of the Renaissance, who him- self
had a profound and fruitful relationship with the Antique, was presumably
issuing an ironic statement against the faithful artistic imitation of the
classical models – a behav- iour similar to that of mimicking monkeys. Fig.
108. Nicolò Boldrini after Titian, Caricature of the Laocoön, c. 1540–50,
woodcut, 267 × 403 mm, private collection In the 17th century the pernicious
effect on painting from too-slavish imitation of sculptural forms would be
summa- rised by the Bolognese art theorist Carlo Cesare Malvasia (1616–93) with
the specific neologism ‘statuino’ or ‘statue- like’ (see cats 9 and 15).253 But
during the 17th and 18th centuries even the most outspoken critics of the
perfection of the Antique, such as the champion of colore versus disegno Roger
de Piles, or the defender of a modern and independent artistic language like
Hogarth, always demonstrated great admiration for classical statues, especially
in terms of their proportions (see Appendix, no. 14).254 According to Bellori,
the only great master who showed no interest at all in them was the
ultra-naturalist Caravaggio. In a famous passage of his Vite, the champion of
classicism reported that Caravaggio expressed ‘disdain for the superb marbles
of the ancients and the paintings of Raphael’ because he had decided to take
‘nature alone for the object of his brush’. ‘Thus’, Bellori continues, ‘when he
was shown the most famous statues of Phidias and Glycon so that he might base
his studies on them, his only response was to gesture toward a crowd of people,
indicating that nature had provided him with masters enough’.255 But this
anecdote must not be taken too literally, as it certainly contains Bellori’s
defence of idealism against the dangers of the unselective imitation of Nature,
as repre- sented by Caravaggio and his followers. In fact, although it is not
immediately obvious, Caravaggio had a profound under- standing of antique
forms, and was deeply conscious of High Renaissance prototypes by Michelangelo
(his namesake) and by Raphael. Even if Bellori’s account of Caravaggio had been
accurate, such a radical attitude would have to be considered an exception in
the long period covered here. In the 18th century criticism of the academic
curriculum, in particular that of the Parisian Académie, and the art that it
produced, increased. But, once again, two of its sternest 60
61 critics, Diderot and David, had an immense admiration for classical
statuary and Diderot’s attack was directed at the codified and repetitive nature
of academic practices, in particular the drawing lessons, and at the slavish
dependence on the Antique at the expense of Nature of most of his
contemporaries, not at classical models as such (see Appen- dix, no. 16).256
Significantly David, who played a crucial role in the closure of the Parisian
Académie in 1793 during the French Revolution, would become the hero of the
refounded École des Beaux-Arts in the 19th century. More significant criticism
came from the students forced to copy casts for sessions on end. The great
French painter Jean-Siméon Chardin recalled the frustration that many artists
must have felt by being forced to follow the oppressive ‘alphabet of drawing’,
as powerfully evoked in his recollections (see also cat. 26): We begin to draw
eyes, mouths, noses and ears after patterns, then feet and hands. After having
crouched over our portfolios for a long time, we’re placed in front of the
Hercules or the Torso, and you’ve never seen such tears as those shed over the
Satyr, the Gladiator, the Medici Venus, and the Antinous [...]. Then, after
having spent entire days and even nights by lamplight, in front of an immobile,
inanimate nature, we’re presented with living nature, and suddenly the work of
all preceding years seems reduced to nothing.257 But even the painter of
still-lifes and domestic genre scenes Chardin recognised the greatness of the
original statues. The appeal of the forms and principles of the Antique was
still supreme within an aesthetic system – the humanistic theory of art – that
placed the representation of mankind and its most noble behaviours at the
centre of the artistic mission, and this was true even for painters, like
Chardin, who did not abide by the academic hierarchy of genres. The real
beginning of the decline of the authority of the Antique started when these
premises began to be challenged by artists who felt at odds with a conception
of art that they perceived as increasingly inadequate. Romanticism landed a
first, but eventually fatal, blow by challenging the rationalistic, idealistic
and supposedly ‘universal’ principles of classicism, in the name of subjective
emotion and individ- ual genius. The drastic changes imposed by
industrialisation and urbanisation accelerated the process. Opie’s outline of
what constitutes art, with which this essay began – a pedantic and codified
version of Reynolds’ aesthetic – came to be perceived as increasingly
irrelevant by students exposed to urban life in London, Paris or any other
modern city, as the words of the painter James Northcote (1746–1831) in 1826
clearly express (see Appendix, no. 19). But if various ‘progres- sive’
avant-gardes rejected more decisively the principles of classicism and academic
art, one need only remember that artistic education remained almost everywhere
based on the traditional curriculum and that casts were used in academies and
art schools until a few decades ago. Some of the greatest modern painters, such
as Cézanne, Degas, Van Gogh and Picasso, spent portions of their youth copying
plaster casts. And, as the last part of this exhibition shows (cats 32, 34–35),
with mass-production casts became ever more available to wider audiences,
including women and the bourgeoisie, entering the realm of the private home,
often in a reduced format. But an assault on the canonical status of many of
the most famous sculptures also came from another ‘academic’ direction, as a
new archaeological precision recognised them as more or less accurate Roman
copies of Greek originals. If art education remained solidly structured around
the traditional curriculum, becoming more and more conserva- tive, the creative
forces of European art placed themselves firmly outside the academic system,
and principles of ideal imitation would become progressively irrelevant. An
image that perfectly visualises the dawn of the new aesthetic era, and an ideal
conclusion to our journey, is a painting produced by Thomas Couture as a satire
against the Realist fashion of the mid-19th century (fig. 109) – a preparatory
study for which is in the Katrin Bellinger collection.258 Couture, who ran a
successful studio in Paris, described his own painting in his Methodes et
Entretiens d’Atelier published in 1867: I am depicting the interior of a studio
of our time; it has nothing in common with the studios of earlier periods, in
which you could see fragments of the finest antiquities. At one time, you could
see the head of the Laocoön, the feet of the Gladiator, the Venus de Milo, and
among the prints covering the walls there were Raphael’s Stanze and Poussin’s
Sacraments and landscapes. But thanks to artistic progress, I have very little
to show [...] because the gods have changed. The Laocoön has been replaced by a
cabbage, the feet of the Gladiator by a candle holder covered with tallow or by
a shoe [...]. As for the painter [...], he is a studious artist, fervent, a
visionary of the new religion. He copies what? It’s quite simple – a pig’s head
– and as a base what does he choose? That’s less simple, the head of Olympian
Jupiter.259 Couture’s image, wherein a once revered antique frag- ment of the
Olympian god, Jupiter, has been relegated to a mere stool and the object of
study is now the severed head of a pig, encapsulates the decline of the Antique
in the 19th century and the shift of interest from the ‘ideal’ to the ‘real’.
Little did Couture kn0w that in a few decades not only the traditional role of
imitation would be subverted, but that the principle of imitation itself –
formulated by Alberti four hundred years before – would be questioned in favour
of expressive or abstract values, leaving even less space for the previously
revered Laocoön, Borghese Gladiator and the Venus de Milo. The Antique
continued its life in the 20th century in many, often unexpected ways: quoted,
subverted and deconstructed by many avant-garde artists; in the official art of
totalitarian regimes; in the ironic and playful, but often shallow game of
post-modernism; and even, one may say, in much of the aesthetic of fashion
advertisement. The relation of the classical model and ideal with modernity is
a story that still needs to be written fully and would be a fascinating subject
for another exhibition. Fig. 109. Thomas Couture, La Peinture Réaliste, 1865,
oil on panel, 56 × 45 cm, National Gallery of Ireland, Dublin, inv. 4220.NOTES 1
2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 Hoare 1809, p. 11. See also Opie 1809, pp. 3–52. The
italics are the author’s. On the Renaissance or humanistic theory of art good
overviews are: Lee 1967; Schlosser Magnino 1967; Blunt 1978; Williams 1997;
Barasch 2000, vol. 1. Anthologies of primary sources in English translation
are: Gilbert 1980; Gilmore Holt 1981–82; Harrison, Wood and Gaiger 2000.
Alberti 1972. See also M. Kemp’s introduction, in Alberti 1991, pp. 1–29.
Although initially circulating only in manuscript form, Alberti’s treatise had
an immense impact on artists and successive art theoreticians. The first Latin
(Basel, 1540) and Italian (Venice, 1547) editions, and subsequent ones,
influenced the earliest academies such as Vasari’s Accademia del Disegno,
founded in 1563. The first French translation (Paris 1651) took shape in the
environment of the French Académie Royale, founded just three years before
(1648). The first English translation (London, 1726) was motivated by the
aspirations of English artists towards the foundation of a national academy
based on continental standards. Innumerable transla- tions and editions
contributed to the diffusion of Albertian principles well into the 19th
century. See Alberti 1991, pp. 23–24. Alberti 1972, p. 53 (book 1, chap. 18).
Alberti quotes Protagoras, probably through Diogenes Laertius, De Vitis ...
philosophorum, 9.51: Alberti 1991, p. 53, note 11. On the sources and structure
of De Pictura see especially Spencer 1957 and Wright 1984. Alberti 1972, p. 97
(book 3, chap. 55). Ibid., p. 101 (book 3, chap. 58). Ibid., p. 99 (book 3,
chap. 55). Ibid., p. 99 (book 3, chap. 56). Albertis’s sources are Cicero, De
inventione, 2.1.1–3 and Pliny, Naturalis Historia, 35.36 (with differences in
detail). Alberti 1972, p. 75 (book 2, chap. 36). See also Alberti 1988, p. 156
(book 6, chap. 2) and pp. 301–09 (book 9, chaps 5–6), esp. p. 303. On the
theory of proportions see Panofsky 1955; R. Klein’s introduction to ‘De
Symmetria’ in Gaurico 1969, pp. 76–91; Gerlach 1990. On Leonardo’s Vitruvian
Man see Kemp 2006, pp. 71–136; Salvi 2012, with previous bibliography. Other
ancient surviving sources on the Canonical ideal are Cicero, Brutus, esp.
69–70, 296; Pliny, Naturalis Historia, 34.55; Galen’s treatises, esp. De 13 14
15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Placitis Hippocratis et Platonis, 5, and De
Temperamentis, 1.9; Quintilian, Institutio Oratoria, esp. 5.12.21 and
12.10.3-9; Vitruvius’ De Architectura, 3.1. For Alberti’s concept of historia,
see Alberti 1972, pp. 77–83 (chaps 39–42). The clearest definition of history
painting according to the academies of the 17th and 18th centuries is provided
by Félibien 1668, Preface (not paginated). The Codex Coburgensis is preserved
in the Kunstsammlungen der Veste Coburg: see Wrede and Harprath 1986; Davis
1989. Cassiano dal Pozzo’s Paper Museum is divided between several collections
but mainly concen- trated in the Royal Collection, Windsor Castle and the
British Museum, London: see Herklotz 1999; Claridge and Dodero forthcoming.
Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013. London and Rome 1996–97, pp.
257–69; Bignamini and Hornsby 2010. General introductions to drawing techniques
in the Renaissance and beyond are Joannides 1983, pp. 11–31; Bambach 1999, esp.
pp. 33–80; Ames Lewis 2000a; Petherbridge 2010; London and Florence 2010–11.
See Ames-Lewis 2000b, pp. 36–37. Recent general introductions to drawing after
the Antique and the training of young artists in the 15th century include Rome
1988a; Ames-Lewis 2000b, pp. 35–60, 109–40; Jestaz 2000–01; Chapman 2010–11,
pp. 46–60. More focused on the 16th century is Barkan 1999. Haskell and Penny
1981, pp. 252–55, no. 55 (Marcus Aurelius), 308–10, no. 78 (Spinario), 167–69,
no. 16 (Camillus), 136–41, no. 3 (Horse Tamers); Buddensieg 1983; Nesselrath
1988; Rome 1988a, pp. 232–38 (Marcus Aurelius); Paris 2000–01, pp. 200–25 and
pp. 417–20, nos 221–24 (Spinario); Bober and Rubinstein 2010, pp. 223–25, no.
176 (Marcus Aurelius), 254–56, no. 203 (Spinario), 192–93, no. 192 (Camillus),
172–75, no. 125 (Horse Tamers). Dacos 1969; Morel 1997; Miller 1999. Alberti
calls the relief of a sarcophagus in Rome representing the death of Meleager a
historia, specifically praising it as a source for the compositio: see Alberti
1972, pp. 74–75 (chap. 37). Cavallaro 1988b; Cavallaro 1988c; Scalabroni 1988.
Cavallaro 1988b; Scalabroni 1988; Bober and Rubinstein 2010, passim. On
Brunelleschi and Donatello’s Roman trip see the famous account by Antonio di
Giannozzo Manetti: Manetti 1970, pp. 53–57. See also Vasari’s anecdote of
Donatello producing a pen drawing after a sarcophagus that he saw in Cortona on
his way back from Rome to Florence: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, pp.
151–52. See also Micheli 1983, p. 93. On the drawings after the Antique
produced in the workshops of Gentile of Pisanello see: Degenhart and Schmitt
1960; Cavallaro 1988a; Degenhart and Schmitt 1996, pp. 81–117; Paris, 1996,
Appendix IX, ‘Le “Carnet de voyage dessins sur parchemin”’, pp. 465–67;
Cavallaro 2005. 26 Rome 1988a, pp. 95–96, no. 24 (A. Cavallaro); Paris 1996,
pp. 180–81, no. 100. 27 See Rome 1988a, pp. 158–59, no. 51, see also pp.
155–56, no. 49; Bober and Rubinstein 2010, p. 87, no. 38. 28 Wegner 1966, pp.
88–89, no. 228; Bober and Rubinstein 2010, pp. 86–87, no. 38. 29 Weiss 1969. 30
London and New York 1992, pp. 445–48, no. 145 (D. Ekserdjian); Paris 2008–09b,
pp. 378–79, no. 159 (C. Elam); Bober and Rubinstein 2010, p. 207, no. 158iii
(158c). 31 Bober and Rubinstein 2010, pp. 207–08, no. 158iii. 32 Alberti 1972,
pp. 80–81 (chap. 41). 33 See Lightbown 1986, pp. 140–53, 424–33; Elam 2008–09.
34 For the drawing after the Marcus Aurelius see Rome 1988a, pp. 232–33, no. 80
(A. Nesselrath); Rome 2005, p. 263, fig. II.10.7, pp. 267–68, no. II.10.7 (A.
Nesselrath). For the drawing after the Horse Tamers see Rome 1988a, pp. 211–12,
no. 61 (A. Nesselrath); Paris 1996, pp. 153–54, no. 84; Rome 2005, p. 334, fig.
III.8.1, pp. 338–39, no. III.8.1 (A. Cavallaro). 35 On the fame of their nudity
see the contemporary comments by Angelo Decembrio in his De Politia litteraria,
written in the central decades of the 15th century: Baxandall 1963, p. 312. For
other mentions in contemporary written sources see Nesselrath 1988, pp. 196–97.
36 Nesselrath 1988, p. 197, fig. 61; Cole Ahl 1996, p. 6, pl. 1; Ames-Lewis
2000b, p. 120, fig. 57; Cavallaro 2005, p. 330; London and Florence 2010–11,
pp. 118–19, no. 14 (M.M. Rook). On Gozzoli and the Antique see Pasti 1988. 37
For a notable exception see Gozzoli’s faithful drawing of a fragmentary
classical Venus: Pasti 1988, p. 137, fig. 38; Ames-Lewis 2000b, p. 121, fig.
59. 38 For a general overview see Weiss 1969, pp. 180–202; Ames-Lewis 2000b,
pp. 52–60, 79–85. 39 Gaurico 1969, pp. 62–63; Gaurico 1999, pp. 142–43,
providing a less accurate translation. 40 Cennini 1933, vol. 2, pp. 123–31. 41
Fiocco 1958–59; Lightbown 1986, p. 18; Favaretto 1999. On Ghiberti’s col-
lection of casts see Ames-Lewis 2000b, p. 81, with previous bibliography. 42
Ames-Lewis 1995. 43 Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, pp. 52–55. 44 Ragghianti and
Dalli Regoli 1975; Ames-Lewis 2000a, pp. 91–123; Forlani- Tempesti 1994. 45
Ames-Lewis 1995, pp. 394, 397, fig. 10. For the practice see Schwartz 2000–01.
46 For an overview see Nesselrath 1984–86. Lists of sketchbooks are provided in
Nesselrath 1993, pp. 225–48 and Bober and Rubinstein 2010, pp. 473–96. 47 The
first printed edition of Biondo’s Roma Instaurata was published in Rome in
1471: Weiss 1969, esp. pp. 59–104. 48 On Michelangelo’s and Raphael’s attitude
towards the Antique the bibliogra- phy is vast. For Michelangelo good surveys
are Agosti and Farinella 1987 (pp. 12–13, note 3, with the most exhaustive
bibliography to date); Florence 1987; Haarlem and London 2005–06, pp. 58–68;
Parisi Presicce 2014. On Raphael: Becatti 1968; Jones and Penny 1983, pp.
175–210; Burns 1984 (p. 399, footnote 2, with exhaustive bibliography to date);
Nesselrath 1984; Dacos 1986. 49 Clark 1969b; Marani 2003–04; Marani 2007. 50
Leonardo 1956, vol. 1, p. 51, no. 77. 51 Ibid., vol. 1, p. 45, no. 59, p. 64,
no. 112. 52 Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 21. On other sources on
the para- gone between Michelangelo and the ancients see Florence 1987, pp.
107–08. 53 Elam 1992; Florence 1992; Joannides 1993; Baldini 1999–2000;
Paolucci 2014. 54 Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, pp. 9–12; Condivi
1998, pp. 10–11; Condivi 1999, p. 10. 55 Knab, Mitsch and Oberhuber 1984, pp.
51–54; Ferrino Padgen 2000. 56 See Franzoni 1984–86; Cavallaro 2007; Christians
2010. A list of collec- tions with essential bibliography is providedalso in
Bober and Rubinstein 2010, pp. 497–507. 57 For the Nile and the Tiber see Bober
and Rubinstein 2010, pp. 112–13, no. 65. 58 The Apollo Belvedere was discovered
in 1489, the Laocoön in 1506, the Cleopatra in the first decade of the 16th
century, the Hercules Commodus in 1507, the 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70
71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 Tiber in 1512 and Nile probably in 1513:
see Haskell and Penny 1981, respec- tively pp. 148–51, no. 8, pp. 243–47, no.
52, pp. 184–87, no. 24, pp. 188–89, no. 25, pp. 310–11, no. 79, pp. 272–73, no.
65; Bober and Rubinstein 2010, respectively pp. 76–77, no. 28, pp. 164–68, no.
122, pp. 125–26, no. 79, pp. 180–81, no. 131, pp. 113–14, no. 66, pp. 114–15,
no. 67. The discovery date of the Venus Felix is not known, but it was placed
in the Belvedere Courtyard in 1509: Haskell and Penny 1981, pp. 323–25, no. 87;
Bober and Rubinstein 2010, pp. 66–67, no. 16. For the Belvedere Courtyard see
Brummer 1970; Winner, Andreae and Pietrangeli 1998. The first mention of the
Belvedere Antinous-Hermes is in 1527 and it was placed in the Belvedere
Courtyard by 1545; the Belvedere Torso is recorded from 1432 and by the middle
of the 16th century it was displayed in the Courtyard: see Haskell and Penny
1981, respectively pp. 141–43, no. 4 and pp. 311–14, no. 80; Bober and
Rubinstein 2010, respectively p. 62, no. 10 and pp. 181–84, no. 132. The first
mention of Michelangelo’s praise of the Torso is in Aldrovandi 1556, p. 121.
For a selection of other primary sources see Barocchi 1962, vol. 4, pp.
2100–03; Agosti and Farinella 1987, pp. 43–44. For the Torso as ‘School of
Michelangelo’ see Haskell and Penny 1981, p. 313. Schwinn 1973, pp. 24–37.
Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 108. Bober and Rubinstein 2010, p.
126, no. 79. Joannides 1983, p. 192, no. 240r; Knab, Mitsch and Oberhuber 1984,
p. 615, no. 375. In this drawing Raphael also references Michelangelo’s Sistine
Adam. Golzio 1971, pp. 38–40, 72–73; Nesselrath 1984. The original Italian is
in Camesasca 1994, pp. 257–322 (esp. pp. 290–98); Shearman 2003, pp. 500–45.
For an English translation, see Holt 1981–86, vol. 1, pp. 289–96. See also
Frommel, Ray and Tafuri 1984, p. 437, no. 3.5.1. (H. Burns and H. Nesselrath).
Nesselrath 1982, p. 357, fig. 37; Frommel, Ray and Tafuri 1984, p. 422, no.
3.2.10 (A. Nesselrath); Jaffé 1994, p. 187, no. 315 617*. For the few other
surviving Raphael drawings after Roman antiquities see Frommel, Ray and Tafuri
1984, p. 438, no. 3.5.3 (A. Nesselrath). Bober and Rubinstein 2010, pp. 172–75,
no. 125. This consideration is already in Jones and Penny 1983, p. 205. The
practice of measuring classical statues would become widespread from the 17th
century onwards: see pp. 46–49 in the present volume. A good selection is in
Mantua and Vienna 1999. Check also Bober and Rubinstein 2010, pp. 473–96.
Oberhuber 1978; Mantua and Vienna 1999; Viljoen 2001; Pon 2004. Boissard
1597–1602, vol. 1, pp. 12–13, translated by Bober and Rubinstein 2010, p. 165.
According to a letter by Francesco da Sangallo of 1567, Michel- angelo and
Giuliano da Sangallo were sent by the Pope to witness and comment upon the
unearthing of the Laocoön on the Esquiline in 1506: Fea 1790–1836, vol. 1, pp.
cccxxix–cccxxxi, letter XVI. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 109. An
opinion then appropri- ated by Vasari himself in the introduction to his
chapter on Sculpture: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 84–86. This
was repeated later by many authors see for instance Lomazzo 1584, p. 332,
reprinted in Lomazzo 1973–74, vol. 2, p. 288. Wilde 1953, pp. 79–80, nos 43–44,
pls lxx–lxxi; Agosti and Farinella 1987, pp. 33–36, figs 11–14; Tolnay 1975–80,
vol. 2, pp. 51–53, nos 230–34; Florence 2002, pp. 150–51, nos 2–5 (P.
Joannides); Haarlem and London 2005–06, pp. 64–66. Wilde 1953, pp. 9–10, no. 4,
pl. vi; Tolnay 1975–80, vol. 1, pp. 58–59, no. 48; Haarlem and London 2005–06,
pp. 88–89, 285, no. 13. On the restoration of classical statues, see Rossi
Pinelli 1984–86; Howard 1990; Pasquier 2000–01a. Specifically on Montorsoli’s
restorations: Haskell and Penny 1981, pp. 148, 246; Vetter 1995; Nesselrath
1998b; Winner 1998; Bober and Rubinstein 2010, pp. 77, 165. See Haskell and
Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. On
the Wrestlers see Haskell and Penny 1981, pp. 337–39, no. 94; Cecchi and
Gasparri 2009, pp. 62–63, no. 50 (71). For the Niobe Group see Haskell and
Penny 1981, pp. 274–79, no. 66; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 316–26, nos 596
(1251) (1–14). On Guido Reni using the Niobe Group as a source for the
expression of many of his figures see Bellori 1976, p. 529. See Haskell and
Penny 1981, pp. 16–22. Haskell and Penny 1981, pp. 16–22. On Lafréry see
Chicago 2007–08. On Cavalieri see Pizzimano 2001. See Lee 1967, esp. pp. 3–16; Blunt
1978, esp. pp. 137–59; Barasch 2000, vol. 1, pp. 203–309. 84 85 86 87 88 89 90
91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112
113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 Armenini 1587, pp.
136–37 (book 2, chap. 11). Lee 1967, p. 7, note 23. See also Weinberg 1961, pp.
361–423. The first commentary appeared only in 1548 and the first Italian
translation in 1549. Horace, Ars Poetica, 361. See Lee 1967, esp. pp. 3–9.
Aristotle, Poetics, see esp. 9; 15.11; 25.1–2; 25.26–28. Lomazzo 1590, see esp.
chap. XXVI; Zuccaro 1607. On this see Lee 1967, pp. 13–14; Panofsky 1968, esp.
pp. 85–99; Blunt 1978, pp. 137–59. Also in Bettarini and Barocchi 1966–87, vol.
1, p. 110. The definition of Disegno was added only to the second edition of
the Lives in 1568. On Vasari and the Antique see Barocchi 1958; Cristofani
1985. Puttfarken 1991; Rosand 1997, pp. 10–24. Walters 2014, p. 57. Whitaker
1997. See for instance Vasari’s comments in the lives of Andrea Mantegna and
Battista Franco: Bettarini and Barocchi 1966–87, respectively vol. 3, pp.
549–50 and vol 5, pp. 459–61. Armenini 1587, see esp. pp. 59–60 (book I, chap.
8), pp. 86–89 (book II, chap. 3). See also Lomazzo’s treatment of the Antique:
Lomazzo 1584, p. 481 (book VI, chap. 64). General surveys about the development
of European academies include Pevsner 1940; Goldstein 1996. See also Levy 1984;
Olmstead Tonelli 1984; Boschloo 1989. On images of academies see
Kutschera-Woborsky 1919; Pevsner 1940, passim; Roman 1984. On the Florentine
Accademia del Disegno see Pevsner 1940, pp. 42–55; Goldstein 1975; Dempsey
1980; Wa ́zbin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman 2000. On the Carracci Academy
see Dempsey 1980; Goldstein 1988, esp. pp. 49– 88; Dempsey 1989; Feigenbaum
1993; Robertson 2009–10. On the Accademia di San Luca the bibliography is vast.
On its early history see Pevsner 1940, pp. 55–66; Pietrangeli 1974; Lukehart
2009. On the teaching in the first decades of the Accademia see Roccasecca
2009. On Alberti’s print see Roccasecca 2009, p. 133. Olmstead Tonelli 1984.
Alberti 1604, esp. pp. 2–15. Jack Ward 1972, pp. 17–18; Olmstead Tonelli 1984,
pp. 96–97. On the donation of the Salvioni collection of casts in 1598 see
Missirini 1823, p. 73. On the inventories see Lukehart 2009, Appendix 7, esp.
pp. 368–69, 371–73, 379–80. On the drawing see Bora 1976, p. 125, no. 126.
Malvasia 1678, vol. 1, p. 378; Goldstein 1988, esp. pp. 49–50. On this see
Meder 1978, vol. 1, pp. 217–95; Amornpichetkul 1984; Bleeke- Byrne 1984; Roman
1984, p. 91; Bolten 1985, p. 243. Alberti 1972, p. 97 (book 3, chap. 55).
Alberti 1972, p. 75 (book 2, chap. 36). Cellini 1731, pp. 156–59. Leonardo
1956, vol. 1, p. 45, chaps 59–61, and esp. p. 64, chap. 112; Bettarini and
Barocchi 1966–87, vol. 1, p. 112; Armenini 1587, pp. 51–59, esp. p. 57 (book 1,
chap. 7); See Bleeke-Byrne 1984. Armenini 1587, see esp. p. 86 (book 2, chap.
3). The necessity of exercising one’s memory recurs in Alberti (Alberti 1972,
p. 99, book 3, chap. 55); Leonardo (Leonardo 1956, vol. 1, p. 47, chaps 65–66);
Vasari (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 114–15); Cellini (Cellini
1731, p. 157); and Armenini (Armenini 1587, p. 53, book 1, chap. 7). Gombrich
1960; Rosand 1970; Maugeri 1982; Amornpichetkul 1984; Bolten 1985. On Dürer in
Italy see Rome 2007. Dacos 1995; Meijer 1995; Dacos 1997; Dacos 2001. Van
Mander 1994-99, vol. 1, pp. 342–45 (fols 271r–v). See Meijer 1995, p. 50, note
18. Dacos 1995, pp. 19–20; Dacos 2001, pp. 23–34. Hülsen and Egger 1913–16;
Veldman 1977; Dacos 2001, pp. 35–44; Bartsch 2012; Christian 2012; Veldman
2012. On Beatrizet see Bury 1996; on Lafréry see Chicago 2007–08; on Dupérac
see Lurin 2009. For the print attributed to Beatrizet see Paris 2000–01, pp.
378–79, no. 184 (C. Scailliérez). On the Marforio see Haskell and Penny 1981,
pp. 258–59, no. 57; Bober and Rubinstein 2010, pp. 110–11, no. 64. ‘I disagi e
li affanni tutti del mondo non stima un quattrino’. On the so-called Haarlem
Academy see Van Thiel 1999, pp. 59–90. Veldman 2012, p. 21, with previous
bibliography. Reznicek 1961, vol. 1, pp. 89–94, pp. 319–46, nos. 200–38,
245–48. 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144
145 146 147 148 149 150 On Rubens in Rome and his approach to the Antique see
esp. Stechow 1968; Jaffé 1977, pp. 79–84; Muller 1982; Van der Meulen 1994–95,
vol. 1, pp. 41–81; Muller 2004, pp. 18–28; London 2005–06, pp. 88–111. Jaffé
1977, p. 79; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 42, note 6. Copies of Lafréry’s
Speculum Romanae Magnificentiae and De Cavalieri’s Antiquarum statuarum urbis
Romae, are listed in Rubens’ son Albert’s library: Van der Meulen 1994–95, vol.
1, p. 42, note 6. It is most likely that they were originally in Peter Paul’s
possession, although we do not know whether he acquired them before, during or
after his Italian years. See Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 69–74.
Armenini 1587, see esp. pp. 59–60 (book I, chap. 8), pp. 86–89 (book II, chap.
3). On the ultimate Aristotelian character of this principle see Muller 1982.
See also Cody 2013. On Rubens’ handwritten Notebook, lost in a fire in Paris in
1720, but known through several transcriptions and partial publications see Van
der Meulen 1994–95, vol. 1, esp. p. 71, note 11 and pp. 77–78, note 44, with
previous bibliography; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. On the drawing
after the Torso see Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 70–71, vol. 2, pp.
56–59, nos 37–39; New York 2005a, pp. 140–44, no. 34. On the Laocoön drawings
see: Van der Meulen 1994–95, vol. 2, p. 98, no. 81, vol. 3, fig. 153 (father),
vol. 2, pp. 103–04, no. 93, vol. 3, fig. 164 (son); London 2005– 06, pp. 90–91,
nos 24 (son), 25 (father); Bora 2013. The question of whether he copied the
original Laocoön in Rome, or a cast derived from it, possibly Federico
Borromeo’s in Milan, remains open: see Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 48;
London 2005–06, pp. 90–91, no. 25. Muller 2004, p. 22; Edinburgh 2002, pp.
43–46, nos 8–14; Wood 2011, vol. 1, pp. 129–241; Cody 2013. Van der Meulen
1994–95, vol. 1, pp. 80–81. Muller 2004, p. 22. On Rubens’ collection see
Antwerp 2004, with previous bibliography. Jaffé 1977, p. 80; Healy 2004. On the
Bamboccianti see Briganti, Trezzani and Laureati 1983; Cologne and Utrecht
1991–92; Rome and Paris 2014–15. On the fierce criticism by artists see Malvasia
1678, vol. 2, pp. 267 (Sacchi), 268–69 (Albani); Cesareo 1892, vol. 1, pp.
223–55 (Rosa); Castiglione 2014–15. On Bellori’s condemna- tion see Bellori
1976, p. 16. On Goubau see Briganti, Trezzani and Laureati 1983, pp. 295–99. On
the painting see Paris 2000–01, pp. 382–83, no. 188 (J. Foucart); Cappel- letti
2014–15, pp. 48–50. Vlieghe 1979. On other Dutch artists copying the Antique in
Rome in the 17th century see Van Gelder and Jost 1985, pp. 35–36. Already at
the beginning of the 17th century Karel Van Mander explicitly laments the poor
state of the visual arts in the Netherlands, blaming the ‘shameful laws and
narrow rules’ by which in nearly all cities save Rome ‘the noble art of
painting has been turned into a guild’: Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 264–65
(fol. 251v). See also Bleeke-Byrne 1984. On the Antwerp Academy see Pevsner
1940, pp. 126–29; Van Looij 1989. See Emmens 1968, pp. 154–59; Bleeke-Byrne
1984, pp. 30, 38, notes 76–77. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 448–49 (fol.
297v); Bolten 1985, p. 248. De Klerk 1989. Bolten 1985, pp. 248–50. For
Bisschop’s school see Van Gelder 1972, p. 11. Bolten 1985. Bolten 1985, pp.
119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56; Walters 2009, vol. 1, p.
79. Bolten 1985, pp. 159–60. Also many Dutch theoretical treatises on the art
of painting and drawing insisted on the human form and on the stages of the
learning process. For instance William Goeree’s influential Inleydinge tot de
al-gemeene Teycken-Konst, Middelburgh, 1668, revised and reprinted many times,
lays out the five stages of artistic training: copy of prints, drawings,
paintings, plaster casts and the life model (pp. 31–37). See Bleeke- Byrne
1984, p. 34 and note 45; De Klerk 1989, p. 284. On Perrier’s diffusion in the
Netherlands see Bolten 1985, pp. 257–58; Van Gelder and Jost 1985, pp. 51–52;
Van der Meulen 1994–95, p. 76. For Van Haarlem’s 1639 inventory see Van Thiel
1965, pp. 123, 128; Van Thiel 1999, p. 84, and Appendix II, pp. 254–255, 257,
270–71, 273. For van Balen’s 1635 and 1656 inventories, see Duverger 1984–2009,
vol. 4, pp. 200–11. For Rembrandt’s 1656 bankruptcy inventory see Strauss and
Van der Meulen 1979, pp. 349–88. For Rembrandt’s use of statues, casts and
models, see Gyllenhaal 2008. See also cat. 23 in this catalogue, note 18. For
the use of plaster casts in 17th- and 18th-century artists’ studios in Antwerp
and Brussels, see Lock 2010. Also collections of original antiquities were
formed in the 17th century, especially in the Southern Netherlands and in
Antwerp: Van Gelder and Jost 1985, pp. 35–50, esp. p. 35, note 65. 64 65
151 For a copy in reverse, dated 1639, see Bolten 1985, pp. 133–34, and p. 138,
fig.a. 152 On Jan ter Boch’s painting (fig. 49) see Paris 2000–01, pp. 401–02,
no. 207 (J. Foucart). On Van Oost the Elder’s painting (fig. 50), see Antwerp
2008, p. 77, no. 20 (S. Janssens). On Vaillant’s painting (fig. 51), see
MacLaren 1991, vol. 1, p. 440, note 8; Amsterdam 1997, p. 349, fig. 2. On the
painting attrib- uted to Sweert (fig. 52) see Waddingham 1976–77; Amsterdam
1997, pp. 348–52, under no. 74; Paris 2000–01, pp. 400–01, no. 206 (J.
Foucart); Houston and Ithaca 2005–06, pp. 134–36, no. 40 (J. Clifton), where
the painting is attributed to Wallerant Vaillant. On Balthasar Van den
Bossche’s paintings of artists’ workshops see Mai 1987–88; Paris 2000–01, pp.
402–03, no. 208 (J.-R. Gaborit and J.-P. Cuzin); Lock 2010. 153 For the
Borghese Gladiator see Haskell and Penny 1981, pp. 221–24, no. 43; Paris
2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L. Laugier); Pasquier 2000–01c. For the Dying
Gladiator see Haskell and Penny 1981, pp. 224–27, no. 44; Mattei 1987; La Rocca
and Parisi Presicce 2010, pp. 428–35. For the Venus de’ Medici, see Haskell and
Penny 1981, pp. 325–28, no. 88; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 74–75, no. 64 (137).
154 See Haskell and Penny 1981 esp. pp. 23–30. On the Medici collection of
classical sculptures see Cecchi and Gaspari 2009. On the Farnese’s see Gasparri
2007. On the Borghese’s: Rome 2011–12; on the Ludovisi’s: Rome 1992–93; on the
Giustiniani’s Rome 2001–02. 155 Haskell and Penny 1981, pp. 16–22; Coquery
2000; Picozzi 2000. 156 Picozzi 2000; Laveissière 2011; Di Cosmo 2013;
Fatticcioni 2013. 157 Haskell and Penny 1981, p. 21; Goldstein 1996, p. 144;
Coquery 2000, pp. 43–44. On Perrier’s success in the Netherlands see Bolten
1985, pp. 257–58; Van Gelder and Jost 1985, pp. 51–52; Van der Meulen 1994–95,
p. 76. 158 Boyer 2000; Montanari 2000; Rome 2000a; Bonfait 2002; Bayard 2010;
Bayard and Fumagalli 2011. 159 Bertolotti 1886; Bousquet 1980; Coquery 2000.
160 Herklotz 1999; see also the ongoing catalogue raisonné of Cassiano dal
Pozzo’s Paper Museum: http://warburg.sas.ac.uk/research/projects/ cassiano 161
For the text of Bellori’s Idea see Bellori 1976, pp. 13–25, and for an English
translation see Bellori 2005, pp. 55–65. On it see Mahon 1947, esp. pp. 109–
54, pp. 242–43; Panofsky 1968, pp. 103–11; Bellori 1976, esp. XXIX–XL; Barasch
2000, vol. 1, pp. 315–22; Cropper 2000. 162 Bellori 1976, p. 299. 163 See
Barasch 2000, vol. 1, pp. 310-72. 164 Bellori mentions many of these artists
devoting time and efforts in the copying of celebrated classical statuary, such
as the Farnese Hercules, the Belvedere Torso, the Niobe Group, the Borghese
Gladiator: Bellori 1976, pp. 75, 90–91 (Annibale Carracci), pp. 529–30 (Guido
Reni), p. 625 (Carlo Maratti). For Rubens, Bernini and Cortona see Bellori
1976, p. XXXI. For Annibale Carracci and the Antique see also Weston-Lewis
1992. For his drawing (fig. 58) see Washington D.C. 1999–2000, p. 177, no. 50
(G. Feigenbaum). For Poussin and the Antique the literature is vast: see Bull
1997; Bayard and Fumagalli 2011; Henry 2011, with previous literature. For his
drawing (fig. 59) see Rosenberg and Prat 1994, vol. 1, pp. 312–13, no. 161. For
Maratti’s drawings (figs 60–61) see Blunt and Cooke 1960, p. 63, nos 378, 380.
On Pietro da Cortona and the Antique see Fusconi 1997–98. Some of his drawings
after the Antique were commissioned for the Paper Museum of Cassiano dal Pozzo.
On the drawing (fig. 62) see Rome 1997–98, p. 71, no. 2.4 (G. Fusconi). 165
Wittkower 1963; Princeton, Cleveland and elsewhere 1981–82, pp. 159–73; New
York 2012–13, pp. 234–38, no. 25. 166 Pevsner 1940, pp. 82–114; Goldstein 1996,
pp. 40–45. On the Académie Royale de Peinture et de Sculpture in Paris see Vitet
1861; Montaiglon 1875–92; Hargove 1990; Tours and Toulouse 2000; Michel 2012.
On the Académie de France in Rome see Montaiglon and Guiffrey 1887–1912;
Lapauze 1924; Henry 2010–11; Coquery 2013, pp. 173–219, with previous
bibliography. 167 Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 346. 168 Women were admitted
to the Académie, then named École des Beaux- Arts, only in 1896 and allowed to
enrol for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, p. 61. 169 Montaiglon
1875–92, vol. 1, pp. 315–17. 170 Félibien 1668, Preface (not paginated). 171 Le
Brun 1698. On it see Montagu 1994. 172 Félibien 1668, pp. 28–40; Lichtenstein
and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp. 127–35. 173 Félibien 1668, Preface (not
paginated). 174 Lichtenstein and Michel 2006–12, see esp. vols 1-2, passim. 175
Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp. 316–22, 374–77; vol. 1.2, pp.
667–71; vol. 2.2, p. 583. 176 Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp.
374–77. See also Goldstein 1996, p. 150. 177 Montaiglon and Guiffrey 1887–1912,
vol. 1, pp. 129–32. 178 Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 293 (for a Venus donated
by Chantelou in 1665), pp. 300, 330–31 (for the cast of the Farnese Hercules
ordered in 1666 and delivered in 1668), p. 366 (for several casts after ancient
reliefs and statues copied for the Académie from the Royal collection on the
order of Colbert). 179 See Foster 1998; Schnapper 2000 and Macsotay 2010. 180
Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, p. 36. 181 Goldstein 1978, esp. pp.
2–5. 182 Golzio 1935. 183 Boyer 1950, p. 117; Goldstein 1970; Bousquet 1980,
pp. 110–11; Goldstein 1996, pp. 45–46. 184 Mahon 1947, pp. 188–89. 185
Missirini 1823, pp. 145–46 (chap. XCI); Mahon 1947, p. 189; Goldstein 1996, p.
46. 186 Teyssèdre 1965; Puttfarken 1985; Montagu 1996; Arras and Épinal 2004.
187 Armenini 1587, pp. 93–99, esp. p. 96 (book 2, chap. 5). 188 See esp. Van
der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 69–75; Muller 2004, esp. pp. 18–21; Jaffé and
Bradley 2005–06; Jaffé 2010. For the drawing (fig. 67) see Van der Meulen
1994–95, vol. 1, pp. 71–72, notes 11, 14, 16 with previous literature. Rubens
applied this method to several other statues. 189 Bellori 1976, pp. 451,
473–77, ; Bellori 2005, p. 311, and for the plates pp. 334–37. See Rome 2000b,
vol. 2, pp. 403–04, no. 9 (V. Krahn); Henry 2011; Coquery 2013, p. 361, nos G.
179–80. 190 The surviving 39 drawings are today preserved in an ‘Album de
dessins et mesures de statues romaines...’ at the École nationale supérieure
des Beaux-Arts in Paris: Coquery 2000, pp. 48–50; Paris 2000–01, pp. 389–90,
no. 195; Coquery 2013, pp. 37–40; Stanic 2013. For the three drawings repro-
duced here see Coquery 2013, p. 281, no. D114 (Laocoön), p. 283, no. D130
(Belvedere Antinous), p. 283, no. D131 (Venus de’Medici). 191 Bosse 1656. See
the Conférences by Sébastien Bourdon, Charles Le Brun, Henri Testelin, Michel
Anguier, etc.: Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, esp. pp. 161–66
(Charles Le Brun), 316–33 (Charles Le Brun), 332–35 (Michel Anguier), 374–77
(Sébastien Bourdon); vol. 1.2, pp. 636–38 (Michel Anguier), 667–71 (Henry
Testelin). 192 On De Wit’s Teekenboek (fig. 74) see Bolten 1985, pp. 82–86. On
Nollekens’ drawing (fig. 75) see Blayney Brown 1982, p. 484, no. 1460;
Nottingham and London 1991, pp. 58–59, no. 31 (Venus de’ Medici); Lyon 1998–99,
pp. 123–24, no. 101. On Volpato’s and Morghen’s print annotated by Canova (fig.
76) see Rome 2008, p. 144, no. 25, with previous bibliography. 193 On the study
of anatomy in the Renaissance and the 17th century see Schultz 1985; Ottawa,
Vancouver and elsewhere 1996–97; London, Warwick and elsewhere 1997–98; and the
excellent essays in Paris 2008– 09a, esp. Carlino 2008–09. On the combination
of the study of anatomy and of the Antique between the 17th and 19th centuries
see esp. Schwartz 2008–09. 194 Paris 2000–01, pp. 391–92, no. 197; Coquery
2013, pp. 195–200; Paris 2008–09a, pp. 222–23, no. 79. 195 For the skeletons
(figs 77–78) and anatomical figures (figs 79–80) of the Laocoön and Borghese
Gladiator see Coquery 2013, respectively p. 384, no. G.416, p. 383, no. G.413,
p. 381, no. G.400, p. 382, no. G.408. A series of Conférences at the Académie
Royale in Paris had been devoted to the Antique and anatomy: see esp.
Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.2, pp. 581–93 (Pierre Monnier, ‘Sur les
muscles du Laocoon’, 2 May 1676). 196 See Paris 2000–01, pp. 393–94, no. 199,
with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp. 226–27, no. 85. 197 See Paris
2000–01, pp. 392–93, no. 198, with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp.
226–27, no. 82. Sauvage also made écorchés of other classical prototypes. 198
The original cast appears to have been destroyed. The écorché preserved at the
Royal Academy of Arts is a 19th-century copy by William Pink: see Postle 2004,
esp. pp. 58–59, with previous bibliography. 199 See Jordan and Weston 2002, p. 97,
fig. 4.7. 200 For the practice see Paris 2000–01, pp. 415–29; Schwartz 2008–09;
London 2013–14, pp. 62–69. On Paillett’s drawing (fig. 87) see London 2013–14,
p. 21, pl. 1, p. 96, no. 1. For Bottani’s (fig. 88) see Philadelphia 1980– 81,
pp. 59–60, no. 47. For David’s painting (fig. 89) see Rome 1981–82, pp. 101–02,
no. 25. 201 202 203 204 205 206 207 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217 218
219 220 221 222 223 Pevsner 1940, pp. 140–41. On the diffusion of academies in
the 18th century see Boschloo 1989, passim. A good recent overview is Brook
2010–11. Diderot’s remark appeared in an article in the Correspondance
littéraire, philos- ophique et critique, no. 13, 1763: ‘Sur Bouchardon et la
sculpture’, p. 45. See an English translation in Diderot 2011, p. 19. On the
diffusion of casts in the 18th century see Haskell and Penny 1981, esp. pp.
79–91, chap. 11; Rossi Pinelli 1984; Rossi Pinelli 1988; Pucci 2000a;
Frederiksen and Marchand 2010. London 2013–14, pp. 36, 46–47. See the
explanatory text for the plate: Diderot and D’Alembert 1762–72, vol. 20, entry
‘Dessein’, pp. 1–20, esp. pp. 2–5. See also Michel 1987, pp. 284, 288. Locquin
1912, pp. 5–13; Toledo, Chicago and elsewhere 1975–76; Plax 2000. Locquin 1912,
pp. 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28, with previ- ous bibliography.
Excellent introductions to the art world of Rome in the 18th century are the
essay contained in Philadelphia and Houston 2000 (see esp. Barroero and Susinno
2000) and in Rome 2010–11b. Goethe 2013, vol. 2, p. 373. Overviews on the Grand
Tour are Black 1992; London and Rome 1996–97; Chaney 1998; Black 2003. On
Panini’s painting see London and Rome 1996–97, pp. 277–78, no. 233;
Philadelphia and Houston 2000, p. 425, no. 275, with previous literature.
Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013, with previous bibliography.
Haskell and Penny 1981, esp. pp. 23–30, 43–52; Paris 2010–11, with previous
bibliography. On drawing in Rome in the 18th century see Bowron 1993–94; Percy
2000, with previous bibliography. On collections of casts in private academies
see Bordini 1998, p. 387. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91;
Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. On the
early years of the Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini
and Vernesi 2005; Arata 2008. See Arata 1994, p. 75. On the Accademia del Nudo
see Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998; Bordini
1998. Haskell and Penny 1981, pp. 62–63; Raspi Serra 1998–99; Macsotay 2010;
Henry 2010–11. The main source for Vleughels’ reform, rich in information on
the study of the Antique in the Académie under his directorship, is Montaiglon
and Guiffrey 1887–1912, vols 7–9, passim (for description of the collection of
casts see vol. 7, pp. 333–37). Boyer 1955; Loire 2005–06, pp. 75–81.
Caviglia-Brunel 2012, pp. 115–63. For Natoire’s drawing (fig. 94) see Paris
2000–01, p. 372, no. 177; Caviglia- Brunel 2012, pp. 415–16, no. D.558. On
Robert’s drawings (figs 95–96) see Paris 2000–01, pp. 373–74, nos 178–79; Rome
2008, pp. 132–33, nos 12–13; Ottawa and Caen 2011–12, pp. 22–23, nos 1a–1b. For
fig. 97 see Paris 2000– 01, p. 384, no. 190. On Robert in Rome see Rome
1990–91. On Piranesi and his influence on artists see Fleming 1962; Wilton Ely
1978; Rome, Dijon and elsewhere 1976; Brunel 1978. On Winckelmann see Potts
1994, with previous bibliography. 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234
235 236 237 238 239 240 241 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254
255 256 257 258 259 Henry 2010–11. For David in Rome see Rome 1981–82. For his
drawings after the Antique see Sérullaz 1981–82; Rosenberg and Prat 2002,
passim, esp. vol. 1, pp. 391– 746, vol. 2, pp. 754–866. Sérullaz 1981–82, p.
42. For David’s drawing (fig. 98) see Rosenberg and Prat 2002, p. 499, no. 642.
See Pressly 1979; Valverde 2008; Busch 2013. On all these aspects see Pears
1988, esp. pp. 1–26. As general introductions see Denvir 1983; Solkin 1992;
Brewer 1997; Bindman 2008. On the ‘Rule of Taste’ see Lipking 1970; Barrell
1986, esp. 1–68; Pears 1988, pp. 27–50; Ayres 1997. For a recent overview see
Aymonino 2014. On academies in Britain before the foundation of the Royal
Academy see Bignamini 1988; Bignamini 1990. See MacDonald 1989. An excellent
introduction to the use of the Antique in artists’ education in 18th-century
Britain is Postle 1997. For casts in Britain in the first half of the 18th
century see: Bignamini 1988, p. 59, note 63, p. 65, p. 77, note 9, p. 81, note
65, p. 88, p. 103. Einberg and Egerton 1988, pp. 64–71. Kitson 1966–68, esp.
pp. 85–86; Postle 1997, esp. pp. 83–84. See Paulson 1971, vol. 2, pp. 168–71;
Nottingham and London 1991, p. 62, no. 37. Coutu 2000, p. 47; Kenworthy-Browne
2009. On Mortimer’s painting see Nottingham and London 1991, p. 45, no. 11,
with previous bibliography. MacDonald 1989. Allan 1968, pp. 76–88; Bignamini
1988, p. 108; Postle 1997, pp. 85–87; Coutu 2000, p. 52; Kenworthy-Browne 2009,
pp. 43–44. Ibid. On the Glasgow Foulis Academy see Pevsner 1940, p. 156;
MacDonald 1989, pp. 84–85; Fairfull-Smith 2001. On the Royal Academy see
Hutchison 1986. On its regulations see also Abstract 1797. On the Antique
School at the Royal Academy (fig. 105) see Nottingham and London 1991, p. 43,
no. 7; Rome 2010–11b, p. 432, no.V.6. On Zoffany’s painting see New Haven and
London 2011–12, pp. 218–21, no. 44, with previous bibliography. For the medal
see Hutchison 1986, p. 34. On Kauffman’s painting see Rome 2010–11b, pp. 325,
432–33, no. V.7. For Townley see particularly Coltman 2009. On Soane’s
collection of plaster casts see Dorey 2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13;
Watkin 1996. Jenkins 1992, pp. 30–40. Venice 1976, pp. 114–15, no. 49. Malvasia
1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On the 17th-century neologism ‘statuino’ see
Pericolo’s forthcoming article. See De Piles 1677, pp. 253–54; De Piles 1708,
esp. pp. 128–38. Bellori 1976, p. 214; Bellori 2005, p. 180. See Pucci 2000a;
Bukdahal 2007 Diderot 1995, p. 4. See also Haskell and Penny 1981, p. 91. Boime
1980, pp. 330–35, pl. ix.47. Couture 1867, pp. 155–56. 6609a, pp. 226–27, no.
85. 197 See Paris 2000–01, pp. 392–93, no. 198, with previous bibliography;
Paris 2008–09a, pp. 226–27, no. 82. Sauvage also made écorchés of other
classical prototypes. 198 The original cast appears to have been destroyed. The
écorché preserved at the Royal Academy of Arts is a 19th-century copy by
William Pink: see Postle 2004, esp. pp. 58–59, with previous bibliography. 199
See Jordan and Weston 2002, p. 97, fig. 4.7. 200 For the practice see Paris
2000–01, pp. 415–29; Schwartz 2008–09; London 2013–14, pp. 62–69. On Paillett’s
drawing (fig. 87) see London 2013–14, p. 21, pl. 1, p. 96, no. 1. For Bottani’s
(fig. 88) see Philadelphia 1980– 81, pp. 59–60, no. 47. For David’s painting
(fig. 89) see Rome 1981–82, pp. 101–02, no. 25. 201 202 203 204 205 206 207 208
209 210 211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 221 222 223 Pevsner 1940, pp.
140–41. On the diffusion of academies in the 18th century see Boschloo 1989,
passim. A good recent overview is Brook 2010–11. Diderot’s remark appeared in
an article in the Correspondance littéraire, philos- ophique et critique, no.
13, 1763: ‘Sur Bouchardon et la sculpture’, p. 45. See an English translation
in Diderot 2011, p. 19. On the diffusion of casts in the 18th century see
Haskell and Penny 1981, esp. pp. 79–91, chap. 11; Rossi Pinelli 1984; Rossi
Pinelli 1988; Pucci 2000a; Frederiksen and Marchand 2010. London 2013–14, pp.
36, 46–47. See the explanatory text for the plate: Diderot and D’Alembert
1762–72, vol. 20, entry ‘Dessein’, pp. 1–20, esp. pp. 2–5. See also Michel
1987, pp. 284, 288. Locquin 1912, pp. 5–13; Toledo, Chicago and elsewhere
1975–76; Plax 2000. Locquin 1912, pp. 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp.
216–28, with previ- ous bibliography. Excellent introductions to the art world
of Rome in the 18th century are the essay contained in Philadelphia and Houston
2000 (see esp. Barroero and Susinno 2000) and in Rome 2010–11b. Goethe 2013,
vol. 2, p. 373. Overviews on the Grand Tour are Black 1992; London and Rome
1996–97; Chaney 1998; Black 2003. On Panini’s painting see London and Rome
1996–97, pp. 277–78, no. 233; Philadelphia and Houston 2000, p. 425, no. 275,
with previous literature. Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013,
with previous bibliography. Haskell and Penny 1981, esp. pp. 23–30, 43–52;
Paris 2010–11, with previous bibliography. On drawing in Rome in the 18th
century see Bowron 1993–94; Percy 2000, with previous bibliography. On
collections of casts in private academies see Bordini 1998, p. 387. On the
Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome, University Park (PA) and
elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. On the early years of the Capitoline as a
public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi 2005; Arata 2008. See
Arata 1994, p. 75. On the Accademia del Nudo see Pietrangeli 1959; Pietrangeli
1962; MacDonald 1989; Barroero 1998; Bordini 1998. Haskell and Penny 1981, pp.
62–63; Raspi Serra 1998–99; Macsotay 2010; Henry 2010–11. The main source for
Vleughels’ reform, rich in information on the study of the Antique in the
Académie under his directorship, is Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vols
7–9, passim (for description of the collection of casts see vol. 7, pp.
333–37). Boyer 1955; Loire 2005–06, pp. 75–81. Caviglia-Brunel 2012, pp.
115–63. For Natoire’s drawing (fig. 94) see Paris 2000–01, p. 372, no. 177;
Caviglia- Brunel 2012, pp. 415–16, no. D.558. On Robert’s drawings (figs 95–96)
see Paris 2000–01, pp. 373–74, nos 178–79; Rome 2008, pp. 132–33, nos 12–13;
Ottawa and Caen 2011–12, pp. 22–23, nos 1a–1b. For fig. 97 see Paris 2000– 01,
p. 384, no. 190. On Robert in Rome see Rome 1990–91. On Piranesi and his
influence on artists see Fleming 1962; Wilton Ely 1978; Rome, Dijon and
elsewhere 1976; Brunel 1978. On Winckelmann see Potts 1994, with previous bibliography.
224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 238 239 240 241 242 243
244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259 Henry 2010–11.
For David in Rome see Rome 1981–82. For his drawings after the Antique see
Sérullaz 1981–82; Rosenberg and Prat 2002, passim, esp. vol. 1, pp. 391– 746,
vol. 2, pp. 754–866. Sérullaz 1981–82, p. 42. For David’s drawing (fig. 98) see
Rosenberg and Prat 2002, p. 499, no. 642. See Pressly 1979; Valverde 2008;
Busch 2013. On all these aspects see Pears 1988, esp. pp. 1–26. As general
introductions see Denvir 1983; Solkin 1992; Brewer 1997; Bindman 2008. On the
‘Rule of Taste’ see Lipking 1970; Barrell 1986, esp. 1–68; Pears 1988, pp.
27–50; Ayres 1997. For a recent overview see Aymonino 2014. On academies in
Britain before the foundation of the Royal Academy see Bignamini 1988;
Bignamini 1990. See MacDonald 1989. An excellent introduction to the use of the
Antique in artists’ education in 18th-century Britain is Postle 1997. For casts
in Britain in the first half of the 18th century see: Bignamini 1988, p. 59,
note 63, p. 65, p. 77, note 9, p. 81, note 65, p. 88, p. 103. Einberg and
Egerton 1988, pp. 64–71. Kitson 1966–68, esp. pp. 85–86; Postle 1997, esp. pp.
83–84. See Paulson 1971, vol. 2, pp. 168–71; Nottingham and London 1991, p. 62,
no. 37. Coutu 2000, p. 47; Kenworthy-Browne 2009. On Mortimer’s painting see
Nottingham and London 1991, p. 45, no. 11, with previous bibliography.
MacDonald 1989. Allan 1968, pp. 76–88; Bignamini 1988, p. 108; Postle 1997, pp.
85–87; Coutu 2000, p. 52; Kenworthy-Browne 2009, pp. 43–44. Ibid. On the
Glasgow Foulis Academy see Pevsner 1940, p. 156; MacDonald 1989, pp. 84–85;
Fairfull-Smith 2001. On the Royal Academy see Hutchison 1986. On its
regulations see also Abstract 1797. On the Antique School at the Royal Academy
(fig. 105) see Nottingham and London 1991, p. 43, no. 7; Rome 2010–11b, p. 432,
no.V.6. On Zoffany’s painting see New Haven and London 2011–12, pp. 218–21, no.
44, with previous bibliography. For the medal see Hutchison 1986, p. 34. On
Kauffman’s painting see Rome 2010–11b, pp. 325, 432–33, no. V.7. For Townley
see particularly Coltman 2009. On Soane’s collection of plaster casts see Dorey
2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13; Watkin 1996. Jenkins 1992, pp. 30–40.
Venice 1976, pp. 114–15, no. 49. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On
the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo’s forthcoming article. See
De Piles 1677, pp. 253–54; De Piles 1708, esp. pp. 128–38. Bellori 1976, p.
214; Bellori 2005, p. 180. See Pucci 2000a; Bukdahal 2007 Diderot 1995, p. 4.
See also Haskell and Penny 1981, p. 91. Boime 1980, pp. 330–35, pl. ix.47.
Couture 1867, pp. 155–56. 66 67. Primary Sources On The Antique. Rome to copy
its antiquities as a source of inspiration, a phenomenon that increased over
the subsequent four hundred years. Bembo is, in addition, one of the earliest
writers to rank Raphael and Michelangelo on the level of artists from
antiquity. Excerpt from P. Bembo, Prose . . . della volgar lingua, Venice,
1525, p. XLII r (translation Michael Sullivan). At all times of day [Rome]
witnesses the arrival of artists from near and far, intent on reproducing in
the small space of their paper or wax the form of those splendid ancient
figures of marble, sometimes bronze, that lie scattered all over Rome, or are
publicly and privately kept and treasured, as they do with the arches and baths
and theatres and the other various sorts of buildings that are in part still
standing: and hence, when they mean to produce some new work, they aim at those
examples, striving with their art to resemble them, all the more so since they
believe their efforts merit praise by the closeness of resemblance of their new
works to ancient ones, being well aware that the ancient ones come closer to
the perfection of art than any done afterwards. These have succeeded more than
others, Messer Giulio [de’ Medici], your Michelangelo of Florence and Raphael
of Urbino [...] so outstanding and illustrious that it is easier to say how
close they come to the good old masters than decide which of them is the
greater and better artist. 4. Ludovico Dolce (1508–68) on the necessity for
artists copying from antique statues to learn how to correct the defects of
Nature and to aim for perfect beauty. In his treatise Dialogo della pittura . .
. (1557), the humanist, writer and art theorist Lodovico Dolce upheld a strong
defence of the Venetian school of painting, based on colour, against the
Florentine and Roman ones, based on drawing, supported by Giorgio Vasari. At
the same time he included one of the earliest theoretical statements on the
necessity to study the Antique as a model of idealised nature and perfect
beauty – especially in the study of the proportions of the human figure.
However, in Dolce, one finds also a warning against the indiscriminate copying
of classical sculptures – which should always be imitated with the correct
artistic judgement to avoid eccen- tricities – a principle that would become a
leitmotif in subsequent art literature, as shown here in excerpts from Rubens
(no. 8) or Bernini (no. 10). For Dolce a slavish dependence on the Antique can
lead to the excesses of Mannerism. Exerpts from Ludovico Dolce, Dialogo della
pittura intitolato l’Aretino . . . , Venice, 1557, pp. 32r–33r. The following
translation is from the first English edition: Aretin: A Dialogue on Painting.
From the Italian of Ludovico Dolce, London, 1770, pp. 127–32. Whoever would do
this [to form a justly proportioned figure] should chuse the most perfect form
he can find, and partly imitate nature, as Apelles did, who, when he painted
his celebrated Venus emerging from the sea [...] [p. 128] drew her from Phryne,
the most famous courtesan of the age; and Praxiteles also formed his statue of
the Venus of Gnidus, from the same model. Partly he should imitate the best
marbles and bronzes of the [p. 129] antient masters, the admirable perfection
[p. 130] of which, whoever can fully taste and posses, may safely correct many
defects of Nature herself, and make his pictures universally pleasing and
grateful. These contain all the perfection of the art, and may be properly
proposed as examples of perfect beauty. [...] [p. 131] Proportion being the
principal foundation of design, he who best observes it, must always be the
best master in this respect: and it being necessary to the forming of a perfect
body, to copy not only nature but the antique, we must be careful that we do
this with judgement, lest we should imitate the worst parts, whilst we think we
are imitating the best. We have an instance of this, at present, in a painter,
who having observed that the [p. 132] antients, for the most part, designed
their figures light and slender, by too strict an obedience to this custom, and
exceeding the just bounds, has turned this, which is a beauty, into a very
striking defect. Others have accustomed themselves in painting heads
(especially of women) to make long necks; having observed that the greatest
part of the antique pictures of Roman ladies have long necks, and that short
ones are generally ungrace- ful; but by giving into too great a liberty, have
made that which was in their original pleasing, totally otherwise in the copy.
5. Giorgio Vasari (1511–74) on drawing as the intellectual foundation of all
arts; on grace, and on the classical sculptures in the Belvedere Courtyard in
the Vatican as the source for the ‘beautiful style’ of High Renaissance
masters. Giorgio Vasari’s Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects
– published first in 1550 and in an expanded edition in 1568 – is arguably the
most influential example of art literature of the Renaissance. Vasari’s
biographies of the most famous modern artists set the standard for a
progressive conception of the history of art, with the Florentine and Roman
schools representing its culmination. At the start of his essay on painting, in
a section added to the 1568 edition of the Lives, he provides a definition of
disegno, drawing, to give a theoretical underpinning to his defence of the
Central Italian schools of painting. Vasari’s conception of drawing as the
first physical manifestation of the artist’s idea – the intellectual part of
art common to painting, sculpture and architecture – would provide the founda- tion
for the centrality of drawing in the curriculum of future acade- mies. In
another passage to be found in both editions, Vasari praises the best ancient
sculptures, as they embodied the supreme quality of grazia, or grace, which
cannot be attained by study but only by the judgement of the artist – a concept
that remained one of the central tenets of Italian art theory for the next two
centuries. He attributes the rise of the modern manner or ‘bella maniera’, and
the great achievements of Raphael and Michelangelo, to their familiarity and
exposure to the best examples of classical sculpture in the Belvedere Courtyard
in the Vatican. Excerpts from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti
pittori, scultori et architettori, Florence, 1568, part 1, p. 43. The following
translation is from Vasari on Technique, ed. G. Baldwin Brown, trans. L. S.
Maclehose, London, 1907, pp. 205–06. 69 SOURCE #1 VITRUVIO (80–70 bc – post c.
15 bc) On harmonic proportions as the principle of ideal beauty. Marcus
Vitruvius Pollio’s De Architectura, c. 30–20 bc, is the only complete treatise
on classical architecture to have survived from antiquity and its impact on
Western architecture from the Renaissance onwards is paramount. Manuscript
copies of the treatise circulated widely in the 15th century and were well
known to Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Donatello and to
subsequent generations of early Renaissance artists and architects. The first
printed Latin edition appeared in 1486, followed by a more popular version in
1511 (edited by Fra Giovanni Giocondo). Italian translations appeared in 1521
(by Cesare Cesariano) and in 1556 (edited and translated by Daniele Barbaro
with illustrations by Andrea Palladio). The first chapter of book 3, provided
architects and artists with an authoritative account of the principle of
harmonic proportions based on commensurability which had inspired ancient
sculptors and paint- ers in search of ideal beauty. The celebrated passage on
the perfect proportions of the human body was visualised by Leonardo in his
‘Vitruvian Man’ (see p. 17, fig. 2). The following translation is from the
first integral English edition: The Architecture of M. Vitruvius Pollio.
Translated from the Original Latin, by W. Newton Architect, London, 1771, book
3, chapter 1, pp. 45–46: ‘On the Composition and Symmetry of Temples’.1 The
composition of temples, is governed by the laws of symmetry; which an architect
ought well to understand; this arises from pro- portion, which is called by the
Greek, Analogia. Proportion is the correspondence of the measures of all the
parts of a work, and of the whole configuration, from which correspondence,
symmetry is produced; for a building cannot be well composed without the rules
of symmetry and proportions; nor unless the members, as in a well formed human
body, have a perfect agreement. For nature as so composed the human body, that
the face from the chin to the roots of the hair at the top of the forehead, is
the tenth part of the whole height; and the hand, from the joint to the
extremity of the middle finger, is the same; the head, from the chin to the
crown, is an eight part; [...] the rest of the members have their measures also
proportional; this the ancient painters and statuaries strictly observed, and
thereby gained universal applause. [...] The central point of the body is the
navel: for if a man was laid supine with his arms and legs extended, and a
circle was drawn round him, the central foot of the compasses being placed over
his navel, the extremities of his fingers and toes would touch the circumferent
line; and in the same manner as the body is adapted to [p. 46] the circle, it
will also be found to agree with the square; for, if the measure from the
bottom of the feet to the top of the head is taken, and applied to the arms
extended, it will be found that the breadth is equal to the height, the same as
in the area of a square. Since, therefore, nature has so composed the human
body, * All sentences in Italics are by the present author throughout. 68 that
the members are proportionate and consentaneous to the whole figure, with
reason the ancients have determined, that in all perfect works, the several
members must be exactly proportional to the whole object. 1 The Latin word
‘symmetria’ of Vitruvius’ text has often been translated in English with
‘symmetry’, while commensurability – the mathematical relation between the part
and the whole within a given body or building resulting in overall harmonic
proportions – would be a better translation. 2. Cennino d’Andrea Cennini (c.
1370–c. 1440) on drawing as the foundation of art and on the advantage for
young artists of copying from other masters. Written around 1390 possibly in
Padua, Cennini’s Il Libro dell’Arte is the first art treatise composed in
Italian. Although mainly concerned with practical advice to painters, Cennini
also devoted some of the chapters to the education of the young artist, ofering
the first written evidence of the importance of drawing in the apprenticeship
of the aspiring painter, and especially the copying of works by other artists.
Later, in early Renaissance workshop practices, this increasingly included
antique sculpture. Although not published until 1821, manuscript copies of the
Libro circulated widely in the 16th and 17th centuries, evidenced by the fact
that references to it and passages from it reappear in subsequent art
treatises. Excerpts from Cennino Cennini, Il Libro dell’Arte, ed. F. Brunello,
Vicenza, 1971 (translation, present author). [P. 6, chapter 4] The foundations
and the principles of art, and of all these manual works, are drawing and
colouring. [P. 27, chapter 27] If you want to progress further on the path of
this science [...] you must follow this method: [...] take pain and pleasure in
constantly copying the best things that you can find done by the hands of the
great masters. And if you are in a place where many masters have been, so much
better for you. But I will give you some advice: be careful to imitate always
the best and the most famous; and progressing every day, it would be against
nature that you will not eventually be infused by the master’s style and
spirit. 3. Pietro Bembo (1470–1547) on artists going to Rome to copy the
Antique, and on Michelangelo and Raphael having equalled the ancient masters.
Italian scholar, poet, literary theorist, collector and cardinal, Pietro Bembo
was a central figure in the cultivated antiquarian milieu at the court of Pope
Leo X (r. 1513–21) and a personal friend of Raphael and Michelangelo. His Prose
. . . della volgar lingua, a treatise published in 1525, but composed over the
previous two decades, contains one of the earliest and most eloquent reports of
artists converging on Seeing that Design, the parent of our three arts,
Architecture, Sculpture and Painting, having its origin in the intellect, draws
out from many single things a general judgement, it is like a form or idea of
all the objects in nature, most marvellous in what it compasses, for not only
in the bodies of men and of animals but also in plants, in buildings, in sculpture
and in painting, design is cognizant of the proportions of the whole to the
parts and of the parts to each other and to the whole. Seeing too that from
this knowledge there arises a certain conception and judgement, so that there
is formed in the mind that something which afterwards, when expressed by the
hands, is called design, we may conclude that design is not other than a
visible expression and declaration of our inner conception and of that which
others have imagined and given form to their idea. And from this, perhaps,
arose the proverb among the ancients ‘ex ungue leonem’ when a certain clever
person, seeing carved in a stone block the claw only of a lion, apprehended in
his mind [p. 206] from its size and form all the parts of the animal and then
the whole together, just as if he had had it present before his eyes. Excerpts
from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et
architettori, Florence, 1568, part 3, vol. 1, pp. 2–3 of the Preface
(unpaginated). The following translation is from Lives of the Most Eminent
Painters, Sculptors and Architects by Giorgio Vasari, ed. and trans. by G. du
C. de Vere, London 1912–14, vol. 4, pp. 81–82. [Fifteenth-century artists] were
advancing towards the good, and their figures were thus approved according to
the standards of the works of the ancients, as was seen when Andrea Verrocchio
restored in marble the legs and arms of the Marsyas in the house of the Medici
in Florence. But they lacked a certain finish and finality of perfection in the
feet, hands, hair, and beards, although the limbs as a whole are in accordance
with the antique and have a certain correct harmony in the proportions. Now if
they had had that minuteness of finish which is the perfection and bloom of
art, they would also have had a resolute boldness in their works; and from this
there would have followed delicacy, refine- ment, and supreme grace, which are
the qualities produced by the perfection of art in beautiful figures, whether
in relief or painting; but these qualities they did not have, although they
give proof of diligent striving. That finish, and that certain something that
they lacked, they could not achieve so readily, seeing that study, when it is
used in that way to obtain finish, gives dryness to the manner. After them
indeed, their successors were enabled to attain to it through seeing excavated
out of the earth certain antiquities cited by Pliny as amongst the most famous,
such as the Laocoön, the Hercules, the Great Torso of the Belvedere, and
likewise the Venus, the Cleopatra, the Apollo, and an endless number of others,
which, both with their sweetness and their severity, with their fleshy
roundness copied from the great beauties of nature, and with certain attitudes
which involve no distortions of the whole figure but only a movement of certain
parts, [p. 82] and are revealed with a most perfect grace, brought about the
disappearance of a certain dryness, hardness, and sharpness of manner, which
had been left to our art by the excessive study [...]. 6. Giovan Battista
Armenini (c. 1525–1609) on assimilating the principles of the Antique through
constant drawing as a safe guide for artistic creation. Giovan Battista
Armenini’s De veri precetti della pittura (1587), consti- tutes one of the most
systematic art treatises of the second half of the 16th century. In it we find
the clearest formulations of a progressive method of learning, later defined as
the ‘alphabet of drawing’ (see no. 7), and of the necessity of assimilating the
principles of the Antique through drawing. Armenini is also the first to
provide a proper canon of sculptures and reliefs in Rome that students should
copy and to praise the didactic use of plaster casts. Excerpts from Giovan
Battista Armenini, De veri precetti della pittura, Ravenna, 1587, book 1, ch.
8, pp. 61–63. The following translation is from G. B. Armenini, On the True
Precepts of the Art of Painting, ed. and trans. by J. Olszewski, New York,
1977, pp. 130–34. [To obtain a good style] it is the general and universal rule
only to draw those things which are the most beautiful, learned and most like
the good works of ancient sculptors. Having familiarised him- self with them
through continual study, the student must know these things so thoroughly that
when the occasion demands he can reproduce one or more of these compositions.
He must be so familiar with them that whatever is good in the old works will be
marvellously reflected in his rough sketches, as well as in finished drawings,
and consequently in large paintings [...]. For the con- tinual drawing and
copying of things which are well made ensures that one has a proper guide to
follow and executes his own work very well. [...] In order that you may fully
know the basis of art, make it the foundation of your own works, and learn how
to recognise excellence with certainty, particularly in figures, we shall place
before you as principal models some of the most famous ancient sculp- tures
which most closely approach the true perfection of art and are still intact in
our own days. [p. 131] For it is well known that the ancients who fashioned
these statues first chose the best that nature offered in diverse models and
then, guided by their excellent judgement, combined the best perfectly into one
work. [...] These ancient statues are as follows: the Laocoön, Hercules,
Apollo, the great Torso, Cleopatra, Venus, the Nile, and some others also of
marble, all of them to be found in the Belvedere in the papal palace in the
Vatican. Some others are scattered throughout Rome and among the [p. 132]
foremost is the Marcus Aurelius in bronze, now in the square of the
Campidoglio. Then there are the Giants of Monte Cavallo, and the Pasquino, and
others not as good as these. Also well known because of the histo- ries
depicted thereon are those in the arches with very beautiful manner of half and
low relief as in the two columns, the Trajan and the Antonine, which still
stand, even though time is hostile to human work. [...] And even though this
study we have been discussing is not in the power of all students, since as is
well known not all can stay in Rome labouring long and at great expense, yet
even they have many of these works in their own homes. I am speaking of those
copies of the originals fashioned by the masters in plaster or other material.
I have seen a wax copy of the Roman Laocoön, not larger than two spans, but one
could say that it was the original in small size. Still, if those parts that
are modelled in gesso from these works can be obtained, they are better without
doubt since every detail is there precisely as in the marble, so that they can
be scrutinised and serve the student’s needs excellently. Also, they are very
convenient because they are light and easily handled and transported. And, as
for price, one can say it is very cheap, that is, in comparison with the
originals. Therefore, with such excellent aids available, there is no excuse
for anyone who really wishes to learn the good and ancient path. I have seen
studios and chambers in Milan, Genoa, Venice, Parma, Mantua, Florence, Bologna,
Pesaro, Urbino, Ravenna and other minor cities full of such well formed copies.
Looking at these, it seemed to me that they were the very works found in Rome.
Nor is any beautiful living model excluded from these, and the closer it is to
the aforementioned [p. 133] sculptures, the better it may be considered to be,
but this is rarely the case. Now, with so many examples and reasons, such as
these, I believe [p. 134] you should have a good idea of all that you must
consider and observe carefully. 7. The ‘alphabet of drawing’ and the role of
the Antique in the first orders and statutes of the Roman Accademia di San Luca
(1593). The first ‘orders and statutes’ of the Roman Accademia di San Luca,
laid out by Federico Zuccaro (c. 1541–1609) in 1593 and published by Romano
Alberti (active 1585–1604) in 1604, codified a progressive method in learning
how to draw the human figure, considered as the central subject of art: from
details, like the eye, to the whole body. This ‘alphabet of drawing’, based on
Renaissance workshop practices, would become enormously influential in the
teaching of art in Europe well into the 20th century. The Antique had a crucial
role in it, as it gave students the possibility to learn how to approach the
third dimension of the human body through models of idealised beauty, anatomy
and proportions, and the role of ancient statuary is clearly specified in
another passage of the Accademia’s rules and regulations. Excerpts from Romano
Alberti, Origine, et progresso dell’Academia del Dissegno, de’ Pittori,
Scultori, et Architetti di Roma, Pavia, 1604, pp. 5–8 (translation, present
author). [P. 5] Another hour will be devoted to practice and to teaching
drawing to young students, showing them the way and the good path of study, and
for this purpose we have appointed twelve Academicians, one for each month of
the year, in charge of taking particular care and responsibility in assisting
the students in this task. [...]. The Principal will order the young students
to produce something by their hand, while he will draw himself, and he will
award his resulting drawings to the best students. The first figures – to start
from the Alphabet of Drawing (so to speak) – will be the A, B, C: eyes, noses,
mouths, ears, heads, hands, feet, arms, legs, torsos, backs and other similar
parts of the human body, as well as any other sort of animals and figures,
architectural elements, and reliefs in wax, clay and similar exercises. [P. 8]
[The Academician in charge] will start instructing the students in what to
study, assigning to each of them a different task according to his individual
disposition and talent: some will draw from drawings, others from cartoons or
from reliefs; others will copy heads, feet, hands; others will go out during
the week drawing after the antique or the facades by Polidoro, or land- scapes,
buildings, animals and other similar things; other students in convenient times
will draw after live models, and they must copy them with grace and judgement.
Others will do exercises in architecture and in perspective, following its
correct and good rules, and the best students shall always be rewarded [...].
8. Peter Paul Rubens (1577–1640) on the usefulness and dangers of copying from
the Antique. The great Flemish artist Peter Paul Rubens spent two extended
periods in Rome, between 1601 and 1602 and from late 1605 to late 1608, with
short interruptions. His erudite approach towards the Antique and his desire to
assimilate its principles resulted in many extraordinary drawings after classical
statues, mostly in black and red chalk. In his theoretical treatise, De
Imitatione Statuarum (‘On the Imitation of Statues’), c. 1608–10, he warned
against the dangers of slavishly copying the Antique and transferring the
characteristics and limits of one medium – marble – into another – drawing or
painting. Although Rubens’ manuscript remained unpublished in his lifetime, it
was owned by the influential French art theorist Roger de Piles (1635–1709),
who first published it in his Cours de peinture par principles, Paris, 1708,
pp. 139–47. The following translation is from the first English edition: Roger
de Piles, The Principles of Painting, London, 1743, pp. 86–92. To some painters
the imitation of the antique statues has been extremely useful, and to others
pernicious, even to the ruin of their art. I conclude, however, that in order
to attain the highest perfection in painting, it is necessary to understand the
antiques, nay, to be so thoroughly possessed of this knowledge, [p. 87] that it
may diffuse itself everywhere. Yet it must be judiciously applied, and so that
it may not in the least smell of stone. For several ignorant painters, and even
some who are skilful, make no distinction between the matter and the form, the
stone and the figure, the necessity of using the block, and the art of forming
it. It is certain, however, that the finest statues are extremely beneficial,
so the bad are not only useless, but even pernicious. For beginners learn from
them I know not what, that is crude, liny, stiff, and of harsh anatomy; and
while they take themselves to be good proficient, do but disgrace nature; since
instead of imitating flesh, they only represent marble tinged with various
colours. For there are many things [p. 88] to be taken notice of, and avoided,
which happen even in the best statues, without the workman’s fault: especially
with regard to the difference of shades [...]. [p. 89] He who has, with
discernment, made the proper distinctions in these cases, cannot consider the
antique statues too attentively, nor study them too carefully; for we of this
erroneous age, are so far degenerate, that we can produce nothing like them. 70
71 9. Gianlorenzo Bernini (1598–1680) described as a young boy devoting
his days to copying the statues in the Belvedere Courtyard in the Vatican. In
1713 Gianlorenzo Bernini’s son Domenico (1657–1723) published a biography of
his father that constitutes, with Filippo Baldinucci’s Vita del cavaliere . . .
Bernino (MS. 1682), one of the most important sources on the life and art of
the great Baroque sculptor and architect. A passage describing the impact of
the art of Rome on Gianlorenzo, after his arrival from his native Naples,
vividly evokes the dedication and devotion of the young sculptor in
assimilating day and night the principles of the great classical examples in
the Belvedere Courtyard – especially the Antinous Belvedere, the Apollo
Belvedere and the Laocoön. Excerpts from Domenico Bernini, Vita del cavalier
Gio. Lorenzo Bernino, Rome, 1713, pp. 12-13. The following translation is from
Domenico Bernini, The Life of Gian Lorenzo Bernini, ed. and trans. by F.
Mormando, University Park (PA), 2011, p. 101. There now opened before him in
Rome a marvellous field in which to cultivate his studies through the diligent
observation of the precious remains of ancient sculpture. It is not to be
believed with what dedication he frequented that school and with what profit he
absorbed its teachings. Almost every morning, for the space of three years, he
left Santa Maria Maggiore, where Pietro, his father, had built a small
comfortable house, and travelled on foot to the Vatican Palace at Saint
Peter’s. There he remained until sunset, drawing, one by one, those marvellous
statues that antiquity has conveyed to us and that time has preserved for us,
as both a benefit and dowry for the art of sculpture. He took no refreshment
during all those days, except for a little wine and food, saying that the
pleasure alone of the lively instruction supplied by those inanimate statues
caused a certain sweetness to pervade his body, and this was sufficient in
itself for the maintenance of his strength for days on end. In fact, some days
it was frequently the case that Gian Lorenzo would not return home at all. Not
seeing the youth for entire days, his father, however, did not even interrogate
his son about this behaviour. Pietro was always certain of Gian Lorenzo’s
whereabouts, that is, in his studio at Saint Peter’s, where, as the son used to
say, his girlfriends (that is, the ancient statues) had their home. The
specific object of his studies we must deduce from what he used to say later in
life once he began to experience their effect on him. Accordingly, his greatest
attention was focussed above all on those two most singular statues, the
Antinous and the Apollo, the former miraculous in its design, the latter in its
workmanship. Bernini claimed, however, that both of these qualities were even
more perfectly embodied in the famous Laocoön of Athen0dorus, Hagesander, and
Polydorus of Rhodes, a work of so well-balanced and exquisite a style that
tradition has attributed it to three artists, judging it perhaps beyond the
ability of just one man alone. Two of these three marvellous statues, the
Antinous and the Laocoön, had been discovered during the time of Pope Leo X
amid the ruins of Nero’s palace in the gardens near the church of San Pietro in
Vincoli and placed by the same pontiff in the Vatican Palace for the public
benefit of artists and other students of antiquity. 10. Gianlorenzo Bernini
(1598–1680) on the formative role of ancient sculpture in the education of
young artists. In 1665 Bernini visited France at the invitation of Louis XIV to
discuss designs for the completion of the Palais du Louvre. His five-month stay
was recorded by his guide Paul Fréart, Sieur de Chantelou in his lively Journal
du voyage du Cavalier Bernin en France. The advice given by Bernini on his
visit to the Académie Royale de peinture et de sculpture is among the clearest
statements on the formative role assigned to antique statuary in the education
of young artists in 17th- century Rome. At the same time it reveals the opinion
of the great Baroque sculptor on the dangers of copying from classical models
without also involving independent inspiration and artistic creations. The
manuscript of the Journal du voyage du cavalier Bernin en France par M. de
Chantelou was published for the first time by Ludovic Lalanne in a series of
articles in the Gazette des Beaux-Arts in 1877–84 (a new edition by M. Stanic ́
was published in Paris in 2001). The following translation is from Paul Fréart
de Chantelou, Diary of the Cavaliere Bernini’s Visit to France, ed. by A.
Blunt, trans. by M. Cornbett, Princeton, 1985, pp. 165–67. 5 September: The
Cavaliere worked as usual, and in the evening went to the Academy [...] [p.
166]. The Cavaliere glanced at the pictures round the room: they are not by the
most talented mem- bers. He also looked at a few bas-reliefs by various
sculptors of the Academy. Then, as he was standing in the middle of the hall sur-
rounded by members, he gave it as his opinion that the Academy ought to possess
casts of all the notable statues, bas-reliefs, and busts of antiquity. They
would serve to educate young students; they should be taught to draw after
these classical models and in that way form a conception of the beautiful that
would serve them all their lives. It was fatal to put them to draw from nature
at the beginning of their training, since nature is nearly always feeble and
niggardly, for if their imagination has nothing but nature to feed on, they
will be unable to put forth anything of strength or beauty; for nature itself
is devoid of both strength or beauty, and artists who study it should first be
skilled in recognis- ing its faults and correcting them; something that
students who lack grounding cannot do [...] [p. 167]. He said that when he was
very young he used to draw from the antique a great deal, and, in the first
figure he undertook, resorted continually to the Antinous as his oracle. Every
day he noticed some further excellence in this statue; certainly he would never
have had that experience had he not himself taken up a chisel and started to
work. For this reason he always advised his pupils, and others, never to draw
and model without at the same time working either at a piece of sculpture or a
picture, combining creation with imitation and thought with action, so to
speak, and remarkable progress should result. For support of his contention
that original work was absolutely essential I cited the case of the late
Antoine Carlier, an artist known to most of the members of the Academy. He
spent the greater part of his life in Rome modelling after the statues of
antiquity, and his copies are incomparable: and they had to agree that, because
he had begun to do original work too late, his imagination had dried up, and
the slavery of copying had in the end made it impossible for him to produce
anything of his own. 11. Giovanni Pietro Bellori (1613–96): his ‘Idea of the
painter, the sculptor and the architect, selected from the beauties of Nature,
superior to Nature’ as the manifesto of the classicist doctrine. Giovanni
Pietro Bellori, a central figure in 17th-century art theory and the champion of
classicism, delivered his epochal speech, the ‘Idea’, in front of the Roman
Accademia di San Luca in 1664 and later published it as a preface to his
influential Vite of 1772. In this he provided one of the clearest and most
influential systematisations for the concept of the idealistic mission of art,
already formulated by various Renaissance art theorists such as Dolce, Vasari,
Armenini and Zuccaro. Joining Aristotelian and neo-Platonic premises, for
Bellori God’s perfect Ideas become corrupted in our world because of accidents
and the innate imperfection of the ‘matter’. The role of ‘noble’ artists is
therefore to aim at recreating the perfection of the original divine ideas in
their works by selecting the best parts of nature. Classical statues ofer the
best guide and example for the modern artists as they are the result of this
process of selection already achieved by ancient artists. In the final
paragraph quoted here, Bellori stresses the value of the imitation of the
Antique against some contemporary artists and theorists, like the Venetian
painter and writer Marco Boschini (1605–81), who criticised the practice.
Excerpts from Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti
moderni, Rome, 1672, pp. 3–13. The following translation is from G. P. Bellori,
The Lives of the Modern Painters, Sculptors and Architects: a New Translation
and Critical Edition, ed. by H. Wohl, trans. by A. Sedgwick Wohl, introduction
by T. Montanari, Cambridge, 2005, pp. 57–61. [P. 57] The supreme and eternal
intellect, the author of nature, looking deeply within himself as he fashioned
his marvellous works, established the first forms, called Ideas, in such a way
that each species was an expression of that first Idea, thereby forming the
wondrous context of created things. But the celestial bodies above the moon,
not being subject to change, remained forever beautiful and ordered, so that by
their measured spheres and by the splendour of their aspects we come to know
them as eternally perfect and most beautiful. The opposite happens with the
sublunar bodies, which are subject to change and to ugliness; and even though
nature intends always to make its effects excellent, nevertheless, owing to the
inequality of matter, forms are altered, and the human beauty in particular is
confounded, as we see in the innumerable deformities and disproportions that
there are in us. For this reason noble painters and sculptors, imitating that
first maker, also form in their minds an example of higher beauty, and by
contemplating that, they emend nature without fault of colour or of line. This
Idea, or rather the goddess of painting and sculpture [...], reveals itself to
us and descends upon marbles and canvases; originating in nature, it transcends
its origins and becomes the original of art; measured by the compass of the
intellect, it becomes the measure of the hand; and animated by the imagination
it gives life to the image. [P. 58] Now Zeuxis, who chose from five virgins to
fashion the famous image of Helen that Cicero held up as an example to the
orator, teaches both the painter and the sculptor to contemplate the Idea of
the best natural forms by choosing them from various bodies, selecting the most
elegant.1 For he did not believe that he would be able to find in a single body
all those perfections that he sought for the beauty of Helen, since nature does
not make any particular thing perfect in all its parts. [...] Now if we wish
also to compare the precepts of the sages of antiquity with the best of [p. 59]
those laid down by our modern sages, Leon Battista Alberti teaches that one
should love in all things not only the likeness, but mainly the beauty, and
that one must proceed by choosing from very beautiful bodies their most praised
parts.2 [...] Raphael of Urbino, the great master of those who know, writes
thus to Castiglione about his Galatea: In order to paint one beauty I would
need to see more beauties, but as there is a dearth of beautiful women, I make
use of a certain Idea that comes to into my mind.3 [P. 61] It remains for us to
say that since the sculptors of antiquity employed the marvellous Idea, as we
have indicated, it is therefore necessary to study the most perfect ancient
sculptures, in order that they may guide us to the emended beauties of nature;
and for the same purpose it is necessary to direct our eye to the contemplation
of other most excellent masters; but this matter we shall leave to a treatise
of its own on imitation, to meet the objections of those who criticise the
study of ancient statues. 1 Cicero, De inventione, II, 1, 1–3. 2 Alberti 1972,
p. 99 (book 3, chap. 55). 3 Quoted the first time in Pino 1582, vol. 2, p. 249.
12. A Conférence of the Parisian Académie Royale de peinture et de sculpture on
the artistic excellence of the Laocoön, 1667. Among the celebrated seven
Conférences given at the Académie in 1667, devoted to the analysis of famous
paintings of the Italian and French schools, the third, held by the sculptor
Gerard van Opstal (1594–1668), was specifically dedicated to the Laocoön.
Opstal’s approach, in which each aspect of the famous statue, from its anatomy,
to its proportions, character and expressions, is discussed in detail, clearly
expresses the analytical and didactic approach of the Académie to the Antique.
Excerpts from André Félibien, Conférences de l’Académie Royale de Peinture et
de Sculpture, pendant l’année 1667, Paris, 1668, pp. 28–40. The following
translation is from the first English edition: Seven Conferences held in the
King of France’s Cabinet of Paintings . . . , London, 1740, pp. 33–42
(pagination is discontinuous). [Gerard van Opstal] examined all the Parts of
this Figure in order to shew the Excellence of it: and observed with what Art
the Sculptor had given in a large Breast and Shoulders, all the Parts of which
are expressed with a great deal of Exactness and Tenderness. He also took
Notice of the Height of the Hips, and the Nervousness of the Arms: the Legs
neither too thick nor too lean but firm 72 73 and well muscled; and in
general he observed that in all the other Members, the Flesh and Nerves were
expressed with as much strength and sweetness as in Nature herself, but in
Nature well formed. [...] [p. 34]. He did not forget to shew likewise the
strong Expressions which appear in this admirable Figure, where Grief is not
only diffused over the Face, but also over all the other Parts of the Body, and
to the Extremities of the Feet, the Toes of which violently contract
themselves. [p. 35] As every thing about this Statue is contrived with
surprising Art, every one will own that it ought to be the chief study of
Painters and Sculptors: But which they should not consider chiefly as a Model
that only serves to design by; they ought to observe exactly all the Beauties,
and imprint on their Minds an Image of all that is excellent in it: because it
is not the Hand that is to be employed if one desires to make himself perfect
in this Art, but Judgement to form these great Ideas and Memory carefully to
retain them. But as those strong Expressions cannot teach one to design after a
Model, because we cannot put such a Person in a State where all the Passions
are in him at once, and it is likewise difficult to copy them in Persons who
are really active because of the quick Motion of the Soul: It is therefore of
great Importance for Artists to study Causes, and then to try with how great
Dignity [p. 30] they can represent their Effects, and we may aver that it is
only to these fine Antiques they must have recourse since there they will meet
with Expressions which it will be difficult to draw after nature. [P. 31] Every
one will agree that it is from this Model [that] we may learn to correct the
Faults which are commonly found in Nature; for here all appears in a State of
Perfection [...]. 13. Gérard Audran (1640–1703) on the perfect proportions of
antique sculptures. Gérard Audran, engraver and conseiller of the Parisian
Académie Royale, published the most popular illustrated manual on the measured
proportions of selected canonical ancient statues in 1682 (see p. 48, figs
72–73). We find in the Preface one of the clearest expressions of the rationalistic
attitude of the Académie: the Antique here represents an infallible standard of
perfect proportions, which Audran has made available, ‘compass in hand’, for
young artists, providing them with precise references on which to base their
own figures. Excerpts from Gérard Audran, Les proportions du corps humain
mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité, Paris, 1683, pp. 1-4 of
the Preface (unpaginated). The following translation is from The Proportions of
the Human Body, measured from the most Beautiful Statues by Mons. Audran . . .
, London, 1718, pp. 1–2. There will be, I think, but little occasion to enlarge
upon the Necessity of a perfect Knowledge of the PROPORTIONS, to every Person
conversant in Designing; it being very well known, that without observing them
they can make nothing but mon- strous and extravagant Figures. Everyone agrees
to this Maxim generally consider’d, but everyone puts it differently in
practice; and here lies the Difficulty, to find certain Rules for the Justness
and Nobleness of the Proportions; which, since Opinions are divided, may stand
as an infallible Guide, upon whose Judgement we may rely with Certainty. This
appears at first very easy; for since the Perfection of Art consist in
imitating Nature well, it seems as if we need consult no other Master, but only
work after the Life; nevertheless, if we examin the Matter farther, we shall
find, that very few Men, or perhaps none, have all their Parts in exact
Proportion without any Defect. We must therefore chuse what is beautiful in
each, taking only what is called the Beautiful Nature. [...] I see nothing but
the Antique in which we can place an entire confidence. These Sculptors who
have left us those beautiful Figures [...] have in some sort excell’d Nature;
for [...] there never was any Man so perfect in all his Parts as some of their
Figures. They have imitated the Arms of one, the Legs of another, collecting
thus in one Figure all the Beauties which agreed to the Subject they
represented; as we see in the Hercules all the Strokes that are Marks of
Strength; and in the Venus all the Delicacy and Graces that can form an
accomplished Beauty. [...] [p. 2]. I give you nothing of myself; everything is
taken from the Antique: but I have drawn nothing upon the Paper till I had
first mark’d all the Measures with the Compasses, in order to make the
Out-Lines fall just according to the Numbers. 14. William Hogarth (1697–1764)
against fashionable taste and the uncritical cult of the Antique. The
celebrated painter and engraver William Hogarth played a crucial role in
establishing an English school of painting in the 18th century. As director of
the second St Martin’s Lane Academy from 1735, he became increasingly hostile
to a curriculum based on the French Académie model. In his theoretical treatise
The Analysis of Beauty, published in 1753, he attacked the idealistic concept
of art – as a selection of the best parts of nature – in favour of a more
naturalistic approach. At the same time he disputed the validity of studies on
proportion such as those produced by Dürer and Lomazzo in the 16th century.
Hogarth retained a bold independent-minded position towards the Antique,
criticising the slavish reverential attitude of connoisseurs and men of taste,
while recognising the greatness of certain antiquities. Their peculiar
elegance, according to Hogarth, is the expression of the ‘serpentine line’, the
central principle of his own aesthetic. Excerpts from William Hogarth, The
Analysis of Beauty, London, 1753. [P. 66] We have all along had recourse
chiefly to the works of the ancients, not because the moderns have not produced
some as excellent; but because the works of the former are more generally
known: nor would we have it thought, that either of them have ever yet come up
to the utmost beauty of nature. Who but a bigot, even to the antiques, will say
that he has not seen faces and necks, hands and arms in living women, that even
the Grecian Venus doth but coarsely imitate? [p. 67] And what sufficient reason
can be given why the same may not be said of the rest of the body? [P. 77, ‘On
Proportions’] Notwithstanding the absurdity of the above schemes [of Dürer and
Lomazzo], such measures as are to be taken from antique statues, may be of some
service to painters and sculptors, especially to young beginners [...] [p. 80].
I firmly believe, that one of our common proficients in the athletic art, would
be able to instruct and direct the best sculptor living, (who hath not seen, or
is wholly ignorant of this exercise) in what would give the statue of an
English-boxer, a much better proportion, as to character, than is to be seen,
even in the famous group of antique boxers, (or some call them, Roman
wrestlers) so much admired to this day. [P. 91] As some of the ancient statues
have been of such singular use to me, I shall beg leave to conclude this
chapter with an observation or two on them in general. It is allowed by the
most skilful in the imitative arts, that tho’ there are many of the remains of
antiquity, that have great excellencies about them; yet there are not,
moderately speaking, above twenty that may be justly called capital. There is
one reason, nevertheless, besides the blind veneration that generally is paid
to antiquity, for holding even many very imperfect pieces in some degree of estimation:
I mean that peculiar taste of elegance which so visibly runs through them all,
down to the most incorrect of their basso-relievos: [p. 92] which taste, I am
persuaded, my reader will now conceive to have been entirely owing to the
perfect knowledge the ancients must have had of the use of the precise
serpentine-line. But this cause of elegance not having been since sufficiently
understood, no wonder such effects should have appeared mysterious, and have
drawn mankind into a sort of religious esteem, and even bigotry, to the works
of antiquity. 15. Johan Joachim Winckelmann (1717–68) on the Antique.
Winckelmann, the greatest art historian of the 18th century, moved to Rome from
Dresden in 1755 and soon established himself as one of the leading antiquarians
and scholars of Europe. His powerful and intimate descriptions of ancient
sculptures, especially those in the Belvedere Courtyard, had a tremendous
impact on the European public and contributed decisively to the difusion of the
classical ideal and the airmation of the neo-classical aesthetics. His analysis
of Greek art provided a stylistic classification of antiquities by period,
stressing the importance of contextual conditions such as the climate and
political freedom of the ancient Greek city states. This revolutionised the
approach to the Antique and contributed to the establishment of a modern art
historical method. He recommended to artists the imitation of ancient statuary
as the only way to achieve perfection, in both aesthetic and moral terms.
Excerpts from Johan Joachim Winckelmann, Gedanken über die Nachahmung der
griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, ed. by C. L. von Ulrichs,
Stuttgart, 1885, pp. 6–12, 24. The following translation is from the first
English edition: J. J. Winckelmann, Reflections on the Painting and Sculpture
of the Greeks . . . , trans. by Henry Fuseli, London, 1765. [P. 1] To the Greek
climate we owe the production of Taste, and from thence it spread at length
over all the politer world. [P. 2] There is but one way for the moderns to
become great, and perhaps unequalled; I mean, by imitating the antients. And
what we are told of Homer, that whoever understands him well, admires him, we
find no less true in matters concerning the antient, especially the Greek arts.
But then we must [p. 3] be as familiar with them as with a friend, to find
Laocoon as inimitable as Homer. By such intimacy our judgment will be that of
Nicomachus: Take these eyes, replied he to some paltry critick, censuring the
Helen of Zeuxis, Take my eyes, and she will appear a goddess. With such eyes
Michael Angelo, Raphael, and Poussin considered the performances of the
antients. They imbibed taste at its source; and Raphael particularly in its
native country. We know, that he sent young artists to Greece, to copy there,
for his use, the remains of antiquity. [...] Laocoon was the standard of the
Roman artists, as well as ours; and the rules of Polycletus became the rules of
art. [P. 4] The most beautiful body of ours would perhaps be as much inferior
to the most beautiful Greek one, as Iphicles was to his brother Hercules. The
forms of the Greeks, prepared to beauty, by the influence of the mildest and
purest sky, became perfectly elegant by their early exercises. Take a [p. 5]
Spartan youth, sprung from heroes, undistorted by swaddling-cloths; whose bed,
from his seventh year, was the earth, familiar with wrestling and swimming from
his infancy; and compare him with one of our young Sybarits, and then decide
which of the two would be deemed worthy, by an artist, to serve for the model
of a Theseus, an Achilles, or even a Bacchus [...] [p. 6]. By these exercises
the bodies of the Greeks got the great and manly Contour observed in their
statues, without any bloated corpulency. [P. 9] Art claims liberty: in vain
would nature produce her noblest offsprings, in a country where rigid laws
would choak her progressive growth, as in Egypt, that pretended parent of
sciences and arts: but in Greece, where, from their earliest youth, the happy
inhabitants were devoted to mirth and pleasure, where narrow- spirited
formality never restrained the liberty of manners, the artist enjoyed nature
without a veil. [P. 30] The last and most eminent characteristic of the Greek
works is a noble simplicity and sedate grandeur in Gesture and Expression. As
the bottom of the sea lies peaceful beneath a foaming surface, a great soul
lies sedate beneath the strife of passions in Greek figures. ’ Tis in the face
of Laocoon this soul shines with full lustre, not confined however to the face,
amidst the most violent sufferings. 16. Denis Diderot (1713–84) on the
excessive dependence on the Antique at the expense of the study of Nature.
Philosopher, polymath and editor of the Encyclopédie (1751–65), Diderot is one
of the central figures of the French Enlightenment. His celebrated art
criticism was directed towards the biennial Salons organised by the Académie
Royale de peinture et de sculpture in Paris, and covered the period from 1759
to 1781. His review of the 74 75 1765 Salon included a section on
sculpture in which he criticised Winckelmann’s semi-religious dependence on the
Antique and instead urged artists to return to the study of Nature, as the
source of all excellence in art, classical statues included. Diderot’s ‘naturalistic’
and anti-academic approach – already difused into European art theory at least
from the 17th century onwards – became predominant in the 19th century.
Nevertheless, Diderot had an immense admiration for classical sculpture in
itself; for him it represented the best result of that fruitful study of Nature
and freedom of artistic creativity that he advocated for contemporary French
art. Diderot’s review of the Salon of 1765 was written for Melchior Grimm’s
Correspondence littéraire, which circulated in manuscript form. It was printed
for the first time in Jacques-André Naigeon, Oeuvres de Denis Diderot publiés
sur les manuscrits de l’auteur, 15 vols, Paris, 1798, vol. 13, pp. 314–16. This
translation is from Diderot on Art – 1: The Salon of 1765 and Notes on
Painting, ed. and trans. by J. Goodman, New Haven and London, 1995, pp. 156–57.
I am fond of fanatics [...] [p. 157]. Such one is Winckelmann when he compares
the productions of ancient artists with those of modern artists. What doesn’t
he see in the stump of a man we call the Torso? The swelling muscles of his
chest, they’re nothing less than the undulation of the sea; his broad bent
shoulders, they’re a great concave vault that, far from being broken, is
strengthened by the burdens it’s made to carry; and as for his nerves, the
ropes of ancient catapults that hurled large rocks over immense distances are
mere spiderwebs in compari- son. Inquire of this charming enthusiast by what
means Glycon, Phidias, and the others managed to produce such beautiful,
perfect works and he’ll answer you: by the sentiment of liberty which elevates
the soul and inspire great things; by rewards offered by the nation, and public
respect; by the constant observation, study and imitation of the beautiful in
nature, respect for poster- ity, intoxication at the prospect of immortality,
assiduous work, propitious social mores and climate, and genius [...]. There is
not a single point of this response one would dare to contradict. But put a
second question to him, ask him if it’s better to study the antique or nature,
without the knowledge and study of which, without a taste for which ancient
artists, even with all the specific advantages they enjoyed, would have left us
only medio- cre works: The antique! He’ll reply without skipping a beat; The
antique! [...] and in one fell swoop a man whose intelligence, enthusiasm, and
taste are without equal betrays all these gifts in the middle of the Toboso.
Anyone who scorns nature in favour of the antique risks never producing
anything that’s not trivial, weak, and paltry in its drawing, character,
drapery, and expression. Anyone who’s neglected nature in favour of the antique
will risk being cold, lifeless, devoid of the hidden, secret truths which can
only be perceived in nature itself. It seems to me that one must study the
antique to learn how to look at nature. 17. Sir Joshua Reynolds (1723–92) on
the role of the Royal Academy and on the study of the Antique. Sir Joshua
Reynolds, the foremost portrait painter in England in the 18th century, served
as first president of the Royal Academy between 1768 and 1792. His fifteen
Discourses on Art, delivered to the students and members of the Academy between
1769 and 1790, became widely popular in Britain and abroad. They represent a
distillation of the idealistic and academic art theory of the previous
centuries in support of the ‘Grand manner’, mixed with his personal views, such
as Reynolds’ huge admiration for Michelangelo. The Discourses range from
didactic guidelines for the Academy to more theoretical discussions, and
references to the Antique can be found throughout, especially in Discourse 10,
devoted to sculpture. Excerpts from Discourses of Art. Sir Joshua Reynolds, ed.
by R. R. Wark, New Haven and London, 1997. [P. 15] Discourse 1 (1769): The
principal advantage of an Academy is, that, besides furnishing able men to
direct the student, it will be a repository for the great examples of the Art.
These are the materials on which genius is to work, and without which the
strongest intellect may be fruitlessly or deviously employed. By studying these
authentic models, that idea of excellence which is the result of the
accumulated experience of past ages may be at once acquired; and the tardy and
obstructed progress of our predecessors may teach us a shorter and easier way.
The student receives, at one glance, the principles which many artists have
spent their whole lives in ascertaining; and, satisfied with their effect, is
spared the painful investigation by which they come to be known and fixed. [P.
106] Discourse 6 (1774): All the inventions and thoughts of the Antients,
whether conveyed to us in statues, bas-reliefs, intaglios, cameos, or coins,
are to be sought after and carefully studied: The genius that hovers over these
venerable reliques may be called the father of modern art. From the remains of
the works of the antients the modern arts were revived, and it is by their
means that they must be restored a second time. However it may mortify our
vanity, we must be forced to allow them our masters; and we may venture to
prophecy, that when they shall cease to be studied, arts will no longer
flourish, and we shall again relapse into barbarism. [P. 177] Discourse 10
(1780): As a proof of the high value we set on the mere excellence of form, we may
produce the greatest part of the works of Michael Angelo, both in painting and
sculpture; as well as most of the antique statues, which are justly esteemed in
a very high degree [...]. But, as a stronger instance that this excellence
alone inspires sentiment, what artist ever looked at the Torso without feeling
a warmth of enthusiasm, as from the highest efforts of poetry? From whence does
this proceed? What is there in this fragment that produces this effect, but the
perfec- tion of this science of abstract form? A MIND elevated to the
contemplation of excellence perceives in this [p. 178] defaced and shattered
fragment, disjecti membra poetae, the traces of superlative genius, the
reliques of a work on which succeeding ages can only gaze with inadequate
admiration. 18. The Encyclopédie by Denis Diderot (1713–84) and Jean-Baptiste
le Rond d’Alembert (1717–83) on the advantages for artists to go to Rome to
experience the Antique and modern works of art. The second edition of Diderot’s
and D’Alembert’s epochal Encyclopédie included an entry on the Académie de
France in Rome, in which the role and mission of the institution is celebrated
in superlative terms. A period in Rome was still considered, even by the
anti-academic Diderot, to be essential for young artists to round of their
education in the physical and spiritual presence of the Antique and the great
Renaissance masters. This apology and defence of the Roman Académie was also
perhaps intended to counter the opinion of those, such as the sculptor Etienne-Maurice
Falconet (1716–91), who judged the trip to Rome no longer necessary, given the
quantity of plaster casts available in France. Excerpt from D. Diderot and
J.-B. le Rond D’Alembert, Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences,
des arts et des metiers . . . , new ed., Geneva, vol. 1, 1777, pp. 238–39
(translation Barbara Lasic). The French Academy in Rome is a school of painting
that King Louis XIV established in 1666, & one of the most beautiful
institu- tions of this great monarch for the glory of the kingdom and the
progress of the fine arts [...]. It was one of the greatest causes for the
perfection of art in France [...]; thus Le Brun thought that young Frenchmen
who intended to study the fine arts should go to Rome and spend some time there.
This is where the works of Michelangelo, Vignola, Domenichino, Raphael and
those of the ancient Greeks give silent lessons far superior to those that our
great living masters could give [...]. Italy has the uncontested advantage and
glory of having the richest mine of antique models that can serve as guides to
the modern artists, and enlighten them in the quest for ideal beauty; of having
revived in the world the arts that had been lost; of having produced excellent
artists of all types; and finally of having given lessons to other people to
whom it had previously given laws [...] [p. 139]. Italy is for artists a true
classical land as an Englishman calls it. Everything there entices the eye of
the painter, everything instructs him, everything awakens his attention. Aside
from modern statues, how many of those antiques, which by their exact
proportions and the elegant variety of their forms, served as models to past
artists and must serve to those of all centuries, does not the superb Rome
contain amid its walls? Although there are in France some very fine statues
like the Cincinnatus and a few others, we can state, without fear of being
mistaken, that there are none of the first rate, or of those that the Italians
call preceptive and that can be put in parallel with the Apollo, the Antinoüs,
the Laocoon, the Hercules, the Gladiator, the Faun, the Venus and many more
that decorate the Belvedere, the Palazzo Farnese, the Borghese grounds and the
gallery of Florence. The gallery Giustiniani alone is perhaps richer in antique
statues than the entire French kingdom. 19. James Northcote (1746–1831) on the
decline of the Antique as a model and on the thirst for novelty in art. The
pungent and lively conversations between the writer and art critic William
Hazlitt (1778–1830), and the painter James Northcote, were published in various
articles in The New Monthly Magazine in 1826 and then collated in 1830, causing
scandal for their frankness among contemporaries. The passage selected is one
of the most revealing testimonies on the growing dissatisfaction with the
Antique and the widespread demand for new forms of art. Excerpts from William
Hazlitt, Conversations of James Northcote, Esq., R.A., London, 1830, pp. 51–53.
‘Did you see Thorwaldsen’s things while you were there? A young artist brought
me all his designs the other day, as miracles that I was to wonder at and be
delighted with. But I could find nothing in [p. 52] them but repetitions of the
Antique, over and over, till I was surfeited.’ ‘He would be pleased at this.’
‘Why, no! that is not enough: it is easy to imitate the Antique: – if you want
to last, you must invent something. The other is only pouring liquors from one
vessel into another, that become staler and staler every time. We are tired of
the Antique; yet at any rate, it is better than the vapid imitation of it. The
world wants something new, and will have it. No matter whether it is better or
worse, if there is but an infusion of new life and spirit, it will go down to
posterity; otherwise, you are soon forgotten. Canova too, is nothing for the
same reason – he is only a feeble copy of the Antique; or a mixture of two
things the most incompatible, that and opera-dancing. But there is Bernini; he
is full of faults, he has too much of that florid, redundant, fluttering style,
that was objected to Rubens; but then he has given an appearance of flesh that
was never given before. The Antique always looks like marble, you never for a
moment can divest yourself of the idea; but go up to a statue of Bernini’s, and
it seems as if it must yield to your touch. This excellence [p. 53] he was the
first to give, and therefore it must always remain with him. It is true, it is
also in the Elgin marbles; but they were not known in his time; so that he
indisputably was a genius. Then there is Michael Angelo; how utterly different
from the Antique, and in some things how superior!’ 76 77. CATALOGUE. Notes to
the reader support. All drawings and prints are on paper. measurements:
Mesurements of all works, both exhibited and reproduced as comparative
illustrations, are given height before width, in millimeters for drawings and
prints and in centimeters for paintings and sculpture. inscriptions: Recto and
verso indications for inscriptions are given only for drawings. For prints it
is assumed they are on the recto. Abbreviations: u.l.: upper left; u.c.: upper
centre; u.r.: upper right; c.l.: centre left; c.r.: centre right; l.l.: lower
left; l.c.: lower centre; l.r.: lower right. The original spelling is always
respected. provenance: Provenance is given in chronological sequence, as
completely as possible. Collectors’ names are given as listed in Lugt
(abbreviated L., L. suppl.) literature/exhibitions: Prints are included in the
Exhibition references when the actual impression catalogued here was shown;
when another impression was exhibited, it is mentioned under Literature. For
exhibition catalogue entries included in the Literature and Exhibition
references, the author or authors are given only when their initials are specified
at the end of the entry. Otherwise it is assumed that the entry was written by
the compilers of the catalogue. If an object has been illustrated in a
publication, a figure or plate number is included. If the object has been
illustrated without a figure or plate number, ‘repr.’ is used. If nothing is
specified, the object was not illustrated. For exhibition catalogues, only the
catalogue number is provided, as it is assumed that it was reproduced.
Otherwise, ‘not repr.’ is used. #1 Agostino dei Musi, called Agostino
Veneziano (Venice c. 1490–after 1536 Rome) After Baccio Bandinelli (Gaiole,
near Chianti 1493–1560 Florence) The Academy of Baccio Bandinelli in Rome 1531
Engraving, state II of III 274 × 299 mm (plate), 278 × 302 mm (sheet) Inscribed
recto, l.c., on front of table support: ‘ACADEMIA . DI BAC: / CHIO . . MDXXXI.
/. A. V.’ selected literature: Heinecken 1778–90, vol. 2, p. 98; Bartsch
1803–21, vol. 14, pp. 314–15, no. 418; Pevsner 1940, pp. 38–42, fig. 5; Ciardi
Duprè 1966, p. 161; Wittkower 1969, p. 232, fig. 70; Oberhuber 1978, 314.418,
repr.; Florence 1980, p. 264, no. 687; Roman 1984, pp. 81–84, fig. 62;
Weil-Garris Brandt 1989, pp. 497–98, fig. 1; Landau and Parshall 1994, p. 286,
fig. 304; Barkan 1999, pp. 290–98, fig. 5.12; Fiorentini 1999, pp. 145–46, no.
29; Munich and Cologne 2002, p. 319, no. 110; Thomas 2005, pp. 3–14, figs 1–3;
Hegener 2008, pp. 396–403 and 624–25, pl. 228; Antwerp 2013, p. 26, repr.;
Florence 2014, pp. 528–29, no. 77. BRANDIN . provenance: Elizabeth
Harvey-Lee, North Aston (Oxfordshire), from whom acquired in 1995. IN . / ROMA
. / IN LUOGO . DETTO / . BELVEDERE . / exhibitions: Not previously
exhibited. The Bellinger Collection, inv. no. 1995-047 This renowned print by
Agostino Veneziano after a design by Baccio Bandinelli, the Florentine sculptor
and draughts- man, depicts Bandinelli’s academy for artists in the Belvedere in
Rome, where he was granted the use of rooms by Pope Leo X (r. 1513–21) and Pope
Clement VII (r. 1523–34).1 We are informed of this by the prominent inscription
below the table, which renders this engraving a particularly appropri- ate work
to begin this catalogue, because as well as being the first known
representation of artists copying from statuettes modelled after antique
prototypes, it is the first recorded use of the word ‘accademia’ in conjunction
with art and the training of artists.2 This term had previously been used to
describe informal gatherings of men to discuss liberal or intellectual
subjects, such as philosophy or literature.3 Though the scene does not depict
an art academy in the modern sense – the origins of which are found some thirty
years later in Vasari’s Accademia del Disegno4 – Bandinelli made the
association between art and intellectual endeavour very clear. His design focuses
on the fundamental elements of a young artist’s training, namely, intensive
study and copying of the antique sculptures in miniature scattered around the
room, replicated on the artists’ tablets. It is there- fore evident that
artistic academies were from the beginning conceived of as humanistic
educational institutions, reliant, among other things, on ancient statues as
sources of inspira- tion. There is a conspicuous absence here of drawing from
life, which would later become one of the central elements of Italian and
French academic practices.5 The scene also places emphasis on disegno, a word
that encompasses much more than its mere translation as ‘drawing’. It comprises
the intellectual capacity to create any kind of art, including painting and sculpture,
as well as drawing itself.6 In Bandinelli’s own words, his was an ‘Accademia
par- ticolare del Disegno’.7 In the print exhibited here, the almost
claustrophobic room and closely bunched apprentices imply that study was a
collaborative endeavour in Bandinelli’s academy, with discussion among the
students encouraged in order that they might better comprehend the objects of
their study, and capture them more effectively on paper. Bandinelli himself is
seated on the right, wearing a fur-lined collar, holding a statuette of a
female nude for his students’ contem- plation. The results of their efforts are
drawn on paper placed on drawing boards, using quills and ink pots; what
appears to be a blotter rests on the near edge of the table. The noctur- nal
setting evokes an atmosphere of mystery and a sense that the central candle,
with its forcefully radiating light, has, as well as a physical function, a
symbolic one, to illuminate the secrets of art and disegno. The theme of
drawing at night recurs throughout this exhibition (cats 2, 23, 24, 34) and
reflects a persistent belief that such a setting is essential for stimulating
the introspection necessary for artistic success. It also implies diligence and
commitment, the ability and will to continue working through day and night,
that is required from a master artist.8 For these reasons, a candle or lamp
often symbolises ‘Study’, as seen in Federico Zuccaro’s allegorical drawing
(see cat. 5, fig. 5). It also reveals a didactic reliance on artificial light
as preferable to natural light to emphasise the contours of the sculptures and
the contrasts of their planes, thereby facilitating the copying process, an
idea earlier espoused by Leonardo da Vinci (with whom the young Bandinelli had
personal contact) and later by Benvenuto Cellini (1500–71).9 There is a
striking interplay of the shadows cast by the candlelight on the back walls,
with the heads of both statues 80 81 and artists overlapping one another.
This may refer to a well- known passage from Pliny’s Natural History: ‘The
question as to the origin of the art of painting is uncertain [. . .] but all
agree that it began with tracing an outline around a man’s shadow’.10 The
central figure on the rear shelf casts an improbable shadow, as the hand held
perpendicular to the body is reflected on the wall as upright and perpendicular
to the ground. This was corrected in a copy after the second state (British
Museum, London), which is slightly smaller.11 The design of this copy is more
crudely executed than the original, and there are a number of significant
changes to the scene that are unique to this plate, which suggests that it was
created by someone other than Bandinelli.12 This demonstrates the relative
freedom of printmakers to make adjustments to designs, and may help us to infer
that this print was especially popular; such changes would have necessitated a
new plate, which would imply that demand outstripped the supply, or that the
original plate was under especially tight control by a single owner.13 The male
and female statues on the table are the focus of the artists’ devotion, and are
reminiscent of Apollo and Venus, specifically of the Venus Pudica type.14 They
are probably inspired by the famous statues of the Apollo Belvedere (see p. 26,
fig. 18 and cat. 5, fig. 1) and Venus Felix (fig. 1), which stood in the
Belvedere Court and were constantly used by artists as ideal models.15 They
would have been easily acces- sible to Bandinelli while lodging at the
Belvedere. The male figures may alternatively be types after Hercules, a figure
Fig. 1. Venus Felix and Cupid, c. 200 ad, marble, 214 cm (h), Museo
Pio-Clementino, Vatican Museums, Rome, inv. 936 that is prevalent throughout
Bandinelli’s work (see cat. 3). In fact, Maria Grazia Ciardi Duprè identified
the upper left male figure on the shelf as a bronze statuette of Hercules
Pomarius, now at the Victoria and Albert Museum, London, and on that basis
suggested the statuette be newly attributed to Bandinelli.16 Many subsequent
scholars have accepted this,17 but the differences in the two figures’ poses
leaves the present author unconvinced, and it seems more likely that the
figures in the print are generic, idealised types. In an almost meta-narrative,
the intense focus on antique statuary is echoed even by the central male
statuette, as he gazes at a miniature statuette poised on his own outstretched
palm, which twists back to face him, returning his gaze (fig. 2). The three
statues arrayed on the shelf along the back wall – two male and one female –
are all of the same type as those on the table, and may be either copies or
casts of them in wax or clay. The statuettes probably represent objects
sculpted by Bandinelli himself referencing the Antique; Vasari tells us that
while using the rooms at the Belvedere, Bandinelli made ‘many little figures [.
. .] as of Hercules, Venus, Apollo, Leda, and other fantasies of his own’.18
One of these survives in bronze, a Hercules Pomarius at the Bargello, in
Florence (fig. 3), and it resembles the figures in the engraving.19 The produc- tion
of small models in wax, clay or bronze – many modelled on ancient prototypes –
for young artists to practice drawing in the workshop, was already common in
the 15th century. Several were created, for instance, by Lorenzo Ghiberti (c.
1381–1455) and Antonio Pollaiuolo (c. 1431–98).20 They Fig. 2. Detail of
Veneziano’s engraving, statue gazing at an even smaller statuette Fig. 3.
Baccio Bandinelli, Hercules Pomarius, c. 1545, bronze, 33.5 cm (h), Museo
Nazionale del Bargello, Florence, inv. 281 Bronzi served the purpose of
familiarising young artists with the forms and poses of antique models,
allowing them to learn how to draw the three-dimensional human figure from
different angles on a flat surface. The juxtaposition of the statuettes with several
antique-style pots and vessels in the engraving reinforces the connection
between Bandinelli’s ‘academy’ and the classical past, as does the fragment of
a foot on the book that serves as a plinth for the male figure on the right.
The statuettes are positioned so that each faces a slightly different
direction, enabling the viewer to observe them from all angles, just as the
artists are instructed to do. Our participation is further encouraged by the
figure on the far left and by Bandinelli: both gaze outward and seem to
acknowledge our presence. The viewer is thus accorded a role as a fellow
student among the apprentices learning from Bandinelli in his academy. This
link with the academy was less explicit in the original version of Bandinelli’s
design. Ben Thomas drew attention to the first state of the print (Ashmolean
Museum, Oxford),21 in which the inscription – so prominent below the table in
the print exhibited here – was presented only in an abbreviated form on the
tablet hanging on the wall at the far right, without the word ‘academia’, and
with only Veneziano’s monogram and the date 1530, a year earlier than the
present engraving. This tablet, deprived of the inscription in the later
states, became an awkwardly superfluous element of the composition. Also
missing in the first state are the drawings on the sheets of the artists
gathered around the table. In changing these elements in the second state, as
represented here,22 Bandinelli deliberately ensured there was no possibil- ity
of misinterpreting this as a literary, rather than artistic, endeavour; it also
serves as propaganda for the artist himself, as a dissemination of not only his
powers of design, but his role as a teacher and an innovator. This makes it all
the more surprising that on the current print, his name is inscribed as
‘Bacchio Brandin.’ rather than Bandinelli. He adopted the Bandinelli surname in
1529 to align himself with a noble family from Siena, thereby making himself
eligible for the Order of Santiago, which he was awarded by Emperor Charles V
in 1530.23 The inscription dates the print to 1531, after his adoption of this
new genealogy, and so must reflect an error on the part of the engraver,
Veneziano.24 In his self-portrait, seated at the table, Bandinelli also does
not wear the insignia of the Order of Santiago, as he does in his other
self-portraits (cats 2 and 3), and so the design for this print most likely
dates prior to the granting of this award in 1530. Tommaso Mozzati suggested a
date earlier than 1527, when the sack of Rome forced both artists to flee the
city, Veneziano to Mantua, Bandinelli first to Lucca and then Genoa.25 The
inscription itself tells us the design was made in Rome, depicting a room in
the Belvedere. If Veneziano engraved the design after the two artists went
their separate ways, it could explain how the mistake in nomenclature was
allowed to occur.26 Bandinelli’s relentless self-promotion and willingness to
rewrite his family tree to achieve noble status can be explained by his
upbringing. His father, Michelangelo di Viviano (1459–1528), was a prominent
goldsmith in Florence, but the family had lost much of its wealth and prestige
by the time his son was born in October 1493.27 As Bandinelli’s three siblings
left home or died young, he was essentially the only child, charged with
restoring the family’s social standing. His father encouraged his training as
an artist from an early age, as an apprentice within his own workshop.
Bandinelli also worked with the sculptor Gian Francesco Rustici (1474–1554), learning
from him the process of model- ling sculptures in wax and clay for casting into
bronze. This association no doubt provided the opportunity to meet Rustici’s
collaborator at the time on St John the Baptist Preaching (Florence Cathedral,
Baptistry), Leonardo da Vinci (1452– 1519). Bandinelli was a staunch Medici
supporter, even throughout the family’s exile, and this cemented his financial
success as soon as two Medici popes came to power (Giovanni de’ Medici as Leo X
in 1513 and Giulio de’ Medici as Clement VII in 1523). However, it also
inspired rabid criticism from many Florentines, who were Republican by
nature. 82 83 Our view of him is also coloured by Vasari’s
biography, in which Bandinelli is treated as the villain to his heroic rival,
Michelangelo.28 Such a bias is perhaps not completely unwar- ranted, as all
three prints on display here by Bandinelli reflect his insistence not only on
publicising his own image, but in vaunting his abilities as both a teacher of
the next generation of artists, as well as having a special and privi- leged
relationship to the Antique. This betrays the arrogance 29 that is also evident
in his writings, and may well have contributed to the negative opinions of his
character that persist to this day. rh 1 Vasari tells us that Bandinelli was
given use of the Belvedere (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, pp. 246,
250) but he never mentions an academy (Barkan 1999, p. 290). This engraving and
cat. 2, as well as Bandinelli’s own account in his autobiographical Memoriale
(which exists in a single manuscript in the Biblioteca Nazionale in Florence,
Cod. Pal. Bandinelli 12, and is transcribed in Colasanti 1905 and Barocchi
1971–77, vol. 2, pp. 1359– 1411) are the only evidence we have for the
existence of Bandinelli’s academy. 2 A less explicit link between art and the
term ‘accademia’ is found on engravings after Leonardo da Vinci’s designs of
knot work, which are inscribed ‘Academia Leonardi Vinci’ (see Pevsner 1940, p.
25; Roman 1984, p. 81; and Goldstein 1996, p. 10 and frontispiece). For
Bandinelli as the first to use this word in conjunction with art training, see
Pevsner 1940, p. 39; Barkan 1999, p. 290; Munich and Cologne 2002, p. 319 under
no. 110; Thomas 2005, p. 8; Hegener 2008, pp. 401 and 403. 3 Visual arts were
regarded as applied disciplines rather than liberal arts and thus unsuitable
for intellectual discussion (Pevsner 1940, pp. 30–31; Goldstein 1996, p. 147;
Cologne and Munich 2002, p. 319 under no. 110; Thomas 2005, pp. 8–9). 4
Although Vasari was the instigator and organiser of the Accademia, officially
it was opened in 1563 by Cosimo de Medici (Pevsner 1940, p. 42). For more about
the Accademia see Goldstein 1975; Waz ́bin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman
2000. 5 Goldstein 1996, chap. 8; Barkan 1999, p. 292; Costamagna 2005. 6
Goldstein 1996, p. 14. 7 Barocchi 1971–77, vol. 2, pp. 1384–85. 8 Roman 1984,
p. 83; Munich and Cologne 2002, p. 319; Thomas 2005, pp.6–7. 9 Weil-Garris
1981, pp. 246–47, note 39; Barkan 1999, p. 292; Hegener 2008, p. 401. 10 ‘De
picturae initiis incerta [...] quaestio est [...] omnes umbra hominis lineis
circumducta, itaque primam talem’: Pliny the Elder, Nat. Hist., 35.5. See Pliny
1999, pp. 270–71. 11 The British Museum print’s inventory number is V,2.136. 12
Some changes are: the removal of Veneziano’s monogram, the underlining of
‘Belvedere’ in the inscription and the figure sketches on the artists’ sheets
(Thomas 2005, p. 12). 13 Thomas 2005, p. 12. 14 For other statues of the Venus
Pudica type known in the early Renaissance, see Tolomeo Speranza 1988. 15 16 17
18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 Hegener 2008, p. 401. For Venus Felix, see
Spinola 1996–2004, vol. 1, p. 97, PN 23 and fig. 14 on p. 98. Ciardi Duprè
1966, p. 161. The inventory number of the statuette is A.76-1910. Or they have
at least restated Ciardi Duprè’s thesis without contestation. This includes
Fiorentini 1999, p. 145; Thomas 2005, p. 11, note 21; and Hegener 2008, p. 403.
Paul Joannides disagrees and attributes the statuette in the Victoria and
Albert Museum to Michelangelo, saying that it in turn inspired Bandinelli to
create his own version of Hercules Pomarius, now in the Bargello, in Florence
(fig. 3), which is widely accepted as by Bandinelli (Joannides 1997, pp.
16–20). Volker Krahn also expressed doubt that it is by Bandinelli (Florence
2014, p. 374). ‘Fece molte figurine [...] come Ercoli, Venere, Apollini, Lede,
ed altre sue fantasie’ (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, p. 251). See
Florence 2014, pp. 372–75, no. 32. Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, pp. 52–55. See
also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 22–23. Thomas 2005, p. 11. The
print’s inventory number is WA1863.1759. There is also a third state owned by
the Davison Arts Center of Wesleyan University, CT, in which the publisher
Antonio Salamanca’s name is added at the bottom right (Thomas 2005, p. 12).
Bartsch noted only one state (the second), but was also aware of the copy of
the second state discussed here (Bartsch 1803–21, pp. 314–15, no. 418). The
sheet exhibited here may repre- sent a later impression of the second state, as
the underlining of ‘Belvedere’ has become so worn that it is only visible below
the first ‘el’ and the ‘r’. There is some debate as to when Bandinelli received
this honour. Scholars usually agree on 1529, but in his autobiography,
Bandinelli said it occurred in the same year as the emperor’s coronation, which
was in February 1530. According to Weil-Garris Brandt, the confusion arose
because the Florentine year ended in March (Weil-Garris Brandt 1989, p. 501,
note 26). Ben Thomas agrees with her and says the emperor sent news of the
honour to Bandinelli from Innsbruck, after departing from Bologna on 22 March
1530 (Thomas 2005, p. 9 and note 12). This is perhaps not the only print to
exhibit such a mistake, as Bandinelli, in his Memoriale, bemoaned a similar
error that had to be corrected on a print of his Martyrdom of St Lawrence
(Barocchi 1971–77, vol. 2, p. 1396). However, this complaint itself is
inaccurate, as the inscription of ‘Baccius Brandin. Inven.’ on the St Lawrence
print would have been a correct appella- tion at the time of its execution in
1524, well before Bandinelli’s adoption of his new name. Such an anachronism
has prompted speculation that the Memoriale is not actually by Bandinelli, but
rather a forgery by one of his descendants (Thomas 2005, p. 10); nevertheless,
it represents a familial dissatisfaction with the dissemination of Bandinelli’s
designs once removed from his control. Minonzio 1990, p. 686 and Florence 2014,
p. 528 under no. 77. However, by 1530, the date on the first state of this
print, both Veneziano and Bandinelli had returned to Rome (Thomas 2005, p. 11).
This does not preclude Veneziano from having engraved the design during their
separa- tion. It is unlikely that the design was executed at this later date
because of the absence of the insignia of the Order of Santiago; even if the
image were retrospective, it seems unlikely that Bandinelli would miss an
opportunity for self-aggrandisement. For Bandinelli’s biography, see Bandinelli’s
own Memoriale (see note 1), Vasari’s account in Bettarini and Barocchi 1966–87,
vol. 5, pp. 239–76, and more concise surveys in Weil-Garris 1981, pp. 224–42
and Waldman 2004, pp. xv–xxviii. Weil-Garris 1981, p. 224. Pevsner 1940, p. 42.
2. Enea Vico ( Parma 1523–1567 Ferrara) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near
Chianti 1493–1560 Florence) The Academy of Baccio Bandinelli c. 1545/50
Engraving, state II of III 314 × 486 mm (sheet) Inscribed recto, u.r., on left
page of open book: ‘Baccius / Bandi: / nellus / invent’; on right page: ‘Enea
vi: / go Par: / megiano / sculpsit.’ Inscribed verso, l. c., on additional
paper fragment, now attached, in pencil: ‘Eneas Vico ca 1520 – ca 1570 / Nagler
XXII/515 bl 49 / Ein Hauptblatt’; and below, in pencil, ‘B. Vol 15 B 305 No.
49’; l.l. in pencil: ‘£ 3013 60’ [the rest illegible] provenance: Venator &
Hanstein, Cologne, 3 November 1998, lot 2722, from whom acquired. selected
literature: Heinecken 1778–90, vol. 2, pp. 98–99; Bartsch 1803–21, vol. 15, pp.
305–06, no. 49; Passavant 1860–64, vol. 6, p. 122, no. 49; Pevsner 1940, pp.
40–42, fig. 6; Ciardi Duprè 1966, pp. 163–64, fig. 26; Goldstein 1975, p. 147,
fig. 1; Weil-Garris 1981, pp. 235–36, fig. 14; Roman 1984, pp. 84–87, fig. 66;
Spike 1985, 305.49-I and 305.49-II, repr.; Landau and Parshall 1994, p. 286,
fig. 303; Barkan 1999, pp. 290–98, fig. 5.13; Fiorentini 1999, pp. 146–47, no.
30; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 86–88, no. 21; Thomas 2005, pp. 12–14, fig.
5; Hegener 2008, pp. 404–12 and 625–26, pl. 232; Compton Verney and Norwich
2009–10, p. 18, fig. 15; Florence 2014, pp. 530–31, no. 78. 84 85 exhibitions:
Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1998-039 This
print by Enea Vico after a design by Baccio Bandinelli depicts a scene similar
to that in his earlier self-styled acad- emy (cat. 1), but it has been expanded
and amplified: the table which occupies all of the space in Agostino
Veneziano’s engraving has been moved to the right side of Vico’s print, and the
perspective is widened to allow a larger room to come into view. The number of
apprentices has grown from six to twelve, the books from one to six and the
antique sculptures from five to ten. The style of the print, as well as Vico’s
chronology, suggest that it is not the Belvedere acad- emy that is depicted
here, but a second academy, established by Bandinelli some twenty years later
after his return to Florence in 1540.1 As in the earlier print, the classical
figu- rines appear to be generalised interpretations of antique statuary rather
than exact copies of specific models, although they have been diversified here
by the addition of a horse’s head and a bust of a Roman emperor on the shelf.
Added to the fragments strewn about the room are skeletons and skulls, which
are now given a status equal to classical sources as inspiration for artists.
These refer to the growing tendency to study the anatomy of the human body in
Italian work- shops around the mid-16th century, mainly through skele- tons, a
practice that was codified by Benvenuto Cellini (1500–71) some twenty years
later in his Sopra i Principi e l’ Modo d’Imparare l’Arte del Disegno, in which
he advised artists to copy anatomical parts in order to attain skill as
draughts- men.2 While Bandinelli’s representation is one of the first to
document the spread of anatomical study among young artists, the practice was
formalised in the second half of the 16th century in the curricula of the first
academies, where sophisticated anatomy lectures were given and dissections were
performed.3 Both antique sculptures and skeletons became common elements in
subsequent representations of artists’ workshops, studios and academies, as
seen in Stradanus’ studio image and Cort’s engraving after it (cat. 4). This is
also reflected in an etching by Pierfrancesco Alberti of a painter’s studio or
academy (fig. 1), which shows a more structured curriculum of studies involving
anatomical dissection, geometry, the Antique and architectural drawing, closely
reflecting the disciplines taught in the earliest Italian academies,
particularly the Roman Accademia di San Luca.4 The light source is another
difference between the two prints after Bandinelli. The single candle in
Veneziano’s engraving has become three forcefully radiating fires, with the
candle on the table now partially dissolving the face of the student standing
to its right. The importance of studying at night, and the diligence and
introspection this implies, is again a primary theme. Another engraving after a
Bandinelli design, The Combat of Cupid and Apollo,5 also places impor- tance on
fire as a source of not only visual illumination, but as a symbol of
philosophical and spiritual revelation. The recurrence of this motif has been
regarded as indicative of Bandinelli’s neo-Platonic leanings; the flame
symbolises divine Reason and its power to defeat the darker, profane vices of
the human condition, allowing man to perceive true, celestial beauty, even
while bound to the terrestrial realm.6 Indeed, the very concept of an academy
is closely inter- twined with Neo-Platonism, as it was widely considered that
the first academy founded since the end of classical times was that of Marsilio
Ficino (1433–99) in Florence, which was specifically based on the philosophy
and teachings espoused by Plato.7 Bandinelli himself is again
represented, but he now stands at the far right, instructing the two students
who face him. He also now wears the cross of St James, as befits a knight of
the Order of Santiago, which he was awarded in 1530, and which is seen in his
other self-portrait (cat. 3). The same insignia is placed prominently above the
fireplace between the two cupids. Bandinelli’s design therefore takes on a more
propagandistic role, and has been described by some scholars as a ‘manifesto’
for his academy.8 The staging here stresses Bandinelli’s nobility, humanism and
sophistication, while the importance of copying from antique sculpture is
rather downplayed, with the casts relegated to the margins of the scene. None
of the artists is now looking at the casts; their focus is instead inward, as
best exemplified by the figure who sits at the centre of the composition, with
his head in his hand. Only one of the students’ drawings is visible, on the
tablet of the standing apprentice at the centre of the scene, and the female
nude emerging from his stylus is unrelated to any of the sculptures surrounding
him, although clearly referring to a model all’antica. She must therefore be a
product of his mind, and so the emphasis here is on the artist’s memory and
imagination; the skeletons and antique sculptures were essential for building
his graphic vocabulary of the human form, but they have been discarded now that
he has successfully internalised them and no longer needs to copy them
directly.9 The exercise of memory was one of the central principles of the
pedagogical practices of the Italian Renaissance, going back as far as Leon
Battista Alberti (1404– 72) and Leonardo (1452–1519).10 Giorgio Vasari
(1511–74), in his Vite explicitly recommended that ‘the best thing is to draw
men and women from the nude and thus fix in the memory by constant exercise the
muscles of the torso, back, legs, arms and knees, with the bones underneath.
Then one may be sure that, through much study, attitudes in any position can be
drawn by help of the imagination without one having the living forms in the
view’.11 The importance of memory was also stressed by Cellini in his
treatise.12 There are three states of this print, differentiated by the
inscriptions.13 In the first state, the inscription identifying Bandinelli as
the designer on the left page of the book on the upper right is included, as is
the address of the Roman pub- lisher, Pietro Palumbo, below the sleeping dog in
the lower centre (not seen here). In the second state, Enea Vico’s name is
added on the right-hand page of the same book, in a differ- ent script. In the
final state, the name of Palumbo’s successor as the publisher of this print,
Gaspar Alberto, is added below the skulls in the lower centre. Nicole Hegener
believed there was an additional state between the first and second, repre-
sented by a version at Yale in which Agostino’s Veneziano’s name was inscribed
on the right-hand page of the book before it was replaced by Vico’s.14 However,
it was noted in 2005 that this was added by hand in pen-and-ink, and was
therefore just a modification of the first state of the print.15 The print
exhibited here was also believed to be a unique 86 87 Fig. 1.
Pierfrancesco Alberti, Painters’ Academy, c. 1603–48, etching, 412 × 522 mm, Rijksmuseum,
Amsterdam, RP-P-1952-373 example of a state between the first and second,
as both Bandinelli’s and Vico’s names are present on the book, but Palumbo’s is
missing.16 However, close examination of the verso reveals extensive abrasion
over the area where Palumbo’s address would have been. The inscription was
therefore erased from this sheet, and does not reflect any changes to the
original plate. It must, therefore, be an example of the second state, which
was subsequently altered for an unknown reason. Palumbo’s name on the first
state also makes the dating of this print difficult. On stylistic grounds, most
scholars date it to c. 1545/50,17 but Palumbo was not active 18 3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 in 1731: Cellini 1731, pp. 155–62 (on the study
of the bones and muscles, pp. 157–62). See Olmstead Tonelli 1984, esp. p. 101.
See also Schultz 1985; Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97; London, Warwick
and elsewhere 1997–98; Carlino 2008–09. Roman 1984, p. 91. See Appendix, no. 7
for the statutes of the Accademia di San Luca. Repr. in Panofsky 1962, fig.
107. Panofsky 1962, pp. 148–51. Goldstein 1996, p. 14. For the neo-Platonic
movement during the Renais- sance, see Panofsky 1962, chap. 5. Compton Verney
and Norwich 2009–10, p. 18; Florence 2014, p. 520. Thomas 2005, pp. 13–14;
Houston and Ithaca 2005–06, p. 87. Alberti 1972, pp. 96–99 (book 3.55);
Leonardo 1956, vol. 1, p. 47, chap. 65–66. See also Aymonino’s essay in this
catalogue, p. 33. Brown 1907, p. 210; Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1,
pp. 114–15. Cellini 1731, p. 157. Bartsch mistakenly conflated the second and
third states and therefore only listed two states (Bartsch 1803–21, vol. 15,
pp. 305–06). He was corrected by Passavant (1860–64, vol. 6, p. 122, no. 49)
and this is accepted by subsequent scholarship (i.e. Thomas 2005, p. 13).
Hegener 2008, p. 405. Houston and Ithaca 2005–06, p. 88, note 1. See also
Florence 2014, p. 530. Venator & Hanstein sale, Cologne, 3 November 1998,
lot 2722. Pevsner remarks on the characteristic ‘Mid-Cinquecento Mannerism’ of
Vico’s print in contrast to Veneziano’s style, which is reminiscent of Raimondi
(Pevsner 1940, p. 40). The following agree on the approximate dates c. 1545/50:
Weil-Garris 1981, p. 235; Thomas 2005, p. 13; Houston and Ithaca 2005–06, p.
86; Florence 2014, p. 530. Fiorentini suggested c. 1550 because after that date
Vico used ‘sculptere’ on his works, rather than ‘sculpsit’ as here (Fiorentini
1999, p. 147). However, the form of Vico’s inscription as ‘Enea Vigo’ on this print
is completely unique, as his other extant works are signed either ‘E.V.’, ‘Enea
Vico’ or variations on ‘AENEAS VICUS’ (Thomas 2005, p. 13). Therefore we must
be very cautious in making any assumptions based on this particular
inscription. London 2001–02, p. 230. He continued working until c. 1586.
Florence 2014, p. 531. 3. Anonymous, 16th-century Italian Artist After Niccolò
della Casa (Lorraine fl. 1543–48) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near Chianti
1493–1560 Florence) Self-Portrait of Baccio Bandinelli, Seated 1548 Engraving,
416 × 306 mm
Datedl.c.:‘1548’;inscribedl.r:‘A.S.Excudebat.’;inscribedl.c.inpencil:‘No
7.’andbelowtor.inpencil:‘No 7’. With the initials of the publisher, probably
Antonio Salamanca (1478–1562). provenance: Léon Millet, Paris (his stamp, not
in Lugt, in blue ink on the verso: ‘Léon Millet / 13 rue des Abbesses’ and
below, printed in black ink: ‘12 Mars 1897’);1 Bassenge, Berlin, 3 December
2003, lot 5155, from whom acquired. selected literature: Heinecken 1778–90,
vol. 2, p. 90; Bartsch 1854–76, vol. 15, pp. 279–80; Nagler 1966, vol. 1, p.
542, under no. 1266; Le Blanc 1854-88, vol. 3, p. 414, nos. 1–2; Steinmann
1913, pp. 96-97, note 8; Florence 1980, pp. 264, 266, no. 690; Los Angeles,
Toledo and elsewhere 1988–89, p. 76–77, no. 20; Fiorentini 1999, pp. 153–54,
no. 34, fig. 34 (see also pp. 150–53, under no. 33); Fiorentini and Rosenberg
2002, p. 37, fig. 20, pp. 38, 42, 44; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 32–34,
no. 1 (J. Clifton); Hegener 2008, pp. 391–96, version II, fig. 57, p. 617–18,
no. 16 (see also pp. 380–91, under version I); Florence 2014, pp. 526–27, no.
76 (T. Mozzati). before c. 1562 at Sant’ Agostino in Rome, Bandinelli’s death.
Tommaso Mozzati speculated that Bandinelli transferred his design to Vico
before 1546, when the engraver left Florence for Rome, and that the publication
may have been delayed by a deteriorating relationship between the two
artists.19 If Vico intentionally withheld the design until after Bandinelli’s
death, it might explain how Palumbo became its first publisher more than a
decade later. 1 2 Pevsner 1940, pp. 40–41; Houston and Ithaca 2005–06, p. 86.
This engrav- ing, cat. 1 and Bandinelli’s own writings in his Memoriale are the
only evidence we have for the existence of his academies (see cat. 1, note 1).
Weil-Garris 1981, pp. 246–47, note 39. Cellini’s fragmentary treatise was
probably written during the last two decades of his life but published only 88
89 which post-dates rh exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 2003-020 This engraving reproduces, in reverse and with
variations in detail, an unfinished engraving by Niccolò della Casa, based on a
lost drawing by Bandinelli.2 It is unclear why the Della Casa engraving, which
is known in only a few impressions, was never finished. The present engraving
is smaller than its model, resulting in a few compositional differences. It was
attributed to Nicolas Beatrizet (c. 1507/15–1573) by Erna Fiorentini and
Raphael Rosenberg and while this was accepted by James Clifton, it was rejected
by Nicole Hegener and Tommaso Mozzati.3 Until further information comes to
light, it is perhaps safer to attribute it to an unidentified Italian engraver
working in Rome in the mid-16th century. Hegener identified a further state
with the added inscription at centre right, ‘effigies / Bacci Bandinelli sculp
/ florentini’ and Karl Heinrich von Heinecken mentioned yet another without
inscriptions (untraced).4 If Bandinelli’s self-portrait inserted among his
students in his academies (cats 1–2) emphasises his role as teacher and mentor,
this image speaks of a solitary and relentless self-promoter.5 By 1548, the
engraving’s date, Bandinelli had achieved great success. He had served two
Popes, Leo X (Giovanni de’ Medici) and Clement VII (Giulio de’ Medici), for
whom he had carried out several important commissions including the
classicising Orpheus and Cerberus (Palazzo Medici Riccardi, Florence, c. 1519)
modelled after the Apollo Belvedere, the monumental Hercules and Cacus (Piazza
della Signoria, Florence, 1523–34) and the papal tombs in Santa Maria sopra
Minerva (1536–41).6 He was currently serving the Grand Duke Cosimo I de’
Medici. And yet, it was Baccio’s close alliance with the Medici, coupled with
his on- going rivalry with Michelangelo, a staunch anti-Medicean Republican,
and others, like Benvenuto Cellini (1500–71) that denied him the full respect
and admiration of his Florentine contemporaries. His intense competitiveness
and difficult character only exacerbated his contemporaries’ widespread dislike
of him.7 Projecting strength, power and authority, this arresting image,
clearly intended for circulation, was no doubt Baccio’s attempt to right those
perceived wrongs.8 By fusing motifs from his own work with motifs from antique sculpture
– absorbed and recast – Bandinelli sought to elevate his status and rank and to
assert his position while defending his work by associating it with the art of
Greece and Rome.9 The multi-layered and intertexual combination of themes and
references that resulted contributes to the engraving’s enigmatic allure and
demands careful interpretation. Significantly, it is the first image in the
exhibition to demon- strate how Antique imagery could be used by an artist to
promote his own art and his own achievements. The engraving shows us a man of
great physical presence, seated as though enthroned. His elevation is enhanced
by a rich costume – the luxurious fur-lined cloak nonchalantly slides off one
shoulder – more typical of an aristocrat than an artist. Emblazoned on his
chest is the cross of St James, the emblem of the prestigious 12th-century
Spanish military Order of Santiago, conferred on Bandinelli in 1530 by the Holy
Roman Emperor Charles V who over- ruled protests that it was unmerited.
Bandinelli took great pride in the honour, justifiably, since he was the only
artist to be awarded the cross of St James, which he included in other
self-portraits (see cat. 2).10 Immediately below the sharp lower point of the
cross his prominent codpiece protrudes through the folds of his tunic, an
unsubtle reference to his virility. His ‘progeny’ – a selection of his small
models and statu- ettes – are seen throughout. Proprietorially and prominently
cradled, and elevated on its own column base, is the figure of Hercules, the
son of Zeus, who heroically carried out the Twelve Labours. Hercules played a
central role in Bandinelli’s work.11 His near obsession with the demi-god, the
embodi- ment of strength in the face of adversity, is demonstrated in Hercules’
constant appearance – in bronze, marble, stucco and drawing – throughout
Bandinelli’s career.12 And since Hercules was the mythical founder of Florence
and an exemplum much favoured by the Medici, in linking his own image so
closely to the hero, Bandinelli was also referencing his association with his
native city and its ruling house.13 Hercules was the perfect foil to David,
another protector of Florence, and to represent the hero gave Baccio the
opportu- nity to display his mastery of the muscular male nude in heroic and
often violent action. Bandinelli also holds a rather different figure of
Hercules in the della Casa engraving, c. 1544 and in his grand painted
self-portrait of c. 1550 (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston) he proudly
displays a preparatory drawing for the Hercules and Cacus his most spectacular
and ambitious sculpture.14 This colossal group, – a pendant to Michelangelo’s
David – and a commission that he had taken away from Michelangelo, brought him
considerable fame despite the unfavourable reception that it received on its
unveiling in 1534.15 In effect, Hercules was Bandinelli’s calling card and his
prominence in his self-portraits is unsurprising.16 Small-scale, classicising
models made in wax and terra- cotta such as those seen here and in his other
prints (cats 1–2), were central to Bandinelli’s work as tools for teaching, and
as preparation for large-scale sculpture; many were translated into bronze, as
independent statuettes.17 Here, for example, the pose of the male nude seen
from behind standing in contrapposto at the right anticipates that of Adam in
Baccio’s Adam and Eve group of 1551 (Bargello, Florence).18 Perhaps because
Bandinelli was still working out the pose or perhaps to give the figure the
aura of a damaged antique, the left arm is missing below the elbow; several of
the other figurines in the engraving derive from the Antique but have been, as
it were, naturalised into Bandinelli’s own idiom. On equal footing with the
statuette of Hercules that he holds are the two standing female nudes on the
left, also elevated on a column shaft. They derive from the Cnidian Venus of
the 4th century bc, among the most famous works of the Greek sculptor,
Praxiteles, which was probably known Fig. 1. Baccio Bandinelli, A
Standing Female Figure, c. 1515, red chalk, 410 × 242 mm, private collection,
Switzerland Fig. 2. Giulio Bonasone, Saturn Seated on a Cloud Devouring a
Statue, c. 1555–70, etching and engraving, 254 × 154 mm, The British Museum,
Department of Prints and Drawings, London, H,5.137 Fig. 3. Anonymous, Ferrarese
School, Fortitude, playing card, c. 1465, engraving, 179 × 100 mm, The British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1895,0915.36 90
91 Fig. 4. Amico Aspertini, Lion Attacking a Horse, pen and light
brown ink, 107 × 146 mm, Staatliche Museen, Kupferstichtkabinett, Berlin, KdZ
25020 to Bandinelli through a Roman copy.19 Intent on demonstrat- ing his full
knowledge of the statue Baccio presents one woman frontally, while the other,
headless, is seen from behind.20 Slim and regularly proportioned, the Cnidian
Venus was Bandinelli’s preferred female type and examples abound in his
sculpted and graphic work.21 A highly finished red chalk drawing (private
collection Switzerland, fig. 1) compares well with the engraved nude on the
left.22 The foreground is occupied with further statuettes: another Hercules
stands on a pedestal on the left and five male torsos are scattered on the
ground at his feet. While they loosely evoke the Antique – the two on the lower
left, for example, recall the Belvedere Torso (p. 26, fig. 23), they have
become generalised.23 Headless and limbless, like antique fragments, they
suggest once more that Bandinelli was equating his work with that of the
ancients. The lion has been interpreted diversely and Bandinelli may well have
intended multi-layered interpretation. It has widely been seen as a heraldic
Medici lion (marzocco) and, as such, a reference to Bandinelli’s favoured
position with the Medici as well as his loyalty to their regime.24 Interpreted
as devour- 25 ing a lower thigh and knee, the lion has also been seen as a
symbol of the artist’s prowess in sculpture. A more complex explanation
suggests a link with Saturn devouring a boulder, a subject illustrated in a
print by Giulio Bonasone (fig. 2), which is accompanied by the motto, ‘in
pulverem reverteris’ (‘unto dust shalt thou return’).26 As such, Bandinelli is
not merely subjugating a wild animal but also triumphing over Time.27 More
simply, the lion may also refer to Bandinelli’s favourite hero, Hercules, who
conquered the Nemean lion, or evoke Fortitude whose traditional attributes were
a lion and a broken column, here transformed into a plinth (fig. 3).28 Finally,
it may be that Bandinelli was again referencing the Antique: the Lion Attacking
a Horse – part of a colossal Hellenistic group (Palazzo dei Conservatori, Rome)
– in Bandinelli’s day, a limbless fragment on the The fragment was considered
‘of such excellence that Michelangelo judged it to be most marvellous’.31 There
has been much speculation about Bandinelli’s pose in the engraving. It might,
in fact, refer to the Belvedere Torso,32 as ‘restored’ in an engraving by
Giovanni Antonio da Brescia (1485–1525) of c. 1515 (fig. 5).33 The arrangement
of his legs is also close, in reverse to that of Laocoön, (p. 26, fig. 19), a
direct copy of which, in marble (c. 1520–25, Florence, Uffizi) com- missioned
by Leo X, was one of Baccio’s greatest successes.34 His preparatory drawing for
the sculpture also in the Uffizi (fig. 6) shows him seated in a comparable pose
as seen here.35 Once again, therefore, we see the sculptor referencing and
promoting his own work, employing the associative authority of Antique imagery.
In sum, Bandinelli presents himself here not only with the strength and fortitude
of a modern Hercules who successfully vanquished his adversaries but also as
the greatest, most recognisable hero- martyr and father from antiquity,
Laocoön, with his sculpted ‘offspring’ triumphant. 14 15 16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 Weil-Garris 1981, pp. 236–37. For the
painting, see O. Tostmann, in Florence 2014, pp. 510–13, no. 69, repr.; Mozzati
2014, pp. 458–63. For a full discussion of the statue, see Vossilla 2014, pp.
156–67, repr.; Florence 2014, p. 573, no. VII. For Herculean imagery in the
engraving, see Hegener 2008, pp. 382–86, 389–91, 395–96. Barkan 1999, p. 304;
Krahn 2014, pp. 324–31. As first observed by Bruce Davis in Los Angeles, Toledo
and elsewhere 1988–89, p. 77. For the sculpture, see D. Heikamp, in Florence
2014, pp. 314–15, no. 22, repr. He also appears, in adapted form, in other
works by the sculptor (Fiorentini 1999, p. 152). First noted by B. Davis, in
Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 77; Barkan 1999, pp. 308–09, fig.
5.19. One half expects to see to a third figure to complete the ‘Three Graces’.
On the use of this double-view and his drawings that may relate to these
figures, see Fiorentini 1999, pp. 151–52. Barkan 1999, pp. 309–12; V. Krahn, in
Florence 2014, pp. 356–59, no. 28. B. Davis in Los Angeles, Toledo and
elsewhere 1988–89, p. 77. The drawing was formerly with Yvonne Tan Bunzl (Bunzl
1987, no. 5, repr.; see also V. Krahn, in Florence 2014, p. 356, fig. 1). Other
copies by Bandinelli after the same statue, one in red chalk, the other, in pen
and ink, are on a double- sided sheet in in the Biblioteca Reale, Turin
(Bertini 1958, p. 17, no. 37; Barkan 1999, p. 311, figs. 5.21, 5.22). The same
Cnidian Venus type occurs at left in his drawing, Four Female Nudes, in the Art
Gallery of Toronto, 2006/432 (repr. in Aldega and Gordon 2003, p. 8, no. 1). A
woman very similar to that engraved at left both in pose, body type and
hairstyle, appears on a sheet in the Louvre, formerly classed as Bandinelli and
now given to Giovanni Bandini (1540–1599), Viatte 2011, pp. 246–47, R2, repr.
Houston and Ithaca 2005–06, p. 34. Of course, they could also be a further
Herculean reference, as the Torso was in the Renaissance believed to be that of
Hercules (Haskell and Penny 1981, p. 313). Fiorentini 1999, p. 150, followed by
Hegener 2008, p. 388, considered one of the torsos, the second from the left,
to be based on the torso of a satyr now in the Villa Barbarini, Castel
Gandolfo, Rome, which was in the Ciampolini collection in the Renaissance (Liverani
1989, pp. 92, no. 34, 94–95, figs. 34.1–4). Given the differences in pose, the
present author cannot accept this view. Bandinelli adapted the pose of the
Torso Belvedere for his red chalk drawing, A Nude Man, Seated on a Grassy Bank
in the Courtauld Gallery, as noted by Ruth Rubinstein (Cambridge 1988, pp.
26–27, no. 8, repr.); see also Barkan 1999, pp. 308–09, fig 5.17. Hegener 2008,
p. 383. Houston and Ithaca 2005–06, p. 34. T. Mozzati, in Florence 2014, p.
527, who reports that this view is shared by Mino Gabriele. That author notes
(repeating Massari 1983, p. 125) that the concept is paralleled in a passage
from Ovid’s Metamorphosis (15.236–38). However, it is also part of a famous
passage from Genesis 3:19: ‘In the sweat of thy face shalt thou eat bread, till
thou return unto the ground; for out of it wast thou taken: for dust thou art,
and unto dust shalt thou return.’ For the print, see Massari 1983, vol. 1, p.
125, no. 223, repr. T. Mozzati, in Florence 2014, p. 527, who also considers
that Bandinelli holds a complete statuette, not a fragment like the others in
the print, as a modern manifestation of classicism. Zucker 1980, p. 185, no.
53-A (136), repr.; Zucker 2000, p. 47, .036a. See also Ripa’s illustrated
edition of 1603 (Buscaroli 1992, pp. 142–44, repr.). Fiorentini 1999, p. 151;
Hegener 2008, p. 383. For the statue: Haskell and Penny 1981, pp. 250–51, no.
54, fig. 128; Bober and Rubinstein 2010, pp. 236–37, no. 185. Faietti and
Kelescian 1995, pp. 220–21, no. 4; Bober and Rubinstein 2010, p. 237, fig.
185a. Aldrovandi 1556, p. 270, cited and translated by Bober and Rubinstein
2010, p. 236. As proposed by Hegener (2008, pp. 380, 382, 389–90) who
considered his arms to be based on those of Christ in Michelangelo’s Last
Judgment. Zucker 1980, p. 78, no. 5 (100), repr.; Zucker 1984, pp. 350–51,
.028, repr. The pose also anticipates Bandinelli’s God the Father sculpture of
the 1550s in S. Croce, Florence (Florence 2014, pp. 595–98, no. XVIII, repr.).
Although intended as a gift for François I, it never reached its intended
recipient and remained with the next Pope Clement VII, in Florence. Bober and
Rubinstein 2010,pp. 165–66, no. 122b. Capecchi (2014, pp. 129–55) provides a
thorough account of the project. D. Cordellier, in Paris 2000–01, pp. 237–40,
no. 74, repr. 29 Aspertini (1472–1552) (fig.4; Kupferstichtkabinett, Berlin).30
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 avl Rhea Blok has noted (e-mail, 12 August 2014)
that the same collector’s mark is found on Henri Mauperché’s etching, L’Ange
conseillant Tobie, with A. & D. Martinez (Paris 2003, p. 5, no. 20) and a
print by Vincenzo Mazzi (Stage Set from the Caprici Teatrali, Bologna, 1776) in
the Metropolitan Museum of Art, New York, 66.500.27. It also appears on the
reverse of the drawing by Hubert Clerget, La Maison de Boucher, rue Carnot à la
Ferte-Bernard, with C. J. Goodfriend, New York, in 2014. Fiorentini 1999, pp.
150–53, no. 33; Fiorentini and Rosenberg 2002, p. 36, fig. 19; Hegener 2008,
pp. 380–91, version I, fig. 221, p. 617, no. 15. J. Clifton in Houston and
Ithaca 2005–06, pp. 32–34, no. 1; Hegener 2008, p. 391; Mozzati in Florence
2014, pp. 526–27, no. 76. Erna Fiorentini previously attributed it to Casa with
a query (1999, p. 153). Hegener 2008 p. 618, no. 17, fig. 226; Heinecken
(1778–90, vol. 2, p. 90). For his portraiture and use of it for self-promotion,
see Weil-Garris 1981, pp. 237–38; Weil-Garris Brandt 1989; Mozzati 2014, pp.
452–63. Florence 2014, p. 568, no. III; p. 573, no. VII; pp. 576–81, nos IX.-X.
(R. Schallert). The Orpheus and his copy of the Laocoön (ibid., p. 571, no. V)
earned his reputation as ‘a great young talent who can export the Belvedere’.
(Barkan, 1999, p. 279). His personality is revealed in his letters and the
lengthy account in Vasari’s Lives (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, pp.
238–76). See also Weil-Garris 1981, pp. 223–24; Weil-Garris Brandt 1989, p.
497. Along with the date, 1548, the engraving bears the initials and
inscription, ‘A.S.Excudebat.’, presumably Antonio Salamanca, the leading
publisher of prints in Rome in the mid-16th century (Fiorentini and Rosenberg
2002, p. 38). Many of the prints he published were of Roman antiquities. See
London 2001–02, p. 233; Pagani 2000; Witcombe 2008, pp. 67–105. Weil-Garris
1981, p. 231; Weil-Garris Brandt 1989, p. 497. For a fundamental discussion of
Bandinelli and the Antique, see Barkan 1999, pp. 271–408. Weil-Garris Brandt
1989, pp. 497, 499–500. Weil-Garris 1981, p. 237. See V. Krahn, in Florence
2014, pp. 372–75, cat no. 32 who further notes the similarity between the
Hercules appearing in outline leaning on his club at right in the unfinished
print by Niccolò della Casa (Fiorentini and Rosenberg 2002, p. 36, fig. 19),
and Bandinelli’s Hercules with the Apple of the Hesperides, c. 1545, in the
Bargello in Florence (ibid., pp. 372–75, cat. no. 32, repr.). There are many
other engraved representations of Hercules subjects by or based on Bandinelli,
who evidently planned a series, as noted by Roger Ward (in Cambridge 1988, p.
74, under cat. no. 42). See also M. Zurla, in Florence 2014, pp. 388–93, cat.
nos 37–39. Weil-Garris 1981, p. 237; Houston and Ithaca 2005–06, p. 34.
Campidoglio – freely interpreted by artists like Amico 92 93 Fig.
5. Giovanni Antonio da Brescia (fl. 1490–1519), The Belvedere Torso with Legs and
Feet, as Hercules, c. 1500–20, engraving, 166 × 103 mm, The British Museum,
Department of Prints and Drawings, London, 1845,0825.258 Fig. 6. Baccio
Bandinelli, Laocoön, pen and brown ink, 1520s, 417 × 265 mm, Uizi, Florence,
inv. 14785 F (recto) 4a. Jan van der Straet, called Johannes Stradanus
(Bruges 1523–1605 Florence) The Practice of the Visual Arts 1573 Pen and brown
ink with brown wash and white heightening with touches of grey, incised for
transfer 436 × 293 mm Inscribed recto, l.c., in pen and brown ink, in reverse
sense: ‘io stradensis flandrvs in 1573 cornelie cort excv’ provenance: Sir H.
Sloane bequest, 1753. literature: Hind and Popham 1915–32, vol. 5, p. 182, no.
1; Ameisenowa 1963, p. 58; Wolf-Heiddeger and Cetto 1967, p. 171, no. 73, repr.
on p. 431; Heikamp 1972, p. 300 and fig. 1 on p. 302; Heidelberg 1982, p. 29,
no. 52, pl. 1 on p. 17; Sellink 1992, p. 46; Rotterdam 1994, pp. 195–99 (in
Dutch), pp. 200–05 (in English), fig. a on p. 204; Baroni Vannucci 1997, pp.
63–64, 247, no. 313, repr. on p. 246. exhibitions: Florence 1980, p. 213, no.
523, not repr. (G. G. Bertelà); London 1986, no. 144, repr. on p. 193 (N.
Turner); Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97, pp. 148–49, no. 39 (M.
Kornell); London, Warwick, and elsewhere 1997–98, pp. 19, 25, 119, no. 142 (D.
Petherbridge and L. Jordanova); London 2001–02, p. 21, no. 4 (M. Bury); Bruges
2008–09, pp. 227–28, no. 20 (A. Baroni). The British Museum, Department of
Prints and Drawings, London, SL,5214.2 exhibited in london only 4b. Cornelis
Cort (Hoorn 1533–before 1578 Rome) After Jan van der Straet, called Johannes
Stradanus (Bruges 1523–1605 Florence) The Practice of the Visual Arts 1578
Engraving State I of II1 432 × 295 mm Inscribed recto, l.c., on wooden box:
‘Cornelius Cort fecit. / 1578’; along bottom: ‘Illmo et Exmo Dn ́o Iacobo
Boncompagno Arcis Praefecto, ingenior, ac industriae fautori, Artiú nobiliú
praxim, á Io, Stradési Belga artifiosè expressá, Laureti’ Vaccarius D.D. Romae
Anno 1578.’; u.r.: ‘PICTVRA’; c.l. on table in background: ‘FVSORIA’; u.c.
below statue: ‘STATV ARIA’; l.l. on table: ‘ANATOMIA’; below statue of horse:
‘SCVLPTVRA’; c.r. on book on table: ‘ARCHITECTVRA’; r. on paper on table:
‘Typorum eneorum / INCISORIA’; l.c. on stool: ‘Tyrones pi / cture’. provenance:
possibly entered Rijksmuseum collection late 19th century (L.2228)2 literature:
Hind and Popham 1915–32, vol. 5, p. 182; Bierens de Haan 1948, p. 199, no. 218,
fig. 53; Hollstein 1949–2001, vol. 5, p. 58, no. 218, repr.; Ameisenowa 1963,
p. 58; Wolf-Heiddeger and Cetto 1967, pp. 171–72, no. 74, repr. on p. 431;
Heikamp 1972, p. 300, fig. 2 on p. 302; Strauss 1977, vol. 1, pp. 278–79,
repr.; Florence 1980, p. 213; Parker 1983, pp. 76–77, repr. (as state II);
Roman 1984, pp. 88–91, fig. 69; Strauss and Shimura 1986, p. 249, 218.199;
Liedtke 1989, p. 190, no. 53, repr. on p. 191; Sellink 1992, p. 46, fig. 18 on
p. 47; Rotterdam 1994, pp. 195–99 (in Dutch), pp. 200–205 (in English), no. 69;
Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97, pp. 148–51, no. 40; Baroni Vannucci
1997, pp. 63–64, 436, no. 772; Sellink and Leeflang 2000, part 3, pp. 118–19,
no. 210; London 2001–02, pp. 18–21, no. 3; Munich and Cologne 2002, pp. 321–22,
no. 112; Wiebel and Wiedau 2002, p. 154, repr. on p. 155; Perry Chapman 2005,
p. 116, fig. 4.7 on p. 117. exhibitions: Vienna 1987, p. 320, no. VII.25 (M.
Boeckl); Amsterdam 2007, no. 5 (C. Smid and A. White); Bruges 2008–09, no. 21
(A. Baroni); Compton Verney and Norwich 2009–10, pp. 18–19, no. 16. their
careers in Italy. Jan van der Straet was born in Bruges in 1523, but we know
very little of his life before he arrived in Italy around 1545.4 He settled in
Florence but worked in both Rome and Naples, and became a close collaborator of
Giorgio Vasari (1511–74), assisting him in the decoration of the Palazzo
Vecchio and at Poggio a Caiano. Like Vasari, Van der Straet was immensely
versatile, working on paintings and portraits, making cartoons for tapestries
and creating hundreds of designs for prints. He died in Florence in 1605, and
is better known to posterity by the Italianised version of his name, Johannes
Stradanus. He nevertheless maintained his Flemish identity by signing his works
with variations of ‘FLANDRUS’, as seen in the exhibited drawing; however, it is
difficult to decipher, because Stradanus wrote the inscrip- tion in reverse.
This is clear evidence that the drawing was intended as a design for a print.
All the figures use their left hands, which is further proof, as are the clear
indentation lines made to transfer the design to the plate. Stradanus’
inscription is dated 1573, and includes the name of the Dutch- man Cornelis
Cort, who would engrave the drawing five years later, in 1578.5 Cort is first
documented working in the printing house of Hieronymous Cock (c. 1510–70) in
Antwerp, around 1553, before he travelled to Italy in 1565.6 At first he worked
in Venice, where he formed a famous partnership with Titian (c. 1488–1576), but
he later moved to central Italy. Cort probably met Stradanus in 1569 in
Florence, where the Medicis had requested his presence to engrave their family
tree.7 In the engraving, Cort moved his own name to the block at the centre
foreground, where he also inscribed the date 1578. Stradanus’ inscription was
replaced by one from the publisher, Lorenzo Vaccari (active 1575–87),
dedicating the work to Giacomo Boncampagni, Prefect of the Castel Sant’Angelo
and son of the newly appointed Pope Gregory XIII (r. 1572–85).8 Cort made
several further changes to Stradanus’ design, the most obvious of which are the
inscriptions added to clarify the various activities being conducted around the
room. Thus we can identify the three arts of disegno taking place in one
institution, with painting (‘PICTVRA’) on the wall, sculpture (‘STATVARIA’ and
‘SCVLPTVRA’) on the plinths in the centre, and architecture (‘ARCHITECTVRA’),
which is given short shrift, repre- sented only by the man seated at the table
before the Venus, holding a pair of dividers. The architect is in fact
overshad- owed by the unusual addition beside him of a seated engraver, whose
burin rests on the corner of the table next to the more prominent inscription
‘Typorum eneorum INCISORIA’. Michael Bury thought this focus on engraving was
added at Cort’s urging,9 but Stradanus, as the inventor of more than 560
designs for prints, may himself have decided to place unprecedented emphasis on
the graphic arts.10 Of the three genres of painting – landscape, portraiture
and history paint- ing – the latter was considered the most admirable, and so
it is appropriate that the painting on the wall depicts an ancient battle
scene. Sculpture is depicted hierarchically, with prom- inence given to the
grand marble sculptures atop the plinth, distinguished from the lesser arts of
wax modelling and bronze casting, embodied by the rearing horse below. While
the older bearded masters are at work within their individual disciplines,
their true purpose is to guide the next generation of artists – the young,
clean-shaven students scattered around the room. The foreground is therefore
occupied with training exercises, as the pupils learn to draw after the Antique
and the human body before attempting the loftier projects of sculpture and
painting, exemplified in the upper back registers of the scene. The role of the
Antique is actually more prominent in the print than in the drawing, as the
statuette of Venus – which, like the statuettes in Bandinelli’s academies (cats
1 and 2), is probably all’antica rather than an antique original – meets the
gaze of a young pupil, whose quill is poised to draw her. This same youth in
Stradanus’ design has already filled his sheet with repeated sketches of eyes.
This reflects a different practice, referred to as the ‘alphabet of drawing’,
in which students were encouraged to start with the smallest part of the human
body, usually the eyes, gradually building up a repertoire of the individual
parts before assembling them into more complex configurations. In the same way,
a writer must first learn the alphabet and how to form indi- vidual letters
into words before being able to construct sentences. Benvenuto Cellini
(1500–71) described this as a common practice: ‘The teachers would put a human
eye in front of those poor and most tender youths as their first step in
imitating and portraying; this is what happened to me in my childhood, and
probably happened to others as well’ . 1 1 His statement is corroborated not
only by Stradanus’ drawing, but by a similar youth in Pierfrancesco Alberti’s
(1584–1638) etching of a studio (cat. 2, fig. 1) and by a sheet of eyes from
Odoardo Fialetti’s (1573–1638) drawing-book (p. 34, fig. 37). Stradanus
repeated the youth and his drawing of eyes in another design for a print, which
appeared in a series called Nova Reperta, published by Philips Galle (1537–
1612) in the 1590s (fig. 1). This ‘A B C ’ technique of drawing, as well as the
important role of the Antique, were codified in Federico Zuccaro’s (c.
1540–1609) first statutes for the Accademia di San Luca, ‘re-founded’ in Rome
in 1593.12 The idea of progressing from simple elements to a complex whole
originated with Leon Battista Alberti (1404–72), and he recommended a similar
method for the study of human anatomy, starting with the bones before adding
muscles and Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-BI-6381 exhibited in haarlem only This
crowded, idealised vision of a workshop for training artists is the natural
successor to the earlier academies depicted by Baccio Bandinelli (cats 1 and
2). The Antique still plays a prominent role, seen in the large marble statues
in the centre depicting Rome personified next to the river god Tiber, both
based on the well-known sculptures in the Capitoline,3 and by the statuette of
a Venus Pudica type with her back to us standing on the table in the
foreground. Equal importance, however, is accorded to the study of anatomy, 94
and the young pupils in the foreground focus their attention on the skeleton
and cadaver suspended from ropes and pulleys. This reflects the later
16th-century emphasis on the study of anatomy as an integral part of the
artist’s education , a tendency that was already evident in the skeletons
added to Bandinelli’s second academy print (cat. 2), and which is fully
realised in this scene. The drawing and print catalogued here were produced in
close collaboration by two Northern artists who both made 95 96
97 finally flesh.13 The students in Stradanus’ drawing are dili- gently
following these instructions by examining the bones of a skeleton, while a
bespectacled tutor flays the arm of a corpse to grant them a view of the musculature.
Regardless of which object they are studying, all the pupils are engaged in
drawing, considered to be the essential element in their education. Stradanus’
design is therefore an allegory of the ideal academy, in which all of the arts
are improbably combined under one roof to offer the most well-rounded and
comprehensive instruction to the next generation of artists. Detlef Heikamp,
however, believed it to represent a specific academy, the Accademia di San Luca
in Rome, and to be the pendant to another drawing by Stradanus, now in
Heidelberg, depicting the Accademia del Disegno in Florence (fig. 2).14 Most
other scholars disagree, however, as the Accademia di San Luca was not
officially founded until 1593, exactly 20 years after the drawing was made.15
The drawing also predates a Breve issued by Pope Gregory XIII in 1577, urging
the foundation of such an academy.16 Heikamp was correct, however, in pointing
out the Roman symbolism of this drawing, evident in the grand statue of Rome
personified, based iconographically on Minerva, flanked by the river god Tiber
and the she-wolf suckling Romulus and Remus. The Heidelberg drawing, by
contrast, is decidedly Florentine, showing Brunelleschi’s dome, the river god
of the Arno and the Florentine lion, the Marzocco. However, the two drawings
are very different Fig. 2. Johannes Stradanus, Allegory of the Florentine
Academy of Art, c. 1569–70, pen and brown ink, brown wash and white
heightening, 465 × 363 mm, Kurpfälzisches Museum der Stadt Heidelberg, Inv. Nr.
Z 5425 in size,17 and the consensus of opinion is that they are not a pair,
representing separate allegorical, idealised Roman and Florentine teaching
traditions.18 Stradanus himself was a founding member of the Accademia del
Disegno, which opened in 1563 in Florence. The study of anatomy was a central
precept of the Acca- demia, and, while acting as a consul in the winter of
1563, Stradanus was responsible for organising a dissection for the students.19
His experience guiding and shaping young Florentine artists must have informed
his designs. Perhaps Stradanus was compelled to portray such an academy in
which the three arts of disegno are exalted and glorified in order to allay
growing concerns about the status of art and artists.20 Alessandra Baroni made
the radical proposal that Cort was the driving force behind the project, and
that it was conceived around 1569 when he and Stradanus were both working in
Florence.21 The Medicis commissioned Cort to engrave their family tree, and
while he was in Florence he created a series of prints with Florentine and
Medici themes, including engravings of tombs in the Medici Chapel. Cort may
have undertaken these projects on his own initiative, and the Heidelberg
drawing would have made a fitting addition to the series. An engraving of it,
however, was never executed, perhaps because a receptive audience could not be
found, but in Rome four years later, Cort may have found a more conducive
atmosphere and convinced Stradanus to resume the endeavour. Whatever the
motiva- tion, the design proved very popular, as evidenced by the existence of
two early copies of the engraving, the first of 22 which was published in
Venice around 1580. Clearly, Italian audiences were fascinated by the subject
of art and the requisite training necessary for its creation, in which the
Antique played a pivotal role. rh 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18
19 20 21 22 The second state was printed 200 years later, when the plate came
into the possession of Carlo Losi, who changed the date on it to 1773 (Bruges 2008–09,
p. 229). I am grateful to Erik Hinterding, Curator of Prints at the
Rijksmuseum, for his correspondence regarding this provenance. Bober and
Rubinstein 2010, pp. 89–90, no. 42 and pp. 113–14, no. 66. Janssens 2012, pp.
9–10. Karel van Mander’s biography of Van der Straet is very brief (Van Mander
1994–99, vol. 1, pp. 326–29). A better source is Borghini 1584, pp. 579–89.
There is an excellent chronology of his life, including lists of the related
archival documents, in Baroni Vannucci 1997, pp. 446–51. The inscription
‘CORNELIS CORT EXCV’ suggests that Cort had intended to publish the print
himself. He may have struggled to do so, explaining the five-year gap between
the date of the drawing and the pub- lication of the print, and it was
published by another man, Lorenzo Vaccari (Bruges 2008–09, pp. 228–29). It may
even have been published post- humously, as Cort died in 1578 (Sellink and
Leeflang 2000, part 3, p. 119). For Cort’s biography, see Thieme-Becker
1907–50, vol. 12, pp. 475–77. Cock was also the first publisher with whom
Stradanus worked, in 1567, and they had a long partnership (Baroni 2012, p.
91). Bruges 2008–09, p. 228. Boncompagni was appointed to this post in 1572,
and in April 1573 was promoted to Governor General of the Church. It is strange
that the inscrip- tion added to the print in 1578 refers to Boncompagni by the
lesser title of Prefect, which Michael Bury took as proof that the print was
more likely to have been executed in 1573, the same year as the drawing. He
thought it possible that the ‘3’ had simply been changed to an ‘8’ in the date
1578 on the stool; however there are no extant 1573 versions of the print
(London 2001–02, pp. 18, 21). London 2001–02, p. 18. Leesberg 2012a, p. 161.
Amornpichetkul 1984, p. 117 and Cellini 1731, p. 141. Cellini went on to say he
considered this a ‘poor method’ but he agreed on the means of building up the
bones of a skeleton in order to draw a successful nude. See also Aymonino’s
essay in this catalogue, pp. 33–34. Appendix, no. 7. Alberti 1972, p. 75 (book
2, chap. 36) and p. 97 (book 3, chap. 55). Heikamp 1972, p. 300. It is true
that for decades the idea for such an institution had been simmer- ing,
especially at the behest of Federico Zuccaro, a founding member of the
Accademia del Disegno in Florence. He was unhappy with its tenets and sought
reforms, eventually simply founding the Accademia di San Luca instead (Pevsner
1940, pp. 59–60). Heikamp’s theory has been rejected in London 2001–02, p. 21
and Bruges 2008–09, p. 226. The Pope decried the level of decadence in
contemporary art and blamed it on defective training of young artists, arguing
that if they had been properly instructed in both art and religion, they would
not sink to such lows (Pevsner 1940, p. 57). The Heidelberg drawing is much
larger and measures 465 × 363 mm. The figures in the Heidelberg drawing also
all use their left hands, so it must have been intended for a print; however,
no such print has come to light (London 2001–02, p. 21). Ottawa, Vancouver and
elsewhere 1996–97, p. 148. Rotterdam 1994, p. 200. Bruges 2008–09, pp. 226–27.
Bruges 2008–09, p. 229. For a list of the copies, see Sellink and Leeflang
2000, part 3, p. 119. For the practice of copying after Stradanus’ prints, see
Leesberg 2012a. 98 99 Fig. 1. Published by Philips Galle after a
design by Johannes Stradanus, Color Olivi, plate 14 in Nova Reperta series, c.
1580–1600, engraving, 201 × 271 mm, private collection 5. Federico
Zuccaro (Urbino c. 1541–1609 Rome) Taddeo in the Belvedere Court in the Vatican
Drawing the Laocoön c. 1595 Pen and brown ink, brush with brown wash, over
black chalk and touches of red chalk, 175 × 425 mm Inscribed recto in brown pen
and ink by the artist on the building in the background: ‘le camore di
Rafaello’; on the figure’s tunic in capital lettering, ‘THADDEO ZUCCHARO’;
numbered u.r. in brown ink: ‘17’. provenance: Gilbert Paignon Dijonval
(1708–92); Charles-Gilbert, Vicomte Morel de Vindé (1759–1842), see L. 2520;
Samuel Woodburn (1786–1853), 1816; Thomas Dimsdale (1758–1823), see L. 2426;
Samuel Woodburn, 1823; Sir Thomas Lawrence (1769–1830), L. 2445; Samuel
Woodburn, 1830; Sold Christie’s, London, 4 June 1860, part of lot 1074; bought
by Sir Thomas Phillipps (1792–1872); Thomas Fitzroy Fenwick (1856–1938); Dr A.
S. W. Rosenbach (1876–1952), 1930; Philip H. and A. S. W. Rosenbach Foundation
until 1978; The British Rail Pension Fund, 1978; Their sale, Sotheby’s, New
York, 11 January 1990, lot 17; Finacor, Paris; Their sale, Christie’s, London,
28 January 1999, part of lot 35 (no. 17), from whom acquired. selected
literature:1 Rossi 1997, p. 64; Acidini Luchinat 1998, vol. 1, pp. 14, 16, 22,
fig. 20; vol. 2, p. 225; Paul 2000, pp. 5–6, fig. 1; Paris 2000–01, pp. 379–80,
under no. 185 (C. Scailliérez); Silver 2007–08, p. 86; Lukehart 2007–08, p.
105; Cavazzini 2008, p. 50, fig. 26; Tronzo 2009, pp. 49, fig. 6, 52–54;
Deswarte-Rosa 2011, pp. 27–28, 31, fig. 4; Pierguidi 2011, pp. 29–30, fig. 3;
Luchterhandt 2013–14, pp. 38–39, fig. 11. exhibitions: London 1836, p. 11, no.
17, not repr.; Los Angeles 1999 (no catalogue); Rome 2006–07, pp. 159–60, no.
51 (M. Serlupi Crescenzi); Los Angeles 2007–08, pp. 24, 33–34, no. 17 (see
also, pp. 7, 40, 70, 86, 127). Fig. 1. Apollo Belvedere, Roman copy of the
Hadrianic period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc,
marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome inv. 1015 Fig. 2. Laocoön, possibly a
Roman copy of the 1st century ad after a Greek original of the 2nd century bc,
marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1064 The J. Paul
Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.17 exhibited in london only Look here, O
Judgment, how he observes the antique and Polidoro’s style as well as Raphael’s
work he studies. (Ecco qui, o Giuditio, osservando Va de l’antico, e Polidoro
il fare E l’opre insiem di Rafael studiando)2 The series of twenty drawings by
Federico Zuccaro of his older brother, Taddeo (1529–66), is a unique treasure
of Renaissance drawing.3 With cinematic realism and narrative flair, the
drawings tell the story of Taddeo’s travails and even- tual success as a young
artist in Rome in the 1540s. It begins with his heart-rending departure at
fourteen from the family home in S. Angelo in Vado, a provincial town in the
Marches, and his arrival in the Eternal City. There Taddeo sets about following
the prescribed course of study typical for any aspir- ing painter of the
period. First, he apprentices with a local painter, performing menial tasks –
preparing pigments and household chores – and finding time to draw, mostly only
at night. After being mistreated by the painter’s wife, he escapes to discover
Rome for himself. He assiduously copies statues and reliefs from classical
antiquity and the work of contem- porary masters including the frescoes in the
Logge and the Stanze of the Vatican by Raphael, the Last Judgment by
Michelangelo and façade paintings by Polidoro da Caravaggio. After much focused
and disciplined study, he triumphs victoriously with his first major success:
the painted façade of Palazzo Mattei (1548). And this is where the story ends
(Taddeo would die prematurely of illness at the age of thirty-seven). In this
drawing, number seventeen, we enter the story in medias res. Here Taddeo,
affectionately identified by name on his tunic, is at Vatican Belvedere Statue
Court studying the most iconic antique sculptures of the day: the Apollo
Belvedere on the left (fig. 1; see also pp. 25–26), the Nile and Tiber in the
centre and the object of his attention, possibly the most famous work in the
collection, the Laocoön on the right (fig. 2; see also pp. 25–26).4 With his
back turned, we peer voyeuristi- cally over his shoulder as he draws intently.
He has settled in for a day of intense study; his meagre sustenance, a small
loaf of bread and flask of wine on the ground next to him, has remained
untouched. The notion of the artist drawing inces- santly with little to eat or
drink anticipates the vivid descrip- tion of the young Gian Lorenzo Bernini
(1598–1680) who as a boy spent dawn to dusk at the statue court making copies.5
Significantly, this is the earliest known image of an artist at work at the
Belvedere, the most important and certainly the most influential collection of
classical antiquities assem- bled in the Renaissance.6 Given its unique
accessibility – unlike the collections housed in private aristocratic palaces –
it provided a sanctuary for the unencumbered study of antique statuary, which
also included recently excavated works. Thus, it served a key role in providing
an artistic instruction not just direct but exhilaratingly au courant. It also
meant that the sculptures displayed there would become famous as their images
were disseminated through prints and drawings. When Taddeo visited the
sculpture court in the 1540s, it had undergone a major renovation.7 In 1485,
under Pope Innocent VIII (r. 1484–92), a private villa was built on the hill
behind the old Vatican place, named the Belvedere (‘fair view’), for its
position. In 1503, Pope Julius II (r. 1503–13) commis- sioned the architect,
Donato Bramante (1444–1514), to incor- porate the house with the Vatican
complex thereby creating an enclosed rectangular garden courtyard, the Cortile
del Belvedere, to display his expanding antiquities collection. Wishing it to
be accessible to the public, the Pope had Bramante construct a spiral staircase
that enabled visitors to arrive at the courtyard directly, without having to
enter the palace proper.8 The courtyard was an enchanted world filled with
orange trees, fountains, an elegant loggia, and displayed in the centre of the
court, the colossal marble statues of the Nile and Tiber mounted as fountains.9
Statues including the celebrated Apollo Belvedere and the Laocoön were
displayed in especially created niches.10 Maarten van Heemskerck’s drawing in
the British Museum, c. 1532–33 (fig. 3), the earliest known view of the
Cortile, gives a sense of the space and the disposition of the sculpture
displayed there.11 Immediately evident is that Federico’s al fresco evocation
bears little resemblance to Heemskerck’s and to other con- temporary
descriptions of the courtyard. The setting is now a sun-drenched rise with a
vista, no t an enclosed garden, and the statues are freed from the
confines of their niches. And yet in other ways Federico has gone to lengths to
convince us of the time period – 1540s – as we will see. In fact, so well-known
was this space that Federico needed only to refer to it in short-hand. The
statues depicted would have been instantly recognisable to any viewer and
Taddeo’s location in the Belvedere understood. Since its discovery in January
of 1506 in the ground of a private vineyard on the Esquiline near the remains
of the so-called Baths of Titus, the Laocoön group, comprising the ill-fated
Trojan priest and his two sons violently struggling to free themselves from two
serpents who devour them, was immediately venerated.12 While still in the
ground, the architect and antiquarian, Giuliano di Sangallo, sent to inspect it
by Pope Julius II, identified it as the famous statue singled out by Pliny the
Elder as ‘of all paintings and sculptures the most worthy of admiration’
(Natural History 36.37–38).13 It was installed in the Belvedere in a
chapel-like recess.14 The sculpture’s fame was instant and far-reaching.
Entranced by it, Michelangelo proclaimed it an inimitable miracle.15 Collectors
eagerly sought copies, commissioning Jacopo Sansovino (1486–1570), Baccio
Bandinelli (see cat. 3) and others to make replicas of various sizes in bronze,
marble, wax, terracotta, even gold.16 For artists, its effect was manifold. It
provided an anatomical model for the male nude that was strong, forceful and
capable of dynamic movement. The range of ages and emotions conveyed and
symbolised – fear, agony, heroism in death – also inspired emulation. Fig. 3.
Maarten van Heemskerck (1498–1574), View of the Belvedere Sculpture Court, c.
1532–36/37, pen and brown ink, brush with brown wash, 231 × 360 mm, Department
of Print and Drawings, British Museum, London, 1946,0713.639 100
101 102 103 Epitomising human suffering, the statue became a
model for portraying martyrs from Christendom, especially in the
Counter-Reformation.17 For centuries that followed artists would imitate and
infuse this muscular body type and expres- sions in their work (cat. 16). The
group’s influence endured well into the 19th century.18 When the Laocoön was
first discovered, his right arm and that of his youngest son on the left were
missing, as were among other losses the fingers of the eldest son’s right hand.
By the 1530s, the missing appendages were restored including a terracotta arm
by the sculptor, Giovanni Antonio Montorsoli (1507–63).19 Federico’s drawn
version is something of an enigma. In some respects it appears pre-restoration:
the fingers of the eldest son on the right are still missing. But he has
included part of the previously absent right arm of the son on the left but
made him hand-less. Laocoön is shown with his right arm restored but it is out
of view so the angle cannot be determined. In any case, it seems that Federico
has attempted to represent the sculpture as he thought Taddeo and others of his
generation might have first seen it, undoubt- edly to create an air of
authenticity. It is possible that he consulted print sources such as Marco
Dente da Ravenna’s ( f l . 1515–27) Laocoön of c. 1520–23, which makes a
compelling comparison.20 The perfect foil for the Laocoön is the commanding
figure of the Apollo Belvedere anchoring the composition on the left.21 So
instantly recognisable was he that Federico needed only to indicate his lower
half. Discovered at S. Lorenzo in Panisperna in 1489, the statue was acquired
by Giuliano della Rovere, Cardinal of S. Pietro in Vincoli, the future Pope
Julius II, who displayed it in the garden of his palace next to SS. Apostoli.22
After he became Pope, it was brought to the Vatican in 1508 and installed in a
niche in the Belvedere cortile in 1511. Based on a lost Greek bronze original,
it became one of the most famous statues to survive from antiquity and was
copied by innumerable artists (see cats 6, 25, 26).23 If the Laocoön
exemplified the powerful male nude body in action, the Apollo encapsulated the
qualities of its counterpart, the perfect male youth: elegant, graceful,
confident and restrained; in repose yet poised for action. As the god Apollo he
was thought to have just discharged his arrow at the python of Delphi (see cat.
6) or else, to be on the verge of killing the sons of Niobe with his arrows, as
punishment for her boasting.24 Praised by Vasari for its instructive
importance, every aspiring artist visited the Apollo in the Belvedere.25 The
statue retained immense popularity in the centuries that followed.26 Federico’s
abbreviated description of the Belvedere Courtyard is a clever device as it
allows him to combine several episodes of Taddeo’s self-education in the same
104 drawing and a highly sophisticated continuous narration.27 All show Taddeo
studying the Antique in various forms – free- standing statues, narrative
reliefs and contemporary works in an all’antica style. So while the most
prominent Taddeo is at work copying the Belvedere statues, a second Taddeo is
visible in the distance, perched on a window ledge copying Raphael’s celebrated
Stanze frescoes in the papal apartments in the Vatican.28 At the far left is
Trajan’s Column of 113 ad under which are figures, including an artist
sketching the famous reliefs carved on the column shaft, presumably Taddeo
again. These monuments were very distant from one other and yet, countering
this artificial structure, Federico has striven for local historical accuracy.
For example, he shows the column as it would have appeared in Taddeo’s day,
omitting the bronze statue of St Peter at the top that was added by Sixtus V in
1588.29 Lightly sketched in the left distance is the dome of the Pantheon and
on the far right, what appears to be the Mausoleum of Augustus of 28 bc
identifiable by the trees on the summit.30 Another drawing from the series
(fig. 4) further demon- strates the importance Federico attributed to copying
after the Antique, one of the pillars of artistic education.31 It shows Taddeo
studying a relief – perhaps the right-hand front section of a Muse sarcophagus
of a type similar to an example now in the Kunsthistorisches Museum, Vienna (p.
20, fig. 5).32 Having already sketched the figures – possibly a Muse holding a
mask and Apollo – in black chalk, he is about to go over the contours with pen
and ink. Resting on the relief is the armless body of a male youth similar in
type to the Torso of Apollon Sauroktonos, the so-called Casa Sassi Torso now in
the Museo Archeologico Nazionale in Naples.33 In the back- ground, in another
example of continuous narration, Taddeo copies façade paintings by Polidoro da
Caravaggio, who, specialising in monochrome frescoes imitating marble or bronze
reliefs, represented another type of contemporary all’antica style, one which
would exert an enormous influence on Taddeo’s own approach to painting.34 It is
significant that Federico executed the Taddeo series in the mid-1590s, around
the time that he established a reformed Accademia di San Luca of which he was
elected president in 1593. Learning to draw by copying the work of others – the
Antique, Michelangelo, Raphael and Polidoro da Caravaggio – was already a key
phenomenon of Renaissance workshop practice. Federico codified this practice
further by making such a disciplined approach to drawing central to the
curricu- lum.35 Successful learning also required virtue and hard work – fatica
– both physical and intellectual, and such quali- ties are extolled in
Federico’s drawings of Taddeo.36 According to the guidelines Federico wrote for
the academy, students were required to ‘go out during the week drawing after
the antique’ (see Appendix, no. 7).37 It is significant that in the final image
of the series (fig. 5), an allegorical personification of Study – represented
by a young man diligently copying an antique male torso with other sculptures –
flanks the left side of the Zuccaro family emblem.38 He is joined by
Intelligence on the right. Along with training, Federico was also concerned
with the welfare of young artists and proposed reforms to the artists’ academy
in Florence, the Accademia del Disegno.39 At his death in 1609, he intended the
family palace, the Palazzo Zuccari (now the Bibliotheca Hertziana, Max Planck
Institute for Art History) to house young, struggling artists in Rome, so that
they would not suffer as Taddeo had.40 Appropriate in subject matter, the
drawings may well have prepared a complex arrangement of paintings for the
walls of the palace’s Sala del Disegno.41 This might account for the present
drawing’s unusual dumbbell format.42 Regardless of its intended purpose, the
Early Life of Taddeo series, a touching tribute to one brother from another,
sends a clear message. Drawing, especially after the Antique in all its various
forms, was the cornerstone of artistic education in 16th-century Italy and was
to become a canonical activity throughout Europe in the centuries that
followed. As one of the first great illustrations of this phenomenon in
practice, the present drawing is an ideal visual representation of this
exhibition’s theme. avl Fig. 4. Federico Zuccaro, Taddeo Drawing after
the Antique; in the Background Copying a Façade by Polidoro, c. 1595, pen and
brown ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red chalk,
423 × 175 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.12 Fig. 5.
Federico Zuccaro, Allegories of Study and Intelligence Flanking the Zuccaro
Emblem, c. 1595, pen and brown ink, brush with brown wash, over black chalk and
touches of red chalk, 176 × 425 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles,
99.GA.6.20 105 1 Additional bibliography for the drawings in the
series up to 1999 is given in the catalogue of the Christie’s sale, London, 28
January 1999, p. 70, lot 35. 2 This poem written by Federico Zuccaro to
accompany this drawing appears on the back of another sheet in the series (Los
Angeles 2007–08, p. 34, no. 18, 40). Translation by J. Brooks (ibid., pp.
33–34). 3 The Early Life of Taddeo series, acquired by the J. Paul Getty Museum
in 1999, was the subject of an exhibition and in-depth catalogue by J. Brooks
(Los Angeles 2007–08). 4 For the Tiber and the Nile see Haskell and Penny 1981,
pp. 272–73, no. 65 and pp. 310–11, no. 79; Klementa 1993, pp. 9–51, nos A1–A39,
pls 1–18; pp. 52–71, nos B1–B15, pls 19–23. 5 See Appendix, no. 9. 6 For
essential reading on the Cortile and its history, see Ackerman 1954; Brummer
1970; Coffin 1979, pp. 69–87; Haskell and Penny 1981, pp. 7–11; Nesselrath
1994, pp. 52–55; Nesselrath 1998a, pp. 1–16. 7 See Coffin 1979, pp. 69–87;
Haskell and Penny 1981, p. 7. 8 Coffin 1979, p. 82. 9 For the two Rivers, see
above, note 4. 10 For statues in their niches, see Haskell and Penny 1981, p.
11, fig. 4, and Bober and Rubinstein 2010, fig. 122c. 11 First published as
Heemskerck in Winner and Nesselrath 1987, p. 867; see also M. Serlupi
Crescenzi, in Rome 2006–07, pp. 148–49, no. 37. For a sense of the atmosphere,
see the painting by Hendrik III van Cleve (1524–89), 1550, in the Musées Royaux
des Beaux-Arts de Belgique, Brussels (M. Serlupi Crescenzi, in Rome 2006–07,
pp. 146–47, no. 34), see Aymonino’s essay in this catalogue, p. 26, fig. 21. 12
For the group, see Haskell and Penny 1981, pp. 243–47, no. 52; Bober and
Rubinstein 2010, pp. 164–68, no. 122, Pasquier 2000–01b and the exhibition
catalogue devoted to it, Rome 2006–07. 13 Haskell and Penny 1981, p. 243; M.
Buranelli, in Rome 2006–07, pp. 127–28, no. 13. 14 Coffin 1979, p. 82; Haskell
and Penny 1981, p. 243. 15 Bober and Rubinstein 2010, p. 165, see also
Aymonino’s essay in this catalogue, p. 28. 16 Haskell and Penny 1981, p. 244
and Settis 1998, pp. 129–60. 17 Ettlinger 1961, pp. 121–26; Brummer 1970, pp.
117–18; Bober and Rubinstein 2010, p. 166. 18 For the statue’s critical
reception, see Bieber 1967; Brilliant 2000; Décultot 2003 and Rome 2006–07. 19
Haskell and Penny 1981, pp. 246–47; Nesselrath 1998b, pp. 165–74; Bober and
Rubinstein 2010, p. 165. Montorsoli’s additions were removed in 1540 when
Primaticcio made a mould of the group unrestored to prepare a cast in bronze
for Francis I (Rome 2006-07, pp. 150–51, no. 40). The additions were then put
back. 20 Oberhuber 1978, p. 50, no. 353 (268); T. Schtrauch, in Rome 2006–07,
pp. 152–53, no. 42. 21 For their juxtaposition, see Tronzo 2009, pp. 49–55. 22
According to a document published by Fusco and Corti 2006 (Appendix I, 23 24 25
26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 p. 309, doc. 112; see also
pp. 52–56). For the statue, see Haskell and Penny 1981, pp. 148–51, no. 8;
Bober and Rubinstein 2010, pp. 76–77, no. 28. In 1532–33 Montorsoli replaced
the existing right arm and restored the hands (Bober and Rubinstein 2010, p.
77). Federico presents it in its restored state with bow. Haskell and Penny
1981, p. 150. Bober and Rubinstein 2010, p. 76; Vasari’s preface to Part III of
the Lives, 1568 ed. (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 4, p. 7). See
Roettgen 1998, pp. 253–74. He employs the same device in other drawings in the
series (Los Angeles 2007–08, p. 7). Federico indicates the location on the
drawing itself with the inscription, le camore di Rafaello (the rooms of
Raphael). Another drawing in the series shows him copying the frescoes in the
loggia of the Villa Farnesina, see Los Angeles 2007–08, pp. 20, 32, no. 13. For
the column, its reliefs and history, see Bober and Rubinstein 2010, pp. 208–10,
no. 159. Francesco Soderini purchased the Mausoleum in 1546 in order to
transform the tomb into a garden museum with antique statuary. See Riccomini
1995, especially p. 267, fig. 91 (Etienne Du Pérac’s engraving, 1575) and p.
271, fig. 95 (Alò Giovannoli’s engaving, 1619) and Riccomini 1996. Los Angeles
2007–08, pp. 19, 31–32, no. 12. For essential reading on Taddeo, Federico and
the antique and the absorption of it in their work, see Silver 2007–08, pp.
86–91. Wegner 1966, pp. 88–89, no. 228, plates 11–12. Los Angeles 2007–08, p.
31. In Taddeo’s time the torso (CensusID 159347 and Ruesch 1911, p. 158, no.
491) was in the courtyard of the Sassi family palace displayed in a niche as
seen in Heemskerck’s famous view reproduced in etching (Paris 2000–01, pp.
360–62, no. 169, entry by C. Scailliérez). For Polidoro and the Zuccari, see
Los Angeles 2007–08, pp. 71–77. Armenini had already advised artists to copy
Polidoro’s frescoes (1587, p. 58, book 1, chap. 7). Alberti 1604, p. 7. See
also Armenini, 1587, pp. 52–59 (book 1, chap. 7). See also Aymonino’s essay in
this catalogue, pp. 32–33 Rossi 1997, pp. 66–68. Alberti 1604, p. 8 (‘e chi
andarà frà la settimana dissegnando all’antico’), cited and translated in
Silver 2007-08, p. 86). Los Angeles 2007–08, pp. 27, 35, no. 20. Ibid., p. 2.
Ibid. For previous arguments on the topic and a fascinating hypothetical recon-
struction of the Sala del Disegno, see Strunck 2007–08, pp. 113–25. The shape
is adapted slightly in a version of the present drawing in the Uffizi,
Florence, of similar dimensions (Paris 2000–01, pp. 379–80, no. 185 (entry by
C. Scailliérez), believed by Gere to be autograph (1990, under no. 17) but by
Brooks as unlikely to be and the present author agrees. See Los Angeles 2007–
08, p. 45, note 48, where two other copies are also noted: Biblioteca Nacional,
Madrid 7656 and the other sold Phillips, London, 9 July 2001, lot 148. 6.
Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) a. The Apollo
Belvedere 1591 Black and white chalk on blue paper indented for transfer; 388 ×
244 mm provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89)1; Cardinal Decio
Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio Odescalchi
(1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers Foundation,
1790. selected literature: Reznicek 1961, vol. 1, p. 326, no. 208, vol. 2, fig.
170; Van Regteren Altena 1964, fig. 19, pp. 101–02, no. 32; Miedema 1969, pp.
76–77; Brummer 1970, pp. 70–71, repr.; Stolzenburg 2000, pp. 426–27, repr., p.
439, no. 173; Brandt 2001, p. 148; Hamburg 2002, p. 114, repr. under no. 33;
Amsterdam, New York and elsewhere 2003–04, p. 269, repr.; Bober and Rubinstein
2010, p. 77, under no. 28; Leesberg 2012b, vol. 2, p. 370 under no. 380;
Göttingen 2013–14, pp. 22–23, fig. 6; Nichols 2013a, pp. 56, 84, fig. 54;
Veldman 2013–14, p. 105. exhibitions: Münster 1976, p. 138, no. 111, p. 140,
repr. Teylers Museum, Haarlem, inv. no. K III 23 exhibited in haarlem only b.
Apollo Belvedere 1592 Engraving, 412 × 300 mm State II of II Inscribed on the
base of the statue: ‘HG sculp. APOLLO PYTHIUS Cum privil. Sa. Cæ. M.’. With the
address of the printer at right ‘Herman Adolfz excud. Haerlemens.’. Inscribed
with two lines in the lower margin, at centre: ‘Statua antiqua Romae in palatio
Pontificis belle vider / opus posthumum HGoltzij iam primum divulgat. Ano.
M.D.C.X.VII.’.2 Two Latin distichs by Theodorus Schrevelius in margin l.l. and
l.r.: ‘Vix natus armis Delius Vulcaniis / Donatus infans, sacra Parnassi iuga’
/ ‘Petii. draconem matris hostem spiculis / Pythona fixi: nomen inde Pythii.
Schrevel’.3 Numbered in l.l. corner: ‘3’. Published by Herman Adolfsz. (fl.
1607) in 1617 provenance: P. & D. Colnaghi Co., London, from whom acquired in
1854. literature: Bartsch 1854–76, vol. 3, p. 45, no. 145; Hirschmann 1921, pp.
60–61, no. 147; Hollstein 1949–2001, vol. 8, p. 33, no. 147.II, repr.; Strauss
1977, vol. 2, pp. 566–67, no. 314, repr.; Leesberg 2012b, vol. 2, p. 370, no.
380, pp. 373–74, repr. exhibitions: Not previously exhibited. The British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1854,0513.106 106 107 It was
undoubtedly at the urging of Karel van Mander (1548– 1606), his friend and
fellow Haarlem artist, that Hendrick Goltzius left for Rome in 1590 in order to
study the remnants of classical antiquity and the works of modern Italian
masters.4 He was already thirty-two years old. Northern artists usually went
south when they were much younger, sometimes even half that age. The tradition
of artists travel- ling from Northern Europe to Italy, eager to learn, had
begun almost a century earlier with Jan Gossaert, called Mabuse (c. 1472–1532).
Other well-known Dutch artists who had derived inspiration from antique remains
in Rome and who had produced drawings after them, were Jan van Scorel
(1495–1562) and above all, Maarten van Heemskerck (1498– 1574), also a native
of Haarlem.5 Like these artists Goltzius travelled to Rome as a mature
draughtsman, eager to deepen his knowledge and see with his own eyes the works
of art of which he had heard so much. It was probably family obligations and
his flourishing print workshop that had delayed his Italian trip for so long.
Finally in 1590–91, hoping for relief from the consumptive state of his health,
Goltzius made the long anticipated journey.6 We know from Van Mander that on
arriving in Rome, Goltzius concentrated almost exclusively on drawing the most
important classical sculptures carefully and industri- ously.7 Goltzius was now
a celebrity, for his prints had spread his fame throughout Europe, but he
travelled largely incognito. In Rome, for example, he donned rustic garb in
order to blend in with pupils and amateurs drawing from the Antique. According
to Van Mander, they looked at him pityingly until they saw what he was capable
of, whereupon they started asking him for advice.8 Although this story may be a
topos – art-loving Italy values a gifted outsider – it is not hard to imagine
such an encounter when one considers Goltzius’ Roman drawings.9 Forty-three of
Goltzius’ drawings after thirty different classical statues survive, plus one
after Michelangelo’s Moses; all are preserved in the Teylers Museum in
Haarlem.10 In the short time at Goltzius’ disposal – he was only in Rome for
seven months – he managed to copy all the most impor- tant sculptures, in both
public and semi-public locations 108 109 such as churches
and papal palaces, and in some private collections.11 He must have prepared
thoroughly for his drawing expedition and have studied travel books and prints
before his departure. Certainly at his disposal would have been Maarten van
Heemskerck’s Roman sketchbook, now in the Berlin Kupferstichkabinett, but then
owned by his fellow Haarlem artist, Cornelis Cornelisz. van Haarlem (1562–1638)
(see p. 35, figs 39–43 and cat. no. 8).12 Strikingly Goltzius’ selection more
or less corresponded with the antique statues described in travel literature.13
Evidently, a canon of the most outstanding classical statues in Rome had
already been established and disseminated to the North and although this canon
would later be expanded, most of the statues drawn by Goltzius in 1591
continued to remain popular models for artists in subsequent centuries (see
cat. nos 14–16, 21, 25–27 and 31). Goltzius did not make his drawings merely as
an exercise. The artist and printshop owner was well aware of the importance of
those statues for their reproductive potential. He must have envisaged a series
of engravings from the very outset and that is why he went to such lengths to
select the most celebrated and, by then, canonical sculptures. The series he
had in mind would have rivalled existing print series of antique sculptures in
Rome, such as Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae, published
between 1545 and 1577 (fig. 1), or Giovanni Battista de’ Cavalieri’s Antiquarum
Statuarum Urbis Romae, published between the 1560s and the 1590s.14 Cavalieri’s
reproductions were printed on small plates, without backgrounds, and
incorporated little information about the sculptures in their locations; the
lighting is not consistent and there is a lack of naturalism in the statues’
rendering. While the differences between Lafréry’s reproductions and what
Goltzius planned to create are less striking, the burin technique is more
refined in Goltzius’ works, his rendering of the statues more realistic and his
prints fractionally larger; moreover, he generally represented the statues from
closer vantage points, thereby creating more engaging compositions.15 What
audience did Goltzius have in mind when he produced his drawings and his
prints? While Cavalieri and Lafréry’s publications were mainly intended for
antiquaries and art lovers, Goltzius seems to have aimed at a broader audience
encompassing artists as well as amateurs. This is supported by his
emphasis on anatomical precision and the sculptures’ three-dimensional
character, rather than accu- racy of reproduction – he sometimes omitted
inscriptions, for example (see cat. 8); the presence of the draughtsman in the print
displayed is also significant in this connection. Goltzius’ project was timely
for around this period a market seems to have been developing for prints after
110 publication, but found himself overwhelmed with other projects. In most of
his drawings after antique sculpture, Goltzius began with a sketch in black and
white chalk on bluish-grey paper, like this drawing of Apollo Belvedere. The
trial-and- error lines by the figure’s legs and waist suggest that he had
difficulty deciding on a vantage point. He would then have used a stylus to
indent the contours of that sketch onto a second sheet of paper, on which he
subsequently produced an extremely precise drawing of the statue. That second
version in red chalk, unfortunately now lost, would have served as the model
for the engraver. Teylers Museum has both drawings for the Farnese Hercules
Seen from Behind (see cat. 7a and fig. 2) but at some point Goltzius’ second
version of the Apollo Belvedere was separated from the group that ended in the
Teylers Museum,20 for in the early 18th century it belonged to the famous
collector Valerius Röver (1686– 1739) of Delft,21 and was listed in his
inventory: ‘The Apollo, with red chalk, transferred to the copper by Goltzius,
which print is herewith attached, fl. 3:10’.22 The engraving is in the same
direction as the black chalk drawing, and the size of the statue is identical
in both.23 The most striking difference between them is the rendering of
volume. The statue appears a little flat in the drawing, while in the print it
is highly sculptural, with a keenly observed interplay between light and shade
across the form lending relief and depth to the engraving. As noted above,
Goltzius would have developed these features in the lost red chalk version of
the subject. It may be that this lost drawing also incorporated the draughtsman
seen in the lower right corner of the print, and the large cast shadow on the
left, accessories and details that Goltzius tended to vary from work to work.
In any event, these added elements reinforce the sense of depth; the
draughtsman also conveys an idea of the scale of the statue (see cat. 7). But
perhaps Goltzius added the young draughtsman for yet another reason. His
rendering of this figure is so direct, so true to life, that it appears to be a
portrait. The two small figures in his reproduction of the Farnese Hercules are
also represented in a fashion which suggests that these too are portraits (cat.
7, fig. 4). It seems that in Rome Goltzius asked a local artist, Gaspare Celio
(1571–1640), to draw copies of both classical and modern artworks for him and
they may have drawn some works together.24 Could this figure be Celio? Pure
speculation, of course, for remarkably little is known about this mysterious
individual.25 At any rate the figure of the draughtsman is seated exactly as
Goltzius must have positioned himself, although at a different angle, employing
the same technique (n.b. the porte-crayon), the same format paper and probably
the same travel board. And this may point to another reason for Goltzius’
introduction of the young draughtsman: to emphasise the didactic inten- tion of
the series and to convey the message that these prints allowed artists to draw
the finest Roman sculptures, just like the draughtsman in the image, without
having to go to Rome. Whatever the reason for this figure’s inclusion, his
presence demonstrates – as does Van Mander’s story of Goltzius amidst younger
artists – that during this period the copying of antique sculptures in Rome was
very widespread. The Apollo Belvedere is a Roman copy of a Greek original by
Leochares from c. 330–320 bc. The copy probably dates from the reign of Hadrian
(117–138 bc). In the late 15th cen- tury the Apollo was in the collection of
Cardinal Giuliano della Rovere, who, as Pope Julius II, placed it in the
Belvedere, where it was displayed in the small Cortile delle Statue (see p. 26,
fig. 21 and cat. 5). The Apollo Belvedere soon became one of the most famous
sculptures in the collection and was drawn by many artists. Prints of the sculpture
by Agostino Veneziano (c. 1518–20, see p. 28, fig. 29), Marcantonio Raimondi
(c. 1530) and Goltzius himself (c. 1617), among others, ensured that its fame
spread throughout Europe. However, the Apollo’s prestige began to fade in the
19th century and nowadays the sculpture, while well-known to art historians is
less appreciated by the general public.26 Fig. 1. Anonymous engraver
after Marcantonio Raimondi, published by Antoine Lafréry, Apollo Belvedere,
1552, engraving, 323 × 228 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-H-232 antique
statues for artists to employ as models. Between 1599 and 1616 Goltzius’
stepson Jacob Matham published the first known printed sketchbook after the
Antique, Verscheijden Cierage,16 intended, according to its title page, for an
interna- tional public of artists and amateurs.17 And it seems likely that
Goltzius envisaged the same international audience for his projected series,
perhaps particularly young students in Northern Europe – and no doubt his own
pupils – who were not able to undertake the trip to Rome but could use his
engravings as models.18 It was probably in 1592, soon after his return from
Italy, that Goltzius embarked on the print series, engraving after his own
drawings three of the statues: the Farnese Hercules Seen from Behind (cat. 7),
Hercules and Telephus and this Apollo Belvedere. It is unlikely that Goltzius
was disappointed with the results but he progressed no further with the project
and never officially printed the plates which were published posthumously in
1617, bearing the address of the Haarlem publisher Herman Adolfsz.19 We do not
know why Goltzius did not publish these prints in his lifetime but it may have
been the result of excessive ambition. He probably hoped to market a much
longer series of prints in a single 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 mp
I. M. Veldman revealed the Rudolf II provenance for Goltzius’ Roman portfolio
to be a myth. A more logical provenance might be, as Veldman suggests, through
Jacob Matham (1571–1631), Theodor Matham (1605/06– 76), Joachim von Sandrart
(1606–88) and/or Pieter Spiering (1594/97–1652): Veldman 2013–14, pp. 109–13.
‘An antique statue in Rome, in the Pope’s Belvedere Palace; a work by H.
Goltzius that is now being published posthumously for the first time, in the
year 1617’. ‘Barely born, I, Apollo of the island of Delos, received arms from
Vulcan; I sought the sacred heights of Parnassus; with my arrows I pierced the
dragon Python, my mother Leto’s enemy; thus it is that I bear the name
“Pythian”’. I wish to thank Professor Ilja Veldman, who generously put at my
disposal her Goltzius entries for the forthcoming catalogue of the 16th-century
Netherlandish drawings in the Teylers Museum, which she is preparing with
Yvonne Bleyerveld. For the early tradition of Northern European artists going
to Rome (includ- ing Gossaert, Van Scorel and Van Heemskerck), see Brussels and
Rome 1995. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 388–89 (fol. 282 verso). Ibid., pp.
390–91 (fol. 283 recto). Ibid. Luijten 2003–04, p. 123. Reznicek 1961, vol. 1,
pp. 89–94, pp. 319–46, nos 200–38; 245–48. From the 1689–90 inventory of
Goltzius drawings owned by Queen Christina of Sweden it is known that Goltzius
also produced (now lost) drawings of two famous antique figures, the Spinario
(now in the Capitoline Museums, Rome, see p. 23, fig. 15) and the Farnese Bull
(now in the Museo Archeologico Nazionale, Naples); see Stolzenburg 2000, p.
437, nos. 140–41, p. 440, no. 180 and Veldman 2013–14, p. 101. Veldman 2012,
pp. 11–23. Reznicek 1961, p. 90; Brandt 2001, p. 136. Haskell and Penny 1981,
p. 18; Brandt 2001, p. 136. Brandt 2001, pp. 143–46. Fuhring 1992, pp. 57–84.
111 17 Ibid., pp. 64–65, p. 76, pl. 1. 18 It is tempting at this point to
think of the ‘Haarlem Academy’, of which Goltzius was a member before his
departure for Italy as a true academy, where artists could draw from life and
presumably also after sculptures. However, in all probability this ‘academy’
comprised no more than three artists: Karel van Mander, Cornelis Cornelisz. and
Goltzius. See also cat. 8. 19 Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–75, nos 378–80;
Luijten 2003–04, pp. 119–20. 20 For the provenance of the drawings see
Stolzenburg 2000 and Veldman 2013–14. 21 Van Regteren Altena 1964, pp. 101–02,
under no. 32. 22 ‘De Apollo, met rootaarde, door Goltzius int koper gebragt,
welke print hierbij gevoegt is, f 3:10.’ See the manuscript catalogue by
Valerius Röver in the Amsterdam University Library, inv.no. II A 18: Catalogus
van boeken, schilderijen, teekeningen, printen, beelden, rariteiten [1730],
portefeuille 2, no. 3. 23 In view of the incomplete right hand and the missing
left hand it seems likely that the sheet has been trimmed on the right and
left, and possibly at the top as well. 24 Baglione 1642, p. 377. 25 26 All we
really know is that Celio must have drawn a copy of Raphael’s fresco, The
prophet Isaiah in the San Agostino in Rome for Goltzius (see Luijten 2003, p.
118). Goltzius used this copy for his engraving; see Leesberg 2012b, vol. 2,
pp. 292–93, no. 333, repr. For a recently published drawing by Celio in the
Uffizi Gallery in Florence, with a parade carriage of his own design
incorporating pyrotechnic features, see Stemerding 2012, pp. 13–17. For the
history and the fortuna critica of the Apollo Belvedere: Haskell and Penny
1981, pp. 148–51, no. 8; Bober and Rubinstein 2010, pp. 76–77, no. 28.
Regarding the sculpture’s reputation today, which some describe as bordering on
total neglect, Kenneth Clark observed in 1969: ‘. . . for four hundred years
after it was discovered the Apollo was the most admired piece of sculpture in
the world. It was Napoleon’s greatest boast to have looted it from the Vatican.
Now it is completely forgotten except by the guides of coach parties, who have
become the only surviving transmitters of traditional culture.’ Clark 1969a, p.
2. 7. Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) a. The
Farnese Hercules Seen from Behind 1591 Red chalk, indented for transfer, 390 ×
215 mm. Verso: Design lightly traced in black chalk from recto. The upper
corners cut. literature: Scholten 1904, p. 40, cat. N 19; Hirschmann 1921, p.
59; Reznicek 1961, vol. 1, p. 337, cat. K 227, vol. 2, fig. 179; Miedema 1969,
pp. 76–77, repr. (recto and verso); Schapelhouman 1979, p. 67, note 3;
Amsterdam 1993–94, pp. 361–62, under no. 24 (B. Cornelis); Stolzenburg 2000, p.
439, no. 164; Brandt 2001, pp. 139, 144, fig. 132, p. 148; Hamburg 2002, p.
116, under no. 34 (A. Stolzenburg) ; Leeflang 2012, pp. 24–25, fig. 5; Leesberg
2012b, vol. 2, pp. 368–69, under no. 378; Göttingen 2013–14, p. 210; Veldman
2013–14, pp. 102–05. exhibitions: New York 1988, pp. 58–60, no. 12; Brussels
and Rome 1995, p. 204, no. 101; Luijten 2003–04, pp. 132–36, no. 42.2. Teylers
Museum, Haarlem, inv. N 19 exhibited in haarlem only b. The Farnese Hercules,
1592 (published 1617) Engraving Only state 416 × 300 mm Lettered on the base of
the statue: ‘HERCULES VICTOR’. Lettered in l.l. corner: ‘HGoltzius sculpt. Cum
privilig. / Sa. Cæ. M.’ and ‘Herman Adolfz / excud. Haerlemen’. Inscribed with
two lines in the lower margin, at centre: ‘Statua antiqua Romae in palatio
Cardinalis Fernesij / opus posthumum H Goltzij iam primum divulgata Ano
M.D.CXVII.2 Two Latin distichs by Theodorus Schrevelius in margin l.l. and
l.r.: ‘Domito triformi rege Lusitaniae / Raptisque malis, quae Hesperi sub
cardine / Servarat hortis aureis vigil draco, / Fessus quievi terror orbis
Hercules.’3 Numbered in l.l. corner: ‘1’. provenance: Bequest of Carel Godfried
Voorhelm Schneevoogt (1802–77), Haarlem. literature: Bartsch 1803–21, vol. 3,
pp. 44–45, no. 143; Hirschmann 1921, pp. 58–59, no. 145; Hollstein 1949–2001,
vol. 8, p. 33, no. 145, repr.; Strauss 1977, vol. 2, pp. 562–63, no. 312,
repr., p. 569; Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–69, no. 378, repr. 112 113 1
Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers
Foundation, 1790. provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89); Cardinal
Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio
exhibitions: Not previously exhibited. Teylers Museum, Haarlem, inv. KG 02263
The Farnese Hercules, which bears a Greek inscription naming ‘Glykon of
Athens’, a sculptor unknown in classical litera- ture, was one of the most
famous statues in Rome from the time of its discovery until the end of the 19th
century (fig. 1).4 The first certain mention of it dates from 1556, when it
stood in Palazzo Farnese.5 The fragments, unearthed at different times, must
have been reassembled shortly before. The head was found in a well in
Trastevere, probably around 1540. The torso was discovered six years later in
the Baths of Caracalla, followed by the legs.6 However, the legs emerged too
late to be incorporated in the statue because it had already been ‘restored’
and given new ones by Guglielmo della Porta (1500/10–1577). Oddly enough,
Michelangelo allegedly appealed to the Farnese family to leave the new legs in
place and not replace them with the originals, ‘in order to show that works of
modern sculpture can stand in compari- son with those of the ancients’.7 The statue
recovered its original legs only in the 18th century. In addition to the
Palazzo Farnese, Goltzius drew studies on the Capitol, the Quirinal and in the
Belvedere statue court (see cats 6, 8). He had an ambitious plan for his
drawings: they were to prepare a series of high-quality and accurate engravings
of the most important classical statues, on a scale not previ- ously
attempted.8 The importance he attached to the project is evident from the care
he lavished on many of his drawings. In preparation for this one, which is in
red chalk, he first made an equally large, slightly freer and more loosely
drawn black chalk version on blue paper (fig. 2; see cat. 6a). He then indented
the contours through onto the white sheet on which he made the present drawing.
The contours are conse- quently razor-sharp. He then exercised phenomenal skill
in depicting the statue’s volume and the smooth texture of the marble with a
subtle interplay of light and shade. He achieved this by leaving reserves of
white paper, by alternating pressure on the chalk and by stumping it here and
there so that individual strokes are no longer visible.9 114
115 Fig. 1. The Farnese Hercules, back view, Roman
copy of the 3rd century ad of a Greek original of the 4th century bc, 317 cm (h),
Museo Archeologico Nazionale, Naples, inv. 6001 Fig. 2. Hendrick Goltzius, The
Farnese Hercules seen from Behind, 1591, black and white chalk on blue paper
indented for transfer, 360 × 210 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. K III 30
Fig. 3. Hendrick Goltzius, The Farnese Hercules, black and white chalk on blue
paper, indented for transfer, 382 × 189 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. N 20
Fig. 4. Hendrick Goltzius, Two Male Heads: Jan Matthijsz Ban and Philips van
Winghen (?), metalpoint on an ivory-coloured prepared tablet, 92 × 117 mm,
Amsterdam Museum, inv. A 10180 demonstrate that he had seen the sculpture in
the round, making this clear by depicting the figure’s ‘alien’ back as well as
its usual front. His choice was probably inspired by a combination of these
factors. The Amsterdam Museum houses Goltzius’ preparatory drawing (fig. 4) of
the two men whose admiring, upturned gazes provide such a fine connection
between the front and back of the Farnese Hercules.16 In the engraving they are
repre- sented in mirror image and have been exchanged for each other. They have
portrait-like features and their identities have been a subject for
speculation. The most serious suggestion made so far, dating from the end of
the 19th century, is that they were Goltzius’ temporary travelling companions:
Jan Matthijsz Ban on the left and Philips van Winghen (d. 1592) on the right;
they may even have witnessed him drawing this statue.17 It is difficult to
verify this sugges- tion, but it is certainly interesting and plausible.
Goltzius had produced, albeit on a larger scale, several portraits of his
circle of acquaintances in Rome and elsewhere such as Giambologna (1529–1608),
Dirck de Vries ( fl. 1590–92) and Jan van der Straet, also called Stradanus
(1523–1605; see cat. 4).18 Most of his sitters, like Ban and Van Winghen, were
northern artists active in Italy. Ban was a silversmith, and Van Winghen is
described by Karel van Mander as ‘a learned young nobleman from Brussels [ . .
. ] who was a great archaeologist’.19 According to Van Mander the three of them
made an excursion from Rome to Naples in the spring of 1591.20 Van Winghen died
unexpectedly in 1592,21 and it was maybe as a tribute to his friend that
Goltzius included him in the plate that he cut that same year. mp 1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 See footnote 1 in cat. 6. ‘An antique
statue in Rome, in the palace of Cardinal Farnese; a work by H. Goltzius that
is now being published posthumously for the first time, in the year 1617’. ‘Now
that I have vanquished the King of Spain with his three bodies [Geryon] and
have stolen the apples that were guarded by a vigilant dragon under the western
heaven in the golden garden, I, Hercules, the terror of the world, rest from my
labours’. I wish to thank Professor Ilja Veldman, who generously put at my
disposal her Goltzius entries for the forthcoming catalogue of the sixteenth-
century Netherlandish drawings in the Teylers Museum, which she is preparing
with Yvonne Bleyerveld. U. Aldrovandi, ‘Delle statue antiche, che per tutta
Roma ... si veggono’, in Mauro 1556, pp. 157–58. The Hercules, today in the
Museo Archeologico Nazionale in Naples, is regarded as an enlarged copy of the
3rd century ad after an original by Lysippos or someone from his school of the
4th century bc. For its history and fortuna critica see Haskell and Penny 1981,
pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. Haskell and
Penny 1981, p. 229. Baglione 1642 (facsimile edition, Rome 1935), p. 151: ‘. .
. per mostrare con quel rifarcimento si degno al mondo, che le opere della
scultura moderna potevano stare al paragone de’lavori antichi’. Reznicek 1961,
vol. 2, pp. 89–94; Brandt 2001, passim; Luijten 2003–04, pp. 117–25. For both
drawings see Luijten 2003–04, pp. 132–36. Göttingen 2013–14, pp. 210–11. For
the prints by Bos and Ghisi see Göttingen 2013–14, pp. 205–07, no. II. 18
(Ghisi) and pp. 285–86, no. IV.09 (Bos). Brandt 2001, pp. 143–46. It has been
suggested that Goltzius was prompted to make his unorthodox choice by a
description in Pliny of a painting by Apelles of Hercules with Face Averted,
whose features could nevertheless be guessed. Goltzius may have known the
related engraving by G. J. Caraglio after Rosso Fiorentino: see Luijten
2003–04, p. 134 (with previous literature). For the dating of the three prints
see Reznicek 1961, p. 419; Boston and St. Louis 1981–82, p. 12, under no. 6.
See the painting Rest by Nicolaes Berchem the Elder (1620–83) dated 1644 in the
Metropolitan Museum of Art in New York and the painting The Return from the
Hunt, also by Berchem, from c. 1670 in The J. Paul Getty Museum, Los Angeles,
both of which include a male figure whose attitude is clearly based on that of
the Farnese Hercules (Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, p. 67, fig. 2;
Haarlem, Zurich and elsewhere 2006–07, p. 85, cat. 45, repr.). A drawing by
Berchem, Standing Herdsman from the Back in the Rijksmuseum, prepares the
figure of the standing herdsman in the New York painting (see Amsterdam and
Washington D.C., 1981–82, p. 67, fig. 1). Schapelhouman 1979, p. 67 (with
earlier literature); Luijten 2003–04, pp. 135–36. Hymans 1884–85, p. 187, note
1. Schapelhouman (1979, p. 67) does not believe this, while Luijten (2003–04,
pp. 135–36) considers it plausible. It is curious that Goltzius altered the
preparatory drawing of the two men’s heads in the engraving (fig. 3): in
addition to representing them in mirror image and swopping them over, he
depicted them in the same scale as well. Ban (if it is indeed Ban) is now
somewhat taller than Van Winghen, which would reflect reality for Van Mander
reports that Ban was a sizeable man (Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 392–93,
fol. 283v). Schapelhouman 2003–04, pp. 147–58. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp.
392–93 (fol. 283v). Ibid. Between 1592 and 1597 Jacob Matham engraved a
portrait of Philips van Winghen after another (unknown) drawing by Goltzius;
see Widerkehr and Leeflang 2007, vol. 2, p. 256, no. 263. However beautiful the
two drawings in black and red chalk may be, it is only in Goltzius’ engraving
that we really see what he intended. The backlit effect of the Farnese Hercules
is seen to best advantage in the print, in which the added clouds have a
functional role by creating a sense of depth and atmosphere. It is enhanced by
the two observers, also only introduced in the print stage, who help to convey
the statue’s scale. As we view Hercules from behind, the two admirers are
gazing upon the sunlit front. The resulting interaction between front and back,
between seeing and imagining, gives the print an agreeable tension that is
missing in the drawings.10 Goltzius was probably familiar with the Farnese
Hercules even before he went to Italy from descriptions in travel guides to
Rome, through prints of 1562 and around 1575 by Jacobus Bos (c. 1520–c. 1580)
and Giorgio Ghisi (1520–82)11 and possibly also from the larger print series by
Giovanni Battista de’ Cavalieri (1570–84) and Antoine Lafréry (c. 1575).12 All
showed the Hercules from the front, but Goltzius drew it from both sides (fig. 3).
He seems to have been the first artist to appreciate its beauty from the back,
or, at least, the first to record it on paper. He must have been very pleased
with the 116 unorthodox view13 because he chose this viewpoint in 1592 when he
issued the engraving, one of the only three that he engraved from his series of
drawings (see also cat. 6b).14 It was thanks to Goltzius’ engraving that the
back view of the statue became as popular as the front (see cats 16 and 21).
Something of this popularity is revealed by the fact that by the mid-17th
century the Hercules Farnese seen from the rear, bending slightly forwards with
his arm on his back, had permeated Dutch genre painting.15 The question arises:
why did Goltzius choose to adopt this angle? Could it be that he had a didactic
purpose in mind when he produced the first rendering in a print series of the
back of a muscular male body at rest? With Goltzius’ magnificent print in hand,
young artists could now study the anatomy of a ‘hero’s’ back and use this in their
own work. Goltzius’ print of the Apollo Belvedere (cat. 6b) offered a similar
aid with the anatomy of an elegant youth. Goltzius also drew other figures,
such as the Belvedere Torso (cat. 8), from several angles, but in these he was
probably experi- menting with different points of view rather than having a
didactic aim in mind. Goltzius might also have chosen to represent both sides
of the Farnese Hercules expressly to 117 8. Hendrick Goltzius
(Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) The Belvedere Torso 1591 Red chalk,
255 × 166 mm provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89)1; Cardinal Decio
Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio Odescalchi
(1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers Foundation, 1790.
literature: Scholten 1904, p. 42, no. N 31; Reznicek, 1961, vol. 2, pp. 321–22,
no. 201, vol. 2, fig. 156; Miedema 1969, pp. 76–77; Brummer 1970, pp. 146, note
27, 148, repr.; Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, p. 109; Stolzenburg 2000, p.
437, no. 143; Brandt 2001, p. 148; Goddard 2001–02, p. 39 (erroneously as a
drawing in black chalk); Florence 2008, p. 62, under no. 33 (M. Schapelhouman);
Bober and Rubinstein 2010, p. 183, under no. 132; Nichols 2013a, pp. 56, 146,
under no. A-37, fig. 31. exhibitions: Recklinghausen 1964, no. 87
[unpaginated]; Munich and Rome 1998–99, pp. 44, fig. 43, 160, no. 49; Luijten
2003–04, pp. 130–31, no. 41.1. Teylers Museum, Haarlem, inv. no. N 31
From the High Renaissance onwards the Belvedere Torso was one of the most celebrated
of ancient statues, despite its fragmentary state.2 In the past it was
identified as the torso of Hercules because of the anatomy and the lion’s skin
on which it is seated. However, in the late 19th century doubts were raised as
to whether the skin really was that of a lion, making the Hercules
identification uncertain.3 Although the Torso is comprehensively signed
‘Apollonius, son of Nestor, of Athens’, his name is not found in classical
literature. It is assumed that he lived in the 1st century bc and that the
Torso is a repetition or paraphrase of an earlier model. Although the statue
was known from the 1430s, it was only when it was in the collection of the
sculptor Andrea Bregno in the later 15th century that it began to arouse
interest; in the early 16th century the sculpture entered the papal collections
and was placed in the Belvedere (see p. 26, fig. 23). Direct correspondences
with many of Michelangelo’s painted and drawn nude figures demonstrate the
importance of the Belvedere Torso for the great Italian artist and shortly
after Michelangelo’s death a number of stories emerged connecting him with the
Torso.4 According to such one tale, he had been surprised by a cardinal
kneeling before the statue (though only in order to examine it as closely as
possible).5 In 1590 Giovanni Paggi wrote from Florence to his brother Girolamo:
‘Michelangelo called himself a pupil of the Belvedere Torso, which he said he
had studied greatly, and indeed that he speaks the truth of this is to be seen
in his works.’6 Describing the statue as ‘the school of Michelangelo’ took this
association a step further.7 And yet the Renaissance artist appears to have
spoken only once about the Torso, albeit in highly positive language: Ulisse
Aldrovandi (1522– 1605) noted, in 1556 when the artist was still alive, that
the Torso was ‘singularmente lodato da Michel’Angelo’.8 Not surprisingly the
statue acquired great status both north and south of the Alps. This status
probably preserved it from the restoration suffered by many antique sculptures
in later centuries. Goltzius also seems to have felt the mysterious beauty of
the Torso, for he drew it no less than four times. All four drawings were
together in the collection of Queen Christina of Sweden (1626–89).9 But while
two are now in the Teylers Museum (fig. 1) the other two have been lost.
Goltzius undoubtedly knew the Torso even before he arrived in Italy, for
reduced copies after the sculpture circulated throughout Europe in the 16th
century; thus Goltzius’ friend and fellow Haarlem artist, Cornelis Cornelisz.
van Haarlem (1562–1638), had used the Torso as the model for a nude figure in a
painting Fig. 1. Hendrick Goltzius, The Belvedere Torso, c. 1591, black chalk,
253 × 175 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. no. K I 30 118 119 of
the late 1580s.10 It is reasonable to suppose that the Torso would have been
discussed at meetings of the ‘Haarlem Academy’,11 which Karel van Mander,
Cornelis Cornelisz. van Haarlem and Goltzius had set up in the mid-1580s. One
of the purposes of their ‘academy’ was to allow them to ‘study from life’ (om
nae ‘t leven te studeeren), which meant they drew from nude models and probably
from sculpture, plaster casts or other three-dimensional specimens as well.12
We may assume that during these drawing sessions they discussed human anatomy
and the exemplary way classical artists had depicted it. All three were able to
quote directly from the antique with the aid of Maarten van Heemskerck’s Roman
sketchbook (now Kupferstichkabinett, Berlin), which was then owned by Cornelis
Cornelisz. van Haarlem13 and which contained two views of the Torso.14 It is
noteworthy that Goltzius, who was generally meticulously faithful in his
depiction of classical sculptures, was not always so precise in his treatment
of the inscrip- tions on their pedestals.15 In his red chalk drawing of the
Belvedere Torso from the front he has omitted the signature, which would have
been clearly visible on the base. Even more curious is the fact that he
completely ignored the wear suffered by the statue, the result of decades spent
outdoors. Instead his drawings give the sculpture a freshness that makes it
seem alive. This emphasis on the statue’s lifelikeness and beauty can probably
be explained by Goltzius’ intention that these drawings should serve as
preparations for prints with an educational purpose: the study of anatomy based
on ideal models. The muscles of Goltzius’ Torso appear to be tensed, the skin
lifelike and infused with warmth. The muscles’ extreme exaggeration and
restless tension clearly display a Mannerist emphasis.16 Once in Rome,
surrounded by the clear, classic, ideal vocabulary of ancient statuary,
Goltzius would reject Mannerist exaggeration so the fact that he did not decide
to do so here may indicate that these two studies after the Torso were among
the first drawings he produced after his arrival in Rome. It is interesting to
note that Goltzius clearly used the Belvedere Torso in his fine Back of an
Athletic Man, now in the Uffizi Gallery in Florence (fig. 2).17 This drawing is
one of his Federkunststücke, or virtuoso drawings in pen, whose linear
execution often imitates engravings, with lines that swell and taper.
Curiously, the backbone in this drawing curves slightly to the left, while that
of the sculpture curves to the right. Is this a conscious change by Goltzius or
did he recall the statue in mirror image? The suggestion has sometimes been
made that Goltzius produced this great drawing in Italy to display his
virtuosity with the pen;18 however, we know that Goltzius travelled incognito
to avoid admirers (see cat. 6), 120 9. Peter Paul Rubens (Siegen 1577–1640
Antwerp) Two Studies of a Boy Model Posed as the ‘Spinario’ c. 1600–02 Red
chalk with touches of white chalk, 201 × 362 mm Inscribed recto, l.r., in pen
and brown ink by a late 17th- or early 18th-century hand: ‘Rubens’ provenance:
Gabriel Huquier (1695–1772); William Fawkener; his bequest to Museum, 1769.
literature: Hind and Popham 1915–32, vol. 2, p. 22, no. 52; Burchard and
D’Hulst 1963, vol. 1, pp. 34–35, no. 16 and vol. 2, pl. 16; Stechow 1968, pp.
53–55, fig. 43; Held 1986, p. 82, no. 39, pl. 23 on p. 172; New York 1988, p.
77, under no. 18, fig. 18-I; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 80; Paris
2000–01, p. 419, under no. 222, fig. 222a. exhibitions: London 1977, pp. 28–29,
no. 14 (J. Rowlands); London 2009–10 (no catalogue). Department of Prints and
Drawings, The British Museum, London, inv. T,14.1 Fig. 2. Hendrick
Goltzius, Back of an Athletic Man, pen and brown ink, 150 × 165 mm, Uizi,
Florence, inv. no. 2365 F so he is unlikely to have felt a need to demonstrate
his virtuoso skills. Perhaps Goltzius created this virtuoso draw- ing after his
Italian trip, or even before he went to Italy as he was already producing pen
work of this quality in the 1580s.19 The son of a wealthy Antwerp family,
Rubens was born in the German city of Siegen in 1577 but in 1589 returned with
his family to Antwerp where he received a humanistic education at the Latin
School run by Rumoldus Verdonck (1541–1620) and an artistic one with the
painters Tobias Verhaeght (1561–1631), Adam van Noort (1561–1641) and Otto van
Veen (c. 1556–1629). After entering the Guild of St Luke as an established
painter in 1598, Rubens set out for Italy in May 1600. This fundamental step in
Rubens’ training had been carefully prepared not only by the study of
engravings of classical statues and Renaissance masters by Marcantonio Raimondi
(c. 1480–1527/34) and his pupils assembled by van Veen in his workshop, but
also by eager reading of Roman texts such as Suetonius, Tacitus and Pliny the
Elder.1 The impact of classical antiquity on Rubens’ art and theory of art was
immense. Before arriving in Rome in 1601, Rubens spent time in Venice, then
Mantua, in the service of the Duke Vincenzo I Gonzaga (r. 1587–1612) as a
painter and a curator of his collections, and also in Florence. Although based
in Mantua, Rubens spent two extended periods in Rome, first from July 1601
until April 1602 and again from late 1605 (or early 1606) until October 1608.2
During this second period he shared a house with his scholarly elder brother
Philip (1574–1611), a pupil of the Flemish philologist and humanist Justus
Lipsius (1547–1606). In Rome Philip Rubens worked on the Electorum Libri duo
published in Antwerp in 1608, an influential study of the customs, morals and
dress of the ancients. Peter Paul assisted Philip in making drawings from
ancient monuments in prepara- tion for the plates, and he also contributed to
their explanatory notes. Rubens’ commitment to the systematic study of
classical antiquities, and in particular of sculpture in the round, is
testified to by the large number of sketches and drawings he made during his
Italian period, but also by those he executed after his return to Antwerp in
1608.3 In Rome Rubens visited the Belvedere Courtyard and some of the most
important private aristocratic collections, such as the Borghese, the Medici,
the Farnese, the Mattei and the Giustiniani. His drawings after the Antique are
among the most extraordi- nary ever produced, most of them in red or black
chalk; they show Rubens’ great virtuosity in handling the medium and, at the
same time, his deep understanding of the formal principles of the antique
statues. He obsessively sketched some of the most ‘muscular’ masterpieces of classical
statuary, such as the Laocoön (see p. 26, fig. 19) and the Farnese Hercules
(see p. 30, fig. 32), from all sides, many angles and in great detail, in order
to assimilate thoroughly the anatomical structure and the mathematical
proportions of the human body as part of his search for the rules of perfection
achieved by ancient artists.4 Returning to Antwerp in 1608, Rubens established
his own studio in an Italianate villa in the centre of the city – today the
Rubenshuis. His drawings after the Antique, bound in several books, remained in
his studio and continued to serve not only as an important reference and source
of inspiration for Rubens himself, but probably also as teaching tools for his
pupils. The purchase in 1618 by Rubens of the collection of ancient sculptures
owned by the English diplomat and collector Sir Dudley Carleton (1573–1632)
represented the first step towards the formation of one of the most important –
but short-lived – collections of antiqui- ties in Northern Europe, which Rubens
sold on to the 1st Duke of Buckingham in 1626.5 The pre-eminent figure of the
Flemish Baroque, a universal genius, Rubens also had an active diplomatic
career which in the 1620s led him to travel between the courts of Spain and
England. His last decade, the 1630s, was mostly spent in Antwerp, where he
devoted himself entirely to painting. Rubens’ theory on both the usefulness and
dangers of copying after the Antique are effectively expressed in his essay De
Imitatione Statuarum, a short treatise on the imitation of sculpture that
remained in manuscript in Rubens’ lifetime 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 mp See footnote 1 in cat. 6. Haskell and Penny 1981, pp. 311–14,
no. 80, fig. 165; Munich and Rome 1998–99; Bober and Rubinstein 2010, pp. 181–84,
no. 132. Wünsche 1998–99, p. 67. Michelangelo did indeed use the Torso directly
as a model; see Wünsche 1998–99, pp. 31–37; Haarlem and London 2005–06, pp.
116–17. Haskell and Penny 1981, p. 312. Guhl 1880, vol. 2, p. 42; Schwinn 1973,
pp. 36–37. Wright 1730, vol. 1, p. 268; Haskell and Penny 1981, pp. 312–13;
Schwinn 1973, p. 172; Montreal 1992, pp. 76–77. ‘... un torso grande di Hercole
ignudo, assiso sopra un tronco del medisimo marmo: non ha testa, ne braccia, ne
gambe. È stato questo busto singularmente lodato da Michel’Angelo’. U.
Aldrovandi, ‘Delle statue antiche, che per tutta Roma ... si veggono’, in Mauro
1556, p. 115. For Aldrovandi’s complete text ‘nel giardino di Belvedere, sopra
il Palagio del Papa’, see Brummer 1970, pp. 268–69. Stolzenburg 2000, pp. 437,
nos 142–44, 439, no. 161. Van Thiel 1999, pp. 79, 294, no. 7, pl. 34. According
to an anonymous biographer, shortly after arriving in Haarlem, around 1583,
Karel van Mander entered into a collaboration with Goltzius and Cornelis
Cornelisz. van Haarlem, described as follows: ‘the three of them maintained and
made an Academy, for studying from life’, see Van Mander 1994–1999, vol. 1, pp.
26–27 (fol. S2 recto), vol. 2, pp. 70–72; Van Thiel 1999, pp. 59–90. It should
be stressed that this academy was in no way an institution for advanced
professional training: such institutions came into being only in the 18th
century (see Van Mander 1994–99, vol. 2, p. 70). It is unclear how and for what
length of time this ‘Haarlem Academy’ exactly functioned (see also Leeflang
2003–04a, p. 16; Leeflang 2003–04b, p. 252. Veldman 2012, pp. 11–23. Hülsen and
Egger 1913–16, vol. 1, p. 34 (fol. 63), p. 40 (fol. 73). See also Brummer 1970,
pp. 144–45, figs 125–26. Brandt 2001, p. 143. Reznicek 1961, vol. 1, pp. 321–22,
no. K 201; Luijten 2003–04, p. 131. Reznicek 1961, vol 1, p. 452, no. 431, vol.
2, fig. 132; Florence 2008, pp. 61–62, no. 33 (M. Schapelhouman). Reznicek
1961, vol. 1, p. 452. Schapelhouman (in Florence 2008, p. 62) has previously
questioned the Italian dating for Back of an Athletic Man; for pen works by
Goltzius from the 1580s see: Amsterdam, New York and elsewhere 2003–04, pp.
238–39, figs 93–94, 242–46, nos 84–85. 121 but was published by the art
theorist Roger de Piles in his Cours de peinture par principles of 1708 (see
Appendix, no. 8).6 While emphasising the importance for an artist of becoming
deeply familiar with the perfection embodied in ancient models, Rubens warned
that ‘[the imitation of antique statues] must be judiciously applied, and so
that it may not in the least smell of stone’.7 The warning against the risk of
hardening one’s style by copying ancient sculptures, thus creating paintings
that looked ‘dry’ and eccentric, had already been pointed out by several
16th-century artists and theore- ticians, such as Giorgio Vasari (1511–74),
Ludovico Dolce (1508–68) and Giovanni Battista Armenini (1530–1609).8 Later in
the 17th century the pernicious effect on painting of too-slavish imitation of
antique statuary would be summa- rised by the Bolognese art theorist Carlo
Cesare Malvasia (1616–93) with the specific neologism ‘statuino’ or ‘statue-
like’.9 As stressed by Rubens in the De Imitatione, young artists needed to
learn how to transform marble into flesh instead of depicting figures as ‘coloured
marble’. The two studies on one sheet presented here perfectly express Rubens’
views: they are in fact an example of a practice – setting live models in the
poses of famous ancient statues – already diffused from the Early Renaissance
(see p. 23, fig. 14) and common practice within the curricula of the French and
Italian academies.10 Through this exercise Rubens could concentrate on the
classical pose and disre- gard the ‘matter’, something that he repeated in
modified form several times, in studies of live models in poses remi- niscent
of the Belvedere Torso, the Laocoön and other canonical statues.11 In the
present drawing, the young model is seen from his left side in the pose of one
of the most celebrated bronzes in Rome, the Spinario (‘Thorn-puller’), recorded
in the city as early as the 12th century among the antiquities at the Lateran
Palace and donated by Pope Sixtus IV (r. 1471– 84) to the Palazzo dei
Conservatori in 1471 (fig. 1, see also p. 23, fig. 15).12 Interpreted in the
Renaissance as the personifi- cation of the month of March or a shepherd, the
Spinario has been recently recognised as the young Ascanius, the son of Aeneas
and founder of the gens Iulia.13 The right-hand drawing faithfully imitates the
pose of the statue, with the head looking down towards the gesture of
extracting a thorn from the foot; the left-hand drawing, in contrast, modifies
the original by turning the head towards the spectator and altering the action
so that the youth no longer withdraws a thorn from his foot, but dries it with
a towel. Two similar studies, presumably after the same young model, are
preserved in the Musée des Beaux-Arts, Dijon (fig. 2) and in London (private
collection): the former, in red chalk, shows the model from his back and his
right;14 the latter, in black chalk, from his left.15 The three drawings were
probably done in the same session and they have been dated to one of Rubens’
two Roman periods, probably the first one (1600–02).16 As long ago noted by
Wolfgang Stechow,17 the pose of 122 123 Fig. 1. (left) Spinario
(Thorn-Puller), 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums, Sala dei
Trionfi, Rome, inv. 1186 Fig. 2. (above) Peter Paul Rubens, Two Studies of a
Young Model Posing as the Spinario, red chalk with touches of black chalk, 246
× 382 mm, Musée des Beaux-Arts, Dijon, inv. sup. 49D the Spinario was
employed by Rubens for a young man drying his feet in the Baptism of Christ,
painted for the Jesuit church of Santa Trinità in Mantua in 1605 and now in the
Royal Museum of Fine Arts in Antwerp, a preparatory drawing for which is in the
Louvre,18 as well as for Susanna in Susanna and the Elders, a painting executed
in Rome about 1606–08, 19 ed 1 For Rubens’ early years see Muller 2004, pp.
13–15. 2 On Rubens in Rome and his approach to the Antique see esp. Stechow
1968; Jaffé 1977, pp. 79–84; Muller 1982; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp.
41–81; Muller 2004, pp. 18–28. 3 On Rubens’ drawings after the Antique see the
fundamental catalogue in Van der Meulen 1994–95, vol. 2. 4 See Ayomonino’s
essay in this catalogue, pp. 46–52. 5 See Muller 1989, passim; Muller 2004, pp.
35–56. On the collection of antiquities see in particular Muller 1989, pp.
82–87; Antwerp 2004, pp. 260–63 (F. Healy). On the sale to the 1st Duke of
Buckingham see Muller 2004, pp. 62–63. 6 On the De Imitatione see Muller 1982;
Van der Meulen 1994–95, vol. 1, esp. 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 p. 71,
note 11, pp. 77–78, note 44; Antwerp 2004, pp. 298–99; Jaffé and Bradley
2005–06; Jaffé 2010. Transcribed in Appendix, no. 8, from De Piles 1743, pp.
87–88. For Vasari see Bettarini Barocchi 1966–87, for instance vol. 3, pp.
549–50 and vol. 5, pp. 495–61. For Dolce see Appendix, no. 4. See Armenini
1587, esp. pp. 59–60 (book I, chap. 8), pp. 86–89 (book II, chap. 3). The
concept was repeated later also by Bernini during his visit to Paris in 1665:
see Appendix, no. 9. See also Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 77–78.
Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On the 17th-century neologism
‘statuino’ see Pericolo, forthcoming. See Aymonino’s essay in this volume, pp.
50–52. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 80–81. The statue is traditionally
considered to be an eclectic work of the 1st century bc: see Stuart Jones 1926,
pp. 43–47, no. 2; Haskell and Penny 1981, pp. 308–10, no. 78; Bober and
Rubinstein 2010, p. 254, no. 203. Recent analysis has proved that the
classicistic head, dating to the 5th century bc, was added to the Hellenistic
body and given a Roman subject presumably in the 1st century bc, see Rome forthcoming.
Rome forthcoming. Held 1986, p. 82; Paris 2000–01, pp. 417–18, no. 222. Held
1986, p. 82; Paris 2000–01, p. 418, fig. 222b. Held 1986, p. 82. Stechow 1968,
pp. 54–55. See also Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 80–81. Lugt 1949, pp.
12–13, no. 1009, pl. XIV; Antwerp 1977, p. 129, no. 121. Coliva 1994, p. 170,
no. 88. 10. Odoardo Fialetti (Bologna 1573–c. 1638 Venice) Artist’s Studio c.
1608 Etching in Odoardo Fialetti, Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le
parti et membra del corpo humano, Venice, Justus Sadeler, 1608 110 × 152 mm
(plate); 194 × 238 mm (sheet) Inscribed l.l. with Fialetti’s monogram and ‘A 2’
and ‘No 208’. provenance: Elmar Seibel, Boston, from whom acquired. literature:
Rosand 1970, pp. 12–22, fig. 10; Buffa 1983, pp. 315–37, nos 198 (295) – 243
(301), repr. (for the Artist’s Studio, p. 321, no. 210 (298), repr.);
Amornpichetkul 1984, pp. 108–09, fig. 83; Bolten 1985, pp. 240–43, 245 and 248;
Boston, Cleveland and elsewhere 1989, pp. 248–49, no. 130 (D. P. Becker); London
2001–02, pp. 198–200, no. 143; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 94–96, no. 24 (
J. Clifford); Walters 2009, vol. 1, pp. 68–79, vol. 2, pp. 254–76, figs.
3.9–3.53; Walters 2014, pp. 62–63, fig. 59; Whistler 2015 (forthcoming). and
now in the Borghese Gallery. 124 125 exhibitions: Not previously exhibited.
Katrin Bellinger collection, London, 2002–013 A prolific artist whose large and
diverse body of work comprises some fifty-five paintings and about 450 prints,
Fialetti was born in Bologna in 1573 but moved to Venice where he was
apprenticed to Jacopo Tintoretto (1519–94) and where he later collaborated with
Palma Giovane (c. 1548– 1628).1 By 1596 he was listed as a printmaker and, from
1604 to 1612, a member of the Venetian painters’ guild, the Arte dei Pittori;
he joined the Scuola Grande di San Teodoro between 1620 and 1622.2 His
wide-ranging graphic oeuvre comprises religious, mythological, and literary
subjects as well as landscapes, portraits, depictions of sport (fencing and
hunt- ing), ornamental motifs and anatomical studies, and appears in different
formats and genres, from single or series of prints to complete illustrations
for books.3 His etchings remained influential for decades after his death not
only in Venice and northern Italy, but even in France and England.4 Without
doubt Fialetti’s most admired and influential works were his two volumes of
etchings: Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parte et membra del
corpo humano (‘The true means and method to draw all the parts of the human body’)
and Tutte le parti del corpo humano diviso in piu pezzi . . . (‘all the parts
of the human body divided into multiple pieces’). The first was published in
Venice in 1608 by Justus Sadeler (Flanders 1583–1620), and the second, which is
undated, presumably appeared in Venice shortly thereafter. The two books are
varied in their plates and paginations and exist in different compilations,
sometimes confusingly, combining elements of both as in the example shown
here.5 The first of their kind to be published in Italy, these books served as
portable instruction manuals in drawing for beginners and amateurs. They
provided techniques for the correct construction of the human face and body and
they also illustrate the crucial role of copying plaster casts in work- shop
practice at the end of the 16th and beginning of the 17th centuries. The
Bellinger volume includes a frontispiece dedication to Cesare d’Este, the Duke
of Modena and Reggio (1561–1628), a leaf with a further dedication to Giovanni
Grimani (the Venetian patrician and collector of antiquities, 1506–93), six
pages with step-by-step instructions on draw- ing eyes, ears and faces, another
title page, Tutte le parti . . . and thirty leaves of further faces, various
parts of the body – arms, legs, torsos – grotesque heads and portraits.6 The
volume concludes with two religious etchings by Palma Giovane.7 Unusual for
manuals of the period is the scene depicted on the first plate following the
dedications: a lively and infor- mal artists’ workshop, sometimes thought to be
Tintoretto’s.8 In the foreground, young students seated on low wooden benches
draw diligently before models and assorted plaster casts of body parts arranged
on and below a table, while two older artists are painting at large easels in
the background.9 At the far left, an apprentice grinds pigments. Scattered on
the ground are various artists’ tools including compasses, an inkwell and
feather quill pen. Boy draughtsmen representing three different ages – roughly
from six to sixteen – diligently record a cast of the young Marcus Aurelius,
similar in type to the marble of 161– 180 ad now in the Capitoline Museum in
Rome (fig. 1).10 Behind them, two slightly older boys enthusiastically discuss
a completed copy. The torso next to the bust, although reminiscent of the
Belvedere Torso, (p. 26, fig. 23), appears to be based on a different antique
sculpture, which seems to be the subject of a drawing of seven male torsos in
various positions in a sketchbook by an unidentified Northern artist working in
Rome in the mid- to late 16th century (Trinity College Library, Cambridge, fig.
2).11 The torso seen in Fialetti’s etching is comparable to the one with the
upraised right arm placed at the lower centre of the Trinity page;12 it was
evidently a favourite of Fialetti’s as it reappears later in his book (fig.
3). The cast of the armless female torso on the floor on the right in the
etching also derives from an antique prototype. She is probably based on a
now-lost version of Venus Tying her Sandal, a Hellenistic type well known in
the Renaissance and one that inspired many adaptations,13 such as that in an
anonymous Italian drawing in the Fitzwilliam Museum, Cambridge (fig. 4). The
male torso depicted in that drawing is also very similar to that in the etching.
Fialetti would have had ample opportunity to study Antique statuary first-hand
during a trip to Rome, made before he settled in Venice, though plaster casts
were an integral part of Venetian workshop practice from the 16th century
onwards.14 They were in wide use in Tintoretto’s studio where Fialetti trained.
According to his biographer, Carlo Ridolfi, Tintoretto collected plaster casts
of ancient and Renaissance marbles avidly and at great expense: ‘Nor did he
cease his continuous study of whatever hand or torso he had collected’.15 From
the chalk drawings he produced, ‘thus did he learn the forms requisite for his
art’.16 The casts remained in the Tintoretto family workshop when Domenico
(1560–1635), his son, took it over and are Fig. 1. Portrait of Marcus Aurelius
as a Boy, 161–180 ad, marble, 74 cm (h), Capitoline Museums, Palazzo Nuovo,
Albani Collection, Rome, MC 279 Fig. 2. Anonymous artist working in Rome,
Studies of Male Torsos, mid to late 16th c., pen and brown ink, 280 × 450 mm,
folio 47v from the Cambridge Sketchbook, Trinity College Library, Cambridge, R.
17.3 recorded in his will of 1630.17 The younger Tintoretto for a period
considered bequeathing to painters his house and studio with its contents –
reliefs, drawings and models – so that an academy could be established to train
future generations of Venetian artists, although nothing came of this scheme.18
Whether the Artist’s Studio seen here is actually Tintoretto’s or simply a
generalised venue, Fialetti asserted the centrality of drawing, especially for
young artists.19 This also recorded his own experience: when as a boy, he asked
what he should do in order to make progress, he was advised by Tintoretto that
he ‘must draw and again draw’.20 By the early 17th century, repeated and systematic
study from studio drawings, plaster casts, sculpture, as well as anatomy and
the live model was deemed essential preparation for the accurate portrayal of
the human figure.21 But in order to depict the body as a whole, students first
had to master its individual parts, a tenet of Central Italian working practice
that was perpetuated throughout the 16th century by artists and writers like
Giovan Battista Armenini (1525–1609) and Federico Zuccaro (c. 1541–1609), who
instructed pupils to draw parts of the body, an ‘alphabet of drawing’.22
Similar principles were espoused by the Carracci Academy in Bologna, of which
Fialetti was no doubt aware.23 While precedents for instructional drawing books
are found in 15th-century model and pattern books containing motifs that
artists could copy into their compositions (p. 20, figs 3–4),24 Fialetti’s were
the first aimed at students and amateurs as well as art lovers and
collectors.25 They also seem to be the first of their kind to be printed in
Venice.26 Other publications modelled after them soon followed in the Veneto
and elsewhere in Italy, notably De excellentia et nobilitate delineationis
libri duo, published 126 127 by Giacomo Franco (1573–1652)
in 1611 based on designs by Palma Giovane and prints by Battista Franco (c.
1510–1561) as well as Gasparo Colombina’s Paduan publication of 1623.27 Like
Fialetti’s compendia, Giacomo Franco’s treatise featured several plates
incorporating antique motifs: busts of the Laocoön (p. 26, fig. 19), the
Emperors Vitellius (p. 40, fig. 52) and Galba were inserted among the etched
portraits on plates 18 and 20 while plates 14 and 25 showed torsos of a female
Venus Tying her Sandal type much like that seen in Fialetti’s etching.28 In the
decades that followed, the Antique would assume a greater role in drawing
manuals.29 Several published at the end of the 17th century, like Gérard
Audran’s Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures
de l’antiquité,1683 (p. 48, figs 72–73) and Jan de Bisschop’s Icones, 1668/69
(see cat. 13) and into the 18th century, such as Giovanni Volpato and Raffaello
Morghen’s Principi del disegno, 1786 (p. 49, fig. 76), would focus on
antiquities exclusively. The influence of Fialetti’s books was far-reaching and
persisted long after his death. Plates from them were copied and adapted for
publications appearing both in Italy and elsewhere:30 for example Johannes
Gellee copied the Artist’s Studio and other etchings in his Tyrocinia artis
pictoriae caelatoriae published in Amsterdam in 1639.31 Fialetti’s vol- umes
also influenced a great many other books published in the Netherlands, paving
the way for Abraham Bloemaert’s Tekenboek of 1740 (cat. no. 11).32 Furthermore,
Fialetti’s manuals catered to a new demo- graphic – the connoisseur, gentleman
scholar and mature artist – and would inspire similar books printed in
England.33 With the growing market for Venetian art in England during the first
decades of the 17th century and accelerated interest in drawing, Fialetti’s
work was esteemed not just by Venetians but by aristocratic collectors visiting
Venice like Sir Henry Fig. 3. Odoardo Fialetti, Two Male Torsos Seen from
Behind, c. 1608, etching, 103 × 142 mm, plate 30 from Il vero modo...1608,
Katrin Bellinger collection Fig. 4. Anonymous, Roman School, Studies after
Antique Statuary (Fragments), c. 1550, pen and brown ink and brown wash, black
chalk, heightened with white on blue-green paper, 294 × 212 mm, Fitzwilliam
Museum, Cambridge, inv. 2978. © The Fitzwilliam Museum, Cambridge Wotton (1568–1639)
and Thomas Howard, the 2nd Earl of Arundel (1585–1646), among others, who
undoubtedly admired his facile draughtsmanship.34 Interestingly, Fialetti’s
biographer, Malvasia, who praised his versatility, mentioned that as well as
giving drawing lessons to Venetians, he also instructed Alethea Talbot, the
Earl of Arundel’s wife, whose grandson owned one of Fialetti’s books.35 Through
connections like these, Fialetti attracted the attention of English-based
artists and architects including Edward Norgate (c. 1580–1650), Inigo Jones
(1573–1652) and Anthony Van Dyck (1599–1641).36 Copied and emulated, Fialetti’s
plates would play a key role in the development of the drawing book in
England.37 Treatises by Norgate (1627–28, 1st ed.; 1648–49, 2nd ed.), Isaac
Fuller (1654), Alexander Brown (1660), and others helped to further the
principles set forth in Fialetti’s books, which were copied well into the 19th
century.38 avl 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 For a full appraisal of
his life and work on which this biographical account is based, see Walters 2009
and Walters 2014, pp. 57–67. Walters 2009, vol. 1, pp. 6–7; Walters 2014, p.
58. Walters 2014, p. 57. Walters 2009, vol. 1, p. vi. Beginning with Bartsch,
there has been considerable confusion over the size and content of the two
editions. See Walters 2009, vol. 1, pp. 68–70, particularly note 40 and Walters
2014, pp. 66–67, note 23; Greist 2014, pp. 14–15. Alexandra Greist (ibid., pp.
12–18) published a little-known instruc- tional text by Fialetti dictating how
he wished the manual to be used, printed on the versi of nine prints bound
together with early editions of both books (Rijksmuseum, Amsterdam,
C/RM0024.ASC/552*1, Shelfmark 325G6). Among the plates not included in the
present volume is the painter’s studio showing artists measuring human
proportions: Buffa 1983, p. 321, no. 211 (298). The Holy Family and Christ
Preaching. Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248; Nichols 2013b, pp.
195, 236, note 134. The standing painter in profile is believed by some
scholars to be Tintoretto (Ilchman and Saywell 2007, p. 392; Nichols 2013b, p.
236, note 134). Nichols points to the similarity with the painter as seen in
Francesco Pianta the Younger’s wood-carving, Tintoretto as ‘Painting’, in the
Scuola Grande di San Rocco, Venice (Nichols 1999, p. 238, fig. 212). His
elongated body, unlike the others in the etching, and his energetic pose and
outstretched right arm, recall Tintoretto’s studies of single figures.
Alternatively, Catherine Whistler (2015, forthcoming) has suggested that the
studio may evoke Palma Giovane ‘given that there is something of his panache in
the figure of the painter at work and in the costume of the seated artist’. She
further noted their similarities to his self-portrait in the Brera (Mason
Rinaldi 1984, pp. 92–93, 213, fig. 117). Fittschen and Zanker 1985, vol. 1, pp.
67–68, no. 61, vol. 2, pls 69, 70, 72. CensusID: 46328. Michaelis 1892, p. 99,
no. 60v; Dhanens 1963, p. 185, no. 52v, fig. 30; Fileri 1985, pp. 39–40, no.
48, repr. Given in the 19th c. to a Flemish artist working in Rome around 1583
(Michaelis 1892), more recently the sketchbook has been associated with the
sculptor, Giambologna (1529– 1608), and his Roman trip of 1550 (Dhanens 1963
and Fileri 1985). As pointed out by Eloisa Dodero (personal communication).
Künzl 1970; Bober and Rubinstein. 2010, p. 69, no. 20; CensusID: 58121. Walters
2014, p. 57. Ridolfi 1984, p. 16. Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Whitaker 1997.
Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Ridolfi 1984, p. 16. 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26
27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 Tozzi 1933, p. 316. Ridolfi 1914, vol. 2,
pp. 262–63. Rosand 1970; Walters 2009, vol. 1, p. 73. Because ‘drawing was what
gave to painting its grace and perfection’, Ridolfi added (Ridolfi 1914, vol.
2, p. 65; Ridolfi 1984, p. 16). Muller 1984; Bolten 1985; Walters 2009, vol. 1,
p. 73. Armenini 1587, pp. 52–59 (book 1, chap. 7); Alberti 1604, p. 5 (quoting
Federico Zuccaro); Amornpichetkul 1984; Bleeke-Byrne 1984; Roman 1984, p. 91;
Greist 2014, p. 15. Gombrich 1960, p. 161–62; Rosand 1970, pp. 7, 14–15; Bolten
1985, p. 245; Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248 (D. P. Becker);
Houston and Ithaca 2005–06, p. 95 (J. Clifford); Walters 2009, vol. 1, p. 74;
Walters 2014, pp. 62, 66, note 6. On the Carracci’s influence on model books,
see Amornpichetkul 1984, pp. 113–16. For model books, see Gombrich 1960, pp.
156–72; Rosand 1970, p. 5; Ames- Lewis 2000a, pp. 63–69; Nottingham and London
1983, pp. 94–101; Amornpichetkul 1984, p. 109. D. P. Becker, in Boston,
Cleveland and elsewhere 1989, p. 248; J. Clifford, in Houston and Ithaca
2005–06, p. 95. Catherine Whistler has argued persua- sively that the book was
aimed at a growing market of virtuosi, art lovers and collectors, who placed a
social value on the knowledge of drawings (Whistler 2015, forthcoming). Walters
2009, vol. 1, p. 69; Walters 2014, p. 62. For the growing interest in
publishing prints at this time in Venice, see Van der Sman 2000, pp. 235–47.
Rosand 1970, p. 17–19; Amornpichetkul 1984, p. 110–12; Walters 2009, vol.
1,p.74. Rosand 1970, pp. 15, 27. Amornpichetkul 1984, p. 115. Ibid., p. 112; D.
P. Becker in Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248 (D. P. Becker);
Walters 2009, vol. 1, p. 75–79. Bolten 1985, pp. 132–39. Ibid., pp. 119, 131,
133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56; Walters 2009, vol. 1, p. 79.
Whistler 2015 (forthcoming). For a fundamental discussion of Fialetti and his
impact in England, see Walters 2009, vol. 1, Chapter 5, pp. 152–197. See also
Walters 2014, pp. 64–65. Malvasia 1678, vol. 2, p. 312; Greist 2014, p. 12.
Walters 2009, vol. 1, p. 152; Walters 2014, pp. 64–65 Amornpichetkul 1984, p.
112; Walters 2009, vol. 1, pp. 78, 152. Walters 2009, vol. 1, pp. 78, 180–97;
Greist 2014, p. 14. 128 129 11. Frederick Bloemaert (Utrecht
c. 1616–90 Utrecht) after Abraham Bloemaert (Gorinchem 1566–1651 Utrecht) A
Student Draughtsman, Drawing Plaster Casts 1740 Engraving and chiaroscuro
woodcut with two-tone blocks (brown and sepia), titlepage from Het Tekenboek
(‘The Drawing Book’), Amsterdam, Reinier and Josua Ottens, 1740 303 × 222 mm
(image); 378 × 286 mm (sheet) provenance: Elmar Seibel, Boston, from whom
acquired. literature: Strauss 1973, p. 348, no. 1 64, repr.; Lehmann-Haupt
1977, pp. 155–57, fig. 125; Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, pp. 16–17;
Bolten 1985, p. 49, repr., pp. 57–67; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p.
395, vol. 2, fig. T1a; Bolten 2007, vol. 1, pp. 362, 366, under no. 1150.
exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no.
1995-071 Abraham Bloemaert, a prolific artist by whose hand over two hundred
paintings and sixteen hundred drawings are known, was born in Gorinchem in
1566.1 From the age of 15 or 16, he spent three years in Paris from 1581–83,
studying for six weeks with the otherwise unknown Jehan Bassot and then for two
and a half years with the similarly obscure ‘Maistre Herry’. His third teacher
in Paris was his fellow countryman Hieronymus Francken I (1540–1610).2 In 1611,
along with Paulus Moreelse (1571–1638) and several colleagues, Bloemaert
founded the new painters’ guild in Utrecht, the Guild of St Luke, and became
its deacon in 1618.3 Shortly after the guild’s foundation, around 1612, some
form of drawing academy must have been established in Utrecht, again with
Bloemaert’s involvement. We learn about this from a letter to the Utrecht
antiquarian Arnout van Buchell (1565–1641) and in Van ’t Light der Teken en
Schilder konst (‘About the Light of the Art of Drawing and Painting’) of
1643–44, by Crispijn de Passe the Younger (c. 1597– c. 1670).4 In the
introduction to his book De Passe recalls how he learned his art together with
the son of Paulus Moreelse ‘in a famous drawing school which was, at that time
organized by the most eminent masters’.5 The well-known print Modeltekenen
(‘Model Drawing’) from De Passe’s book is thought to repre- sent this school
(fig. 1) and it has even been suggested that one of the two tutors looking over
the students’ work is Abraham Bloemaert himself.6 We do not know how long this
‘Academy’ existed. Bloemaert had a large studio of his own with many pupils,
including his four sons and many well-known Dutch artists, such as the
Italianate painters Cornelis van Poelenburgh (1594/95–1667), Jan Both (c.
1618–52) and Jan Baptist Weenix (1621–60/61), as well as the Caravaggists
Gerrit van Honthorst (1590–1656) and Hendrick ter Brugghen (1588–1629).7 A
development can be traced in Bloemaert’s work from a robust Mannerism,
influenced by artists such as Joachim van Wtewael (c. 1566–1638), towards a
more classicist style which he presumably derived from Hendrick Goltzius
(1558–1617) and his Haarlem colleagues. Caravaggism made a brief appearance in
Bloemaert’s work during the early 1620s, when his first pupils returned from
Italy – which, inciden- tally, he never visited himself. At the end of
Bloemaert’s life his style grew smoother and more even. In teaching, Bloemaert
undoubtedly used his own drawings as examples for his many pupils to copy.8 He
found this approach so productive – and perhaps commercially attractive – that
towards the end of his life he joined forces with his son Frederick (c.
1616–90) in the publication of the Tekenboek or ‘Drawing Book’, a compilation
of specimen drawings.9 The prints in the Tekenboek, which were cut by Frederick
after drawings by his father, were published in instalments from c. 1650.10
Abraham’s reversed preparatory drawings, which he probably began around 1645
and some of which reproduce earlier work, are preserved en groupe in the
Fitzwilliam Museum in Cambridge,11 including that for Fig. 1. Crispijn de
Passe, Model Drawing, from: Van ’t Light der Teken en Schilder konst (‘About
the Light of the Art of Drawing and Painting’), 1643, engraving, 330 × 390 mm,
Rijksmuseum Research Library, Amsterdam, inv. no. 330B13 130 131
Fig. 2. Abraham Bloemaert, A Student Draughtsman, Drawing Plaster Casts, pen
and brown ink, 397 × 301, Fitzwilliam Museum, Cambridge, Inv. PD 166–1963.5. ©
The Fitzwilliam Museum, Cambridge the title page displayed here (fig. 2).12 The
title page of Bloemaert’s Tekenboek, catalogued here in the most popular
18th-century edition (1740), shows an artist seated on the floor of an
imaginary studio, drawing 13 artist has again created the suggestion of antique
pieces. Images of artists drawing in a studio combined with assem- blages of
plaster casts are highly appropriate subjects for drawing books. In earlier
Italian and Netherlandish examples we encounter similar images, such as
Modeltekenen (‘Model Drawing’) by De Passe from 1643 (fig. 1), by Petrus Feddes
(1586–c. 1634) from around 1615, and especially by Odoardo Fialetti (1573–c.
1638), in his highly influential Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le
parte et membra del corpo humano (‘The true means and method to draw all the parts
of the human body’) and Tutte le parti del corpo humano diviso in piu pezzi . .
. (‘all the parts of the human body divided into multiple pieces’) of c. 1608
(also featured here as cat. 10).18 For apprentices the copying of
two-dimensional works, such as prints and drawings – and also paintings – was
followed by drawing from plaster casts, a crucial activity in the work- shop
practice. Ideal examples were employed to prepare the student for drawing from
life, from the real world and especially from clothed and nude models.14 Such
plaster casts invariably included copies of well-known classical statues, plus
copies of more modern works and casts of limbs and body parts taken from live
models, such as those seen here hanging on the wall behind the draughtsman. In
this image the casts do not include any firmly identifiable antique statues,
although a number are clearly intended to suggest them, such as the female head
at lower right with the short, rounded hairstyle and the male torso beside it,
which resembles the Belvedere Torso (p. 26, fig. 23); the pose of the reclining
man is reminiscent of an antique River God. In this image Bloemaert made clear
his allegiance to classical tradition, and the importance of antique works as
the Bloemaert’s Tekenboek, which only contains specimens Fig. 3. Frederick
Bloemaert after Abraham Bloemaert, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing
after Plaster Casts, engraving, 280 × 165 mm, Katrin Bellinger collection,
London from the plaster figure of an elderly, reclining man. foundation for the
learning of art.15 Midway through the Tekenboek, Bloemaert reiterates this 132
133 sentiment regarding the importance of antique works by incorporating a
similar title page, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after Plaster Casts
(fig. 3), in the section on ‘Mannelijke en Vrouwelijke Academie Figuren’ (‘Male
and Female Academy Figures’).16 This features the same or a similar
draughtsman, now seated at a table in a more realistic setting and drawing from
a plaster model of a nude male torso. Around him lie other casts: a male head,
a foot and a further torso seen from the back. As in the first title page, no
recognisable antique sculptures can be seen, although the 17 of heads, faces,
body parts and figures, is a product of direct studio practice. It is thus
different in approach from the other important mid-17th century Netherlandish
drawing book, mentioned above, Van ’t Light der Teken en Schilder konst (‘About
the Light of the Art of Drawing and Painting’; 1643), by De Passe the Younger.
De Passe primarily focuses on the structure, proportion and anatomy of the
human body;19 examples of models and ways to learn to draw them are of
secondary importance. Bloemaert’s Tekenboek is actually closer in character in
its approach and images to the two volumes of etchings produced by Fialetti,
which were probably known to the Bloemaerts in one of the Dutch editions.20 The
Bloemaerts’ publication might well be described as the Northern counterpart to
Fialetti’s books.21 And as in those the emphasis in the Tekenboek is on
providing many practical examples of heads, faces and limbs to draw. Like
Fialetti’s works it may be regarded as a portable instruction manual for
drawing. Bloemaert’s Tekenboek was exceptionally popular from the time of its publication
around 1650 to the end of the 18th century.22 Many editions followed the first
(very rare) editio princeps, which probably contained 100 plates arranged in
five parts.23 After his father’s death in 1651, Frederick must have published
one or more sub-editions with 120 plates in six parts and around 1685 Nicolaes
II Visscher (1649–1702) another with 160 plates. Several decades later, in
1723, an edition by Louis Renard (dates unknown) appeared (of which only one
copy is known), with 166 plates in eight parts arranged by Bernard Picart
(1673–1733).24 The same arrangement was retained in the best-known edition of
Bloemaert’s work, published by Reinier and Josua Ottens, the magnificent 1740
volume displayed here. At that time the title was changed to Oorspronkelyk en
vermaard konstryk tekenboek van Abraham Bloemaert (‘Original and famous artful
drawing book of Abraham Bloemaert’). Bloemaert’s popula- rity was certainly not
restricted to the Dutch Republic: artists such as François Boucher (1703–70) and
Balthasar Denner (1685–1749) also took the Utrecht master as a model for their
own work.25 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25
Teekenschool/die op dien tijt van de voornaamste meesters wiert gehouden heb
gedaan’. Schatborn suggests that this drawing school might have been in France
where Van de Passe spent a long period, 1617–30 (see Amsterdam and Washington
D.C. 1981–82, p. 21). Veldman emphasises that De Passe’s book is a tribute to
the city of Utrecht, thanking the city for spiritual nourishment including the
Utrecht Drawing School (Veldman 2001, pp. 337–38). Suggestion by Bok in
Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 571. Roethlisberger and Bok 1993, vol.
1, pp. 645–51. Such a group of drawings (mixed with prints) occurs for example in
the estate of the painter Gaspar Netscher (1639–84): ‘In the brown portfolio [
] are 327 both prints and drawings [ ] serving for disciples to copy’; see
Amsterdam and Washington D. C. 1981–82, p. 17; Plomp 2001, p. 37. For artists’
practical education in the Netherlands and Italy in the 16th and 17th centuries
see Bleeke-Byrne 1984, pp. 28–39. Bloemaert’s Tekenboek was published with the
Latin title: Artis Apellae, liber hic, studiosa juventus, / Aptata ingenio fert
rudimenta tuo ... (This book, studious youths, brings to your minds the
appropriate rudiments of the art of Apelles ...); see Bolten 1985, p. 51;
Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 395 [translation]). It is possible that
Abraham Bloemaert conceived the idea of producing such a Tekenboek much earlier
in his career: the Giroux album, containing many figure studies, may well
constitute Bloemaert’s initial selection for such a didactic project; see
Bolten 1993, p. 9, note 6; Bolten 2007, vol. 1, pp. 350–61. For the publication
in instalments see: Bolten 2007, vol. 1, p. 362. Bolten 1985, p. 66; Bolten
2007, vol. 1, pp. 362–97, nos. 1150–1311. For doubts regarding Bloemaert’s
authorship of the drawings in Cambridge see Bolten 1985, p. 48 (‘A. or F.
Bloemaert’); Roethlisberger 1992, p. 30, note 41; Roethlisberger and Bok 1993,
vol. 1, p. 391; Bolten 1993, pp. 6–8. Bolten 2007, vol. 1, p. 363, no. 1150,
vol. 2, fig. 1150. The scene was engraved, then supplemented with a chiaroscuro
woodcut with two-tone blocks (brown and sepia). This technique and the dimen-
sions (303 × 222 mm [image]) are the same in the editio princeps from c. 1650
and the 1740 edition displayed here (see Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1,
p. 395). See Aymonino’s essay in the present volume, pp. 15–77. According to
Roethlisberger and Bok (1993, vol. 1, p. 395), there is little or no
discernible influence of ancient sculpture in his own work. The engraving, A
Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after Plaster Casts (fig. 3), does not
appear in the editio princeps from circa 1650, but does feature in the 1685
edition and later ones (Bolten 2007, vol. 1, p. 392, under no. 1290). The
original drawing for this engraving is also in the Fitzwilliam Museum,
Cambridge: Bolten 2007, vol. 1, p. 392, no. 1290, vol. 2, fig. 1290. For Feddes,
see Bolten 1985, p. 18, repr.; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 395. For
De Passe’s Tekenboek see: Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, pp. 15–17, 21,
repr. For Dutch editions of Fialetti and for Dutch publications based or
partially reprinting Fialetti see Bolten 1985, pp. 119, 131, 133–34, 141, 143,
153, 157, 188–207, 243–56. According to Strauss (1973, p. 348) Bloemaert’s
title page was ‘patterned partly on the frontispiece of Odoardo Fialetti’s Vero
modo et ordine per dessignar Tutte le parti et membra del corpo humano, Venice
(Sadeler), 1608’. See also Lehmann-Haupt 1977, p. 157. For Bloemaert’s fortuna
critica see: Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, pp. 47–50. Regarding the
Tekenboek Roethlisberger surmises that the 1740 edition was intended for print
and book collectors, rather than artists: ibid., vol. 1, p. 394. For the
various reprints of Bloemaert’s Tekenboek cited in this paragraph see Bolten
2007, vol. 1, p. 362. There were also various editions of sets of prints copied
after Frederick’s engravings [consequently printed in reverse] during the
second half of the 17th century and in the 18th century (see ibid., p. 362,
note 22). The only known copy of the 1723 edition is in the Centraal Museum in
Utrecht (see Bolten 2007, vol. 1, p. 362). Slatkin, 1976; Gerson 1983, pp.
109–10 (Boucher and Fragonard), p. 189 (Piazzetta). 1 2 3 4 5 mp For
Bloemaert’s life on which this biographical account is based, see
Roethlisberger and Bok, 1993, vol. 1, pp. 551–87; Bolten 2007, vol. 1, pp. 3–5.
For ‘new’ Bloemaert paintings, see Roethlisberger, 2014, pp. 79–92. Van Mander
1994–99, vol. 1, pp. 448–49 (fol. 297v). Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1,
p. 570. Ibid., vol. 1, p. 571. Verbeek and Veldman 1974, p. 146, no. 191; De
Passe 1643–44, unpaginated introduction, Aen de Teekunst-lievende en-gunstige
lezers, to the first part, met de zoon van Paulus Moreelse en anderen) in een
vermaarde 12. Michael Sweerts (Brussels 1618–1664 Goa, India) A Painter’s
Studio c. 1648–50 Oil on canvas, 71 × 74 cm provenance: Private collection,
Moscow; acquired by Dr Abraham Bredius (1855–1946); purchased by the
Rijksmuseum in 1901 for f. 400. selected literature: Martin 1905, pp. 127, 131,
pl. II [a]; Martin 1907, pp. 139, 149, no. 10; Horster 1974, pp. 145, 147, fig.
2; Van Thiel 1976, p. 532, A 1957, repr.; Döring 1994, pp. 55–58, fig. 2,
60–62; Kultzen 1996, pp. 88–89, no. 6, repr., with previous bibliography.
exhibitions: Milan 1951, no. 166, pl. 117; London 1955, pp. 90–92, no. 77 (D.
Sutton), not repr.; Rome 1958–59, pp. 32–34, no. 4 (R. Kultzen); Rotterdam
1958, pp. 36–37, no. 4; Toyko 1968–69, no. 63; Cologne and Utrecht 1991–92, pp.
270–72, no. 33.1 (R. Kultzen); Hannover 1999, pp. 18–20, fig. 9; Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, pp. 97–99, no. VII (G. Jansen); Antwerp 2004–07
(no catalogue); Brussels 2007–08 (no catalogue); Doha 2011 (no
catalogue). Amsterdam, Rijksmuseum, SK-A-1957 We have entered the shadowy
inner sanctum of a painter’s studio in mid-17th-century Rome. A young
draughtsman perched on a wooden stool to the left studies a life-size model of
a flayed nude écorché, assuming a balletic pose at centre right. Behind it,
another boy draughtsman, younger still, sketches a classical female bust
resting on a table, which is shared on the right by the studio assistant who
grinds red-hued pigments. Working at an easel in the left back- ground is a
painter, perhaps the master of the studio, capturing the likeness of a male
nude posed in the corner. Partly obscured in the shadows on the far left are two
gentle- men visitors in Dutch dress. One glances in our direction while the
other gestures to our right, perhaps towards the painter or the écorché. The
main attraction, however, is the abundant array of plaster casts, mostly
antique, piled up in the foreground – heads, torsos, limbs and a relief – all
bathed in warm, golden light. Though widely admired in his lifetime, Sweerts
remains a somewhat enigmatic figure about whom relatively little is known.1 He
was born in Brussels in 1618, but is first docu- mented from 1646 to 1651 as
residing on the Via Margutta in the parish of S. Maria del Popolo in Rome, an
area favoured by Dutch and Flemish expatriates.2 Already twenty-eight when he
arrived in the city, he would have had at least some artistic training before
then, probably in the North, though his early teachers have not been
identified. Neither signed nor dated, this canvas was probably executed by
Sweerts c. 1648–50 in Rome, where he remained until 1652 or later.3 In
travelling south, Sweerts was following a long-standing educational tradition,
one succinctly articulated by Dutch painter and art theorist Karel van Mander
(1548–1606) who stated: ‘Rome is the city where before all other places the
Painter’s journey is apt to lead him, since it is the capital of Pictura’s
Schools’.4 It is evident from the Painter’s Studio and other depictions of the
same or similar theme of the artist at work, a subject that clearly fascinated
him, that Sweerts was well aware of artistic theory of the day, particularly the
importance placed on learning through drawing.5 Karel van Mander recom- mends
beginning artists to ‘seek a good master’, one who has decent works of art in
his workshop, that is, an ample supply of study materials such as books,
prints, drawings and plaster casts. The pupil must learn to draw ‘first with
charcoal, then with the chalk or pen’.6 After making copies of prints and
drawings by various masters, the student should progress to plaster casts, an
important step. On equal footing with the copying of casts was the study of
anatomy. However, given the difficulty of procuring corpses, artists at this
time copied anatomical figures in plaster or ‘flayed plaster casts’.7 This was
followed by study of the living figure before the student finally proceeded to
painting. Written at the beginning of the 17th century, Van Mander’s book thus
made available for Northern artists those principles of artistic education, the
‘alphabet of drawing’ that had been codified in Italy during the 15th and 16th
centuries.8 By clearly setting out the stages of study established by Van
Mander and others, first drawing from casts and anatomical figures in plaster,
then the live model, Sweerts’ composition is a visual lesson in the main
principles of studio practice required to become a successful painter.9 The
goal is manifested in Sweerts’ completed Wrestling Match canvas of c. 1648–50
displayed on the wall in the back- ground, which features figures based on
classical models.10 His didactic intent to illustrate the step-by-step approach
to learning recalls Odoardo Fialetti’s Artist’s Studio, c. 1608, from Il vero
modo, the instructional manual on drawing published in Venice about forty years
earlier (cat. 10), no doubt known to Sweerts through one of the Dutch publica-
tions that reproduced plates from it.11 Plaster casts and models were in
constant use in Northern workshops from the late 16th century onwards.12 Though
he never travelled to Italy, Van Mander’s friend, Cornelis Cornelisz. van
Haarlem (1562–1638), had a collec- tion of ninety-nine casts after antique and
anatomical 134 135 models.13 Van Mander praised his colleague (with whom
he started, along with Hendrick Goltzius, an informal academy in Haarlem in
1583) for selecting for his work ‘from the best and most beautiful living and
breathing antique sculptures’.1 4 Sumptuously displayed in a large pile in the
foreground, a veritable feast for the eyes, casts play a starring role in
Sweerts’ painting (detail, fig. 1). While light enters both from the window and
the open door, which reveals an urban view, that light that illuminates the
sculptures so brilliantly and mysteriously emanates from an unseen source, over
the viewer’s shoulder. The casts are presented with clarity and in sharp focus,
in marked contrast to the more generalised treatment of most of the other
elements in the composi- tion.15 While the human expressions seem almost blank,
those of the casts are animated and alive: the comment often made about
Sweerts, that ‘his people often look like sculptures and his plaster casts seem
almost human’, rings very true here.16 Several sources for the antique casts
can be identified, beginning with the head of a woman on the table, the subject
of study for the young boy sketching in the middle distance. As noted
previously,17 she is a much reduced copy of the colossal so-called Juno
Ludovisi (considered now to be a portrait of Antonia Augusta, daughter of
Octavia Minor and Mark Antony), which, from 1622, was in the Ludovisi
collection in Rome and is now in the Palazzo Altemps in Rome.18 The most
prominent among the jumble of casts in the foreground on the right is the head
of a woman, usually identified as Niobe from the famous group in the Uffizi
(fig. 2, see also p. 30, fig. 34), but equally, the head could be that of one of
her daughters from the same group.19 They were discovered together with the
Wrestlers (p. 30, fig. 33) on a vineyard outside Rome.20 Immediately to the
left of the Niobe, is a cast of a limbless Apollo based on a model by François
Duquesnoy (1597–1643).21 The head of an old woman in profile at the back of the
pile to the left is inspired by the Roman copy of a Hellenistic original
donated in 1566 by Pius V to the Con-servatori Palace and today in the
Capitoline Museum (fig. 3).22 She contrasts with the youthful beauty to her
right, the head of the celebrated Venus de’ Medici (Florence, Uffizi, see p.
42, fig. 56). Behind the old woman is a head of the Laocoön, ‘bronzed’ in
effect, while the rest of his body, seen from behind, rests on the top of the
pile of casts (p. 26, fig. 19).23 The relief propped up against the table at
the back is a cast of a Roman terracotta plaque, Winter and Hercules, from the
Campana collection and acquired by the Louvre in 1861 Fig. 2. Niobe, from the
Niobe Group, possibly a Roman copy of a Greek original of the 4th century bc,
marble, 228 cm (h), Uizi, Florence, inv. 294 Fig. 3. Statue of an Old Woman,
Roman copy of a Hellenistic original, marble, 145 cm (h), Capitoline Museums,
Rome, inv. Scu 640 Fig. 1. Michael Sweerts, A Painter’s
Studio (detail) 136 (fig. 4).24 It was admired by artists like Giovanni da
Udine (1487–1564) in the 16th century when it was recorded in the collection of
Gabriele de’ Rossi (1517),25 and into the 17th by others such as Pietro da
Cortona (1596–1669) and Pietro Testa (1612–50), whose copies after it are
preserved respec- tively in the Uffizi, Florence, and in the Royal Collection
at Windsor Castle.26 That this collection of casts was an important part of
Sweerts’ working practice is suggested by their regular appearance in other
compositions. Some familiar faces – the head of the old woman, the Juno
Ludovisi, the Niobe and others – return in Sweerts’ later Artist’s Studio,
signed and dated 1652, in the Detroit Institute of Arts (fig. 5). They are seen
among examples, including a cupid and torso by François Duquesnoy; this is
being scrutinised by an elegant young man, probably in Rome on the Grand Tour,
while the painter appears to be explaining how Duquesnoy’s Fig. 4. Winter and
Hercules, Roman, 1st century ad, terracotta, 60 × 52 cm, Louvre, Paris, inv. Cp
4169 figures once formed part of a group.27 Closer to the present composition
in conception, is the Artist’s Studio with a Woman Sewing in the Collection Rau
Foundation UNICEF, Cologne (fig. 6).28 Though almost certainly a workshop
picture, it evidently documents Sweerts’ original design and intention. There
is a similar haphazard arrangement of casts, with many of the same specimens
reappearing, including the bronzed head of Laocoön and his torso, placed beside
modern works, including the copy after a marble relief of François Duquesnoy,
Children Playing with a Goat.29 Many other celebrated compositions by Sweerts
feature antique casts (see p. 40, fig. 52). It is not known why he chose to
display them with such prominence and so frequently, but he may well have been
catering to a new class of patron, the Dutch Grand Tourist.30 Among Sweerts’
most important benefactors in Rome in the 1640s were Dutch tourists, especially
merchants.31 Thus three of five brothers from the Deutz textile merchant family
were in Italy between 1646 and 1650, and that is when they probably acquired
the many paintings by Sweerts listed in their inventories, including an
Artist’s Studio owned by Joseph Deutz.32 Significantly, the documents also
suggest that Sweerts acted as the Deutz’s agent for purchasing antique
sculpture as well as modern pictures, as so many other painters were to do in
the next century.33 Another important patron in Rome, Prince Camillo Pamphilj,
the nephew of Pope Innocent X (r. 1644–55), may have involved Sweerts in
teaching. He painted a range of works for the Prince, who, interestingly,
possessed a version in porphyry of the ever-present Head of the Old Woman; he
137 also owned the Duquesnoy relief that occurs in Sweerts’
Artist’s Studio now in Cologne (fig. 6).34 An intriguing pay- ment recorded in
the Pamphilj account book to Sweerts on 21 March of 1652 for ‘various amounts
of oil used since 17th February in His Excellency’s academy’, suggests Sweerts’
direct involvement with an academy in Rome.35 By the summer of 1655, Sweerts
had returned to Brussels where he founded ‘an academy of life drawing’,
primarily to educate tapestry and carpet designers.36 Something of its original
appearance might be gleaned from Sweerts’ Drawing School in the Frans Hals
Museum in Haarlem (c. 1655–60), where students of various ages draw from a live
male nude.37 In this painting, conspicuously absent are plaster casts; the
animation is now provided by the more than twenty young students assuming
various attitudes, some concentrating on the task at hand, others less focused.
However, there was probably another version by Sweerts of this painting, now
known only in a copy, where the live nude has been substi- tuted by a cast of a
classical female sculpture.38 Evidently plaster models were never far from his
mind. aa & avl 1 For his life and work, see Kultzen 1996 and Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, with previous literature. 2 Sutton 2002, p. 12;
Bikker 2002, pp. 25–26. 3 Sutton 2002, p. 21. 4 In his ‘Foundation of the
Painter’s Art’ (Grondt der Schilder-Const), published together with his ‘Lives’
and his two other theoretical treatises in the Schilder-Boeck (1604). See Van
Mander 1604, fol. 6v, chap. 1, no. 66; Van Mander 1973, vol. 1, pp. 92–93,
chap. 1, no. 66; Stechow 1966, pp. 57–58. Van Mander further noted, ‘From Rome
bring home skill in drawing, the ability to paint from Venice, which I had to
bypass for the lack of time.’: Stechow 1966, p. 58; Sutton 2002, pp. 12–13. 5 6
7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 Sutton 2002, pp. 11, 17. In
the preface to his book on painters: Van Mander 1604, fol. 9r, chap. 2, no. 9;
Van Mander 1973, pp. 102–03, chap. 2, no. 9; Martin 1905, p. 126. Martin 1905,
p. 127. See Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 33–34. Martin 1905, p. 127.
Staatliche Kunsthalle Karlsruhe; Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002,
pp. 94–96, no. VI (G. Jansen). For example, Johannes Gellee’s Tyrocinia artis
pictoriae caelatoriae published in Amsterdam in 1639 where copied versions of
the Artist’s Studio and other etchings appear: see Bolten 1985, pp. 132–39 and
for other publications based or reprinting parts of Fialetti’s treatise see
Bolten 1985, pp. 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56. For the
use of plaster casts in 17th- and 18th-century artists’ studios in Antwerp and
Brussels, see Lock 2010. Rembrandt’s bankruptcy inventory of 1656 lists
numerous plaster casts, from life as well as from the Antique, which were doubtless
an essential part of his workshop practice (Strauss and Van der Meulen 1979,
pp. 349–88; Gyllenhaal 2008). See also cat. 23, note 18. Van Thiel 1965, pp.
123, 128; Van Thiel 1999, p. 84, and Appendix II, pp. 254–55, 257, 270–71, 273;
Sutton 2002, p. 18. Van Mander 1604, fol. 292v; Van Mander 1973, pp. 428–29.
Sutton 2002, p. 18. This also may be due, in part, to the compromised condition
of the canvas. Sutton 2002, p. 20. Martin 1905, p. 127; Horster 1974, p. 145.
Haskell and Penny 1981, p. 100; Palma and de Lachenal 1983, pp. 133–37, no. 58
(de Lachenal). Horster 1974, pp. 145; Döring 1994, p. 60; Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, p. 97. For the group, see Haskell and Penny 1981,
pp. 274–79, no. 66, figs 143–47, and for the daughter that it resembles the
most, fig. 145; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 318–19, no. 596.1. Haskell and
Penny 1981, p. 274; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 62–63, no. 50. Noted by
Döring 1994, pp. 60–61. For the Duquesnoy sculpture, see Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, p. 122, no. XV-2. On Duquesnoy’s fame as a
‘classical’ sculptor during the 17th century and later see Boudon-Mauchel 2005,
pp. 175–210. As first observed by Döring 1994, p. 62. For the statue see Stuart
Jones 1912, pp. 288–89, no. 22. Döring 1994, p. 63. The subject was noted by
Denys Sutton (London 1955, p. 91) and Marita 138 139 Fig. 5, Michael Sweerts,
An Artist’s Studio, 1652, oil on canvas, 73.5 × 58.8 cm, The Detroit Institute
of Arts, inv. 30.297 Fig. 6, After Michael Sweerts, Artist’s Studio with a
Woman Sewing, c. 1650, oil on canvas, 82.5 × 106.7 cm, Collection RAU-Fondation
UNICEF, Cologne, inv. GR 1.874 25 26 27 28 29 Horster (1974, p. 145) who both
identified the motif from a sketchbook by Francisco de Hollanda. Sutton and
Guido Jansen (Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 97) believed the
plaster relief to combine scenes from two separate ones: the Winter and
Hercules and the Cretan Bull. However, as Eloisa Dodero has noted (personal
communication), it is based on the single terracotta relief in the Louvre, see
Christian 2002, pp. 181–84 no. II.15, fig. 25; De Romanis 2007, pp. 235–238,
fig. 1. For the acquisition by the Louvre, see Sarti 2001, p. 121. Dacos 1986,
p. 222; Christian 2002, pp. 181–86. For the Cortona drawing: Briganti 1982,
fig. 286.27; for the Testa sheet at Windsor: Christian 2002, pp. 181–82, fig.
26. See Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp. 120–23, no. XV, where
the painting is discussed at length. Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002,
p. 110, fig. xii–i (as by or after Sweerts). Many copies are known suggesting
it was a much-admired composition. Bikker 2002, p. 29, fig. 27. 30 31 32 33 34
35 36 37 38 Ibid., p. 27. Ibid., p. 27. Sutton 2002, pp. 15–16; Bikker 2002,
pp. 27–28. Described in documents in general terms as ‘Ein
Schildersacademetje’, it is not known which of the surviving studio pictures it
was. According to the collections database, Detroit Institute of Arts website,
it was theirs (fig. 5). Bikker 2002, pp. 27–28. Ibid., pp. 28–31, figs 25, 27.
Ibid., p. 29. This was probably a private academy and not the Accademia di San
Luca, of which Sweerts was possibly a member. He was responsible for collecting
membership dues from his compatriots: see Bikker 2002, pp. 25–26. Lock 2010, p.
251; Bikker 2002, p. 31. Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp.
133–35, no. xix (G. Jansen). Present whereabouts unknown; see Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, p. 133, fig. xix–i. 13. Jan de Bisschop
(Amsterdam 1628–1671 The Hague) Two Artists Drawing an Antique Bust (recto); A
Reclining Man seen from Behind (verso) c. 1660s Pen and brown ink, brushed with
brown wash, 91 × 135 mm Inscribed recto l.r. in pencil: J. Bisschop. watermark:
part of the crowned coat of arms of Amsterdam.1 provenance: Private collection,
Germany; Sotheby’s, London, 13 April 1992, lot 260, from whom acquired.
literature: London 1992 (unpaginated), repr.; Broos and Schapelhouman 1993, p.
51, under no. 34, fig. b. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin
Bellinger collection, inv. no. 1992-012 Born in Amsterdam in 1628, Jan de
Bisschop was among a group of talented amateur artists, including his immediate
contemporaries and friends Constantijn Huygens the Younger (1628–1697) and
Jacob van der Ulft (1627–1689) who all worked in Netherlands around the
mid-17th century.2 De Bisschop was classically educated and trained as a
lawyer; he became an advocate at the judicial court of The Hague. But he also
distinguished himself as a writer, theoretician, literary scholar, and as a
connoisseur of the Antique. And although without formal artistic training, he
was an accomplished draughtsman and etcher who, through his publications
reproducing ancient sculpture and Old Master drawings, disseminated in the
Netherlands an anti- quarian culture and an aesthetic based on the works of
classical antiquity. He also helped introduce the practice of drawing after
both antique sculpture and live models in the Hague.3 His large corpus of
drawings, numbering in the upper hundreds, consists of sun-infused, Italianate
land- scapes, lively figure and genre studies, portraits, and many copies after
antique sculpture and paintings by Old Masters, Fig. 1. Bust of the so-called
Lysimachus, Roman copy of the Augustan period from a Greek original of the 2nd
c. bc, marble, 49 cm (h), Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 6141
usually executed in pen and brush and wash with a distinc- tive warm,
golden-brown ink, referred to from the late 17th century as bisschops-inkt
(Bisschop’s ink).4 As in the examples illustrated here, he often effectively
combined dense washes with reserves of untouched paper to create a
light-drenched, fresh out-of-doors effect. In this lively and rapid sketch,
probably made on the spot, two seated draughtsmen, seen from the back, draw
after an antique bust of a man. On the reverse one of them is sketched again,
casually reclining. The object of their gaze is a bust nowadays identified as
of Lysimachus, the Greek successor to Alexander the Great, who from c. 306 to 281
bc reigned as King of Thrace, Asia Minor and Macedonia.5 Discovered c. 1576, it
was acquired by Cardinal Odoardo Farnese from the Giorgio Cesarini collection,
and is preserved today in the Museo Archeologico Nazionale di Napoli (fig. 1).
Doubt- less known to de Bisschop through one of the plaster casts which
circulated in Northern Europe at the time, the bust was in the 17th century
thought to represent a philosopher; from the 18th century he was identified
more specifically – but wrongly – as the Athenian legislator, Solon. It was
copied profusely from the 17th century onwards, and was included, for example,
in a portrait painted by Isaac Fuller (1606–72) in c. 1670 (Yale Center for
British Art, New Haven) of the architect and sculptor, Edward Pierce (c.
1635–95), who rests one hand on the bust while gesturing to it with the other.6
Admiration for the sculpture continued in the 18th century, in France, where a
red chalk copy of it was made by the sculptor, Edmé Bouchardon (1698–1762) or a
member of his circle,7 and particularly in England, where, catering to a n
emerging neo-classical aesthetic, a blemish-free replica of the Lysimachus was
carved in 1758 by Joseph Wilton (1722– 1803); this was acquired by Charles
Watson-Wentworth, the second Marquess of Rockingham, for his country house in
Wentworth and is now in the The J. Paul Getty Museum, Los Angeles.8 Another
copy of the bust, made by the sculptor and restorer of ancient statues,
Bartolomeo Cavaceppi (see 140 141 cat. 18), was mentioned in
a letter, dated 6 June 1775, from the dealer and agent, Thomas Jenkins, to his
client, Charles Townley, as a possible acquisition. His scheme involved fusing
Cavaceppi’s bust with the body of a statue of Achilles; mercifully, this was
abandoned when the original head of Achilles was recovered.9 Its diminutive
size and spontaneous style of execution would suggest the present sheet came
from a sketchbook, probably one like that held by the artist on the right. The
draughtsmen have not been securely identified but they are no doubt to be found
among de Bisschop’s friends and associ- ates; one may be Huygens the Younger,
with whom he made sketching excursions in and around The Hague and Leiden. In
fact, drawings by de Bisschop are often mistaken for works by Huygens, to whom
this sheet was previously assigned.10 A treatment of a similar theme, of two
draughtsmen from the front seated in a landscape but without an antique model
to study, is found in de Bisschop’s drawing in the Amsterdam Museum (fig. 2).11
Executed with the same loose pen work and spontaneous handling of the brush,
characteristic of de Bisschop after 1660, it shows one artist on the left
gazing downwards to – or reading from – a loose sheet held in both hands, while
the other appears to be sketching in a small book. A third rendering of two
artists sketching out of doors, one, with hat removed, holding a drawing board,
is among the sheets by Huygens the Younger in the Municipal Archives of The
Hague (fig. 3).12 As with the present study, the figures are seen from behind
in a sunlit setting but on a bench, near the entrance to the country house,
Zorgvliet, near The Hague, and the subject of their attention is out of view.
De Bisschop’s drawings were admired by collectors and connoisseurs from John
Barnard (1709–84) to Horace Walpole (1717–97), but his main contribution to
scholarship was the publication of two influential books. The first was the
Signorum veterum icones issued in two volumes in 1668–69; Fig. 2. Jan de
Bisschop, Two Draughtsmen Seated Outdoors, pen and brown ink with the brush and
brown wash, grey ink, 97 × 149 mm, Amsterdam Museum, inv. nr. A 18179 142 Fig.
4. Jan de Bisschop, Allegory of Sculpture, title page to the Signorum veterum
icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, etching, 245 × 114 mm, Warburg Institute
Library, London also consulted prints by François Perrier (1590–1650), who had
published a selection of antique statuary in Paris and Rome in 1638 (Segmenta
nobilium signorum et statuarum . . .).18 An album of 140 drawings by de
Bisschop suggests that he intended to publish a third volume of Icones on
antique Roman reliefs, based largely on another publication by Perrier of 1645
(Icones et segmenta . . .).19 However, de Bisschop’s death from tuberculosis at
forty-three meant that the third volume was never realised. In addition to his
writings on art, de Bisschop contrib- uted in other ways to furthering artistic
education in the Netherlands. He participated in local confraternities of
artists and co-founded a private drawing academy with his friends, including
Huygens the Younger; they met several times a week in the evenings, often
drawing after a live model.20 In 1682, eleven years after de Bisschop’s death,
the first drawing academy in the Northern Netherlands – includ- ing in its
curriculum the study of plaster casts after the Antique – was established in
The Hague.21 De Bisschop’s influence may have extended further, perhaps as a
direct consequence of the Icones. Of significance is a letter dated 1688 from
the artist Romeyn de Hooghe (1645–1708) to the burgermasters of Haarlem, asking
their assistance in setting up an academy for students to study ‘the best
ancient statues, such as Venus, Apollo, Laocoön, in order to familiarise
themselves with the idea of classical beauty’.22 Although that request was
turned down, a Haarlem Drawing Academy was founded in 1772 and although it was
closed in 1795, in the following year, the Haarlem Drawing College was
established, with the study of the Antique remaining a vital part of the
curriculum (see cat. 31).23 Fig. 3. Constantijn Huygens, the
Younger, Two Draughtsmen near Zorgvliet, detail, pen and brown ink and
wash with the brush over traces of graphite, 243 × 373 mm, Municipal Archives
of The Hague, Gr. A 110 the first volume was dedicated to his friend, Huygens
the Younger and the second, to Johannes Wtenbogaard, the Receiver-General of
Holland and a neighbour of his parents. In 1671, de Bisschop published the
Paradigmata graphices variorum artificum, which he dedicated to the collector
Jan Six; this comprised forty-seven etchings based on Italian Old Master
drawings and ten antique busts.13 The two volumes of the Icones were
republished together with the Paradigmata, in later editions.14 Of particular
relevance to us is de Bisschop’s Icones, featuring one-hundred etched plates
after antique sculpture (fig. 4). Its purpose was didactic: to provide a
compilation of the best-known works and to establish norms of classical beauty
for artists, amateurs and collectors. In de Bisschop’s words, they were ‘sculptures
and reliefs of the greatest perfection in art and the best sources for
students’.15 The book proved to be an enormously useful resource especially as
it featured, in some cases, the same sculpture seen from different angles; in
essence, in the round. For instance, de Bisschop’s presented five views of the
celebrated Wrestlers sculpture in the Uffizi (see p. 30, fig. 33, and cats 16
and 27), two of which are shown here (figs 5–6).16 In the Icones, the unusual
left profile view of the Farnese Hercules, in reverse was probably known to Jan
Claudius de Cock (1667–1735) and Wallerant Vaillant (1623–77), who reproduced
it from the same viewpoint (see cat. 14, fig. 4). In fact, Cock took
inspiration from several of the Icones plates for his Allegory of the Arts
series (cat. 14). As de Bisschop probably never travelled to Italy, many of his
prints relied on antique sculptures in Dutch collections, or on casts, and
especially on drawings by artists who had travelled south to visit collections
in Florence and Rome, such as Willelm Doudijns (1630–97), Pieter Donker (1635–
68), Adriaen Backer (1635/35–84) and others.17 De Bisschop avl 1 2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 See Churchill 1967, pl. 8, no. 9,
date: 1665 or pl. 9, no. 11, date: 1670. For this life and work, see Van Gelder
1972. Van Gelder 1972, p. 27. Goeree 1697, p. 91. Gasparri 2009–10, vol. 2, pp.
55–57, no. 32 (F. Coraggio), and pp. 188–89, pl. XXXII, figs 1–4.
Charlton-Jones 1991, pp. 100–01, pl. 89. The subject of the Louvre drawing
(Guiffrey and Marcel 1907–75, vol. 1, no. 1353) was identified by Rausa 2007a,
p. 172, no. 165.1. Fusco 1997, p. 56. Coltman 2009, p. 87. Sold as Huygens at
Sotheby’s, London, 13 April 1992, lot 260. Broos and Schapelhouman 1993, p. 51,
no. 34 (B. Broos). Amsterdam 1992, p. 37, no. 22 (R. E. Jellema and M. Plomp).
Van Gelder 1972, pp. 1–2. Both books are published in their entirety with
commentary by Van Gelder and Jost 1985, 2 vols. See also Bolten 1985, pp.
257–58 and Plomp 2010, pp. 39–47. Bolten 1985, p. 71. Van Gelder 1972, p. 19.
Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 106–08, nos 18–22, vol. 2, pls 18–22.
Further plates are after other artists as well as drawings by Jacob de Gheyn
III (1596–1641), who is not known to have travelled to Italy but visited
collections in England (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 15–16, 155). Van
Gelder 1972, pp. 19–20. The album of classical statues, reliefs, Roman
architecture and contempo- rary Dutch figures and scenes is at the Victoria and
Albert Museum, London, inv. D.1212:1 to 141-1989. On it see Van Gelder 1972,
pp. 8–9 and especially Turner and White 2014, vol. 1, pp. 25–67, no. 23. Van
Gelder 1972, p. 11. Van Gelder 1972, p. 27. Van der Willigen 1866, p. 137;
Washington D.C. 1977, under no. 69 (F. W. Robinson). Haarlem 1990, pp. 16–17,
34–38. Fig. 5. Jan de Bisschop, The Wrestlers, from the Signorum veterum
icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 18, etching, 164 × 215 mm, Warburg
Institute Library, London Fig. 6. Jan de Bisschop, The Wrestlers, from the
Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 21, etching, 199 ×
133 mm, Warburg Institute Library, London 143 14. Attributed
to Jan Claudius de Cock (Brussels 1667–1735 Antwerp) An Allegory of Painting c.
1706 Etching, 141 × 100 mm watermark: possibly part of a coat of arms.
provenance: Bassenge, Berlin, 6 December 2001, lot 5452 (as Anonymous, Southern
German, c. 1700), from whom acquired. literature:None. exhibitions: Not
previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2001-037 In
the corner of a painter’s workshop, students draw after plaster casts, selected
according to their age and level of study. The youngest, wearing a Roman-style
toga and stand- ing at a pedestal, which supports his open sketchbook, records
the likeness of the head of a boy similar to him in age. He may be copying the
bust itself, or more likely, the drawing after the bust, propped up next to it.
At the left, another pupil, a pre-teen representing a higher level of study,
thoughtfully examines a reduced model, in reverse, of a rather unfit Farnese
Hercules (see p. 30, fig. 32 and cats 7, 16, 21) elevated on a plinth, and
shown in a similar pose as illustrated by Jan de Bisschop’s Icones (fig. 1).
The student and Fig. 1. Jan de Bisschop, The Farnese Harcules, from the
Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 8, etch- ing, 221 ×
105 mm, Warburg Institute Library, London the statuette are so posed that they
appear to exchange glances. In the background, partially obscured by the sculp-
ture’s base, is a third boy, probably midway in age between the others, who
bows his head in concentration. Displayed on the shelf and walls above are
workshop props – a globe, hourglass, books, compass and additional fragments of
plaster casts, included a female torso and a male one which may be based on the
Belvedere Torso (p. 26, fig. 28). Presiding over the scene is a voluptuously
dressed female figure with an elaborate hairstyle and bared breasts, who holds
a palette with brushes in one hand, and gestures to the statue of Hercules with
the other. She is leaning on a richly carved wooden table bearing bottles of
spirit, compasses and completed figural drawings. She is an Allegory of
Painting, as described by Cesare Ripa in his Iconologia, the widely consulted
emblematic handbook first published in 1593 – and probably known to de Cock
through the Dutch editions of 1698 or 1699: a beautiful woman with twisted,
unruly hair, holding the tools of the painter.1 She represents the goal; once
pupils had completed their prescribed course of study, mastering the succession
of stages dictated by the established norms of 16th-century studio practice –
first, drawing the individual parts of the body through drawings of others,
prints, fragments and casts, and finally, the entire figure, a statue or live
model – only then, may they progress to painting (see also cat. 10).2 The
attainment of the goal is encapsulated in the prominently displayed picture on
the wall above Hercules, probably a Mars and Venus. Though acquired as by an
anonymous southern German artist, c. 1700, the etching shares similarities with
the work of the Flemish painter, sculptor, etcher and writer, Jan Claudius de
Cock.3 It is particularly close in style and execution to his drawing of the
Allegory of Sculpture drawing, signed and dated 1706 (Metropolitan Museum of
Art, New York, fig. 2), which is carried out with the same meticulous handling
and degree of finish.4 Direct references to antique sculpture abound in the New
York sheet with plaster casts freely modelled after the Pan and Apollo from the
Cesi collection (Museo Nazionale 144 145 Fig. 2. Jan Claudius de
Cock, Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown ink, 317 × 195 mm, The
Metropolitan Museum of Art, New York, 2010.533 Romano, Rome) at right and, at
the left, the Wrestlers, acquired by the Medici in 1583 (Uffizi, Florence; see
p. 30, fig. 33).5 Antique-inspired motifs – busts, putti, fragments and a
strigilated krater – are also visible throughout. As with the etching, there is
a female personification – in this case, of sculpture – her hand resting on one
bust and pointing to a second with the other, just as Painting does here in the
etching. At her feet are the tools of her trade: scalpels, mallet and a drill.
Other drawings of similar subject matter, format and date suggest de Cock
planned a series on the Allegories of the Arts, perhaps intending them to
appear as etchings in a book. His drawing of a female sculptor modelling a
recumbent Venus (fig. 3), another Allegory of Sculpture, is also signed, and
dated (1706) and is numbered like the New York drawing.6 Further studies by de
Cock no doubt relate to the same series.7 However, while the drawings are
roughly the same size, the present etching is considerably smaller. The
colossal Farnese Hercules became enormously popular immediately after its
discovery in the 16th century, and 146 Fig. 3. Jan Claudius de Cock, An
Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown ink, black chalk, 321 × 192 mm,
Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140 numerous copies after it were
produced, often reduced to life-size or the scale seen here, to make it more
manageable and portable.8 A model strikingly similar to that in the etching
occurs in a mezzotint of a boy drawing in a studio, c. 1660–75, by the Dutch
painter and engraver, Wallerant Vaillant (1623–77), where it is perched on a
table at a nearly identical angle (fig. 4).9 Both prints suggest that by the
early 18th century, plaster models of the Hercules were commonplace in Flemish
and Netherlandish workshops.10 Several of the antiquities in both the etching,
here attrib- uted to de Cock, and his two related drawings discussed above,
argue knowledge of Jan de Bisschop’s Icones (1668–69), by then the standard
reference for antique sculptures in the Netherlands (see cat. 13). For example,
the rather unusual left-profile view of the Farnese Hercules in the etching and
the pose of the Wrestlers in the New York drawing (fig. 2), both shown reversed
in respect to the antique originals, find their counterparts in the Icones
(fig. 1 and cat. 13, fig. 5).11 And the pensive Muse, possibly Clio, at the
upper right of the Fig. 4. Wallerant Vaillant, A Boy Drawing in a Studio, c.
1660–75, mezzotint, 324 × 300 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-1889-A-14489
second Allegory of Sculpture drawing (fig. 3), is a literal quotation from a
plate in the second volume of Bisschop’s 12 Born in Brussels, de Cock was
apprenticed in the workshop of Peeter Verbrugghen the Elder (c. 1609–86) in
Antwerp. After Verbruggen’s death, he established himself in that city,
although he later moved to Breda, where King William III Stadholder of the
Netherlands commissioned him to work on sculpture for a courtyard in the
town.14 However, by 1697 or 1698, de Cock had returned to Antwerp and devoted
himself more to teaching, establishing a large workshop with many pupils, some
learning drawing, others, goldsmithing.15 In 1720, he wrote a didactic poetical
treatise for his students, Eenighe voornaemste en noodighe regels van de
beeldhouwerije om metter tijdt en goet meester te woorden (‘Some 1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 avl For Pittura from Ripa’s first illustrated
edition (1603), see Buscaroli 1992, p. 357 and in the Dutch edition of 1698,
reprinted in 1699, see Hoorn 1698, II, p. 515 [c]. Armenini 1587, pp. 52–59
(book 1, chap. 7); Alberti 1604, p. 5 (quoting Federico Zuccaro); Roman 1984,
p. 91. Nagler (1966, vol. 3, no. 2100) and Wurzbach (1906–11, vol. 1, pp.
304–05) only briefly mention his etchings and this subject does not occur.
Acquired Christie’s, London, 7 July 2010, lot 328. It is signed at lower left:
‘Joannes Claud: de Cock invenit delineavit Anno= MDCCVI’ and numbered below,
‘4’. A further inscription by the artist on the verso, “Sculptura Pace, et
Abondante=”/[. . .], may refer to another drawing in the series, perhaps an
Allegory of Peace and Abundance or a Concordia. Haskell and Penny 1981, pp.
286–88, no. 70; pp. 337–39, no. 94. Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140.
According to the catalogue, it is signed and dated, ‘Joan Claudius de
Cock/invenit delineavit/AoMDCCVI’ and numbered ‘3’ below. They include another
signed Allegory of Sculpture close to the New York drawing in composition, with
differences and executed in pencil, 326 × 194 mm (Christie’s, Amsterdam, 15
November 1993, lot 115) and a signed Allegory of Architecture, pen and
brown-grey ink and wash, 328 × 234 mm (Christie’s, Amsterdam, 21 November 1989,
lot 52). Haskell and Penny 1981, p. 232; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20,
no. 1, repr. on pp. 207–13. Hollstein 1949–2001, vol. 31, p. 119, no. 96. The
1635 studio inventory of the painter, Hendrik van Balen (1575–1632) mentions a
cast of the Hercules among other antique works (Duverger 1984–2009, vol. 4, p.
208). The torso of a draped male statue on the shelf at upper right in the
drawing probably derives from a further etching by Bisschop, based on copies by
Willelm Doudijns (1630–97), reproducing a marble in the Pighini collection and
now in the Vatican (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 110–11, no. 26, vol.
2, pl. 26; Helbig 1963–72, vol. 1, p. 194, no. 250). Van Gelder and Jost 1985,
vol. 1, pp. 184–85, no. 98, vol. 2, pl. 98. In that drawing, the male torso
seen from the back on the shelf at right recalls de Bisschop’s etching of the
Belvedere Torso (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 108–10, no. 24, vol. 2,
pl. 24). Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 184–85; Haynes 1975, pl. 18. De
Gheyn was in London in the summer of 1618 and his drawing (untraced), was in
the collection of J. A. Wtenbogaert in Amsterdam (Van Gelder and Jost 1985,
vol. 1, pp. 16, 155, 185). For his life and work, see C. Lawrence, “Cock, Jan
Claudius de”. Grove Art Online. Oxford Art Online, accessed December 10, 2014,
http://www.oxford- artonline.com/subscriber/article/grove/art/T018366. Pauwels
1977, p. 37. Published in Brussels by Mertens 1865; Lawrence 1986, p. 283.
Mertens 1865; Lawrence 1986, p. 283. The original marble from the Earl of
Arundel’s collection, known to de Bisschop through a drawing after it by
Jacques de Gheyn III, is now in the Ashmolean Museum, Oxford.13 publication.
chief and notable rules from the sculptor in order to become a good master in
due course’) although it remained unpublished until the 19th century.16 It is
entirely possible that he intended the Allegory of Arts series to illustrate
this treatise, in which he expressed his great admiration for classical
sculpture, namely the Laocoön, the Medici Venus – and, most importantly – the
Farnese Hercules.17 147 15. Nicolas Dorigny (Paris 1658–1746
Paris), after Carlo Maratti (Camerano 1625–1713 Rome) The Academy of Drawing c.
1702–03 Etching and engraving, 470 × 321 mm (plate); 503 × 331 mm (sheet) State
I of II (second state dated 1728 with the address of Jacob Frey). Inscribed on
the plate, l.l. on the ground: ‘TANTO CHE BASTI’, same inscription repeated
l.r. on the perspective drawing on the easel, and c.l. on the pedestal of the
anatomical model. Inscribed u.c. above the statue of Apollo: ‘NON / MAI
ABASTANZA’; u.r. above the Three Graces: ‘SENZA DI NOI OGNI FATICA E VANA’.
Inscribed l.c. with the title, ‘A Giovani studiosi del Disegno’, followed by
ten lines explaining the scene: ‘La Scuola del Disegno, che s’espone delineata
con le presenti Figure dal Sig.r Cavalier Carlo Maratti, può molto contribuire
al’disinganno di coloro che credono di potere con la cognizione, e studio di
molte Arti divenir perfet.ti nell’Arte del dipingere senza procurare in primo
luogo d’esser perfettissimi nel Disegno, e senza il dono naturale, et un
particolare istinto di saper con grazia, e facilità animare, e disporre
vagamente le parti di quell’Opera, che prenderanno a delineare, e và figurando
questo suo nobil pensiero con il mezzo dell’azzioni, che qui si additano.
Vedonsi alcuni studiosi delle mathematiche in quella parte, che spetta alla
Geometria, et Ottica, che conferiscono alla Prospettiva: dall’altro lato, altri
applicati all’osservazione d’un Corpo anatomico, dà cui si apprende la giusta
proporzione delle membra, e sito de’muscoli, e nervi, che compongono una
figura, dimostrato eruditame-te dà Leonardo da Vinci espresso co- la propria
effige, con il motto . Tanto che basti . per dimostrare, che di tali
professioni basta, che quello, che attenderà al Disegno sia mediocrem.te
erudito, per ridurre ad un’perfetto fine qualunque Idea. Mà per coloro, che si
esprimono attenti allo studio delle statue antiche, non serve una leggiera
applicazione alle mede, essendo lor d’uopo di farvi sopra una lunga, et esatta
riflessione, e studio per apprendere le belle forme; e si pone l’esemplare
delle statue antiche, come le più perfette, nelle quali quei grandi Huomini
espressero ì Corpi nel più perfetto grado, che possano dalla natura istessa
crearsi, e perciò vi si pone il motto . Non mai abastanza . Tutto però
riuscirebbe vano di conseguire senza l’assistenza delle Grazie, che intende,
come accennammo, per quel natural gusto di disporre, et atteggiare con grazia,
e delicatezza le positure, et ì movimenti delle Figure, dalle quali poi risulta
quella vaghezza, e leggiadria, che destano meraviglia, e piacere in chiunque le
mira, ponendosi queste a tal oggetto in alto, e sù le nuvole per significare,
che questo dono non viene che dal Cielo, con il motto . Senza di noi ogni
fatica e vana . Vivete felici.’1 Inscribed l.l. margin: ‘Eques Carolus Maratti
inven. et delin. Cum privil Summi Pont. et Regis Christ.mi’, and l.r.: ‘N.
Dorigny sculp.’. watermark: Possibly a four-legged animal inscribed in a double
circle. provenance: Possibly Hugh Howard (1675–1737); Charles Francis Arnold
Howard, 5th Earl of Wicklow (1839–81), from whom acquired in 1874. literature:
Le Blanc 1854–88, II, p. 140, no. 51; Mariette 1996–2003, vol. 3, p. 511, no.
76, fig. 189; Kutschera-Woborsky 1919, pp. 9–28, fig. 5; Goldstein 1978, p. 1,
fig. 1; Rudolph 1978, Appendix, p. 203, n. 38; Philadelphia 1980–81, pp.
114–16, no. 101 A (A. E. Golahny); Johns 1988, pp. 17–21, fig. 5; Goldstein
1989, p.156, fig. 1; Winner 1992, fig. 1; Jaffé 1994, p. 128, under no. 251
646; Mertens 1994, pp. 222–24, fig. 94; Goldstein 1996, p. 47, fig. 14; Rome
2000b, vol. 2, pp. 483–84, no. 2 (S. Rudolph); Pierguidi 2014. exhibitions: Not
previously exhibited. The British Museum, Department of Prints and Drawings,
London, 1874,0808.1713 This intriguing and complex image has a central
role in this catalogue, as it represents the most eloquent visual expres- sion
of the classicistic credo of the Roman Accademia di San Luca in the final
decades of the 17th century. More generally, it is a strong defence of the
Florentine and Roman academic traditions, with their stress on drawing, their
celebration of Raphael and, above all, on the study, copy and reverence of the
Antique. As we shall see, the original drawing from which the print is derived
was most likely conceived in 1681–82, at a time when the aesthetic belief
supported by the Accademia di San Luca was being challenged by other
pedagogical methods and criticised from other theoretical viepoints, hence its
programmatic nature and didactic aim. Carlo Maratti was the most authoritative
painter in Rome during the final decades of the 17th century and the beginning
of the 18th and the champion of classicism.2 As a boy of twelve he had entered
the large workshop of Andrea Sacchi (1599–1661), where he remained until the
master’s death in 1661. His training followed the usual curriculum of 148 Roman
studios, centred on drawing, and on the copy of the Antique, and of Renaissance
and early 17th-century masters.3 His lifelong friend, mentor and biographer,
the great art theorist and antiquarian, Giovanni Pietro Bellori (1613–96),
tells us that he concentrated especially on copying Raphael’s frescoes.4 He
pursued this commitment throughout his life, incorporating the essential
qualities of the great Renaissance champion of classicism into his own
painting, to the point that he became known as the Raphael of his time.5 In
1664 Maratti became ‘principe’, or president, of the Accademia di San Luca,
where, in the same year, Bellori’s discourse, the ‘Idea of the painter, the
sculptor and the archi- tect, selected from the beauties of Nature, superior to
Nature’, was publicly delivered (see Appendix, no. 11).6 Bellori’s theoretical
statement, then published as a prologue to his Vite in 1672, was to become
enormously influential in defin- ing and diffusing the central tenets of the
classical ideal, preparing the ground for the eventual affirmation of classi-
cism in the 18th century.7 Maratti remained an influential 149 figure
within the Accademia for almost fifty years – while Bellori held the position
of secretary several times – playing a vital role in reorganising its
curriculum according to a comprehensive pedagogical programme, based on the
exer- cise of drawing from drawings, from casts after the Antique and from the
live model, and on students’ competitions and regular lectures.8 The print,
which embodies this theoretical and didactic approach, is based on a drawing
now preserved at Chatsworth (fig. 1), commissioned from Maratti by one of his
most faithful patrons, Gaspar Méndez de Haro y Guzmán, 7th Marquis of Carpio,
(1629–87), Spanish ambassador in Rome between 1677 and 1682.9 A sketchier
version, in the same direction as the print but with differences in detail, is
at the Wadsworth Atheneum (fig. 2).10 Art lover, collector and patron, Carpio
commissioned from contemporary Roman artists a large series of drawings with
the practice, theory, and nature of painting as their subject.11 The result was
a sophisticated collection of allegories of art, of which Maratti’s drawing is
by far the most celebrated, largely due to Dorigny’s print.12 Another drawing
with the Allegory of Ignorance Ensnaring Painting and Massacring the Fine Arts,
now in the Louvre, was probably produced by Maratti for Carpio as a pendant to
the Academy of Drawing, and as such was later engraved by Dorigny with a
similar explanatory inscription devoted to the ‘Lovers of the Fine Arts’ (fig.
3).13 Possibly intended from the beginning to be printed, Maratti’s drawing for
the Academy of Drawing was later engraved by the Parisian printmaker, Nicolas
Dorigny, Fig. 1. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82, pen and
brown ink with brown wash, heightened with white gouache, over black chalk, 402
× 310 mm, Chatsworth, The Duke of Devonshire and the Chatsworth Settlement
Trustees, inv. 646 Fig. 2. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82,
pen and brown ink and red chalk, 505 × 355 mm, Wadsworth Atheneum Museum of
Art, Hartford, CT, inv. 1967.309a who spent the years 1687–1711 in Rome. The
rare first state, exhibited here, was probably published around 1702–03 under
the supervision of Maratti, who owned the copper- plates and who, no doubt, was
the author of the explanatory inscriptions below this print and its pendant.14
The reason why it took twenty years for the original drawing and its pendant to
be engraved, may be due to the fact that Carpio left Rome in 1683 to become
Viceroy of Naples and his move might have brought the original publication
project to a halt. After Maratti’s death in 1713, the plates were purchased by
Jacob Frey (1681–1752) who published a second state in 1728.15 The image is a
very condensed and crowded composi- tion, in line with similar examples by
Stradanus (cat. 4), Pierfrancesco Alberti (cat. 2, fig. 1), and others, which
would certainly have been known to Maratti.16 The Academy of Drawing is
presented as an antique academy devoted to intellectual pursuits, clearly
reminiscent of Raphael’s School of Athens in the Vatican Stanze, and in general
subtle refer- ences to Raphael’s works are ubiquitous throughout.17 We are
invited to follow the different disciplines and principles essential for the
education of the young artists, distributed visually and symbolically in an
ascent: from the technical and mathematical rudiments for the representation of
space in the foreground, to the ideal models for the depiction of the human
figure in the upper left part of the composition, and finally to the divinely
inspired grace and artistic talent on the upper left background, without which
all the previous learning would be useless. Bellori, in his biography Fig. 3.
Nicolas Dorigny after Carlo Maratti, Allegory of Ignorance ensnaring Painting
and mas- sacring the Fine Arts, 1704–10, etching and engraving, 468 × 319 mm,
The British Museum, Department of Prints and Draw- ings, London, inv. 1874,0808.1714
that. We know from another passage in Bellori that Maratti, although he ‘always
considered [...] perspective and anat- omy necessary to the painter’, abhorred
some ‘masters, or rather modern censors who, having learned a line or two of
perspective or anatomy, the minute they look at a picture look for the
vanishing point and the muscles, and [...] scold, correct, accuse and criticise
the most eminent masters’.23 Maratti’s attitude was, in fact, very much in line
with the Italian art theory of the second half of the 16th century.24 Most
writers agreed that, although the knowledge of mathematical sciences was vital,
the artist’s judgement and his eye must be the ultimate criteria in the
artistic process. Giorgio Vasari (1511–74) clearly formulated this concept,
paraphrasing Michelangelo’s famous saying that ‘it was necessary to have the
compasses in the eyes and not in the hand, because the hands work and the eyes
judge’.25 This opinion was rephrased by Giovanni Paolo Lomazzo (1538– 1600) who
wrote precisely that ‘all the reasoning of geome- try and arithmetic, and all
the proofs of perspective were of no use to a man without the eye’, and shared
also by Federico Zuccaro (c. 1540–1609) the founder and first principal of the
reformed Accademia di San Luca in 1593 (see cat. 5).26 A similar approach was
reserved for the study of anatomy, the excess of which, as represented by
Michelangelo – who is not alluded to in the print – was explicitly condemned by
Giovan Battista Armenini (c. 1525–1609) and others, an opinion supported by
Bellori and Maratti.27 The ‘Young Students of Drawing’, to which the print is
dedicated, need instead to focus their attention on, and constantly draw from,
ancient statues, here represented by Fig. 4. Raphael, Apollo, detail, School of
Athens, 1509–11, fresco, Stanza della Segnatura, Apostolic Palace, Vatican
City of Maratti, left unfinished at his death in 1696, provides a
description of one of Maratti’s original drawings (figs 1–2) and this, plus the
explanatory inscription on the print, constitute the best guide to interpret
the composition.18 At the centre a ‘master of perspective’ indicates to a young
disciple the visual pyramid and various geometrical figures traced on a canvas
placed on an easel, at the bottom of which we read: ‘TANTO CHE BASTI’, ‘Enough
to suffice’.19 The same inscription recurs on the ground on the left, in front
of another pupil intent at drafting geometrical figures on the abacus with his
compass, a gesture evoking that of Archimedes in Raphael’s School of Athens. As
Bellori explains, this is to signify that ‘once the young have learned the
rules necessary to their studies’ – geometry and perspec- tive – ‘they should
pass on without stopping’.20 On the right, below the easel, we see a stool
supporting the physical tools of the art of painting: another compass and a
palette with various brushes. Behind them a ruler leans diagonally against the
canvas. The same warning ‘TANTO CHE BASTI’ reappears on the left on the
pedestal supporting a life-size anatomical écorché, in a pose reminiscent of
the Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cat. 23, fig. 1). Several
students draw its muscles, directed by Leonardo, whose anatomical studies were
very well known, especially after the first publication of his treatise on
painting in 1651.21 ‘Anatomy and the drawing of lines’ continues Bellori, ‘do
indeed fall under definite rules and can be learned perfectly by anyone, just
as geometry used formerly to be learned in school from childhood’.22 They
therefore constitute those sciences that can be taught by rational precepts.
But if the young students want to become great artists they need much more
than 150 151 the gigantic Farnese Hercules (see p. 30, fig.
32 and cat. 7, fig. 1), by a Venus Pudica reminiscent of the Venus de’Medici
(see p. 42, fig. 56) and by an Apollo, the latter clearly derived from the
statue presiding over the philosophers in the School of Athens (fig. 4).28
Apollo, as patron of the arts, combining together a reference to the Antique
and to Raphael, conveniently substitutes for the Belvedere Antinous (see p. 26,
fig. 22 and cat. 19) seen on the earlier sketch (fig. 2).29 The study of
classi- cal sculptures, as the inscription on the wall behind the Apollo
instructs us, is ‘NON MAI ABASTANZA’, ‘Never enough’, as they contain ‘the
example and the perfection of painting [...] together with good imitation
selected from nature’ as Bellori tells us.30 In other words, they materialise
Bellori’s concept of the ‘Idea’, intended as the selection of the best parts of
Nature according to the right judgement of the artist in order to create ideal
beauty (see Appendix, no. 11). If a young artist assimilates their principles,
he will have a secure guide towards artistic perfection. On the left, sitting
on clouds, the Three Graces – again referring to the similar figures painted by
Raphael in the Villa Farnesina in Rome – are there to remind us: ‘SENZA DI NOI
OGNI FATICA E VANA’, ‘Without us, all labour is in vain’. Without natural
talent and divine inspiration, all the efforts and studies depicted below would
be ultimately useless. The concept of grace was one of the crucial features in
Vasari’s theory of art, intended as a certain sweetness and facility of
execution, dependent on natural talents – namely judgement and the eye – as
opposed to beauty which is based on the rules of proportions and mathematics.31
But the great artist must cultivate this natural gift through constant study
and, for Bellori, constant imitation of the Antique and of the great masters,
especially Raphael, the excellence and grace of whom he exalted in several of
his publications.32 Therefore our print reminds us in its subject of the
necessary union of natural talent and study. At the same time it provides in
its very forms an ideal example of inventive imitation, namely Maratti’s
assimilation of the Antique and Raphael. The need to insist on these very
points reflects the particular moment in which our image was created. In 1676
the Accademia di San Luca and the Parisian Académie Royale were formally
amalgamated and at times French painters became principals of San Luca –
Charles Errard (1606/09– 89) in 1672 and 1678, and Charles Le Brun (1619–90) in
1676–77.33 While sharing the same values and attitudes, the Italian could never
feel comfortable with the extreme ration- alisation of art characteristic of so
much French theory and academic approach.34 The methodical and precise
dissection of painting into its main components, as expressed for instance in
the Académie’s Conférences, is in fact probably 152 alluded to in the speaker
seen below the Graces in our image, who uses his fingers to enumerate the main
points of his arguments – referring to Socrates in the School of Athens. The
early Académie’s Conférences were published by André Félibien (1619–95) in
1668, and their official presentation at San Luca in 1681 generated a
discussion that was most likely at the origin of Maratti’s Academy of Drawing,
as reported by Melchior Missirini (1773–1849) in his history of the Accademia
di San Luca.35 After the reading of the last two Conférences, devoted to the
analysis of the drawing, colour, composition, proportions and expressions of
Poussin’s paintings, one of San Luca’s members, Giovanni Maria Morandi
(1622–1717), raised the objection that the French had left out art’s most
important and beautiful element: grace, that sublime and delicate quality of
the ‘imitative practice’, which appeals to the heart rather than the mind.36
The elderly Bellori, present in the audience, interrupted the speech remarking
that grace was indeed Apelle’s and Raphael’s best quality, ‘and it is well
known’, continues Missirini, ‘that Maratti, who also devoted every effort to
obtain this quality, induced by these words painted his three graces with the
motto ‘Without you, everything is worthless’.37 No doubt conceived as a
response to this intellectual debate, as a defence of the Florentine and Roman
attitude and tradition versus its French counterpart, Maratti’s Accademia must
be understood also as a celebration of classicism against those painters and
theorists who were at that time criticising its values and outcomes. In
particular the Venetian Marco Boschini (1515–80) and the Bolognese Cesare
Malvasia (1613–93) in their treatises published in the 1770s had attacked the
pictorial tradition based on disegno and imitation of the Antique, supporting
instead colore and naturalism.38 They, as Bellori remarks right before his
discus- sion of Maratti’s drawing, taught ‘in their schools and in their books
that Raphael is dry and hard, that his style is statue- like’.39 This dispute
had its counterpart in France where the Querelle du coloris had been fiercely
debated in the 1770s.40 The theoretical battle escalated further with the
publication in 1681 of the Notizie de’ professori del disegno by the Florentine
Filippo Baldinucci (1625–97), who strongly defended Vasari and the Central
Italian tradition, at the same time directly attacking Malvasia.41 The early
1680s were therefore a moment of intense debate within and between the Italian
and French artistic schools and theoretical traditions, of which this image is
one of the most telling documents. In the following decades Maratti became the
leading artistic authority in Rome. His devotion to Raphael was rewarded in
1693 when he was appointed Keeper of the Vatican Stanze, which he then restored
in 1702–03, having already worked on the restoration of Raphael’s frescoes in
the Farnesina from 1693.42 In 1699 he was re-elected principal of San Luca, a
position he held until his death in 1713. Pope Clement XI (r. 1700–21)
nominated Maratti Director of the Antiquities in Rome in 1702, and officially
sanctioned support for his classicism by establishing papal-sponsored
competitions, the Concorsi Clementini, at the Academy.43 It is probably in
celebration of the final affirmation of this classicist aesthetic that Maratti
decided to finally print in 1702, or soon after, the complex drawing
celebrating above all the study of Antique that he had produced twenty years 44
‘The School of Drawing, a figurative drawing by Cavalier Carlo Maratti, can
contribute much to the disenchantment of those who believe that through
knowledge and study of many arts they can become most accomplished in the art
of painting without first acquiring the highest skill in drawing and without
the natural gift and innate capacity to give, with grace and ease, life and
shapeliness to the parts of a work they set out to depict. In addition, he
[Maratti] gives form to his fine thought through the activities pointed out
here. To one side there are some students of the mathematics of Geometry and
Optics that feed into Perspective: elsewhere there are others intent on the
observation of an anatomical model, from which can be learned the just
proportions of the limbs, the placement of the muscles and sinews that compose
a figure, as set out with precision by Leonardo da Vinci, a likeness of whom is
given, with the motto ‘Enough to suffice’, to evince that, of these
professional skills, he who pursues drawing must be competent enough to bring any
idea to a perfect outcome. But for those shown engaged in the study of
classical statues, slight attention to the same is of no use since the point is
to make a long and detailed study so as learn the forms of the beautiful; and
classical statues are given as the most perfect for this since those great
sculptors gave shape to bodies in the most perfect state that Nature herself
can create, which explains the presence of the motto: ‘Never enough’.
Everything, however, would be futile without the assistance of the Graces,
understood, as mentioned, as a natural bent for composing and arranging with
grace and delicacy those postures and movement of figures from which derive the
beauty and allure that stir wonder and pleasure in the spectator, wherefore they
are set for that purpose up above on the clouds as indication that this gift
comes only from heaven, and are given the motto: ‘Without us all labour is in
vain’. Live happily’ (translation by Michael Sullivan). For a biographical
summary see Rudolph 2000. Schaar and Sutherland Harris 1967. See Bellori 1976,
pp. 625, 636, 639. See Baldinucci 1975, p. 307. On Maratti’s cult for and
imitation of Raphael see also Mena Marqués 1990. Goldstein 1978, p. 3. For the
text of Bellori’s Idea see Bellori 1976, pp. 13–25, and for an English
translation see Bellori 2005, pp. 55–65. On it see Mahon 1947, esp. pp. 109–
54, 242–43; Panofsky 1968, pp. 103–11; Bellori 1976, esp. xxix–xl; Barasch
2000, vol. 1, pp. 315–22; Cropper 2000. On Maratti’s role within the Accademia
see Goldstein 1978, esp. pp. 2–5. On Bellori’s see Cipriani 2000. Jaffé 1994,
p. 128, no. 251 646. It is not fully clear whether Dorigny used the Chatsworth
drawing or a lost copy of it, as he arrived in Rome in 1687, five years after
Del Carpio had left the city to become Viceroy of Naples: see Rome 2000b, vol.
2, p. 483, no. 1 (S. Rudolph). Philadelphia 1980–81, p. 116, note 3 and 4;
Winner 1992, p. 512, fig. 5. Bellori 1976, pp. 629–31. On Del Carpio’s
commission see Haskell 1980, pp. 190–92; Pierguidi 2008; Frutos Sastre 2009,
pp. 369–71. For other drawings of the series, see Winner 1992. For the drawing
(Louvre, Paris, inv. 17950) see Rome 2000b, vol. 2, p. 484, no. 3 (S. Rudolph).
For the print see Philadelphia 1980–81, pp. 114–16, no. 101 B (A. E. Golahny);
Rome 2000b, vol. 2, pp. 484–85, no. 4 (S. Rudolph). For the transcription of
the print’s inscription see Winner 1992, pp. 517–18, note 7. See Philadelphia
1980–81, pp. 114–16, no. 101 A and B (A. E. Golahny); Rome 2000b, vol. 2, p.
483, no. 2 (S. Rudolph). This second state contains the address of Frey.
Rudolph (Rome 2000b, 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34
35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 vol. 2, p. 483, no. 2), supposes that the long
explanatory inscription was added only to this second state, while the
impression exhibited here proves that it was inserted in the first state as
well. The inscription is mentioned also in a chronological list of Maratti’s
prints produced in 1711: see Rudolph 1978, Appendix, p. 203, no 38. Kutschera-Woborsky
1919; Winner 1992, especially pp. 521–22, 531. Although some will be discussed
here, the references to Raphael are too many to be covered comprehensively. For
a fuller discussion see Winner 1992. Bellori 1976, pp. 629–31. For an English
translation, see Bellori 2005, pp. 422–23. Bellori’s unfinished biography of
Maratti was first published with modifications in 1731 and independently in
1732. See Bellori 1976, p. 571, note 1; Bellori 2005, p. 435, note 4. For
modern critical editions of the text, see Bellori 1976, pp. 569–654; Bellori
2005, pp. 395–440. Winner (1992, p. 524) suggests that the ‘master of
perspective’ could be Vitruvius, as the geometrical figures on the canvas are
similar to those illustrated by Andrea Palladio in Daniele Barbaro’s edition of
Vitruvius’ De architectura (1556). On the other hand the visual pyramid clearly
refers to Albertian perspective, as it had been recently republished and
illustrated in Dufresne 1651, see especially pp. 17–18. Bellori 1976, p. 630;
Bellori 2005, p. 423. Dufresne 1651: see esp. the ‘Vita di Lionardo da Vinci
descritta da Rafaelle du Fresne’, at the beginning of the volume (not
paginated) and p. 5, ch. XXII, p. 12, ch. LVII. Bellori 1976, p. 631; Bellori
2005, p. 423. Bellori 1976, p. 629; Bellori 2005, p. 422. On Bellori’s sources
in general see esp. Barocchi 2000; Perini 2000a. Bettarini and Barocchi
1966–87, vol. 6, p. 109. See also Vasari’s introduction to his chapter on
Sculpture: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 84–86. Lomazzo 1584, p.
262 (book V, chap. 7). Zuccaro 1607, vol. 2, pp. 29–30 (book II, chap. 6). See
Armenini 1587, pp. 63–67 (book I, chap. 8); Bellori 1976, p. 630; Bellori 2005,
p. 423. On this see also Pierguidi 2014. Bellori had specifically praised the
Farnese Hercules and the Venus de’Medici in his Idea: Bellori 1976, p. 18;
Bellori 2005, p. 59. On this see also Winner 1992, p. 532. On the Farnese
Hercules see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol.
3, pp. 17–20, no. 1. On the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, pp.
325–28, no. 88; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 74–75, no. 64 (137). On the
Belvedere Antinous see Haskell and Penny 1981, pp. 141–43, no. 4; Bober and
Rubinstein 2010, p. 62, no. 10. Bellori 1976, p. 630; Bellori 2005, p. 423. Bettarini
and Barocchi 1966–87, vol. 3, p. 399, vol. 4, pp. 5–6. See also Blunt 1978, pp.
93–99. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, p. 399; Bellori 1976, pp.
625–26; Bellori 2005, p. 421. Also for Armenini ‘una bella e dotta maniera’
could be acquired only if the artist has a natural gift cultivated by study
(Armenini 1587, see esp. p. 6 of the Proemio and pp. 51–69, book I, chs 7 and
8). Bellori’s essays on Raphael, written at various dates, were published in
Bellori 1695. On Raphael and grace in Bellori see Maffei 2009. On the cult of
Raphael in the 17th century see Perini 2000b. Boyer 1950, p. 117; Goldstein
1970, pp. 227–41; Bousquet 1980, pp. 110–11; Goldstein 1996, pp. 45–46. Mahon
1947, pp. 188–89. Missirini 1823, pp. 145–46 (ch. XCI); Mahon 1947, p. 189;
Goldstein 1996, p. 46. Missirini 1823, p. 145. Ibid., p. 146. Boschini 1674;
Malvasia 1678. Bellori 1976, p. 627; Bellori 2005, p. 421. On the ‘statuelike’
concept, or ‘statuino’ see esp. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. See
also Pericolo’s forthcoming article. I wish to thank Dr Lorenzo Pericolo for
generously putting this study at my disposal. See Teyssèdre 1965; Puttfarken
1985; Arras and Épinal 2004 with previous bibliography. Baldinucci 1681, see
esp. his ‘Apologia’ at pp. 8–29. On the controversy between Malvasia and
central Italian art theorists see Perini 1988; Rudolph 1988–89; Emiliani 2000.
See Zanardi 2007. See Johns 1988. The second state of both prints, published by
Jacob Frey in 1728 was explic- itly issued in parallel to the reward ceremony
of the 1728 Concorso Clementino: see Rome 2000b, vol. 2, pp. 484–85, no. 4.
earlier, with the Allegory of Ignorance as its pendant (fig. 3). aa 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14 15 1 153 16. Charles-Joseph Natoire (Nîmes 1700–1777
Castel Gandolfo) The Life Class at the Royal Academy of Painting and Sculpture
1746 Pen, black and brown ink, grey wash and watercolour and traces of graphite
over black chalk 453 × 322 mm Signed and dated by the artist on recto, on the
box at l.c., in pen and dark grey ink: ‘C. NATOIRE f. 1746’. provenance:
Possibly sold at the artist’s posthumous sale, Alexandre-Joseph Paillet, Paris,
14 December 1778, lot 100;1 purchased Aubert for 120 livres; Gilbert
Paignon-Dijonval (1708–92); Bruzard, Paris, 23–26 April 1839, part of lot 208;
Walker Gallery, acquired Sir Robert Witt (1872–1952) (L. suppl. 2228b); Sir
Robert Witt Bequest, 1952. selected literature: Bérnard 1810, p. 142, no. 3348;
Mirimonde 1958, p. 282, fig. 3; Princeton 1977, pp. 22–23, fig. 3; Troyes,
Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, under no. 42; Roland Michel 1987, pp. 58–59,
fig. 45; Foster 1998, pp. 55–56, fig. 13; Amsterdam and Paris 2002–03, pp.
85–88, under no. 25; Paris 2009–10, p. 40, fig. 13; Petherbridge 2010, p. 222,
pl. 152; Caviglia-Brunel 2012, p. 122, repr., p. 336, no. D. 370, repr.; Rowell
2012, pp. 179–80, fig. 9; London 2013–14, p. 8, repr., p. 69, fig. 24. selected
exhibitions: London 1950, p. 18, no. 54; London, York and elsewhere 1953, pp.
27–28, no. 79, not repr.; London 1953, pp. 91–92, no. 391, not repr. (K. T.
Parker and J. Byam Shaw); Los Angeles 1961, pp. 51, 58, no. 25; London 1962,
pp. 9–10, no. 37, not repr.; Swansea 1962, unpaginated, no. 38; London 1968a,
p. 101, no. 490 (D. Sutton); King’s Lynn 1985, p. vi, no. 33, not repr.; London
1991, p. 80, no. 35 (G. Kennedy); Paris 2000–01, pp. 405–06, no. 210 (J.-P.
Cuzin); London and New York 2012–13, pp. 161–65, no. 33 (K. Scott). The
Courtauld Gallery, Samuel Courtauld Trust, London, D. 1952.RW.397 exhibited in
london only Painter, draughtsman and educator, Natoire was a contem- porary of
François Boucher (1703–70) and like him, executed both cabinet pictures and
decorative schemes, as well as history paintings.2 Trained in the studio of
François Lemoyne (1688–1737), Natoire started his career with a series of
successes: having won in 1721 the Prix de Rome of the Académie Royale, he spent
the years 1723–28 in Rome where in 1727 he received the most prestigious reward
for a young painter, the first prize of the Accademia di San Luca. Back in
Paris in 1730, he was received (reçu) as a full member of the Académie in 1734
and spent the following two decades executing decorative ensembles in Royal
Palaces and various hôtels and châteaux of the aristocracy, such as the
celebrated Hôtel de Soubise (now the Archives Nationales) in Paris. In 1751 he
was appointed Director of the Académie de France in Rome and spent the rest of
his life there, dying at Castel Gandolfo in the Alban Hills in 1777. Natoire’s
large and beautifully preserved drawing – of which there is another version,
dated 1745, almost identical but less finished, in the Musée Atger in
Montpellier – offers a rare glimpse of the École du modèle of the Académie
royale de peinture et de sculpture in Paris, where young students spent hours copying
the live model.3 But rather than a faithful view of the École du modèle, which
was a similar but rather different space,4 it is an idealised representation of
how Natoire thought it ought to be. In essence, it is a visual manifesto for
the Académie’s reform at a time, as we shall see, when many of its original
practices had been abandoned or neglected. Trying, in a programmatic image, to
convey as much infor- mation as possible, Natoire ingeniously reconfigures the
154 space for his purpose: a very high ceiling and an angular point of view
allow maximum concentration and display of objects. Crammed together, one on
top of the other, we see drawings, bas-reliefs, paintings of different format
and size and, most importantly, plaster casts after the Antique. Our attention
is immediately drawn to the seated figure at the lower left-hand corner wearing
a bright red cloak, no doubt Natoire himself: he had been appointed assistant
pro- fessor at the Académie royale in 1735, professor in 1737 and from 1736 was
instructor in the life class for the month of February.5 Comfortably seated in
an armchair, his tricorne hat resting on the box in the centre, he carefully
corrects the black chalk drawings after the two live models presented by his
pupils. At the centre of the composition, the attention of all students is
directed to the two models posed together, a monthly event at the Académie that
had been introduced in the mid-1660s.6 The teacher was responsible for placing
the models ‘in an attitude’ for afternoon classes lasting two hours, using
sunlight during the summer and artificial light during the winter months.7 The
sunlight filtering in from the left is therefore imaginary, as in February,
when Natoire was in charge of the École du modèle, illumination would have been
from lamps. Only male models were allowed, despite repeated requests for female
models from the students, all of whom were also male since women were not
allowed to join the Académie until the end of the 19th century.8 The same pose
was retained for three days in a row for a total of six hours and students were
supposed to produce two study drawings of the figures each week.9 As in this
case, a curtain was usually placed behind the model or models, to enhance
155 the contours and isolate the figure from the background. The plinth
supporting the model had hooks at the corner to allow the professor to move it
according to the fall of the light. In addition to posing the model, the ‘duty
teacher’ from 1664 onwards was supposed to make his own drawing to serve as an
example for the students and to devote part of each session to correcting
students’ works, as we see represented in this drawing.10 Natoire’s own drawing
of the two models may be in the portfolio leaning against the box in the
centre; indeed an identical red chalk composition survives – although reversed
– proving that this pose was actually used during one of his sessions (fig.
1).11 The models’ attitude in the middle follows the well- established practice
within the Académie of adopting and adapting poses to recall ancient
statuary.12 In this case they evoke the dynamic, interlocking bodies of the
Wrestlers (see p. 30, fig. 33), of which the Académie possessed a plaster cast,
or possibly the pose of the so-called Pasquino.13 The main purpose of the
practice was to pose the live model with the same tension and flexing of
muscles as the ancient statues, so that students could then correct their
drawings from ‘fallible Nature’ against the perfection of the antique exam-
ple. The practice was diffused already in the 17th century and explicitly
recommended by Sébastien Bourdon (1616–71), in his famous Conférence Sur les
proportions de la figure humaine expliquées sur l’Antique delivered at the
Académie in 1670.14 We Fig. 1. Charles-Joseph Natoire, Two Models, c. 1745, red
chalk, 490 × 420 mm, sold Sotheby’s, Paris, 18 June 2008, lot 101 know from the
influential Abrégé de la vie des plus fameux peintres, published by the art
writer Antoine-Joseph Dezallier d’Argenville (1680–1765) in 1745, that the
great painter Philippe de Champaigne (1602–74) devoted ‘his evenings [...] to
drawing at the Académie and, on his return, he would correct from the Antique
what he had done from the model’.15 Natoire was exposed to a similar exercise
during the years he spent at the Académie de France in Rome during the 1720s
and he must often have returned to this practice during his sessions at the
Académie in Paris.16 Distributed in a semi-circle around the models are
students of different ages, busy drawing the figures. Most of them are using
chalk in porte-crayons, drawing on large sheets of paper. The exceptions are
the two more mature students on the right who are modelling bas-reliefs in clay
with their fingers and wooden sticks; the one on the right holds a sponge in
his hand to clean the clay with water as seen in the drawing by Cochin engraved
for the Encyclopédie (p. 52, fig. 91).17 The process is clearly described in
the Istruzione elementare per gli studiosi della scultura, the famous manual
for students of sculpture published by Francesco Carradori (1747–1824) in 1802,
and illustrated with a strikingly similar image (fig. 2).18 A third student, in
the lower right corner, is wetting rags in a bucket to keep the clay damp and
avoid cracks, as Carradori advised. On his left a dog – could it be Natoire’s?
– stares at us from its sheltered position. The Fig. 2. Francesco Carradori,
Istruzione elementare per gli studiosi della scultura . . . , Florence, 1802,
detail of plate 5 disposition of the students reflects the admission conditions
and entrance hierarchy of the École du modèle: two-thirds were painters and
one-third sculptors, placed in the back rows.19 Behind the semi-circle of
students we see life-size plaster casts of four of the most canonical classical
sculptures: from left to right the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32; cat.
7), the Laocoön (see p. 26, fig. 19; cat. 5), the Venus de’ Medici (see p. 42,
fig. 56) and the Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54; cat. 23).20 The
Hercules and the Venus are looking away from the viewer, as if to signal that
the study of the Antique constitutes a different – though inextricably
connected – practice from the study of the live model. The four statues
provided the students with idealised models of human proportions, anatomy,
beauty and emotion: the muscular strength of the heroic male body at rest,
embodied by the Hercules, the complex pose and the pathos and drama of the
Laocoön, the grace and beauty of the female body ideally incarnated by the
Venus and, finally, the active anatomy of the muscular man in motion as
expressed by the Gladiator. They repre- sented a sort of ‘canon within the
canon’ of classical sculptures for artists, and their choice here is not
accidental. These four statues – plus the Belvedere Torso and an antique
Bacchus at Versailles – had been specifically selected as subjects of the
Conférences devoted to the Antique held at the Académie Royale during the 1660s
and 1670s; the text describing them was constantly being re-read by academi-
cians since then.21 At the time this drawing was made, the Académie owned casts
of all four statues – among many others – but Natoire ingeniously concentrates
here what was actually distributed over various rooms.22 Significantly, all the
statues in the drawing are in reverse as Natoire did not copy them from the
casts but from prints in François Perrier’s celebrated Segmenta nobilium
signorum et statuarum of 1638 (figs 3–6).23 Perrier’s collection of engravings
after ancient statues had been for more than a century the standard work of
reference for students beginning their study of the Antique, providing them
with images in two dimensions that they could master before approaching the
three-dimensional casts. This course was firmly recommended at the time of the
foundation of the Académie in 1648 by Abraham Bosse (1602–76), its first
professor of perspective.24 References to the glorious past of the Académie
continue on the walls, where we are invited to ascend from drawings and
bas-reliefs to paintings. On the lower tier are the designs and reliefs after
the model that teachers had to produce from 1664 onwards (although this
requirement was eventually abolished in 1715).25 Above these are displayed a
series of canvases representing some of the greatest triumphs of modern French
painting: the largest and most prominent, on the left, is Charles Le Brun’s
Alexander at the Tent of Darius (1661); to its right, Jean Jouvenet’s
Deposition (1697) and below it, barely discernible, Eustache Le Sueur’s Solomon
and the Queen of Sheba (1650). Above, in the upper register, is hung another Le
Sueur, the circular Alexander and His Doctor (1648– 49). On the right is
François Lemoyne’s Annunciation (1725); and finally, below it Sébastien
Bourdon’s Holy Family (1660– 70).26 The two square paintings on the upper left,
probably a reclining Nymph or Venus and a Cupid and Psyche, have not been
identified; it would be tempting to think that they might be Natoire’s own
creations, but they do not correspond to any of his known works.27 None of the
paintings were displayed at that time in the Académie and all are reversed,
meaning that Natoire deliberately assembled them in this crowded space from
prints.28 All were revered examples of history paintings by famous past
academicians, ranging from Le Brun, Le Sueur and Bourdon, who had been among
the twelve original founding members of the Académie in 1648, to Lemoyne,
Natoire’s own teacher. Showing different kinds of history painting – Biblical
subjects, Mythology and secular history – they here provide the young students
with models both to imitate and aspire to. On the central pier, presiding over
all the artistic activity below, is Bernini’s 1665 bust of Louis XIV, of which
the Académie then displayed a plaster cast,29 reminding us of the glories of
the institution under the reign of the Sun King. Such a deliberately
programmatic image, which assem- bles so many references from different places
and times, must be understood as a visual manifesto in favour of a retour à
l’ordre within the Académie. At the time Natoire conceived it, many of the
original academic practices and credos had long been neglected. After the late
17th century almost no new Conférences were held, and teachers simply re-read
the old ones and the biographies of past academicians.30 Nor does it seem that
the study of the Antique was much promoted and certainly the collection of
casts was not integrated with the École du modèle.31 Finally, and most impor-
tantly, during the first half of the 18th century, history painting had lost its
place of pre-eminence within the Académie, a process foreshadowed by the
success of Jean- Antoine Watteau (1684–1721) and his acceptance into the
Académie in 1717 as a painter of fêtes galantes, a new category that encouraged
the development of the ‘lesser genres’ of painting.32 At the same time, because
of the popularity of ‘the Rococo interior’, history painters were often obliged
to adapt their canvases for decorative schemes, to the point that Natoire
complained in 1747 that his painting was regarded as mere furniture.33
Significantly, a completely different model was in place in Rome during the
years spent by Natoire in the city as a young 156 157
Fig. 3. (top left) François Perrier, Farnese Hercules, plate 4, from Segmenta
nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 Fig. 4. (top right) François
Perrier, Laocoön, plate 1, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome,
1638 Fig. 5. (bottom left) François Perrier, Venus de’Medici, plate 83, from
Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 Fig. 6. (bottom right)
François Perrier, Borghese Gladiator, plate 28, from Segmenta nobilium signorum
et statuarum, Rome, 1638 years implemented a series of radical changes – such
as the re-establishment of the Conférences, the acquisition of new casts, and
making the history paintings of the Royal Collection accessible to students –
which paved the way to the triumph of the highest genre in the second half of
the century.36 It is at this moment that Natoire’s drawing was conceived,
probably as a statement in support of Tournehem’s reforms. These, in essence,
involved a return to the original credo and mission of the Académie as devised
by Louis XIV’s Minister Jean-Baptiste Colbert (1619–83) and his Premier Peintre
Charles Le Brun (1619–90): a royal institu- tion intended to support and
cultivate History Painting through the practice of drawing and the study of the
live model and the Antique. Natoire would apply many of the principles
proclaimed in his drawing during his tenure as director of the Académie de
France in Rome after 1751. The fact that everything in the Courtauld drawing –
statues, paintings and even models – appears in reverse would suggest that it
was intended to be engraved.37 How- ever, the students hold the porte-crayons
in their right hands, which would seem to contradict this theory. In any case,
it is highly likely that this complex image was conceived to be diffused for
promotional purposes, possibly on the example of Dorigny’s engraving after
Maratti (cat. 15), which Natoire would certainly have known.38 It would have
been a persuasive way to promote the study of the live model together with the
study of the Antique, a training that would effectively prepare young artists
to revive those noble forms of painting that had been the glory of the Grand
Siècle. 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32
33 34 35 36 37 38 London 2013–14, p. 33. See the 11th article of the 1664
reformed statutes of the Académie: Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 253. See also
London 2013–14, pp. 33–34. The fact that the drawing is in reverese seems to
suggest that it is a counter- proof. For the drawing see Caviglia-Brunel 2012,
p. 481, no. D.794, repr. in colour at p. 128. The drawing was sold at
Sotheby’s, Paris, 18 June 2008, no. 101. Some of Natoire’s drawings after the
live model were published in 1745: Huquier 1745. Paris 2000–01, pp. 415–29;
London 2013–14, pp. 62–69. Guérin 1715, p. 148, no. 49; London 2013–14, p. 94,
note 62. On the pose of the two models see also Foster 1998, pp. 56–57. On the
Pasquino see Haskell and Penny 1981, pp. 291–96, no. 72; Bober and Rubinstein
2010, p. 202, no. 155 Lichtenstein and Michel 2006-12, vol. 1.1, pp. 374–77.
See also Goldstein 1996, p. 150. Dezailler d’Argenville 1745–52, vol. 2, p.
182. Macsotay 2010, pp. 189–90. As noted by Gillian Kennedy in London 1991, p.
80, no. 35. I wish to thank Camilla Pietrabissa for a fruitful discussion on
the subject. Carradori 1802, esp. pp. 3–4, article 2, and plate 5; Carradori
2002, pp. 23–24, and pp. 60–61, plate 5. London 2013–14, p. 34. On the Farnese
Hercules see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol.
3, pp. 17–20, no. 1. On the Laocoön see Haskell and Penny 1981, pp. 243–47, no.
52; Bober and Rubinstein 2010, pp. 164–68, no. 122. On the Venus de’ Medici see
Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88. On the Borghese Gladiator see
Haskell and Penny 1981, pp. 221–24, no. 43; Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51
(L. Laugier); Pasquier 2000–01c. Lichtenstein and Michel 2006–12, see esp. vols
1–2, passim. See also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 45–46. Guérin
1715, p. 62, no. 35, pp. 105–06, nos 1–2, p. 185, no. 41; London and New York
2012–13, p. 162; London 2013–14, p. 94, note 62. On Perrier’s Segmenta see
Picozzi 2000; Laveissière 2011; Di Cosmo 2013; Fatticcioni 2013. Bosse 1649, p.
98. On the success of the Segmenta see Haskell and Penny 1981, p. 21; Goldstein
1996, p. 144; Coquery 2000, pp. 43–44. See also Aymonino’s essay in this
catalogue, p. 42. London 2013–14, p. 53. On a similar display in the real École
du modèle see Guérin 1715, p. 258 London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel
2012, p. 334, no. D.362; London and New York 2012–13, p. 161. The Montpellier
version also shows Poussin’s circular Time defending Truth against the Attacks
of Envy and Discord on the ceiling: see Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no.
D.362. I would like to thank Alastair Laing for discussing these two paintings
with me. London 1991, p. 80, no. 35. It was previously thought that the print
from Lemoyne’s Annunciation was not in reverse but this has been disproven by
Rowell 2012, see p. 178, fig. 7 and p. 180, note 27. Guérin 1715, p. 165, no.
1. See Lichtenstein and Michel 2006–12, passim. Guérin 1715, pp. 257–60. See
also Foster 1998, pp. 56–57; Schnapper 2000; Macsotay 2010. Locquin 1912, pp.
5–13; Plax 2000. Jouin 1889; London 1991, p. 80, no. 35. On the Concorsi
Clementini see Cipriani and Valeriani 1988–91 and Aymonino’s essay in this
catalogue, p. 54. See also cat. 15. Macsotay 2010; Henry 2010–11. Locquin 1912,
pp. 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28; Caviglia- Brunel 2012, pp.
86–87. As already noted in Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, no. 42.
Dorigny’s print was reissued in 1728, in parallel to the award ceremony of the
Concorsi Clementini, when Natoire was still in Rome (see cat. 15).
student. The Accademia di San Luca officially supported the copying of
the Antique and the production of history painting through the system of the
Concorsi Clementini, established in 1702, of which, as we know, Natoire
obtained the first prize.34 At the same time the Académie de France in Rome saw
a complete reorganisation under the directorship of Nicholas Vleughels
(1668-1737) between 1725 and 1737. Its enormous collection of casts was redisplayed
and integrated with the Ecole du modèle and its students, like Natoire, were
strongly encouraged to compare the ideal of casts from the Antique against
nature in the form of the live model, as we see promulgated in our drawing.35
These principles began to be re-introduced in Paris after the election in 1745
of Charles- François-Paul Le Normant de Tournehem – the uncle of Madame de
Pompadour – as director of the Bâtiments du Roi, the official protector of the
Académie Royale on behalf of the king. Tournehem initiated a reform aimed at
the rehabilitation of history painting, and in the following 158 159 1 2 3 4 5
6 7 8 aa Lot 100 is probably this drawing but it could also refer to the very
similar version of this sheet now preserved at the Musée Atger, Montpellier,
inv. MA1, album M43 fol. 26: see Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, no.
42; London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362 and p.
336, no. D. 370, where the lot description is transcribed in full. On Natoire
see Troyes, Nîmes and elsewhere 1977; Caviglia-Brunel 2012. For the Monpellier
drawing see above note 1. Guérin 1715, pp. 257–60, plate between pp. 256–57;
Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362; London and New York 2012–13, pp.
161–62, fig. 68. Montaiglon 1875–92, vol. 5, pp. 171, 193; London 1991, p. 80,
no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362. Guérin 1715, p. 259; London
1991, p. 80, no. 35; London 2013–14, pp. 46, 62. See the 4th article of the
1648 statutes of the Académie: Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 8. See also
Guérin 1715, p. 258. London 2013–14, p. 40. Women were admitted to the
Académie, then named École des Beaux-Arts, only in 1896 and allowed to enrol
for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, p. 61. 17. Hubert Robert
(Paris 1733–1808 Paris) The Artist Seated at a Table, Drawing a Bust of a Woman
c. 1763–65 Red chalk, 333 × 441 mm provenance: Poulet, whence acquired by
Pierre Decourcelle (1856–1926), Paris in October 1912 for 300 francs;1 by
descent; Decourcelle sale, Christie’s, Paris, 21 March 2002, lot 317, from whom
acquired. literature: Paris 1933, p. 124, under no. 197; Rome 1990–91, p. 191,
under no. 135; Ottawa, Washington D.C., and elsewhere 2003–04, p. 308, under
no. 92, fig. 142. exhibitions: Paris 1922, p. 16, no. 85, not repr. Katrin
Bellinger collection, inv. no. 2002–012 Hubert Robert received a classical
education at the Collège de Navarre before studying drawing in the studio of
the sculptor, Michel-Ange Slodtz (1705–64). Even during this early period, he
showed an interest in ‘architecture in ruins’.2 Although not eligible for a
place at the Académie de Rome – he had not attended the requisite École Royale
des élèves protégés – family connections allowed him to bypass this regulation
and on 4 November 1754 Robert arrived in Rome in the retinue of the new French
ambassa- dor, Étienne-François, comte de Stainville (1719–85), later duc de
Choiseul. The diplomat sponsored Robert for the first three years of his stay
before he was granted pensionnaire status at the Academy in 1759, under the
directorship of Joseph-Charles Natoire (see cat. 16).3 Robert remained in Rome
– with intermittent study trips to Naples, Florence and elsewhere in Italy –
for eleven years, responding to the fertile archaeological climate, sparked by
recent excavations at Pompeii and Herculaneum as well as the newly opened
Capitoline Museum, and indulging his fascination for classical ruins. Natoire
encouraged Robert and the other students to sketch antiquities outdoors in
situ, in the Roman campagna and beyond. Robert also took inspiration from the
work of other mentors including the celebrated vedu- tista, Giovanni Paolo
Panini (c. 1692–1765), and the printmaker and draughtsman, Giovanni Battista
Piranesi (1720–78). With his friend and compatriot, Jean-Honoré Fragonard
(1732–1806), Robert enthusiastically sketched classical monuments and
antiquities in and around Rome, later fusing real and imagined elements to
create highly original compositions – often punctuated by ancient ruins or
dilapidated architectural fragments – that would become a trademark of his
work. The vast repository of motifs amassed by him during this productive Roman
period, coupled to his facile draughtsmanship, would serve him well for years
to come. He became a star pupil of the Academy and his drawings in particular
would be eagerly sought after before he returned to France in 1765, where he
entered the Académie Royale and successfully exhibited at the Salons.4 160
Undoubtedly one of his finest red chalk drawings, the present study shows the
artist in a rare moment of casual repose, seated at a table and drawing, legs
casually extended and crossed, stockinged feet resting carelessly on a large
portfolio of drawings lying open on the floor.5 His relaxed, almost dishevelled
appearance and level of undress – the fallen left knee-sock slumped around his
ankle, the unbut- toned breeches and the disregarded, rumpled, coat, strewn on
a chair opposite alongside his hat and the long shadows cast – all suggest that
it is the end of a long day and he is at home, resuming a favourite activity:
drawing. The focus of Robert’s gaze is the bust of an attractive young woman in
right profile placed on the table. With his chalk-filled porte-crayon in hand,
he stares intently at her, poised to sketch. Her head titled downwards, she
returns his steady gaze; there is a palpable tension between them. However, the
presence of a third figure threatens to interrupt their private moment. With a
side-glance, a bearded man drawn on a sheet pinned up on the wall between them
also watches the young woman, thereby completing an amusing love triangle of
Robert’s invention. The object of the men’s attention is the Roman Empress,
Faustina the Younger (c. ad 125/30–175), daughter of Emperor Antonius Pius and
Faustina the Elder (fig. 1). She married Emperor Marcus Aurelius, perhaps the
bearded rival in the drawing on the wall.6 Her marble bust was discovered in
Hadrian’s Villa at Tivoli and in 1748 presented by Benedict XIV to the
Capitoline Museum where Robert would have seen it.7 Bartolomeo Cavaceppi, the
Roman sculptor and antiquities restorer, who worked on the original for a year
after its discovery and made several copies after it, was an acquaintance of
Robert’s who occasionally visited his studio (cat. 18).8 In fact, his red chalk
drawing in the Château Borély in Marseilles (cat. 18, fig. 6) records an
antiquities restorer, quite possibly Cavaceppi himself, working on a female
bust.9 The present composition is repeated in a small signed painting in the
Museum Boijmans Van Beuningen in 161 room’s generous proportions, the
beamed ceiling and for- mal window, the elegant Louis XV-style table– are
consistent with those found in Robert’s detailed sanguine of Breteuil’s grand
Salone.13 Thus, it is highly likely that the composition was conceived during
his stay at the Ambassador’s residence, 1763–65, and that it is Breteuil’s
guest room that is shown. Perhaps the drawing, more a ricordo than a
preliminary study for the painting, was intended as a gift to the host, as a
gesture of gratitude and friendship. A highly regarded collector and patron of
the arts, Breteuil was an ardent admirer of Robert’s work.14 At the outset of
his posting in Rome, Natoire praised the diplomat as an informed collector who
already owned ‘quelque chose’ by Robert.15 Breteuil would later procure many of
Robert’s drawings as well as paintings.16 A close friendship between patron and
artist followed, evidently based on a shared love of art and antiquity in all
its forms.17 Together they translated texts by Virgil and took sightseeing
trips in Rome, and at least one to Florence.18 The Ambassador asked Robert to
accompany him to Sicily ‘pour visiter et dessiner les beaux morceaux antiques
qui sont dans ses cantons-là’, but, it seems, the trip never took place.19 Representations
of artists in the act of drawing antique sculpture and other works of art are
recurrent in Robert’s oeuvre along with representations of classical
architecture in ruin. Detailed studies made on the spot such as The Draughts-
man at the Capitoline, c. 1763 (p. 56, fig. 95) convey something of the wonder
and excitement that he must have felt at 20 encountering these celebrated
sights for the first time. He often represented himself or his associates in
grandiose, stage-like settings or as art tourists, of the sort that he would
frequently have encountered. But as an intimate scene of private contemplation,
the present drawing stands apart Fig. 2. Hubert Robert, The Artist in his
Studio, c. 1763–65, oil on canvas, 37 × 48 cm, Museum Boijmans van Beuningen,
Rotterdam, 2586 (OK) Fig. 3. Hubert Robert, Young Artists in the Studio, red
chalk, with framing lines in pen and brown ink, 352 × 412 mm, Metropolitan
Museum of Art, New York, 1972.118.23 from these. It bears a close resemblance
to a composition in the Metropolitan Museum of Art (fig. 3) showing the same
room but on another day with visitors: a bare-footed servant and two artists –
one drawing, the other inspecting the portfolio.21 A little-known red chalk
study formerly in the Camille Groult collection in Paris (fig. 4) probably
preceded 22 the present drawing. It shows the same relaxed figure alone –
Robert – in identical attire but fully dressed and outdoors, lying on the
ground and sketching, presumably after his favourite subject: the Antique. Fig.
4. Hubert Robert, Le Dessinateur, red chalk, 300 × 400 mm, present whereabouts
unknown Fig. 1. Bust of Empress Faustina the Younger, 147–48 ad,
marble, 60 cm (h), Musei Capitolini, Rome, inv. MC449 Rotterdam (fig. 2).10 It
is of similar dimensions to the drawing but a few modifications were made:
Robert no longer has a full head of hair and the open portfolio used as a foot
rest is now safely closed, while another leans against his chair. The view of
the room is wider and includes a high, beamed ceiling, a generously sized
window and a table on the right, on which rest tools and utensils. A further
nod to antiquity is a lively copy after the celebrated Roman sculpture,
Germanicus (cat. 33, fig. 4) on a pedestal on the left. While it was found in Rome,
in Robert’s time the statue was already in Versailles.11 But its fame endured
in Italy and a plaster cast was available for study at the French Academy in
Rome. Further playful details were introduced: a framed picture and
precariously hung drawings (including a possible por- trait of Faustina); a
charming dog that takes a keen interest in Robert’s casually flung slippers.
While the intimate nature of the scene, bordering on genre, suggests this is
indeed Robert’s private space, its spacious grandeur is not that of his student
lodging at the Academy. When his official term as pensionnaire ended in October
1763, his stay was extended by the largesse of the French Ambassador of the
Order of Malta to the Holy See, the Bailli de Breteuil (1723–85), who housed
him at his palace on the Via dei Condotti until he returned to Paris in July 1
2 3 4 5 6 7 8 avl According to N. Schwed (e-mail, 30 July 2014), this
information was provided to Christie’s at the time of the Decourcelle sale in
2002. Taillasson 1808, p. 473. Letters exchanged between the influential
Marquis de Marigny, Director General of King Louis XV’s buildings (and brother
of his mistress, Madame de Pompadour), and Charles-Joseph Natoire, Director of
the French Academy in Rome published by A. de Montaiglon and J. Guiffrey
between 1887–1912 provide essential details about Robert and his stay in Italy.
For Robert and Choiseul, see ibid., vol. 11, p. 262, no. 5331. Collector and
connoisseur, Pierre-Jean Mariette preferred Robert’s draw- ings to his paintings:
‘ses tableaux est fort inferieur à ses desseins [sic], dans lesquels il met
beaucoup d’esprit’ (Mariette 1850–60, vol. 4, p. 414). Letters between Marigny
and Natoire mention requests from Mariette for drawings: Montaiglon and
Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 365, no. 5477; p. 367, no. 5483; p. 388, no.
5521; p. 428, no. 5589. The traditional view that the drawing is a
self-portrait (Paris 1922, p. 16, no. 85; Paris 1933, p. 124, under no. 197),
upheld in the recent literature, need not be questioned. The figure resembles
Augustin Pajou’s marble bust of Robert (1780) in the École Nationale Supérieure
des Beaux-Arts and Elisabeth Vigée-Lebrun’s 1788 portrait of him in the Louvre.
He has all the characteristics of an emperor from the Antonine period. It could
well be a reference to the bust of Marcus Aurelius in the Capitoline Museum.
See Fittschen and Zanker 1985, vol. 1, pp. 76–77, no. 69, vol. 2, pls 79,
81–82. A copy by Cavaceppi in terracotta is preserved in the Museo del Palazzo
di Venezia, see Rome 1994, p. 104, no. 19, repr. For the bust, see Fittschen
and Zanker 1983, vol. 1, pp.20–21, no. 19, vol. 2, pls 24–26. For its
restoration, see London 1983, pp. 66–67. Cavaceppi’s posthumous inventory of
1802 mentions two marble Faustinas and one plaster cast 9 10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 (Gasparri and Ghiandoni 1994, p. 264, no. 310, p. 270, no.
624 and p. 286, no. 109). For surviving copies by Cavaceppi, predominantly
acquired by English collectors, see Howard 1970, p. 123, figs 8 and 9, p. 128;
Howard 1982, p. 240, no. 6, p. 313, fig. 133, pp. 83, 251, nos. 25–26, p. 326,
fig. 211, p. 264, no. 14, p. 268, no. 15, p. 419; I. Bignamini, in London and
Rome 1996–97, pp. 211–12, no. 159; D. Walker, in Philadelphia and Houston 2000,
p. 242, no. 120. This is not, however, Faustina, as Marianne Roland Michel
proposed (Marseille 2001, p. 96, no. 109). For the painting, see J. Ebeling, in
Ottawa, Washington D.C. and elsewhere 2003–04, pp. 308–09, no. 92, 372, with
select previous literature listed. See Haskell and Penny 1981, pp. 119–20, no.
42, fig. 114. Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 12, p. 86, no. 5856.
Paris, Louvre. Méjanès 2006, p. 77, no. 33 and Ottawa and Caen 2011–12, pp.
140–41, no. 53. The connection was first noted by J. de Cayeux in Rome 1990–91,
p. 191, under cat. no. 135. On Breteuil, see Yavchitz-Koehler 1987, pp. 369–78,
Depasquale 2001, and Ottawa and Caen 2011–12, pp. 13–17 and 140–41, no. 53.
Letter from Natoire to Marigny, 25 April 1759 (Montaiglon and Guiffrey
1887–1912, vol. 11, pp. 272–73, no. 5346). For the drawings, see letter from
Natoire to Marigny, 5 January 1763, Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11,
p. 455, no. 5636. Compositions by Robert are among the copies made in 1770 by
Jean-Robert Ango (active 1759 – after 1773) after works in Breteuil’s
collection (Choisel 1986, nos 23–26, 44, 80). Their close rapport was recorded
by Robert’s friend, the painter Elisabeth Vigée-Lebrun (Gabillot 1895, pp.
80–81). Breteuil owned antique works as well as copies after the antique by
contemporary artists. Some are recorded in drawings by Ango (Choisel 1986, nos.
29, 45, 47, 51, 54–57, 71–72, 74–75, 83 and 125) including a small bronze Venus
Pudica, no. 56, and a copy by Laurent Guiard (1723–88) after the Venus
Calllypige from the Farnese collec- tion (no. 75). Additional antique works and
copies are listed in Breteuil’s posthumous sale in Paris of 16 January 1786,
including a copy of the Gladiator by Luc-François Breton (1731–1800), no. 135,
and a copy of the bust of Germanicus in the Capitoline, no. 143. Although no
bust of Faustina is listed, he may have owned the copy that Robert draws in the
present drawing. Gabillot 1895, pp. 61, 81–82. Letter from Natoire to Marigny,
5 January 1763 and another from Marigny to Natoire, 20 February 1763.
Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 455, no. 5636 and p. 462, no.
5649. J.-P. Cuzin, in Paris 2000–01, p. 373, no. 178. Michel 1998–2000, pp. 60,
62, fig. 13. Sold Galerie Charpentier, Paris, 21 March 1952, lot 52. Present
whereabouts unknown. 163 of 1765. 162 12 Certain decorative features in
the painting – the 18. Hubert Robert (Paris 1733–1808 Paris) The Roman
Studio of Bartolomeo Cavaceppi c. 1764–65 Black chalk, 339 × 443 mm Inscribed
verso l.r. in pencil: ‘Salon de 1783 / No. 61 Intérieur d’un atelier à Rome /
dans lequel on restaure des statues / antiques / Cet atelier est pratiqué et
construit / dans les debris d’un ancien temple / 5 pieds de large sur 3 pieds 9
pounces de haut’ watermark: A coat of arms, possibly containing a star, three
hills and the initials ‘CB’ below, surmounted by a Cardinal’s hat with tassels
on each side (see Heawood 1950, nos 791–99). provenance: Charles Albert de
Burlet (1882–1956), Berlin, around 1910; Sold Galerie Fischer, Lucerne, 13
November 2006, lot 1944; Private collection, Switzerland, in 2006; Le Claire
Kunst, Hamburg, in 2011; Sold Villa Grisebach, Berlin, 28 November 2013, lot
307R, from whom acquired. literature: Le Claire Kunst 2011, no. 13
(unpaginated), repr.; Yarker and Hornsby 2012-13, pp. 65–66, fig. 37; Körner
2013, lot 307R, repr. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 2013-030 A visit to the studio of Bartolomeo
Cavaceppi (1716–99) the sculptor, dealer, antiquarian, collector and especially,
restorer of ancient sculpture was essential for any serious art tourist or
collector in Rome on the Grand Tour.1 Known as the ‘Museo Cavaceppi’, by the
1770s it was listed in guide- books as among the top sights of the Eternal
City.2 Johann Wolfgang von Goethe (1749–1832), who lived nearby, and visited it
in 1788 noted that one could experience in the studio ancient sculpture from
close proximity in all its gran- deur and beauty.3 The painters, Henry Fuseli
(1741–1825) and Giovanni Casanova (1728/30–1795) and the sculptor, Antonio
Canova (1757–1822), also came to see the collection.4 The ‘Museo’ was an
international meeting place, frequented by many artists including the English
sculptor, Joseph Nollekens, who worked for Cavaceppi as an assistant in the
1760s, and the English painter, Charles Grignoin, who resided with him in
1787.5 Strategically located between the Spanish Steps and the Piazza del
Popolo and thus in the social hub of Rome, the sprawling workshop was graced by
European royalty – Catherine the Great, Maria Christina, Duchess of Teschen,
Princess Sophia Albertina of Sweden, her brother, King Gustav III – and a
steady stream of English Grand Tourists like Charles Townley (see cat. 28),
many of whom became important clients.6 From a modest background, Cavaceppi
trained as a sculp- tor before enrolling in the Accademia di San Luca in 1732.
Two years later, Cardinal Alessandro Albani (1692–1779), the nephew of Pope
Clement XI and then the most respected private collector of antiquities in
Rome, appointed Cavaceppi as his personal restorer. The association brought him
many profitable commissions from foreign tourists for whom he found antique
statues, restored them, or made copies, in marble or plaster. He also created
original works, rarely signed, that were often confused with authentic antique
originals. Through his friend, the art historian and archaeol- 164 ogist,
Johann Joachim Winckelman (1717–68), who, in 1764, published The History of Art
in Antiquity (Geschichte der Kunst des Alterthums), Cavaceppi secured many
English clients, taken with the current mania for classical antiquity. He later
served as chief restorer to the Pope at the Museo Clementino and was made
Knight of the Golden Spur in 1770. In 1768 Cavaceppi published the first volume
of his Raccolta d’antiche statue, busti, teste cognite ed altre sculture
antiche con- taining sixty plates of antique statues that had been repaired in
his studio, often ‘corrected’ with missing or broken parts filled in. Over half
of these had been acquired by English collectors.7 A year later, he published
the second volume, essentially a promotional catalogue with works available for
purchase, followed by a third in 1772. Illustrating a total of 196 works, these
influential volumes, the first of their kind, helped to satisfy the seemingly
insatiable demand for unblemished antique sculpture – free of fragmentary
vestiges or other perceived flaws – and to encourage an emerging neo-classical
aesthetic. For modern scholars they serve as an indispensible tool for identifying
works he restored. By 1756 Cavaceppi established his vast studio on the Via del
Babbuino, a workshop and showroom. Cavaceppi employed a range of skilled and
unskilled workers with different roles and specialisations, fifteen of whom
have been identified by name, with Giuseppe Angelini and Carlo Albacini being
the most accomplished.8 The frontispiece to the first volume of Cavaceppi’s
Raccolta provides a fascinating look at his active studio with assistants
exercising different techniques of restoration and antiques in various stages
of completion (fig. 1). It offers a glimpse at what must have been a sprawling
complex of rooms with distinctive architectural details – high ceilings,
lattice windows and an enfilade of vaulted archways connecting each room, one
leading to an open garden courtyard at the back.9 165
Fig. 1. View of Cavaceppi’s Roman Studio, engraving, in Raccolta
d’antiche statue, vol. 1, frontispiece, Rome, 1768. Photo: Warburg Institute,
London Hubert Robert certainly encountered Cavaceppi during his Roman sojourn,
1754–65 (see cat. 17), and visited his studio on occasion, as this drawing
testifies. Executed in soft black chalk, it offers a view of one of the many
rooms in the Cavaceppi workshop. As in the engraving, there is a high ceiling
with lattice windows, statues and blocks of stone are scattered about, and
affixed to the wall on the left, is the same type of wooden structure and lead
point suspended on a cord used for measuring sculpture.10 With a chisel in one
hand and a mallet in the other, a restorer dressed in formal attire, perhaps
Cavaceppi himself, is busy worker-cutting on the cascading drapery of an
enormous statue of an armless woman. We can identify this as Cavaceppi’s studio
with virtual certainty as two works in the drawing were illustrated in perhaps
Cavaceppi himself, working on a female bust (fig. 6). Captivated by the theme
of the artist at work, Robert would return to the subject of the restorer’s
studio. In 1783 he successfully showed the impressive, rather generically
entitled, The Studio of an Antiquities Restorer in Rome at the Salon (Toledo
Museum of Art), which, though clearly an idealised vision featuring some of the
most famous antique works of the day (including the River Nile, Cupid and
Psyche, etc.), is also a wistful reminiscence of the artist’s own Roman years
and passionate study of antique statuary: a diminutive figure of an artist
sketching is visible in the foreground.18 In another little-known privately
owned picture attributed to Robert, well-clad visitors admire antique statues
in a sculptor’s studio while the ubiquitous artist is seen drawing (fig. 7).
Though certain features suggest the small painting may also represent
Cavaceppi’s studio, as with the Toledo canvas, topographical exactitude is
tempered with a more generalised, romantic – and highly saleable view – of
remnants from Rome’s ancient 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 For
his life and work, see especially Howard 1970, Howard 1982, London 1983, Howard
1991, Gasparri and Ghiandoni 1994, Rome 1994, Piva 2000, Barr 2008, Weiss and
Dostert 2000, Bignamini and Hornsby 2010, pp. 252–55; Piva 2010–11, C. Piva in
Rome 2010–11, pp. 418–19, no. IV.1 and Meyer and Piva 2011, pp. 149–55 (for
essential bibliography). Howard 1988, p. 479; Piva 2000, p. 5; Barr 2008, p.
86. Goethe 1827–42, p. 540, cited in C. Piva in Rome 2010–11b, pp. 418–19, no.
IV.1. Piva 2000, pp. 6, 17, note 4; Honour and Mariuz 2007, pp. 26, 60–63. For
Nollekens, see Howard 1964, pp. 177–89; Coltman 2003, pp. 371–96. For Grignoin,
see Ingamells 1997, pp. 433–34. Howard 1988, p. 479. For Cavaceppi’s works from
British collections, see London 1983. Haskell and Penny 1981, p. 68. Barr 2008,
p. 104 and p. 184, Appendix B. Some of the same topographical details are discernible
in a little-known floor plan of the building (Piva 2000, p. 10, fig. 7). For
more on this device and an engraving demonstrating its use (published by D.
Diderot and J. le Rond d’Alembert in the Encyclopédie in 1765), see Myssok
2010, pp. 272–73, fig. 13.2. As first noted by Stefan Körner (Körner 2013,
under lot 307R). Ibid., under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009,
p. 416, no. 270. Körner 2013, under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke
2009, p. 430, no. 283. Müller-Kaspar 2009, p. 395. D. Kreikenbom, in Hüneke
2009, pp. 578–79, no. 357. According to Winckelmann, many statues (including
Kalliope and possibly also Lucilla) were acquired by Bianconi in 1766 from the
sale of Cavaliere Pietro Natali’s collection in Rome. Conceivably, they were
brought to Cavaceppi’s studio while they were still in Natali’s possession
(Müller- Kaspar 2009, p. 395; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, pp. 416, 430).
Marseille 2001, p. 96, no. 109. Guiffrey 1869–72, vol. 32, p.25, no. 61:
‘L’intérieur d’un Attelier à Rome, dans lequel on restaure des statues
antiques. Cet Attelier est pratiqué & construit dans les debris d’un ancien
Temple’. Fig. 2. Lucilla Sotto sembianza d’Urania, anch’essa or esistente in
Germania, engraving in Raccolta d’antiche statue, vol. 1, Rome, 1768, pl. 58.
Photo: Warburg Institute, London Fig. 3. Kore as Urania, body, Antonine, c. 150
ad after a Greek model, 4th century bc; head, 160–170 ad; marble, 270 cm (h),
Berlin, SMBPK, Antikensammlung, Sk 379 in the drawing, to the right, the muse
Kalliope, lost in Berlin during World War II, was also restored by Cavaceppi
(figs 4–5).13 Both were acquired in 1766 by the Bolognese doctor and
antiquarian, Giovanni Ludovico Bianconi, another friend of Winkelmann’s, for
King Frederick William II of Prussia and assigned to Cavaceppi for restoration
before being sent to the Sansssouci Palace in Potsdam in 1767.14 The child’s
sarcophagus visible in the drawing on the left wall is also similar to that
preserved today in Charlottenhof Palace in Potsdam though it does not appear in
the Raccolta.15 The dating of Robert’s drawing is problematic as in 1766, the
year Lucilla and Kalliope were acquired by Bianconi, the Fig. 4. Kalliope,
engraving in Raccolta d’antiche statue, vol. 1, Rome, 1768, pl. 45. Photo: Warburg
Institute, London Fig. 5. Kalliope, Roman, marble, 98 cm, formerly Berlin,
SMBPK, Antikensammlung, Sk 600, lost c. 1945 Fig. 6. Hubert Robert, L’Atelier
du restaurateur de sculptures antiques, black chalk, 368 × 323 mm, Château
Borély, Marseilles, Inv. 68-194 painter was already back in Paris, having left
Rome in July 1765. However, it seems highly likely that the works were lodged
in Cavaceppi’s studio before their acquisition and, indeed, they are drawn in
their pre-restoration state.16 During the same period Robert probably made the
black chalk drawing now in Marseille showing an antiquities restorer, 17 Fig.
7. Hubert Robert, Studio of a Sculpture Restorer, oil on panel, 13 × 10 cm,
private collection. Photo: Witt Library his Raccolta. 166 11 One of
them, the monumental female statue in the centre, re-appears in the
publication, with arms added and an entirely different head (fig. 2). Cavaceppi
identified her as Lucilla, daughter of Marcus Aurelius, with the attrib- utes
of Urania, the muse of Astronomy (‘Lucilla Sotto sembian- za d’Urania,
anch’essa or esistente in Germania’). A staggering 220-cm in height she is
preserved today, with further restorations, in Berlin (fig. 3).12 The seated
figure behind her past. avl 167 19. Georg Martin Preissler (Nürnberg
1700–54 Nürnberg) after Giovanni Domenico Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome)
Self-Portrait of Campiglia Drawing 1739 Engraving, first state (before the
lettering) 226 × 167 mm (image); 315 × 223 mm (sheet) Inscribed l.l. below
image in pencil: ‘Campiglia se ipse del.’; l.r.: in pencil: ‘G. M.
Preisler.Sc.Nor.; and l.c. in pencil: ‘Joh. Dominicus Campiglia, / Pictor
Florent. Delineator / Musei Fiorentini.’ provenance: Trinity Fine Art, London,
1999, from whom acquired. literature: Le Blanc 1854–88, vol. 3, p. 244, no. 6,
‘Campiglia (Giov. – Dom.). 1739. In – fol. -1er état : avant le lettere.’
exhibitions: London 1999b, p. 8, no. 16, not repr. Katrin Bellinger collection,
inv. no. 1999–054 A prolific and accomplished draughtsman, painter and
reproductive engraver, Campiglia was a central figure in promoting and
disseminating images of the Antique during the middle decades of the 18th
century and therefore, is a key figure in the present exhibition.1 His
formative years were spent training with his uncle and local painters in Lucca,
Bologna and Florence where he studied drawing, as well as anatomy and
perspective and made copies after the Old Masters. By 1716, he was residing in
Rome studying the most important collections of antique sculpture. That year he
received a first prize for painting and for drawings to illustrate a booklet
for the Accademia di San Luca. He was already respected for his wide culture
and his work was admired by English collectors like Richard Topham, who
esteemed his refined and highly finished chalk studies of antique sculpture, as
well as his portraits.2 His close involve- ment in two lavishly illustrated and
highly successful and influential publications largely devoted to antique
sculpture – the Museum Florentinum and the Museo Capitolino (cat. 20) – brought
him lasting fame and consolidated the taste for classical antiquity that
continued through the rest of the 18th century and beyond.3 In the early 1730s
the Florentine antiquarian, Anton Francesco Gori (1691–1757), began to assemble
a set of vol- umes that aimed to provide a visual record of the art collec-
tions of Florence, mainly those of the Medici, the ruling dynasty. He
commissioned Campiglia, already in the city in 1726, and others to make
drawings of the works selected to be engraved. The Museum Florentinum was
published between 1731 and 1766. It comprised twelve large volumes divided into
four parts: Gemmae antiquae ex Thesauro Mediceo et privatorum dactyliothecis
florentiae..., devoted to engraved gems (1731–32); Statuae antiquae deorum et
virorum illustrium, on antique statues and monuments (1734), Antiqua numismata
aurea et argentea, dedicated to ancient coins (1740–42) and, lastly, Serie di
ritratti degli eccellenti pittori, illustrating 320 portraits of prominent
artists, published in 1752–66. This last volume, based on art- ists’
self-portraits in the Uffizi’s collection, is of particular relevance here, as
we shall see later. This rare engraving by Preissler, hitherto unpublished and
known only in a single impression of the first state, is probably based on a
now untraced self-portrait of Campiglia.4 Without explanation, Le Blanc dates
the print to 1739 – when the artist was 47.5 Wearing an ermine collar with a
crisp, white, open-necked shirt and directly engaging the viewer, he presents
himself as straightforward, successful and brim- ming with confidence. Assuming
that Le Blanc’s date is cor- rect, the print appeared at time when Campiglia
was enjoying considerable success. The first two parts of the Museum Florentinum
had already been published, he had begun work on the Capitolino in 1735 (see
cat. 20) and, precisely in 1739, he had been appointed Superintendent of the
Calcografia Camerale, the papal printing press. These successes culmi- nated in
his nomination for membership of the Accademia di San Luca in November of that
same year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held in his
left hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model of the
Belvedere Antinous standing on the table before him (fig. 1). At the statue’s
feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps Mercury, and two
medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7 It is not
surprising that Campiglia, whose reputation was established through skilfully
reproducing artefacts from the ancient world, should present himself with the
Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from
antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its
placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues
of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman
emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168same
year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held in his left
hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model of the
Belvedere Antinous standing on the table before him (fig. 1). At the statue’s
feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps Mercury, and two
medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7 It is not
surprising that Campiglia, whose reputation was established through skilfully
reproducing artefacts from the ancient world, should present himself with the
Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from
antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its
placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues
of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman
emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168
169 adopts the same pose in the print as he did for his person- ification
of painting in the little-known Il Genio della Pittura of around 1739–40 in the
Accademia Nazionale di San Luca (fig. 2).13 The chalk holder becomes a paint
brush and the drawings portfolio a canvas. Not coincidentally, Campiglia seems
to have donated this painting as his entry work to the Academy c. 1740, about
contemporary with the present engraving.14 He cleverly fuses iconographic
elements in an amusing black chalk study of c. 1737–38 in the British Museum
(fig. 3) acquired by Charles Frederick (1709–85) while in Rome on the Grand
Tour, where he depicts himself drawing in the company of a seated monkey who
playfully holds up a paint brush, a clear allegorical reference to art
imitating nature or ‘art as the ape of nature’ as Aristotle describes it in the
Poetics.15 Characterised as ‘a very well-bred communica- tive man’, Campiglia and
his portraits were enormously popular with English collectors.16 Campiglia made
several other self-portraits throughout his career.17 Of particular relevance
is the painting made around 1766 for his pupil and collaborator, Pietro Antonio
Pazzi (c. 1706–after 1766) and now in the Uffizi.18 It shows the artist at
ease, his hands casually resting on his ever-present portfolio. The picture
appears, like so many of the Uffizi self-portraits, as an engraving by the same
Pazzi in the final volume of the Museum Florentinum (fig. 4).19 In Pazzi’s
engraving the format and central image dimensions are nearly identical to our
print of Campiglia by Georg Martin Preissler, who, not coincidentally, engraved
other portrait plates in the Museum Florentinum. Furthermore, the pencil
lettering, Joh. Dominicus Campiglia, / Pictor Florent. Delineator, beneath the
image in our engraving is similar in style and format to the engraved
inscriptions accompanying the other portraits in the book. Also telling is the
final pencil inscription, Delineator Musei Fiorentini, under his name in the
print. All this evidence strongly suggests that Campiglia intended to use the
present image for the Museum Florentinum – and had it engraved by Preissler for
that purpose – but he decided not to use it. Perhaps it served as a kind of
test-print for the engraved self-portraits in the volume. Although the portrait
series was not published until 1752–66, by 1739, Gori and Campiglia would
already have started to plan the format of the later sections. Interestingly,
Charles Le Blanc similarly describes Preissler’s engravings of Dürer, Eglon van
der Neer, Rubens and Raphael, all destined for the Museum Florentinum, as first
states ‘before the lettering’.20 But whatever our print’s true purpose, by the
time the portrait volumes appeared, Campiglia, then well into his sixties and
in the twilight of his career opted to present a more recent and relaxed
version of himself. avl Fig. 2. Giovanni Domenico Campiglia, Genius of
Painting, c. 1739–40, oil on canvas, 48 × 63.3 cm, Accademia Nazionale di San
Luca, Rome, Inv. 0075 Fig. 3. Giovanni Domenico Campiglia, Self-Portrait of
Campiglia Drawing, with a Monkey Seated on the Table at Left, c. 1737–38, black
chalk, 417 × 258 mm, Department of Prints and Drawings, British Museum, London,
1865,0114.820 Fig. 4. Pietro Antonio Pazzi after Giovanni Domenico Campiglia,
Self-Portrait of Campiglia, engraving in Museum Florentinum, Florence, vol. 12,
1766, plate XXII, 274 × 176 mm (plate), Sir John Soane’s Museum Library, London,
2848 Fig. 1. Belvedere Antinous, Roman copy of the Hadrianic
period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc, marble, 195 cm
(h), Vatican Museums, Rome, inv. 907 the grief-stricken emperor, were produced
almost immedi- ately after its discovery and copies in marble and bronze were
made through the 17th century.9 Considered to embody perfection, according to
Bellori the statue was the subject of studies in ideal proportion by François
Duquesnoy (1597– 1643) and Nicolas Poussin (1594–1665) (p. 47, fig. 68). The
figure had wide-reaching appeal to collectors and connois- seurs, and enticed a
range of artists, who, from the 16th century included it in portraits.10 During
the 18th century small-scale models in bronze or marble, like that seen in the
engraving, were produced in large numbers with ‘restored’ arms, as seen here.
Archaeologist and art historian, Winckelmann, no doubt contributed to the
statue’s elevated status even more with his claim, ‘our Nature will not easily
create a body as perfect as that of the Antinous admir- andus’.11 The widely
held belief that the statue was the embodiment of ideal beauty would be upheld
into the 19th century: even the usually acerbic William Hogarth admitted its
proportions were ‘the most perfect . . . of any of the antique statues’.12
Campiglia was not shy and his other self-portraits make a compelling comparison
with this one. Interestingly, he 1 2 3 4 5 6 7 For essential biography, see
Prosperi Valenti 1974, pp. 539–41; Quieto 1984a; Quieto 1984b. Through his
agent, Francesco Ferdinano Imperiali, Topham commis- sioned Campiglia and
others, including the young Pompeo Batoni, to make dozens, if not hundreds of
drawings with the aim of systematically illus- trating Roman collections of
antiquities. Many of these drawings are now preserved at Eton College. See
Connor Bulman 2002, pp. 343–57 and Windsor 2013, pp. 11, 14–15. The corpus of
his drawings for the Museum Florentinum are in the Uffizi in Florence (Quieto
1984b, p. 10) and for the Museo Capitolino, in the Istituto Nazionale per la
Grafica in Rome (Quieto 1984b, pp. 10, 17–26, 29–36; I. Sgarbozza in Rome
2010–11b, p. 402, no. II.15a-b). It is listed by C. Le Blanc (1854–88, vol. 3,
p. 244, no. 6) among the prints by G. M. Preissler: ‘Campiglia (Giov. – Dom.).
1739. In – fol. -1er état : avant le lettere. Frauenholz, 4 flor.’ To the
knowledge of the present writer, no impression of the second state exists nor,
for that matter, has either state previously been published or discussed. The
name and price Le Blanc men- tions – Frauenholz, 4 florins – refer to the
Nuremberg-based print dealer and publisher, Johann Friedrich Frauenholz
(1758–1822), who may have owned the catalogued impression and who sold (or
acquired) it for the price of 4 florins. While it is possible that the present
impression is the one described, none of Frauenholz’s collector’s marks or
inscriptions (L. 951, L. 994, L. 1044 and L. 1458) appear on it. Campiglia’s
relatively youthful appearance suggests the drawn or painted original may have
been executed a decade or so earlier. He was proposed by Sebastiano Conca on 15
November 1739 and his mem- bership confirmed, 3 January 1740 (Quieto 1983, p.
3). As noted by Eloisa Dodero (personal communication), the herm is similar to
the one seen in the background of Campiglia and Pazzi’s engraving, Students
Copying Antiquities at the Capitoline Museum (see following entry, cat. no.
20). 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Haskell and Penny (1981, pp. 139–42,
no. 4) give a full account of the sculp- ture’s history and reception. See also
Krahn 1996. See V. Krahn in Rome 2000b, vol. 2, pp. 403–04, no. 9. Haskell and
Penny 1981, p. 142 and Krahn 1996. Haskell and Penny 1981, p. 142; and
Winckelmann 1968, p. 153. Hogarth 1753, pp. 81–83. Faldi 1977, pp. 504, 508,
fig. 8. Quieto 1983, p. 5; Rome 1968, p. 22, no. 5. Liverpool 1994-95, p. 72,
no. 19. Ibid., p. 72. Gentleman’s Magazine 1853, vol. 40, p. 237, as quoted by
H. Macandrew 1978, p. 138. Painted self-portraits are in the Palazzo Altieri,
Viterbo (formerly Faldi collection, Rome; Quieto 1983, pp. 5–6, 8, fig. 3, c.
1726–28), the Lemme collection, Rome (ibid., 1983, pp. 5, 7–8, fig. 4,
1732–34). See also the two mentioned in note 18, below. Drawn self-portraits of
a later date have appeared on the London art market: Chaucer Fine Arts, 2003
(London 2003a, no. 12), Christie’s, December 6, 2012, lot 56 and Christie’s,
April 21 1998, lot 126. See Quieto 1983, pp. 4–5, fig. 2 and Quieto 2007, pp.
93–94, fig. 27. As that author noted, it reprises the composition of an earlier
work painted for the Accademia di San Luca (1983, p. 5, cover). Although in
1766 the painting was not yet in the Uffizi – it was not left by Pazzi to the
Grand Ducal collection until 1768 (Quieto 1983, p. 5) – it is likely that at
that date he had already planned to bequeath it, given the self- portraits in
the Museum Florentinum are based on the Uffizi’s collection. Le Blanc 1854–88,
vol. 3, p. 244, nos. 8, 23, 28, 30. Interestingly, Le Blanc indicates that the
Dürer and Raphael were also once owned by Frauenholz. It seems that all these
early first states were in a folio together. 170 171 20. Pietro Antonio
Pazzi (Florence c. 1706 – after 1766 Florence) after Giovanni Domenico
Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome) Students Copying Antiquities at the Capitoline
Museum 1755 Engraving in Giovanni Gaetano Bottari, Musei Capitolini, vol. 3,
Rome, 1755, p. 1 99 × 186 mm (plate), 444 × 287 mm (sheet) Inscribed l.l.:
‘Gio. Dom. Campiglia inv. e disegn.’; and l. r.: ‘P. Ant. Pazzi incis.’
provenance: Robert Adam (1728–92); his sale, Christie’s, London, 20–21 May
1818; purchased by Sir John Soane (1753–1837), not listed in the Christie’s
sale catalogue (according to hand list, Sir John Soane’s Museum, Priv. Corr.
XVI.E.3.12: ‘Books purchased at Mr Adam’s sale’). literature: Haskell and Penny
1981, p. 84, fig. 46; Lyon 1998–99, pp. 109–10, under no. 89, not repr. (A.
Themelly); Paris 2000–01, p. 370, fig. 2; Macsotay 2010, p. 194, fig.
9.3. exhibitions: Not previously exhibited. Sir John Soane’s Museum Library,
London, 4033 exhibited in london only Few images capture the process of
learning to draw after the Antique in 18th-century Rome as vividly as Campiglia
and Pazzi’s densely populated engraving. More readily accessible than the
Belvedere Courtyard in the Vatican (cats 5 and 6) and the private aristocratic
collections, such as the Borghese and Farnese (cats 6 and 21), the Capitoline
Museum was the ideal venue for students to draw in situ from some of the most
celebrated antiquities preserved in Rome. Founded in 1471 with Pope Sixtus IV’s
(r. 1471–84) dona- tion of several important ancient bronzes – the She Wolf,
the colossal bronze head and hand of Constantine, the Spinario and the Camillus
– all preserved until then in the Lateran Palace, the Capitoline grew in time
to become one of the largest and most prestigious collections of classical
antiqui- ties ever assembled in Rome.1 In 1734, in conjunction with the recent
acquisition of the celebrated collection of Cardinal Alessandro Albani, and
thanks to the enlightened policy of Pope Clement XII (r. 1730–40), the
Capitoline opened as a public museum.2 Established with the two-fold civic and
educational purpose of preserving and making accessible to the public the
city’s antiquities and to cultivate ‘the practice and advancement of young
students of the Liberal Arts’, the museum soon became a lure for Italian and
foreign antiquar- ians and artists alike.3 The didactic function of the museum
was emphasised further by Pope Benedict XIV (r. 1740–58) with the opening of
the Pinacoteca Capitolina in 1748, the first public collection of painting in
Rome, and, in 1754, the establishment of the Accademia del Nudo.4 The
Capitoline thus became the first public museum in Europe in the modern sense of
the word and an ideal academy where art students could copy concurrently from
the Antique, Old Master paintings and the live model. The museum’s educational
mission was sanctioned by its growing associa- tion with the Accademia di San
Luca. Academy members 172 presided over the life classes at the Accademia del
Nudo (Campiglia directed classes there in April 1757 and November 1760)5 and
prizes for the student competitions at the Accademia di San Luca, the Concorsi,
were awarded in sump- tuous ceremonies in the rooms of the Capitoline palaces.6
This image is the engraved vignette that introduces the volume devoted to
ancient statues of the Musei Capitolini, an ambitious publication produced with
the pedagogical intent of spreading knowledge of the museum and its collection of
antiquities.7 Conceived by Cardinal Neri Maria Corsini, the nephew of Pope
Clement XII, it consisted of large engraved plates (fig. 1), all based on
designs by Campiglia, accompa- nied by a substantial commentary by the
antiquarian Giovanni Gaetano Bottari (1689–1775); both artist and writer had
worked together previously on the monumental Museum Florentinum (cat. 19).
First published in Italian as Del Museo Capitolino (4 vols, Rome, 1741–82) and
then translated into Latin as Musei Capitolini (4 vols, Rome, 1750–82) in order
to reach a wider foreign audience, the large volumes can be Fig. 1. Carlo
Gregori after Giovanni Domenico Campiglia, The Dying Gladiator, engraving, 202
× 300 mm, plate 68 from Giovanni Gaetano Bottari, Musei Capitolini, vol. 3,
Rome, 1755 173 considered the first systematic catalogue of a
public museum.8 The prestige of the publication, the clarity and neatness of
the illustrations – produced by many of the engravers who, like Pietro Antonio
Pazzi, had participated in the Museum Florentinum – soon made it a celebrated
and indispensible reference work that greatly contributed to the diffusion of
the classical taste in Europe. It was a familiar presence in the libraries of
connoisseurs and artists as this copy, owned by Sir John Soane (1753–1837) and
before him by Robert Adam (1728–92), testifies. The engraving is a celebration
of the new educational role of the museum and its association with the Academy
of San Luca, of which Campiglia had been a member since 1740 (see cat. 19). In
a crowded space, a group of students is seen sketching and modelling in clay
after two of the most famous statues that had been recently acquired for the
museum: the so-called Dying Gladiator (fig. 2) and the Capitoline Antinous
(fig. 3), now believed to represent respectively a Gaul and Hermes. The former,
discovered around 1623, and already famous in the 17th century when it was in
the Ludovisi collection, had been acquired in 1737 by Clement XII for the 9
Capitoline. Placed at the centre of the composition, with Fig. 2. The Dying
Gladiator, Roman copy of a Pergamene original of the 3rd century bc, marble, 93
cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC0747 Fig. 3. The Capitoline Antinous,
Roman copy of the 2nd century ad of a Greek original of the 4th century bc,
marble, 180 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC0741 the young artists
assembled in a semi-circle around it as if in a life class, the Gladiator
invited analysis and study of the male anatomy in a complex pose, as well as
offering an example of a noble and heroic death. The Capitoline Antinous,
recorded in Cardinal Albani’s possession from 1733, had been acquired with the
rest of the Cardinal’s collection in the same year and was displayed in the
museum a few years later.10 Quickly eclipsing the Belvedere Antinous (see p.
26, fig. 22 and cat. 19, fig. 1), it represented a perfect image of the male
body in its youth. It is not by chance that the young students are focusing on
these two statues among the many towering over them in the room, for the Dying
Gladiator and the Capitoline Antinous were the chosen subjects for the third
class of the Concorso Clementino – reserved for the copy – either drawing or
modelling – usually after the Antique, organised by the Accademia di San Luca
for the year 1754 (fig. 4).11 But if the engraving alludes to a contemporary
event, the establishment of the museum as a ‘Scuola del Disegno’,12 it is also
a capriccio, as it gathers together sculptures that were in fact displayed
elsewhere in various rooms and collections, much as Hubert Robert would do in
his beautiful red chalk drawing of almost ten years later (p. 56, fig. 96). The
Dying Gladiator, the Capitoline Antinous and the two stand- ing statues behind
him, the Antinous Osiris and the Wounded Amazon, could all be admired and
studied in the privileged space of the Salone of the Palazzo Nuovo, which
housed some of the best masterpieces of the collection.13 The so- called Albani
Crater, half visible on the far left, and the seated Agrippina behind the
Antinous, were however, displayed elsewhere in the Palazzo Nuovo, respectively
in the Stanza del Vaso and in the Stanza dell’Ercole.14 Moreover, Campiglia did
not confine himself to depicting only works from the Capitoline collections:
even more out of place are the two figures on the right, who turn their backs
to Fig. 4. Giovanni Casanova, Drawing of the Capitoline Antinous (third award
for the third class in painting of the Concorso Clementino), 1754, red chalk on
brown prepared paper, 510 × 290 mm, Accademia Nazionale di San Luca, Rome, inv.
A.380 Fig. 5. Giovanni Paolo Panini, View of Ancient Rome or Roma Antica,
detail, c.1755, oil on canvas, 169.5 × 227 cm, Staatsgalerie Stuttgart inv. Nr.
3315 us as if to signify that they belong elsewhere. These are the much revered
Antinous Belvedere and the Venus de’ Medici – dis- played at that time
respectively in the Vatican and in the Tribuna of the Uffizi.15 Their presence
here probably served to sanction and affirm the canonical status of their
Capitoline companions, all recently excavated or acquired. What we see is
therefore a symbolic space, where reality and fantasy are combined to
legitimise and promote the relatively new collection of the museum. The volumes
of the Musei Capitolini served as a reference tool for many artists and no
doubt inspired the scene showing young students drawing the Dying Gladiator in
the foreground of Giovanni Paolo Panini’s renowned View of Ancient Rome (fig.
5, and p. 53, fig. 92), the first version of which, not coincidentally, was
painted at about the same Fig. 6. Carlo Gregori after Giovanni Domenico
Campiglia, Young Artists Copying the ‘Arrotino’, engraving, 118 × 151 mm, page
225 in Anton Francesco Gori, Museum Florentinum . . . , vol. 8, Florence, 1754
time as the publication of this particular volume. Campiglia devised similar
graceful allegorical vignettes for the contemporary volumes of the Museum
Florentinum.16 One in particular, engraved by Carlo Gregori (1719–59), seems to
be the Florentine counterpart of the Roman image, showing students sketching
the Arrotino, surrounded by the symbols of the arts and books on anatomy and
geometry (fig. 6).17 Although in the second half of the 18th century access to
the museum sometimes proved difficult due to lack of personnel, and while
artists had to go through the bureau- cratic process of applying to the papal
camerlengo or to the director of the museum for licence to make copies, the
Capitoline remained one of the most popular sites among artists and travellers,
as the many views of its interiors testify (pp. 55–56, figs 94–96).18 1 2
3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 aa For recent and brief introductions
on the history of the Capitoline collec- tions, with previous bibliography, see
Parisi Presicce 2010; Paul 2012. On the early years of the Capitoline as a
public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi 2005; Arata 2008.
Document dated 5 December 1733 quoted in Arata 1994, p. 75. On the Pinacoteca
see Marinetti and Levi 2014. On the Accademia del Nudo see Pietrangeli 1959;
Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998. On Campiglia’s supervision of
life classes at the Accademia del Nudo see Pirrotta 1969. On the Concorsi see
Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome, University Park (PA) and elsewhere
1989–90; Cipriani 2010–11. See Quieto 1984b; Kieven 1998; Philadelphia and
Houston 2000, pp. 484– 86, no. 329 (S. Prosperi Valenti Rodinò); Rome 2004, pp.
96–108, nos 1–7 (A. Gallottini); Rome 2010–11b, p. 401, no. II.14 (I.
Sgarbozza). Campiglia started working on his designs for the plates in 1735:
see Franceschini and Vernesi 2005, pp. 59–60. See Haskell and Penny 1981, pp.
224–27, no. 44; Mattei 1987; La Rocca and Parisi Presicce 2010, pp. 428–35. See
Haskell and Penny 1981, pp. 143–44, no. 5; La Rocca and Parisi Presicce 2010,
pp. 500–01. The statue was exhibited in the museum from 1739 or 1742. Cipriani
and Valeriani 1988-91, vol. 2, pp. 219–20, 228. While the 1754 prize drawings
depicting the Antinous survive in the archives of the Accademia, the
terracottas representing the Dying Gladiator are lost. The Dying Gladiator was
also chosen as the subject for the third class in painting in 1758 and the
Capitoline Antinous for the third class in sculpture in 1779, and in painting
in 1783: ibid., vol. 3, pp. 9–22, 120, 129–30, 141–46. It was referred to as
such in the award ceremony for the Concorso: see Belle Arti 1754, p. 36. On the
Antinous-Osiris, donated to the museum by Benedict XIV in 1742 and from 1838 in
the Vatican Museum, see Paris, Ottawa and elsewhere 1994– 95, pp. 78–79, no. 24
(M. Pantazzi). On the Wounded Amazon, acquired in 1733 as part of Albani
collection, see Weber 1976, pp. 46–56. On the Albani Crater and its base, both
previously in the Albani collection, see Grassinger 1991, pp. 189–90, no. 32.
On the so-called Agrippina, already recorded in the Capitoline collections in
1566, see Haskell and Penny 1981, pp. 133–34, no. 1; Rome 2011, pp. 324–25, no.
5.9 (A. Avagliano). On their display at that time, see Venuti 1750, pp. 23, 30,
33–34; Arata 1994. For the Antinous Belvedere and the Venus de’ Medici see
above p. 26, fig. 22 and p. 42, fig. 56. Many are found in volumes 8 to 12. On
the so-called Arrotino or Knife Grinder, once in the Villa Medici in Rome and
from 1680 in the Tribuna of the Uffizi see Haskell and Penny 1981, pp. 154–56,
no. 11; Bober and Rubinstein 2010, pp. 83–84, no. 33. On access to the
Capitoline Museum in the 18th century see Sgarbozza 2010–11.
174 175 21. Louis Chays (Aubagne c.1740–1811 Paris) The Courtyard
of the Farnese Palace in Rome with the Hercules Farnese 1775 Pen and brown ink,
brown wash, pencil and white gouache, 434 × 534 mm Inscribed recto, l.l., in
pen and black ink: ‘chaÿs f. a rome 1775.’; and l.c., in pencil, possibly by
different hand: ‘Cour du Palais Farnése’. provenance: Hippolyte Destailleur
(1822–93) collection (no. 110). literature: Berckenhagen 1970, p. 394, no.
3027, repr.; Giuliano 1979, p. 100, fig. 13; Michel 1981b, p. 584, fig. 8; De
Seta 1992, p. 240, repr.; Gasparri 2007, p. 53, fig. 45 and p. 178, no. 273.4;
Macsotay 2010, p. 194; Göttingen 2013–14, p. 208, fig. 53. exhibitions:
Not previously exhibited. Kunstbibliothek, Berlin, Hdz 3027 exhibited in london
only Private aristocratic collections of antiquities in Rome contin- ued to
attract large numbers of artists and visitors during the 18th century. The
Farnese Palace, with its group of canon- ical ancient sculptures – the Farnese
Hercules (see p. 30, fig. 32) the Farnese Bull and the Farnese Flora among
others – and its Gallery with the Loves of the Gods, the widely admired fresco
cycle by Annibale Carracci (1560–1609), offered the ideal opportunity to copy
the Antique and a tour de force of early 17th-century mythological decoration
at the same time.1 Drawings after the famous Farnese statues by Maarten van
Heemskerck (1498–1574), Hendrick Goltzius (1558–1617) (see cat. 7), Annibale
Carracci (see p. 43, fig. 58), Peter Paul Rubens (1577–1640; see p. 46, fig.
67), Nicolas Poussin (1594–1665), Anthony van Dyck (1599–1641), Carlo Maratti
(1625–1713; see p. 43, figs 60–61), Hubert Robert (1733–1808), Jacques Louis
David (1748–1825) and Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780– 1867), to name just
a few, testify to the enduring fame of the palace and its legendary collection
of antiquities among European artists residing in Rome.2 In the 18th century
the palace went through changes of ownership, passing in 1731 from the Farnese
to the Bourbon, but it remained a lively envi- ronment, with many artists and
others residing in its rooms, and was readily accessible for those who wished
to draw or model.3 Between 1786 and 1800 all the ancient statues of the
collection were removed by the Bourbon King Ferdinand IV to Naples – where they
can be seen today in the National Archaeological Museum – a decision that
marked the end of the palace as a privileged place for studying the Antique.4
Louis Chays is one of the lesser-known figures among the French artists who
gravitated towards the Académie de France in Rome in the 1770s. He studied at
the Academy in Marseille under Jacques-Antoine Beaufort (1721–84), before
moving to Rome thanks to the patronage of Louis-Joseph Borély, a wealthy
Marseille merchant.5 His five years in Rome, between 1771 and 1776, were
probably spent in the company of such pensionnaires of the Academy as
Joseph-Benoît Suvée (1743–1807), Jean-Simon Berthélemy (1743–1811), Pierre-
Adrien Pâris (1745–1819) and François-André Vincent (1746–1816). These young
artists were of the same generation, they all arrived in Rome in 1771 and
stayed there for a similar span of years. They seem to have travelled around
the city and the Roman campagna as a group, sketching sites, ruins and
landscapes, and they naturally shared a similar style and repertoire.6 The
result of Chays’ artistic wanderings consists mainly of evocative drawings in
the manner of Hubert Robert and Jean-Honoré Fragonard (1732–1806) though Chays’
drawings lack their characteristic vivacity. The corpus of his drawings is
preserved in the Kunstbibliothek in Berlin.7 This study, with its companion,
The Colonnade of St Peter’s Square, stands apart in Chays’ known graphic
production in being a large-scale and highly finished pen-and-wash draw- ing.8
The lively view is the only known representation of groups of students, rather
than just individuals, at work in the courtyard of the Palazzo Farnese; nor
does the present writer know of any similar record of study in other private
collections of antiquities in Rome. It is also an important historical
document, being one of the last images to show the statues in their original
location before their removal to Naples, from 1786 onwards. Chays cleverly
chose a low view- point and an angle that allows for maximum drama: the
receding pillars of the portico frame the focus of our atten- tion, the massive
statue of the Farnese Hercules. We are standing in the shadowy passage leading
to the gardens of the palace and we see the Hercules from behind, by then a
view as successful as the front (see cats 7 and 16). Other images of the
Hercules from the back in the Farnese courtyard had been produced decades
earlier by Giovanni Paolo Panini (1691–1765) (fig. 1), Giacomo Quarenghi
(1744–1817) (fig. 2) and Frédéric Cronstedt (1744–1829), and one wonders
whether Chays had seen any of them.9 In any case, to animate his composition
Chays certainly took inspiration from the many capricci by Panini where the
Hercules towers over groups of wanderers and also from such drawings showing
artists at 176 177 Fig. 1. Giovanni Paolo Panini, View of the
Courtyard of the Palazzo Farnese with the ‘Hercules’ seen from Behind, c. 1730,
pen and black and grey ink and wash, and coloured wash, heightened with white,
419 × 417 mm, private collection work in Rome produced by Charles-Joseph
Natoire (see p. 55, fig. 94) or Hubert Robert (see p. 56, figs 95–97). We see
here the usual cast of characters familiar from Robert’s drawings: a
combination of artists, beggars, dogs, young children, and bystanders, some of
them dressed in the current fashion, like the elegant aristocratic couple in
the centre, no doubt accompanied by a tour guide or cicerone. Others are
presented in all’antica dress, such as the beggar and muscular male student on
the right, both of whom wear Roman togas and gaze intently at the sculpture
from behind. But among the many visitors to the courtyard, the true protagonists
are the students, busy at work, sketching on large sheets resting on drawing
boards or modelling in clay, as in Campiglia’s and Pazzi’s engraving (cat. 20).
Some focus on the Hercules, while others, seated on chairs or on the ground in
the middle of the courtyard, turn towards the other star of the collection, the
Farnese Flora, visible to the right of the Hercules.10 The entire palace seems
to have been turned into an academy, with animated conversations taking place
throughout: particularly intriguing is the lively discus- sion taking place
around a large drawing in the central bay of the first floor loggia. In the
distance, through the entrance vestibule on the lower right, we have a glimpse
of the Piazza Farnese and the external world. While the technique in this
drawing is precise and although the details are lively, the rendering of the
architec- ture, which was evidently drawn first and before the figures were
superimposed, is less successful. It is notable that the Fig. 2. Giacomo
Quarenghi, View of the ‘Farnese Hercules’ in the Portico of the Courtyard of
the Farnese Palace, c. 1775–79, pen and black ink and wash and coloured wash,
304 × 233 mm, private collection scale of the two sides of the courtyard
visible behind the por- tico does not quite correspond. In fact, Chays’ real
forte was landscape rather than accurate architectural views, although
reasonably faithful depictions of the Villa Madama and other Roman buildings
survive.11 Although this view is largely imaginary, it seems to evoke the
spirit of the courtyard as it appeared to pupils of the Accademia di San Luca
and pensionnairesof the Académie de France in Rome who frequented the palace
regularly. Visits to grandiose palaces such as this must have left a lasting
impression on these young students. The Accademia di San Luca sent its students
around Rome to copy the Antique, especially on the occasion of academic
competitions, the Concorsi.12 In the 18th century the Hercules and the Flora
were chosen several times as subjects for the third class of the Concorso
Clementino – reserved for the copy, a drawing or a model, usually after the
Antique – and the students’ gather- ings in those occasions must have offered a
scene as animated as that we see in Chays’ drawing.13 Most of the artists
depicted here are sketching on large sheets of paper, generally reserved in the
18th century for academic drawings after the Antique, as seen also in
Campiglia’s and Pazzi’s engraving (cat. 20).14 The Académie de France in Rome
had been founded in 1666 with the specific intent of shaping the taste and
manner of young artists ‘sur les originaux et les modèles des plus grands
maîtres de l’Antiquité et des siècles derniers’ and of furnishing the royal
gardens at Versailles with copies of the most famous antiquities from Rome.15
Although the direct copy from antique statuary had been neglected for certain
periods since the Académie’s founding, it had once again gained a central place
in the official curriculum of the pensionnaires during the direc- torates of Nicolas
Vleughels (1725–37) and Charles-Joseph Natoire (1751–75) (see cat. 16).
Although no surviving drawings after the Antique by Chays are known, he
probably produced them as he spent considerable time in Rome copying Old Master
paintings, such as those by Raphael, Titian and Guido Reni.16 He returned to
Marseilles in 1776 and spent the following years decorating the château of his
patron, today the Musée Borély, where he put into practice the lessons and
skills he had acquired in Rome.17 After becoming one of the professors of the
Académie in Marseilles, Chays participated in the Revolution and as
sergeant-major took part in 1790 in the occupation of the fort of Notre-Dame de
la Garde by the Garde National.18 He later published a collection of etchings some
of which he based on the views that he had assembled in his Roman years.19
Among the last mentions we have of him are his Paris Salon entries of 1802 and
1804: perspective drawings of the antiquities collection of the Louvre.20 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
SeeMéjanès1976;WashingtonD.C.1978–79,pp.148–155.
Berckenhagen1970,pp.393–96,nos3026–3074and3673–3674. Ibid.,p.394,no.3026. For
Panini’s drawing see Arisi 1961, p. 245, no. 80, fig. 359; Sotheby’s New York,
29–30 January 2013, lot 113. Two paintings attributed to Panini (wrongly, in
the opinion of the present writer) in a French private collec- tion show
similar views: see Munich and Cologne 2002, pp. 408–10, nos 187 a/b. For
Quarenghi’s drawing see Sotheby’s New York, 27 January 2010, lot 90. Another,
almost identical version is in the Hermitage, St Petersburg (inv. 25819):
Bergamo 1994, pp. 185–86, no. 234. For Cronstedt’s drawing, executed in 1772,
now in the National Museum, Stockholm see Palais Farnèse 1980–94, vol. 2, p.
131, fig. b. Before the 18th century the same viewpoint had been represented in
a drawing by an anonymous Dutch draughtsman of c. 1540–60, now in the Herzog
Anton Ulrich-Museum, Braunschweig (inv. Z 320r): see Gasparri 2007, p. 17, fig.
4 and p. 178, no. 273.1. The Flora is here shown with its Renaissance
restorations by Guglielmo Della Porta and Giovanni Battista de Bianchi and
before Carlo Albacini’s new restorations undertaken after 1787: see Gasparri
2009–10, vol. 3, esp. pp. 38–40. See for instance, Berckenhagen 1970, p. 395,
no. 3030. On the Concorsi see cat. 20, note 6. Both were chosen for the third
class in sculpture in 1703: Cipriani and Valeriani 1988-91, vol. 2, pp. 26–27.
The Hercules was chosen for the third class in both painting and sculpture in
1728 and later on in sculpture in 1783 and in 1789 (this time from a plaster
since the statue had been transported to Naples in 1787): ibid., vol. 2, p.
182, vol. 3, pp. 130, 153. The Flora was chosen for the third class in painting
in 1750: ibid., vol. 2, pp. 209–10. See the size of the drawings for the third
class of the Concorsi Clementini of the Accademia di San Luca in Cipriani and
Valeriani 1988–91, vols 2–3. See also Macsotay 2010, pp. 193–94. ‘On the
originals and the examples of the greatest Antique masters and those of
preceding centuries’: letter from Jean-Baptiste Colbert to Nicolas Poussin,
1664, mentioned in Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, p. 1 and in
Lapauze 1924, vol. 1, p. 2. See Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 44–46.
These copies now survive in the Musée des Beaux-Arts and in the Musée Borély in
Marseille: Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès). Benoît 1964. Vialla
1910, p. 484. ‘Ouvrage de 36 feuilles tirées des Porte-feuilles du C[itoye]n S.
[sic] Chays...’. See Thieme-Becker 1907–50, vol. 6, p. 445. See also Le Blanc
1854–88, vol. 1, p. 625. ‘Dessins perspectives de différens points de vue, qui
donnent le développe- ment de toutes les figures antiques du Musée [du Louvre],
ainsi qu’une juste idée du local et de la décoration du palais’: Sanchez and
Seydoux 1999– 2006, vol. 1, p. 46, no. 58 (1802), p. 76, no. 105 (1804). See
also Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès). 178 179 1 2 3 4 5 aa On
the Farnese Hercules see above p. 30 and cat. 7. On the Farnese Flora see Haskell
and Penny 1981, pp. 217–19, no. 41; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 37–42, no. 8,
pl. VI, 1–5 (C. Capaldi). On the Farnese Bull see Haskell and Penny 1981, pp.
165–67, no. 15; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 20–25 no. 2, pl. II, 1–16 (F.
Rausa). See Gasparri 2007, p. 11 and pp. 157–78. See Michel 1981b and La Malfa
2010–11. In 1775, the year of this drawing, the palace had 180 inhabitants. See
the list in Michel 1981a, p. 565. For a list of artists residing in the palace
see Michel 1981b, table between pp. 610–11. Rausa 2007b, pp. 57–60. On Chays
(often spelled differently, Chaÿs, Chais, Chaix) see: Thieme- Becker 1907–50,
vol. 6, p. 445; Benoît 1964; Toronto, Ottawa and elsewhere 1972–73, pp. 143–44,
no. 23; Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès); Raspi Serra
1997. 22. Henry Fuseli (Zürich 1741–1825 London) The Artist Moved by the
Grandeur of Antique Fragments; The Right Hand and Left Foot of the Colossus of
Constantine c. 1778–79 Pen and sepia ink and wash, red chalk, 420 × 352 mm
Inscribed recto on the pedestal of the foot: ‘S.P.Q.R’, followed by illegible
characters and l.r. in pencil: ‘85 W. Blake’ (false signature, perhaps 19th
century) watermark: ‘ZP’ and the coat of arms of the city of Zurich1
provenance: Susan Coutts, Countess of Guildford (1771–1837) (her stamp on the
verso2); Paul Hürlimann, from whom acquired in 1940. selected literature: Irwin
1966, p. 47, pl. 32; Schiff 1973, vol. 1, pp. 115, 478–79, no. 665, vol. 2, p.
145, fig. 665; Tomory 1972, pp. 49, 90, fig. 4; Füssli 1973, pp. 60–61, repr.;
Schiff and Viotto 1980, pl. viii, no. D35 on p. 112; Klemm 1986, no. 4; Lindsay
1986, pp. 483–84, fig. 1; Taylor 1987, p. 125, repr.; Noch- lin 1994, pp. 7–8,
fig. 1; Rossi Pinelli 1997, pp. 15, 18, repr.; Bartels 2000, p. 23, note 2;
Patz 2004, p. 271, fig. 3; Bungarten 2005, cover; Pacini 2008, pp. 55–56, fig.
4; Valverde 2008, pp. 163–64, fig. 5; Trumble 2010, pp. 6–7, repr.; Barroero
2011, no. 22, repr.; Mongi-Vollmer 2013, p. 294, fig. 127. selected
exhibitions: Zurich 1941, no. 251; New York 1954, no. 31; Zurich 1969, no. 165;
Copenhagen 1973, p. 55, no. 21, not repr. (B. Jørnæs); Hamburg 1974–75, p. 129,
no. 45 (G. Schiff); London 1975, pp. 54–55, no. 10 (G. Schiff ); Paris 1975,
unpag., no. 10 (G. Schiff ); Milan 1977–78, pp. 19–20, no. 6 (L. Vitali);
Geneva 1978, p. 8, no. 3; Munich 1979–80, pp. 279–80, no. 154 (J. Gage); Tokyo
1983, pp. 62–63, no. 7 (G. Schiff ); Zurich 1984, pp. 49, 179, no. 25;
Stockholm 1990, p. 33, no. 3 (G. Cavalli-Björkman and R. von Holten); Stuttgart
1997–98, pp. 5–7, no. 10 (C. Becker); Zurich 2005, p. 256, no. 1, frontispiece
2; Paris 2008, p. 120, no. 36 (B. von Waldkirch). The Kunsthaus,
Graphische Sammlung, Zürich, inv. no. 1940/144 exhibited in london only This
celebrated drawing is one of the most powerful images ever produced on the
relationship of the artist with the Antique. It presents a very different
response to classical antiquity from the many didactic compositions shown in
this catalogue, expressing the extremism and the Sturm und Drang that imbued
early Romanticism. The artist here confronts the Antique not as a source of
information or inspiration but on a deeper level: he meditates on the grandeur
of a lost past both as a philosopher, considering the fragility of the human
condition and, more powerfully still, as a creator in despair at his own
inability to match the achievements of classical antiquity. Fuseli’s evocative
image effectively summarises the dramatic change in the approach to the Antique
which took place in Rome in the late 18th century within a circle of
anti-academic and largely self-taught artists, such as Alexander Runciman
(1736–85), John Brown (1749–87), Tobias Sergel (1740–1814) and Thomas Banks
(1735–1805), among whom Fuseli was the most influential.3 For them the ancient
sculptures were alive, a tangible expression of the emotions and individuality
of their creators, rather than models of ideal beauty and proportional
perfection. Born Johann Heinrich Füssli in 1741 in Zurich into a fam- ily of
artists, his father, Caspar (1706–82), a painter and histo- rian, was one of
the Swiss correspondents of Anton Raphael Mengs (1728–79) and Johann Joachim
Winckelmann (1717– 68).4 Fuseli’s early education benefited from the teaching
of Johann Jakob Bodmer (1698–1783) and Johann Jakob Breitinger (1701–76),
forerunners of the literary and artistic movement Sturm und Drang, who
introduced the young artist to the study of Homer, Dante, Shakespeare, Milton
and the Niebelungenlied, decisively contributing to the eclecticism of his
imaginative sources. Fuseli moved to London in 1764 and soon became well
acquainted with the city’s lively cultural milieu and quickly acquired fame as
a painter. In 1770, on the advice of Sir Joshua Reynolds (1723–92), Fuseli
travelled to Rome. He stayed there for eight years, with very few inter-
ruptions, leaving in 1778. After spending a few months in Zurich, he returned
to London where he was destined to spend the rest of his life. Elected
academician at the Royal Academy of Art in 1790 and Professor of Painting in 1799,
Fuseli became one of the most acclaimed artists of his generation; he died in
the residence of the Countess of Guilford, one of his patrons and previous
owner of the pre- sent drawing, in Putney Hill in south-west London, in 1825.
The eight years Fuseli spent in Rome were of great impor- tance for the
development of his artistic language and theory of art. Fascinated by the
majestic relics of imperial Rome, but even more impressed by Michelangelo’s
masterpieces, Fuseli soon distanced himself from the idealised and harmonious
view of the Antique espoused in the theoretical works of Gotthold Ephraim
Lessing (1729–81) and of Winckelmann, who had been murdered in Trieste two
years before Fuseli arrived in Rome. This death was symbolic for, although ini-
tially a great enthusiast for Winckelmann’s writings, some of which he
translated into English, Fuseli became one of his most radical detractors by
asserting the importance of appreciating the emotions and conflicts that ran
through 180 181 ancient works of art.5 As Fuseli stated many years later
in the introduction to his Lectures on Painting presented at the Royal Academy,
German critics had taught the artist ‘to substitute the means for the end, and,
by a hopeless chase after what they call beauty, to lose what alone can make
beauty interest- ing – expression and mind’.6 ‘Expression animates, convulses,
or absorbs form. The Apollo is animated; the warrior of Agasias is agitated;
the Laocoon is convulsed; the Niobe is absorbed’. This is one of the Aphorisms
on Art compiled by Fuseli in the late 1780s, although it was first published
only in 1831 by John Knowles in his The Life and Writing of Henry Fuseli.7
These famous masterpieces of ancient sculpture, the Apollo Belvedere, the
Borghese Gladiator, the Laocoön and the Niobe Medici, are not seen by Fuseli
simply as the embodiment of a canon of perfection, models to imitate, or points
of reference in the academic education of a young artist; they are treated as
animated forms of the subjectivity of the artists who created them and,
ultimately, of their ways of expressing feeling and emotion.8 Fuseli’s many
studies after the Antique are never an end in themselves, they are rather means
of expression and, because of that, ancient statues can be adapted, distorted,
even desecrated by him.9 A homosexual scene depicted on an ancient Greek
red-figured vase can become the model for a Shakespearean composition showing
the King of Denmark poisoned by his brother in his sleep.10 Likewise, one of
the Horse Tamers on the Quirinal Hill (see p. 22, fig. 10), reproduced and
adapted many times by Fuseli, can be turned into Odin receiving the Prophecy of
Balder’s Death.11 If Winckelmann praised the Laocoön for his dignified
grandeur,12 in two of his late sketches Fuseli transformed the Trojan priest
into the object of a courtesan’s sexual desire.13 Even the famous Nightmare
(1781),14 one of the most disquieting compositions ever created by Fuseli,
still retains memories of the Antique, from the devilish head of the horse
peeping out of the curtain, so like those of the Quirinal horses, to the
reclining figure in which one can recognise a transposition of the celebrated
Cleopatra in the Belvedere Court (see p. 26, fig. 20).15 The Artist Moved by
the Grandeur of Antique Fragments per- fectly embodies the artist’s
revolutionary approach to the Antique. Although no doubt based on sketches made
on the spot, and using a technique, sepia ink and wash, often used by Fuseli in
Rome, the watermark with the coat of arms of the city of Zurich suggests that
the drawing was made during or soon after his brief stay in his home town after
he left Rome in 1778.16 The drawing shows a scantily clad figure seated on a
block dwarfed by two adjacent marble fragments, the left foot and the right
hand of a gigantic statue set on plinths before a wall composed of majestic,
square blocks.17 The pose of the artist, loosely inspired by Michelangelo’s
Ancestors of Christ on the Sistine Ceiling, is deeply expressive; he cradles
his head in deep grief and anguish, and his mood, with his legs casually and
unguardedly crossed, is one of total surrender; the forlornness is enhanced by
the wild weed that audaciously pushes its way up against the colossal marble
hand. The antique fragments are easily recognisable as the left foot and the
right hand of a colossal statue of the emperor Constantine the Great (r. 306–37
ad; figs 1–2) which were found in the west apse of the Basilica of Maxentius in
1486 under the papacy of Innocent VIII (r. 1481–92) along with other fragments including
the head (fig. 3) and the right foot. By Fuseli’s time they could be admired in
the courtyard of the Palazzo dei Conservatori on the Capitoline hill, where
they are still preserved today.18 The monumental scale of these fragments
fascinated generations of artists from the Renaissance onwards, but they became
increasingly a focus of attention in the 17th and Fig. 1. Colossal Statue of
Constantine the Great: Right Hand, 313–24 ad, Luna marble, 166 cm (h),
Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv.
MC0786 Fig. 2. Colossal Statue of Constantine the Great: Left Foot, 313–324 ad,
Parian marble, 120 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei
Conservatori, Rome, inv. MC0798 Fig. 3. Colossal Statue of Constantine the
Great: Head, 313–24 ad, marble, 260 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of
the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv. MC0757 in the drawing (‘S.P.Q.R.’) can
actually be found on the pedestal supporting the right foot and not the left
one, as Fuseli represents it here. The detail, however, is not irrelevant,
since it is part of the inscription, commemorating a restoration of the
fragments promoted by Pope Urban VIII (r. 1623–44) in 1635 and 1636, so that
one can read a clear reference to the awe inspired by the greatness of the ‘Res
Romana’.22 Awe of the Antique is expressed in the drawing by the contrast
between the muscular fragments of the colossus and the diminutive, frail and
almost abstract figure, who can be interpreted both as a personification of a
modern man in general and as a symbolic self-portrait of the artist – ‘Füssli’
in German means ‘little foot’, thus suggesting a visual word- play.23 However,
the title of the drawing given by Gert Schiff, The Artist Moved by the Grandeur
of Antique Fragments, captures only one aspect of the composition, that is, the
feeling of artistic and intellectual inadequacy before the sublime Past.24
Possibly, even the inconsistent perspective of the pedestal of the foot was
consciously introduced to express the artistic inferiority of the moderns
compared to the ancients. But the pose, which recurs many times in Fuseli’s
works, can convey at the same time other meanings.25 It could cause a deep Fig.
5. Hubert Robert, Ancient Sculptures of the Capitoline, red chalk, 442 × 330
mm, Staatliche Museen, Kunstbibliothek, Berlin, Inv. Hdz 3076 18th
centuries: two wanderers are shown among the colossal ruins in a drawing by
Stefano della Bella (1610–64; fig. 4),19 while the foot and hand appear in an
evocative capriccio by Hubert Robert (1733–1808; fig. 5).20 As in their
studies, Fuseli’s drawing shows the base sustaining the colossal upward
pointing right hand on the pedestal supporting the left foot; only in the early
19th century was the hand moved to its present location along the wall of the
courtyard. Fuseli, however, modifies the disposition of the fragments in order
to create a perfect triangle, whose apex coincides with the index finger of the
hand, pointing authoritatively upward. The fact that the drawing was made when
Fuseli had already left Rome may account for a few inconsistencies, such as
swapping the right foot – flat on the ground – and the left foot – with the
heel slightly raised and set on a support.21 Moreover, the first line of the
inscription roughly transcribed Fig. 4. Stefano della Bella, Courtyard of the
Palazzo dei Conservatori, after 1659, pen and grey ink and grey wash, 152 × 194
mm, Istituto Nazionale per la Grafica, Rome, inv. FC 126001
182 183 sense of loss before the dismembered statue as well as a
melancholic frustration at the impossibility of achieving a whole, satisfactory
knowledge of the ancient world. Finally this evocative image is clearly a grim
meditation on human Vanitas, on the cruelty of time and its inevitability,
capable of destroying even the most impressive human creations.26 In his vision
of antiquity Fuseli was following in the footsteps of Giovanni Battista
Piranesi (1720–78), the great engraver of ancient Rome, who populated his
images with similar figures dwarfed and seemingly lost among the colossal
remains of Rome’s decaying statues and buildings. Piranesi’s ancient ruins, the
gigantic stones of which fill his modern onlookers with wonder, are evoked by
Fuseli in the massive blocks of the background wall, which are not part of the
courtyard of the Palazzo dei Conservatori. Piranesi died in 1778, the year that
Fuseli left Rome for Zurich where he created this harrowing memory of the city
he had just left behind him. Could the present drawing be a posthumous homage
to the great Italian artist, with whom Fuseli shared the same inventive,
original and imaginative vision of the Antique? aa & ed 1 Schiff 1973, p.
479. 2 Ibid., p. 479. 3 See Pressly 1979; Valverde 2008; Busch 2013. 4 For
Fuseli’s biography see Tomory 1972, pp. 9–46; Schiff 1973, vol. 1; Zurich 2005,
pp. 13–31. 5 See Pucci 2000b and Busch 2009. During his London years between
1764 and 1770, Fuseli translated into English Winckelmann’s Beschreibung des
Torso del Belvedere Zu Rom (1764, translated as Description of the Torso
Belvedere in Rome in 1765) and the Gedanken über die Nachahmung der
griechischen Werke in der Malerei Und Bildhauerkunst (1755, translated as
Reflections on the Painting and the Sculpture of the Greeks in 1765). 6 See
Wornum 1848, p. 345. On Fuseli’s Lectures see in particular Bungarten 2005. 7
Knowles 1831, vol. 3, p. 90, aphorism no. 88. 8 For these statues see
respectively p. 26, fig. 18; p. 41, fig. 54; p. 26, fig. 19; p. 30, fig. 34. 9
For a checklist of Fuseli’s drawings of ancient sculptures see Schiff 1973,
vol. 1, pp. 475–79, nos 634–65. 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25
26 Schiff 1973, vol. 1, p. 450, no. 445 (dated 1771); the ancient scene is
taken from D’Hancarville 1766–67, vol. 2, pl. 32. Schiff 1973, pp. 456–57, nos
485 and 487 (c. 1776). See in particular Winckelmann 2002, pp. 674, 676
(original pagination pp. 347–49). See also Appendix, no. 15. Schiff 1973, vol.
1, p. 547, nos 1072 and 1072a (1801–05). Schiff 1973, vol. 1, p. 496, no. 757.
See Powell 1973, pp. 67–75. See in particular Waldkirch 2005, pp. 63–78. For a
drawing showing a figure in a similar attire see Schiff 1973, vol. 1, p. 476,
no. 561 (1777–79); and for one with similar blocks in the background ibid.,
vol. 1, p. 447, no. 425. For the right hand and the left foot see Stuart Jones
1926, p. 11, no. 13, pl. 5 (hand), pp. 13–14, no. 21, pl. 5 (foot). For a
discussion on the original colos- sal statue see Fittschen and Zanker 1985, pp.
147–52, pls 151–52; Deckers 2005; Parisi Presicce 2007 (in particular for the
history of the display); Bardill 2012, pp. 203–17. The provenance of the
colossus from the Basilica is testified to by a caption on a drawing by
Francesco di Giorgio Martini (1439–1501) (Morgan Library & Museum, New
York, Codex Mellon, fol. 54r), see Buddensieg 1962;
http://census.bbaw.de/easydb/censusID= 233951. See Paris 2000–01, p. 371 no.
176 (J.-P. Cuzin); Rome 2004, p. 346, no. 46 (V. Di Piazza); another similar
drawing is in the Louvre, see Viatte 1974, p. 63 no. 46, p. 65, fig. 46. See
Berckenhagen 1970, p. 332; Paris 2000–01, p. 374, no. 180 (J.-P. Cuzin). These
details are clearly rendered on the drawings by Della Bella and Robert. Bartels
2000, p. 23 no. 1.7: ‘S(enatus) P(opulus) Q(ue) R(omanus)/ APOLLINIS COLOSSUM A
M(arco) LUCULLO/ COLLOCATUM IN CAPITOLIO/DEIN TEMPORE AC VI SUBLATUM EX OCULIS/
TU TIBI UT ANIMO REPRAESENTES PEDEM VIDE/ET ROMANAE REI MAGNITUDINEM METIRE’.
(‘The Senate and the People of Rome; that you may bring before your mind’s eye
the colossal statue of Apollo set by Marcus Lucullus on the Capitol Hill, later
removed from sight by the violence of time; look at this foot and be aware of
the greatness of Rome’: translation Eloisa Dodero). Lindsay 1986, p. 483.
Schiff 1973, vol. 1, pp. 115, 478–79, no. 665, vol. 2, p. 145, fig. 665. The
pose finds parallels in other works by Fuseli chiefly illustrating mourn- ful
scenes, such as the painting showing Milton Dreaming of His Dead Wife Catherine
(1799–1800): Schiff 1973, vol. 1, pp. 523–24, no. 920; Zurich 2005, p. 223, no.
184. Remarkable is the closeness of Fuseli’s figure with the famous Democritus
by Salvator Rosa (Statens Museum, Copehangen; see Scott 1995, p. 97, fig. 101;
the composition was known also through a number of etchings, see for instance
Naples 2008, p. 281, no. 8). The philosopher in Rosa’s composition is shown
deep in thought and surrounded by several symbols of mortality including
antiquities; the caption on the etchings describes the scene as ‘Democritus
omnium derisor/in omnium fine defigitur’ (‘Democritus, who used to laugh about
everything, here meditates on the end of every- thing’). 23. Philippe Joseph
Tassaert (Antwerp 1732–1803 London) A Drawing Academy 1764 Pen and black ink,
grey and black wash drawn with the brush over black chalk, 331 × 309 mm
provenance: Private collection, Vienna; Gallery Kekko, Lucerne, 2004, from whom
acquired. literature:None. exhibitions: Brussels 2004, pp. 75–76, repr.; London
2007–08, no. 59, not repr. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2004-004
Although Tassaert was born in Flanders, he moved at a young age to London where
he trained with the expatriate Flemish drapery painter, Joseph van Aken (c.
1699–1749), and where he established his career; aside from occasional trips to
the continent, Tassaert remained in London until his death.1 Van Aken had a
large practice executing draperies for most of the major British portrait
painters active during the 1730s and 1740s, and after his death, Tassaert seems
to have followed his example, assisting especially the portrait painter, Thomas
Hudson (1701–79). In 1769, Tassaert joined the Society of Artists of Great
Britain and served as its presi- dent from 1775–77; he exhibited with the
Society until 1785.2 Also active as a dealer and picture restorer, Tassaert
worked as an agent for the auctioneer, James Christie (1730–1803), valuing
paintings in French and English collections, includ- ing that of Sir Robert
Walpole at Houghton Hall, for sale to Catherine the Great in 1779.3 He later
moved for a period to Italy, residing in Rome between 1785 and 1790.4 As a
mezzotinter, Tassaert reproduced many composi- tions after earlier painters,
especially those by Peter Paul Rubens (1577–1640). The present drawing – a
relatively rare survival compared with his production of prints – shows young
students, dressed in the costumes of Rubens’ era, sketching a reduced model of
the Borghese Gladiator (fig. 1), illuminated by candlelight from above.5 Two
instructors, including the imposing figure of Rubens him-self in the doorway on
the right, inspect drawings made by two pupils who await their verdict. Casts
of busts and statuettes are placed on the shelf above the lamp, as seen in
artists’ work- shops from the Renaissance onwards (see cats 2, 10, 14).6 The
present drawing is closely related to another, rather larger and more loosely
executed, representation of an academy by Tassaert now in the British Museum
(fig. 2), that is observed from a closer viewpoint and is horizontal rather
than vertical in format.7 Rendered in warm brown instead of grey ink, the British
Museum drawing focuses on the group clustered around the sculpture on the left.
The master, in the doorway in our drawing, now leans against a chair gesturing
towards the sculpture and the copy of it made by one of the pupils. But that
student, seen in left profile studying the Gladiator intently, remains
essentially unchanged in both sheets. The British Museum drawing is signed and
dated, ‘Tassaert. del Bruxelles. 1764’, and the Bellinger drawing was no doubt
made at the same time. Both were probably made in preparation for a painting,
now lost, but described in a 1774 review of the Society of Artists’ exhibition
at the Strand in London: ‘Mr. TASSAERT, Director, F.S.A. [ . . .] 285. An
academy with youth’s [sic] at study. -Yellow shaded with black, has a starved
effect’, a description which suggests that it may have been monochrome. 8 A
keen admirer and copyist of Rubens’ work, Tassaert clearly intended to evoke
the atmosphere of the master’s studio. A drawing by Tassaert, ‘Rubens
instructing his pupils’ Fig. 1. Agasias of Ephesus, Borghese Gladiator, c. 100
bc, marble, 199 cm (h), Louvre, Paris, inv. Ma 527 184 185
Fig. 2. Philippe Joseph Tassaert, A Drawing Academy, 1764, pen and brown ink
and brown wash over black chalk, 330 × 406 mm, The British Museum, Department
of Prints and Drawings, London, 2003,1129.1 which was sold in London in 1785
was probably one of the two drawings under consideration.9 The master in both
is physiognomically identical, and wears the wide-brimmed hat and voluminous
cloak seen in Rubens’ mature self-portraits, such as that of 1623 in the Royal
collection, Windsor Castle, an image widely disseminated through engravings.10
Another self-portrait,showingtheartistatsixty,intheKunsthistorisches Museum,
Vienna (1633–35), may also have been known to Tassaert through prints.11 No
doubt Tassaert’s drawings and the lost painting for which they presumably
prepared, were intended to commemorate the fact that Rubens’ studio in Antwerp,
founded on his return from Italy in 1608, was one of the first in Northern
Europe to be organised on the ‘academic’ Italian model. Ruben’s studio – much
more than a workshop – encouraged the intellectual as well as practical
ambitions of young artists, who vied with each other to become his pupils. The
purpose of Tassaert’s lost painting is not certain, but one possibility is that
he intended to present it to the recently revamped Brussels art school. It may
be significant that Tassaert, who hailed from Antwerp (where he became a member
of the Guild of St Luke in 1756), signed the British Museum drawing ‘Tassaert.
del Bruxelles’, and dated it, 1764, the year the Brussels school began to
flourish under new stewardship.12 Reportedly discovered in Nettuno in 1611, the
Borghese Gladiator, signed by Agasias of Ephesus, is thought to copy a statue
of the school of Lysippus.13 It was acquired by Cardinal Scipione Borghese
(1576–1633), and between 1650 and 1807, was displayed in a room bearing its
name on the ground floor of the Casino Borghese before it was sold to Napoleon.14
The statue was keenly admired by artists from the mid-17th century onwards as
it embodied the male nude in an active, heroic and resolute pose. François
Perrier (1590–1650) ranked it among the finest statues in Rome and published
four views of it in his influential collection of etching after antique
sculpture (Segmenta nobilium signorum et statuarum . . . , Paris, 1638, pls.
26–29), more than he devoted to any other figure. Casts of it were made for
Philip IV of Spain and for the Académie Royale in Paris (see cat. 16) and the
Académie de France in Rome.15 It became a standard presence in artists’ manuals
from the 17th century onwards, as the perfection of its anatomy and proportions
made it an ideal model for young pupils to copy. Its fame endured well into the
18th century as many of the objects in this catalogue make clear (cats 16, 24,
26).16 Rubens, who was thirty-four when the statue was found, revered it
greatly. Although his two Roman sojourns (1601– 02 and 1600–08) pre-date its
discovery in 1611, he certainly knew the statue through copies and probably
owned a cast of it.17 That plaster casts came to be widely used in Northern
workshops of the period is shown in the 1635 and 1656 studio inventories of
Rubens’ contemporary, Hendrik van Balen (1575–1632) and of Rembrandt (1606–69)
and by the many paintings that depict artists making copies of them (see p. 40,
figs 49–53 and cat. 14).18 Rubens’ deep interest in antique sculpture, which he
collected enthusiastically, is well-documented.19 In one of his theoretical
notebooks, De Imitatione Statuarum (‘On the Imitation of Ancient Statues’),
recording his observations from 1600 to 1610 on the proportions of the human
form, symmetry, perspective, anatomy and architecture, he defined canonical
male body types of the first rank: the strongest and most robust, the Farnese
Hercules (see cats 7, 14, 16, 21); the less muscular and fleshy, Commodus in
the Guise of Hercules and the River Nile (see cat. 5) and the third, lean and
slender, with prominent bones and a longer face, the Borghese Gladiator, which
he analysed in a diagram.20 Finally, there was the slim and handsome type, less
strong, among which statues of Apollo and Mercury were classed.21 Rubens
referred to the Gladiator again in another of his notebooks and he adapted it
in some of his paintings, such as the Mercury and Argus of 1636–37 (Prado,
Madrid) where Mercury in a pose strongly reminiscent of the Gladiator, is about
to behead the multi-eyed giant.22 Although Tassaert would not have known Rubens’
manuscript, parts of it were published in 1708 by Roger de Piles in his Cours
de peinture par principles, translated into English in 1743 as The Principles
of Painting (see Appendix, no. 8).23 Within twenty years of its discovery,
casts of the Borghese Gladiator were commissioned by Charles I and other
English patrons and it soon became one of the most celebrated 186 187
antique sculptures in the British Isles.24 By the 18th century, copies of it
had becoming a mainstay of country house collections.25 Joseph Wright of Derby
(1734–1797) depicted a reduced model of the Gladiator studied by candlelight
(private collection; see cat. 24, fig. 2), exhibiting it at the Society of
Artists in 1765, just a year after Tassaert’s drawings and William Pether made
a mezzotint after Wright’s painting in 1769.26 When Tassaert showed his
painting of a similar subject, probably based on his earlier studies, at the
same venue in 1774 he may have been responding to the challenge of his English
colleagues, particularly the fellow mezzotinter, Pether.27 Indeed, it is
tempting to suppose that Tassaert, by exhibiting the finished painting, was
asserting the suprem- acy of Flemish academies over the English ones by
establish- ing that the sculpture was well-known and used as a teaching tool
already in Rubens’ time. As will be seen later (see cats 24–26), study after
plaster casts increasingly became an indispensible part of artistic training in
the English Academies as the 18th century progressed. It is especially
significant in the present context that the catalogue of the posthumous sale of
the effects of Tassaert’s master, Joseph Van Aken, in 1751 in London, lists no
fewer than sixty models in terracotta and plaster after the Antique, among
them, the Laocoön, the Farnese Hercules, heads of Antinous and, significantly,
two Gladiators.28 It is well known that antique models were widely diffused in
England in the first half of the 18th century, well before the foundation of
the Royal Academy in 1768 (see cat. 25), but Van Aken’s collection and
Tassaert’s preoccupations suggest that interest in the Antique had a
particularly Flemish dimension. Of course, such models served a vital role for
artists in helping to achieve an idealised representation of the anatomy, poses
and expressions of the human body, but also, as in the case of Van Aken, they
could act as lay-figures for the arrangement of drapery.29 avl 1 For brief
accounts of Tassaert’s life and work, see Edwards 1808, who, on pp. 282–83,
asserts that Tassaert was ‘the scholar’ of van Aken; Redgrave 1874, vol. 2, p.
402; Wurzbach 1906–11, vol. 2, pp. 689–90; Thieme-Becker 1907–50, vol, 32, p.
456; Bénézit 2006, vol. 13, pp. 708–09; Wallens 2010, p. 328. Edwards (1808, p.
282) reports his association with van Aken though the latter had already moved
to London in 1720, before Tassaert was born. They probably met there though he
was only about seventeen when van Aken died. According to Bénézit (2006, p.
708), Tassaert was the brother of the sculptor, Jean Pierre Antoine Tassaert
(1727–1788). 2 For his involvement with the Society (and disagreements with),
see Hargraves 2005, pp. 141–43, 152–53, 158–72. His paintings were shown also
at the Royal Academy. 3 He is listed frequently as buyer/seller in Christie’s
sale catalogues of c. 1779– 82 (see Kerslake 1977, vol. 1, p. 337). For
Tassaert at Houghton, see Twist 2008, p. 106–07. 4 Wallens 2010, p. 328. 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 For his
engravings, see Le Blanc 1854–88, vol. 4, p. 9; Wurzbach 1906–11, vol. 2, pp.
689–90; Smith 1878–83, vol. 3, pp. 1354–56. A further drawing by Tassaert of an
artist’s studio, but with figures in contemporary dress, is in Tate Britain,
from the Oppé collection, black chalk on blue paper, 490 × 317 mm, inv. no.
T09847. They may also be seen lightly sketched at upper right in Tassaert’s
drawing of an artist’s studio in the Tate (see note 5 above). Lock 2010, p.
255, fig. 12.4; Phillips 2013, p. 127, fig. 5. ‘Conclusion of the Account of
the Pictures now exhibiting at the Artist’s [sic] great Room near Exeter
Exchange, Strand’, published in The Middlesex Journal, 30 April – 3 May 1774,
p. 2 (as noted by Elizabeth Barker, under inv. no. 2003,1129.1, British Museum
collection database). The same subject painted by Tassaert, probably more than
once, is listed in several Christie’s sales in London between 1805–12: 1805
(1–2 March, lot 69, seller: John Mayhew; unsold; 14–15 June, lot 40, seller:
John Mayhew; unsold); 1806 (7–8 March, lot 33, seller: John Mayhew; unsold);
1808 (11–12 March, lot 18, seller: Adam Callander; unsold; 14 May, lot 33,
seller: Rev. Philip Duval; bought by Daubuz); 1809 (17–18 November, lot 65,
seller: Adam Callander; bought by J. F. Tuffen) and 1812 (22 May, lot 44,
seller: John Mayhew; unsold; 18–19 December, lot 80, seller: John Mayhew;
bought by J. F. Tuffen). Source: Getty Provenance Index.
Jean-Baptiste-Guillaume de Gevigney, his sale, Greenwood, London, 14–15 April
1785, lot 44. Presumably the same drawing was sold two years later: ‘An academy
by Tassaert, washed in bisque, fine’, Greenwood, London, 14–15 March 1787, lot
29 to John Thomas Smith for £1.0. Jaffé 1989, p. 281, no. 764. Ibid., p. 371,
no. 1379. Between 1764 and 1768, the school was revitalized under Count Charles
Cobenzl (Phillips 2013, pp. 127–28). Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L.
Laugier); Pasquier 2000-01b. Haskell and Penny 1981, p. 221; Laugier 2000–01.
See also Aymonino’s essay in this catalogue, p. 41. Haskell and Penny 1981, p.
221. Ibid., pp. 221–24, no. 43, fig. 115. For Rubens’ study of sculpture in
Roman collections, see Van der Meulen 1994-95, vol. 1, pp. 41–68. For van
Balen’s inventory, see Duverger 1984–2009, vol. 4, pp. 200–11. Among the casts
listed are the Laocoön, Hercules, Apollo, Athena and Mercury (ibid., p. 208). Rembrandt’s
1656 bankruptcy inventory (Strauss and Van der Meulen 1979, pp. 349–88)
mentions several plaster casts from life, including hands, heads and arms
(ibid., pp. 365, 383), and after the antique (‘A plaster cast of a Greek
antique’ (Een pleijster gietsel van een Griecks anticq), p. 383, no. 323). Also
mentioned are antique statues of unspecified medium, including a Faustina,
Galba, Laocoön, Vitellius (ibid., pp. 365, nos 166, 168; 385, nos 329, 331) and
several others. For Rembrandt’s use of statues, casts and models, see
Gyllenhaal 2008. For his collection, see Muller 1989, Appendix C, pp. 82–87 and
Muller 2004, especially, pp. 18–23. The Johnson manuscript (manuscript
transcript of the Rubens Pocketbook), mid-18th century, Courtauld Gallery, London,
MS.1978.PG.1, fols 4v-5r, cited in Muller 2004, p. 19. See also Muller 1982,
pp. 235–36 and Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 72–73. Van der Meulen
1994–95, vol. 1, p. 73. Ms de Ganay (formerly Paris, Marquis de Ganay), fols
22r–23r, transcribed and translated in Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp.
254–58. In addition to the Madrid painting (Georgievska-Shine and Silver 2014,
p. 136, fig. 5.3), the pose of the sculpture was utilised in other drawn and
painted composi- tions by the artist (Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 239,
note 9). De Piles 1708, pp. 139–48; De Piles 1743, pp. 86–92. . Haskell and
Penny 1981, p. 221. However, due to the demand for casts the Borghese tried to
stop moulds from being made (Haskell and Penny 1981, p. 221). Liverpool 2007,
p. 132, no. 10; Clayton 1990, p. 236, no. 154, P3. Tassaert and Pether, both
members of the Society of Artists, had a disagree- ment over the latter’s
proposed exhibition fee for fellows (Hargraves 2005, pp. 141–42). Landford’s,
London, 11–25 February 1751, among lots 1–77. It has been suggested that
Rembrandt worked from draped plaster casts, especially during his Leiden years
(Gyllenhaal 2008, p. 51). 24. William Pether (Carlisle 1731–1821 Bristol) after
Joseph Wright of Derby (Derby 1734–1797 Derby) An Academy 1772 Mezzotint, 579 ×
458 mm Inscribed l.l.: ‘Iosh., Wright, Pinxt.’; and l.r.: ‘W. Pether, Fecit.’;
on the boy’s portfolio in the centre: ‘An / Academy / Published by W Pether, /
Feby, 25th / 1772’; td and l.c., at the foot of the seated artist: ‘Done from a
Picture in / the Collection of the R . Hon. / L . Melburne.’ provenance: The
Hon. Christopher Lennox-Boyd (1941–2012), from whom acquired by the British
Museum in 2010. literature: Chaloner Smith 1883, vol. 2, p. 46, not repr.;
Clayton 1990, p. 240, no. 159, P9, this impression listed under II, not repr.;
Liverpool 2007, pp. 159–62, no. 33. exhibitions: Not previously exhibited. The
British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 2010,7081.2228 In
1769 Joseph Wright of Derby exhibited An Academy by Lamplight (private
collection) at the Society of Artists in London.1 The painting depicted six
young boys drawing from casts of antique sculpture in a vaulted space lit only
by a concealed lamp. Wright repeated the composition the following year for his
patron, Peniston Lamb, 1st Viscount Melbourne (Yale Center for British Art,
fig. 1) and it was from this second version that William Pether took the
present mezzotint, renamed simply An Academy, published in its first state in
February 1772.2 The subject-matter is related to Wright’s earlier painting,
Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (private collection, fig.
2),3 but, by showing a group of students at work, addresses more directly the
theme of education by studying casts of antique sculpture by candlelight.
Artistic education was of paramount importance to Wright. In December of 1769,
the year he settled in Liverpool, twenty-two men in the burgeoning city formed
a Society of Artists that gathered at a member’s house to make drawings from a
substantial collection of prints and, more signifi- cantly, thirty-five plaster
casts.4 These casts had been pur- chased from John Flaxman senior, a
plaster-cast salesman in Covent Garden, for £8.8.3, and were intended
specifically for furnishing an academy.5 While Wright is not listed as a member
of the Society of Artists, his friend, the engraver Peter Perez Burdett (c.
1735–93), was its first President and Wright’s landlord in Liverpool, Richard
Tate (1736–87), was an amateur painter who showed works at the Society’s first
public exhibition in 1774, so he was certainly aware of the group’s
aspirations. Wright seems also to have had at least one student in Liverpool,
Richard Tate’s brother, William, who was described by Wright in a letter in
1773 as ‘a pupil of mine’.6 Artistic education would therefore have been a
pressing concern when he was conceiving An Academy by Lamplight. Wright no
doubt encouraged William Tate to take the same route that he had followed as a
pupil of Thomas Hudson (1701–79): first copying drawings by accomplished
masters (which for Tate would have included works by Wright him- self) as well
as prints, before moving to the study of plaster casts and, ultimately, the
life model.7 In 1774 Tate exhibited ‘Venus with a Shell, a drawing in black
chalk’ at the first Fig. 1. Joseph Wright of Derby, An Academy by Lamplight,
1770, oil on canvas, 127 × 101 cm, Yale Center for British Art, Paul Mellon
Collection, New Haven, inv. B1973.1.66 Fig. 2. Joseph Wright of Derby, Three Persons
Viewing the Gladiator by Candlelight, 1765, oil on canvas, 101.6 × 121.9 cm,
private collection 188 189 Liverpool Society of Artists
exhibition, and a sheet in the Derby Museum and Art Gallery of this subject has
been recently been identified as Tate’s drawing.8 This title of that drawing is
highly suggestive as it is pre- cisely the so-called Nymph with a Shell that
the students are shown drawing in Wright’s painting and Pether’s mezzotint.
Housed in the Borghese collection during the 18th century, the sculpture is now
in the Louvre (fig. 3).9 While a cast of this statue is not listed among those
purchased by the Liverpool Society of Artists, one was probably owned by Wright
himself. The other statue shown in the background on the right is the familiar
Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cat. 23) – the sculpture being
studied in Wright’s earlier Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight
(fig. 2). Wright’s composition depicts young students in different attitudes,
some at work drawing the Nymph, which is illumi- nated by a hanging lamp, from
varying angles, while others merely admire her. Wright has created an ideal
representation of an academy of young men, precisely the environment which his
contemporaries were attempting to create in Liverpool. The students’ visible
drawings are in black chalk similar to Wright’s own and those of his ‘pupil’,
Tate. The varying ages of the students, from young boys to young men, also
suggests an ideal academic establishment. The date of the work has further
resonance: 1769 was the year after the foundation of the Royal Academy in
London, where a precise programme of artistic education, which included drawing
from antique sculpture, was being formulated (see cat. 25). The composition
continues a theme Wright addressed in Three Persons Viewing the Gladiator by
Candlelight (fig. 2), the first painting he exhibited in London, showing it at
the Society of Artists in 1765. Such was its popularity that Pether produced a
mezzotint of it in 1769 and we can suppose that our Fig. 3. Nymph with the
Shell, Roman copy of the 1st century ad after a Hellenistic type of the 2nd
century bc, marble, 60 cm (h), Louvre, Paris, inv. MR 309-N 247 (Ma 18)
mezzotint, published three years later, was conceived as a pendant.10 Wright’s
Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight depicts three men –
traditionally identified as Wright himself, Peter Perez Burdett (c. 1735–93)
and John Wilton – comparing a reduced model of the Borghese Gladiator with a
drawn copy of it in black chalk. We know Wright made drawings of the sculpture;
and a study in pen and brown ink on brown paper by him is preserved at Derby.11
Dating from before his journey to Italy, it seems likely to have been made from
a reduced model. Whilst there is no evidence that Wright owned a model of the
Gladiator, it seems likely that he did: reduced models of it appear in numerous
artists’ sales during the 18th century and they were also readily available in
Derby at the time.12 Viewing and drawing sculpture by candle-light was a
feature of many European academies as for example those of Bandinelli and
Tassaert (see cats 1 and 23).13 This was intended to emphasise the contrast of
the sculpture’s anatomy and facilitate its copy. There were many perceived
artistic benefits in owning models. William Hogarth noted in his Apology for
Painters: ‘the little casts of the gladiator the Laocoon or the venus etc. if
true copies – are still better than the large as the parts are exactly the same
[–] the eye [can] comprehend them with most ease and they are more handy to
place and turn about’.14 It therefore seems likely that Wright’s picture
depicts an evening viewing of his own cast. Burdett was an amateur draughtsman
and printmaker, and the comparison between Wright’s own drawing and the model
is the probable topic of their conversation. This was the theme that Wright
developed more fully in An Academy. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 jy
Liverpool 2007, p. 159, no. 31. For Yale version of the painting ibid., p. 159,
no. 32. Nicolson 1968, vol. 1, p. 234, no. 188; London 1990, pp. 61–63, no. 22;
Liverpool 2007, p. 132, no. 10. For a discussion of the foundation of the
Society of Artists and a list of the casts it acquired see Mayer 1876, pp.
67–69. Ibid., p. 5. Joseph Wright to William Thompson, Derby 25 March, 1773, in
Barker 2009, p. 72. Wright’s work in Hudson’s studio is remarkably well
documented in an archive of his drawings as a student preserved in Derby Museum
and Art Gallery: see Derby 1997, pp. 49–65. Liverpool 2007, p. 162, no. 34. For
the relationship between Tate, Wright and the Liverpool Society of Artists see
Barker 2003, pp. 265–74. For the Nymph with the Shell see Haskell and Penny
1981, pp. 281–82, no. 67; Rome 2000b, vol. 2, p. 335, no. 10 (F. Rausa);
Gaborit and Martinez 2000–01; Paris 2000–01, pp. 327–28, no. 147 (J.-L.
Martinez); Rome 2011–12, pp. 402–05 (I. Petrucci, M.-L. Fabréga-Dubert, J.-L.
Martinez). Clayton 1990, p. 236, no. 154, P3. Derby 1997, p. 88, no. 152. An
Italian plaster-modeller based in Oxford, ‘Mr Campione’ is recorded selling: ‘a
large and curious collection of statues, modelled from the Antiques of Italy
... in fine plaister paris work’ in the Red Lion in Derby. See Barker 2003, p.
25. On this see Roman 1984, p. 83. See also cat. 1, p. 80, note 8. Kitson
1966–68, p. 86. 190 191 25. Edward Francis Burney (Worcester
1760–1848 London) The Antique Academy at Old Somerset House 1779 Pen and grey
ink with watercolour wash, 335 × 485 mm Signed recto, on the portfolio depicted
in the drawing at l.c., in pen and black ink: ‘E.F.B. 1779’; and inscribed
verso, in pen and black ink, with a key identifying the casts and objects shown
on recto, numbered 1–43: ‘View of the Plaister Room in the Royal Academy old
Somerset House / 1. Cincinnatus / 2. Apollo Belvedere / 3. Meleager / 4. Biting
Boy / 5. Foot of the Laocoon / 6. Arm of M. Angelo’s Moses / 7. Paris / 8. Faun
/ 9 Anatomy of a Horse / 10. Head of Antinous / 11. A young Orator by M. Angelo
/ 12. Antoninus Pius / 13. Bacchus / 14. Pompey / 15. Alexander / 16. Model of
a Cow / 17. Agrippa / 18. Nero / 19. Augustus / 20. Cicero / 21 Other Roman
Emperors / 22. Door of Mr Mosers little Room / 23. Heads. Casts from Trajans
pillar / 24. Table for Drawing Hands Heads etc. on / 25. Screens to prevent
Double Lights / 26. Modelers stands / 27. Large chalk Drawing of the Virgin
etc. by Leon: da Vinci / 28. Homer / 29. Laocoon / 30. Esculapius / 31.
Proserpine / 32. Carracalla / 33. Mithridates / 34. Bacchus / 35. Antinous /
36. River Gods from M. Angelo / 37. Boys by Fiamingo / 38. Dying Gladiator /
39. Lamps for lighting the figures in Winter / 40. Antique Bass Relieves / 41.
Laughing Boys / 42. Head of a Wolf / 43. Legs cast from nature etc. etc. etc.’
provenance: From an album of drawings in the possession of the Burney family;
P. & D. Colnaghi, London, from whom acquired 5 July 1960. literature: Byam
Shaw 1962, pp. 212–15, figs 54–55; Hutchison 1986, p. 192, fig. 27; Wilton
1987, p. 26, fig. 25; Rossi Pinelli 1988, p. 255, fig. 4; Nottingham and London
1991, p. 63, under no. 39, fig. 3; Fenton 2006, pp. 98–99, 100–01, repr.;
Kenworthy-Browne 2009, pp. 45–46, pl. 16; Wickham 2010, pp. 300–01, fig. 14;
Brook 2010–11, p. 158, fig. 5. exhibitions: London 1963, p. 34, no. 87, not
repr.; London 1968b, pp. 211–12, no. 651, not repr.; London 1971, p. 18, no.
71, not repr.; London 1972, p. 316, no. 521, not repr. (R. Liscombe); York
1973, p. 40, no. 98, not repr.; London 2001, p. 46, no. 85. Royal Academy
of Arts, London, 03/7485 With its companion The Antique Academy at New Somerset
House (fig. 1), this drawing constitutes one of the best and most evocative
visual records of the Antique or ‘Plaister’ Academy at the Royal Academy of
Arts in London.1 The Academy was founded in 1768 and initially occupied rooms
in Pall Mall before moving to Somerset House in 1771. The rather chaotic early
records of the Academy means that Burney’s detailed drawings are fundamental in
establishing precisely which antiquities were available to the first generation
of students at the Academy. Although copying after casts had been a practice
fol- lowed in previous British academies and schools of art – such as the Duke
of Richmond’s Academy – it was only with the foundation of the Royal Academy
that it became part of an extended curriculum modelled on the Roman and
Parisian Academies.2 The first Academicians draughted surprisingly few rules
governing the education of students, other than the requirement that a student
have a ‘Drawing or Model from some Plaister Cast’ approved for admission to the
Antique Academy, and again to progress into the Life Academy.3 For at least the
first fifty years of its existence there was no stipulation about the length of
time students should spend in either School. The timetable itself was fairly
minimal, follow- ing the traditional model in which the purpose of an Academy
was to provide instruction in draughtsmanship and theory whilst the student
learned his chosen art of painting, sculpture or architecture with a master.
The Antique or Plaister Academy was open from 9 to 3 pm with a two-hour session
in the evening, while the Life Academy consisted of only a two- hour class each
night. Until 1860, both were attended by male students only. The collection of
casts was under the control of the Keeper, while a Visitor attended monthly to
examine and correct the students’ drawings and to ‘endeavour to form their
taste’.4 Following the theoretical model of continental academies, the main
didactic purpose of drawing from plaster casts was to teach young students to
become acquainted with and to internalise ideal beauty before being exposed to
Nature in the Life Academy. As Benjamin West (1738–1820), president of the
Royal Academy for almost thirty years from 1792, put it, pro- ficiency was ‘not
to be gained by rushing impatiently to the school of the living model,
correctness of form and taste was first to be sought by an attentive study of
the Grecian figures’.5 Edward Francis Burney studied at the Royal Academy
Schools from 1777 and left in the 1780s to become a suc- Fig. 1. Edward Francis
Burney, The Antique Academy at New Somerset House, c. 1780, pen and grey ink
with watercolour wash, 335 × 485 mm, Royal Academy of Arts, London, inv.
03/7484 192 193 cessful book illustrator.6 As a
young pupil of the Antique Academy, he recorded in the present drawing of 1779
and its companion the rebuilding of Somerset House begun in 1776 by Sir William
Chambers (1723–96). This drawing shows the Academy before Chambers’
intervention in a room that was probably designed by John Webb (1611–72) in
1661–64, on the south side of the building facing the Thames. These rooms had
windows exposed to direct sunlight and therefore may have required the ‘Screens
to prevent Double Lights’, visible in the upper left corner of the drawing and
annotated on the verso. The drawing depicts four students at work, the one on
the right in the middle distance being guided by George Michael Moser
(1706–83), the first Keeper of the Royal Academy Schools, including the Antique
Academy.7 In the room everything was moveable. Boxes could be used as seats or
as supports for drawing boards, as one is by the student in the foreground on
the left, while rails were used for holding the individual students’ candles
(see cat. 26). Even the pedestal of the casts could be moved on castors, so
that the Keeper could change their position weekly. The collection of plaster
casts was one of the largest assembled in Britain in the 18th century.8 Many
came from the second St Martin’s Lane Academy, brought by Moser who had been
one of its directors.9 The collection was then expanded considerably thanks to
donations from aristocratic collectors and acquisitions on the London market.10
Among the most easily identifiable casts are those ubiqui- tous in European
workshops and academies from the 17th century onwards, all listed in the long
inscription on the verso of the drawing: the Apollo Belvedere (p. 26, fig. 18)
at left centre, behind, in the background, the Faun with Kid, and on the far
right, the Dying Gladiator (p. 41, fig. 55), which a student is copying, as
innumerable other students had done before him (see cat. 20).11 In addition, a
series of peculiarly ‘English’ casts are on display, some donated, others
copied from origi- nals recently brought to England from Rome. Partly obscured
in shadow on the left is a cast of Cincinnatus – which still survives in the
collection of the Royal Academy (fig. 2) – close Fig. 6. Relief from an
Honourary Monument to Marcus Aurelius: Triumph, 176–180 ad, marble, 324 × 214
cm, Capitoline Museums, Rome, inv. MC0808 Fig. 7. Relief with Warriors, Roman,
1st or 2nd century ad, marble, 93 × 82 cm, San Nilo Abbey, Grottaferrata, inv.
1155 Academy’s collection (figs 8–9). Finally, between the shelves and the door
on the right, it is possible to discern Leonardo’s cartoon of The Virgin and
Child with St Anne and St John the Baptist, today one of the most celebrated
works in the National Gallery in London – the present drawing is the earliest
to document its presence in the collection of the Royal Academy.16 The cast
collection was of paramount importance to the Royal Academy during its first
decades, but the ad hoc nature of its accumulation and the inclusion of casts
of ‘Grand Tour’ souvenirs – such as Lord Shelburne’s Cincinnatus – left it open
to criticism. In 1798 the Academy’s Professor of Painting, James Barry
(1741–1806), launched a stinging public attack complaining that the Academy was
‘too ill supplied with materials for observations’ lamenting ‘the miserable
beggarly state of its library and collection of antique vestiges’.17 As a
direct result, the sculptors John Flaxman (1755–1826) and John Bacon the
Younger (1777–1859) were charged with purchasing new casts from the sale of
George Romney’s (1734–1802) collection.18 Flaxman spent much of the rest of his
career attempting to improve the Academy’s cast collection; after 1815, he
finally convinced the Prince Regent to sponsor the Fig. 8. Plaster Cast of Head
of a Roman Soldier in Helmet, from Trajan’s Column, 15.7 × 15.4 × 4.4 cm, Royal
Academy of Arts, London, inv. 10/3267 Fig. 9. Plaster Cast of the Head of
Trajan, from Trajan’s Column, 15.5 × 15.4 × 4.6 cm, Royal Academy of Arts,
London, inv. 10/3262 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 aa&jy
FortheearlyhistoryoftheRoyalAcademyseeHutchison1986,pp.23–54. For drawing after
casts in Britain before the foundation of the Royal Academy see esp. Postle
1997; Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. Hutchison 1986, pp. 29–31. For the
full admission process see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes,
vol. 1, p. 4, 27 Dec. 1768; Abstract 1797, pp. 18–19.
Hutchison1986,p.27.Forthe‘RulesandOrders,forthePlaisterAcademy’, see London,
Royal Academy of Arts, PC/1/1 Council minutes, vol. 1, p. 6, 27 Dec. 1768, and
p. 17, 17 March 1769; Abstract 1797, pp. 22–23. For the role of the visitors
see ibid., p. 8. Hoare1805,p.3. SeeRogers2013. The identification of the
teacher with Moser is confirmed by other like- nesses: see Edgcumbe 2009. The
only other collection that could compete in numbers of casts was the Duke of
Richmond’s Gallery: see Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. On the Royal Academy
collection of casts see Baretti [1781], esp. pp. 18–30. See Thomson 1771, pp.
42–43; Strange 1775, p. 74. We would like to thank Nick Savage for pointing out
these two sources to us.
OnplastershopsandtradersinBritaininthesecondhalfofthe18thcentury see Clifford
1992. Among private donors, Thomas Jenkins, the Rome based dealer, sent a cast
of the so-called Barberini Venus shortly after the Royal Academy’s foundation:
London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 38, 9 Aug.
1769. Jenkins in turn encouraged many of his clients in London to donate casts,
including John Frederick Sackville, Duke of Dorset who sent in 1771 ‘a Bust of
Antinous in his collection’ and ‘a cast of Pythagoras’: ibid., p. 111, 25 Oct.
1771, and p. 118, 18 Dec. 1771. Other early donors were Sir William Hamilton,
the Rome-based dealer Colin Morrison and the Anglo-Florentine painter Thomas
Patch. FortheFaunwithKidseeHaskellandPenny1981,pp.211–12,no.37. The Council
Minutes record on 11 June 1774: ‘Resolved that casts be made from three statues
in the possession of Lord Shelburne, viz the Meleager, the Gladiator putting on
his sandals, & the Paris, leave having been already obtained from his
lordship’, London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p.
179. The three sculptures had recently been sup- plied by Gavin Hamilton
(1723–98) from Rome and were largely recently excavated pieces: the Meleager
had been found at Tor Columbaro; the Paris and the so-called Cincinatus had
both come from an excavation at Hadrian’s Villa near Tivoli, called Pantanello.
See Bignamini and Hornsby 2010, vol. 1, pp. 321–22 for Shelburne; for the
excavation and purchase of the Cincinnatus and Paris see vol. 1, pp. 162–64,
nos 1 and 12; for the excavation and purchase of the Meleager see vol. 1, pp.
180–81, no. 7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1,
p. 38, 9 Aug. 1769 ‘Charles Townly Esq. having presented the Academy with a
cast of the Lacedemorian Boy ... ordered that letters of thanks should be
wrote.’ On the original relief see Boudon-Mauchel 2005, pp. 251–52, no. 43 and
on Duquesnoy’s fame as a ‘classical’ sculptor ibid., pp. 175–210. The cast of
the relief had been sent by Sir William Hamilton, then British ambassador to
the court of Naples, in 1770 together with a cast of ‘Apollo’: see Ingamells
and Edgcumbe 2000 p. 32, no. 25, 17 June 1770; see also London, Royal Academy
of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 72, 17 March 1770. For the Marcus
Aurelius relief see Haskell and Penny 1981, pp. 255–56, no. 56; Rome 1986–87.
For the relief with warriors see Musso 1989–90, pp. 9–22. The relief was
illustrated in Winckelmann 1767, pl. 136. The same cast appears in Zoffany’s
celebrated Portrait of the Academicians of the Royal Academy, 1771–72, in the
Royal Collections. See Webster 2011, pp. 252–61; New Haven and London 2011–12,
pp. 218–21, no. 44 (M. A. Stevens). For Leonardo’s cartoon see London 2011–12,
pp. 289–91, no. 86 (L. Syson). Barry 1798, p. 7. London, Royal Academy of Arts,
PC/1/3, Council minutes, vol. 3, pp. 99–100, 22 May 1801. They purchased 16
casts in total for £68.10.3. WindsorLiscombe1987. Fig. 2. Plaster Casts of the
So-Called Lansdowne ‘Cincinnatus’, 1774, 162 cm (h), Royal Academy of Arts,
London, inv. 03/1488 Fig. 3. Lansdowne Paris, Roman copy of the Hadrianic
Period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc, marble, 165 cm
(h), Louvre, Paris, inv. MNE 946 (n° usuel Ma 4708) Fig. 4. Lansdowne
Hermes/Meleager, Roman copy of the Hadrianic Period (117–138 ad) of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 219 cm (h), Santa Barbara Museum of
Art, Gift of Wright S. Ludington, inv. 1984.34.1 to the Faun with Kid is a
Paris (fig. 3), and behind Moser the so-called Lansdowne Meleager (fig. 4). All
of these were cast in 1774 from the originals in the collection of William
Petty, 2nd Earl of Shelburne (1737–1805), recently returned from his Grand
Tour.12 Behind the Cincinnatus is partly discernible a cast of the Knucklebone
Players given by Charles Townley in 1769, the antique original of which could
be admired in his London town-house at 7 Park Street (cat. 28, fig. 1).13 As
was customary, the Academy’s collection included also casts of busts and
statuettes distributed on shelves and of ‘dismembered’ body parts – arms, legs
and feet – hung on the wall, so that students could learn how to draw
anatomical details before approaching the whole human figure. Pupils were also
required to draw from reliefs, to become acquainted with the composition of
historie, or narrative scenes, based on classical models. Above the
chimneypiece is a large cast of a relief with music-making angels by François
Duquesnoy (1597–1643) – the Boys by Fiamingo identified on the reverse of the
drawing – whose most classicising works had, by the end of the 17th century,
acquired the same status of antique statuary (fig. 5).14 Above was displayed a
reduced version of one of the Marcus Aurelius reliefs in the Capitoline Museum
(fig. 6), and a comparatively obscure relief with warriors, which had clearly
gained fame because of its inclusion in Winckelmann’s Monumenti Antichi
Inediti, published in 1767 (fig. 7).15 Further identifiable casts included a
series of heads from Trajan’s Column, which we can see hanging from the shelves
on the end wall, many of which remain in the Fig. 5. François Duquesnoy, Relief
with Music-Making Angels, 1640–42, marble, 80 × 200 cm. Filomarino Altar,
Church of Santi Apostoli, Naples commissioning of a series of new casts from
Antonio Canova (1757–1822) in Rome.19 Burney’s image illustrates both the Royal
Academy’s aspiration to offer an ‘academic’ education in line with great
Continental examples, but also its differ- ences from them, as a private organisation
sponsored by the monarch rather than a state-run academy. 194
195 26. Anonymous British School, 18th century A View of the Antique
Academy in the Royal Academy c. 1790s Pen and brown ink and grey wash, with
watercolour, over graphite, 294 × 223 mm Stamped recto, l.l., in brown ink:
‘J.R’; on separate piece of paper now attached to the reverse of the mount, in
pen and black ink: ‘Henry Fuseli R A / 1741–1825. / Bought at Sir J. Charles
Robinson’s sale 1902 / E.M.’ provenance: Charles Heathcote Robinson; Sir John
Charles Robinson (1824–1913) (not listed in his sales: Christie’s 12–14 May
1902; or Christie’s 17–18 April 1902); Sir Edward Marsh (1872–1953); his
bequest through The Art Fund (then called National Art Collection Fund), 1953.
literature:None. exhibitions: London 1969, no.1 (unpaginated), not repr. The
British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1953,0509.3 This
satirical drawing, probably made by a distracted student who ought to have been
studying diligently from one of the casts, shows an imposing, heavy-set man
towering physi- cally and psychologically over three young seated pupils
drawing in the Antique Academy. While traditionally he has been identified as
the painter Henry Fuseli (1741–1825), Keeper of the Royal Academy Schools from
1803 to 1825, given the style of the drawing and the subject’s dress he is more
likely to be either Agostino Carlini (c. 1718–90), Keeper between 1783 and
1790, or Joseph Wilton (1722–1803) who held the position between 1790 and 1803.1
The view shows one of the end walls of the Antique, or ‘Plaister’ Academy,
housed from 1780 in a purpose-built room in Somerset House.2 The same wall,
with a similar arrangement of casts, appears in the evocative candlelight view
of the room by an anonymous British artist (see p. 60, fig. 105). The young
students are busy at work, copying from casts of the Belvedere Torso (p. 26,
fig. 23), the Apollo Belvedere (p. 26, fig. 18) and the Borghese Gladiator (p.
41, fig. 54), models of different ideal types of beauty, masculinity and
anatomy, repeatedly praised by Sir Joshua Reynolds in his third Discourse of
1770. It is likely that the three moveable casts were often set side by side by
the Keepers to reflect Reynolds’ conception of ideal beauty and of the ‘highest
perfection of the human figure’, which ‘partakes equally of the activity of the
Gladiator, of the delicacy of the Apollo, and of the muscular strength of the
Hercules’, as expressed in his third Discourse.3 On the wall behind the casts,
are two cupboards possibly containing students’ drawings, which support smaller
casts and busts. Whilst the Antique Academy was a serious, professional space,
it was naturally the focus of humour from the students, who ranged in ages from
fourteen to thirty-four. Several other caricatures exist testifying to the
lighter side of academic life, including an earlier study by Thomas Rowlandson
(1756–1827) showing a bench of students at work in the Life Academy in 1776 and
including mocking depictions of Rowlandson’s fellow students (fig. 1).4 In
terms of its public image the cast collection was an important symbol of the
Academy’s prestige but this view does not seem to have been shared by some of
the students, many of whom must have considered the long hours spent copying after
the Antique as a constraining and repetitive exercise. Joseph Wilton was a
crucial figure within the acad- emy in promoting a rigid curriculum based on
the classical ideal. He never abandoned his firm belief in the didactic value
of plaster casts, established while he was director of the Duke of Richmond’s
Gallery in the late 1750s.5 His strict teaching methods must have generated
discontent and considerable derision, brilliantly visualised in a satirical
print by Isaac Cruikshank (1756–1811) (fig. 2) which shows Wilton – trans-
formed into Bottom with the head of an ass – inspecting the drawing of an
irritated student in the Antique Academy.6 Wilton’s exacting standards, as the
lines below the cartoon make clear, would prevent him from seeing the genius of
a modern day Raphael and it is clear that some students of the Academy saw him
as a ‘formal old fool’. Unlike the Life Academy, where the Visitor presided,
setting the model and frequently drawing from it himself, the Antique Academy
was presided over by the Keeper of the Schools. Each week the Keeper would set
out specific casts and direct and comment on the students’ work. According to
Fig. 1. Thomas Rowlandson, A Bench of Artists, 1776, pen and grey and black ink
over pencil, 272 × 548 mm, Tate Gallery, London, inv. T08142 196
197 Fig. 2. Isaac Cruikshank, Bless The Bottom, bless Thee-Thou art
translated – Shakespere, 1794, hand-coloured etching, 295 × 212 mm, G. J.
Saville the rules, students did not choose which casts to draw and they were
not allowed to move them without permission.7 But depictions of the Antique
Academy suggest that the situation was probably more flexible and may have
allowed for individually tailored study. Several anecdotes point to the unruly
life of the Academy and its students, who were allowed to choose their own
seats, with utter chaos resulting. Joseph Farington (1747–1821) noted in 1794,
that they behaved like ‘a mob’: Hamilton says the life Academy requires
regulation: but the Plaister Academy much more. The Students act like a mob, in
endeavouring to get places. The figures also are not turned so as to present
different views to the 8 The reason for the commotion was that once a student
had a seat, he was expected to retain it for the week. The atmos- phere seems
to have been generally boisterous and there are numerous reports in the Council
Minutes of the Academy of misbehaviour, high spirits and students throwing at
each 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 It would be productive of much good to the
Students to deprive them of the use of bread; as they would be induced to pay
more attention to their outlines; and would learn to draw more correct, when
they had not the perpetual resource of rubbing out.11 aa&jy For the
traditional attribution of the sitter see the entry on the collection online
database of the British Museum. The identification of the sitter with Joseph
Wilton has been proposed already by Andrew Wilton in London 1969, no. 1. For a
list of Keepers of the Royal Academy see Hutchison 1986, pp. 266–67. Both
Carlini and Wilton presented similar physical character- istics as the man in
the drawing. For a list of their likenesses see respectively Trusted 2006 and
Coutu 2008. See Baretti [1781], pp. 18–30. See Reynolds 1997, p. 47. London
1997, pp. 170–71, no. 67. See Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. George
1870–1954, vol. 7 (1793–1800), p. 118, no. 8519. See ‘Rules of the Antique
Academy’: Royal Academy of Arts PC/1/1, Council Minutes, vol. 1, pp. 4–6, 27
Dec. 1768, quoted in Hutchison 1986, p. 31. Farington 1978–98, vol. 1, p. 281.
Pressly 1984, p. 87. Farington 1978–98, vol. 2, pp. 461–62. Ibid., vol. 2, p.
462. These two drawings by Turner epitomise the two principal stages of
education provided by the Royal Academy Schools during the late 18th century:
the Antique, or Plaister, Academy and the Life Academy. Turner enrolled as a
student in the Schools in December 1789 as a boy of fourteen, spent more than
two years in the Antique Academy, and then progressed to the Life Academy in
June 1792, presumably after presenting a drawing for inspection by the
Visitor.1 Although there is no record of the drawing Turner submitted, it may
well have been this finished study of the Belvedere Torso (see p. 26, fig. 23)
a sculpture of enduring popu- larity among artists as demonstrated by Goltzius’
drawing made almost exactly two hundred years earlier (cat. 8). Turner copied
the same cast of the Torso shown in the satiri- cal view of the Academy (cat.
26). He is recorded as having visited the Antique Academy on 137 separate
occasions during his studentship but only some twenty of his drawings after the
Antique survive (figs 1–4) – many from the casts seen in Burney’s drawing (cat.
25) – and none as highly ren- dered as the present study.2 Turner’s signature
at the lower right also suggests it was esteemed by the artist himself and
prepared for some formal purpose. Whilst the surviving Academy Council Minutes
do not record in detail the process of progression from the Antique Academy to
the Life Academy, contemporary accounts offer some insight. Turner’s
contemporary, Stephen Rigaud noted: I was admitted as a Student in the Life
Academy by Mr Wilton the Keeper, and Mr Opie, the Visitor for the time being,
on the presentation of a drawing from the Antique group of the Boxers, in which
I had copied the strong effect of light and shade in the whole group coming out
by strong lights on one side, and reflected lights on the other, with which Mr
Opie expressed himself much pleased.3 The study of the Torso has all the
characteristics of a presenta- tion drawing. It is on better, more regularly
cut paper than Turner’s other drawings after the Antique and the figure is
highly worked and boldly modelled with hatching and cross- hatching in chalk to
convey the ‘strong effects of light and shade’ mentioned by Rigaud. This is in
keeping with the established tradition of copying casts by candlelight to
enhance contrast, so that the students could learn how to render planes and
anatomical details. Unlike Goltzius’ Torso, being copied in daylight after the
original in the Belvedere Courtyard in Rome, Turner’s cast is strongly lit from
above by an oil lamp and set against a neutral screen to provide a uniform
background – as clearly visible in the view of the Antique Academy (p. 60, fig.
105). Furthermore, this is the only drawing from the Antique where Turner
employed trois crayons, adding red to black and white chalk, a technique he
usually reserved for studies from life. Might it be that Turner was attempting
to turn marble into flesh, the practice 198 199 students. other the lumps of
bread they were given to erase their draw- ings. Stephen Francis Rigaud
(1777–1862), son of the Royal Academician, John Francis Rigaud (1742–1810) and
a student in the early 1790s, wrote that the Schools were also the forum for
political agitation: The peaceable students in the Antique Academy being
continually interrupted in their studies by others of an opposite character,
who used to stand up and spout forth torrents of indecent abuse against the
King [. . .] One evening [. . .] I rose and protested that if they continued to
use such abominable language in a Royal Academy I would denounce every one of
them to the Council and procure their expulsion [. . .] this threat checked
them a little; but they shewed their spite by pelting me well with [. . .]
pieces of bread.9 This incident reached the ears of the Academy Council from
which the Keeper was excluded. Wilton told Joseph Farington in 1795: The
Students in the Plaister Academy continue to behave very rudely; and that they
have a practise of throwing the bread, allowed them by the Academy for rubbing
out, at each other, so as to waste so much that the Bill for bread sometimes
amounts to Sixteen Shillings a week.10 The Council took the decision to stop
the allowance of bread altogether, as the President, Benjamin West, noted: 27.
Joseph Mallord William Turner (London 1775–1851 London) a. Study of a Plaster
Cast of the Belvedere Torso c. 1792 Black, red and white chalk, on brown paper,
331 × 235 mm Signed recto, l.r., in pen and black ink: ‘Wm Turner.’ literature:
Postle 1997, pp. 91–93, repr.; Owens 2013, pp. 102–03, pl. 76. exhibitions:
Nottingham and London 1991, p. 51, no. 18 (M. Postle); Munich and Rome 1998–99,
p. 49, fig. 50, p. 164, no. 62 (M. Ewel and I. von zur Mühlen); Munich and
Cologne 2002, p. 414, no. 192 (J. Rees); London 2011 (no catalogue). Victoria
and Albert Museum, Prints & Drawings Study Room, London, 9261 b. The
Wrestlers c. 1793 Black, red and white chalks, on brown paper, 504 x 384 mm
Signed recto, l.r., in pen and black ink: ‘Wm Turner.’ literature: Wilton 2007,
p. 16, repr. exhibitions: Not previously exhibited. Victoria and Albert Museum,
Prints & Drawings Study Room, London, 9262 provenance: Both drawings
purchased by the Museum in 1884 from R. Jackson with four other academic
drawings by different artists (Victoria and Albert Museum Register of Drawings
1880–1884, pp. 171, 174). 200 201 prescribed by Rubens
(see Appendix, no. 8), something he may have thought would demonstrate that he was
ready to progress to the Life Academy? The Torso would have been a clever
choice for a presentation drawing, since the antique fragment held a position
of great prominence in the mission and the iconography of the Royal Academy.
According to Reynolds the Torso was the greatest exemplar of classical art.
‘What artist’, he asked in his 10th Discourse of 1780, ‘ever looked at the
Torso without feeling a warmth of enthusiasm, as from the highest efforts of
poetry?’ For him only ‘a MIND elevated to the contemplation of excel- lence
perceives in this defaced and shattered fragment [...] the traces of
superlative genius, the reliques of a work on which succeeding ages can only
gaze with inadequate admi- ration’ (see Appendix, no. 17).4 The muscular figure
featured prominently under the words ‘STUDY’ on the obverse of several medals
annually distributed as premiums to the students and in Angelica Kauffman’s
Design for the ceiling of the Council Chamber, which served also as a second
room of the Antique Academy (see p. 60, fig. 107).5 In Turner’s time as a
student, the Academy possessed two casts of the Torso, one of which we know was
presented by the dealer Colin Morrison in 1770, and significantly Turner
himself donated a further cast in 1842.6 The second drawing exhibited here was made
from posed models in the Life Academy. The model would be set by the Visitors
and Turner studied under a number of them, including Henry Fuseli, James Barry
and Thomas Stothard (1755–1834). This drawing possibly dates from 1793 and may
represent an unusually elaborate pose set by the sculptor John Bacon (1740–99).
Stephen Francis Rigaud, who entered the Life Academy a year after Turner,
noted: I remember Mr Bacon once setting a well composed group of two men, one
in the act of slaying the other; or a representation of the history of Cain and
Abel, which was continued for double the time allowed for a single figure, and
which gave general satisfaction to the students.7 This precisely accords with
the present group, which shows specific models engaged in combat. Although
designed to represent a biblical subject, the pose of the two figures was
reminiscent of antique groups, especially the Wrestlers (see p. 30, fig. 33)
which had already served as inspiration for posing the live models in the
Italian and French academies – as seen for instance in Natoire’s imaginary view
of the Académie Royale (cat. 16). Turner continued to attend the Schools
throughout the 1790s until he was awarded Associateship of the Academy in 1799;
he would continue to visit the Life Academy intermit- tently for the rest of
his life.8 He was made inspector of the cast collection of the Royal Academy in
1820, 1829 and 1838 and served as Visitor in the Life Academy for a total of
eight years between 1812 and 1838.9 In the latter role he became famous for
setting the live model in postures reminiscent of classical sculpture, clearly
recalling what he had learned during his time as a student. Lauding this
practice and lamenting its decline, the artists and essayists Richard
(1804– Fig. 1. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster
Cast of the Apollo Belvedere, c. 1791, black and white chalks on brown laid
wrapping paper, 419 × 269 mm, Tate Gallery, London, inv. D00057 (Turner Bequest
V D) Fig. 2. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of
Marquess of Shelbourne’s Cincinnatus, c. 1791, pencil with black and white
chalks and stump on laid buf paper, 425 × 267 mm, Tate Gallery, London, inv.
D00055 (Turner Bequest V B) Fig. 4. Joseph Mallord William Turner, Study of a
Plaster Cast of a Helmeted Head from the Trajan Column, with Other Studies, c.
1791, black, red and white chalks and stump on dark buf paper, 337 × 269 mm,
Tate Gallery, London, inv. D40220 (Turner Bequest V R, verso) 88) and Samuel
(1802–76) Redgrave noted: When a visitor in the life school he introduced a
capital practice, which it is to be regretted has not been contin- ued: he
chose for study a model as nearly as possible corresponding in form and
character with some fine antique figure, which he placed by the side of the
model posed in the same action; thus, the Discobulus (sic) of Myron contrasted
with one of our best trained soldier; the Lizard Killer with a youth in the
roundest beauty of adoles- cence; the Venus de’ Medici beside a female in the
first period of youthful womanhood. The idea was original and very instructive:
it showed at once how much the antique sculptors had refined nature; which, if
in parts more beautiful than the selected form which is called ideal, as a
whole looked common and vulgar by its side.10 aa & jy For Turner’s
attendance at the Academy see Hutchison 1960–62, p. 130. Finberg 1909, vol. 1,
pp. 6–8. See also Wilton 2012. Pressly 1984, p. 90. Reynolds 1997, pp. 177–78.
On the medals see Hutchison 1986, p. 34; Baretti [1781], p. 28; see also
London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 24, 20 May
1769. For the Council Chamber see Baretti [1781], pp. 25–26. On the two copies
of the Torso in the Royal Academy see Baretti [1781], pp. 9, 28. On Colin
Morrison’s donation of a cast of the Torso, together with ‘Cast of a Bust of
Alexander’ in 1770 see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes,
vol. 1, p. 70, 17 March 1770; on Turner’s donation see Gage 1987, p. 33.
Pressly 1984, p. 90. Hutchison 1960–62, p. 130. See Gage 1987, pp. 32–33.
Redgrave and Redgrave 1890, p. 234, quoted in Gage 1987, p. 33. 202
203 Fig. 3. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of the
Borghese Gladiator, c. 1791–92, black and some white chalk on buf wove paper, 580
× 457 mm, Tate Gallery, London, inv. D00071 (Turner Bequest V S) 1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 28. William Chambers ( fl.1794) The Townley Marbles in the Dining
Room of 7 Park Street, Westminster 1795 Pen and grey ink with watercolour and
touches of gouache, indication in graphite, heightened with gum Arabic, 390 ×
540 mm provenance: Charles Townley (1737–1805); by descent to Lord O’Hagan (b.
1945); Sotheby’s, London, 22 July 1985, lot 559; Frederick R. Koch; Sotheby’s,
London, 12 April 1995, lot 90, from whom acquired by the British Museum.
literature: Cook 1977, pp. 8–9, fig.1; Cook 1985, pp. 44–45, fig. 41; Walker
1986, pp. 320–22, pl. A; Cruickshank 1992, pp. 60–61, fig. 5; Morley 1993, pp.
228, 285, pl. LVII; Webster 2011, p. 425, fig. 321. exhibitions: Essen 1992,
pp. 432–36, no. 360a (C. Fox and I. Jenkins); London 1995 (no catalogue);
London and Rome 1996–97, pp. 258–60, no. 214 (I. Jenkins); London 2000, pp.
229–30, no. 167; London 2001, p. 42, no. 72; London 2003b, p. 143, fig.
117. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London,
1995,0506.8 Charles Townley (1737–1805) was the most influential collec- tor of
antique sculpture in Britain during the second half of the 18th century.1 From
1777 Townley’s considerable collection was arranged in his London residence, 7
Park Street (now 14 Queen Anne’s Gate), a proto-house-museum praised both for
the strength of its collections and their display. It was to become one of the
principal tourist sites in London. Writing about the house, James Dallaway
claimed that ‘the interior of a Roman villa might be inspected in our own
metropolis’.2 Park Street was also a centre of antiquari- anism and Townley –
particularly after 1798, when wars with France curtailed travel to the
Continent – was a hugely Fig. 1. Johann Zofany, Charles Townley and Friends in
His Library at Park Street, Westminster, 1781–90 and 1798, oil on canvas, 127 ×
99.1 cm, Towneley Hall Art Gallery & Museum important figure in promoting
the study and interpretation of classical sculpture in Britain initiating
numerous publica- tions, including the Society of Dilettanti’s Specimens of
Antient Sculpture (1809). Townley also formed a famous library and an immense
archive of drawings – in effect a ‘paper museum’ – recording antiquities in
both British and European collections. To complete this ‘paper museum’ and to
prepare publications such as the Specimens, Townley employed numerous young
artists to record his own collection. It is clear from the surviving portions
of his diary and other records that 7 Park Street became, in effect, an
alternative academy in London. Writing in 1829, the then Keeper of Prints and
Drawings at the British Museum, J. T. Smith, published a description of 7 Park
Street and its contents, observing: I shall now endeavour to anticipate the
wish of the reader, by giving a brief description of those rooms of Mr
Townlye’s house, in which that gentleman’s liberality employed me when a boy,
with many other students in the Royal Academy, to make drawings for his
portfolios.3 Townley’s surviving drawings, housed, along with his sculp- ture
collection, in the British Museum, testify to the range of artists he employed
and demonstrate the popularity of Park Street as a venue for artists both to
meet and to draw. Records show that William Chambers – not to be confused with
the architect of the same name – was one of the draughtsmen employed by Townley
to prepare drawings for his ‘portfo- lios’. A payment of £5.5.0 to Chambers is
recorded on 21 October 1795 for the pendant to this drawing, a view of sculp-
ture in the hall at 7 Park Street, also in the British Museum.4 Townley’s diary
records the comings and goings of painters, particularly his friend, Johann
Zoffany (1733–1810) who painted the iconic, largely imaginary view of Townley’s
library filled with his sculpture collection and with the owner in conversation
with his unofficial curator, the Baron d’Hancarville, and two other friends
(fig. 1).5 204 205 The dining room was one of the principal public
spaces of the house and contained some of the largest sculptures in the
collection. These included the Townley Venus, the Discobolus (fig. 2), the
Townley Caryatid, the Townley Vase, and the Drunken Faun, which Chambers places
in the foreground. The modish decoration reflected both advanced neo-classical
thinking and Townley’s own passions; the walls were articulated by simulated
porphyry columns surmounted by capitals whose design came from Terracina; as
d’Hancarville explained: ‘the ove is covered with three masks representing the three
kinds of ancient drama, the comic, tragic and satyric [...] the choice and
disposition of these ornaments leave no doubt that this capital was intended to
characterise a building con- secrated to Bacchus and Ceres’.6 Visitors are
shown admiring the collection while a woman seated in the foreground is drawing
from the Drunken Faun. A drawing attributed to Chambers of the same sculpture,
taken from the same angle, made for Townely’s portfolios, is also in the
British Museum (fig. 3). Townley’s wide circle of acquaintances included a
number of amateur and professional female artists, includ- ing Maria Cosway
(1760–1838), whom Townley first met in Florence in 1774. His interest in
encouraging young artists led to the publication by Conrad Metz of a drawing manual
based on studies of the sculpture in Park Street: Studies for Drawing, chiefly
from the Antique. 30 plates (1785). Townley’s support of artists resulted in
his taking an active role in the Royal Academy of Arts from its foundation. He
donated casts of his own sculpture and solicited dona- tions from friends. The
Academy’s Council Minutes record his first donation in August 1769 of a ‘cast
of the Lacedemonian Boy’ the so-called Knucklebone Players which appears in
Edward Burney’s view of the RA’s Antique Academy on the far left, behind the
Cincinnatus (cat. 25).7 One of the artists who appears regularly in Townley’s
diary was the sculptor Joseph Nollekens (1737–1823) who is recorded donating to
the Academy a ‘cast in plaister of the head of Diomede’ belonging to Townley in
1792.8 Townley also donated casts of sculptures in other collections, among
them, in 1794 one ‘of the celebrated Bas relief in the Capitol, of Perseus
& Andromeda’, a cast still in the collection of the Academy.9 Townley’s
solicitude for the Royal Academy and the educa- tion of young artists continued
throughout his life; in 1797 the painter and diarist Joseph Farington noted:
‘Townley [...] thinks the Academy should have additional rooms for Statues
&c’.10 29. Joseph Michael Gandy (London 1771–1843 Plympton) View of the
Dome Area by Lamplight looking South-East 1811 Pen and black ink, watercolour,
1190 × 880 mm selected literature: Lukacher 2006, pp. 132–33, fig.150
exhibitions: London 1999a, p. 160, no. 68 (H. Dorey); Munich 2013–14, p. 43;
London 2014, (unpaginated). Sir John Soane’s Museum, London, 14/6/5 1 2 3 4 5 6
7 8 9 10 jy For Townley see particularly Coltman 2009. Dallaway 1816, pp. 319,
328. Smith 1829, vol. 1, p. 251. In February that year he had also paid
Chambers £2.2.0. for some unspeci- fied drawings, and in August £1.1.0. for
‘drawing gems’: see London 2000, p. 229. Townley’s diary records Chambers
returned in May 1798 when he began to make a record of an altar of Lucius Verus
Helius which Townley had recently acquired from the Duke of St Albans; he
finished the study on Sunday 7 July: London, British Museum, Townley Archive,
TY/1/10. For William Chambers’ pendant to this drawing see London 2001, p. 42,
no. 71 (with previous bibliography). Webster 2011, pp. 419–43. London and Rome
1996–97, pp. 258–60. London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes,
vol. 1, p. 38, 9 Aug. 1769. It arrived with a cast of a Venus donated by
Townley’s principal antiquities dealer in Rome, Thomas Jenkins. The original
Knucklebone Players is in the British Museum, Department of Greek & Roman
Antiquities, inv. 1805,0703.7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/2, Council
minutes, vol. 2, pp. 173–4, 3 Nov. 1792. The original marble bust is in the
British Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, inv. 1805,0703.86,
now called the Head of a follower of Ulysses. London, Royal Academy of Arts,
PC/1/2, Council minutes, vol. 2, p. 201, 7 Feb. 1794. The cast is in the Royal
Academy, inv. 03/2018. The original is in the Capitoline Museums, Rome, inv.
501: see Helbig 1963–72, vol. 2, pp. 156–57, no. 1330. Farington 1978-98, vol.
3, p. 840. Fig. 2. The Townley Discobolus, Roman copy of the 2nd century ad
after a Greek original of the 5th century bc by Myron, marble, 170 cm (h),
British Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, London, inv.
1805,0703.43 Fig. 3 Attributed to William Chambers, Drawing of a Statue of an
Intoxicated Satyr, 1794–1805, black chalk and grey wash, 280 × 193 mm, British
Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, London, inv. 2010,5006.87
The Royal Academy School of Architecture was central to the formation of the
professional career and teaching of Sir John Soane (1754–1837), who is chiefly
remembered today as architect to the Bank of England, of Dulwich Picture Gallery
and of his incomparable house-museum at No. 13 Lincoln’s Inn Fields, London.
The unique installations of antiquities and casts after the Antique in the
Museum, which he built at the back of the house, and which J. M. Gandy so
atmospherically evokes in this drawing, also attest to the influence of the
Academy on Soane’s pattern of collecting and his own role as a teacher. Soane
entered the Academy in 1771 at the age of eighteen; he was the 141st pupil
since the Academy’s foundation in 1768 and amongst the first students of the
School of Architecture, the earliest institution in Britain to teach
architecture in a formalised way. The School was modelled by Sir William
Chambers (1723–96) on his own experience of studying architecture in
Jean-François Blondel’s École des Arts in Paris, in 1749–50, when the status of
the architect and teaching methods in Britain were then very different from
those in France. The Académie Royale d’Architecture, of which Chambers became a
member in 1762, had been founded in 1671 and was followed, in 1743, by
Blondel’s more progressive École. The École’s curriculum was rigorous; it was
open for study from Monday to Saturday and from eight in the morning until nine
in the evening. The students’ day began with formal discussion of various
topics, followed by lectures on set matters relating to drawing such as mathe-
matics, geometry, perspective, or to building types such as military
architecture, or to practical issues such as drainage and water supply. In the
spring, students would undertake site visits to notable buildings in Paris and
its environs.1 In Britain, by contrast, the professional status of architect
was ill-defined, and was not always distinguished from that of the builder or
mason. The ambiguous status of architecture was not entirely clarified by the
time Soane entered the architecture school. It was the smallest of the
departments at the Royal Academy and Soane was one of only nine pupils admitted
in 1771. And although inspired by Blondel’s École, the programme of the
architecture school was nothing like so rigourous. Students of architecture
were required to attend only six lectures per year.2 The reason for this very
limited formal teaching was that most students were attached to a professional
archi- tect’s office during the day; when Soane enrolled at the Royal Academy
he was working for George Dance the Younger (1741–1825).3 Nor were the teaching
collections available to students at all extensive. The collections of plaster
casts after the Antique (and antiquities) were dominated by the requirements of
painters and sculptors; in the 1810 inventory of 385 casts, only nineteen can
be identified as being architec- tural.4 It is against this backdrop that we
must understand Soane’s own founding of an ‘academy of architecture’ in his
house-museum. The history of Soane’s collections of casts and the manner in
which they were installed, deinstalled and reinstalled over a period of time
and over three different properties belonging to Soane (two at Lincoln’s Inn
Fields and one in Ealing, London) is not straightforward. From the 1790s, Soane
started collecting and displaying casts for the use of the young pupils and
assistants working in his first office in No. 12 Lincoln’s Inn Fields.5
However, as his collection grew and as his career as an architect developed,
the function of the collection of antiquities and of casts after the Antique
changed. Gandy’s drawing shows the Dome Area of Soane’s Museum as it appeared
in 1811 (a year after the 1810 Royal Academy inventory of casts was com-
piled).6 In this view, atmospherically lit from below by an undisclosed light
source, we can readily identify a number of casts of antique sculpture and of
architectural fragments. The largest casts are the Corinthian capital shown on
the south wall, and a fragment of entablature, shown on the east wall, both
taken from the Temple of Castor and Pollux in Rome, which Soane had purchased
in 1801 from the sale of the architect Willey ‘the Athenian’ Reveley.7 Below
the capital, and forming part of the parapet of the Dome we see a cast of one
of the panels, decorated with a festoon, from the portico of the Pantheon,
purchased from the sale of the architect James Playfair.8 Sculpture is also
represented in the casts, and a number of well-known antiquities can be
206 207 described. Just visible through the arch in the lower
right- hand corner, is an arrangement of four casts taken from the base of one
of the so-called Barberini Candelabra, among the most prized antiquities in the
Museo Pio-Clementino, Rome, which shows the gods Minerva, Jupiter (twice), and
Mercury in low relief.9 On the east wall, below the entablature of the Temple
of Castor and Pollux, is a cast of a relief of two of the ‘Corybantes’, taken
from the marble original in the Vatican Museums and also purchased from the
Playfair sale.10 Although Soane would rearrange these casts and antiquities as
his ‘Museum’ expanded, most are still to be found at No. 13 Lincoln’s Inn
Fields and the general impression of a dense, ‘romantic’ arrangement remains.
If, originally, Soane’s collection of casts and antiquities was intended to
provide exemplars for the architects training and working in his office, by the
time Gandy drew the arrangements as they appeared in 1811 a shift in their
purpose had occurred. In 1806, Soane became Professor of Architecture at the
Royal Academy and, as a former student, he was well aware of the relatively
meagre resources allocated to the School. He comments on this in his 6th
lecture, given to his students at the RA.11 The arrangement of casts shown by
Gandy was installed between 1806 and 1809, when Soane was preparing his Royal
Academy lectures, of which he gave the first in 1809.12 It has been argued that
they are a three-dimensional analogue of the lectures and their drawn
illustrations.13 Indeed, Soane saw the casts as being central to his teaching:
... I propose in future that the various drawings and models, shall, on the day
before, and if necessary, the day after the public reading of each lecture, be
open at my house for the inspection of the students in architecture, where at
the same time, they will likewise have an oppor- tunity of consulting the
plaster casts and architectural fragments.14 Shortly after Gandy completed this
view of the Dome Area, the European Magazine and London Review described
Soane’s house-museum as an ‘... Academy of Architecture’.15 At the same time as
he was responding to the lack of architectural casts and fragments in the
collections of the Royal Academy, Soane’s ‘academy’ should also be seen as
Soane’s reflection on the ways in which he himself had come to experience Roman
architecture. Unlike the Royal Academy lectures, which Soane arranged
programmatically, the ‘Piranesian’ displays of antiquities, casts and
architectural 16 to recreate the experience of visiting Rome and to recall the
excitement of viewing there the disorganised remains of antiquity.17 However,
another reason why Soane rejected a rational academic approach to the
arrangements of antiquities in his house-museum might lie in the way that Soane
used the collections to form his own identity as an architect. In our drawing
Gandy includes a portrait of Soane who is illuminated from the same undisclosed
light source as his casts, gesturing in, by 1811, the slightly archaic manner
of an interlocutor. He is at once teacher, architect and collector.18 The
arrangements of casts and antiquities are not just for the use of his students
and pupils but also, as he put it, ‘... studies for my own mind’.19 They
reflect one individual’s view of art and architecture through the idiosyncratic
juxtapositions that he created. However, there is yet another level of
self-identification in Soane’s collection and display of antiquities and
architec- tural fragments. In Gandy’s drawing, far above Soane on a shelf, can
be seen a row of Roman antique cineraria and cinerary vases. That at the far
left, decorated with Ammon masks, came from the ‘Museum’ of the great Italian
architect and etcher, Giovanni Battista Piranesi (1720–78), as did the cinerary
vase decorated with griffins seen on top of the cinerarium in the middle, and
the cinerarium decorated with genii on the far right. Though it is not seen in
this view, in 1811, a full-size cast of the Apollo Belvedere would join the
collections of the ‘academy’. Dating to 1717, it had formerly been owned by
Lord Burlington and displayed in his villa at Chiswick. In 1818, further
antiquities – this time from the sale of the effects of Robert and James Adam –
would enhance the installations. The names of these prominent antiquaries and
architects are significant: they create an intellectual genealogy for Soane,
who was born the son of a bricklayer. Sir John Soane’s Museum is a very rare
survival of an early 19th-century private ‘academy’ in which his collections of
casts and of antiquities can be experienced much in the same manner as his own
pupils and his Royal Academy students experienced them. It also demonstrates
how Soane drew upon the Antique to create his intellectual persona.
fragments are set out idiosyncratically and imaginatively. Why did Soane reject
a more conventional arrangement of casts and antiquities in his ‘academy’?
Perhaps he wished 208 1 2 3 4 j k-b See Bingham 1993, p.5. ‘In regard to the
students in architecture, it is exacted from them only that they attend the
library and lectures, more particularly those on Architecture and
Perspective...’. Reprinted, La Ruffinière du Prey 1977, p. 47. Soane
subsequently entered the office of Henry Holland in 1772. Bingham 1993, p. 7.
The lack of collections of casts or of architectural fragments in public
collections in Britain, until Sir John Soane formed his collection, was also
commented upon by John Britton in the preface to his 1827 ‘guide’ to Soane’s
house-museum, Britton 1827, p.viii. 209 5 Soane had originally started
collecting and displaying casts for the use of the architects working in his
first office in No.12 Lincoln’s Inn Fields in the 1790s. He also hoped to
inspire his eldest son – John Soane Junior – to become an architect and arranged
antiquities and casts at his country villa, Pitzhanger Manor in Ealing,
acquired in 1800 and rebuilt by Soane, to act as an ‘academy’ for John. For a
full description of Soane’s acquisition and installation of casts in his
house-museum and his use of them see: Dorey 2010. 6 This part of the house was
in fact behind No. 13 Lincoln’s Inn Fields. 7 Reveley had collected these casts
in Italy and Soane purchased every cast from this sale. Dorey 2010, p. 600. 8
Dorey 2010, p.600. 9 These were found in the remains of Hadrian’s Villa at
Tivoli in 1730 and were heavily restored by Bartolomeo Cavaceppi. The British
antiquary Thomas Jenkins acted as agent for the Pope when negotiating their
acquisition. 10 This had been found in 1788 near Palestrina. The subject of the
relief is also sometimes identified as the Pyrrhic Dance. 11 ‘...I have often
lamented that in the Royal Academy the students in architecture have only a few
imperfect casts from ancient remains, and a very limited collection of works on
architecture to refer to.’ Reprinted in Watkin 1996, p. 579. 12 As Soane
explained in his 6th Royal Academy lecture: ‘On my appoint- ment to the
Professorship I began to arrange the books, casts, and models, 13 14 15 16 17
18 19 in order that the students might have the benefit of easy access to
them.’ Reprinted in Watkin 1996, p. 579. See: Dorey 2010, p. 606. Watkin 1996,
p.579. Observations 1812, p. 382. In fact, Soane does seem to have entertained
the idea of creating a more ‘rational’ Museum where casts, antiquities and
fragments would be arranged according to academic taxonomies. A drawing by
George Bailey, also dating to 1811 and showing the Dome Area (SM 14/6/3),
includes a plan relating to a scheme of c. 1809–11 whereby both Nos 12 and 13
Lincoln’s Inn Fields would be used by Soane. In this proposed scheme, the whole
of No. 13 would become the Museum with the collections displayed according to
type. As Soane explained in a rejected draft of his sixth Royal Academy
lecture, No. 13 would incorporate: ‘... a gallery exceeding one hundred feet in
length for the reception of architectural drawings and prints, another room of
the same extent over it, to receive models and parts of buildings ancient and
modern’. Reprinted in Watkin 1996, p. 356. Soane even used plain yellow glass
in the skylights that illuminated the Dome Area, perhaps to evoke the light of
the Mediterranean world rather than that of London. Soane explores the use of
architecture as a type of ‘self-portrait’ in notes he made when preparing his
Royal Academy lectures. See: Soane. J., Extracts, Hints, Etc. for Lectures,
1813–18, SM Soane Case 170, f.135. Soane 1835, p. 7. 30. Gijsbertus Johannus
Van den Berg (Rotterdam 1769–1817 Rotterdam) The Drawing Lesson c. 1790s Black
and red chalk, 483 × 375 mm. Framing lines in black chalk. Signed recto l.r. in
black chalk: GVD Berg. fecit provenance: Paris, Drouot, 26 March 1924, part of
lot 55, La Leçon de Dessin (sold as a pair with another drawing, La Marchande
de frivolités); Private collection, France; Private collection, England;
Florian Härb, London, from whom acquired. literature:None. exhibitions: Not
previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2011-013 Born in
Rotterdam, Van den Berg was a pupil of Johannes Zaccarias Simon Prey
(1749–1822), a leading portrait and decorative painter in that city.1 In the
1780s, he studied for three years in Antwerp where he received special recogni-
tion for his drawings after live models and casts; he also resided for a time
in Düsseldorf and Mannheim.2 In 1790, he returned to Rotterdam where he
established himself as a portrait painter and miniaturist. The same year he was
appointed ‘Corrector’, a judge and arranger of poses for live models, of the
Rotterdam Drawings Society, whose motto was Hierdoor tot Hooger (‘From Hereby
to Higher’).3 For the remainder of his career, he devoted himself to teaching.
His pupils included his son, Jacobus-Everardus-Josephus (1802–61), who also
became a professional painter and from 1844, director of the Teeken-Akademie in
the Hague.4 One of Van den Berg’s biographers makes special mention of the
finished portrait studies in black and red chalk that he made after his return
to Rotterdam; the present drawing is certainly one of them.5 Berg preferred
studying female models, usually posing two together: here, two elegantly
dressed women in a panelled interior focus their attention on an idealised
head, probably a variant of the head of an antique Venus.6 The seated
draughtswoman holds up her chalk-filled porte-crayon above an angled drawing-board,
intently appraising her subject. She engages with it much in the same way as
Hubert Robert did some thirty years earlier in his self-portrait with the
Faustina bust (cat. 17). The second woman appears to be commenting on the work
in progress. A portfolio leans against a table leg on the floor below.
Comparably attired women – possibly the same ones – are shown reading a letter
in a sheet by Van den Berg in a private collection.7 The present composition is
similar in style and format to several other chalk studies by the artist of the
1790s. It is especially close to his drawing of a female artist seated at a
table in the Rijksmuseum, Amsterdam (fig. 1). But instead of holding a
porte-crayon, this young woman operates a zograscope, an optical device invented
in the mid-18th century that included a magnifying lens to enhance an image’s
depth and relief; the subject of her scrutiny remains out of view.8 Another
comparable drawing, signed and dated 1791 (Royal Collection, Windsor Castle;
fig. 2), shows an elderly man, perhaps a drawing instructor, inspecting a
portrait study from a portfolio.9 He is seated at a table which is nearly
identical to that in the Bellinger example, but Berg shows him in a less formal
attitude, holding a long clay pipe and resting his feet on a portable stove, in
a manner reminis- cent of Dutch 17th-century genre subjects. This drawing, plus
a number of other figure drawings by Van den Berg preserved at Windsor, were
probably obtained as a group by Fig. 1. Gijsbertus Johannus Van den Berg, Study
of a Woman Seated at a Table, with an Optical Mirror, black and red chalk, 396
× 303 mm, Rijksmuseum, Amsterdam RP-T-1997-10 210 211
Fig. 2. Gijsbertus Johannus Van den Berg, A Connoisseur Examining
Drawings, 1791, black and red chalk, 407 × 284 mm, Royal Collection, RL 12865
King George III around 1810.10 Most are probably studies after live models set
in poses determined in advance in classes at the Rotterdam Drawings Society.11
Draped plaster casts were used when models were unavailable.12 As with the
Bellinger drawing, their style, with their sensitive employment of black chalk
and red accents for the skin, is strongly reminiscent of portrait drawings by
the English artist Richard Cosway (1742–1821) and no doubt register the prevailing
taste for English art in Rotterdam at the time.13 It is possible that Van den
Berg intended his figure studies to be engraved, perhaps for a series on the
art of drawing.14 Women artists did not begin to acquire the same privileges
and educational advantages as men until the end of the 19th century; as a
general rule they were denied membership of academies and were not permitted to
draw after nude or anatomical models.15 They were largely confined to producing
art in private studios and especially in aristocratic houses, where drawing
tutors were sometimes hired to supplement the education of young women.16 For
the most part, they were restricted to producing non-histor- ical,
non-mythological and non-biblical subjects, such as portraits and still-lifes,
as their exclusion from study of the live model and anatomy was thought to –
and generally did Fig. 3. Georg Melchior Kraus, Corona Schröter Drawing a Cast
of the ‘Eros of Centocelle’, 1785, watercolour, 380 × 315 mm, Klassik Stiftung
Weimar, KHz/01632 – prevent them from acquiring full mastery of the human
form.17 Instead, they studied sculptural models and espe- cially antique casts,
often ones deemed thematically appro- priate for their gender, such as the
ideal head featured in the Van den Berg drawing catalogued here. A comparable
situa- tion is depicted in a watercolour close in date by Georg Melchior Kraus
(1737–1806), then director of the Weimar drawing school, in which a beautiful
and smartly dressed young lady, Corona Schröter, draws after a cast of the
girlish son of Venus, the Eros of Centocelle (1785; Klassik Stiftung Weimar;
fig. 3), a statue known through Roman copies – namely, the example discovered
by Gavin Hamilton in 1772 in the outskirts of Rome and now in the Vatican –
after a lost bronze original by Praxiteles.18 The tradition of women drawing
from antique plaster casts in Holland, which began in the 17th century,19 was
well advanced by the first quarter of the 18th century, evidenced in Pieter Van
der Werff’s portrayal of a girl draw- ing after the Venus de’ Medici (1715;
Rijksmuseum, Amsterdam; p. 40, fig. 53). Van den Berg’s drawing, and others
like it, confirm that the practice developed further during the latter part of
the century, and became still more widespread in the 19th. The importance of
plaster casts in artistic training in 212 213 Holland at this time is
indicated by the activities of the Rotterdam Drawing School, but also by Van
den Berg’s own self-portrait of 1794, where a reduced model of the Dying
Gladiator and others are given prominence of place on the shelf directly behind
the artist (Museum Rotterdam).20 avl 1 For his life and work, see Van der Aa
1852–78, vol. 2, pp. 368–69; Thieme- Becker 1907–50, vol. 3, p. 387; Scheen
1981, p. 35. 2 Van der Aa 1852–78, vol. 2, pp. 368–69. 3 Ibid., vol. 2, p. 369;
For the society and his involvement therein, see Amsterdam 1994, pp. 2–3
[unpaginated]. 4 Ibid. 5 Ibid.; Amsterdam 1994, p. 3 [unpaginated]. 6 Amsterdam
1994, p. 3 [unpaginated]; Berg also oversaw private classes where students drew
after nude female models. 7 Ibid., pp. 3–4 [unpaginated], no. 9. 8 Bulletin van
het Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, p. 239, fig. 9. For an in-depth study of this
device, known in the 18th century as an ‘optical machine’, see Koenderink 2013,
pp. 192–206. 9 Puyvelde 1944, p. 20, no. 81, pl. 142; Amsterdam 1994, p. 2
[unpaginated]. 10 Puyvelde 1944, pp. 20–21, nos. 75–83. See also on-line
collections database: http://www.royalcollection.org.uk 11 For the society’s
use of posed models, see Amsterdam 1994, p. 2 [unpagi- nated]. 12 On the role
of casts, see Amsterdam 1994, p. 2 [unpaginated]. An intrigu- ing view of the
society’s drawing room, on the upper floor of the Delftse Poort in Rotterdam,
was published in Plomp 1982, pp. 11–12 (drawn by an 13 14 15 16 17 18 19 20
anonymous artist, 1780, whereabouts unknown). Casts of the Laocoön, the Apollo
Belvedere, and L’Ecorché (Figure of a Flayed Man), 1767 by Jean-Antoine Houdon
(1741–1828) are clearly visible. For the latter, see Washington D.C., Los Angeles
and elsewhere 2003–04, pp. 62–66, no. 1 (A. L. Poulet). It has also been
suggested that the finished quality of Van den Berg’s drawings are reminiscent
of engravings by George Morland (Amsterdam 1994, p. 3 [unpaginated]; Bulletin
van het Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, p. 239). As proposed by Florian Härb,
unpublished fact sheet on the Bellinger drawing, c. 2011. For essential reading
on the subject of women artists from the Renaissance to the mid-20th century,
see Los Angeles, Austin and elsewhere 1976–77 and especially the authors’
introductory essay, pp. 12–67. See also Goldstein 1996, pp. 61–66. A very small
number of women artists managed to get elected to the French academy including
Adélaïd Labille-Guiard (1749– 1803) and Elisabeth Vigée Lebrun (1755–1842) in
1783. But from 1663 to the dissolution of the Academy in 1793, only fourteen in
total were accepted (Montfort 2005, pp. 3, 16, note 8). The French Salon in
Paris was not open to non-Academy members until 1791, when women were permitted
to exhibit their work. Goldstein 1996, pp. 62–64. See Los Angeles, Austin and
elsewhere 1976–77, especially pp. 13–58; Goldstein 1996, pp. 62–63. Söderlind
1999, p. 23. For the statue, see Spinola 1996–2004, vol. 2, p. 61, fig. 11, p.
63, no. 85; Piva 2007, pp. 48–49, fig. 7. See for example, A Young Woman Seated
Drawing, 1655–60, by Gabriel Metsu (1629–67) in the National Gallery, London
(NG 5225; Waiboer 2012, pp. 205–06, A-62) and A Lady Drawing, c. 1665, by Eglon
van der Neer (1635/36– 1703) in the Wallace Collection, London (inv. no. P243;
Schavemaker 2010, p. 462, no. 29). Dordrecht 2012–13, no. 64A (F. Meijer). 31.
Wybrand Hendriks (Amsterdam 1744–1831 Haarlem) The Haarlem Drawing College 1799
Oil on canvas, 63 × 81 cm Signed and dated lower left: ‘W. Hendriks Pinxit
1799’ provenance: Wybrand Hendriks (1744–1831); his sale, R.W.P. de Vries &
C.F. Roos, Amsterdam, 27–29 February 1832, lot 30; private collection, Paris;
Adolph Staring (1890–1980), Vorden; given to the Teylers Museum in 1987 by Mrs.
J.H.M. Staring-de Mol van Otterloo. literature: Knoef 1938, repr.; Knoef 1947a,
pp. 11–13; Staring 1956, p. 174, fig. LIV; Van Regteren Altena 1970, pp. 312,
316; Praz 1971, p. 37; Van Tuyll 1988, pp. 17–18, fig. 21; Haarlem 1990, pp.
35–36. exhibitions: Rotterdam 1946, p. 8, no. 13; London 1947, p. 4, no. 2;
Amsterdam 1947–48, p. 8, no. 10; Haarlem 1972, pp. 25–26, no. 29, fig. 44;
Munich and Haarlem 1986, pp. 96–97, no. 13. 214 215 Teylers Museum, Haarlem, KS
1987 002 exhibited in haarlem only In this painting we have been admitted to a
gathering at the Haarlem Drawing College. In the 18th and early 19th century
every self-respecting Dutch town had its own drawing ‘college’ or ‘academy’. It
was where artists and wealthy amateurs met, drew together from the nude or draped
model, and where they looked at drawings together during so-called art viewings
or ‘kunstbeschouwingen’. In 1799, the year this picture was painted, the
Haarlem Drawing College had twenty-six working (as opposed to honorary)
members, and this is very probably a group portrait of them and their committee
(leaving aside the boy playing marbles on the left, who may be the son of one
of the members). The setting is a house that the Haarlem artists rented in
Klein Heiligland. The question that immediately arises is: ‘who’s who?’
Although the label listing the sitters that was still with the painting at the
sale of Hendriks’s estate in 1832 is no longer preserved, many of the figures
can nevertheless be identified with a fair degree of certainty. The two in the middle
are very probably the secretary, Jan Willem Berg who gestures to the viewer’s
left, and the balding treasurer, Pieter S. Crommelin. On the far right, beneath
the bas-relief on the wall, is Hendriks himself.1 The man in the left
background, pointing at one of the plaster casts on the mantelpiece, has been
recognised as Adriaan van der Willigen (1766–1841), author and art historian
avant la lettre.2 Prominently displayed against the chimneybreast are various
plaster casts. The large head of the famous Apollo Belvedere in the middle is
the most eye-catching (see p. 26, fig. 18). To the right of it is the classical
Callipygian Venus and to the left, the crouching Nymph Washing Her Foot after
Adriaen de Vries (1556–1626).3 Of the two male casts seen frontally, that on
the right is after the classical Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32), while
that on the left is probably after a Mercury by François Duquesnoy
(1597–1643).4 Hanging on the wall above Hendriks’s head is Vulcan’s Forge, also
after Adriaen de Vries, and in the corner on the left is the life-sized cast of
another classical statue: the Venus de’ Medici (see p. 42, fig. 56).5 The casts
displayed, therefore, reproduce as a whole or in part, statues from classical
antiquity and from 16th- and 17th-century Netherlandish sculpture, which in
turn reference the Antique. The casts depicted belonged to the Haarlem Drawing
Academy, the forerunner of the College. Hendriks had bought them and the rest
of the inventory in 1795 to help pay off the academy’s debts, and he donated
everything to the Drawing College when it was founded the following year. The
prime mover behind the gift was probably the Teylers Foundation, a Haarlem body
that had been set up in 1778 to stimulate the arts and sciences. The foundation
subsidised art education in Haarlem for decades, and Hendriks was the curator
of its art collection, which was housed in the Teylers Museum.6 The fact that
these plaster casts were transferred immediately to the Drawing College
indicates how impor- tant they were for a society that promoted drawing, and
this is confirmed by the prominence they are accorded in this group portrait.
On the other hand, it should be appreciated that the supremacy of classical art
and the rules of classicism, which in fact had never been applied very strictly
in the Dutch Republic, were no longer so sacred in the Netherlands by 1800.
Members of some drawing academies often argued that genres like landscape and
scenes from everyday life in which nature was imitated literally and not
idealised, should be valued as highly as history paintings, which were
generally inspired by classical or neo-classical principles. The idea that
Adriaan van der Willigen is the man point- ing at the casts is intriguing. He
was a learned amateur and the best-versed person in the gathering when it came
to the history of the arts. He was very well aware how much they owed to the
example of ancient Greece and Rome. A few years after this painting was
executed he wrote an essay in the Verhandelingen uitgegeven door Teyler’s
Tweede Genootschap (Discourses published by Teylers Second Society) discussing
‘the cause of the lack of superior history painters in the Netherlands, and the
means suitable for their training’. He praised his countrymen for their colouring,
chiaroscuro, fidelity to nature and brushwork, yet accused them of impre- cise
drawing, inelegant compositions and bad taste. What, Van der Willigen asked,
could be done to overcome these defects? To draw from the ‘purest casts in
plaster of the finest classical statues, busts and bas-reliefs’! And he then
gave a list of the well-known canon of classical sculpture, which included the
Apollo Belvedere, the Laocoön, the Venus de’ Medici and the Belvedere Torso.7
In short, he was utterly convinced of the importance of classical sculpture and
its formative nature. For him, it was clearly still of paramount importance. mp
1 2 3 4 5 6 7 For the various identifications see Haarlem 1972, p. 25 and
Haarlem 1990, pp. 35–36. The Van der Willigen identification was made by A.
Staring (1956, p. 174) and has been adopted by other authors (see above, note
1). According to Staring, some of the portraits were added later, when the
composition had already been determined, including that of Van der Willigen,
who was not yet living in Haarlem in 1799. Van der Willigen is best known today
for writing a comprehensive collection of biographies of artists living in the
Netherlands from 1750 onwards, together with Roeland van Eynden: Van Eynden and
Van der Willigen 1816–40. For the Callipygian Venus see Haskell and Penny 1981,
pp. 316–18, no. 83; Gasparri 2009–10, vol. 1, pp. 73–76, no. 31 and repr. on
pp. 267–69. For the Nymph Washing Her Foot after Adriaen de Vries: Amsterdam,
Stockholm and elsewhere 1998, pp. 131–33, no. 10. For Duquesnoy’s Mercury, of
which there are several versions, some of them slightly different, see
Boudon-Mauchel 2005, pp. 264–70. For the Farnese Hercules see Haskell and Penny
1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1, pp. 208–13.
For the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88, and
for De Vries’ Vulcan’s Forge see Amsterdam, Stockholm and elsewhere 1998, pp.
187–89, no. 27. The plaster casts stood in the top front room of the house in
Klein Heiligland. For a description of the house and of Hendriks’ involvement
with the casts, see Sliggers 1990, no. 26, pp. 16–17. Van der Willigen 1809, p.
282 (colouring etc.), p. 298 (plaster casts). 216 217 32. Woutherus
Mol (Haarlem 1785–1857 Haarlem) The Young Draughtsman c. 1820 Oil on canvas
52.3 × 42.6 cm provenance: A. Pluym; his sale, R.W.P. de Vries, A. Brondgeest,
C.F. Roos, Amsterdam, 24 November 1846, p. 7, no. 22; sold to Gerrit Jan
Michaëlis (1775–1856) for the Teylers Foundation (f 400,-) literature: Van Eynden
and Van der Willigen 1816–40, vol. 4, p. 244; Huebner 1942, p. 69, fig. 63;
Knoef 1947b, pp. 8–10, repr.; Van Holthe tot Echten 1984, pp. 60–63, fig. 4;
Jonkman 2010, p. 35; Geudeker 2010, p. 60, p. 78, fig. 74. exhibitions:
Amsterdam 1822, no. 222; Moscow and Haarlem 2013–14, p. 50 (not numbered).
Teylers Museum, Haarlem, KS 015 exhibited in haarlem only A young
draughtsman sitting by an open window is engrossed in his work. He seems to be
copying the object leaning against the wall in front of him, but whether it is
a drawing or a bas-relief is not entirely clear. The tree visible through the
window and the building beyond it stand in a garden or by a narrow canal-side
street. The colourful flowers in a vase on the windowsill bring a touch of that
outside world indoors. The leaded windows, ceiling beams, whitewashed walls and
above all the ornately carved cup- board show that this is an old Dutch
interior. Standing on the cupboard are imposing plaster casts of famous
classical statues: the Dancing Faun, the Venus de’ Medici (p. 42, fig. 56) Fig.
1. Woutherus Mol, Painter and Draughtsman in a Studio, c. 1820, oil on canvas,
43.5 × 37 cm, present whereabouts unknown and an unidentified statue of the
Apollo Citharoedus type.1 It is difficult to make out whether the other objects
also record classical prototypes: a bas-relief, a baby’s head, a couching lion
and a vase with prominent handles. The interior is bathed in a serene calm, so
much so that the song of the little bird in the cage high up on the wall is
almost audible. One scholar recently put forward a fascinat- ing argument that
the picture is a commentary on the Classicist view of art.2 If the tree and the
bouquet of flowers are interpreted as ‘nature’, and the plaster casts as
‘classical antiquity’, then the young draughtsman is occupying a special
position, mid-way between them. According to that view of art, nature had to be
idealised with the aid of beautiful examples, and such examples were available
in abundance in classical antiquity. Statues like the Venus de’ Medici, the
Apollo Belvedere and the Dancing Faun had been for centuries part of the canon
of the most treasured sculptures. At the same time, however, Mol is remaining
true to his Dutch origins, for he has very clearly set The Young Draughtsman in
a traditional Dutch interior. A similar painting by him, Painter and
Draughtsman in a Studio (fig. 1), is again set in a typical 17th-century Dutch
space, with a wooden cross window, ‘Kussenkast’ cupboard, and a massive table
with ball feet. It too contains a prominent display of classical sculpture.3
The apprentice draughtsman is copying a plaster cast of the Dancing Faun, and
on the cupboard are casts of the same Apollo Citharoedus that we see in our
picture, a reproduction of the so-called Priestess in the Capitoline Museum,
and another of the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32 and cat. 7, fig. 3).
Standing beside the cupboard there is even a copy after a classical vase,
probably the famous Borghese Vase.4 Deliberately or not, the combination of
classical art and a 17th-century Dutch setting relates Mol’s two studio scenes
directly to the debate about the ‘national taste’ being con- ducted in the
Netherlands around 1800 and for some decades 218 219 thereafter. It
was felt that Dutch painting was in a deplorable state: essays were written
about how standards could be raised and competitions were held to encourage
improve- ments. Classical sculpture was regularly invoked: it was only logical
that Dutch painters were lagging behind, it was said, given the absence of
classical statues in Holland, and drawing academies should therefore acquire
copies after antique statues (see cat. 31), and so on.5 Reading between the
lines, though, one sees that the same writers were often great admirers of 17th-century
Dutch painting. The painters of that Golden Age had paid little heed to
Classicist art theory; they imitated nature and did not idealise it. Mol’s two
studio scenes contain elements that can be associated with both artistic
theories. He was very much at home in both worlds. Born in Haarlem, he had
received an old- fashioned Dutch training with the landscapist Hermanus van
Brussel (1763–1815). In 1806, however, he went to Paris, where he worked for
several years, partly as an élève in the framework of the new arts policy of
King Louis Napoleon of Holland (1778–1846), apprenticed to none other than
Jacques Louis David (1748–1825). In other words, classicist views about art
were well-known to him. 33. Anonymous, Danish School, 19th century Two Artists and
a Guard in the Antique Room at Charlottenborg Palace c. 1835 Oil on canvas,
38.6 × 33.9 cm provenance: Private collection, Denmark; Thomas Le Claire
Kunsthandel, Hamburg with Daxer & Marschall, Munich in 2003 (as Knud
Andreassen Baade), from whom acquired. literature: Zahle 2003, p. 271, fig. 117
(as Julius Friedlænder (?)); Copenhagen 2004, pp. 110–11, no. 8, fig. 16 (as
unknown artist); Fuchs and Salling 2004, vol. 3, pp. 194–95, repr. (as unknown
artist). 1 2 3 4 5 mp Haskell and Penny 1981, respectively pp. 205–08, no. 34
(Dancing Faun), pp. 325–28, no. 88 (Venus de’ Medici). T. van Druten, in Moscow
and Haarlem 2013–14, p. 50. Mak van Waay sale, Amsterdam, 26 May 1964, lot 366.
Haskell and Penny 1981, pp. 205–08, no. 34 (Dancing Faun), pp. 229–32, no. 46
(Farnese Hercules), pp. 314–15, no. 81 (Borghese Vase). For the Priestess in
the Capitoline Museum see Stuart Jones 1912, p. 345, no. 6, pl. 86; Helbig
1963–72, vol. 2, no. 1227. Koolhaas-Grosfeld and De Vries 1992, pp. 119, 128.
exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no.
2003-028 The Antique Room of the Copenhagen Academy of Fine Arts, housed in
Charlottenborg Palace, was a popular choice of subject for 19th-century
Scandinavian art students, such as H. D. C. Martens (1795–1864), Martinus
Rørbye (1803–48) and Christian Købke (1810–48). The Academy was founded in 1754
by King Frederik V, but an informal art school had been established in 1740 by
his predecessor, Christian VI, so that there was already a small collection of
casts for the students to study, including one of the Laocöon, but with the
older son missing.1 The Academy’s programme was modelled on those of others
across Europe, especially that in Paris, in which plaster copies after antique
models served as the basis for the instruction of artists; in some cases casts
were even valued above the originals because they made details more readily
accessible to copyists. The expansion of the collection was primarily due to
the efforts of three mem- bers of the Academy: a professor of sculpture,
Christoph Petzholdt (1708–62), who contributed twenty-five casts and restored
many others that had suffered from being moved too often;2 the sculptor and
Academy Fellow Johannes Wiedewelt (1731–1802), who in 1758 sent three large
chests of casts back to Denmark from Rome;3 and the painter and sculptor
Nicolai Abildgaard (1743–1809), who was appointed Director in 1789 and
purchased several casts, including Germanicus and the Belvedere Torso, and the
missing son of the Laocoön.4 The cast collection focused mainly on Roman
copies, and it was not until the first decades of the 19th century that casts
of Greek originals were added.5 This was characteristic of academies across
Europe, which began to recognise the value of the Greek originals over their
Roman derivations, thus diverging from Italian academic tradition. In the
painting on display, an artist in his work-robe holds up a plumb-line to check
the vertical axis of the cast that he is sketching. He draws his copy on a
sheet attached to a drawing-board that rests on his lap, and his portfolio
crammed with other drawings leans against a stool in front of him, along with
his discarded top hat and cravat. A fellow artist considers his handiwork, but
they are about to be interrupted by a museum guard bearing a scroll. When it
was acquired in 2003, this canvas was attributed to the Norwegian artist, Knud
Andreassen Baade (1808–79), whose painting of the same room now belongs to the
National Museum of Art, Architecture and Design in Oslo (fig. 1), and also
features a draughtsman at work, holding up a stylus to check the horizontal
reference line of his subject. The depic- tion of the room in the Oslo
painting, which is dated 1828, just precedes its renovation later that year
when, under the direction of the architect C. F. Hansen (1756–1845), the walls
were plastered smooth, as seen in the painting on display here.6 A comparison
of the two canvases shows the way the room was modified to accommodate the
growing collection, as casts were shifted around according to aesthetic,
thematic or chronological principles. In the Oslo painting, the Borghese
Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cats 16, 23–24) is placed in the extreme left
foreground, creating a diagonal perspective. The same technique is used in the
present painting, though it is now a statue of Perseus that anchors the work,
with his outstretched hand grasping a missing Medusa’s head. The Perseus was
created in 1801 by Antonio Canova (1757–1822), Fig. 1. Knud Andreassen Baade,
Scene from the Academy in Copenhagen, 1828, oil on canvas, 32.4 × 23.8 cm, The
National Museum of Art, Architecture and Design, Oslo, inv. no.
NG.M.01589 220 221 Fig. 2. Relief of an Eagle with a Wreath,
2nd century ad, marble, church of Santi Apostoli, Rome who donated a cast of it
to the Academy in 1804, thereby becoming a member. Another modern sculpture
hangs on the upper wall at left, which is a roundel with an allegory of
Justice, in which Nemesis reads a list of the guilty to Jupiter, who sits in
judgment. This was the work of Bertel Thorvaldsen (1770–1844), the leading
sculptor in Europe after Canova’s death, who had been trained in the Academy.7
Also modern is the bust of Frederik V at the end of the room by the sculptor J.
F. J. Saly (1717–76).8 The remaining casts in the room are of antique statues
and reliefs, and extant inventory lists attest to the dates of their
acquisition.9 The relief of the eagle in a wreath, after the original in the
church of Santi Apostoli in Rome (fig. 2), is displayed on the wall above a
reduced copy of a frieze, taken from the Parthenon, both of which were
transferred to this southern wall as part of the 1828 reconstruction.10 Facing
the viewer and leaning on a column is a reproduction of the Marble Faun (fig.
3). This was a relatively overlooked sculp- ture, more valued for its
conjectural attribution to Praxiteles Fig. 3. Marble Faun, Roman copy, c. 2nd
century ad, after a Greek original of the 4th century bc, marble, 170.5 cm (h),
Capitoline Museums, Rome, inv. no. S.739 Fig. 4. Germanicus, Roman, c. 20 ad,
after a Greek original of the 5th century bc, marble, 180 cm (h), Louvre,
Paris, inv. no. MA1207 than for its aesthetic significance. It did not achieve
world- renown until the publication of The Marble Faun by Nathaniel Hawthorne
in 1860, after which it became one of the highlights of the Capitoline
Museum.11 Behind the Faun stands a cast of Germanicus (fig. 4), which, in
contrast to the Faun, was one of the most revered antiquities almost from its
discovery in the mid-17th century.12 Casts of it were commissioned for
collections across Europe, including Florence, Mannheim, Madrid and the Duke of
Devonshire’s collection at Chatsworth in Derbyshire. The identity of this
figure is uncertain, and it has been thought by different scholars to represent
Augustus, Brutus, Mercury or an anonymous Roman general; however, its
identification as Germanicus, nephew of Tiberius, has persisted since 1664.13
Between Perseus and the Faun is the seated figure of Mercury, cast after the
bronze original discovered in Herculan- eum in 1758 (fig. 5). It was one of the
most celebrated archaeo- logical discoveries of the 18th century, and its
presence is critical to the dating of the Bellinger painting because the cast
was only acquired by the Academy in 1834, thus provid- ing a terminus post quem
and supporting for it a date of c. 1835.14 This precludes the authorship of
Baade, who left Copenhagen in 1829 and spent the early 1830s travelling in his
native Norway. In 1836 he followed his mentor, the landscapist J. C. C. Dahl
(1788–1857), to Germany, where he lived until his death in 1879.15 Jan Zahle
tentatively proposed that the painter was Julius Friedlænder (1810–61),16 who
is also thought to be the artist of another painting of the Antique Room in Charlottenborg,
dated 1832 (current whereabouts unknown).17 To commemorate the 250th
anniversary of the 222 223 Fig. 5. Seated Mercury, Roman
copy, 1st century ad, after a Greek original of the late 4th century or early
3rd century bc, bronze, 105 cm (h), Museo Archeologico Nazionale, Naples, inv.
NM 5625 Academy in 2004, the Bellinger painting was presented in the
accompanying exhibition catalogue as by an unknown artist,18 and until further
evidence comes to light, it is prudent to maintain its anonymity. While the
Academy continues to function, the cast collection was relocated and dispersed
several times; first in 1883, due to lack of space, to a new building. The
pieces by Thorvaldsen were transferred to his eponymous museum, founded during
his lifetime in 1839 and opened to the public in 1848. In 1895 the rest of the
collection was absorbed into the newly created Royal Cast Collection, which
shared a building with the newly founded National Gallery of Art, in
Copenhagen.19 These casts were neglected over the subse- quent years, as
interest in plaster copies waned in favour of original and unique works of art.
When the museum under- went renovations from 1966 to 1970, the majority of the
casts were packed away and allowed to deteriorate. Only in 1984, due to the
combined efforts of concerned art historians, classical archaeologists and
artists, were thousands of casts rescued and restorations begun. They were
rehoused in the West India Company Warehouse, Fig. 6. Antique Room in
Charlottenborg Palace recreated in 2004, curated by Pontus Kjerrman and Jan
Zahle, with sculptor Bjørn Nørgaard originally a storehouse for products of the
slave trade, and approximately 2,000 casts can be seen on display there. The
Faun and Germanicus both belong to this collection, while Canova’s Perseus was
transferred to the Ny Carlsberg Glyptotek. However, in 2004, as part of the
anniversary exhibition, replicas of these casts were reunited in the Antique
Room of the Palace, just as seen in numerous 19th-century paintings, such as
this one. A visitor in 2004, therefore, could stand in the very same spot as
our anony- mous painter, and witness a nearly identical scene (fig. 6).
literature:None. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 1997-020 In this striking candlelight view of a
19th-century bourgeois interior by the little-known artist, Desflaches,1 a man
examines a work of art displayed on an easel but hidden from our view. In one
hand he holds an oil lamp or candle, illuminating the corner of the room in
soft, golden light and casting strong and dramatic shadows. It is exactly
10:30, according to the clock on the mantle, and the visitor, proba- bly a
connoisseur, has called on the artist at home, presum- ably to inspect his
latest work. He has removed his hat and cloak, placed on the chair on the left,
and with a pipe in hand, assumes a relaxed yet concentrated stance. Viewing and
producing art by candlelight is a tradition that hearkens back to the
Renaissance when artist-theorists, Leon Battista Alberti (1404–72), Leonardo da
Vinci (1452– 1519), Benvenuto Cellini (1500–71) and others, advised students to
draw sculpture by artificial light, to enhance the effects of relief,
three-dimensionality and shadow.2 Baccio Bandinelli put this concept into
practice, and drawing by candlelight was central to artistic training at his
academy (see cats 1–2). Others followed suit including Jacopo Tintoretto and
his followers who used an oil lamp when making studies after casts of
Michelangelo’s Medici tomb figures and other models ‘so that he could compose
in a powerful and solidly modelled manner by means of those strong shadows cast
by the lamp’.3 The practice of drawing after models, especially casts, at night
continued in the 17th century, as seen in Rembrandt’s small etching, Man
Drawing from a Cast, (c. 1641).4 Nocturnal viewings became common in the late
18th century; white casts were popularly studied by flickering torchlight
because it made them appear animated.5 Indeed, the spectators’ delight is clearly
evident in William Pether’s mezzotints, Three Persons Viewing the Gladiator by
Candlelight (1769) 6 and An Academy (1772; cat. 24), both after Joseph Wright
of Derby. The female model in the Bellinger painting is a reduced plaster cast
of the Crouching Venus – a Hellenistic original of which several antique
variations are known (fig. 1).7 The figure was enormously popular, especially
in the 17th and 18th centuries when many artists produced imitations of her,
the most celebrated being the marble completed in 1686 by the French sculptor,
Antoine Coysevox (1640–1720), also reproduced in bronze.8 She is generally
believed to represent Venus in, or emerging from, the bath, her head turned
sharply to the right and her arms sensuously and protec- tively crossing her
body, suggesting that her ablutions have been interrupted. In Desflaches’
canvas the Crouching Venus has been brightly lit and given primacy of place,
suggesting she may be the subject of the canvas displayed on the easel; her
animation is enhanced by the direct gaze with which she engages the viewer.
While the cast in our painting probably ultimately derives from the antique
marble in the Uffizi, it seems to have been idealised and modified, to reflect
a dis- tinctively Coysevesque sensibility, evidenced in the refined and
delicate features of her face.9 Other identifiable works in the Desflaches
composition include a second plaster cast – a male portrait bust – partly
visible on the covered table in the background, to the visitor’s right. He probably
derives from the marble head of a young man in the Museo Pio-Clementino in the
Vatican (Roman, 1st Fig. 1. Crouching Venus, Roman copy, 1st c. ad after
Hellenistic original, marble, 78 cm (h), Uizi, Florence, inv. no. 188 1 2 3 4 5
6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 rh Zahle 2003, p. 272. For the history of
the Copenhagen Academy see Meldahl and Johansen 1904. Saabye 1980, p. 6 and
Zahle 2003, p. 272 Zahle 2003, p. 272. Jørnæs 1970, p. 52. Zahle 2003, p. 275.
Jørnæs 1970, p. 58. Helsted 1972, p. lxxxvi. Copenhagen 2004, p. 201 (S85). An
inventory from 1809 is especially extensive (Fortegnelse over Marmor-og
Gibs-Figurerne, samt Receptions-Stykkerne og flere Konstsager i Den Kongelige
Maler-, Billedhugger- og Bygnings-Academie paa Charlottenborg, partially
transcribed in Zahle 2003, p. 269) and records were kept for several years by
the art historian Julius Lange (see, for example, Lange 1866). Copenhagen 2004,
p. 198 (S51) and p. 199 (S61). Haskell and Penny 1981, p. 210; La Rocca and
Parisi Presicce 2010, pp. 446–51, no. 5. Haskell and Penny 1981, p. 219. Ibid.,
p. 220. Copenhagen 2004, p. 200 (S72). Thieme-Becker 1907–50, vol. 2, p. 297.
Zahle 2003, p. 271. Copenhagen 2004, p. 110, no. 7. Ibid., p. 110, no. 8. Zahle
2003, p. 278. 34. Desflaches (Christian name unknown; probably Belgian, fl.
19th century) The Connoisseur c. 1850 Oil on canvas, 60 × 50 cm Signed recto
lower right, Desflaches provenance: Galerie Fischer-Kiener, Paris; property of
a European Foundation; their sale, Sotheby’s, New York, 26 October 1990, lot
144; Didier Aaron Inc., New York; Harry Bailey, New York; Didier Aaron Inc.,
New York; Their sale, Christie’s, New York, 22 May 1997, lot 116, from whom
acquired. 224 225 Fig. 2. Head of Lucius or Gaius
Caesar, or the Young Octavian (Augustus), 52 cm (h), marble, possibly end of
the 1st c. ad or later, Museo Pio-Clementino, Vatican Museums, Rome, inv. 714
Fig. 3. Godfried Schalcken (1643–1706), An Artist and a Young Woman by
Candlelight, oil on canvas, 44 × 35 cm, private collection, New York
century ad; fig. 2).10 This bust, believed to be either one of the brothers,
Lucius or Gaius Caesar, or a rare depiction of the young Octavian before he
became Emperor Augustus in 27 bc,11 enjoyed considerable popularity and was
copied by many artists, particularly in the 19th century. Its authen- ticity
has occasionally been doubted – at one point it was even attributed to the
neo-classical sculptor, Antonio Canova (1757–1822) – but the confirmation of
its discovery by Robert Fagan in the ruins of Tor Boacciana (Ostia) in 1800–02,
supports its antique origin despite it being consid- erably reworked.12 In
addition to works deriving from antique sources are others that directly
reference Dutch art of the 17th century. Immediately behind the Crouching Venus
is what appears to be a pencil drawing after Rembrandt’s celebrated etching,
Self Portrait Leaning on a Stone Sill (1639).13 It is in the same direction as
the etching though the line is faint and the lower half of the figure, with the
distinctively posed left arm, has been omitted altogether, suggesting the
source was either a later impression of the print or a further, reduced copy of
the original. To the right of the Rembrandt, is a moonlit landscape strongly
reminiscent of the work of Aert van der Neer (1603/4–77). On the opposite wall
is a portrait of a man, possibly by, or at least in the manner of, the
portraitist and genre painter, Frans Hals (1582/83–1666). Partly obscured in
shadow below appears to be a drawing, possibly by Jan van Goyen (1596–1656), or
one of his contemporaries. As the distinctive trappings would suggest, the
artist may well be Dutch, and this is supported further by a com- parison with
a painting by Godfried Schalcken (1643–1706) in a private collection, New York
(fig. 3), which may have been known to Desflaches. A pupil of Gerrit Dou
(1613–75), Schalcken specialised in night scenes; here a man, drawing in hand,
presumably the artist, with his female pupil, points suggestively to a small
but lively model of the Crouching Venus, animatedly illuminated by an oil lamp;
clearly there is more 226 than just a drawing lesson at play here. An antique
head lies dormant, face-up on the table below. By the 19th century, the Antique
was readily available, even to amateur artists, via plaster casts, as
Desflaches’ composition suggests. Ancient sculpture could now readily be
combined with art of different types and in diverse settings, both on the
continent – seen, for instance, in the work of Woutherus Mol (cat. 32), which
also features Dutch and antique motifs – and in England (cat. 35). As the canon
became more diffuse, the standing of the Antique also declined, as other
styles, historical and modern, became increasingly more dominant as the century
progressed. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 avl The painting bears that name at
lower right. In the Christie’s catalogue, New York, 22 May 1997, lot 116, the
initial of the first name is given as ‘P’, without explanation, and the
nationality, French/Belgian. A painting attributed to the artist, Still Life
with Brass Oil Lamp, Skeleton Key and Pitcher, oil on canvas, 33 × 29.2 cm, was
sold New Orleans Auction Galleries, 20 July 2002, lot 324 (as P. Desflaches).
Weil-Garris 1981, pp. 246–47, note 39; Roman 1984, p. 83; Hegener 2008, p. 401.
Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Ridolfi 1984, p. 16. White and Boon 1969, vol. 1,
p. 68, no. B130, vol. 2, p. 119, repr. Borbein 2000, p. 31 (see also note 23
listing further bibliography on night- time viewing of casts). Clayton 1990, p.
236, no. 154, P3. Haskell and Penny 1981, pp. 321–23, no. 86, fig. 171. The
authors catalogue the example in the Uffizi, Florence, but discuss the other
extant versions as well. See Lullie 1954, pp. 10–17 and Havelock 1995, pp.
80–83. Haskell and Penny 1981, pp. 40, fig. 22, 323. The marble version is in
the Louvre and the bronze, at Versailles (Souchal 1977–93, vol. 1, pp. 191–92).
The cast in the painting bears a striking resemblance to one preserved in the
Salzburg Museum, Austria, another idealisation of the original in the Uffizi,
see http://www.salzburgmuseum.at/972.0.html It was in the collection of the
painter, Anton Raphael Mengs (1728–79). In 1782, the Court of Saxony acquired
it, among other casts from his estate, for the Dresden Academy of Art. Spinola
1996–2004, vol. 2, pp. 131, fig. 22, 137–38, no. 123 with previous
bibliography. Spinola 1996–2004, vol. 2, p. 137. Ibid. White and Boon 1969,
vol. 1, pp. 9–10, no. B21, vol. 2, p. 10, repr. 227 35. William Daniels
(Liverpool 1813–1880 Liverpool) Self-Portrait with Casts: The Image Seller c.
1850 Oil on canvas, feigned circle, 43.3 × 43.3 cm provenance: Richard S.
Timewell, Tangier, by descent; Timewell family sale, Brissonneau &
Daguerre, Paris, 15 June 2005, lot 56; W. M. Brady & Co., New York, 2005,
from whom acquired. literature: Bowyer 2013, pp. 49–50, fig. 36. exhibitions:
New York 2005b, no. 13, repr.; Compton Verney and Norwich 2009–10, pp. 12–16,
fig. 9, p. 98. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2005-016 Born into a
modest working-class family in Liverpool, Daniels was apprenticed to his
father, a brick maker, loading and arranging new stock; in his spare time, he
drew faces on the bricks and carved and modelled small figures in wood and
clay.1 His artistic talents were recognised by Alexander Mosses (1793–1837), a
local painter, who encouraged him to take evening classes in drawing at the
Royal Institution in Liverpool. The young Daniels was awarded first prize for a
large study ‘in black and white’ of the Dying Gladiator ‘drawn from the round’
which, allegedly, Mosses ‘begged ... off the lad and had ... framed’.2 Daniels
later became apprenticed to the painter but was confined to menial tasks, and
could only paint at night, slyly returning the cleaned brushes in the morning.3
The resulting night scenes or ‘candlelight pic- tures’, primarily portraits and
genre subjects, would become his trademark and he achieved considerable local
success, exhibiting at the Liverpool Academy, Post Office Place and the
Liverpool Society of Fine Arts, and then in London at the Royal Academy in
1840, 1841 and 1846.4 He became known as the ‘Liverpool Rembrandt’ or the
‘English Rembrandt’, according to one source reputedly quoting John Ruskin.5
Daniels also shared with the Dutch master a life-long pre- occupation with his
own image; ‘many of his finest painting were portraits of himself’, as noted in
one of his obituaries.6 And like the youthful Rembrandt he was particularly
fond of depicting those on the fringes of society with whom he seemed to share
a certain affinity, often representing himself in the guise of the urban poor –
beggars, gypsies, brigands and others.7 Described by one biographer as ‘of
fine, manly form, very handsome’ with ‘a profusion of jet black curly hair’ and
a swarthy complexion, it was sometimes said of him that there was ‘gypsy blood
in his veins’ and that wear- ing earrings only enhanced his ‘resemblance to the
wander- ing tribe.’8 In the striking example seen here, Daniels has fashioned
himself as an Italian travelling salesman of plaster casts, a popular subject
for Victorian artists.9 With the increasing demand for images in museums,
schools and academies but also as adornments in ordinary homes, celebrated 228
sculptures from antiquity, together with portraits of modern worthies, were
mass-produced in plaster, generally in reduced form.10 The technique was simple
and inexpensive: a mixture of marl and clay was poured into a slip mould of
plaster of Paris that absorbed the water, leaving a thin layer of clay inside
the mould that could be easily removed, lightly fired, producing a brittle but
light-weight and easily portable cast.11 Favourite antique and contempo- rary
subjects – including the Farnese Hercules and the Apollo Belvedere as well as
busts of Byron, Milton, Napoleon and Queen Victoria – were now displayed and
offered for sale together.12 While English firms had been manufacturing casts
since the 18th century, the market became increasingly dominated by Italian
makers, particularly from around Lucca who organised large groups to sell their
wares on the streets of London and beyond.13 Having considerable reach through
their travels, these vendors played a seminal role in disseminating knowledge
of the iconic works of antiquity through all classes of society.14 The British
public regarded the image-makers and sellers, men and boys from forty to
fifteen with curiosity and with some suspicion.15 One of the earliest images of
them is an amusing caricature by Thomas Rowlandson (1757–1827) in the Victoria
and Albert Museum, London (c. 1799, fig. 1). Appearing dishevelled with
unbuttoned shirt and jacket, the salesman peddles his wares to an enthusiastic
family while a woman watches a peep show in the background. A slightly later
example, accompanied by the title, Very Fine. Very Cheap, was etched by John
Thomas Smith (1766–1833), known as ‘Antiquity Smith’, the writer, poet and
Keeper of Prints and Drawings at the British Museum from 1816 to 1833 (fig.
2).16 On the seller’s board, a reduced cast of the Farnese Hercules (see p. 30,
fig. 32) has been relegated to the background, obscured by a cast of a Roman
vase. With a slightly sinister glint in his eyes, this figure was included in
Smith’s Etchings of Remarkable Beggars, Itinerant Traders and other Persons,
published in London, 1815. William James Muller (1812–45) produced a more
sympathetic, even romantic portrayal of the itinerant cast seller in 1843 (fig.
3). More closely allied to the Daniels’ 229 Copyright: © Christie’s
Images Limited (2012) painting than the others, this hawker is less an object
of derision than one of wonder, even admiration.17 In the present example,
Daniels, dressed in modest work- man’s attire and silhouetted against a dark
backdrop, bal- ances on his head a board fully loaded with a casts of every
shape and size, securing it with one hand. Many were based on examples in his
own collection, probably used in his studio to prepare accessories in his
portrait commissions. Immediately recognisable in the centre right is the bust
of Shakespeare, whom Daniels particularly admired. He was said to have a deep
familiarity with the poet’s work and could identify the exact source for every
quotation, ‘without a moment’s hesitation’.18 In fact, busts of the bard are
listed in Daniel’s posthumous sale of 1880, one of which is likely to be the
example seen here.19 With the other arm, he cradles a bust of Homer, the blind
epic poet of the Iliad and the Odyssey, another favourite of Daniel’s as noted
by his biographer.20 The source for this cast was a Roman marble of the
Antonine period (138-93 ad, after a lost Hellenistic original of c. 300 bc),
probably the version preserved in the Museo Archeo- logico Nazionale di Napoli
(fig. 4).21 Known in several variants after the same lost Greek original, this
is arguably the most celebrated image of Homer from antiquity and was used by
many artists; arguably the most famous example is Rembrandt’s Aristotle with a
Bust of Homer which passed through various English private collections in the
19th century (now Metropolitan Museum of Art, New York), and 230 which Daniels
was probably referencing, reinforcing his association with both poet and
artist.22 The other casts on the tray in the painting appear to reproduce a
mixture of English and French works of the mid- to late 18th and 19th century.
They include the brightly coloured parrot, probably based on a Staffordshire
porcelain example, c. 1850, after a Meissen original of the 18th century, and
the hooded figure on the front left, possibly an adapta- tion of ‘La Nourrice’
(Nurse and Child) modelled by Joseph Willems at Chelsea (c. 1752–58), after a
French terracotta original of the 17th century.23 Popular images of the three
Fig. 4. Bust of Homer, marble, 72 cm (h), Roman Antonine period after a lost
Hellenistic original of c. 300 bc, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv.
6023 theological virtues, Faith, Hope and Charity, made by the Wood family at
Burslem in Staffordshire, 1800–10, appear to be the inspiration behind some of
the other figures on the tray: Hope at the far right, seen in profile with
hands clasped; Faith, directly behind the parrot; and Charity, seen from the
back, behind the Nurse and Child.24 It has also been suggested that the bust of
a boy seen from the back, directly above Daniels’ right hand, might be
Alexandre Brongniart (1777) by Jean-Antoine Houdon (1741–1828), known in
examples in marble, terracotta, bronze, plaster and biscuit porcelain.25
Daniels appears to be between thirty-five and forty years old in this painting,
slightly older than his self-portrait at the easel of c. 1845 in the Walker Art
Gallery, Liverpool (fig. 5); a completion date of around 1850 therefore seems
likely.26 The theme of the cast vendor clearly intrigued Daniels for he would
return to it again about twenty years later. In An Italian Image Seller (1870;
Walker Art Gallery, Liverpool; fig. 6), the protagonist (probably Daniels
again) rests on the wall of an 27 English country lane. The tray is no longer
present but on the ground to his right are two casts, one, a Mercury, the
other, the nymph, Clytie (sometimes identified as Antonia, daughter of Mark
Antony and mother of the Emperor Claudius). The marble original of the nymph,
acquired in Naples by the Grand Tour collector, Charles Townley (1737– 1805)
and reportedly his favourite, is now in the British Museum.28 Copies of the
popular statue were made in porce- lain by the firm Copeland from 1855 and it
has been suggested that Daniels based his depiction on one of them.29 Daniels
certainly owned a copy of the Clytie and other busts after the Antique
including a Jupiter, Apollo, Diana and Laocoön, ‘which he treated with almost
reverential admiration’.30 As Daniels’ Image Seller shows, by the mid-19th
century iconic antique statues, once rarefied models of ideal beauty, were now
commercialised and readily available on the open Fig. 5. William Daniels,
Self-Portrait, c. 1845, oil on canvas, 91.5 × 71.7 cm, Walker Art Gallery,
Liverpool, WAG 1724 Fig. 6. William Daniels, An Italian Image Seller, 1870, oil
on canvas, 80 × 63.5 cm, Walker Art Gallery, Liverpool, WAG 3114 market through
mass-produced casts. While the Antique continued to be central to the education
of artists both in the studio and in the academy, it became an ubiquitous
presence in the home, especially in middle-class interiors where reductions of
famous statues were displayed alongside works from other periods, sometimes
even assuming a secondary role to them. The amalgamation of styles and
influences, in which Ancient, Byzantine, Gothic, Renaissance and Modern were
placed on equal footing, was, by the mid-19th century, the result of an
historicist aesthetic in which the Antique had become just one of the possible
artistic references, thus losing its canonical status and aesthetic
primacy. Fig. 1. Thomas Rowlandson, An Image Seller, c. 1799,
watercolour, 326 × 264 mm, Victoria and Albert Museum, London, no. 1820-1900
Fig. 2. John Thomas Smith, Very Fine. Very Cheap, c. 1815, etching, 192 × 114
mm (plate); 267 × 185 mm (sheet), from Etchings of Remarkable Beggars,
Itinerant Traders and other Persons, published in London, 31 December 1815,
National Portrait Gallery, London, Reference collection D40098 Fig. 3. William
James Muller, The Plaster Figure Seller, oil on canvas, 82.5 × 52.1 cm, sold
Christie’s, London, 6 November 2012, lot 333. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 avl An extensive tribute to
Daniels was published anonymously in serial form in the Liverpool Lantern
(1880), by his friend, K. C. Spier, editor of the paper. It may be consulted
at: http://art-science.com/WDaniels/LLessay.html where the artist’s obituaries
and private letters and notes also are transcribed, some of which are referred
to in Spier’s essay (cited here as Spier 1880). For other accounts of his life
and work, see Tirebuck 1879; The Magazine of Art, 5, June 1882, pp. 341–43;
Marillier 1904, pp. 95–98; Thieme- Becker 1907–50, vol. 8, pp. 362–63; Fastnege
1951; Bennett 1978, vol. 1, p. 79. Spier 1880, chapter 4. The drawing,
presumably after a cast of the famous sculpture in the Capitoline Museum, Rome
(see cat. 20, fig. 2) remains untraced. Spier 1880, chapter 4. Marillier 1904,
pp. 96–97; Fastnege 1951, p. 80; Bennett 1978, vol. 1, p. 79. Obituary,
Liverpool Journal, 16 October 1880; Liverpool Mercury 15 April 1884; Daily Post
Liverpool, June 1908. Liverpool Journal, 16 October 1880. Representations of
the urban poor in British art was an increasingly popu- lar genre from around
the mid-18th century onwards. See Hansen 2010. Spier 1880, chapter 5. Lambourne
1982; Compton Verney and Norwich 2009–10, p. 13. For the history and use of
casts, see Borbein 2000. For a translation in English by Bernard Fischer, see
http://www.digitalsculpture.org/casts/ borbein/index.html For British cast
makers and/or sellers in the 18th to early 19th c., see Clifford 1992 and for
the 19th c., Haskell and Penny 1981, pp. 117–24; Lambourne 1982; and Simon
2011. Lambourne 1982, p. 119. Ibid. Clifford 1992; Simon 2011. Lambourne 1982,
p. 121. Simon 2011 [unpaginated]. Ibid., fig. 3. For other images of the
subject, see Lambourne 1982, pp. 118–23, figs 1–10. Spier 1880, chapter 2; New
York 2005b, under no. 13. Walker & Ackerley, Liverpool, 6 December 1880,
discussed in in Spier 1880, chapter 24. The present writer has not been able to
locate a copy of this catalogue. Spier 1880, chapter 2. Richter 1965, vol. 1,
p. 50, no. IV, no. 7, figs 70–72; Gasparri 2009–10, vol. 2, pp. 15–16, no. 2
(M. Caso), pl. II, 1–4. Liedtke 2007, vol. 2, pp. 629–54, no. 151. Kindly
pointed out by Paul Crane (personal communication), who notes the following
example: Melbourne 1984–85, no. 56. As noted further by Paul Crane, who points
out their similarity to examples sold at Sotheby’s, New York, 15 April 1996,
lot 73 (personal communication). According to George Shackelford (personal
communication). See Washington D.C., Los Angeles and elsewhere 2003-04, pp.
127–32, no. 15 (G. Scherf). Bennett 1978, vol. 1, p. 80, no. 1724, vol. 2, p.
129; New York 2005b, under no. 13. Bennett 1978, vol. 1, p. 83, no. 3114, vol.
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1978. Göttingen 2012–13 — Abgekupfert. Roms Antiken in den Reproduktionsmedien
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London 2011–12 — Leonardo da Vinci. Painter at the Court of Milan, National
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New York (eds C. B. Bailey and S. Buck), 2012–13. London and Rome 1996–97 —
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Art; The Toledo Museum of Art; John and Mable Ringling Museum of Art, Sarasota;
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— Der Torso. Ruhm und Rätsel / Il Torso del Belvedere. Da Aiace a Rodin,
Glyptothek, Munich; Musei Vaticani, Rome (ed. R. Wünsche), 1998–99. Münster
1976 — Bilder nach Bilder. Druckgrafik und die Vermittlung von Kunst,
Westfälisches Landesmuseum für Kunst und Kulturgeschichte Münster, Münster (G.
Langemeyer and R. Schleier), 1976. Naples 2008 — Salvator Rosa: tra mito e
magia, Museo di Capodimonte, Naples (eds A. B. de Lavergnée and S. Bellesi),
2008. New Haven and London 2011–12 — Johan Zoffany, RA: Society Observed, Yale
Center for British Art, New Haven; Royal Academy of Arts, London (ed. M.
Postle), 2011–12. New York 1954 — Fuseli Drawings, a Loan Exhibition, organized
by the Pro Helvetia Foundation and circulated by the Smithsonian Institution,
Pierpont Morgan Library, New York, 1954. New York 1988 — Creative Copies.
Interpretative Drawings from Michelangelo to Picasso, The Drawing Center, New
York (E. Haverkamp-Begemann and C. Logan), 1988. New York 2005a — Peter Paul
Rubens. The Drawings, Metropolitan Museum of Art, New York (ed. A.-M. Logan
with M. Plomp), 2005 New York 2005b — Pictures & Oil Sketches 1775–1920, W.
M. Brady & Co., New York, 2005. New York 2012–13 — Bernini: Sculpting in
Clay, Metropolitan Museum of Art, New York (eds C. D. Dickerson et al.),
2012–13. Nottingham and London 1983 — Drawing in the Italian Renaissance
Workshop, University Art Gallery, Nottingham; Victoria and Albert Museum,
London (F. Ames-Lewis and J. Wright), 1983. Nottingham and London 1991 — The
Artist’s Model: Its Role in British Art from Lely to Etty, University Art
Gallery, Nottingham; The Iveagh Bequest, Kenwood, London (I. Bignamini and M.
Postle), 1991. Ottawa and Caen 2011–12 — Drawn to Art. French Artists and Art
Lovers in 18th-century Rome, National Gallery of Canada, Ottawa; Musée des
beaux-arts de Caen (ed. S. Couturier), 2011–12. Ottawa, Vancouver and elsewhere
1996–97 — The Ingenious Machine of Nature: Four Centuries of Art and Anatomy,
National Gallery of Canada, Ottawa; Vancouver Art Gallery; The Philadelphia
Museum of Art; The Israel Museum, Jerusalem (M. Cazort, M. Kornell and K. B.
Roberts), 1996–97. Ottawa, Washington D.C. and elsewhere 2003–04 — The Age of
Watteau, Chardin, and Fragonard: Masterpieces of French Genre Painting,
National Gallery of Canada, Ottawa; National Gallery of Art, Washington, D.C.;
Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie (ed. C. Bailey), 2003–04. Oxford
and New Haven 2012–13 — The English Prize. The Capture of the Westmoreland. An
Episode of the Grand Tour, The Ashmolean Museum, Oxford; Yale Center for
British Art, New Haven (eds M. D. Sánchez-Jáuregui and S. Wilcox), 2012–13.
Paris 1922 — Exposition Hubert Robert et Louis Moreau: au bénénfice du foyer
des Infirmières de la Croix-Rouge et des infirmières visiteuses, Galeries Jean
Charpentier, Paris, 1922. Paris 1933 — Exposition Hubert Robert A l’occasion du
Deuxième Centenaire de sa Naissance, Musée de l’Orangerie, Paris (L. Hautecoeur
et al.), 1933. Paris 1975 — Johann Heinrich Füssli. 1741–1825, Musée du Petit
Palais, Paris, 1975. Paris 1989 — Maîtres français, 1550–1800: dessins de la donation
Mathias Polakovits à l’Ecole des beaux-arts, École nationale supérieure des
beaux-arts, Paris (eds B. de Bayser et al.), 1989. Paris 1996 — Pisanello. Le
peintre aux sept vertus, Musée du Louvre, Paris (ed. D. Cordellier), 1996.
Paris 2000–01 — D’après l’antique, Musée du Louvre, Paris (eds J. P. Cuzin, J.
R. Gaborit and A. Pasquier), 2000–01. Paris 2003 — A. & D. Martinez,
Estampes Anciennes & Modernes. A Collectionner, cat. no. VIII, Paris, 2003.
Paris 2008 — L’Âge d’or du romantisme allemand, aquarelles et dessins è
l’époque de Goethe, Musée de la Vie Romantique, Paris, (ed. H. Sieveking),
Paris, 2008. Paris 2008–09a — Figures du corps: une leçon d’anatomie à l’École
des beaux-arts, École nationale supérieure des beaux-arts, Paris (ed. P. Comar),
2008–09. Paris 2008–09b — Mantegna 1431–1506, Musée du Louvre, Paris (eds G.
Agosti and D. Thiébaut), 2008–09. Paris 2009–10 — L’Académie mise à nu: l’école
du modèle à l’Académie royale de peinture et de sculpture, École nationale
supérieure des beaux-arts, Paris (ed. E. Brugerolles), 2009–10. Paris 2010–11 —
Musées de papier: l’antiquité en livres, 1600-1800, Musée du Louvre, Paris (eds
É. Décultot, G. Bickendorf and V. Kockel), 2010–11. Paris, Ottawa and elsewhere
1994–95 — Egyptomania: l’Egypte dans l’Art occidental, 1730–1930, Musée du
Louvre, Paris; National Gallery of Canada, Ottawa; Kunsthistorisches Museum,
Vienna (eds J. M. Humbert, M. Pantazzi and C. Ziegler), 1994–95. Philadelphia
1980–81 — A Scholar Collects: Selections from the Anthony Morris Clark Bequest,
Philadelphia Museum of Art (eds U. W. Hiesinger and A. Percy), 1980–81.
Philadelphia and Houston 2000 — Art in Rome in the Eighteenth Century,
Philadelphia Museum of Art; Museum of Fine Arts, Houston (eds E. P. Bowron and
J. J. Rishel), 2000. Princeton 1977 — Eighteenth-century French Life Drawing:
Selections from the Collection of Mathias Polakovits, Art Museum, Princeton
University (ed. J. H. Rubin), 1977. Princeton, Cleveland and elsewhere 1981–82
— Drawings by Gianlorenzo Bernini from the Museum der Bildenden Künste Leipzig,
German Democratic Republic, The Art Museum, Princeton; Cleveland Museum of Art;
Los Angeles County Museum of Art; Kimbell Art Museum, Fort Worth; Indianapolis
Museum of Art; Museum of Fine Arts, Boston (ed. I. Lavin), 1981–82.
Recklinghausen 1964 — Torso: das Unvollendete als künstlerische Form,
Städtische Kunsthalle, Recklinghausen, 1964. Rome 1958–59 — Michael Sweerts e i
bamboccianti, Palazzo Venezia, Rome (E. Lavagnino et al.), 1958–59. Rome 1968 —
Accademia Nazionale di San Luca. Mostra di Antichi Dipinti Restaurati delle
Raccolte Accademiche, Palazzo Carpegna, Rome (I. Faldi), 1968. Rome 1981–82 —
David e Roma, Villa Medici, Rome, 1981–82. Rome 1986–87 — Rilievi storici
Capitolini: il restauro dei pannelli di Adriano e di Marco Aurelio nel Palazzo
dei Conservatori, Musei Capitolini, Rome (ed. E. La Rocca), 1986–87. Rome 1988a
— Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini. L’Antico a Roma all vigilia
del Rinascimento, Musei Capitolini, Rome (eds A. Cavallaro and E. Parlato),
1988. Rome 1988b — La Colonna Traiana e gli artisti francesi da Luigi XIV a
Napoleone I, Accademia di Francia a Roma (ed. P. Morel), 1988. Rome 1990–91 —
J. H. Fragonard e H. Robert a Roma, Villa Medici, Rome (eds C. Boulot et al.),
1990–91. Rome 1992–93 — La Collezione Boncompagni Ludovisi: Algardi, Bernini e
la fortuna dell’antico, Palazzo Ruspoli, Rome (ed. A. Giuliano), 1992–93. Rome
1994 — Bartolomeo Cavaceppi scultore romano (1717–1799), Museo del Palazzo di
Venezia, Rome, (M. G. Barberini and C. Gasparri), 1994. Rome 1997–98 — Pietro
da Cortona e il disegno, Istituto nazionale per la grafica, Accademia nazionale
di San Luca, Rome (ed. S. Prosperi Valenti Rodino), 1997–98. Rome 2000a —
Intorno a Poussin. Ideale classico e epopea barocca tra Parigi e Roma,
Accademia di Francia, Rome (eds O. Bonfait and J.-C. Boyer), 2000. Rome 2000b —
L’idea del bello: viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori,
Palazzo delle Esposizioni, Rome (eds E. Borea and C. Gasparri), 2 vols, 2000.
Rome 2000c — Raffaello da Firenze a Roma, Galleria Borghese, Rome (ed. A.
Coliva), 2000. Rome 2001–02 — I Giustiniani e l’antico, Palazzo Fontana di
Trevi, Rome (G. Fusconi), 2001–02. Rome 2004 — La Collezione del Principe. Da
Leonardo a Goya. Disegni e stampe della raccolta Corsini, Istituto Nazionale
per la Grafica, Rome (eds E. Antetomaso and G. Mariani), 2004. Rome 2005 — La
Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta
dell’antico nella città del Quattrocento, Musei Capitolini, Rome (ed. F. P.
Fiore), 2005. Rome 2005–06 — Il Settecento a Roma, Palazzo Venezia, Rome (eds
A. Lo Bianco and A. Negro), 2005–06. Rome 2006–07 — Laocoonte: Alle origini dei
Musei Vaticani, Musei Vaticani, Vatican, Rome (eds F. Buranelli et al.),
2006–07. Rome 2007 — Dürer e l’Italia, Scuderie del Quirinale, Rome (ed. K.
Hermann Fiore), 2007. Rome 2008 — Ricordi dell’antico: sculture, porcellane e
arredi del Grand Tour, Musei Capitolini, Rome (eds A. D’Agliano and L.
Melegati), 2008. Rome 2010–11a — Palazzo Farnèse. Dalle collezioni
rinascimentali ad Ambasciata di Francia, Palazzo Farnese, Rome (ed. F.
Buranelli), 2010–11. Rome 2010–11b — Roma e l’Antico. Realtà e visione nel
‘700, Fondazione Roma Museo, Rome (eds C. Brook and V. Curzi), 2010–11. Rome
2011 — Ritratti: le tante faccie del potere, Musei Capitolini, Rome (eds E. La
Rocca, C. Parisi Presicce and A. Lo Monaco), 2011. Rome 2011–12 — I Borghese e
l’Antico, Galleria Borghese, Rome (eds A. Coliva et al.), 2011–12. Rome 2014a —
1564/2014 Michelangelo. Incontrare un artista universale, Musei Capitolini,
Rome (ed. C. Acidini), 2014. Rome 2014b — Hogarth, Reynolds, Turner: British
Painting and the Rise of Modernity, Fondazione Roma Museo, Rome (eds C. Brook
and V. Curzi), 2014. Rome forthcoming — Spinario. Storia e fortuna, Musei
Capitolini, Rome (ed. C. Parisi Presicce), forthcoming. Rome, Dijon and
elsewhere 1976 — Piranese et les francais, 1740–1790, Villa Medici, Rome;
Palais des Etats de Bourgogne, Dijon; Hotel de Sully, Paris, 1976. Rome and
Paris 2014–15 — I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria,
Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, Rome; Petit Palais – Musée des
Beaux-Arts de la Ville de Paris, Paris (eds F. Cappelletti and A. Lemoine),
2014–15. Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90 — Prize winning
drawings from the Roman Academy, 1682–1754, Accademia Nazionale di San Luca,
Rome; Palmer Museum of Art, Pennsylvania State University; and National Academy
of Design, New York (eds A. Cipriani and G. Casale), 1989–90. Rotterdam 1946 —
Cornelis Troost en zijn tijd, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam, 1946.
Rotterdam 1958 — Michael Sweerts en Tijdgenoten, Museum Boijmans Van Beuningen,
Rotterdam (E. Lavagino), 1958. Rotterdam 1994 — Cornelis Cort ‘constich
plaedt-snijder van Horne in Holland’ – Cornelis Cort accomplished plate-cutter
from Hoorn in Holland, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam (M. Sellink),
1994. Stockholm 1990 — Füssli, Uddevalla, Stockholm (ed. G. Cavalli- Björkman),
1990. Stuttgart 1997–98 — Johann Heinrich Füssli. Das Verlorene Paradies,
Staatsgalerie Stuttgart (ed. C. Becker and C. Hattendorrf), 1997–98. Swansea
1962 — Exhibition of French Master Drawings, Glynn Vivian Art Gallery, Swansea,
1962. Toledo, Chicago and elsewhere 1975–76 — The Age of Louis XV: French
Painting, 1710–1774, The Toledo Museum of Art, Ohio; Art Institute of Chicago;
National Gallery of Canada, Ottawa (ed. P. Rosenberg), 1975–76. Tokyo 1968–69 —
The Age of Rembrandt: Dutch Paintings and Drawings of the 17th century, The National
Museum of Western Art, Toyko, and Kyoto Municipal Museum (D. A. van Karnebeek),
1968–69. Tokyo 1983 — Henry Fuseli, National Museum of Western Art and City Art
Museum Kitakyushu, Tokyo (ed. G. Schiff), 1983. Toronto, Ottawa and elsewhere
1972–73 — Dessins français du 17e et 18e siècles des collections americaines.
French Master Drawings of the 17th and 18th Centuries of the North American
Collections, Art Gallery of Ontario, Toronto; National Gallery of Canada,
Ottawa; California Palace of the Legion of Honor, San Francisco; New York
Cultural Center (eds C. Johnston and P. Rosenberg), 1972–73. Tours and Toulouse
2000 — Les peintres du roi 1648–1793, Musée des Beaux-Arts de Tours; Musée des
Augustins à Toulouse (eds P. Rosenberg et al.), Paris, 2000. Troyes, Nîmes and
elsewhere 1977 — Charles-Joseph Natoire (Nîmes, 1700 – Castel Gandolfo, 1777):
peintures, dessins, estampes et tapisseries des collections publiques
françaises, Musée des Beaux-Arts, Troyes; Musée des Beaux- Arts, Nîmes; Villa
Medici, Rome, 1977. Venice 1976 — Tiziano e la silografia veneziana del
Cinquecento, Fondazione Giorgio Cini, Venice (eds M. Muraro and D. Rosand),
Venice, 1976. 252 253 Vienna 1987 — Zauber der Medusa. Europäische
Manierismen, Wiener Künstlerhaus, Vienna (ed. W. Hofmann), 1987. Washington
D.C. 1977 — Seventeenth Century Dutch Drawings from American Collections: A
Loan Exhibition, organized and circulated by the International Exhibitions
Foundation, National Gallery of Art, Washington, D.C. (F. W. Robinson), 1977. Washington
D.C. 1978–79 — Hubert Robert: Drawings & Watercolors, National Gallery of
Art, Washington, D.C. (V. Carlson), 1978–79. Washington D.C. 1999–2000 — The
Drawings of Annibale Carracci, National Gallery of Art, Washington, D.C. (eds
D. Benati et al.), 1999–2000. Washington D.C., Los Angeles and elsewhere
2003–04 — Jean-Antoine Houdon: Sculptor of the Enlightenment, National Gallery
of Art, Washington, D.C.; The J. Paul Getty Museum, Los Angeles; Musée et
Domaine National du Château de Versailles (A. L. Poulet et al.), 2003–04.
Williamstown, Madison and elsewhere 2001–02 — Goltzius and the Third Dimension,
Sterling and Francine Clark Institute, Williamstown (MA); Elvehjem Museum of
Art, Madison (WI); Spencer Museum of Art, Lawrence (KS) (eds S. H. Goddard and
J. A. Ganz), 2001–02. Windsor 2013 — Paper palaces: The Topham Collection as a
Source for British Neo-Classicism, The Verey Gallery, Eton College, Windsor (A.
Aymonino et al.), 2013. York 1973 — A Candidate for Praise. William Manson
1725–97, Precentor of York, York Art Gallery and York Minster Library (eds B.
Barr and J. Ingamells), 1973. Zurich 1941 — Johann Heinrich Füssli (1741–1825):
Zur Zweihundertjahrfeier und Gedächtnisausstellung 1951, Kunsthaus Zürich,
Zurich (ed. W. Wartmann and M. Fischer), 1941. Zurich 1969 — Johann Heinrich
Füssli, 1741–1825, Kunsthaus Zürich, Zurich, 1969. Zurich 1984 — Meisterwerke
aus der Graphischen eichnungen, Aquarelli, Pastelle, Collagen aus fünf
Jahrhunderten, Kunsthaus Zürich, Zurich, 1984. Zurich 2005 — Füssli. The Wild
Swiss, Kunsthaus Zürich, Zurich (ed. F. Lentzsch), 2005. Fig. 61. Royal
Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 62. Royal
Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 63. © bpk, Berlin /
Museum der bildenden Künste, Leipzig Fig. 64. © bpk, Berlin / Museum der
bildenden Künste, Leipzig Fig. 65. The Warburg Institute, Photographic
Collection Fig. 66. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 67. The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London
Fig. 68. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 69. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts
de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 70. © bpk, Berlin / École nationale
supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 71. © bpk,
Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand
Palais Fig. 72. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 73. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Fig. 74. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 75. © Ashmolean
Museum, University of Oxford Fig. 76. Su gentile concessione del Museo
Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa Fig. 77. Photo Les Arts décoratifs
Fig. 78. Photo Les Arts décoratifs Fig. 79. National Library of Medicine (NLM)
Fig. 80. National Library of Medicine (NLM) Fig. 81. The Metropolitan Museum of
Art, Gift of Lincoln Kirstein, 1952, www.metmuseum.org Fig. 82. © Royal Academy
of Arts, London Fig. 83. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des
Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 84. © Royal Academy of Arts,
London Fig. 85. © Royal Academy of Arts, London Fig. 86. Private collection
Fig. 87. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris,
Dist. RMN – Grand Palais Fig. 88. Philadelphia Museum of Art Fig. 89.
Cherbourg-Octeville, musée d’art Thomas-Henry © D.Sohier Fig. 90. Heidelberg
University Library Fig. 91. © The Trustees of the British Museum. All rights
reserved Fig. 92. Staatsgalerie Stuttgart © Foto: Staatsgalerie Stuttgart Fig.
93. Reproduced by permission of the Provost and Fellows of Eton College Fig.
94. © bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Susanne Nagy
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photo Philippe Petiot Fig. 97. © Musée de Valence, photo Philippe Petiot Fig.
98. Courtesy National Gallery of Art, Washington Fig. 99. © Tate, London 2014
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Associates Limited Fig. 106. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen
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Firenze – Gabinetto Fotografico Cat. 9 Exhibit. © The Trustees of the British
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Institute, Photographic Collection) Fig. 2. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/
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Canon in Classical Antiquity Fig. 1. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/Art
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Fig. 3. The Warburg Institute, Photographic Collection ‘Nature Perfected’: The
Theory & Practice of Drawing after the Antique Fig. 1. Photo out of
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reserved Fig. 13. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. Loan Museum
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Tromp, Rotterdam Fig. 14. © The Trustees of the British Museum. All rights
reserved Fig. 15. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno
Colantoni Fig. 16. Rijksmuseum, Amseterdam 254 Fig. 17. The Metropolitan Museum
of Art, Bequest of Phyllis Massar, 2011, www.metmuseum.org Fig. 18. Photo out
of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 19. Vatican
Museums and Galleries, Vatican City/Bridgeman Images Fig. 20. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 21. © Royal
Museums of Fine Arts of Belgium, Brussels / photo: J. Geleyns / Ro scan Fig.
22. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 23. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 24. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved
Fig. 25. Graphische Sammlung Albertina, Vienna, Austria / Bridgeman Images Fig.
26. Vatican Museums and Galleries, Vatican City / Bridgeman Images Fig. 27.
Courtesy National Gallery of Art, Washington Fig. 28. Albertina, Vienna Fig.
29. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 30. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 31. ©
The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 32. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 33. Galleria
degli Uffizi, Florence, Italy / Bridgeman Images Fig. 34. S.S.P.S.A.E e per il
Polo Museale della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Fig. 35. Photo out
of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 36. ©
Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 37.
Katrin Bellinger collection Fig. 38. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Jörg
P. Anders Fig. 39. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Jörg P. Anders Fig.
40. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 41. © bpk,
Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 42. © bpk, Berlin /
Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 43. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett
/ Volker-H. Schneider Fig. 44. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Fig. 45. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/ Art
Resource/Scala, Florence Fig. 46. © Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano / De
Agostini Picture Library Fig. 47. © Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano /
De Agostini Picture Library Fig. 48. Royal Museum for Fine Arts Antwerp ©
Lukas-Art in Flanders vzw, photo Hugo Maertens Fig. 49. Rijksmuseum, Amsterdam
Fig. 50. Musea Brugge © Lukas-Art in Flanders vzw, photo Hugo Maertens Fig. 51.
©Peter Cox/Bonnefantenmuseum Maastricht Fig. 52. Minneapolis Institute of Arts,
MN, USA, The Walter H. and Valborg P. Ude Memorial Fund/ Bridgeman Images Fig.
53. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 54. Louvre, Paris, France/Bridgeman Images Fig.
55. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 56.
Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig.
57. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 58. © bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Richard
Lambert Fig. 59. © bpk, Berlin / Musée Condé, Chantilly, Dist. RMN – Grand
Palais / René-Gabriel Ojéda Fig. 60. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen
Elizabeth II 2015 255 Cat. 15 Exhibit. © The Trustees of the British
Museum. All rights reserved Fig. 1. © Devonshire Collection, Chatsworth /
Reproduced by permission of Chatsworth Settlement Trustees / Bridgeman Images
Fig. 2. Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, CT Fig. 3. © The Trustees
of the British Museum. All rights reserved Fig. 4. Vatican Museums and
Galleries, Vatican City / Bridgeman Images Cat. 16 Exhibit. The Samuel
Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London Fig. 1. Image courtesy of Sotheby’s
Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 3. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 6. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Cat. 17 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 2. Museum Boijmans Van Beuningen,
Rotterdam / photographer: Studio Tromp, Rotterdam Fig. 3. The Metropolitan
Museum of Art, Bequest of Walter C. Baker, 1971, www.metmuseum.org Fig. 4. Witt
Library, The Courtauld Institute of Art, London Cat. 18 Exhibit. © Matthew
Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 3. © bpk, Berlin / Antikensammlung, SMB Fig. 4. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 5. © bpk,
Berlin / Antikensammlung, SMB / Johannes Laurentius Fig. 6. © photo Musées de
Marseille Fig. 7. Photographic Survey, The Courtauld Institute of Art, London.
Private collection Cat. 19 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. © Accademia
Nazionale di San Luca. Tutti i diritti riservati Fig. 3. © The Trustees of the
British Museum. All rights reserved Fig. 4. By courtesy of the Trustees of Sir
John Soane’s Museum Cat. 20 Exhibit. By courtesy of the Trustees of Sir John
Soane’s Museum Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Fig. 2. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini.
Photo Zeno Colantoni Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo
Zeno Colantoni Fig. 4. The Warburg Institute, Photographic Collection Fig. 5.
Staatsgalerie Stuttgart © Foto: Staatsgalerie Stuttgart Fig. 6. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 21 Exhibit. ©
bpk / Kunstbibliothek, Staatliche Museen zu Berlin Fig. 1. Image courtesy of
Sotheby’s Fig. 2. Image courtesy of Sotheby’s Cat. 22 Exhibit. © 2014 Kunsthaus
Zürich. All rights reserved. Fig. 1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini.
Photo Paulo Cipollina Fig. 2. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo
Lorenzo De Masi Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo
Lorenzo De Masi Fig. 4. Istituto Centrale per la Grafica Canoni fotografici
(MIBACT) Fig. 5. © bpk, Berlin / Kunstbibliothek, SMB / Dietmar Katz Cat. 23
Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Louvre, Paris, France/Bridgeman Images Fig.
2. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Cat. 24 Exhibit. ©
The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. Yale Center for
British Art, Paul Mellon Collection Fig. 2. Private collection Fig. 3. Photo
out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 25
Exhibit. © Royal Academy of Arts, London Fig. 1. © Royal Academy of Arts,
London Fig. 2. © Royal Academy of Arts, London Fig. 3. © bpk, Berlin / RMN –
Grand Palais / Stéphane Maréchalle Fig. 4. Santa Barbara Museum of Art, Gift of
Wright S. Ludington Fig. 5. Conway Library, The Courtauld Institute of Art, London
Fig. 6. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 7.
Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 8.
© Royal Academy of Arts, London; Photographer: Paul Highnam Fig. 9. © Royal
Academy of Arts, London; Photographer: Paul Highnam Cat. 26 Exhibit. © The
Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. © Tate, London 2014
Fig. 2. Courtesy of www.gjsaville-caricatures.co.uk Cat. 27 Exhibit a. ©
Victoria and Albert Museum, London Exhibit b. © Victoria and Albert Museum,
London Fig. 1. © Tate, London 2014 Fig. 2. © Tate, London 2014 Fig. 3. © Tate,
London 2014 Fig. 4. © Tate, London 2014 Cat. 28 Exhibit. © The Trustees of the
British Museum. All rights reserved Fig. 1. © Towneley Hall Art Gallery and
Museum, Burnley, Lancashire/Bridgeman Images Fig. 2. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. © The Trustees of the
British Museum. All rights reserved Cat. 29 Exhibit. By courtesy of the
Trustees of Sir John Soane’s Museum Cat. 30 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1.
Photo Collection RKD, The Hague Fig. 2. Royal Collection Trust/© Her Majesty
Queen Elizabeth II 2015 Fig. 3. Klassik Stiftung Weimar, Bestand Museen. Photo
Sigrid Geske Cat. 31 Exhibit. Teylers Museum, Haarlem Cat. 32 Exhibit. Teylers
Museum, Haarlem Fig. 1. Photo Collection RKD, The Hague Cat. 33 Exhibit. ©
Matthew Hollow Fig. 1. The National Museum of Art, Architecture and Design,
Oslo, photographer Jacques Lathion Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 4. Louvre, Paris, France / Bridgeman
Images Fig. 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 6. Courtesy of Pontus Kjerrman Cat. 34 Exhibit. © Matthew
Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 2. Courtesy of Olga Liubimova Fig. 3. © Tomas Abad Cat. 35
Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. © Victoria and Albert Museum, London Fig. 2.
© National Portrait Gallery, London Fig. 3. © Christie’s Images Limited (2012)
Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 5. © National Museums Liverpool, Walker Art Gallery Fig. 6. [© National
Museums Liverpool, Walker Art Gallery Sammlung. ZMassimo Carboni.
Keywords: tratto dalla vita, estetica, arte, icona, parola, immagine, filosofia
antica, il concetto dell’antico, l’antico – l’antico e il moderno – drawing
from the antique – antico – filosofia antica, arte antica, statuaria antica,
the lure of the antique – il gusto e l’antico --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Carboni” – The Swimming-Pool Library.
levi:
filosofo italiano - Italian philosopher of Jewish descent. Author of “Storia
della filosofia romana.”
giornale
critico della filosofia italiana.
Giovanni
d. “Positivismo italiano.”
cassiodoro: noble
Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
casalegno,
paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del
linguaggio.”
cattaneo:
essential Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
Grice e Carchia – ars amandi – signi
d’amore – erotico del bello – comunicazione degl’amanti primitive -- filosofia
romana – Luigi Speranza (Torino). Grice:”I once joked that if I’m introduce
dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth century aesthetics, the implictum is
that he ain’t good at it! Not with Carchia: because (a) Carchia is a serious
philosopher (b) he conceives aesthetics alla Baumagarten, having to do with
communication (“nome e immagine”,
“interpretazione ed emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus
– but its truth value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a
genius! On topc, my favourite piece of his philosophising is on the torso del
belvedere as representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino
sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso
di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed
erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e
bellezza; L'estetica antica, ecc. Si è
anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di artisti
contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice Quodlibet
raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a porla in
immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima
immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano:
L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg & Sellier); prefazione
e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo
e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte
e comunicazione dei primitivi, Torino: Rosemberg & Sellier); Erotica.
Saggio sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida);
Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in
pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen,
Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica
del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione
ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl
Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola
dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari:
Laterza); L'estetica antica, Roma-Bari:
Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin,
Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica
Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura,
2003 88-8498-112-3 Kant e la verità
dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, 2006 88-7325-151-X introduzione a Walter Friedrich
Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione
come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità
dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini.
La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come
autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e
simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta
fantasia. Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa.
Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico.
L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome.
Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia:
l’estetico. Paradigma, schema, immagine. 1
TRE LIBRI DELL’ARTE AMATORIA BD IL LIBRO
DE’RIMEDJ D’AMORE DI P. OVIDIO NASt)NE SULMONESE
TRADOTTI IN VERSI ITALIANI DA CRISTOFORO BOCCELLA
PATRIZIO LOGCEBSS. Pl-ACENZA DAI TORCHI
DEL MAINO MDCÒCXJ. byGoogle Digitized
by Google DELL’ARTE AMATORIA DI P.
OVIDIO NASONE SULMONESE LIBRO I. Chi
peregrin nell’amorosa scuola Entra , me legga, se vuol esser dotto.
Non usansi senz’arte e vele e remi; Non senz’arte guidar si puote
il cocchio; Non senz' arte si può reggere Amore. Ben sapeva
condurre Automedonte (i) Co’ focosi, destrieri il caiiro , e Tifi
r Sedea maestro \sair emonia poppa. Ne’ mister} d’ Àmot me
fece esjperto V enere bella , e ben dirmi poss’ io D’Aniore un
altro Tifi e Automedonte. Ch^ ei sia crude!, noi niego » e spesse
volte Contro me stesso si rivolta ; pure Egli è fiinciullo , e
l’immatuTa' etàde Atta si rende al fren. Docile e mite Rese Chiron
l’ impetuoso^ Achilie (2) (i) Automédonte , figlio di Dioreo,fu il
Cocchierò d*lAchille , Tifi condusse gli Argonauti in Coleo sul- la
nave Argo , che qui dicesi emonia , perchè era su <mella Giasone
figlio del Re di Tessaglia , e perchè la Tessaglia si chiamala Emonia dal
monte Emo. (a) Chirone figliuol di Fillira fu il Precettore
d’A’^ chille^il qual nen chiamato ^acides fia Eaep suo Avo,
Digitized by Google Col dolde suon della canora
cetra^ Ed ei, che fu il terrore e lo spavento De^suoi
compagni spessore de’nemici. Dicesi che temesse il vecchio annoso;
E quelle mani , che dovean un giorno Gettare a terra il forte Ettor
, porgea, ( 3 ) Quando Chirone le chiedea,alla sferza. Ei fu
d’ Achille, io son d’ Amor maestro; L’uno e 1^ altro è fanoiul feroce, e
traggo L’ un e r altro da Diva i suoi natali • (4) Come r aratro il
toro, e come il freno Doma il cavai focoso ; io cosi Amore Render
placido voglio ancor che il petto Con r arco mi ferisca , e con la
face Tutte ro’ abbruci le midolle e T ossa. Quanto più Amore hammi
ferito ed arso. Tanto più voglio vendicarmi . Apollo, Non io,
ché mentirei , dirò che appresi < Da tl» quest’ arte, o che fui reso
dotto Dal canto degli .augelli • A me non Clio, Né le Sorelle sue ,
come al Pastore Della valle d’ Ascrea , compatver mai ; (5) Me un
lung’ uso feMstrutto ; e fè pròstate Air esperto Poeta . <Ió cose
vere Canto : Madre d* Amor.^, siimi propizia. Gite lungi j o
Vestali., e voi Matrone, Che i piè celaté sotto lunga veste.
J3Ì Achilie uccise Ettore al assedio di Troja* ^ (4) Achille
nacque dalla Dea Tetide , Amore dalla Dea Venere, a Mentre
Esiodo , cugino e quasi contemporaneo nero , pascolava in Elicona le
pecore di suo pa* dre ^ fu dalle Muse condotto al fonte Ippocrene , e
Col hefer 4i quell* acqua divenne Poeta, Digitized by
Google 5 Come seguir sensa periglio
Amore Si possa, eA i concessi furti io canto; Nullo i miei carmi
chiuderan delitto. Tu, che novel nell’ amorosa schiera Entri
soldato, le tue cure volgi Prima a trovar de’ voti tuoi 1’ oggetto.
Indi a farlo per te amoroso, e infine Onde lunga stagìon 1’ amor si
serbi. È questo 11 modo, è questo il campo, in cui Scorrere
il nostro cocchio debbo ; è questa Del corso nostro la prescritta
meta. Or che il tempo è propizio , or che si puote Andare a
briglia sciolta , una ne scegli, Cui dir tu possa ; a me tu sola
piaci. Questa dal Ciel non già pensar che scenda. Ma qui trovar la
dei con gli occhi tuoi. Onde tender le reti al cervo debba.
Sa bene il caccìator , e non ignora La valle , ove il cignal
s’asconde : i rami L’ UGcellator conosce, onde si gettano 61
’incauti augelli, e al pescator son note L’acque, che maggior copia hanno
di pesci. Tu , che d^on lungo amor cerchi materia. Impara i luoghi,
ove frequenti veggonsi Le vezzose donzelle . Io non ti dico,
Che dar le vele ti fia duopo al vento. Né córrer lunga e
faticosa strada. Perseo dall’Indie ne condusse Andromeda, E
.Paride rapì di Grecia Eléna. . Ma in Roma , in Roma ritrovar
potrai Fanciulle, che in beltà portino il vanto Più che del Mondo
in altra parte . Come (6} ^ - —». ...i . (6) Gargaro,
Castello sul monte Ida era celebre V abbondanza delle sue biade , e
Metinna , Città nek» V Isola di Lesbo , per V abbondanza d^ suoi
vini. Digitized by Google 6 La
gargara contrada abbonda in biade» In uve la metinnia » in pesci U
mare» In augei il bosco s e còme nell* Olimpo Splendono
stelle; così in Roma ammiransi Amabili Fanciulle : qui sua sede
Pose del grand’ Enea la bella Madre. Se a nascente beltà ti porta
il genio» Tenera donzelletta eccoti innante; Se già formata
giovine desideri» Mille ti piaceranno » e fian costretti A
rimaner sospesi i voti tuoi; Che se a te figlia più matura e
saggia Piaccia » ne avrai, mel credi, un folto stuolo. De’ portici
pompeii all’ ombra i lenti (7) Pàssi rivolgi, allor che Febo i
campi Dall’erculeo Leon saetta ed arde, O a quel che adorno
de’ più scelti marmi Da lontani paesi a noi venuti, LaMadre
aggiunseindonoa’don delFigHo.(8) Nè quello lascerai » ohe tragge il
nome Da Livia, ornato delle pinte tele (9) De’Pittori più
celebri ed antichi; (7) Uno de'piU dtliziosi Portici di Roma ora
cer^ tornente ^uet di Pompeo . Giaceva questo in vicinanza dtl suo
Veatro , « i Romani lo frequentavano moltis'^ simo in tempo d*
estate, ( 8 ) Augusto sotto il nome d* Ottavia fabbricò un
portico in vicinanza del Teatro da lui dedicato a Mar^ cello figlio della
medesirrsa ^ e però dice il Poeta , che la Madre , cioè Ottavia , a^iunse
il dono del portico al don d^figlio , cioè al Teatro a lui innalzato
da Augusto, ( 9 ) R questo il portico che Livia moglie d*
Augusto fabbricò nella Via sacra ; ne fa menzione Svetonio , e vien
riputato da Strabono uno d^più be* monumenti di Roma,
Digitized by Google Visiterai pnr anco i Inoghi, dove
(io) In atto di far strage de’ Consorti Effigiate son P empie
Danàidi; E il lor Padre crudel, che nudo tiene L’acciajo
micidial nell’ empia destra; Nè il Tempio oblia, u’ Venere la
morte Plora del caro Adon , nò il giorno Sabbato Sacro al culto
giudeo • Sarà tua cura A’xneiifitìcì templi esser presente (ii)
Della liniger’ Iside ; seconda I voti questa Dea delle fanciulle»
Che desian donne diventar, coni’ essa Lo fu di Giove ^ Fra i
clamori alterni Del Foro strepitoso ( e chi mai fede Prestar ci
puote ? ) Amor rivolta trova Atto alle fiamme sue pascolo ed esca.
In quella parte ove s’innalza al cielo (la) L’ onda d’Appio » che
giace appiè del Tempio Di ricchi marmi adorno , a Vener sacro^
Prigioniero d’ Amore è 1 ’ Avvocato, (10) Il portico d*Apollo
palatino fabbricato da Au^ gusto in una parte della sua casa era adornato
di fiin^ ts immagini rappresentanti la strage^ che de*pro-
prj Mariti fecero le Danaidi per comando di Danna loro padre.
(11) Si adorala Iside figlinola d*Inaco in Menfi Città d^Egitto,
donde furono trasportati in Roma i suoi sacrificj . Fu questa amata
impudicamente da Giove, il quale la cangiò per timor di Giunone in
una Giovenca j e poi la restitm agli Egiziani nella sua pri^ stina
forma . B^la e i suoi sacerdoti andavano coperti di lino e però si
chiamava linigera. (la) Appio Censore condusse V acqua nel Foro
di Cesare; e d* architettura d* Archelao fu ivi innalzato a Venere
un Tempio , che per somma fretta poi rimase imperfetto.
Digitized by Google 8 Che attento alla difesa
altrui, se stesso Guardar non sa • Oh quante volte, oh quante In
quel loco gli manca la favella, E deir amor che V agita
ripieno, Non della caiìsa altrui, ma della propria S’occupa
solo ! Dal propinquo Tempio Ride la Dea di Pafo, e il difensore
Trasformato veder gode in cliente. Ma più che. altrove ne'curvi
Teatri Troverai da far paghi i voti tuoi: Ivi mille bellezze
lusinghiere Si oifrìranno al tuo sguardo, e tal potrai Per stabile
passion scegliere, e tale Onde Tore passare in gioco e in festa.
Come frequente la formica in schiera Vanne al granajo a far preda di
cibo; E come Papi in olezzante suolo Volan sul timo e sopra i
fior ; le culte Donne in tal modo in folto stuolo assistono Agli
scenici ludi * È cosi grande 11 numero di questo, cho sospeso Mille
volte rimase il mio giudizio. Non a’ Teatri per mirar,
soltanto, Come per far di lor superila mosffa Vanno non senza
del pudor periglio. Tu questi giochi strepitosi il primo,
Romolo , instituisti; allor che il ratto (i 3 ) (iS) NeW anno del
mondo 3a3i. fabbricò Romolo nei monte Palatino una Città o sia Fortezza ,
che dal suo nome chiamò Roma. Per accrescere il numero dei
Cittadini ^ aprì un asilo fra il Palatino e il Campi* doglio , in cui si
ricevevano i Servi fuggitivi^, i De* hitori y i Malefici . Siccome i Popoli
confinanti , e per conseguenza i Sabini nor^ volevano con tal gente
col* Digitized by Google Segui delle Sabine •
Ancor non marmi^ E non tappeti ornavano i Teatri, Nè il
palco vago era per piote tele; Ivi semplicemente allor far
posti I virgulti eie foglie, che recava II bosco
palatino, e non si vide Decorata la scena allor con V arte*
Sopra i sedili di cespugli infesti Assistea il popol folto , uhe
all’irsuta Chioma di fronde sol cingea corona* Col
cupid’occhio ognuno intanto nota Quella, che far desia sua preda, e
molti Pensieri nel suo cor tacito volge. Mentre d’agreste
flauto il suono muove Grottesca danza, ed il confuso plauso Ferisce
il ciel, ecco che il Re dà segno Onde alla preda sua ciascun sì
volga. Rapido il proprio loco ognuno lascia, Fanne co’ gridi il suo
desio palese, E le cupide mani addosso slancia Sulle Vergin
d’insidie ignare , come Fogge la timidissima Colomba Dall’ Aquila ,
e de’ Lupi il fiero aspetto Agna novella ; di spavento piene Volean
cosi le misere Sabine De’ rapitori lor schivar gli amplessi;*
Ma da Ogni patte senza legge inondano^ Ninna serba il color , che
aveva innante; ' ' a z lòcar U lor Donne , Romito gli '
inoitò insieme con Ì 0 sorelle ,'7e moglie e le figlie a unof spettacolo,
che fe^ce* ìebrare in onore del Dio Conso , ossia di Nettuno^ €
comandò d* suoi Romani che cigscun ri rapiste fr0 quelle femmine una
Consòrte. Digitized by Google IO
Tutte assale il timore ^ e in Tarj modi: Questa il petto peroote^
il crin si straccia; Quella riman priva di sensi ; alcuna Non
{>er il duol fa proferir parola; Altra la cara madre appella
invano; Chi quale statua immobile rimane; Chi fugge, e
chi di grida il cielo assorda. Ma le rapite Oiovani condotte Son
via, qual preda geniale e cara. Dì pudico rossoj tinsero
molte Le delicate guance, e vìe più piacquero. Se troppa ripugnanza
alcuna mostra, £ seguir nega il suo compagno, questi La porta
fra le sue cupide braccia, E si le dice : a che d’amaro
pianto Da begli occhj tu versi un fiume? teco Sarò come alla Madre
è il Genitore. Romolo, fu il primiero a’tuoi soldati Vera recar
felicità sapesti; Se tal sorte goder potessi anch’io, >
Io pur non sdegnerei esser soldato. Però da quell’esempio
anco a’dì nostri Trovan le Belle ne’Teatri insidie.. D’esser
presente ognor cerca e procura ^ Alle corse de’rapidi destrieri.
Di gran popol capace il ;Circo augusto Molti a te rechei!à comodi ;
d’ uopo ^ Onde spiegare i tuoi pensieri arcani Non avrai
delle dita ; nè co* cenni Intendere dovrai. Franco t’assidi,^
Che ninno il vieta, alla* tua donna accanto. Quanto più puòi
t’accosta al di lei fiaheo\ lE procura che il loco a.nzi ti sforzi
A toccarla, quand’eUa ancor non ! voglia. Digitized by
Google Onde seco parlar cerca materia, E da’
discorsi pubblici incomincia. Quando i cavalli appariranno,
tosto Di chi sieno richiedi, e quello, a cui Dirige i voti suoi, tu
favorisci; Macon frequente pompaallor che giungono Le statue
degli Dei, fa plauso a Venere (14) Quale a tua Diva tutelar. Se mai
Della tua bella sulla veste cada Polve, la scoti con la mano , e fingi
* Scoterla quando pur netta si serbi; E sollecito ognor
prandi motivo Da leggiere cagion d’esserle grato. Se la sua
veste strascinasse , pronto Sii tosto a tòrla dalP immonda terra;
Per cosi tenui cure avrai in mercede, Ch^ ella poi soffrirà,
che le sue gambe Tu possa riguardar. Sia tuo pensiero, Che
quei , che sono assisì al vostro tergo, ^ ginocchi al di lei dosso,
Non le rechin molestia. I lievi ufBcj L^alme fiscili adescano : fu a
molti Util Fa ver con destra man composto Il coscino, agitar con
piccol foglio Il volubile vento, e saper porre Sotto tenero piè
concavo scanno. Farà la strada al nuovo amore il Circo,
(14) Solevano i Romani portar per ih Circo le Sta¬ tue degli Dei e
degli Uomini sommi , quando ivi da¬ vano lo spettacolo della corsa de^
Cavalli 0 d^ altri giochi'. V* era fra aueste Statue ancor quella di
Ver» nere , cui vuole il Poeta che si faccia un gran plauso* Si
veda la seconda Elegia del Libro III, degli amori scritti dgl modesimo
Autore^ E la sparsa nel foro infausta arena* Ivi
pugnò spesso il Fanciul di Venere, £ chi andò per mirar altri
piagato, Ferito pur rimase. Ah quante volte Mentre un la
lingua a ragionar discioglie^ HoWà. la mano , tiene il libro, e
cerca II; vincitore del proposto premio. Il .volatile strai
senti nel seno, Gemè piagato , e accrebbe pregio al gioco! fu
bello il mirar quando con pompa Solenne Cesare introdissse il primo (i 5
) Non avvezze a pugnar in finta guerra E le persiche navi e le
cecropie! Da questo e da quel mar vennero allora Giovani
vaghi, amabili donzelle, E la Città racchiuse immenso mondo.
Fra tanta turba di leggiadri oggetti Chi non tigvò da far paghi i
suoi voti? Oh quanti e quanti a forestiero laccio Porsero il piè!
Ma Cesar s’apparecchia (i6) (15) Cesare Augusto fece presso il
Tevere rappre^ sentore una battaglia navale detta Ncumachia. Intro^
dusse in questa a combattere le flotte che Marc* An-^ ionio aveva
raccolte contro di lui nell* Oriente ^e le navi ateniesi denominate
Cecropie da Gecrope primo Re d* Atene y che seguirono il partito di M.
Antonio^ Furono queste armate navali vinte tutte da Azio , e servirono
nella Neumachia d* un brillante spettacelo a futta Roma. (16)
Augusto destinò una spedi^àon per V Oriente contro Frante, e vi
mandò il suo Nipote Cajo nato da Agrippa e da Giulia. Marco Crasso e
Publio suo figlio avidi delle ricchezze de* Parti intrapresero con¬
tro i medesimi una guerra, in cui furono poi essi miseramente trucidati
con undici Legioni . Per far a Cesare un encomio, dice ora il Poeta , che
deve Cajo riportar vittoria di que* popoli , e riacquistar la ^ne
romane da loro tolte Crassi* ^ Digitized by Google
i5 Già il restò a sog^ogar del Mondo inter#^ E già
Taltiino Oriente è nostro ancora. La pena avrai dovuta , o Parto
audace, £ voi godete, ombre deaerassi estinti, E con
voi godan le romane insegne Di barbarica destra a ragion schive.
Ecco il vindice vostro , ognun racclama Invitto Duce nelle schiere
prime; Giovin sostiene perigliose guerre Quasi invecchiato
fra le stragi e Parmi. Deh non vogliate, o timidi, il valore Dagli
anni loro argomentar de’Numi; E la virtù ne’Cesari preepee.
Degli anni Suoi più assai rapido sorge Celeste ingegno, e mal
tollera Ponte D’una pigra dimora. Era bambino (17) Ercole allor che
ì due serpenti oppresse. Ed èra in fasce pur degno di Giove.
O Bacco^otu che ancor fanciullo sei, (18) (17) Essendosi
Giove innamorato perdutamente d^Alc^ mena , si presentò a lei vestito
delle sembianze d*An^ fitrione suo maritoy quando questi trovavasi alla
guer¬ ra di Tehe.Da Giove e da Alcména nacque Ercole, che fu
allevato in Tirinta Città in Marea vicina ad Ar¬ go , e però fu detto
Tirinzto . Intenta per ciò la ge¬ losa Giunone a vendicarsi delP
infedeltà di Giove, suscitò contro d* Ercole due serpenti ; ma egli li
uc¬ cise valorosamente, benché fosse di tenera età, (18)
Bacco armato, d^ una lung^ asta , e seguito da Ufi esercito d* Uomini e
di Donne , corse intrepido nel* VOriente,e soggiogò quVpaesi che allor
tutti,si com¬ prendevano sotto il nome d* India . Essendo quelV
asta così acuta, che imitava la conica figurai del Pino, fu detta
dagli antichi Poeti il Tirso , giacché Thirza ià lingua ebraica nuW altro
significa, se non se un ramo di Pino^ •Intrecciavano le Baccanti sul
tirso V uve e i pampini cotk P edera p perché Bacco insegnò affli
Digitized by Google i4 , Qoanto fosti mai
grande allor che i tuoi Tirsi dovè temer l’India domata!' E
tu prode Garzon sotto gli auspiej (ly) Del Padre , Tarmi tratterai
vincendo. Sotto un nome sì chiaro aver tu dei I primi erudì menti,
e come il Prence (ao) uomini la maniera di coltivar la vite .
Alcuni Eruditi poi fChe ricercan la moralità nelle favole ^
pretendono che dipìngasi sempre giovine questo divino coltivator
della vigna ^perche gli uomini si rendon col vino in lor vecchiezza
amorosi e lascivi , come lo furono in gioventù ,. Mons„ de Lavaur con
molti altri , i quali hanno^ attentamente 'considerato le imprese di
Bacco e l* etimologia stessa del Tirso, porta verisimilmente
opinione y che sia questa favola tratta in origine da que^libri della sacra
Scrittura, che parlano di Mosè. e di JVoè, (19) Si rivolge il
Poeta a Cajo,che fu adottatò figlio da Cesare Augusto. •
(20) Romolo dalle tre Tribù, nelle quali aveva di^ stribaito
il popolo romano y raccolse per ciascheduna cento uomini, che fer nascita
, per ricchezze, e per altri pregi ^^^no i più riguardevoli. Furono
questi chiamati Cavalieri y perchè trascélse quésoli , che fes¬ ser
meritevoli d* un Cavallo , su cui dovean combat¬ tere in difesa di lui ;
e si distribuirono in tre Ceti* turie, che conservando il nome delle
Tribù, dov*erano sfate raccolte, si chiamavano é/e^Rammensi da
Romo¬ lo , dei Tasienzi da Tazio Re dé Sabini, e dei Lace¬ ri
Lucomone JRe d'Etruria , che fu , come dicono., il fondatore della Città
di Lueca . Da Tarquinio Prisco, e da Servio Tullio vennero in seguito
accre-- sciati di numero y senza mutar però il nome di Cen* iurte ;
esercitarono poi varie luminose incombenze ; e JU'denominato il loro
ordine Senatus Seminarium, perchè in esso scieglievansi i Senatori • i 5
. Lu* Jglio facevano i Cavalieri ogni anno splendidamente in
lor rassegna, mentre dal Tempio dell’Onore, che era situato fuori della
città , andavano al campìdo* coronati d* ulivo , cinti d^ una
purpurea veste det- Digitized by Google
i5 Or de’Giorani sei, sarai col tempo L’oroamento
miglior do'rccchj Padri. Vendica ofFesi i tuoi fratelli, e i dritti
(ai) Del Genitor sostieni : della Patria £ Padre 6 Dlfensor Parcne
ti cìnse; Ed or che l’inimico i regni invola, (22) ^ Cruccioso
alla vendetta egli t’invita. Scellerati di lor saran gli strali.
Pietà e Giustizia i tuoi vessilli, e Parrni Della causa miglior
sostenitrici. ' ta trabea, t assisi sopra i loro cavalli . 0 §ni
cinque anni poi appena giunti al Campidoglio , scendevano da
Cavallo , e presolo per mano lo guidavano avanti al Censore ivi assiso
sopra una sedia curale ; ed egli comandava di ritenere il Cavallo , se
bene aveva il Cavaliero adempiuto a* suoi doveri ^e di venderlo ,
se aveva malamente eseguito le sue incombenze. Leg^ geva il Censore
in tale occasione il catalogo de^ Ca¬ valieri yC si chiamava il Principe
de* Giovani o della Gioventù quello che era da lui nominato il primo ;
e ciò non perchè fossero attualmente tutti gióvani , ma perchè lo
fàrono nella prima istituzione^ e perchè Veta giovanile si estendeva
pressò i Romani fino a qua¬ rantacinque anni. Principe
de’Senatori o del Senato ne*primi tempi del¬ la Repubblica si chiamava
quello che il primo tra*Sena- tori viventi era stdto Censorey poi quel
che dal Censore fosse stato nominato ili primo nel leggere il
catalogo d^ Senatori y e nell\ anno dalla fondazione di Roma
quel , che dal Censore era riputato degnissimo. (al) Pompeo y
domato il Re Tigrane y costrinse gli Armeni a ricevere da* Romani in
segno di servitù i Rettori. Si liberarono essi da un tal giogo y ma
Cajo li obbligò nuovamente a soffrirlo , e vendicò in tal guisa i
dritti d*Augusto y che dal Senato e dal Po^ polo romano fu per mezzo di
Valerio onorato del lu¬ minoso titolo di Padre della pAt<‘ia, ^
(^a) I Parti tentavano di farsi padroni delV Ar- mersia*
Digitized by Google i6 Ora il mio Duce
alle latine aggiunga L*eoe ricchezze. E voi j Cesare e Marte,
Entrambe Padri soccorrete il Figlio, Che in difesa di Roma espon
sua vita; Come già Marte^or tu, Cesar, sei nunie* (a 3 ) Ecco
raugurio mio; tu vìncerai; Sciorrò co’ carmi allora il voto ;
degno* Tu allor fatto sarai d’alto poema. Porrai le
squadre in ordinanza, e all’ armi Co’ versi miei 1 ’ esorterai :
tenaci Di me nel tuo pensiero i detti imprimi. 11 petto forte de’
Romani, il tergo (24) Io canterò de’ Parti , e l’inimico
Telo, che vibran dal cavallo in fuga. Mentre tu fuggi, o Parto , e cosa
al vinto, Oude sia vincitor, tu lasci ? Il tuo .Marte recò finora
infausto augurio. Dunque quel dì verrà, Cesare, in cui Tu di natura
la piò amabìl opra Di lucìd’ oro adorno andrai tirato Da quattro^
candidissimi cavalli ? Or mal sicuri nella fuga i Regi
Partici andranno innanzi , il collo carco Dì pesante catena • Insiem
confusi Giovani lieti e tenere Donzelle, D* un’insòlita gioja
il cor ripieno, Mireran lo spettacolo gradito. "
Se una di quelle a te richiegga i nomi Di que’ Re, di que’ monti,
di que’ fiumi, (a3) Fu Cesare Augusto ascritto in aita fra i Dei
, $d ebbe perciò onori diHni. ’ (a4) Avevano i Parti in '
costume di guerreggiar fuggendo , ed anzi si rendevano formidàbili ,
mentre ^ibravan le lor saette^ da wjt cavalle rivoltp in fuga.
Digitized by Google ^7 Di que* paesi 9 a
tatto ciò' rispóndi; £ non richiesto ancora il; tutto narra,
E le cose puf anco a te mal note. Cinto di canna il crin
l’Eufrate è questo, (aS) 11 Tigri è quel colla cerulea chioma.
Ecco gli Armeni^, e Perside che tragge (a6) Da Perseo il nome suo ;
nell’ achemenie Valli questa Città si giacque . Il nome Dirai di
questi e di que’Re, se il sai, O almen 1 ’ adatta . L’imbandite
mense Facile danno ed i conviti accesso, Ove da far contenti
i tuoi desiri V’ è cosa anc’ oltre i vini : ivi sovente Calcò di
Bacco l’orgogliose corna Con le tenere mani il bel Cupido, Di
cui se intrise sien 1 ’ ali nel vino Più non puote fuggir : grave s^
asside; Tu umide penne , è ver, veloce Scote. Ma non
vola per questo, anzi novelli Desta incendj nelP alme, che dal vino
Sono disposte e rese atte al calore. Ogni atra cura e molce e fuga
il vino; Allora il riso ha loco ; allor l’abietta Mendica gente
pure il capo innalza; Fuggon le cure, il duci ; le crespe fronti
Vengono liete ; e la si rara in questi Tempi semplicitade i più
secreti Pensier dell’alma svela, che il Dio Bacco (a 5 )
UEufrate ed il Tigri, avendo , secondo Vo^ pinione d*alcuni, la lor
sorgente nei Monti armenii si prendono qui dal poeta per li principali fiumi
del» V Armenia, (a6) Persìde è una famosa città , che vuoisi
fab.-» bracata da Perseo figlio di Danae nelle valli persiar ne,
dette achemtiiie dal Re Achemene* Digitized by Google
id Ogni mistero svela e l’arte infrange • (27) De’
Giovanetti il cor ivi ben spesso Rapiron le Fanciulle ; Amor nel
vino Fu foco a foco unito • Ma non troppo A lucerna ti fida
ingannatrice; Mal nella notte , e fra i bicchier ricolmi
Della beltade si può far giudizio. Allo splendor del giorno, a
cielo aperto Paride rimirò le Dive allora Che alla Madre d* Amor
disse : tu vinci L’ una e 1 ’ altra in beltà , Venere bella.
S’ asconde nella notte ogni difetto; Ad ogni vizio si perdona
, e allora Ogni donna sembrare alPuom può bella; Consulta il di guai
gemme e quali lane, Tinte di tìria porpora, sien atte A fsLjp bella
la faccia e il corpo ^ Come Io delle Donne numerare il ceto Di non
ardua conquista ? E assai maggiore Dell’ arene del mar . Come di veli
(28) Di Baja. i lidi narrerò coperti. E per calido
zolfo acque fumanti? Riportando talun ferito il petto Da
queir.onde, non son , ( come racconta La fama ) dice , salutari
ognora. Ecco di Cinzia suburbana il tempio (19) Ì ayl
Alludesi al pros^erhio latino in vino veritas. Baja in Campania , o
com'oggi dicesi in ter-^ ra di Lavoro i era un amenissimo Castello^ che
con- teneva entro di se degli ottimi bagni caldi, e alcuni laghi in
cui rrnvigavan gli antichi con diverse barche variamente dipinte, sulle
quali facevano ancora de^ gli allegri conviti. (29) Questa
Dea, che si chiama Lucina in Cielo, Eeate neW inferno, e Diana in terra ,
ha ancor fra Digitized by Google ^9
Silvestre» ed ecco ì conquistati Regni. Perchè vergifte ella è »
perchè ella in odio Ave d’Amor gli 8tijali,.al popol diede» £
mai sempre darà mille ferUè. ^ Fin qui Talia sopra ineguali rote( 3
o) Come tu debba scer T amato oggetto» E dove tender
t’insegnò le reti. Della tua Bella onde adescare il cére
Preparo or io delF arte opra speciale. Uomini» voi chiunque » e donde
siate, Porgete al mio parlar docili menti» E le promesse mie
ptopizj udite. Tosto nell’ alma tua scenda la speme Di
conquistarle» e vincitor sarai; gli altri nomi quello di Cinzia »
perchè essa ed Apoi* lo nacquer nelVIsola di Deio » ov^ è il Monte
Cinto. I popoli del Chersoneso » o com* ora chiamansi » della
Crimea » le immolavano gli ospiti ivi spinti dalle tempeste, he femmine
romane » dopo Vavere ottérsuto ciò che htamavun co" voti, andavano
a* d*Agosto con le. faci ardenti in mano, e la corona eul
capo\ al Tempio suhurbano di questa Dea situato in Arì^ eia. Quivi
frequentemente i Sacerdoti succedevano gli uni agli altri » mentre , non
godevano di questa di* gnità solamente gV ingenui, ma se la
contrastavano anche i servi e i fuggitivi in una guerra particola*
re » in cui chi riportava la vittoria , otteneva a un tempo stesso il
Sacerdozio » che apprezzavano come un Kegno. Una tal Dea peraltro y
quantunque sten* desse dal cielo per godere del suo Pastorèllo
Endi-- mione » fu sommamente gelosa della propria pudici* zia,
giacché trasformò in Cervo Atteone \ perchè osò di guardarla quando era
nuda in un bagno. (3o) Talia è quella Musa » che presiede
principale mente a* Canti piacevoli e amorosi. Dice Ovidio ^ che
dia insegnò sopra inegnali rote ec. alludendo al diè stico latino » il di
cui Esametro ha » com* è noto ^ sA piedi, e cinque il Pentametro^
Digitized by Google 20 Ma intanto tender
dei T insidie : prima Gli augelli taceran di primavera, Le
cicale in estate , e il can d^Arcadia Incontro a lepre prenderà la
fuga, Che dolcemente Femmina tentata A Giovine resista ; e
quella ancora Tu vincerai, che ti parrà ritrosa. Come il
piacer furtivo è grato alF Uomo, £ grato alla Donzella . Asconde
questa Le brame sue, T nomo le cela invano; Ma se tu possa*
vincerla una volta, Preverrà con le sue le tue preghiere. Ne’
molli prati al suo Torello accanto La giovenca muggisce ; e la
Cavalla Col suo nitrir fa lusinghiero invito Al cornipede maschio .
In noi pkt forti^ Ma non però cosi furiosi, sono Gli stimoli d’
amor i lodevol fine Ha la fiamma delP Uomo. A che di Biblì ( 3 i)
Ricorderò, che d’ un vietato amore Arse pel suo Fratello , e pon un
laccio Vendicò da se stessa il suo misfatto? Non, come Figlia
dee,Mirra amò il Padre,( 3 a^ (3i) BiUi nata da Mileto e dalla
Ninfa. Gianczf , amò perdutamente Canno suo fratello. Siccome non
Ve riuscì di renderlo à sitò riguardo amoroso ^ si die in preda a un
pianto così dirotto ( se si presti je e al libro IX. delle Metamorfosi )
che fu convertita VI un fonte yo( se si crede al libro presente ) si
prò-- curò ella etessa con un laccio la morte. (3a) Avendo
Mirra concepito un immenso amore per Cinìra suo padre , gli fu posta in letto
da me nutrice in luogo della consorte. Accortosi Cinira del fallo ,
tentò di uccìderla } ma essa fuggì bay ove fu cangiata in albero , e
diede alla luce il bellissimo Adone , che fU V ‘unico frutto d un st
fu nesto incestuoso accoppiamento. Digitized by Google
ai E oppressa ora si cela in chiasa scorza: Delle
lagrime poi, che dal suo tronco Odoroso essa elice ^ ungiam le
membra. Che s^ban quteste stille il primo nome, Del
frondos’Ida nelVombròse valli. (33). Era forse la gloria e la
delizia Deir armento un Torel candido , solo Negro segnale avea fra
corno e corno: Una sol f^u la maccbìa, e latteo il resto.
Questo bramaron sostener sul tergo Le giovenche ginosie e di Canea.
Oodea di farsi adultera Pasifae (34) Del Toro., e'nel ano ooj
geloso sdegno Nutria contro le amabili giovenche: Io cose
note canto; e ciò non punte Creta negar, quantunque siai*iqendace.
Creta, cui son cpnto Città soggette. Con r inesperta man ; Pasifae
ali Totro Dicesi recideste or verdi frondey S 1 Or r erbe
tenerissime de’ prati.2 Erra compagna dèli’st>nentOì,;e invano-
Del maiitoy pensier T arresta j vinto. Era Minos da-un hove ^ A
rche* tu vesti, . Donna , preziose spoglie ? Il tuo Diletto ■
— --'1-! ■ J , . ■_ / (33) Mà è un mont 0 ^ Creta ; nè deéù qui
còn^ fondere cpl Monta, Ida^ pqiaao , ope seguii la famgsa lite fra
Venere y Pallade e Óit^none. (34) Sdegnata Venere contro il Sole y
perchè Vavea fatta sorprèndete da^*Numi det letto con Marte ffe* à
che Pasifae figlia del .medesimo , e moglie di Mi-» nos Re di Creta, ^
innamorasse ardentemente d* un Toro. Essendosi questa racchiusa in una
Giovenca di legno coitmtta da Dedìdà y si congiunse col Toro
diletto, e diede al Sole, in nipote il celebre Minotaio- To , che fu
ucciso da Teseo nel famoso làbcrkito» Digitized by Google
22 Di tai ricchezze non conósce il pregio.
Mentre vai di montano armento io traccia, A che giova lo specchio , a che
le chiome. Lassa, adornar si spesso ? Ah I presta fede Pare allo
specchio 4 che bovina forma Ti nega ; invan veder sulla tua fronte
Desideri le cornac Se ti piace ' Minos, a che un adultero ricerchi
P E se brami ingannarlo , a ché noi fai Con un Uomo? Per boschi e
per foreste Oià la Regina , il talamo lasciato, ^ Vanne quasi
fiaccante , a cui furore Spiri P aonio Dio . Oh quante volte La
giovènca «rivai con volto iniquo Mirò, e fra se, perchè tu piaci, disse,
■ Al mio Signor ? Ve^com^* in facciala lai* Scherza sull’erbe
tenere , ed esulta,, E tài fóIlié/-non dubito non credai ^
Per lei decenti : mentre in suo pensiero: Volge tai còse , ordina
che sia tolta* ^ • Dal gregge immenso , è immeritevol venga
Al curvo giogo strascinata, o vuole Di snperstizion sacrai * fra-l’are •
• Vittima cada;!e nella fi^ta dtwtr^ , • Gode tener
.le.:.viscero fumanti — - - Dell’uccisa rivai. AHI quante voke
? Gon le uccise rivaV placando i NUìiii, ^ Disse,
tenendo'visceri\-'piacete ' Al mio Dilettov e quante volte
ancora Chiese in Europa èsserconversa e in Io, (35) (35)
Europa figlia di Agenorg Re di Fenicia , ^ éorella di Cadmo , era dotata
di^ sorprendente^ bellez¬ za. Aree Giòvo per Ui. di un amore così
violento, Digitized by Google aS
Che questa è una Giovenca, e quella ìMotso' Premè d’ un Bovo . Fè
le strane voglie Paghe Pasifae ascosa in lignea vacca, Onde
il parto alla luce uscì biforme. Se sapeva piacere ad un sol uomo^
(36) E foggia di Tieste il turpe amore D’ Atreo la Sposa, non
avrebbe Febo Il cammino sospeso in mezzo al corso, E rivoltato
il carro, i suoi destrieri Mossi incontroairAurora. Anco la Figlia,( 37
) Che i purpurei capelli involò a Niso, Coprì del corpo suo le
parti estreme Con la sembianza de’ rabbiosi cani. thè
trasformatosi in Toro, la portò sul suo dorso in quella parte di Mondo ,
che dal nome della medesu ma si chiama Europa. Io y o Iside
fu , come Si è detto al numerò ii. epnoertita dallo stesso Giove in una
Giovenca. (36) Erope moglie d* Atreo giacque con Tieste fra^ tello
del medesimo, e nacquer da essi due figlj, che avendo Atreo dati a
mangiare al lor padre medesimo in un convito, il Sole per celare un tanto
misfattò tornò indietro , e corse incontro aWAurora. ( 87 )
Scilla, figlia di Niso Re di Megara s^ inva^ ghì di Minos Re di Creta ,
che le assediava la pa^* trìa, e a lui recò il purpureo capello del
padre, dal qual dipendevano i fati di quella Città. Essa fu jj^i
disprezzata harharamente dalV ingrato Minos , e fu , secondo le
metamorfosi, cangiata in uccello. Vi fu però un^altra Scilla figlia di
Eorci , la quale , avendo bevuto un^acqua per lei avvelenata da Circe
, venne subito trasformata in un mostro, la di ciS parte inferire
era simile a quella di un Cane. Con-^ eepì la medesima tanto orror di sé
stessa , che si get>» tò in un golfo del mar di Sicilia , che ha preso
da ^ella il suo nome» Ovidio ha qui confuso fseste due*^
Digitized by Google a4 Il Figli uolo d^Atieo,
che in terra e in mare (SU) Di Marte e di Nettuno evitò V ira.
Cadde vìttima poi della Consorte. Chi di Creusa sull’inìqua
hamma (Sq) Non sparse il pianto, e sulla Strage orrenda Che fe*
de’proprj figli un* empia Madre ? Frivo degli occhi pur pianse Fenicio,
(4o) E voi, oarallì spaventati, il vostro ( 4 i) (38) Agamennone
è veramente figlio di Filistene , ma da Ornerò^ e da tutti gli antichi
poeti gli vien dato per padre Aireo suo aco come un personaggio più
celebre» Fu dichiarato Agamennone per le sue mira^ bili imprese il Re
deTle di Grecia, e per tradimento di Clìtennestra sua moglie ucciso da
Egisto , dal quale era ella amata impudicamente, ( 39 )
Giasone j abbandonata Medea, sposò Creusa figlia di Creonte Re di
Corinto, Medea per vendicarsi di tafe infedeltà , f^ strage di due teneri
fanciulli nati da lei 4 da Giasone, e ridusse con fuoco ariifi-
doso in cenere ì* infelice Creusa e tutta la famiglia e la Reggia di
Cleonte, (40) Furono tratti gli occhi a Fenicio figliuol d^A^
mintore, perchè una concubina del padre Vaccusò falsamente d'acerle tolto
Vonore, Ricuperò egli la vi¬ sta per i farmaci a lui apprestati da
Chirone , il qual gli die poi in custodia il giovine Achille, con
cui andò aWassedio d,i Troja, (41) Ippolito figlio di Teseo
disprezzo Vamorosa corrispondenza che gli esibì Fedra sua matrigna,
Sde¬ gnata ella fieramene di ciò , disse al padre , che le aveva il
medesima insidiato V onestà ^ e Teseo lo ab¬ bandonò al furor di Nettuno,
Essendo per ciò com¬ parso un orribil mostro marino^ mentre Ippolito se
ne andava sul suo, carro lungo la spiaggia del mare , i cavalli per
lo spavento preser la fuga, marciarono il legno in pezzi ^ e trucidarono
miseramente il lor Cgxìdottii^o, > Digitized by
Google I . ^5 Condottier tracidaste.E perchè» o
Pinco, (42) Gli occhi tu togli agPinnpcenti figlj ? Ah che la
atessa ^eaa. il tuo delitto Un dì vendicherà. Tali infortunj ^ Da
uno sfrenato aq^or trasse sorgente Delle lubriche donpe . Ornai t’
affretta, £ non temer di ritrovar contrasto Nelle Donzelle ;
appena, una fra molte * Ne incontreraiepe. a te neghi vittoria. ■E
r indulgènti e, le ritrose pure lì Goì^qu esser pregata; pna
ripulsa I Non ti spaventi ^ è questa ingannatrice. iMa perchè
ingannatrice Y ognor pip grata INuova per esse voluttà riesce.
|E l’alma loro adescan facilmente |l novelli amatori ..'Il vici^
campp Ci sembra più .ijber^^so ,^0 il gregge altrui
^-,*• /• - Vedi che a parte sia della Padroni
I ) Ov, Arte (Tarn. b (4a) Fineo figlimi
Agenore Re Arcadia yO co¬ me ad altri piaqe, di Tracia , o di Paflagonia
y spo¬ sò Cleopafi^a figlia di Bqrea, e‘. n*ehbe due figli. O sia
che questa morissero che fosse da lui ripudia¬ ta y prese il medesimo in
moglie Arpài ice , e cornane dò , che fossero ioltìr gli occhi a* due
figlj della sua prima eoniorte, perché temè che aiiesjser avuto un
il¬ lecito commercio con Ija novella sua sposa. Fu da Borea
vendicata V innocenza do* nipoti con Vacciecof- mento di Fineo , e
Giunone e Nettuno gli mandaro¬ no sulle mense le Arpie y che a lui
macchiavano tur¬ pemente quelle ‘ vivandé y che non mangiavano essa
stesse* • Digitized by Google 26
De’ nascosti consiglj, e de’ piaceri Suoi più segreti. Con promesse
e prieghi Corrompi la sua fi; tutto otterrai, Quand’ ella
voglia, e non ti sia contraria, Dalla facil. tua Bella • Il tèmpo
scelga. Come i Medici sogliono , propìzio. Onde il tuo amor
nel dodi cor le infonda. Ella il tuo amor le infonderà nel core,
Quando per lieti eventi andrà giuliva Come lussureggiare in pìngue campo
' Suole la biada. Quando r alma è scarca Dalle pallide cure , e
lieta esulta. Si spande allora , e dà facile accesso ÀH’arti
lusinghevoli d’amore. Mentre fra i neri affanni involta visse
" Troja , con V armi si difese ; e lieta (43) Il cavai
di soldati e insìdie pieno Àccolèe entro le mòra. Ancor si tenti,
£ non rimanga inyendicata , quando Si dorrà , chè riceve ingiuria e
scorno Dall* impudica Amante del Marito. La punga a sdegno la
fedele Ancella, Quando col pettin mattutin compone Gl* indocili
capelli, ed alle vele. L’ ajuto aggiùnga anco de’ remi, e
dica, Sospir seco tràehdo, in bassa vocè: Tu noli potrai,
cred’io » come si merta. Rendergli la pariglia. Allor le parli Di
te con detti insinuanti , e.giuri Che tu brugi per lei d’immenso
amore. Mentre il tempo è propizio , ella s’ affretti ( 43 )
Alludesi al cavallo di Ugno ^cht il perfido Sinone introdusse pien di
soldati in Troja , quando tra assediata da* Greci» Virgilio Endde
IÀh»lÌ»v» Digitized by Google Che non cadan le
vele, e cessi il vento. Come sì scioglie il gel, V ira ,
indugiando^ Si dilegua così. Forse mi chiedi. Se la servente
innamorar ti giovi ? Tai cose ammesse, il rischio é
manifesto^ Una rende V amor più diligente, L’ altra più tarda
e meno attenta : questa Alla Padrona sua ti serba in dono,
Quella a se stessa • esito dipende Dalla fortuna, che quantunque
arrichì Agli audaci ^ a te do fedel consiglio. Che d’ un’
impresa tal lasci il pensiero. Non per scoscese perigliose strade Andrò,
nè, duce me, verrà ingannato Alcun Giovine amante * Ma se poi,
Mentre riceve e assiduamente porta L’innamorate cifrerà te non solo
Per la sua fedeltà piaccia, com’ anco Per la beltà del corpo ; allor
procura Della Padrona in pria il possesso, e ch’indi Questa la
segua: l’amoroso gaudio Non dall’ Ancella incominciar tu dei*
Se all’arte mia si crede, e i detti miei Non portano pel mar rapaci
i venti, Questo consìglio mìo nell’alma imprimi: Non mai tentar 9
se non compisci l’opra» Se a parte ella verrà del tuo delitto.
Non la temere accusatrìce • Invano Invischiato l’angel tenta la
fuga. Nè riesce già uscir dalle allentate Reti al cinghiale •
Il pesce all’ amo colto Si scota invano ; tu la premi e assedia.
Nè la lasciar , se vincitor non sei. Se a una colpa comune
ella soggiace, Digitized by Google a 8
Non temer tradimenti ; a te saranno Note della Padrona opre e
parole. Se cauto celerai 1’ accusatrice. Sempre,
contezza avrai della tua Amica. Folle è colui che in suo pensier si
crede òhe sol debban del cielo osservar gli astri Della terra il
cultore ed i nocchieri. Non a’ campi fallaci ognor sì debbe
Cerere abbandonar, nè alle tranquille*^ Cerulee onde del mar la curva
prora. Ah 1 che non sempre assicurar ti puoi Il cor di vincer
delle Belle; spesso Ciò s’otterrà, se il tempo sìa propìzio.
Se deir Amica il natalizio giorno (44) (44) Era presso gli
Antichi in gran venerazione il giorno natalizio : e gli Amanti
celebravano ‘ con feste e con doni quello^ in cui eran nate le Donne che
ama^ vano . Si dee preferir certamente questa lieta costui manza a
quella che hanno adottato i Messicani e i Cinesi, i quali riguardano un
tal giorno come infausto e doloroso . Alcuni di essi invece di ricevere
con ac¬ clamazioni di gioja la nascita d^ un figlio , gli rispon¬
dono ai suoi primi singulti , mio figlio tu sei venuto al mondo per
soffrire \ soffri ^ e t’acquieta . Si fab- hrican altri di buon^ ora la
tomba, e vanno ogni giorno a renderle omaggio come al termine
consola¬ tor é d^.lor giorni . Non poco influisce, a dir vero, un
tal uso a fomentare il barbaro costume d^ uccidere i proprp figli in un
popola ^ il guala non gli Ottimi suoi libri classici illustrati dall*
immortai Confueio e con le savissime leggi, su cui ha stabilito il suo
pacifico Impero, cerca di rendersi virtuoso ed illuminato.
Èra presso i Romani nel suo pieno vigore P uso delle visite e de*
doni nel principio dell* anno, il qua- le incominciava anticamente col
mese di Marzo , le di cui Colende eran consacrate al Dio Marte .
Cele- hravand in Roma nel primo giorno d*un tal mese alcune feste
dette matronali in memoria della pace Digitized by Google
SLg Ricorra , o le Calende che seguito Abbiaa
quelle di Marte, a Vener piace, O sia che il Circo sì rimiri adorno,
(45) Non come in altre età, di statue lievi. Ma per le
spoglie ivi de i Re deposte, L’ opra differirai : sovrasta
allora Con le piovose Plejadi P inverno; Allor nella marina
onda s’immerge Il Capro tenerello ; allora giova Deporre ogni
pensier . Chi al mar s’afSda Del lacero naviglio appena puote 1
miseri campar naufraghi avanzi. Tu se in quel dì incominci , in cui
si vide che le Sabine avevano appunto in tal di stabilita
fra i loro SpoH , ed i loro Padri , i quali volevano con V armi vendicare
il ratto delle medesime . Le persone maritate avevano solamente diritto a
queste feste / ed OraT^io nell* Ode ottava del Libro III. si scusa,
perchè vi prende parte anch? egli , essendo celibe. Siccome il mese
d* Aprile è sacro a Venere , e suc^ cede a quello di Marzo dedicato a
Marte , dice il Poeta che Venere gode che abhian le sv^e Calende
seguito quelle di Marte per alludere alVamorosa cor^ rispondenza che ella
aveva coi Dio della guerra . Le Ihnne e le Matrone romane facevan nelle
Calende d*Aprile gran festa a questa lor Pea tutelare ; e gH Amanti
contribuivano alle medesime con le donazioni. (45) Non vuole il
Poeta, che si studino i Giovani per adescar le Donne nel lor giorno
natalizio , nel principio dell* anno , e in occasione de^trionfi
celebrati nel Circo , perchè essendo le medesime allora occupate in
adornarsi , incontrerebbono qiiP gravi pericoli , che sono qui espressi
con l* allegoria dell* Inverno , e con quella delle Plejadi e del Capro ,
le quali stelle sorgon sull* orizzonte nel mese d* Ottobre , che è un
tempo pieno di pioggia e di tempeste , e perciò non propizia a*
Naviganti.. Digitized by Google 3ó
Scorrer sanguigno umor la flébìl Allia (4($) Per le piaghe latine,
o in quello in cui Torna la festa settima, che è sacra Al Palestin
siriaco, e in cui s’ astiene Ognun dalla fatica, avrai mai sempre
Culto superstizioso al di natale Delia tua Bella ; pur funesto
giorno Sia quello , in cui tu offrir dono le debba; Ma a te lo
rapirà , se tu gliel nieghi, Che a Femina mancar non puote 1’ arte
Per carpir le ricchezze a Giovin caldo. Del Mercante il Garzon verrà
discinto Alla vogliosa ed avida Padrona, E porrà le sue metti
in vaga mostra, Mentre tu giungi, e al fianco suo t’assidi. Essa ti
pregherà, che tu le osservi Per additarne il prezzo ^ e liberale Ti
sarà di preghiere e ancor di baci, Perchè le compri , e giurerà
contenta D’ esserne per molt’ anni , e che non puoi Comprarle cosa
che le sia più accetta. Se poi ti scusi che non hai denaro,
Ti chiederà il tuo nome , e turpe fia Per scusa addur , che tu
firmar noi sai. Rinasce poi, quando le fa bisogno, (46) A ih.
Agosto ebbero i Romani una sconfitta da* Galli sul fiume Allia non
lontano da Roma , onde come infausto e di pessimo nome fu condannato
un tal giorno . Crede il Poeta , che debbano i Giovani onorare il
dì natalizio delle lor Belle , e vuole che intraprendano V amorose loro
conquiste 0 in que* ma-- linconici tempi qui figurati sotto il giorno alliense,
CUI aman le Donne d* esser rallegrate, o in que^giorni festivi simili a*
sabbati giudaici , ne* quali non è alle medesime permesso 4 * occuparsi
in alcun lavoro. Digitized by Google 3i
Che dell* offerte natalizie il giorno Rìeda y e di pianto sa
bagnare il volto Per la supposta perdita di pietra. Che le
ornava 1’ orecchio . D* altre cose L’ uso ti chiedrà , che date poi
Renderle nega ; tu le perdi , e invano Speri per ciò che grata ti si
mostri. No , quando avessi dieci lìngue e dieci Bocche , io già
non potrei dell’ impudiche Donne n^^rare le sacrìleghe arti, li
guado tenti un ben vergato foglio; E della mente tua la prima
volta Sia nunzio ; le carezze, e le parole, Che imitino il
linguaggio d’ un Aliante Rechi , e fervide aggiungi anco preghiere.
Donò da’prieghi mosso a PriamoAchille (4?) Di Ettor l’esangue spoglia; e
Iddio sdegnato A voci supplichevoli si piega. . Prometti pur
, che nuocer già non ponno Mai le prorjaesse ; ognun può farai
ricco Con semplici parole. La speraD 2 $a Data una volta , lungo
tempo dura: C' inganna , è ver , ma Diva utile è a noi. Se
liberal con lei fosti di doni, Avrà ragion d* abbandonarti ;
quello, Che già le desti, è suo , nò può timore Di perdita
nutrir . Ognor tu devi (47) Achille dc^ aper ttraseinato tre volte
intorno alle mura di Troja il corpo d* Ettore da lui ucciso alV
assedio di quella Città y lo rese finalmente y 0 a dir meglio , lo vendè\
a- ^Priamo Padre del, medesimOy che prostrato a* suoi pièdi > lo pregava
di ciò caldamente^ Exanimumaue amo oorpns vendebat Achillea.
1 Virgil, Digitized by Google 82
Finger di dar quel che non desti; spesso Fu deluso così di steril
campo II credulo Padron • Così, perdendo A perder segue il
giocator, nè lascia Per questo il gioco ; e il lusinghiero dado
Nelle cupide mani agita ognora. Questa è Tiinpresa, e qui il Valore
è posto; Ascolta ; senza doni il suo cor tenta La prima-volta,
ancor che ì doni apprezzi; Se lor liberal ti sia, 8«^rallo Ognora.
Vada dunque il tuo foglio , ma vergato Con detti lusinghieri ;
della Bella La mente esplori ,*e primo il caihmin tenti. Cidippe
ingannò un pomo, in bui rincue(48) Note leggendo, fu di queste
preda. O Giovani romani , io vel consiglio. Deh
coltivate le bell’ arti ; solo Non utili Saran per la difesa '
De^ paurosi Rei ; ma dalla forza Del facondo parlar, vinta la
mano A voi daran col Giudice severo. Con lo scelto Senato , e
ilPopol folto Ancor le culte amabili Donzelle. (48) Da Zea
una delle Isole Clclàdì andò Acanzio in Deio per assistere a* sacrifici
di- Diana , che là si celebravano splendidamente. Ivi ei concepì uìà^
immenso amore per Cidippe, ma non ardiva di chiederla in is- posa .
Stette molto tempo dubbioso nello scegliere lin mezzo per appagare la sua
passione ^ ma in lui ces^ sarono i dubbj quando intese che vigeva in Deio
una legge , per cui restava concluso tutto ciò che si diceva nel
tempio di Diana ; è però gettò a* jùedi della sita Bella un pomo y in cui
erano scritti i versi seguenti* Juro tibi sane per mystica sacra
Dianae He Ubi venturam comitem sponsamque futuram: Digitized
by Google 35 Ascosa V arte resti, e da
principio Non sii eloquente. Da’vergati, foglj Vadan lungi parole
aspre e ricerche. Chi mai, se non. di senno affatto privo»
In tuono volgerà declamatorio . < ; Alla tenera Amica il
suo discorso? Oh quante volte fu giusta cagione Di grave
sdegno un foglio ! 1 detti tuoi Meritin fede , e adopra usati
accenti» Ma sempre, lusinghieri » onde l,e sembri^
D’udirti ragionare . Se ricusa, •. Di ricevere il foglio , e
sena’ averlo , . Letto a te lo rimandi » |a speranza Però non
t’abbandoni » e ,il mio consiglio , Serba in memoria , II. collo al giogo
piega Il Giovenco difficile col tempo» E a soffrir s’ammaestra
il lento freno Col tempo anco il Cavallo. Un ferjreo anello Dal
cootinao nso si consuma » e il vomere* Dal continuo rivolgere la
terra Che del sasso è più duro? e che più molle ' Avvi dell’ onda ?
eppure il duco sasso Dall’ onda molle vieu scavato . Ancora»
Se sii costante» vincerai col tempo Penelope med^sma : » A vero»
,, Caddero al suolo le trojatie.^muri^» Ma pur caddero
alfin 1 ìtiglj tuoi , Leggerà anch’ oasa » e non darà risposta»
Cui tu non debbi violentarla : solo Fa che ognor legga lusinghieri
accenti» £ di risposta alba sarà cortese A ciò che l^sse ; a
gradi e con misura Succedefansi questi ufficj ; Forse / Verrà
da. prima A tc foglio dolente», à a Digitized by
“Google 34 Con cui ti pregherà, che r amoroso
Linguaggio cessi ; nia desia il contrario Entro il suo core, e vuol che
tu prosegua. Continua danque;e alfin resi contenti Saranno ì voti
tuoi . Quando supina Vien trasportata sulle molli piume. Fingendo
indifferenza, ti presenta Della Padrona alla lettiga ; e canto,
E in cifre ambigue quanto puoi favella. Onde qualchfe importuno
udir non possa Il vostro ragionar 7 Sé’ volge il piede Negli
spaziosi portici , tu quivi Trattienti fin eh* ella^ vi fa dimora.
Or la precedi ed or la segui a tergo: Or lento movi il passo
, ed or t* affretta. Nè d^ inoltrarti iU ntezzb alle colonne Abbi
rossor, nè di sederle al fianco. Non ne’ Teatri senza te si
trovi, E segnai póVti al teigo , onde la vegga. Giacch* ivi
il puoi, contemplala , e le dici Quanto brami co’segni è con lo
sguardo. Alla saltante applaudisci l e sii Favoirevole a quei che
rappresenta Personaggio amoroso . S* ella sorge, Sorgi ; e ti
assidi pur, s’ ella s’assida; £ a suo ^piacere il tèmpo tuo
consuma. Ma non volere innanelìare il crine Coiì’càldo ferro,
e con lUordacè pomice ' Stropicciarti le gambe ; il che tu lascia
A’molli Sacerdoti di Cibale. ( 49 ) ( 49 ) Oj9e , o Vesta , che
ancor dicevi Rea yC la Dea Buona, è Madre degli Dei, e si chiama Cibale ;
per^ che nel monte Gibele dU Frigia U furono la prima
Digitized by Google 33 Beltà negletta agli
uomini conviene: Vinse Teseo; Afianna » e la rapio Disa.doroo
le<t;onipie , il cria scompQsto;( So) Arse pe}*:FiglÌQ:Fe.drtt., ed
era incolto; Cura e deli^^ia. della Dea ;d’. Amore . Fu Adon
,:che fra le selve i di traeva. S’ann^grin pur le membra al marzio
Campo, Ma si^o monde, e monda sia la ve8te.(Si) Aspra non sia la
lingua, e netti sieno.i Dalla lug^e i denti; il mobil».piede . >
Non nuoti ih larga pollo ;^*ed ìne6perta i>olta kelel^ati i
sacrificj » T suoi Sacerdòti" éràtio ew.- nuchi , e ogni giorno ,ger
comparir moftdi , si raschia^ van membra, t ( 5 o) Ari^nay
figlia del Re Minos , s* innamorò per¬ dutamente di Teseo , che fu da*
Greci mandato con al- tri giovani in Creta per esser divorato dal
Ii/Iinotauro~, Etsa gV insegnò la maniera d*'uscir dal làbérinto
quàn^ do avesse ucciso quel mostroe in compagnia di dra sua sorella
s*.iifcamminò con. VAmante^ che dpmato il Minofauro y tornava in Grecia
vittorioso . Teseo chi nel viaggio orasi gik invaghito di Fedra ^ lasciò
bar-' Caramente in Nasso Arianna , .e andò con la sorella Ì2i Atene
sua patria . Ivi questa dioonne , come si è detto, amante d*Ippplito nato
da Tesele da Ippoli¬ ta Regina duello Amaz%oni. Venere amò
ardehtemente Adone ^figlio di Cinirq, e di Mirra , quantunque vivesse
continuamente né^ bos¬ chi intento a caccksre le fiere. Pianse ella
amaramert’^ te perchè questo giovinetto fu ucciso da un cinghiale^
e nony avrebbe mai reso a Proserpina , se Giove non comandava', che per
otto mesi avesse Venere il posses¬ so d* Adone , e per gli altri quattro
sei godesse Pro¬ serpina . '( 5 i) Nel Campo martió d
facevano in Roma al¬ cuni giochi, pe*quali i giocatori si snudavano
intera¬ mente , « si dngevan le membra con degli unguenti, che
rendeano a* medesimi nera la pelle. Digitized by Google
•36 Forbice non ti renda il crin deforme t Ma da
maestra iuan^ ti sia recisa E la chioma e la barba i $enza macchie
Sian r unghie, nè soverchinoi le dita; Nelle concave nari non si
scorga ^ ^ Alcun pelo; nè esali nn tris^to fiato* - ' La
bocca; e il naso non rimanga olfeilO „ Da che il fetido becco ognora
sape^ ' A lasciva Fanciulla il resto lascia, £ alla bardassa
. Ma già Bacco òhiama Il vate suo : soccorre ei pur gli amanti;
E, la fiamma che learde ei favorisce. „ Furente errava la creten.^
Ppnna (Sa) Pcjr di Nasso ignota arena, . Che flagellano
ognor T onde dei mare» Ella coperta con discinta veste Come
nel sonno , nudo il pjede e sciolte Le crocee chiome, al sordo mar si
volge;. E bagnando di lagrime le gote, Teseo chiamava in alto
suòli : gridava, E in un piangea la mìsera, ma in lei Era
tutto decente ; nè men bella Fu di lagrime aspersa « di dolore.
Mentre di nuovo con le man fa ingiuria Al delicato petto, a che
fuggisti t É cosa fia.di me, perfido? dice^ Di me che fia,
ripete ; e intanto il lido De* cìtnbali e de’timpani p^cossi' Da
un* attonita mano il suono assorda. ( 5 2) Quando Arianna si vide
aèhandonata nell* sola di Dfasso^si diede in preda all* ultima
dispera^ sùone . Bacco ivi accorso con le Baeeànti e Cón Sileno ,
sfio pedagogo, la prpse in sposa y e collocò la. di hi chioma in Cieìp
prenQ ad 4 rtur ^t \ v.t Digitized by Google
Ca<l’ ella al suolo 4a timor sorpresa; Le mbucaa le iparole ; e
piik pon scorro Per le;geliAe} oppresse membra il sangue. S’
appreesan ile ^eoauti^ U<cfia disciulto^ Ed opQO;i liéyl 3iltiri
soiio Previa turbo del DiOi*;£coo sul dorso D* uo< pasciuto
asinel V ebrio Sileno Carico d’ anoi.y^^che :si reggo appena,
E profiumo aspirare>i )brevi crini. Meiìftr eglit
seguei'le! Saeeanti, e queste Lo cfaiadianp /oggende ; l’inesperto .
Cavaliere il qjUadrtipedo, suo si^za. Deir aaiào orecchiuto al capo
scorre, E a terra cade : i Satiri griderò; Sorgi V deh
sorgi y o Padre . Intanto giunge 11 Dio ^ che d’ uva al carro adorno
accoppia Le tigri, a ouircoh le dorate briglie 11 freno regge, •
Partì : Teseo , e insieme D’ Arianna, fa voce ed il dolore.
Tentò tre volte di fuggir , ma invanoy Chè il timor la trattenne, e
inorridita Tremò qUal steril spiga al vento,e com# Leggiera canna
in umida palude; Allora il Dio le disse : * ogni timore,
Cretease 'Donna , dal tuo cer disgombra; In me tu* vedi un più fedele
amante; Di Baceo anzi sarai la dolce sposa. Tu
spazierai nel ciel ; la tua corona Lucida stella in ciel sarà di
scorta Air incerto Nocchiero in suo cammino. Di^se , e dal carro
scese, onde non debba Seatir paura delle tigri, e il piede Sulla
docil arena impresse Torme. Eapilla poscia, e se la strinse al
seno> Chè tentato avria id van forgi! contralto^
Mentre fonile a un Dio tutto si rende. De’suoi segnacr imen cantd
una parte, L’altra ripetè in alto snon gli evviva. Cosi al letto
nuziale il 0io 4 la Sposa ' Furon guidati^ e s’annoSdaro insieme.
Quando tu sederai con donna a mensa, E di Bacco a te offerti i
doiii siedo, > Tu a Bacco,èa‘*NunJi che^han fa cena in
euri Porgerai voti, onde (dal Vrn non venga Offeso il capo ’ tuo ;
Quivi* tu puoi ‘ ‘ Con ambigue parole a lèi far iloti’ "
; I segreti del cor, ma per6^in modo ' Che ben s’ accorga esser a
lei dirette. Potrai tu ancor con gocmole di vino Teneri accenti
esporre, onde conosca, Ch’ ella assolnto ha nel tuo core
impero. Co’ tuoi s’incontrin jgli oocbi suoi ,<ed il fòco Che
t’arde il sené , a lei foccian palese; Parla talora col silenzio il
volto. Procura il primo di rapir la tazza. In cni bevv’
ella , e dove i labbri impresse. Bevi tn pur : qualunque il cibo
sia Bichieder dei, che tocco avrà col dito; * E mentre il
chiedi, a lei strìngi la mano. Volgi i tuoi voti pure, onde tu
piaccia Della Bella, al Marito . Assai ti puoto * Util recar,
se a te sia fatto amìcoi Se dai la legge al bere, a lui la mano
(53) i ( 53 ) Solevano i Rfìmarù appena posti a mensa
eleg^, gere il maestro della cena y che da Orazio {lib. i.od^ 9. )
li chiama il Taliarco\ Prescriveva il medesimo U leggi del convito e la
manieM di^ becere y'e ordi^ Digitized by Google
Ce^i, e riponi dal tuo capo tolta La corona sul suo. Sia a
te inferiore, Egual sia pur, si serva in tutto il primo; E seconda
parlando il suo linguaggio. Col Telo d’amistà tessere inganno
È vìa sicura e frequentata , pure Non è senza delitto. 11 Talìarco
Ancor che troppo generoso appresti I moltiplici vini e le vivande;
£ benché creda di dover più assai Veder di quel che fu ordinato,
certa Avrai nel ber da noi legge e misura. Onde la mente e il piè
si serbin atti A’ loro ufficj : d’ evitar procura Gli alterni detti
e gV ingiuriosi accenti, £ vìe più ancor se sien dal vin
prodotti; E troppo faeil non indur la mano napa alle Polte
Commensali che ognuno , bevuto il suo bicchiere di pino, proponesse
qualche amena que^ stione . Auguravansi spesso tanti anni quanti
bicchieri di vino bevevano, e spesso ne bevean tanti quante e- ran
le lettere che formapano il nome della Beliamo deW Uomo insigne , a cui
facevano un tale onore . Se molti erano gli anrd augurati , o se molte
erari le leU tere componenti il nome della persona in onore di cui
heveano ; mescepano allora il vino in una tazza assai grande , e
compensavan così i molti bicchieri che apreb’^ ber doputo puotare . Era poi
in uso al termine della mensa il vibrare in aria con le due prime dita i
semi d* una mela fresca : si credepano fortunati in amore quando
toccapan con quelli il soffitto della camera ov*era apparecchiata la
tavola^ e si riputavano infe* ìici quegli amanti , che non li facean
sorgere a queU V altezza, De^moÙi altri giochi ^ che i Romani usa^
vano in queste circostanze, non ne è a noi perve^ nuta che un* oscura
notizia. Digitized by Google 4o A
perigliosa rissa. Al suol trafitto (54) Euritone cadéo, perchè soverchio
Bebbe i vini apprestati. A* dolci scherzi Atta è la mensa e il vìu: 8*hai
bella voce^ Non ricusa cantar ; salta s’ hai molli E pieghevoli
braccia ; e finalmeute S’hai doti onde piacer, piaci. La vera
Ebrietà nuoce ^ può giovar la finta. Balbetti in tronco suon l’astuta
lingua^ Onde di ciò che tu ragioni, o fai Oltra ’l dovere , il vino
sol s'incolpu Augura alla Padrona ed al Marito Una notte felice ;
ma per questo Fa tacito nel core opposto voto^ Tolta la
mensa, allor che i Convitati Saranno per partir, tra lor ti mischia
; ( La turba e il loco ti daran T accesso ) A lei che
fogge t’ avvicina, e il fianco Le premi dolcemente , e il piè col piede
•. Abbia ora il conversar libero campo, E tu lungi , o pudor
rustico, vanne. Che la fortuna e Venere propizj Sono agli
audaci. De’ precetti nostri Or r eloquenza tua non abbisogna;
Principia pur che ben sarai facondo. Imitare il linguaggio dell’
amante Debbi , e mostrar d’ aver ferito il core; E onde ti
presti fede ogni arte adopra.. Ardua impresa non è 1’esser creduto.
{Sii^ ElurUone è quel Centauro^ che reso caldo dab vino y tentò
nelle nozze dì Piritoo di rapire Ippoda»^ mia : Teseo lo percosse perciò
così fortemente , che fw costretto y.come dice Ovidio nelle Metamorfosi,
cu vo^ nàtar V anima e il vino Digitized by Google
4i Mentre Donna non v’ha, che sè non stìmi^
Sia, quanto imn^agìhar ài può, deforme. Atta a piacer ; e aémprè inver
non epiace. Quante vòlte in^amor chi sol fingendo Incominciò , d’
un vera amòr fu preda! Siate indulgenti pur, vezzose Donne,
«Con questi menzogner, se voi bramate Che in sincerò si cambi un
falso amore. Con accorte lusinghe ora si tenti Di guadagnar le
Belle, come Tacque Sa penetrar la sottoposta riva. Deh non
t’incresca ora lodar la faccia, Ora i capelli, i lunghi è ì
rotondetti Diti, ed il breve piè. Le più ritrose E le più caste
godono alle lodi Della loro bellezza ; e son pur grate ^T innocenti
Vergini i anzi il primo È la beltà d* ogni lor cura oggetto. Percliè
tuttora di rossor la faccia Tingon Palla c Giunca volgendo iti
mente Le frigie selve ed il fatai giudìzio f (551 L’augel sacro a
Gìunon le penne ostenta (56; Se tu le lodi ; e le nasconde allora
Che tacito le miri» Anco il destriero. Quando contrasta il rapido
cammino. (55) Péllade e Giunone ^vergognandosi d^essere stc^
te da Paride giudicate .met^ belle di Venere , tentare Tono di ripagare
una tate infamia col ^ procurare n questa Dea vincitrice del Pomo tutti
que*danni , eh% sono resi ormai cèlebri' da' Virgilio e da Omero z
.... Manet i^ha Bueat# repo^tuiu' Judicium Faridis
spretaeqtte ipjuria fbrmae. . i^rgiL Eneid. (56) I
Paooni ^(hrisi ^li at^elH di Giunone, pospr che solcpano'essLHinàfe
ibìqarroidi fonta Dea*, Digitized by Google
4» Gode vedersi il crine adorno , e il collo Accarezzato.
Franco pur prometti, E tutti chiama in testimonio i Numi, Che
alle promesse pedon facilmente Le tenere Donzelle. Su dal Paltò
D*un spergiuro amator Giove si ride, £ comanda che sien per l’aria
spersi I giuramenti dagli eolii venti. Solea per l’onda
stigia a Giuno il falso Giove giurar ; utile è un tale esempio.
Giova de^ Numi resistenza e giova Che noi pur la crediamo ; incenso e
vino Lor su gli antichi focolari offriamo: No, non è ver che
una secura quiete! A letargo simil gli occupi; i Numi Veggon
r opere nostre. Innocua vita Si tragga adunque ; ad altri il suo si
renda; Sii religioso in consesrYar la fede, Stia la frode
lontana, ed abbi ognora Vacua la dostra* dalle stragi. Solo È
permesso ingannar, se siete saggi, Le donne impunemente. Abbi
rossore D’ogni altra frode pur , ma non di questa. Le ingannatrici
inganninsi, che sono La maggior parte di profana stirpe;
Cadan ne* lacci , cbt^ da lor far tesi, l^àrrasi che restasse un di
l’Egitto ^ DelFacqua a* campi salntevol privo Per ben nov*anni ;
allor che al Re Busiri Trasio si fece innante , e mostrò come Possa
Pira placar di Giove il sangue D^un ospite; la vittima tù il primo
Sarai di Giove, a lui disse Busiri, Ed ospite darai Pacqua all’
Egitto. Digitized by Google 43
Falarìde cosi nell’ infocato Toro arder fè le membra di Perillo, ( 87
) E T infelice autore il primo empiéo L’opera sua. Fu 1’uno e
l’altro giusto^ Nè vi puote esser mai legge più equa Di
quella y che a morir l’autor condanna Del tormento inventato. La
tradita Donna si dolga che col proprio esempio Spergiurando
s’ingannan lé spergiuro Meritamente. Utili a te saranno Le lagrime;
con queste anco il diamante Ti ha dato ammollir. Fa , se lo puoi^
Che di pianto bagnate ella rimiri Le guancie tue; se il pianto a te
non scende, Che non si versa sempre a grado nostro^ Tu con la mano
inumidisci il cìglio. Chi mai alle dolci parolette i baci
Saggio non mischierà ? S’ ella ricusa Darli, tu li rapisci,In prima
forse Combatterà ; di scellerato il nome Avrai da lei; ma pur ella
desia Pugnando che la vinca. Sìa tua cura, Che da' rapiti
baci i tenerelli Labbri non sian offesi, o non si dolga Che furon
duri. Quei che i baci tolse. Se il resto non procura, è degno
invero Di perder ciò che a lui fu dato. Quanto (87) Perillo
fabbricò un Toro di bronzo , e lo dor nò a Falaride crudelissimo Tiranno
de'Grigeati in Si cilia , perchè collocandolo pieno di rei sopra il
fuo* co ) potesse intendere d^ lamenti simili a' muggiti de'booì.
Falaride accettò il dono y e volle che subito w entrasse Perillo per
incominciar da lui il proposto esperimento» Digitized by
Google 44 Mancò a far paghi dopo i baci i
voti! Ciò non pador, rusticità s’appella. Benché si
chiami forza, è questa grata Alle donzelle ) che amano sovente
Esser forzate a dar quello che giova. 1 piaceri d’amor, se sian
rapiti, Gode la Donna, e la franchezza ha il premio. Ma
quella che poteva esser forzata. Ed intatta rimase, ancor che in
volto Mostri allegrezza, ha mesto in seno il core. Soffrir violenza
Febe e la sorella, (58) Ma fu grato ad entrambe il rapitore.
La donzella di Sciro ìnsiem congiunta ( 59 ) Con l’emonio Guerrier,
favola è invero Nota , ma degna pur d’esser narrata. Dopo la
lite della valle Idea Per la lodata sua bellezza il premio Già la
Diva avea dato. A Priamo giunta Dall’ opposta regio Deaera la
nuova, E già viveva nell’ iliache mura Come un’argiva sposa.
I Greci”tutti ( 58 ) Castore e Pollice rapirono le due sorelle
Fe- be e ilavra, che Leucippo padre delle medesime aoea date in
spose a Ida e Linceo, (59) Venere per premio del Pomo da lei
ottenuto, promise a Paride Èlena moglie di Menelao ^ e Pa^ rìde la
rapì , e la condusse in Troja sua Patria. Sia- come i TVojani ricusarono
di render Piena Greci ^ che la richiescr più volte, questi intrapresero
contro quelli un formidabU assedio. Tetide adendo inteso , che il
suo figlio Achille sarebbe morto se andava al* la guerra di Troja, per
assicurargli la vita lo man¬ dò in abiti femminili a Licomede Re di
Sciro. Ivi s* innamorò perdutamente di Deidamia Princi* possa
reale, ed ebbe dalla medesima in figlio il ce* Icóre Pirro.
Digitized by Google 45 Deir offeso marito
avean giurato Di vendicar V oltraggio, e fero allora D^'un sol uomo
il dolor causa comune. Se noi forzava^ le materne preci.
Eterna infamia coprirebbe Achille, Perchè con lunga veste ascose
Tuomo. , Che fai, nipote d^Eaco ? Non sono Atte a filar le
mani tue la lana. Con arte ben diversa ora tu dei Volger la
mente alla palladia gloria. A che questi cestelli ? Il braccio
tuo Deve portar lo scudo; e in quella destra. Per cui un giorno
cadrà Ettore, io veggo Or la conocchia ? Del filato stame I fusi
carchi getta , e Pasta impugna. Un letto sol la Vergine reale
E Achille accolse ; ed ivi ella conobbe Che di femmina avea solo la
gonna. Con la forza fa vìnta ; almen sì crede; Soggiacere
alla forza a lei fu dolce. Quando soverchio s’affrettava Achille,
Che altr’armi avea che la deposta rocca. Spesso gli disse : per pietà t’
arresta. Qual valore or dov’è ? Perchè trattieni Con lusinghiera
supplichevol voce Li’autore,o Deidamia,di tua sconfitta? Di pudico
rossor copre la gota. Se dee la donna far la prima offerta,
lilla Tè grato il soffrirs*altri incomincia. Ah I nella sua beltà troppo
si fida Quel giovine, che aspetta che primiera Ella lo preghi. Deve
sempre 1* uomo Essere il primo ad accostarsi a lei; Ju uom le
sue preci esponga, e le sue r Digitized by Google
46 Riceverà cortesemente. Fréga Che ti voglia
accordare il suo possesso; Ella ha piacer d’ esser di ciò
pregata. Fa lor palese il tuo desio, che Giove Supplichevol si
fece ognora innanzi AlF antiche Eroine, e non fanciulla Offrì
preghiere , benché grande , a Giove. Ma se t’ accorgi che alle tue
preghiere Si fa vie più superba, allora l'opra Abbandona, ed il piè
rivolgi altrove. Molte amano chi fugge ^ ed odian quello Che troppo
le frequenta; impara dunque A non tediarle. Nè chi prega sempre Dee
del delitto palesar la speme, Ma sotto il manto d’ amistà
velato insinui Amor. Con questo mezzo vidi Deluse rimaner
ritrose e fiere Donzelle, e divenir T amico amante. Non dee
il nocchier, che le marine spume Solca soggetto alla solare sferza,
Candido avere il volto , e pur disdice Al cultore de* campi, chfe
rivolge Col vomer curvo , e con pesanti rastri Le dure zolle , e
per te turpe fia Candide aver le membra , che il tuo crine Cerchi
adornare del palladio ulivo. Sia pallido ogni amante ; è questo il
suo Proprio color ; tinto di questo il volto Sarai creduto infermo.
Fra le selve Pallido errò per Lirice Orione (6o), (6o) Giops,
Mercurio , e Nettuno furono henisd* mo accolti in casa d* Iréo uomo assai
povero* Aven¬ do questi domandato medesimi un figlio , che non
dovesse ad alcuna donna la nascita, i tre Ospiti di- Digitized by
Google E per ritrosa Najado fu Dafni (6i)
Pallido L^almà discopra il volto Estenuato ; nè a schifo; avrai di
pórre Sulla nitida ^chioma un pìcòiol manto ( 6 a). Le cure ^ il
duolo ^ le vegliate notti. Che origin traggon dà nn Violento
amore, I Giovanetti estenuai! ; non tf incresca Comparire infelice
, se tu brami Di far paghi-ì tuoi voti,'onde ognun dica Che ti
rimirà : è (Questi unWeto amante. Mi dorrò fbrsè , 0 pur' ti farò
dk>ttò A usar rarti pt^rmessé e le vietate? Ah che
amicizia è fè^^on^nòmf vani i Lodar quella , che adori, al tuo
^compagno, E perigliosa imprésa , ché se crede Alle tue Iodi , gli
verrà vaghezza D'entrar nél posto tuo. L'atto rea prole (63) Non
cercò profanai* d-Achillé 11 letto, ■ “ n !"*- 7—ri —
-—— vini hagnàti^no della ptopHa ofina la pelle del Toro da
lui ucciso per Viàrio loro in cidoy é assicurarono che da mtella
nascerebbe un fanciullo: JVé nacque infatti Orione ^ che fu un ottime
Cacciatore. Non si sa chi sia Lirico da lui : amata Vedansi le note
faU te a questo libro dal Ckier Néiruio.^ (6i) Dafni figlmel
di Merèurio rtacque in Sicilia, ed k VAutore de^virsi buìieeliei. Amando
egli una' Ninfa , da cui era ^matà egualmente, ottenne dal Cielo,
che divenisse cieco chi di loro oiolasse il primo la fede
giùtata,Immemore Dafni del voto fatto, j* mnémo rò d^ uha ritrosa Nomade
, e divenne cieco. (6a) Q uando i Romard soffrivano qualche
incorno^ do di sai ute , si coprivano il capo con un piccol maa- to
da loro iifè/to Piu li alani. ( 63 ) Patroclo nipote d^Attore €
figlio di Mentàpo fu amicissimo Achille. Digitized by
Google 48 Non cercò Fedr^ di sedar T amico (64)
. Di Teseo Piritoo ;aè in altra guisai [ Pilade la consorto af«(ò
à' Oreste , ( 6 S) 3 Che come Fcho Palla ^ od il tuo O Tindaro
,gemeUo amò ia suora^ ( 66 ) Ma non sperato rionofvatì spesson J (o
r ) Sìmili esempi, se non spe^ri ancora ; Veder spuntar dal
tramarisco i pomi, E in mezzo al huine ritroTare ,il mele. .
> Quello che è turpe :giova > e ognun ricerca Il piacer
proprio > che divien più grato. Se altrui costa dolor . Do^e, 8
!:intese Scelleraggin piA grande ? Pel nemico Non debhi .amante:
paventar .soltanto, Ma fuggir dei, se vuoi viver, sicuro,; .
Quei che credi fedeli, e siimi amici. < Il Fratello, il Cognato
,, ed il diletto ; Compagno temi ; questa tufba tutta; , ;
Vera ti recherà cagion d^ angoscia. Già toccavo la meta ; ma
diversi. Sono cosi delle Fanciulle^ \i i ^ ^ ’u Che
varj mezzi ancora usar si 4enno, (64) Piritoo e Teseo concepirono V
uno per Poltro una stima si f^rànde, ohe giurarono di non
àhhan^\ donarsi giammai , o itifMi si prestarono vicendevole mente
soccorso in tutte U occtìrrettoo^ Pirotop ^ querie tunque frequentasse
taaasa di Teseo, limita sèmpre la sua beneoolenaa per Fedra a* sentimenti
d* amìci"\ aia e di stima. : • .. > > ; 0 i . .
(65) Pilade figliuolo di. Strofa ^ ehbé per Oreste
un*amicizia con sincera^ ^le.nonjo abbandonò nel- le più pericolose
circostanze a rischio di perder anche la vita. ’ (66) Castore
e Polluce figli di Tindaro amaron la lor sorella Elena con quell* amore,
con cui debbono i fratelli amare le sorelle. Digitized by
Google 49 Per adescarle. Non la stessa
terra Ogni cosa produce ; atta alle viti £ questa ; quella vuol gli
olivi ; e in altra Lussureggian le biade. I nostri affetti Varian
come nel mondo le figure. Piegar si sa chi ha senno ad ogni
umore; E come Proteo , si farà nell’ onde ( 67 ) Sottile ; ed or
sarà leone, ed ora Àlbero 9 ed or cinghiale irsuto. I pesci Altri
si piglieran col dardo, ed altri Con r amo ^ e alcuni ancor saranno
tratti Àir ampie reti con la corda tesa. Nè giova ad ogni età
lo stesso modo; La vecchia cerva scorgerà da lungi Le insidie
. Se s’accorge l’ignorante Che tu sii dotto, e ardito una modesta,
Si porranno in difesa, onde avvien spesso Che quella che di darsi a
un uom d’ onore Ebbe temenza , fra gli amplessi vili Giaccia d’ un
servo . Parte avanza ancora. Parte ebbe fin dell’ opra intrapresa ;
Fermo qui tenga l’ancora il naviglio. Arte ^am. c
(67) Proteo figliuol di Nettuno era un Dio mari-^ no , che si solwa
cangiare in ^alsivoglia forma y e di qui ha origine il proverbio : Proteo
mutabilior. Digitized by Google Digitized by
Google DELL’ARTE AMATORIA DI P.
OVIDIO NASONE SULMONESE LIBRO li. ; . I3ite
e ridite lodi al delio Nome: La desiata preda è alfin caduta
In queste reti. A’versi miei ramante Lieto conceda rigogliosa
palma; Al Vale ascreo ed al meonio Omero (i) Son Dreferito.
Tal di Priamo il figlio (a) Con la rapita^ a Menelao consorte
Trionfante spiegò le bianche vele Dair armifera Amìcla, e tal pur
era (i) Il Vate ascreò è Esiodo ^ e ph si è veduto al» V
annotazione 5 del Lib, /. perchè gli venga dato uts tal nome. Critei de ,
ad onta della custodia che ne ave¬ va Vargivo Creonte^ senza divenir
moglie d*alcuno^ divenne madre d^un figlio, che chiamò Meletigene
dal jwmt Me]e«^ in vicinanza del quale parton. Si sa , che essendo
Melesigene accieeato , fu sopranno¬ minato Omero, perchè i Cumani
chiamavan con tal nome tutti i ciechi ; ma non si sa se questo
inimita» ìfil Poeta dicasi meonio perchè Meone fosse suo pa» dre ,
o perchè da Meone Re de^Lidj fu poscia adot» tato in suo figlio.
(a) Paride figlio di Priamo rapì Elena moglie di Menelao nella
Città d*Amicla, donde la condusse trionfante in T^oja sua patria,^
Digitized by Google 5a . Pelope allox
che te vinta traeva (J) Sul carro peregrino, o Ippodamia:
Perchè, o giovin t’afFretti ? in mezzo alPonde Naviga il tuo
naviglio, e lungi è,il poxto Più dt quello ché bramo* A te
non’basta Che tratta t’abbia la fanciulla innanzi Io tuo poeta:
presa fu con l’arte; Con l’arte ancora conservar si debbe.
Non vi bisogna già niìnor virtude Perchè non fu^gan^ritroVatè : è quella
Opra del caso , e questa sol delParte. Siimi propizio , o Amore , e
Citerea; E tu , Er^tp pur V qhe* il ncfme pqrti ' : D’Àmor ,
m’assisti» pra a cantar m’accipgo (3) Enomao Re Elìde e^ di Pisa
senti coloy, ohe sarebbe eglt-uodid nel ygiorno^ da avesse presoi
in isposa la sua figlia Ippodan^a^ Per allontanare dalla medesima à molti
giovani , che ambivano d'acquistarsi una 5 I belici fttnóiulia in
con^ sorte , gV invitò tutti un giorno a far ^secè il gioco d'una
corsa , col patto che. sarebbe^ irpmancabilmente trucidato chi fosse
rimasto vinto da lui , e che do-^ vesse > chi aveva la fortuna di
vincerlo^ sposare Ip-> podamia. Pelope fu vincitore con Vajnto di
bfirtilo , a cui promise , che. nella prima notte de^ suoi spon¬
sali gli avrebbe in ricompensa accordato }L dolce pos¬ sesso 4dla sposa
novella. Immernorè egli però della data parola, e del segnalato servigio
a lui reso ^ con^ dusse sul carro vincitore in trionfo la bellissima
Ip- podamia , e quando Mirtilo gli richiese Vadempirnento delle sue
lusinghiere promesse , lo gettò barbaramente in .mare. . . .
(4) Da EpMT« , che in greco idioma significa Amo-, re , ha preso il suo
nome la Musa Erato. Fu essa, madre di Tamita ^ che cantò il primo di
tutti i versi^ amorosi , ed a lei si attribuisce da alcuni greci ùom-^
mentatòri V invenzion della Éiusica c del BaUf^ Digitized by
Google 53 Cose stupende : con qual arte
Amore Tener si possa io vi dirò, bench’ abbia In Vasto mondo ei di
vagar diletto. Egli è leggiero , © doppio p^rta al tergo *
OrdÌB‘'*di'jpènbo , Onde' riniporgli legge È difiScfr impresa. Àvea'aMa
fuga DelP ospito Mibos ckiusa Ogni via, (5) Ma ntì'àmdace
sentier trovò con Tali. Poiché Dedalo chiuse il Minotauro,
Giustissimo Minos, disse, abbia £ne Ora'il’mio esilio , ed il paterno
suolo 11 ceder mio riceva. Io non potei. Perseguitato ogUór da
iniqui fati, Vivore in patria, almen morir vi possa. Se
a me ricusi un tal favor , che sono Carico d*anni ^ lo concedi al
figlio, E se al figlio .noL vuoi ^ lo dona al padre. Queste e
molt^ altre ancor cose dicea, • Ma a lui Minos hón permettea il
ritorno. Di sua eVentura cèrto», a se medesmo Allor Dedalo disse,
hai tu materia Onde mostrar Pingegno; e terra e mare È in poter di
Minos : e mare e terra Or ci vieta la foga ; a me rimane Il cammino
del ciel ; questo si tenti* — l^tdato , come già si è accennato ,
fabbricò irs Creta il celebre Labirinto, in cui fu racchiuso il
Sfinoiaiiro. A^endògli' Minos vietato d* uscir da quel^ ' io' f non
trovò altro mezzo per ritornare alla patria y se non se di fabbricar
dell* ali congiungendo insieme varie penne d* aòcelii , ed accingersi in
tal guisa a ' 'Volar per il cielo in compagnia d'Icaro suo figlio.
Questi per altro innalzò troppo il suo volo, e preci^ pkò miseramente in
quel mare , che prese da lui ii nome Icario. Digitized by
Google 54 Sommo Giove *, perdona ^ questa
impresa: DelP Empireo stellato non aspiro Già le sedi a toccar ;
sol questa strada Onde fuggir dal mio Signor mi resta* Se Io
stìgio sentiero a me si mostri, 10 r onde stigie varcherò • Debh’
ora I dritti rinnovar di mia natura. I mali aguzzan 1*
intelletto. E quando Si avrebbe dato fà che un uom potesse Premer
le vie del cielo.? In ordìn vario Dispon le penne , che per V aria
sono 11 remo degli augelli ; e unisce insieme Con del ritorto
Un 1’ opera lieve. Con cera al foco sciolta insieme accoppia
Le parti estreme ; e già della nuov’ arte Era venuta la fatica a
fine; Ma intanto che trattava e penne e cera. Rideva il
figlio , ignaro che quell* armi Sarian la sua difesa al tergo
unite. Con tal naviglio, a lai diceva il Padre, Si può
alla Patria far ritorno ; in questa Guisa fuggir Minos, che ogni altra
chiude Fuor che T aerea via « Tq che lo pupi, Con questa ch’io
inventai arte novella^ Fendi gli aerei spazj ; ma la vista Della
Vergin tegea, e del compagno (6) (6) Calisto i Licaone Ra d*
Arcadia ^ è soprannominata Tegea, da una Città di tal nome
soggetta alV impero del padre della medesima. DaU V illecito commercio ,
che ebbe essa con Giope , diede alla luce un figlio chiamato Arcade , e
fu da Giu¬ none per ciò tra^ormata in Orsa ad oggetto di ven*
dicarst deW infedele suo sposo ^ il quale la collocò in oielo fra le
stelle col nome , che ancor oggi conserta, d’Orsa Maggiore.
Digitized by Google 55 Di Boote Orion cinto di
spada --— Tu dei fuggir • Con V apprestate penne Mi segui ;
io ti precedo, e sia tua cara Batter^ V isteasa via ; da rae guidato
Incolume sarai, li’aeree strade Se calcherem troppo vicini al Sole,
Al suo caler si scioglierà la oera; Se al mar propinqui
batterem le pennei Da’ vapori del mar saran bagnate. Spiega
il tuo voi fra ^1 Sole e il mare; i venti Pur anco temi, o figlio ; e all’
aure in preda Dà le tue vele allor che sian propizie. Mentre in tal
modo V istruisce ^ ài figlio Il lavoro dispone, e mostra come
Muover lo debba : in guisa tal la madre La pennuta ammaestra inferma
prole. L’àJe poi di sua man per se costrutte Accomoda al suo tergo,
e nel novello Cammin timido libra, in aria il - corpo.. Allor che
al volo si accingeva, al figlfo Diò molti baci, e le paterne gnauce
Furon di calde lagrime bagnate. Sorgea sul piano un colle assai
minore Del monte, e quivi V uno e l’altro corpo Si diede in preda a
perigliosa fuga. Mentre le penne sne Dedalo move. Quelle
osserva del figlio, e ognor sostiene In aria il corso • Icaro si
diletta Del novello sentiero, e ornai deposto Orione figlio
Ireo ( annot, 6o del Lib, I. ) Untò di dare un disonesto assalto alla
casta Diana ; ma essa lo fece uccìdere da uno scorpione , e poi mossa
a pietà lo trasmutò presso a Boote in una costellazione fatta a
guisa di spada^ Digitized by Google 56 I
Ogni timor ^ con arte audace vola Più ibrtemente. Un che insidiava
a’ pesci Con la tremula canna, alzato il guardo, Li vide in
ariane abbandonò P impresa. Già da sinistra avean passato
Samo, E Nasso e Paro e Delio al clario Dio Sommamente gradita
^ ed alla destra Si lasciar dietro Labioto, e Calìnna Per selve
ombrosa, e Stampaglia di guadi Feraci in pesci cinta, allor che il
figlio Temerario con troppo incauto ardire Spiegò senza ìL suo duce
in alto il volo* S’allentano i legami ; al Sol vicina
Liquefassi la cera , e i .tenui venti Male sostengon le commosse
braccia. Dal sommo cielo spaventato il guardo Rivolse al
mare, e dal timor già sorta Si offro al suo sguardo tenebrosa
notte. Si liquefò la cera, e i nudi braco! Dibatte ;
trema ; e ìnvan ricerca il modo Di sostenersi *« Cadde , e o padre , o
padre Gridò cadendo, via son tratto , e T onda Cerulea chiuse al
suo parlare il varco. Ma Pinfeiice Padre.(ah non più padre!)
Icaro , grida , Icaro , dove sei? Sotto qual asse voli ? Icaro
grida, £ nuotanti sul mar mira le penne* Copre P ossa la
terra , è prende il mare Il nome suo • Minos già non poteo D’ un
uoni frenarle penne ,ed io m’accingo Un Nume alato a trattener? S*
inganna Cfii fa ricorso all’ arti emonie, e appresta Dalla tenera
fronte del cavallo Digitized by Google '^7 -
Lo svelto a forzalppomane. Non Verbe ( 7 ) Pon di Medéa far viv*?re
l’amore; Non 1 Tharsfejj^ncàntesmi . Se potesse Una tal'arte
ptolàligàrto , avria ' Medea Giasbn', Cfrcfe teénto Ulisse . ( 8
^ Nè i pallidi apprestati* éill%*dónzelle F'iTtri* Valséro {
aU’alrne Son nòcivi, ( 9 ) Ed inspirai) farot .'Ogni delitto
Vada put lungi ; se attti essere amato, Amabile ti- ttióstraf I a: ciò^
nTort giova * Solo’ le^ menibtk àlve'r’by^^ e là-faècia. ^
Sii■ pur Nireó tfaro^ ^11’ aiitibd^ Omero ; ( io) ' ^. t L ; > I
» > } ì f t f ‘ f ' ’ c 'a ' - * ' ■ ‘ V ' t ( 7 ) Q^^àevano gli
an tichi , e fra questi ancora Pii- nio ea Aristotile , che si
potesse còncìliar l*amore per mezzo éAl^lppòinsLne, cioè di qtàel
pézzetté rotondo di carrie .nera ^ che han\ sulla , fronte iì cavalli
nati di fres^qp, Jfa Mars^ figlio^^efia/venefica Circe^^ t^aj- ser
l a lo ro orig ine i M ar si. Abitarono questi popoli m lidlia non
fontani ,àa Uòma ^e Jfùrorio~reputati , èc- celleràPneWarte dellc^ '
niagìq: “ * ' (8) ,iÌÌe«/èa \e Circe fdronp dii^ ihsiAni Ma^he ^
je insieme due a^passioriaté 'mài. cohisposte dmànii\ poicHè 'fiorì
pótérono có'loro magici incanti trattenere Ùiasoné\d Utisse i che amavano
tèneramente, ‘ ’ (^) t Filtri preparati dalle Maghe , eran
composti di fichi salvatici ^ éP uòva e di penne di civetta, di *
sangue e di. pòlfnone di ranocchie , e d*os5Ì di cani e 'di
serpenti'Sventrati. Lèggasi ài Libro quinto V Ode 'd*Orazio cprìlró
Canidia. * ^ (io) Nireo], nafo dd Aglajd e dal Re Cecrope,
andò alt*assedio di Trojq ; e vien da Omero nel Li-* hro secondo
dell*Iliade lodato per la sua sorprenden^ te bellezza. Ercole amò
sommamente Ila figliuol di ‘Teodamahte , c lo condusse con se, quando
navigò alla volta di Coléo. MetltP era iri viaggio lo mandò un
giórno ad attinger Vacq.ua dal fiume Ascanio nel’» la Misià ma essendo
ivi disgraziatarkente caduto^ han finto i poeti , che fosse rapito dalle
Nufadi Dea de*fiumu 1 Digitized by Google
58 O il tenerello un giorno Ila rapito Dalle callide
Najadì : se brami Conservarti Y amor della toA donna, E non
vederti abbandonato , aggiogni Deir alma i preg) alla beltà del
corpo. È la beltade un ben caduco e frale, Che con gli
anni decresce, e a un fisso tempo Fugge mai seiupre • Le violette^ e i
gigij Non fioriscono ognor;Ia spina , ^ cui Colta la rosa sìa ,
rigida viena*,^ ^ ' Vago garzon , i tuoi capelli un giorno Verranno
bianchi, e il corpo tuo le rughe Ti solcheranno . Formati ed aggiungi
Alla beltade un animo che ^uri: Sol ei riman fino agli estremi
roghi* Ni sia rultima ina cura con Farti Ingenuo Padornarlo ^
e di due lingua Renderlo dotto . Non fu bello Dlisso,(ii)
(il) Colisse t figlia , come credono alcuni, delVO* etano e dì
TeHde, accolse cortesemente il naufrago Ulisse nell* ìsola Ogigia , ov*
essa regnala. Dimorò questi per sette anni con la Ninfa suddetta , da
cui ebbe varj figli , e poi fu costretto a dividersi da lei per
comando de*Numi , quantunque non lasciasse elìa alcun mezzo intentato per
ritenerlo sempre appresso di se. Reso Re dei Traci detto odrisio perchè
cornane dava alla Traqia nazione degli Odrini, e sitonio^ perchè
anticamente la Tracia ^si chiamava Sithon , fu ucciso da Ulisse e da
Diomede, mentre andava con un esercito in soccorso di Troja. D* ordine
de*suoi Troiani si portò Dolone ad osservar gli andamenti
dell*armata de* Greci ; ma incontratosi con Diomede td Ulisse , che pure
osservavano la condotta del cam^ po Trojano , svelò a*meiesimi , dopo d*aver
preso Vim^ punita y tutte le più segrete determinazioni de* suoi
concittadini. Volendo egli poi per premio i cavalli emonj d*Achille , fu
ba^aramente trucidato da Ulio^ se e Diomede uccisori di Reso.
Digitized by Google 59 Ma facondo ; c
per lui ferito H petto Portar* r equoree Dive. Oh quante volte Di
sua partenza si lagnò Calisso^ E dicea che non atte erano a*
remi L’onde del mar! Oh quante volte udire Bramò di Troja i casi ,
ed ei sovente Narrò lo stesso con diversi modi I Stavan sul lido
insiem , quando la bella Calisso ehiese la dolente istoria Del Duce
odrisio; ed ei con tenue verga ( Mentre a caso la verga in man teqea
) Finge Popra richiesta in sull’arena. Questa» le^disse, è Troja (e
fe’sul lido I muri) . È questo il Simoe,e queste fingi Che« sieno
le mie tende . Il campo osserva (E intanto lo disegna) che col
sangue Sì sparse di Dolon, quando gli emonj Cavalli scaltro d’
involar procura. Fur del sìtenio Reso ivi le tende; In
questa uotte da i deitrier rapiti ^ Fui strascinato . Dipingea più
cose, Ma improvvisa del mar onda furiosa Via trasse Troja , e
col suo Duce ancora . Le trinciere di Reso. Allor la Diva,
Vedi quai nomi s’inghiottiron Ponde^ £ vuoi che al tuo cammiò
sieno propizie? Ardirai dunque di fissar tua speme In fallace
fij^ura? e più del corpo Altro tu non avrai solido e degno?
L’accorta compiacenza a noi concilia Gl’ animi, ma l’asprezza e le
severe Parole contro noi muovon lo sdegno. Si ha in edio lo
sparvier , perchè tra V armi Traggo sua jriU, e i lupi che assalire
\ Digitized by Google 6o ^
Hanno in costume il timoroso gregge. Mite è la rondinella , e
innocua vive Dall’insidie dell’uomo ; e l’alte torri Abita là
colomba a lei gradite. Vadali lungi le liti e i detti amari;
Con soavi parole amor si nutre. Stia la discordia tra marito
e moglie; Si faggan questi, e credano a vicenda Di difender
lor dritti • Ciò conviene Alle tnògli/che ognor funesta dote Recan
di lìti . Il dolce suono ascolti Degli • accenti bramati ognor V amica;
Legge non havvi per gli amanti ; in loro^ Ìj amore è legge • Parolette
grate Reca , e dolce lusinga à lei 1’ orecchio. Onde alla vista tua
lieta si faccia. Non io d^ Amor maestro a’ ricohì parlo. Che
chi pnote donar > dell’ arte mia Non abbisogna • Chi quando a lui
piace, Prendi j può dir, non manca mai d’ingegno. Cedere a Ini
dobbiam, che più gradito Sarà dell’opra nostra. Il vate io sono
J>e’ poveri, dhe ognor povero amai. Dar doni non poteva, e diei
parole. Cauto ognor sìa povero amante , e tenga La lìngua a
freno, e soffra quel che un ricco Non soifrirebbe . l^el ponsier mìo
torna, Che irato aia di delia mia Bella feci Al crine oltraggio .
Un tale sdegno ah quanti Giorni mi fe’ passar pallidi e tristi I
Noi credo, e noi compresi , che la vesta Io le stracciassi allor, ma lo
diss’ ella, £ comprarne altra a me fu d’ uopo. O voij Che
avete ingegno, del Maestro vostro Digitized by Google
6i Fuggite il fallo, e né temete i danni. J8ia la
guerra co’ Parti , e ognor la pace Con l’Amica diletta'. Usa gli
scherzi, E tutto quel che favorisce Amore. Se a te che
l’ami, docil non si mostra Qual vorresti e cortese, il suo rigore
So^ri costante , e diverrà benigna. La forza usando, il curvo ramo
frangi, Che con dolcezza addirizzar potevi. Varcasi 1’ acqua cón
pazienza, e malo Vìnconsi i fiumi, se pigliar tu tenti Contrarie
Tonde rapitrici k nuoto.' I numidi leon , le fiere tigri Pan
le lusinghe mansuete e miti; Ed al rustico aratro la cervice
/ A poco a poco sottopone iJ toro. Dell'arcade Atalanta e chi
più fiera.(ia) Mostrossi mài? Eppur quella crudele Soggiacque
anch’essa al mèrito d* un uomo, Narra la fama , Melamon piangesse,
(i3) Sotto un arbor giacente all’ombra, spesso Suoi tristi casi e
la crudel Fanciulla. Spesso* portò le ingannatrici reti Sul vinto
collo, e con spietato ferro (la) L’arcade Atalanta, figlia di
Jasio o d’Aban^ te , fu un.’eccellente cacciatrice ,e si fe* compagna
di Diana per consertare illibato il candore della sun verginità,
Finta essa p<ù dalla fedele e lunga servitù prestatale da Meleagro o
da Melanione , si abbando^ nò finalmente in braccio ni medesimo , ed ebbe
in fi^ glio il celebre Partenopeo, ' (i3) Sono tra loro cod
diverse le memorie .a- noi lasciate dagli antichi scrittori riguardo a
Melanione 0 aid Atalanta , che è impossibile il dar de’ medesimi
«Hit distìnta notizia* Digitized by Google 6
a Uccise spesso i barbari cinghiali. L’arco teso d’Ileo
soffri piagato, Ma conoscea più ancor 1’ arco d’ Amore. Non
vo’che armato le menalie selve Tu salga, e che le reti al collo
porti; Hò già t’impongo il petto alle vibrate Saette espor •
Dolci più assai saranno, Se udir mi vuoi, dell’ arte mia le
leggi. A lei che è ripugnante , ognora cedi; E vincitore
partirai cedendo. Eseguisci fedel ciò eh’ ella impone:
Biasma Quello che biasima, ed approva Quel che le piace , e il suo
parlar seconda. Di rider ti ricordo al riso suo. Di piangere
al suo pianto , e i moti ancora A suo piacer del vento tuo componi.
Se giocale nella man P eburneo dado ( 14 ) Agita , tu ancor
l’agita, e lo getta (14) Oltre il gioco de* dadi era presso i
Romani in uso quello dclVAlìosso detto da loro Talut, che con^
sistema in piccoli quadrati d*osso j ne* quattro lati de* quali erano
notati separatamente i numeri uno, tre, quattro, sette. Doleva pagar
senza lucr^o una mone^ ta chi avesse gettato l* uno, che chiamatasi Ganis
o Òanicula. Guadagnata sei monete e ciò che ateta perduto nel
gettare il Cane chi scoprita la parte op* posta all* uno ^ cioè il sette
che ateta il nome di * Yenns o Gons,* ne guadagnata tre chi gettata
il Seniofper cui intendetasi il tre, e quattro chi ates^ se
rappresentato U Ghio, che esprimeva il numero quattro. Si rileva
da**latini Scrittori che fu VAliosso giocato anche ditersamente ; ma
basta per la chiara intelligenza di questi versi U sapere che erano i
Cani dannosi ^ mentre esprimevano l* ano ^per cui si dote^ va senza
lucro pagare una moneta. Il Gioco , ohe rasfvmbra a guerra , è , come
facilmente ri QQtnprew* dp ^ qugllo degli Scacchi, Digitized
by Google In modo cV«lIa vinca. L’Àliosso Se trae,
farai in maniera cbe la pena Non soffra d’ ^sser vinta, e tuoi
saranno Sempre i dannosi cani ; e s’ ella' pone Opera a gioco « che
rassembri a guerra, Fa cbo perisca dal nemico vinto Il tno
soldato. Sulle verghe steso Tieni r ombrello , e, nella densa folla
Per dove idee passare , il varco l’apri; Vicino al letto non t’incresca
porre Lo scanno, e fai piede dilioato togli E riponi la scarpa
.iDei sovente. Benché ti prenda orror , della Padrona
L’algente,mano riscaldare al seno. Non creder turpe, henchè a te
rassembri. Con destra ingenna sostener lo specchio, Se a lei
ciò piacerà. Chi ’l fiero sdegna (i5) Otaneb.della matrigna in domar
mostri. Che ora è nel Ciel , ohe primo egli sostenne. Si crede ,
tra Ife joniche Fanciulle Che tenesse il cestello, e che filasse
Rnstiche lane . Si l’Eroe tirinzio Servi all’impero d'una Bella ; or
dnnqne Dubiti di soffrir ciò eh’ei sofferse? Se ti
comanda esser presente al Foro -Previeni 1’ ora del comando , e
sempre ^eoU ' mnst valorosamente ( Annoi. 17. del Lib. I. )
tutu s mostriyche contro di lui suscitò la tua rnatngna Giunone, e
sostenne sulle sue spai- ad Atlante affa- incarico.
Innamoratosi egli poi dH)n- '‘iff reale della Lidia, vestì abiti
femi- mh, e m qualità d’ancella iella medesima filò vil¬
mente l»inne con quella man valorosa, con cui per le rmrabilt sue gesta
s’ era colmato di gloria. ^ Digitized by Google
Ne partirai più tardi • Se ^t* impoiàfe Di gire in altro loco’,
ogni altra cura Lascia da parte , corri ^ uè la turba ''
LMutrapreso cammìti trattenga , e còma ‘ Servo, sé vuol, tu Taccompagna a
Casa^- Tolte le mense , e^già sorta^ la liOtte; > * Se
fosse in villa,*e tf dicesse: vr<eni> ^ ^ Col piè premi la via , se
manca il eocebiò, Che Amor odia gl’inerti . Il btiitasoosò Tempo nè
la Canicola assetàtai ^ ' n / Nè per scaduta nòve il sentìev biénco -
^ p’ ostacolò ti aien ^ Simile a gòfei/ra * ^ E r amore , da cui
vadano lungi ' ‘ ^ '• I codardi . Nò , sotéo tali itìsegné*
II timid’ uòmo guerreggiar tiòu' debbe* La notte, il verno,
disastrose strade, ' ’ Dolor cocenti, e ogni altr’aspra fatica
Racchiudono que’mòlli ttccampaihetttli* Di pioggik dalle untole
tìiscioitu'^ * ‘ ‘ * Ben spesso intrisa avrai la
-veste,-è‘Spesso Gelato giacerai sul nudo suolo." ^
Dicesi che dì Cinto il'Nume' nu giorno (i 6) Pascesse le ierée
vacche d’ Admeto, £ s’ascondesse in umil capanna.' A
chi non converrà ciò che coriTenné ‘ . .. ) ! »■» ' >.. i
f (i 6 ) Apollo, che dicesi i/-Nuine- 4 ì'Cinto fper^hè (
Ànrvot. 1^9. del Lib, /. ) nacqueove giace 4 in tal monte y sentì il pin,
intenso, dolere ^ quanda Giove fulminò Esculapio di , lui figlio , perchè
faceva rivivere i morti con V ajuto della -Medicina. Per veti^
dicenrA pertanto in qualche maniera d* una tale ingiur- ria , egli uccise
i. Ciclopi y che fabbricavano le saette a quel Nume supremo , il quale lo
spogliò per ques to della divinità, e lo costrinse a pascolar le
vacithe 4 * Admeto Re de* Ferei in te staglia^ Digitized by
Google 65 A Febo ? O ta, che in lungo amor
^impegni, Il fasto lascia • Se un cammiii seeuro £ facil ti si
nega, e se alla porta Ritrovi impedimento, allor t’insinua Dal
precipizio d’ùn aperto tetto, O da ascoso sentier d’ alta
finestra. Lieta ne fia, quando del tuo periglio Intenda la
cagion ; di certo amore Sarà per la tua Bella un grato pegno.
Spesso potevi dalla tua Diletta Star lontanerò Leandro, ma varcavi ( 17
) L’ onda del roar, perchè le fosse noto L’ amante core • Guadagnar
l’ancelle Non abbi a vile, e in special modo quella. Che sarà
favorita , e ancora i servi. Non temer d’ avvilirti : ognun
saluta Col proprio nome, e alle lor destre umili, Ambizioso ,
d'unir cerca la tua; Ma al servo che ti prega ( è lieve
spesa) Porgi piccoli doni, ed in quel giorno Pure air ancella, in
cui restò ingannata ( 18 ) (17) Leandro amò Con tal forza Ero
Sacerdotessa di venere , che spesse volte varcò VEllesponto per
visi^ tarla. Essa accendeva Una fiaccola sopra una torre, affinchè
potesse il suo Amante camminar piu sicura^ mente , e quando intese , che
era il medesimo misera^ mente annegato , si diede in preda aW ultima
dispe-* razione , e slanciossi intrepida nel mare, {ìÒ) Ai q
di Luglio celebravasi in Roma splendi--^ damente una festa, a cui
concorrevano le Servé‘ ve^ stile a Matrone romane , in memoria delV util
servii gio che avevano esse in tal giorno prestato alla Pu^ tria.
Ecco ciò che ne dice il Macrohio, Post Urbe in captam , cum aedatus esset
gallicus motus, res vero publica esset ad tenue reducta, Finìtimi
opportuni- Digitized by Google 66
Da veste maritai gallica truppa, E che pagò d’ un folle
ardire il fio. Ti fida a me ; fa tua la plebe, e sempre Sia
fra (juesta V ascierò , e quel che giace Sulla porta del Talamo . Io non
voglio Che ricchi doni appresti alla Padrona; Piccioli sian, ma
convenienti e accorti. Mentre è ferace il campo , e mentre i rami
Piegan pel peso di mature frutta. Porti fanciullo in un cestel gli
agresti Doni , e dir ben potrai che da una villa Suburbana ti
vengano, quantunque tatem invadendi romani nominis aucupati
praeferant sibi Postlmmium Livium, Fideoatiam Dictatorem , qui,
mandatis ad Senatum misis, postalayit , nt si yelleut reliquias suae
ciyitatis manere , matres fa* Hiilias sibi et yirgines dederentur .
Cumque Patres esseat in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla
no¬ mine Phìlotib teu/ Tutela , poilicita est se cum cae- teris
ancillis sub nomine Dominarum ad hostes ita- ram : habituqae matrnm
familiat et yirginum sumpto, hostibas cum prosequeatium lacrjmis ad iidem
do¬ lorii iogestae sunt. Quae cum a Livio in castris di- stributae
faissent, viros plurimo vino proyocarunt , diem fbstum apud se esse
simulantes. Quibus sopo- ratis , ex arbore caprifico, quae castris erat
proxima, signum Romania dederunt, qni oum repentina incur¬ sione
snperassent ; memor beneficii Senatus, omnet ancillas manu jùssit emitti,
dotemque eis ex publico fecit, et ornatum quo tunc erant usae, gestare
cou- cesfit, diemque ìpsum Nonas Gaprotinas nuncupa- yit ab illa
Caprifico , ex qua signum yictoriae coe- perunt, sacrificiumque statuit
annua solemnitate ce<- lebrandum, cui lac, quod ex Caprifico manat,
propter memoriam facti praecedentis adhibetur. Questa è la fedele
esposizione del fatto, d cui non pare che si uniformi il Poeta»
Digitized by Google Tu gli abbi compri nella laera
via. ( 19 ) Rechi pur Tu ve » e le aastagne care Un giorno ad
Amafilli, e che ora a vile Parehè dono legger avrebbe anch* esso,
Co’t^rdi pure e con ghirlanda mostra Che memor vivi della tna
padrona. Si compra turpemente con tai mezzi D’orbo vecchio l’affetto,
e la speranza Di godere i suoi beni. Ahìperan qnelli Che Così vii
disegno a donar move. E che ! t’insegnerò teneri versi Io
diluviar Fa me lo credi, i carmi Non ton molto graditi ; e benché
Iodi Ottengano talor, maggior lusinga Han gli splendidi doni : Un
ricco piace Ancor che nato in barbara contrada. Questa è per
vero dir l’età dell’oro^ Giacché con Voto compransi gli onori,
Criacchè con V oro piegatisi le Belle. Se tu medesmo con le Mute,
Omero, Venga privo di doni, ab ! tu seaeciato Sarai di casa. Di
fanciulle dotte ^ Havvi turba rarissima , ed un’altra.
Che sé reputa tal benché ignorante, L’une e l’altre
s’encomino co’versi^ Che ottengan dal lettor lodo pel suono
Facile e lusinghiero \ a queste e a quelle Tenue e da aVersi a vii
sembrerà dono In loro onore vigilato carme. ^ Usa in maniera
ché V amica ognora (19) VendéQasim Ronia ogni torta di frutti e
d*al^ tri generi nella Via sacra, che acquistotti un tal nó¬ me ,
perchè furono ivi conclusi con gran^ sagrifizf i patti fra Romolo e
Tazior 68 A far ti preghi quel che util ti
sembra, E che far già volevi. Se promessa Abbi ad alcun de’
Cuoi' la li ber Cade, (ao) Fa pur elisegli la chiegga alla padrona.
Se ta rimetti al servo il suo delitto,^ Se le catene sue dure
disciogU, ; Te ne sia debitrice. ^ A lei la •gloria>
A tediatile venga. Sul:tuo eore Mostra ohe elFabbia un prepotènte
impèro^ Ma illesi serba ognora i dritti tuoi. Tu che nutrì
desio della tua cara ' ^ ^ Consfetvarti V amor , fà oh’ ella
pensi Che tu getonito sei di sua Heltade.* Se le sue menàbra
in vtiria veste avvolga, Le sii largo (U lodi, e se le doe ' .
Cinge, dirai che accrescono i suoi Veazi. Se poi s* adorna con aurata
veste, * Dille che più splendente èli’è dell’ oro. Se
prende la pelUcela , e tu T approva; * Se la tomita lieve , allora,
esclama ' Che, desta incendj, e con ièmmes^a voce Pregala che
schivar proeuii il. freddo. Sia il orine in duo diviso, oppur da oaldo
Ferro ritorta, tu dirai : mi piace. Di lèi, se.danai, ammirerai
le,braccia, Di lei, ^ canta, 1* armoniosa voce,. • ' E
a lei dimostra con dolèntii note^ Perchè fpresto diè fine, il tuo
scontento. Loda gli abbmcciamenti ,:e in suon piètoso E querulo ie
mostra con KJUéiI foraa .. (ao) Presso i Homani eruno cortamente i
servi in una condizione sì miserache (^iputavansi fortuna^- a ,
quando i padroni per un effetto di^somma cUmon^n accordavano loro la
liberty, ^ -, Digitized by Google 6p
D’insolita jilaowrfe: il. cor t’inonda. Gon questi- un4incoc
che-|}iù. violenta Foss’ ella di Medusa ^ e indite: e giusta (ai)
Dìvetrài.co», l’ ansante,* Sia .tua cura - Di non sembrane -iagantiatore
; e il volto Kon distrugga i tnoi> detti. Ascosa Térte Giova j e
svelata la vergogna apporta, E Ii^ tfe. 00» ragiOp j toglie per.
sempre. Spesso Sotba l’ÌAu)tjnA0tì,( iiti quella bella Parte
dall’sanitOf,-^ cui vosaeggia Priva Del purpureo, lioór ; rieolnta »
quando Il freddo,«cura la?f»reiuej ed era il «aldo La soioglie,).
Pìncostante. aere d cagione Di languore, alle-metubra,* Elhi^pur
viva Sana, masO'.inat giaceja-in, letto in ferma. Soffrendo. ..drd
tmaligqogciol V Infinstoi La tua pìetade:;ecP AQt^ctW> palese
Sia alloca .alla fanqiullaj^ fi getta il aenae Di ciO .cbe mieter, debbi,
a larga falce.' Nè del liingaauo mal poja',ti, prenda^ , E
faccia» le tue man cid che permette. Te rimiri piangente, ed i .tuoi baci
: Non r.inore«qa;S<^l-Ìr,;'flon arse labbia , Beva il tàO
;piantp,. 4 Ì» .ciel voti farai. Ma ognor,.palesi,,e di narmr: ti
.piaccia Be» spesso,fausti' sogni..:Àn| sua'magione Guida
la-ivacohiarella , che con ?ìolfo iaa) (ai) ]ffedasa figlia di
Forci^'ed ufl'a delle tre Gor- goni, incontrò-lo tdogn» di Minerva ,
perché à prestò all’ impudiche iooglie, di Nettuno • nel Tempio
della medesima* Questa Dea le trasformò^ pertanto i capelli in
serpenti, e fece si che fosse convertito in -sasso chiunque ardiva di
riguardarla. (ìa) ponducivàn gli antichi le vecchiarelle
nello àuse d^gV frifermi , affinché con le lor preghiere di^
Digitized by Google Purifichi la stanza e insieme il
letto, E con tremola man T ova le rechi. Di tua premura
avrà cosi 1* amica Kon dubbj segni, e con tai mezzi molti Far dalle
Belle istituiti eredi. Ma deir inferma per soverchia cura Deh
non volerti procacciar lo/sdegno; Àbbian tuoi dolci uffioj il lor
confinej Non le vietare il cibo ; il tuo rivale, • E non la
destra tua* pòrga la tazaa Colma de* succhi amari. Or che n^ll* alto
^ Del mar solca la nave, usar non dei Lo stesso vento, con cui già
dal lido Le vele hai sciolto. Mentre Amor va errando Novello ancor,
con Taso forza acquisti; Stabil verrà, se lo saprai ' nutrire.
Ebbe vitel le tue carezze il toro, Che or è de'tuoi timori
oggetto, e Talbore, Sotto cui posi , un di fu tenue ^etga. Nasce
povero d'acque il fittnré , e forza Acquista nel suo corso, e dà Ogni
parte Gli vien tributo di novello umore. S’accostumi con te, che
nulla puote Più di tal cosuetudiue giovarti. Mentre
l’adeschi, a te grave* non sia Di soffrire ogni tedio • Abbia te
sempre Dinanzi al guardò ; ognor tuoi détti ascólti; La notte e il
di le pinga il volto tuo* Ma quando poi sicura avrai fiducia
Di poter esser ricercato, allora Scacciassero Sa quelle, gli
spettri. Epicuro deve soffrire i rimproveri degli Stoici, e VOratore
Eschino quei di Demostene , perchè avevano le lor madri Ulk
simile impiego che riputavasi vile* Digitized by
Google 7 ^ Vanne pur lungi, che la cura sua
Sarai benché lontan . Prendi riposo; Ciò che s’afBda al campo
riposato Bende ei ben generoso e l’arsa terra Bey e l’acqua del
ciel. Finché pxesente (a 3 ) Fa a Filli Demofonte, il di lei seno
Senti mediocre amor , ma in vasto incendio Arse allor che le vele ci
diede^’ venti. Mentre vivea lontan l’astuto UÌìsse (a 4 ) Penelope
soffriva cura mordaeCr Tu ti dolesti pur, Laodamla, (aS)
Lontan Protesilao. Brieve tardanza £ mai sempre sicara. Allevia il
tempo 11 dolor dell’assenza ^ e dal pensiero > e dà loco a
nuovo amor 1’ assente* Mentre tu , Menelao, stavi lontano (26),
(a 3 ) Fillidt, figlia di lÀcurgo He di 'Tracia , rice* Vè
cortesemente nella Reggia e nel letto il naufrago Demofoonte figlw di
Teseo. Quandi egli partì per % Città d* Atene ., colera chiamato dalla cupidigia
di regnare , le diede parola di ritornarsene a lei dentro un mese .
Aspettò Fillide lungo tempo il suo caro sposo, e poi afflitta e disperata
per la tardanza di lui , si tolse da se stessa crudelmente la vita.
È noto il verace affetto che aoea Penelope pet Ulisse suo spesole
però si può facilmente compren¬ dere quanto fosse vivo il suo dolore per
la lunga di¬ mora che fece fi medesimo alV assedio di Troja.
^uS^ Laodamia amo sì ardentemente Protesilao detto in latino
Phyllacides daFilaco.4uo avo, che fu sem¬ pre occupata dal più vivo
dolore mentre era esso al- V assedio di Troja , e fece far del medesimo
dopo la sua morte , una statua di cera , che ogni notte pone- vasi
nel letto quando vi andava a dormire. Menelao trovavasi in Vreta ,
ove .l* aveano ri¬ chiamato i suoi affari , quando Paride di lui
confi- mcpte gli rapì la bellissima E.lena pia consorte.
Digitized by Google 7 ^ Sulle piume giacer sole non
volle Siena, e nella notte al caldo seno l)eir ospite fu striata. E
chi mai puote Di ciò nutriremo Menelao, stupore? Solo
partivi, e nel medesmo tetto Era la moglie e T ospite. In custodia
T,ii folle le colombe al. falco fidi, Ed al montano lupo il pieno
ovile? Siena non ha colpa, e non commise L’adultero delitto ;
ei fece quello Che tu faresti, e che farebbe ognuno. Ad
esserti iiifedel la donna sfórzi^.j Se il tempo e il loco a lei
concedi. Quale Oonsiglio ella usò mai se non il tuo?
Che dovea far ? Il suo marito è lungi, Ed un amabil ospite
presente, E giacer sola teme in vacuo letto. Ciò a
Menelao era noto. Io dal delitto Siena assolvo ; usar volle di
quella Libertà, che il marito a lei concesse Cortese c umano. Non
così feroce Flavo cinghiai si mostra in mezzo all’ira Contro i
rabidi cani, allorché il dente Fulmineo rota , nè così lionessa Che
a’cari figli suoi porga le mamme, Nè da piè ignaro vipera calcata
; Coni’ àrde e mostra 1 ’ agitata mente Donna che la rivai
trovi nel letto Del suo consorte : e corre , e dà di piglio Al ferrò
e al foco, e ogni decor deposto, Rassembrà una Baccante. La spietata
(27) Medea nel sangue vendicò de’figlj ^ ^ : . ■ ’ ^ ^ - - 1
- fay) Vedaii V annotaz. 89 del Lib, /. Digitized by
Google 73 Del marito il misfatto ^ ed i
violati Dritti di sposa. Àltr^empia genitrice, (28) Mirala in
rondinella trasformata. Or di sangue macchiato il petto
porta. Tali delitti sciolgono V amore Meglio composto e più
costante ; e cauto Gli dee r uomo fuggir, gli dee temere. Nè
ad una sola donna io ti condanno; Portin migliore augurio i sommi Dei
! Così rigida legge appena puote Seguir sposa novella.
Abbiano pure Loco gli scherzi, ma celar ti piaccia Sotto furto
modesto il fallo tuo. Da cui già non voler cercar la gloria.
Altra non mai conosca i doni tuoi; Nè prefigger tu dei 1 * ora
medesma Agli amori furtivi, e in un sol loco Condur le belle, onde
non le sorprenda La donna tua ne’ noti nascohdiglj ; E quante
volte scrìvi , i fogli osserva; Che molte leggeran più assai di
quello Che tu loro scrivesti. Amante offesa Move bene a ragion
Tarmi, e sovente Come a lei desti, a te di duol dà causa. Mentre il
figlio d'Atréo fu d’ una sola (29) Ov. Arte d^am. d (a 3 )
Progne figlia di Pandìone, e moglie di Teseo ^ fu dagli Dei cangiata in
Rondine, perchè vendicane dosi deW ingiuria recata da Teseo a Filomena di
lei sorella , uccise Iti suo figlio ^e lo apprestò al Padre
barbaramente per cibo, (39) Agamennone rapì Criseide figlia di
Crise cerdote d*Apollo , il quale in abiti sacerdotali si portò
inutilmente dal medesimo per ricuperarla j tolse Bri* seide ai Achille ;
e condusse poi in Grecia Cassandra Digitized by Google
74 Contentò e pago, quella visse casta. Ma
per i vìej del marito poi Divenne infame. Inteso avèa che Crise, Le
fasce in capo e il lauro in man portando, Ottener non potè 1* amata
figlia. Inteso avea il tuo ratto, il tuo rossore, O
Briseide, e per quai turpi dimore Fosse la guerra prolungata.
Queste Cose la fama a lei narrava. Vide Con gli occhi prhprj poi la
figlia stessa Di Priamo : vincitor fosti ad un tempo E preda, o
Agamennon , della tua preda. Nel cor , nel letto ricevè ella poscia
Il figlio di Tieste, e vendicossi Così de’falli del marito infido.
Gli amori tuoi tener cerca nascosti. Ma se fian noti e
manifesti, sempre Però li nega , nè ti mostra allora Nè più
sommesso o più giocondo : reo Ti fa ria ciò scoprir. Novelle prove
Le dà deir amor tuo. Queste il sostegno Son della pace. La tua prima amante
Fa che di ciò non abbia unqua contezza. Havvi chi la nociva erba
consiglia Santoreggia di prender; ma ciò stimò Atro veleno.
Mischian altri il pepe Nel seme dell’ortica , e nell’ annoso Vino
tritano il callido pilatro. , L 1 (
I figlia di Priamo , la qual fu a luì concassa nella
di* Vision della preda. Clitennestra sua moglie, e figlia di
Tindaro non potè reggere a tanta infedeltà , e /?«- rò accolse nel letto
Egisto figlio^ di Tieste , da cui ' { Annotaz. 88 del I*) uccidere il
suo marito. Digitized by Google
7S La Dea che sul ombroso Érice monte ( 3 o) Ave il suo
tempio, no , soffrir non puote Che siau forzati i suoi piacer. Si
prenda Pure il candido Bulbo che a noi manda La Città di Megara, e
la salace Erba che cresce ne’giardini. L’ova, L’imetto mel,
del pin le acute noci Si prendan pur. Perchè alla medie’ arte,
Erato , or tu ti volgi f II cocchio nostro Debbe più da vicin toccar la
meta. Tu che celavi per consiglio mio Poc* anzi i tuoi
delitti , or altra strada Batti, e per mio consiglio i furti
scopri. Nè di volubil già merto la taccia: Non col medesmo
vento i passeggieri Porta la curva nave ; ora si corre Col
tracioBorea, ed or con Euro, e spesso( 31 ) Dal Zeffiro si fan goiihe le
vele, Talor da Noto. Osserva come in cocchio L’auriga ora le
brìglie allenta , ed ora Frena con l’arte i rapidi cavalli.
Compiacenza servii le rende ingrate, E amor senza rivale
illanguidisce. Se la fortuna sia propizia, Talme Divengono
lascive , e faci! cosa ( 3 o) Venere aveva un magnifico Tempio in
Sicilia sul monte Erice , donde fu detta firicina. , Sotto il
nome di Bulbo iniendonsi tutte^ le radici rotonde come agl) e cipolle ,
che i Romani facevan venire dalla Città di Megara fabbricata da
Alcatoo figlio di Pelope. {jòi) Il vento Borea f spirando a
Settentrione , vien qià dette treicio perchè la Tracia è più
settentrional della Grecia y e dell* Italia, Euro spira da Levante
[ Zeffiro da ponente, e Noto da Mezzogiorno, Digitized by
Google 76 Non è serbare in mezzo allieti
eventi IL cor tranquillo. Come lieve foco, Che perduto abbia
a gradi il suo vigore, Ascpndesi , e nell’ ultime faville La cenere
biancheggiale se v’unisci Zolfo , Testinta fiamma manifesta,
E a splender torna il consueto lume; Così ove pigra e torpida
si giaccia L’alma, destar cop forti e lusinghieri Stimoli è d’uopo
in essa allor Tamore. Fa che di te paventi : ognor riscalda
L’intiepidito core, e impallidisca Al, solo udir che tu infedel le
sia. Oh quattro volte e quante io non so dire Felice quei, di
cui si lagna offesa La sua fanciulla, e che giugnendo annunzio D’un
tal delitto alle sue triste orecchie Cade, e il color le manca e la
favellai Ah foss’io quello, a cui furente straccia Il crine ! ah
foss’ io quello a cui con l’unghie Sgraffia le gote, che or piangente
mira Or con bieco ciglio, e senza cui Vorria , ma non può vivere !
Se chièdi Il tempo , onde di te la lasci offesa Lagnarsi, io ti
dirò : sia questo breve. Perchè lo sdegno suo forza maggiore Con
dimora soverchia non acquisti. Con le tue braccia il bianco collo
cingi^ E piangente nel tuo seno l’accogli; Asciuga co* tuoi baci il
. pianto suo, E i piaceri di Venere concedi A lei che piange.
Già la pace è fatta; Con questo mezzo sol cessa lo sdegne. Se
feroce divenga, e a te rassembri Digitized by Google
77 Veramente nemica » allor le chiedi Un dolce
amplesso , e la vedrai placata. Ivi déposte Varmi è la
concordia^ £d in qael loco » a me lo credi , nacque La tenera
amistade. Le colombe. Che già fecero guerra , i rostri
insieme Dolcemente congiungono ; di quelle 11 mormorio son voci, e
son carezze. Fu il mondo in prima una confusa mole; Non
ordine regnò, non vi fu legge ; £ stelle e terra e mar solo una
faccia Mostravan ; sulla terra il ciel fu posto E fu dal mar la
terra circondata, £ diviso cessò l’inane caos. Presero
ad abitar le fiere allora Entro le selve ; a star gli augelli la
aria; £ s’ascosero i pesci entro dell* onde. L’uomo errò allor
ne^aoUtarj campi. Ma rozao 9 inerte corpo, e senza genio*
T'u il bosco la sua casa ; il cibo l* erba; Lie frondi il letto ; e
già per lungo tempo Visser fra loro sconosciuti. Dicesi, Che
le feroci loro alme piegasse La dolce voluttà. Lo steiso loco
Abitarono insiem Tuoibo e la donna; Non da maestro furon fatti
dotti Di ciò che dovean far ; Venere loia La dolce opra compì
senz’arte alcuna. Trova da amar Paugel dolce compagna, E in
mezzo all’acqae pur con chi s’accoppj Non manca al pesce. Il maschio
ainato segue La cerva, ed il serpente a’dolci inviti. Della femmina
cede. Insiem congiunta La cagna al can s’annoda. Il suo montone
Digitized by Google 78 Soffre lieta
Tagnella; la giovenca Gialiva è col torello, e la stizzosa Capra 1*
immondo becco non disdegna. Parenti le cavalle i maschj segnono Per
lungo spazio , e varcan fino i fiumi Che li tengon divisi. A che più
tardi ? T’affretta dunque , e alla sdegnata porgi Il bramato
sollievo ; questo calma L’ atroce suo dolore, e questo vince I
succhi d* Esculapio • Il fallo tuo Dei con ciò cancellar , tornarle in
grazia. Mentr’ io cantava queste cose, Apollo apparve » e mosse
dell’ aurata lira Col pollice le corde • In man tenea L’ alloro, di
cui cinta avea la chioma; ^Queir ammirando vate allor mi disse:
O de’ lascivi amor maestro , guida 1 tuoi scolari alfine al
tempio mio; (3a) Ivi sta incisa la famosa legge, Che conoscer
se stesso a ognuno impone. Amar solo potrà prudentemente Quegli che
se medesmo appien conosce, E alle sne forze sa adattar
Tìmprese. Procuri che la Bella ognor Io guardi Quel cui Natura diè
leggiadra faccia. Si mostri spesso con le spalle ìgnude Chi
candide ha le membra ; parli pure Quei che lo fa soavemente, e
canti, E beva quel che a bevere e a cantare Con arte apprese,
ma non mai interrompa (3a) Alludtd al Tempia consacrato in
Delfo ad Apollo ove era scritta a caratteri à* oro qaest^ aurea
legge: nosco te ipiam. Digitized by Google .
^9 L’altrui discorw P eloquente, e in mezzo Al
ragionar non reciti importuno I suoi carmi il Poeta . In questa
guisa Febo i^egnomnii, e. voi di Febo adesso Seguit^e i precetti.
Ah no ! non ponno Mancar di fe gli oracoli d’ Apollo. Or son
chiamato a più'vicini oggetti. Chi sagace amerà ; chi la nostr’
arte In uso saprà porre f avrà vittoria. Non sempre i campì
rendon con usura Le biade seminate, e a dubbia n^ve , Non
sempre fausto è il vento. Ah! sono brevi I piaceri d’ amor , lunghe
le pene. Onde Amante a soffrire il cor disponga: Quante in
Ato son lepri , e quante in Ibla Pascolan api, quante olive
accoglie II verd' arbor di Palla, • quante il lido Del mat
conchiglie ; tanti son gli affanni Che soffrenti in amor , tanti gli
strali Jlal felo intrisi che ci passan V alma. A te diran che
usci fuora di casa Quando con gli occhi tuoi forse la vedi. Ma
creder dei che uscì, che vedi il faUo. Mella notte promessa a te la
porta Forse chiusa sarà ; soffri, e le membra Riposa e adagia
sull’immonda terra. Mendace ancella forse in tuon superbo Dirà;
perchè le nostre porte assedjf Cortese e supplichevole stropiccia
Il limitar della crudel Fanciulla, ^ E al capo tolte ivi le rose
appendi. Quando vorrà, t'appressa, e quando il vieta Tu vanne
lungi. Uomo non dee sincero Di sua presenza far soffrir la noja.
Digitized by Google 8o Non sempre con
ragion ti potrà Jirer A me fuggir costui non è permesso* Non
creder turpe di soffrir ingiurie, Nè d* esser dalla tua Bella
battuto, Nè sul tenero piè d’imprimer baci. Ma a che mi
fermo nelle tenui cosef Or subietto maggior m’agita l’alma.
Io canterò prodigj ; il volgo attonito Ascolti i detti miei, mi sia
propizio. A difficile impresa ora m’accingo. Che nel
difficil sol glòria si merca. Dall’arte una si chiede ardua
fatica. Soffri il rivai pazientemente ; teco Starà vittoria ,
e n’otterrai trionfo. Non già un mortai, male pelasghe
querce(33) Ti dieron tai precetti . Ah i iio, non puote Dir r artè
mia di ciò cosa maggiore. Farà un cenno amoroso al tuo
rivale, E tu lo soffri ; sctiverà , e t’ astieni Dal toccar
le sue carte ; e venga e tomi Senza le tue doglianze ove le piace*
Con legittima moglie usi il marito Quest’indulgenza pure, alior che
notte Le tenebre distende, e il sonno regna. Non io, Io debbo
confessar, non sono In quest’arte perfetto. E che far deggiof Io
de’ precetti miei minor mi trovo. Io soffrirò che, me presente, un
segno Si faccia alla mia Bella, e il freno all’ira Io potrò por ?
Ah mi ricordo ancora ^3) Fabbricarono i Pelasgi un Tempio dedicalo
a Giovò , in vicinanza del quale era situato un bosco di querce , da cui
davano le colomba risposta umana* Digitized by Google
Bi Che il suo marito nn di le diede un bacio, Ed io
del bacio a lei feci querela; Abbonda il nostro amor di crudeltade.
Non una volta sol mi fu nocivo Un vizio tal ; piti dotto invero è
quello Per cui, lieto il marito, in casa ingresso Hanno altri
amanti. Ma saria più grato L’esser di questo ignari. Ah lascia
dunque D’amore i furti ascosi , onde non fugga Dal vinto labro,
confessando i fallì, Lungi il pudor. Deh risparmiate, o
amanti. Di sorprender colpevoli le amate. Schetzino pur , ma
almeno a se medesme Perauadan che il fer’ solo in parole. Sorprese,
in esse pel rivai maggiore Si fa r affetto ; e dove egual la sorte
Fa di due, 1* uno e Paltro son costanti La causa in sostener del danno
loro. Favola iu tutto il elei nota si narra: Venere e Marte dagP
inganni presi Pur di Vulcan. Ferito il petto avea Marte per Vener
da un apaore insano, E divenuto di guerriero amante. Nè
rustica o difficile mostroàsi (Non v’è di questa Diva altra jpiù
molle) Venere al suppliéhevole Gradivo (34). Oh quante
voltè la lasciva risé ^ da (34) Marte si Marna Gradivo
da apa/vav, ehe si^ grufiea in greco linguaggio vtbraziorfe d'AVta.
Aven^ do Giooo preeijntaio Vulcano in Lenno 'per 1 la defar-^ mità
del suo corpo, si tuppè questo misero Diojin tal caduta una gamba ^ e
così divenendo zoppo ^ di^ canne ancorst mSgiortncnU deforme.
Digitized by Google Sa ^ Di Valcano pei
piedi e per le mani Nere e incallite pel lavoro e il foco.
Contraffaceva pur di Marte in faccia Sempre piena dì grazie il suo
marito^ Ma solean ben celare i primi amplessi, E
coprian col pudore il fallo loro; Ma il Sol che tutto vede ( e chi
ingannare 11 Sol può maif ) fece a Vulcan palesi L’ opre della
Consorte • Ah quai ne porgi Funesti e perigliosi, o Sole, esetuplit
Perchè del tuo tacere a lei non chiedi Un dono , eh* avrebb* ella il tuo
silenzio Potuto compensare in mille modi. Vulcan sopra e
d’intorno adatta al letto Un* invisìbil rete , e finge a Lenno Di
far viaggio : a’ noti abbracciamenti Tornan gli amanti, e nudi entrambe
sono Ne^ lacci avvinti. Quegli i sonimi Dei Convoca, e fanno L
prìgiohier di loro Vago spettacol. Potè appena il pianto Venere
allora trattener sul ciglio; Non alla loro nudità potere
Oppor la mano, e non coprir la faccia* Uno de’ numi allor
ridendo disse : O fortissimo Marte, in me que’ lacci Deh
trasferisci pur^ se ti son gravi. Nettuno , appena per le tue
preghiere Ebbero i prigionier le membra sciolte. Chela Dea in Pafo,
e Marte andonne in tracia. £cco,o Vulcano, il tuo profitto: in
prima Celavano il Ipr fallo ; or senza freno Lo commetton, fuggito
ogni pudore. Sovente, o stolto , confessar dovrai Che tu dj^rasd da
pazzo, e già ( la fama Digitized by Google
83 Karra.) dell’ira tua ti aei pentito* Quest’
io vietai. La 6glìa dionea (35) Or vieta a voi di tender quelP
insidie Ch’ ella stessa soffrì. Nè voi cercate Por ne’ lacci il
rivai, nò legger quello Che vergato ha^la bella in cifre arcane.
Faccian questo (se lor piace) i mariti Che legittimi rese e T onda e il
foco. (36) Io'di nuovo, raffermo: in queste carte Nulla vietato
dalle leggi chiudo» Nè a pudica Matrona i nostri scherzi
Recano ingiuria. Chi a’profani i riti Osò di Cerere svelare, e i sacri (
87 ) Misteri nati nella tracia Sanio f Non nel' silenzio per
coprir gli arcani Gran; virtude abbisogna è colpa grave Però
dir'qnfello che (tacer si dehbe^ t Ben a. ragion da Tantalo «loquace
(38) ■■ — . ’ ■' ..- . . ■* (35) 'Venere , sepondo
alcuni , eifbe in madre Dio^ ne 9 e però si chiama la Figlia
dionea. (36) Solevano i Romani nelle nozze solenni offerii
re alla Sposa V acqua ed il foco \ 'perchè pensavano che si
genesUts^ il tutto dall* umore -e dal icàhre ^ ed anzi lavatiri^ Inacqua
f stessa i piei^ Sposa ed alla Sposo^ ' , I (87) I Sagrifiz)
di Cerere t)ea delle biade, ehe furono , secondò Dtodoro , ' inventati Heltà'
Samotrd» eia , si celelfravanà dagli aw^ìd con tal \ segretezza g
che acqmdurono il nome di mister (38) Tqntalo , figlio della Ninfa
Piote , palesò agli uomini le' supreme, determinazioni, che si
manìfesta^^ reno scambievolmente gli Dei in un Convito, cui fu
ammesso e^i*pare.da^Giolve.,peTiitaleiempH-^ tà joacpiatO riell^ infermo
, iOfl^ à cofitidftaeqMate ,cfudar^ io da una barbara fape, e^
chè è ,eireondatò dàìVacqua e da diversi ' phmi, ékà fuggono àgnor
shp'suòl Idìlli i^qmndo *viol*pré*a'^ arsene* Digitized by
Google 64 . Fuggono i pomi; o all*assetato
labfo L'acqua mai sempre. Citerea comanda In special modo di tener
celate Le sacre cerimonie. Io v’ammonisco Che alcun garrulo'a
quelle non s’accosti* Se sepolti non restano fra’cesti I mister] di
Venere, se i bronzi Per furiose percosse non risuonano, Usi
abbiam noi pih moderati, e in mòdo* Che si voglion però tenére ascosi.
/ Quando le vesti Venere depone, La nudità con la sinistra
copre. Nella pubblica via spesso 1 * ugnella. Si unisce
al suo compagno, e la fanciulla^ Da tal oggetto altrove il guardo
volgew Atto è il talamo chiuso a’furti nostri E a non mirar ciò che
la veste > ascóndo* i Non le tenebre noi, ma nube opacUi ì;
Cerchiamo, e i luoghi ove 1’ aperta luce - Minor risplenda. Fin d’allor
ché il tetto Non difendea dal Sol, non dalla pioggia, £ dava il
cibo e in un la quercia albergò. Gli uomini non gustar’
palesemente. I piaceri di' Venfet ma negli antri ^ ' •
f i ne^bosqhi; cosi dell’onestade * i preudea cura quella
ro^sza gente** \ Ora gli atti si celebraa notturni, , £ nulla
più si compra a caro prezzo Che di poter’ parlar: or le donzellò
Ovniique cercherai solo onde dica , ' , / Qiinsla ancora fo.
nostra, ed onde .posniA ^ Mòsttktla ò' dito , e &r ohe sia deb vol^ ,
' Dc^^b li pòssèsso^tuòVfev;òIa ^ r.«r. poco «iwiihe ^ini
«dolSP* aU>Ì , Digitized by Google Òose che
nègherebbono accadute* £ di favori vantatisi non veri ;
E se invàn di toccar, cercare il corpo. Cercano àlmen d’offenderne
P onore, Che le accusi la fama ancor che caste. Chiudi, o
custode rigido , le porte ; Guarda la tua fanciulla, e cento
spranghe A’durissimi stipiti ora opponi. Cosa havvi di sicuro
in faccia a questi Adulteri di nome, che creduti Esser desian ciò
che tentare invano ? Parchi in parlar noi siam de’veri ainori^ E
fedelmente ognor tenghìam celati Col velo deP mistero 1 furti
nostri. Deh non voler rimproverar giammai Di nati^ra i difetti
alle donzelle. Che fù dissinìularli utile à molti. ^
Perseo che al piè portò le gemìn’ ali (3g) , Tlon del color d*
Andromedà lagnossi. Comparve a tutti Andromaca maggiore D’ uim
giusta statura , ed Ettor solo (3g) iXèrcurió adatfò *U idi Ud ambedue
i piedi di J^érseo^ iluo amiiéo y e fi^ió di Danae e di Giope, de
qu§$iix AndrovaeduslegaiOKyad uno scoglio per ra'deillcNeTcìdi,^e,\c]^pe,
che dovea^esser dioorata da Ceto mastro marin^, ,perchè Cassìope, madre
della medesima ebèè la vanagloria di dire ^ che la sua fi-* glia
vinceva > ir^ bellezza le stesse Nereidi, Mosso Perseo a pietà, della'
sventurata donzella , uccise il mostro col jmrgli. davanti agli cicchi la
testa di Me^ dusa f è dopo d^aveHa in tal guisa saLveta da un tanto
pericolo y V ottenne in isposa , he mai le riìf fàpciÒ[ suo fosco colori,
essendo ella nata in Etiopia, " Andromaca è figlia di Elione .
Re di Tebe e mo* glià di Ettore j il qual chiamava medìo^e la sua
statura quantunque fosse veramente sproporziqnatq. Digitized by
Google 86 Mediocre la dicea. Quel che or ti
lembra Darò a soffrir, deh soffri; e verrà uà giorno Che lieve
impresa ti sarà il soffrire^ Mentre ogni pena raddolcisce il tempo.
Nuoyo arboscel che in verde scorza cresce^ Cade, se vento placido lo
scote ; Ma indorato dal tempo arbor diviene. Resiste a* fieri
Noti ^ e alfin s’ adorna , Degl* innestati fratti. Un giorno spio
Paò la bruttezza cancellar del corpo,^ , £ sempre il tempo fa
sembrar minore Ogni difetto. L* inesperte nari Mal da principio pon
soffrir 1* odore Della pelle del toro, ma dalTuso Dome non più
risentono mólestia. ^ I vizj ricoprir con dolci nomi Fa di
mestier : bruna chiamar si debbo Quella che piùehe pece ha negro il
sangue» Se ha gli occhi loschi, a Vener l!as 8 omiglia^^ E se
bianchi, a Minerva. Sia 9 Ì scarna ( 40 ) , Che appena in piedi sostener
si possa. Gracile la dirai. Nana rassembri, E tu svelta la
chiama, e piena quellf .,. Che è turgida oltremodo g, e asconder
tenta. Col bene non lontano il vizio ognora. Gli anni mai non
cercar , nè sotto quale \ Consol sia nata : al rigido Censore .
Tai cure lascierai. Maggior riguardo . Usa per quelle che
passate il fiore Hanno di giovinezze » e i più bei giorni,
(4.0) Non si sa paacepire corno Ooidio chiami loschi gli occhi di
Venere , quando essa fu lodata da Pari^ de. Dubitano alcuni pertanto y
che nelF originale la^, ' ripe si 4tiba leggere leu invece di
peU» Digitized by Google E cui incomincia a
incanutir la chioma* .Utile è questa o più matura etade, 0
giovani ; e aarà ferace in biade Questo campo » ed arar però si
debbe. Mentre gli anni il permettono e le forze, Soffrire la
fatica. Ah già la curva Vecchiezza con piè tacito s’accosta!
O il mar co’ remi solchisi, o la terra Col vomere, o s^impugnin
Tarmi fiere, O si usi il fianco, T opra , e la forza Con le
fanciulle^è questa una milizia, E con ciò pur s’ accumulan
ricchezze. S’ artoge a ciò che la prudenza in loro Maggior
sempre delT opere risiede, E l’esperienza sol può far
maestro. San compensare dell’ etade i danni Con la mondezza,
e in opra e studio ed arto Pongon per ricoprir la tarda etade.
Come più brami accarezzarti sanno In mille guise ; in più diversi
modi Pittor non puote colorir le tele. Non irritata voluttà
per loro Si gode , e danno e gustano il piacere; 10 se
non è scambievole Tho in odio, E però fuggo de’garzon P
amore. Odio il furor di quella che il concede. Perchè a darlo
è forzata, e pensa solo All’ ntil proprio. A me non è gradito
11 piacer che mi dan sol per dovere; Da questo io violentier
le donne assolvo. Godo ascoltar le voci che il diletto Mi palesin
di loro, e di frenarmi Mi preghino ora, ed or perchè mi affretti.
Godo di rimirai languidi gU dicchi . Digitized by Google
8 $ Della mìa bella , che mi dica : è assai.
Questi favor natura non concede Air inesperta gìoventCì ; si godono
Quando il settimo lustro ornai si compie. Chi soffre sete, il nuovo mosto
beva; Di vecchio vin ricolmo a me s’ appresti Vaso che sotto
i Consoli vetusti Sia fabbricato. Al sol resiste vecchio Il
platano, ed offesi i nudi piedi Sono da’nuovi prati; e chi potria
Ad Elena preporre Ermione? Altea (4 1 ) Era forse miglior della sua madre
? Se tu t’ accosti a una noi^, giovin bella, £ sii
costante, avrai degna mercede. Già riceve i dae.amanti il conscio
lètto; Fuof delle chiuse porte ora rimanti, O Musa ; senaa te
sapran ben essi Trovar di che occuparsi, chè lor porge Amore i
mezzi. Il valoroso Ettorre (4a) Di cui fu il brando a Troja util cotanto,
Giacque pur con Andromaca, ed Achille Con la lirnessia giovine
rapita, Allorché dal nemico affaticato Prese ristoro sulle
molli piume. Da quelle man di frigio sangue tinte Ricevevi ,
o‘Brhcide , le carezze, E perciò forse à te più assai gradito
Fu alla vittfice destra unir tue meuibra. (4 A Ermione è figlia
della famosa Elena moglie di Menelao, (4a) Achille #
aseedìafa la Città di Lirnesso , uc¬ cise barbaramente Minete marito
della bella Briseide^ che si prese egli stesso in isposa, e che dal
noma 4 M(k iiMk Pàtria soprannominata iÀtuwia*
.yGoogle . Di Venéfe i piaceri » a me lo credi ,
Non SI deniio affrettar; ma a lunghi torsi Berli. La donnà , se
vedrai diletto Che abbia d’èsser toccata , a te non freni Pudore
allora inopportuno. Gli occhi Suoi scintillar d*'un tremulo
splendore Mirerai , come dalle liquìd’ onde ^ Riflette il Sole i
suoi splendidi raggia. ^ Udrai nn lamento e uh dolce mormorio^
Gemiti grati , ed amòtose note. Quando thtte le Vele avrai spiegate,
Tu abbandonar non dei la tua diletta. Nè preceder ti debbe
ella nel corso. Correte insieme alla prescritta meta. Che il
piacer vostro diverrà perfetto. Se giacerete a un tempo stesso
vinti. Queste leggi seguir dovete quando A voi concessi siano 02 ]
tranquilli, Nè ad iin furtivo oprar timor v* astringa. Quando
Tindugio è mal sicuro, allora Tutti forzar si denno i remi, e il
fianco Premere del cavai d’acuto sprone. L’opra è condotta al
fin. Giovani grati, A me la palma concedete , e il crine Odoroso
cìngetemi di mirto. Non presso i Greci Podalirio tanto Fu per
la medie’ arte in pregio , Achille Per il valore, e Nestor per
pi'udenza; Non fu Calcante così esperto e grande Nel conoscer le
viscere, nè Ajaco Nel maneggio dell’armi , e Automedonte Nel condur
cocchj ; compio sono espCito E grande nell’amor. Me celebrate,
Uomini tutti ; a me si dian le lodi; Digitized by Google
90 Nel mondo intero il nome mio ti canti. L*
armi io vi porsi come già Vulcano Le diede a Achille. Or con tal doni
voi Vincete pur, com’egli vinse un giorno; Ma chi col brando mio
potò le fiere Amazzoni atterrar, sopra le vinte Spoglie scriva:
Nason ci fa Maestro. Le tenere fanciulle a m^ le preci Ecco che
porgono, onde lor cortese Sia de’ precetti miei. Ah t sì, sarete
Cura primiera de* futuri carmi. DELL’ARTE AMATORIA
DI P. OVIDIO nasone SULMONESE LIBRO
III. 10 porsi contro lo guerriere donne A’ Greci 1’
armi ; or dare a te le deggìo^ Pentesilea, e alle Amazzoni
seguaci.(i) Ite alla guerra uguali, e vincan quelle Cui son
propizi Venere e il Fanciullo, Che in tutto il mondo ha di volar
diletto. Giusto non era il combatter nude Contro gli armati ; e
vincerle per voi. Uomini , turpe mi sembrava. Alcuno Dirà fra molti
: perchè aggiunger cerchi 11 veleno alle serpi ? e perchè in
preda Lasci alle lupe rabide 1’ ovile? Di poche il fallo non
vogliate in tutte Diffonder ; pe’ suoi merti ogni Donzella
Considerar si dee . Se Menelao Ha di dolersi d’ Elena cagione^ (a)
(i) Pentesilea Regina delle Amazzoni andò contro i Greci in
soccorso d^ Trojani ,e fu dopo varie glo^ riose azioni uccisa da Achille.
Sotto il nome di Greci P intendono però- dal Poeta quegli uomini , che
^ cingono a conquistare le donne qui figurate sotto il nome di
Amazzoni. (n) Vedasi V Annotaz, 5 q del Lib. I. e l*Annotaz,
ueuSdelldb.If. Ved. Vannot. 38 del Lib. /. eVannot. ao del Lib.
II. Digitized by Google 9 ^ £ se di
Clitennestra i rei costami SoQ gravi ad Agamennon ; se d’Ecleo (3)
Il figlio scese co* cavalli vivi. Dalla spietata Enfile^
tradito, Vivo egli stesso a Stige^havvi pur anco Penelope che
pia serbossi e fida (4) Al suo marito, benché senza lei Due
lustri errasse , e per due lustri ancora Passasse i giorni suoi sempre
alla guerra. Protesilao rimira e la consorte, (5) Che , come
narran , pria degli anni suoi Vide Testremo fatele scese a Dite
Ombra indivisa del marito . Mira La Sposa pegasea dall*empia sorte
(6) (S) Anfiarao figlio di EcUo ed eccellente indovino ^
ascose in un luogo segreto per non esser costretto a portarsi alla guerra
di Tebe, in cui sapeva di do-* ver certamente morire* Eri file sua moglie
allettata da un aureo monile promessole, da Polinice, insegnò a
questo ov'egli sfava, celato* 4 n 4 à pertanto Anfiarao forzatamente alla
guerra^ ma appena giunse in Te¬ be , gli si spalancò sotto i piedi la
terra , e rimase in quella sepolto. (4) Penelope è V esempio
deWamor con fugale* Si conservò essa sempre fedele al suo sposo Ulisse ,
ben* che vivesse egli lontano da lei per lunghissimo spa* zio di
tempo , e benché fosse ella continuamente as¬ sediata da mille fervidi
amanti. (5) Protesilao andò aneW egli all*assedio di Troja, e
fu il primo tra* Greci , che vi perdesse la vitapoi* che Ettore lo ferì
mortalmente , nientre scendeva dal* la sua nave. Desolata Laodàmia sua
moglie da una tale sventura , ottenne con le sue lagrime da* Numi
di poter veder V ombra del suo amato consorte , e neWabbracciarla morì*
(6) Soffriva Admeto una malattia coà grave , che secondo la
risposta dell* oracolo ^ era necessario per salvargli la vita^ che un
uomo o una donmft^ morisse Digitized by Google
9 ^ Admeto liberare , onde famoso Rese il suo nome .
Evadne a Capaneo ( 7 ) Disse : m* accogli ; il cener nostro insieme
Si confonda ; e slanciossi in mezzo al rogo; È la Virtude d’abito e di
nome ( 8 ) Femina, nè stupore è, se propizia Si mostra e
favorisce al sesso suo. La nostr’arte però queste non chiede
Alme sublimi 9 e con minori vele Naviga il legno mio • Per me
soltanto S’imparano a trattar amor lascivi. Io insegnerò in
qual modo amar si debba La donna, che non face ed arco scote Sempre
crudeli ; agli uomini quest’armi Nuoccìon più parcamente 9 io ben lo
vedo: Gli uomini più spesso ingannano di quello^ Che ingannin noi
le tenere fanciulle; E poche troverai , se cerchi , xee Di
perfido delitto. Il traditore (9) Giason Medea lasciò già madre 9 e
in braccio Gittossi ad altra sposa. Oh quante volte Per te 9 Teseo
9 Arianna abbandonata (io) per lui4 Alceste sua moglie^ che dicesi
sposa pagasea dalla città di Pagasa in Tessaglia , volle essa
stessa liberar gen^osamente il caro suo spoeo, ed incontrò con
intrepidezza la morte. (7) Quando Eoadne intese che era stato
ucciso a/« la guerra di Tebe il caro suo sposo Capaneo ^ conce» pi
nell*animo un dolor sì fiero ^ che corse valorosor mente a morire sul
rogo dell* estinto consorte. (8) Adoravano i Romani la Dea Virtù
vestita in abiti femminili. ^9) Annotaz. 89 del Lih. /•
(io) Arianna fu da Teseo abbandamata {Annoi. So. del lÀb» I. )
nell*isola di Nasso j e però avrà te» muto gli Augelli marini provenienti
da quella pcffte di mare, in cui viaggiava il suo perfido amante^
Digitized by Google 94 la solitaria t
sconosciuta riva Temè gli auge! marini ! E perchè Filli (ii) Calcò
per nove volte il sentier stesso. Cerca, e perchè, la chioma lor
deposta, Piansero Filli le dolenti selve. L’Ospite, che
concetto ha di pietoso. Porse la cauta e il ferro alla tua morte, ( 12
) Misera Elisa. E che I narrar vi deggio Delle vostre sventure io
la sorgente? Voi non sapeste amar ; mancò in voi l’arte,
Mentre con l’arte solo amor si eterna. Sariano ignare ancor, ma Cìterea
Vuol che per versi miei sien fatte dotte. Mentr’ella stessa innanzi al
mio cospetto Si fermò, e disse: di qual fallo mai Si fecer ree le
misere fanciulle. Che inermi si abbandonano agli armati? Tu
con gemini libri bai resi questi Nell’arte esperti ; or co’ precetti
tuoi Tu devi ancora ammaestrar le donne. SteSicoro ohe in pria
cantò i delitti (i3) (il) Impaziente FUlide per la lontananza del
suo Demofoonte eorse per nooe volte al lido , dà cui do^ vetfa egli
passare nel ritorno ; e alfine disperata cd afflitta per la tardanza di
lui ( Annoi, a 3 del Lib, li.) si tolse da se stessa crudelmente la vita.
Le fabbricarono i suoi parenti un sepolcro , in vicinanza di cui
nacquer degli alberi , che in un certo tempo , secondo quello che han
scritto i poeti , deposte le lor foglie , piangevano la morte della
medesima. (la) Enea , che vien soprannominato il Pio, di^
sprezzando Vamore , che è il nome proprio di Didone, fu causa
cVella si precipitasse sulle fiamme ohe ardevano la eittà e la reggia di
Cartagine. (i 3 ) Stesicoro siciliano è un poeta lirico ^ che
doto-' Sto ne* suoi versi Elena detta tersnoea dal castello ìa
Digitized by Google D* Elena, poi con più felice
lira Disse le lodi sue. Se V indol bene Io tua conobbi, no ^ non
sei capace offender Tamorose e culle donne. Per fin che vivi
a te tal grazia chieggo. Disse, e di mirto (poiché avea le chiome
Di mirto ornate quando a me comparve ) A me una foglia diede e poche
bacche. Ricevuti i suoi doni, io mi sentii Invaso dal suo nume, e
Paer più puro Splendermi intorno , e facile l’impresa Comparirmi al
pensier. Mentre l’ingegno E desto , a me i precetti richiedete,
Che a voi, donne, ascoltarli ora è permesso Dal pudor, dalle leggi
e da ogni dritto. Siate memori ognor della ventura Vecchiezza, e per
voi il tempo ozioso mai Non passerà. Scherzate ora che lice,
Nè si consumi invano il fior degli anni, Che come 1 onde fuggono
veloci. Tornar non puote alla sorgente il fiume. Tornar non
puote la passata etade. Cadete dunque, che trascorre il tempo
Con frettoloso piè, nè lieto mai Come il primiero siede. Or bianco
miri Questo stelo , su cui già in prima vidi Io rosseggiar le
viole, e questa spina Grata al c^pe mi porse un di corona. Stagion
verrà che tu , che "fchivi adesso L’amante , fredda e abbandonata in
letto cui, nacque y perche^ da essa ebbe erigine la rovina di
Troja. Ma i fratelli della medesima , Castore e Polluce Vacciecarono
crudelmente ; ed ei per ricuperare la sta , fu costretto a comporre un poema
in sua lode» Digitized by Google Giàf&ttsi
vecchia giacerai. Notturna Rifsa non fia che la tua porta atterri,
Nè sul mattino troverai di rose II limitar della tua casa
asperso. Misero me ! come corrotti presto VeggoDsi i corpi
dalle rughe , e, come ^ Langue ih nitido volto il color primo! Quei
che sul capo tuo bianchi capelli Si miran* or,che fin da’di più
acerbi Giuri che furon tali ; ah che ben tosto Si spargeran per
tutto il capo. Méntre (i 4) La sua spoglia sottile il serpe lascia.
Ringiovanisce ; e rinnovando i cervi Le corna, non rassembrano^ mai
vecchi. Fuggon senza speranza i nostri beni; Cogliete il fior, che
se non colto vegna, Cadrà miseramente. A questo aggi ungi Che fan
più breve giovinezza i parti; Invecchia il campo per continua
messe. Non di vergogna a te , Cinzia , fu causa (i5) Il latmio
Endimion , nè già doveo Per il rapito Cefalo arrossire (i6)
(14) / Serpenti si spogliane ogni anno della luto scorza* I Cervi
cangiano ogni anno le qorna ; ma ne * rimangono privi se sian castrati
mentre le hanno de~ poste , e più non le varifino, se soffrano una tale
ope* razione phma di deporle. Impiegano i medesimi cin^ que o sei
anni nel crescere, e però tioono’ solamente circa trentacinque o quarànta
anni , ttd ortta di tutte * le fuoole, che gli antichi hanno scritte
sulla lunga ìor vita. Buffon nella sua Storia naturale. (15)
Cinzia ( Annoi, del Lih, I. ) scendeva dal cielo per godersi Endimione,
che qui dicesi latmio per^ chè s^ascondeva ifi Latmo spelonca del monte,
di Caria. (16) S* innamorò la rosea Aurora di Cefalo figlio
di Mercurio, e però lo rapì « Prgcri sua moglie* , Digitized by
Google , i/ fc La rosea Diva. Adori si lasci a
parte, Tuttor di pianto a Vetieré^ cagione, Com’ebb’olla Antonia,
cotii* ébbe Enea ? (r 7 ) Seguite" tiiir P esémpid delle Dive,
O bellezze tóót^aK , é a^ desiosi ' UomìAì noilitìegate il
favor vostro.: Siano essi ingannatori ; e che perdete? Mille
vi godan pur<;‘tutto rimane Nello stato pritòiér. Gon Fuso il
ferro* Si consuma e la‘ pietra ; in Vói non pudte Cosa alcuna
peirir , ricever danno. Chi ^vieterà cW dal vicino lùme*^
Il lume non si prenda ? e chi nel vasto Seno del mar V onde serbar
procura? Tu mi dirai che non convien che a un uomo Si dia la
donna in preda ; ma che perdi Altro che l’acqua che ricever puoi?
Non vogliono i mìei carmi o la mia vocb» Al libero dell* uom
commercio esporvi^ Ma vietanvi temer le cose inani; Non
posson soffrir danno i doni vostri. Me un’aura lieve , mentre siamo
in porto» Spìnga, che ,al soffio dì più forte vento Sono per
cominciar maggior viaggio. Dalla cnltura io do princìpio. Il
vino Ceneroso dan sol le calte vigne, £ sol
né’campiVcoltìvatì miri Lussureggiar le biade. £ la bellezza Dono
del cielo , e come ah vien superba OQ.Arteà'am. e (17) La
Dea Venere éhhe à(jL Arichise il figlio Enea , e da Marte la figlia
Anmónia, Bastano . tàli esemp) per provare che ella permise a molti di
possederla . Digitized by Google pJbeU^z<i
ogui danpa 1 1Ja «ran parte Di voi prirs rù^.A quf»to 4ouo. . Con U
coltura la beiti ai 4CqWti ■ Cile si perdo nfgfct^ ^ apci^r cjio
eguale A gueili fosse dpU'idalia Diy*. (i8) , Se Io prische
fasullo, il corpo Joì;a Non coti custodirò ^ se gli autieri Uomini
incolti vissero , se cinse ; Pesante gonna.AndroiMCjayìo non
yeggo>(f 9 ) Bagjon 4i,,ayiglia^I es^SA d’un rezzo , Guerrier
fu^^mpgli^. Fprsé a Ajace incontro Adorna andap dpvea la sua consorte,
(ao) Se a Ini la^ pflle .poi di sette bovi Servia di veste ? Ne^
primieri tempi Rozza regnò semplìcitade, e immense Ricchezze Roma
del soggetto mondo Ora possiede. Osserva quale adesso (ai) ^ \
Sia,il OampidogUo, e gual no’giorni andati^ E dovrai dir c]lie ,fa d'un
altro Giove. ■ ■ " ■ - ■ ■ - ■ ■ ■ ■ « « " ». . ■ ' ' I
> ' . . ' . ' (18) Ventre dicesi idalia dal monte Idale in
Cif^ro a lei consagrato, (19) Andromaca fa moglie A*Ettore
Capitano deU VArmata Uroijana, Annótàz, 89 del Lih, li. (ao)
AJaae figli^di Telamone è oelebràto daOm'e^' ro nella sua Iliade come uno
piu valorosi Prine^ che andarono all*assedio di Trofa. Sposò egU
an*an^ cella nominata Teemessa; e però dice Or ozio Movit Ajacem
Telamone natura ’ Fórina captiTflB Dominuin Teemessa.
La Curia fu anticamente , secóndo F’arrone, distribuita in due
parti, in una delle quali custodi^ vano i Sacerdoti le cose diwine , ’e
neWaltra tratta^ vano i Senatori le cose umane. TaaUr fu un Re de*
Sabini così accorto 9 che seppe ottener da Rpmelaiina parte del Regno
dopo d*aver perduto un'atroce bai» taglia. ’ Digitized by
Google La Curia, che di tanto ora' rasaembra Concìlio
degna, fu di Tazio a’tempi Di rozza paglia intesta. Qoe'palagi- Ch#
ora risplendon sacri a Febo e a’Ooci; Che furon maì^ se non pascolo un
giorno Agli aratori buoi f Piacciano ad altri Le cose antiche ; io
meco stesso godo D* essere in questa età nato conrorme A’ miei
costumi, non perchè si tragga Dalle vìscere cieche della terra 11
dutil oro, o perchè venga a noi Scelta conchiglia da diverso lido;
Nè perchè i monti facciansi minori Per i marmi scavati ^ o perchè
altere * Sorgano moli ove giaceva il mare; Ma perchè regna or
la cultura , e a’nostri Tempi rusticitade agli avi antichi Cara non
giunse. non fate carchi 1 vostri orecchi di preziose pietre,
Che in mar lo scolorilo Indìan raccoglie; Nè comparite già gravi
per Toro Tessuto sulle vesti, onde ben spesso Le ricchezze cercate
e le rapite. Dalla mondezza noi sìam vinti. Il crine Si
disponga con legge; un pettin dotto R dona e toglie a suo piacer
bellezza. Non r ornamento stesso a tutte giova; Quello scelga
ciascuna , in cui più splende^ E si consigli col fedel suo
specchio. Chiede una lunga faccia che sul capo (za) {2.2)
Augusto fabbricò nel suo palazzo un Tempio consacrato ad Apollo Palatino.
1 Duci ^ a* quali ^ dim cesi sacro il palazzo medesimo, sono Augusto e
Tim bario, mentre quegli vi nacque , e questi vi abitò»
Digitized by Google loe Siati ben divisi non
velati i crini; Così avea Laodàmia le chiome adorne* Voglion
le piene e ritondette guance^ Che della &onte sul confin vi
lasci Piccol nodo onde veggansi, gli orecchi, D’an*altra il
orin flagelli ambe* le spalle,^ Quale al canoro Apollo allor che in
mano Piglia la lira. Come Pagi! Diana Altra gli .abbia legati, alLor
che al bosco Peiseguita le fiere pau^ròse. Convien che questa
abbia i capelli gonfj; £ strettamente quella il crine implichi*
Altra s’adorni in guisa tal la ehioma,^ Che alla cilleuia cetera
assomigli (aS); Questa V increspi in modo ohe rassembri Onda
marina. Numerar non puoi Quante sulla ramosa elea sian ghiande.
Quante in Ibla sian api, e quante fiere S’ascondano nell’alpi, io pur non
posso A te narrare le diverse fogge Di dar la legge al crin ,
mentre ogni giorno Ne sorgono novelle. A molte giova Che sia
negletto : crederai che il capo Quelle jerì s^ornasser , che con
nuova Cura testé si pettinar’la chioma. Studia con l’arte
d’imitar Natura. Era Jole così, quando la vide ( 24 ) ^
(a 3 ) Mercurio inventò la Lira fatta a gedsa di te» staggine , e questa
dicesi cillenia ^ perchè egli nacque nel monte Cillene in Arcadia, Se
Ooìdio tornasse a vigere in questo secolo , dorrebbe certamente veder
con Rubilo che le nostre Dame seguono con la massima esattezza i
suoi proietti nell* adornarsi i capelli. * (a 4 ) Amò Èrcole
ardentemente Jole figlia di Eu» riio, il qual rìcue/ò di dargliela in
isposa, quoMtun» Digitized by Google 101
Ercole ; presa la cittade » e disse : lo ramo; e tal Pabbandonata
; donna Quando sai carro sosteneala Bacco» E i Satiri gridare
: evviva » evviva. Quanto in favor della bellezza vostra Fu
Natura indulgente» o donne I Voi In mille modi ricoprir potete Z
vostri danni. Invan noi ci asix^ndiamò; Cadono per 1* etade i capei
nostri Come le foglie allor ebe Borea soffia. Con le
germanicb’ erbe asconder pnote (aS) La donna la canizie » e può con
Parte Miglior del vero altro cercar colore. Vanne la donna con la
chioma folta f 'glUVaotsu solennemente proméssa, frritmto
gli pertanto da una tal negativa, debellò la Città d^Occatia » 09 e
questi regnava » e gli rapì la sua di¬ letta denteila.
:(a&) si sa veramente auali si fossero quell^er- he germaniche
^ del di egù amore eUrattivo compone- vano gli antichi un medicamento »
col quale i capel¬ li bianchi si riducevan neri o biondi. Si Sono
però, trovate a’ nostri tempi molte ricette, ohe compensano
largamente una tal mancanza. Cosi se i capelli sìan bianchi, si posson
ridut neri col far uso d*una po¬ mata, a cui siasi aggiunto una piccola
porzione di nero d*aoorio ben macinato » oooero di sughero bru-
glato unito all* azzurro di Berlino. Resta pm assai difficile di ridurli
biondi » se non si vogUono adope¬ rar polveri d^amido leggiermente
torrefatte. La mi¬ glior ricetta che si può per quest* effetto accennare
» é la seguente : si faccia una forte liscioìa di cenere di
sarmenti ; vi si unisca una piccola quantità di ra¬ dice di brionia e di
celidonia; si faccia il tutto bol¬ lire; ed in fine vi Raggiunga altra
più piccola pdtr- zione di zafferano dell* Indie , di fiorì di stecaae
e di ginestra. Si coli per tela, e si laoino con una tal acqua piu
volte i capélli. fOft Per i compri capelli , e
col denaro In mancanza de* saoi porta gK altrou Nò il coidprar ciò
palesemente teca Ve^ogna i noi vediam che son venduti D* Ercole in
faccia e del virgineo coro. (a6) Che dirò della veste f Oro ed
argento 10 non ricerco ^ o che rosseggi tinta La lana in
tiria porpora. Se mille A prezzo più leggier vi son colori,
,, É qual è dì follia segno piò espresso Che di portar sul corpo i
propr} censìf Ecco il color delFaria allor che searca Si rimira di
nubi, e il tepid*au8tro Non apporta la pioggia : eccone un altro
Simile a te che sostenesti nn giorno Come si narra, e Frisse ed Elle
quando (27) Fuggir* le frodi d* Inoe. Imita questo 11 cernleA
mare ^ da ciò traggo Il proprio nome, e di tal veste 10 credo
Si coprisser le Ninfe. Altro è simile (28) Si rUeva di qui, che in
faccia mi Tempia fMrtcata in onore d'Èrcole e delie Muse , avevano
i Romani una bottega 9 in cui vendei ansi i capelli. ' (a^) Frisso
ed Elle figli dì Adamante Re di Tebe fuggir dalle frodi d* Inoe loro
matrigna, salirò* no' sopra il montone ornato del Vello d^oro^ che
Mercurio diè in dono a Nefale madre d^ medesimi. Frisso fu da quello
felicemente portato in Coleo , ma Elle'precipitò in quel mare , che prese
da lei il nome d^ Ellesponto. Con ^esta favola vuol però dire il
Poe* ta 9 che era presso i Romani in uso ( e lo è pure cd di nostri
) il colore che si assomiglia a quello dell* oro^ - (aQ) Essendo il
giovinetto Croco impaziente di poe* cedere Snùlaoe sua dUetta amante 9 fu
trasformato in un fiore che dicesi volgarmente ZefBivano , o che da
lui Ica preso il nome di Croco. £t Grocam ia parros yersam
cum Smilace flore». Ovid, Metam. Digitized by
Google TOS AI Croco, e qàaiido accoppia i
Ittraihbsi Destrier, con cròcea reste pur' si rela La rugiadosa
Dea. Di'Pafo a’mirti ' Questo assomiglia , e quello alle purpuree Amariste
, alle rose biancheggianti (29) Uno‘^ ed tin altro aÈa'straniera
grue. Le ghiande tuè ti sod pure, o Ainarilli, Nè ri tnancanr
le mandorle, e il suo nome Diede alle lane per la eera. Quanti
Fiori produce la norella terra ~ Allor che fugge iUpìgro rCrnò, e
stilla Gemme la rite ^ tanti beo la lana Color dirersi, e quello
scei tu dei> Che col tuo rolto Si confà. Ogni reste Non
conriene a ciascuna. I neri ammanti- Fan risplender le bianche. Assai
più. bella firiseide, allor che fu rapita, apparre, Perchè le
membra accolse in negra reste*. Odora alle brune donne il color
bianco: E tu piaceri, o di Oefeo, ( 5 o) In bianca
resta allor che di Serifo Passeggiar! le rie* Io diei consiglio Che
del capro il fetor sotto V ascelle Non passi, e che non sian per duri
peli Aspre le gambe,. Ma non io già deggio Delle caucasee rupi le
£snciulle Far dotte, o quelle che di Caico misio {ìi} (29
ÀmaUsta è una gemma , il di. oui colore è- quasi simile a quel della
porpora. (So) La figlia di Cefeo à Andromaca: avrà essa
probabilmente passeggiai per le vie di Serifo > perchè è questa una
piccola Isola del mare egeo , nella quàU fu edueato Perseo suo
liberatore. ( 3 r) Gli abitatori del monte Caucaso furore antica--
menteiCome lo sono tuttora, ferocissitni. FI Caico-è unfiu^ me della
Frigia e della Lidia ^ che proviene dalla JS/Lsia. Digitized by
Google / ia4 Bevano all*onde. Che
non siano i denti V*ammonirò per hidblenza foschi, E che si
lavin sul mattin 1 ^ guanoe Con man dell’onda aspersa. Voi sapete
Pjocacciarvi il candor con distemprata Cera; e con Parte divien rossa
quella. Cui non colora il sangue suo la. faccia: Voi con Parte il
confin nudo del ciglio Fate ripieno, e voi con tenue pelle
Ricoprite talor |e vere gote. Stropicciar gli occhi poi non è
vergogna Con la cenere tepida „ o col crocb Che nasce presso te ,
lucido . Cinno. (3a) Tengo un libretto picciolo, ma grande ^ Opra
per il pensiero , in cui i rimedj - ' Qià v’insegnai per la
bellezza vòstra» ( 3 d) Con felice successo adoperarono le Dame
Ro^ mane la cera distemprata per far fianca la peUe ; e con faUe^
ti Adopera ancora in questi tempi dalle nostre Dame . Ecco il modo
di prepararla : ad una parte di cera bianca di Venezia si uniscono otto
parti d* acqua , a cui si aggiunge una piccola porzione d*alcali vegetale
y e si di^cioglie il tutto finché non si abbia una sostanza consimile al
latte* he Dame ro^ mane solevano ancora adornare co* colori , e
riempire co*peli ben disposti quello spazio ài pelle nuda che é fra
il ciglio e il sopracciglio, s ! • Il le •apercìlium magaa faligine
tinctum « Obliqua producit acu. Giovenale. Dalla
Cilicia che è irrigata dal fasme Ciano fa» cevano esse venire il
zaffarono ed altre céneri atte a purgar gli occhi dagli umori soverchp; e
a renderli per cònseguenza maggiormente^vivaci. Ha scritto Opì- dio
un piccolo libro de medicamiue faciei quale inségna alle Donne
tutti i rimedj, che possono contri» buire a far bella la lor faccia e le
loro membra. Digitized by Google /
io 5 Quindi riparo alla figura offesa Cercate, che non
è per gli usi Vostri Inefficace Farte mia. L’apiaìite Non miri
apertamente i vasi esposti. Che Tarte ascosa giova alla
beltade. A chi non spiaceria mirar sul volto Stendere quella
feccia , e lentamente' Cader pel peso suo nel caldo seno?
Quàl dall* immonda lana dell* agnella ( 33 ) €2
( 33 ) Fahhricavasi in Atene con In lana sudicia e molle un medicamento
che i Greci chiamavano Etipo. Le Donne facevano uso di questo per
mollificare le ulceri di qualche delicata lor parte. Vedasi Diosco*
ride y Plinio il Mattioli nel suo erbario ; che ne parlano a lungo , ed
insegnano la maniera di fabbri^ cario, ' Non d può accennare
qui il modo , con cui prepa^ radano gli antichi i midolli della Cerva
yper averne un composto atto a far bianchi i denti, era i molti
medicamenti che hanno per quesV effetto inventati i nostri Chinùci , ci
piace di riportar qui la polvere , V oppiata i e le spunghe ; di^ cui dà
Mons, Beaumé la ricetta nella sua Farmacia, Ad un*oncia di
pomice, di terra sigillata^ e di corallo rosso s*aggiunga mexz*oncia di
sangue di Dra^ go, un* oncia e mezza di cremar di tartaro^ se ne
fac^ da una polvere sottilissima , e vi si unisca una pie- cola
porzione di garofani e di cannella. Per compor quindi V oppiata
> si prenda un* oncia della polvere suddetta, due once di lacca rossa
da Pittori, quattro di mele di Narhonne, due di siroppo di more ; a
queste ù uniscano due gócce d* dio essen-- ziale di garofani, e si avràr
un* oppiata , che S4^à op¬ portuna , come la polvere , a ripulire ,
imbianchire , e preservare i denti da molti incomodi. Una
stessa virtà hanno le spunghe preparate , e intrise in una tintura fatta
con lìfibre quattro a^ua, in cui abbina hoUUo quattVonce di legno del
Bras^* Digitized by Google jio6
Daraiìne ing^rato odòrè- il 'sugo estratta^ Benché da Atene a noi
si mandi t Inverò^ Lodar non so cl^ alla presenza altrui Della
cerva i midolli insìem mischiati Piglinsi, e che palesemente i
denti Si faccian netti* Utili alla beltade Sono. tai cose , ma
deformi troppa Agli occhi nostri* Molte cose fatte Piacciono, e
turpi son mentre si fanno» Le statue di Mirone opre famose, ( 34 )
Furono inerte peso e dura massa, Per farsi anello , Toro in pria si
frange, E quelle vestì, onde vi fate adorne,, Furon. sordide
lane* Era aspro marmo,. Mentre erano a scolpirla intenti, quella
Statua nobile in cui Venere nuda Trae fuor dall* onde gli umidi capelli.
(35)* Fa che pensar possìam che dormi allora Che tu Vadornì, Io
lusingl>ieTa forma Sarai mirata se alla tua cultura le,
tre dramme di cocciniglia soppesta , e quattri) di alume di rocca .
Quando queste spunghe si sono, im¬ bevute d* una sufficiente quantità d*
una tal tintura, si fanno asciugare, si pongono per alcune ore
nello- spirito di vino, a cui siasi aggiunte una porzione di- olio
di cannella y di garofani,.e di spigo ec.; quindi si spremono, e sì
conservano per valersene al bisogno, ih vaso di Oetre ben ehiuso.
(34J Mirone discepolo d^ Ageladé seppe formare in bronzo còsi
perfettamente le statue , che Petronio dite aver egli compreso nel bronzo
V anima degli uomini e delle bestie, ^ ( 35 ) Alludesi alla
famosa statua di PrassiteU , che rappresenta Venere nuda neW atto
d^ uscir dal mora. Fu questa collocata in Roma nel Tempio di Bruto
Callaico insieme col Colosso di Marte pvesso - il Circ¬ eo
ffaminio» Digitized by Google Diligente darai T
ultima mano. Del talamo le porte ben raccbiudi. Perchè
vuoi far^ palese un’opra rozaaf Molte COEC' ignorar gli uomini
danno. Di. cui gli ofiendón molte, se non copri Ciò , che
& d’uopor di tener , celato. Vedi quelle che pendono^ da un
culto> Teatro aurate statue, a osserva bene Qual lieve foglia il
legno lor ricopra.. Ma come quelle al popolo* non lice Veder
ae non sien poste in vaga mostra^ Così se non elea gli uomini
lontani, Non si procuri d’acquistar bellezza. Non
vieteiò cbe al pettine abbandoni Palesemente 1 tuoi capelli, quando
Scender potran per tutto il tergo aspersi. Di non esser procura allor
molesta, • Ne aciorre spesso le mal calte chiome. Sicura sìat
quella che il crin t’adorna; Odio colei che le ferisce il volto Con
l’un ghie liCi con rapito ago le punge 1 ( braccia Allor d’ancella là
detesta. Le tocca il capo, e sull’odiate trecce* Col
piaotn suo scende mischiato il sangue* Quella che il capo.ha.quaai calvo
,ipoDga^ Sulla porta il oustode , o della Dea Gibele al ten^pio ad
adornar si vada. ( 56 ) ^ ( 36 )’ CibéU aveva in Roma un Tempio,
in cui non potevano aver gli uomM V accesso : 4 Sacra Bona
maribas non adeunda Des. Tibullo, Insinua pmttauio
Ovidio con questa frase Me Donne di non pettinarsi alla pretenza^ degli
uomini^ se non so» Mli i ìorq capelli *^ Digitized by
Google io 8 10 fui annunziato airimprovviso un
giorno A una -donzalla; e torbida i non suoi Velò capelli. Uo
tal ro 88 or > ricopra La faccia alle nettiicbe, e questa^
infamia Fra le particele Nuore abbia soggiorno. Turpe è Tarmento
senza corna, e turpe Senza gramigna è il campo, Tarboscello Senza
le foglie, e senza i crini il ^apb» Non-vennero ad udire i miei
precetti Semele, Leda ^ o la sidonia donna (37) Che via portò pel
tnar fallace Toro, O la tua sposalo Menelao, cW chiedi Bene a
ragione, e che a ragion si tiene 11 Rapitor Trojano^Ecco una
turba*' Di belle donne e dì deformi a un tempo ( Ahi sèmpre
il ben dal male è snperato ! ) Che chiède i miei precetti, ma non
tanto Cercan questi le belle , e men dell^rfe Procurano rajoto. Han
quelle in dota Beltade senza Parte assai possente. Quando
tranquillo è il mar, sicuro bessa^ Il nocchier dal lavoro, e mentre è
gonfio Si asside, e in opra pone ogni socConk). Rara è beltà che senza
macchie Sia; ^ Le cela , e i vizj del tuo jcorpo ascondi
{37) Semeie figlia di Cadmo He di TeÒe e.madre^ di Bacco , Leda
figlia di Tindaro, e sorella di Ca- stare e Pollice, Buropa figlia di
Agenore He di Fe¬ nicia ove giace la città di Sidone , da cui élla
vieti detta Sidonia, furono dotate d*una tal bellezza , che
innamorarono vivamente lo stesso Giove, il quale non^ ebbe à vile di
prender per esse le più strane sem^ hianze. Queste con Elena mogUè 'di
Menelaosi pro» ^ pongono qui dal Poeta , come eiélnpi troppe rari
dì: perfetta bellezza. ■ Digitized by Google
209 Quanta più puoi'« Se di statura breve Tu sei,
t’assidi, onde seder non sembri Allor che in piedi stai. Se oltre misura
Però lo fo^si^ allor ti porca , e ascondi Con le vesti su’piedi un tal
difetto. Quelle che sono gracili e minute Debbon di grossi drappi
ornarsi, i quali Sciolti cader si lascin dalle spallo. Tocchi
il suo corpo con purpurea verga ( 38 ^ Chi è pallida ; e chi è nera abbia
ricorso Al fario, pesce. Un piò lungo e deforme Sottu candida
alunda pgnor si celi, ($9) Nè secche gambe .sciolgansi da* lacci.
(38) È certo , gU onticfd aoéoano de* medica^ menti , co* quali ti
coloravan la faccia ^, benché non d sappia di qual natura^ quelli si
fossero . Il belletto > che si usa pretentemente è composto di rosso e
di biancone sarà forse pià efficace di quel che adopra* vano le
Daàte romane. Si è per qualche, tempo im-^ piegata Cernita il magistero
di Bismuto^ detto altrimenti bianco di spanna com« quello, che
avendo un leggiero color d* incarnato, era pià analogo aHa pelle ;
ma sì l* una che l* altro anneriscono e guasta¬ no la carnagione, mentre
tutte le calci metallici^ ri¬ prèndono una parte del loro flogisto , e,
si ripristinano* Si è pertanto sostituita alla cerussa ed al
bismuto la pomata di spermàceti^e l* olio di mandorle dolci,
unendovi una porziànè di falco'biancò finissimo. Col talco bianco
ùmilmente barico ,della parte coloranto de* fiori di Cqrt^mfi j a, ,cui
si aggiungono poche goc¬ ce di olio di Beri, per renderlo pastoso è
molle, si compone il roiso y che ancor chiamasi-rosso di porto-
gallo o roSso'vegetale. ‘ Il /arto pesce é il Coccodrillo y degl*
interiori e della sterco del quote sh servivano i Homani e(f i Greci per
fare un composto atto a render bianca e splendida, lo pellé.
(39) X’Alauda b una pelle moUissiuia, Digitized by
Google X IO Tenue eoscm conviene ad alte
spalici E se il petto sìk turgida, il circondi Fascia, e lo
stringa. Se le dità pin^ui^ E scabre T ùnghie avrai, allor di
rado Accompagna congesti i detti tuoi. Chi grave dalla bocca
esala oddte ' • Digiuna mai non parli ^ e dalla bocca Deir uom stia
lungi. Negri, e troppo grandi Se i denti siéno, o in non belFordin
natii Massimo il «iso allora apporta danno. Chi ^1
crederiaMiC donne apprendon pure Le. maniere del ti80 ,'e in qùesta
parte Nuovo per lor procacciano òtnatoeùto. Non troppo-larga apri
la bocca , e brievi Sian le pozzette in ambedne le. gote, E
le radiche ognor copra de’denti L’estremità de’labbri , e non
bisogna. Affaticar con smoderato riso . Il fianco, mentre
deve ancor nel riso. - Dar proprio, delle donne urf dolce sùono'.
V’ è pur chi in mille guise il volto- Con male acconce risa*, ed altra
credi Piangere allor che tutta allegra ride$ Quella tramanda un,
rauco suono ; e stride Cosi inamabilmente, che ^assembra ; Asìnella
che ragli, allor che intorue s 5 Alla macina gira.^E'do Ve l’arte ^
Non giugno ? Coù decòro itnpajfan ) A lacrimare, e come, e
qhandò sembra, ^ Loro opportune. E che dirò di quelle. Che
niegano agli accenti intera forma, E fan con studio balbettar la
linguaf ^ Credon che sia lìa grazia ancor nel viziò^. E pronunciano
mal varie paròle^ • Digitized by Google rrii
E con arte studiata altre ne lasciano. A tutto ciò, che ben
giovar vi puote^ Ponete cura, e con femineo passo Imparate a
portare il corpo vostro^ Havvi nel portamento anco il decoro.
Con cui si fan fuggir , con cui si allettano^ Gii uomini ignoti.
Muove questa il fianco Con arte , ed ondeggiar lascia le gopne Air
aure in preda, e stesi i piedi porta Con maniera superba. Altra
cammina Qual deir umbro marito la consorte (4o). Rubiconda, e con
piede in dentro volto rapassi move smisurati •y in q^uesto Serbisi,
e in altro pur giusta misura» Rustici ha questa i moti, e troppo
quella^ E molli e ricercatk LMraa* parte Della spalla, e r estrema
ancor del braccio Di nuda, onde chi posto è al manco lato Veder la possa.
-Hi special modo a voi Gioverà che qual neve avete bianca Ina
pelle. Quando questa io mira, sem-pr^ Sulla spalla scoperta i bacci
imprimo. Col dolce suon della canora voce Fermàr le navi più
spedite al corso Le Sirene* del mare iniqui mostri. (41)
{40) Condanna Ovidio a ragione come rozze le mo¬ gli degli Ultori popoli
forti e a un tempo stesso /«- voci f che abitarono in Italia sul monte
Appennino, (41) I>c Sìrerse sono tre barbari mostri che dimora¬
rono nel mar di Sicilia, Col suon lusinghiero deWar¬ moniosa lor voce'allettavano
queste in tal maniera i naviganti , che si lasciavano essi predar
facilmente. Ulisse per evitare un tanto pericolo , chiuse con la
cera ^^^cchie suoi compagni^ e si legò strettamente'^ M albero
della na^e ^da cui si disciolse dopo ■yGoogle
jia Udite qneste, se medesmo sciolse DalParbor della nave, e
con la cera Chiuse Ulisse accompagni ambe le orecchie. È
lusinghiero il canto . Le fanciulle Apprèndano a cantar ; la voce a
molte Senza bellezza conciliò gli affetti. Cantino quel che
udirò ne’ marmorei Teatri f ed or versi costrutti in metro (42)
Niliaco; e culta femina tenere Sappia per mio giudizio or nella
destra 11 plettro , ed or con l’altra man la cetra. Il tracio Orfeo
con la sua lira mosse ( 43 ) Le fiere, i sassi, le paludi stigie,
Ed il triforme Cane . O della madre Giusto vendicatore al canto
tuo Cortesi i sassi fabbricar’ le nlura. Benché sia muto, il
pesce ( è nota al mondo Favola) al suon del arionia lira( 44 )
sentito il dolce cànto di quelle . Le donne imparino dunque a
cantare ,se ooglionsi conciliare, come dice Otfidio , P qmore degli
uomini, ( 4 ^) E!ran famigliari a* Romani le canzonette ame^
rose , e spesso lascile , ahe si cantavano in Egitto , ove scorre il
celebre fiume Nilo, (43) Orfeo nato in Tracia da Apollo e da Calilo
• pe col suono armonioso della sua Lira fece sì che gli corressero
dietro per ascoltarlo , gli alberi , i sassi , i fiumi , e le beloe
feroci : Quand* egli intese la morte d* Euridice sua moglie , scese con
la lira all* Infernot e con quella intenerì talmente gli Dei infernali,
che a lui la restituirono , purché non ardisse di riguar-- darla
prima d* uscir dall* Inferno, Non p9té l* amo^ toso consorte obbedire a
tal legge , e però ella dovè involarsi a* suoi sguardi subito ch^ ei la
mirò ( 44 ) Anfione figlio di Giove e d*Antiope indusse le
pietre col suon della Lira a fabbricar le mura della città 4i Tebe.
Picesi vendicator della madre, perchè. Digitized by Google
IIS Si fe* pietoso . Anco a toccare impara Con
Tana e l’altra man le dolci corde Del Salterio ; son atte a* cari
scherzi* Di Callimaco a te smn noti i carmi. Quelli del
eoo Poeta , e quei del tejo (45) Vinoso Vecchio. A te Saffo sia nota
(Son più degli altri i carmi suoi lascivi) E quel per cui viene
ingannato il padre (46) Del servo Oeta con la callid’ arte.
Del tenero Properzio i versi leggi, O quei di Gallo, o quei
del buon Tibullo, O i velli insigni per le bionde fila (47)
insieme fratello Leto la vendicò dall* ingiurie , che recatale Ideo
di lei marito y col trucidarlo nel letto y ove lo sorprese con Dirce sua
concubina y a cui pure tolse la vita. Atwne nacque in Metinna
, e fu im eccellente Po&^ ta lirico , e nel tempo medesimo un ricco
mercante. Ufosid alcuni suoi comùttadini dal desiderio di godere
delle sue ricchezze fissarono di gettarlo in mare, men*^ tre egli se ne
tornala alla patria. Accortosi di ciò Arione cantò intrepidamente una
canzonetta , ed un-' Delfino , allettato da una sì dólce melodià ,
Vaccai^ se sulle sue spalle y e lo portò in Tanaro promontorio
della Laconia, (45) Accenna ora Òoidio i Poeti che piacevano
ai suoi tempi , e per lo stile e per le materie galanti , come a*
dì nostri piacciono Ariosto , Passo , Guaritù , è Metastasio ec.
Fiteta fiorì a* tempi d*Alessandro Magno per li suoi' versi
elio^afici , e dicesi eoo Poeta y perche Coo /if ia sua patria.
Anacreonte nacque in TeJo , e scrisse mol^ te canzoni veramente leggiadre
in onore del buon vi¬ no , delle donne y e del giovinetto Batillo.
(46) Terenùo compose una commedia, in cui il padrone , ed il
fratello sono ingannati da Geta asti^^ to lor servitore.
.'(47) ^^^^one Àttacino cantò ne* suoi versi la spe^ dizione in
Coleo degU Argonauti. Il vello d* oro , che jbyGoo'gle
ii 4 Che far fanesti, ó Prisso ^ alla tua aaara
Cantati da Varrone, q il pio Trojano Di coi non y’ha nel Lazio opra più
chiara. Ma forse un dì con 'questi andrà conginnto H nome nostro,
nè i miei scritti in Leta Saran dispersi/Dirà aldino : leggi ,
I culti versi del maestro nostro^ Con cui poteo far dotti
uomini c donne.^ Fra’suoi tre libri che hanno infronte scritto
II titolo d* amor 9 scegli que^ verai ( 4 j 3 )t Che legger tu potrai
con docil bocca Più mollemente ; oppur con ferma voco , Canta P
Eroìdi , ignota opera agli altri Ch’egli compieo. Ahi cosi piaccia
aFebo^ Pel corno a Bacco insigne/ ed allò Muse, Numi che son
propizj a noi Poeti. Chi dubitar potrà ch^ìo la fanciulla Non
voglia al ballo istrutta, onde poi toltq Il vino dalla mensa » ella le
braccia Volga in composte ed ordinato moto? Amansi i danzator che
della scena Sonò spettacol, perchè san con arte : V Saltare y
e con decoro. Io mi vergogno Di doverla ammonir di tenui cose, _
questi ivi andarono a conquistare , fu funesto ai Elle sorella di
Frisso y perchè ella , come si è accennato y cadde miseramente in mare ,
mentre il Montone ador^ no d* un tal vello la portava insiem col fratello
ih Coleo,, Tl pio Trojsno h, come è noto y Enea, sulle aùoni del
quale ha scritto Virgilio quell* aureo Poe» ma che porta il nome d*
£aeidb. {èfi) Ovidio fra l*altre sue opere annovera ancora
ire libri d* Elegie intitolati gli Amori, ed un libro - intitolato V
^roidi , perchè comprende ventuno lettere amorose y che fa scrioère
scambievolmente dagli Eroi all’Eroine^ e dalfEroioe agli £roi.
Digitized by Google ii5' P’istruirla a
gettare or l’aliosso, £ a conoscer de’ dadi anco il valore.
Or tre numeri getti, ed ora accorta (49) Pensi qual parte segua
acconciamente E qual richieda. Canta in finta guerra (5o) Muova i
soldati, che da duo assalito Nemici uno perisce. Il Re sorpreso
Senza la sua compagna ^ si difenda Da se medesmo , e f’emulo
ritorni Per lo stesso seotier.' La tasca è aperta^ E ornai
son sparse le pulite palle; (5 i) Quella che prendi sol muover tn
dei. Ravvi un: gioco diviso in tante parti (Sai Quanti numera mesi
il luhric^anno. Breve tabella prende da ogni parte (S3)- Tre
tenni pietre, e il vincere consiste Nel disjpor queste in una
dritta Mille giochi vi SOI» che turpe fia A una donzella d* ignorar
; col gioco Si può l’amore conciliar. Leggiera Fatica è appreodero
a giocar ; maggiore Opra é il compmrre allora i suoi costumi.
C49) Non sappum Diramente per qual ragione si~ éovesse procurare
tempi, in cui vivcóa Ovidio di gettar tre numeri nel gioco d^ Dadi.
^ 5 “^ •S£r»/erÌjco»o questi versi al gioco degli Scacchi.
(Si) questo un gioco, di cui non possiam dare tucuna notula.
Sembraci f che sia questo il gioco, che r pure * *** dell»
Dama. ( 53 ) Alludeu (d gioco del Filetto, che . or gioeano'
nule campagne i ragazzi. Così b decaduto un gioco - 0^ formava la delizia
delle Dame romane, e coi» aecaderanno ancor quelli che si hanno in pregio
a‘ dk nostri, ® ' Digitized by Google Mentre
s’applica al gioco, incanti siamo, E i reconditi sensi alloc dell’
alma Facoiam palesi. Ci deforma il volto ^ j Il cieco sdegno,
e sono ognot col gioco Il desio del guadagno , le .pontese, »
11 sollecito duol, le stolte tìsse.^ j Rinfaccìansi i delitti
; di clamori * V aere risuona, e in sno favor s’invocano Gl’
irati Dei. Non v’ è fede nel gioco Il qual co’ voti non divìen
secondo; Vidi le gote ognor molli di pianto: Da voi che
amate di piacere all’uomo, Giove tenga lontan questo delitto.
Diè la pigra natura allo fanciulle Silaili giochi ; ad altri
pii sublimi S* applica l’ uom : per lui sono il paleo» ( 64 )
I dardi, 1 ’ armi , le veloci palle; E il cavallo costretto a
gire i^^no. Voi non acosf^il’-campo.o'ra gelata ( 55 ) Vergin
, nè voi sulle sue placid’ onde j Porta il toscano fiume* Ah ! voi
potete Gire all’ ombre pompeje, anzi vi giova ( 56 ) 1 Quando i
destrier del Sole ardono il capo (5 4 ) H Paleo i urto strumento fatta
a guisa Jt trottola, eoi quale giocaoano i fanciulli romani fa-
tendalo con una sferza girare intorno. ( 55 ) Nel Campo Marzio si
esercitavano » romani in tutti que’giuochi cU potevano
«P***^"'^* • renderli valorosi guerrien. Era ivi
ta Vergine dalla fanciulla che ne scopri la sorgente, ed in
quella si lavavano i giratori le di polvere e di sudore. Il Tevere
e qui detto fannie tascsno, perchè dall’Appennino la
Toscana nel f<u-t il siSo corso alla wta di tioma. ( 56 ) Annoi,
q. del fàh. I, ^ Digitized by Google Alla
vergin celeste. I sacri a Febo (5^) i’alagi visitate ; egli
sommerse In alto mar le paretonie navi. I monumenti ancor»
che fur costrutti» Dovete frequentar, da Ottavia e Livia ( 58 ) Una
suora del Ehjce, altra consòrte, E quelli pur del valoroso
Agrippa, Che ha cinto il capo di navale onore. Della
menfitica Iside agli altari (69) Siate frequenti , ov^ ardesi P
incenso, E ne’luoghi cospicui a’tie teatri. Di caldo
sangue le macchiate arene Ite a mirare, e la prescritta meta.
Rapido intorno a coi si volge il cocchia. Quel che si cela ò ignoto
, e ciò che è ignoto Nessun desio risveglia ; è lungi il frutto Se
manca il testimone a un bel sembiante. Benché nel canto superi Tamira
(60) ( 5 ?) Dicé con Ovidio ancora Virgilio, che Apollo nella
guerra Azziaca prestò il suo soccorso ad Augu^ sto y il quale aveoagli
innalzato un ternpio nel pro^ prio palazzo . Apollo in conseguenr^a ,
^Hcondo questi poeti , sommerse le navi egiziane deste paretonie da
Paretonio città marittima d*Egitto , che Pompeo avem va armate contro
d*Augusto. ( 58 ) Ved^i l*annot, 8 e g del Libro /. Augusto
decorò A grippa suo generò della Corona navale dopo d^aver debellato
Pompeo ^ ed innalzò al medesimo un portico y che fu chiamato il Portico
d’A^rippa. (59) Annoi, li del Lib, /. Dice Sirabone che gia¬
cevano tre superbi Teatri in vicinanza del Campa Marzio. (60)
Fu Tamira un poeta tragico che ardì con la sua lira di provocare le
stesse Muse ^ credendosi a quelle superiore nella dolcezza del
cantoma\dalle medesime fu vinto , ed in pena della' sua arrogwiza
gli furono tolti gli occhi. Digitized by Google
ii8 Ed Àmebeo , sarà priva d’ onor« L’ ignota
cetra» Se di Coo il Pittore Vener ritratta non avesse^ immersa
Sare^bbe ancor nelle mailne spume. £ che ricercan maggiormente i
sac^i Poeti che la fama ? E questo il fine Cui tendon tutte le
fatiche nostre. Fur de’Numi e de'Re delizia un giorno. 1
Poeti , ed immensi ottener premj I cori antichi* Venerando allora,
£ d’ una santa maestà ripieno Fu questo nome, ed ebbero
sovente Larghe ricchezze. Ennio che il suo natale Trasse ne’monti
calabresi , degno Si fé’ d’esser unito al gran Scipione. (6i) Or
giaccion senza onor Federe, e il nome Ha d’inerte colui, che i sacri
studj Cari alle Muse a coltivar s’accinge» Giova cercar la
fama, e chi d'Omero Contezza avrebbe , se in obblió sepolta
Ateneo^ Plutarco ed altri parlano con somma lo^ de d*Amebeo
ateniese , perchè sonava eccellentemen- te la cetra, Apelle nativo di Coo
dipinse Venere nel- ratto di uscire dalVonde marine \ ed Augusto
coliocè una tal pittura nel Tempio dì Cesare suo Padre, (6i)
ÉrUiio è tra i Latini un poeta che si può da- gV Italiani paragonare a
Dante. Ennius ingenio maximus , arte xudis. Owd. Trist,
Ub. IL EL I, Fu egli, nativo di Rudia in Calabria , e visse
som¬ mamente caro a Scipione Affricano il vecchio , ed a molti
altri insigni Cavalieri romani. Morì in età di anni settanta , e dicevi
che fu collocata la sua sta¬ tua di marmo nel sepolcro degli Scipioni.
Cicerone ^ro Archia Peata , così parla di ciò : Garas fuit Af-
iiricano superiori ngster Ennius ; itaque in tepulcro ScipioQum putatur
is esse constitutus e marmore. Digitized by Google
L'Iliade o^ra imxnortal foase rimasa? ^ Chi Danae conosoiata avr^a
, se ascosa (6a) Posse étata mai sempre^ e «e già vecchia' Si
fo8a''ella lacchiusa eptro la torre? Utile è a voi , bèllé e vezzose
donne, Di porre oltre le soglie il vago piede< La
lupa a molte agnello insidie tende Per predarne una, e sopra molti
augelli Vola 1 Augel dj Giove. Il volto mostri Sposa_ leggiadra ^1
P®poI<>> o fra molti Un solo appéna rimai^rà sua preda.
In ogni loco ove si tro^ , attenda Sempre a piacere; ed abi>ia
special cura Di sua bellezza. Puote in ogni incontro Sempre molto
la sorte. Getta l’amo, Chè in quel gor^o, ovemen lo pensi, il
pé^co t alor SI trova . Erran sovente indarno Per boschi montuosi i
cani , e il cervo Cade fra’ lacci, mentre uinn l’insegne. D
Andromeda l^ata a un duro scoglio ( 65 ) Il niT*** *Pf far, che a
un uom piacesse Il pianto sue ? ài cerca spesso un uomo Ne
funerali del marito ; i crini Sciolti portar conviene, e sian la
gote Di lagrime bagnate . Ma fuggite Gl, uomini che d’aver
le ^mbra adorne hi fanno un pregio ; della lor beltade
Vanno superbi, e portano le chiome Digitized by
Google 120 ^ . a.' Con ricercata simmetria,
disposte. Ciò che dicono a vói, dissèro a m{llé; D’ uno
in un altro àmot Tàgando vanno , Senza restarsi in dmha "parte
mai. Che d’un tal uomo effemi,nato., a cui Forse molti non
mancano amatori. Dee fer la donna ? 11 crederete appena.
Ma credetelo'pur , Troja' àncor ferma ( 64 ) Starebbé,se di Priamo
avesse ih uso\ ‘ Posto gl* insegnamenti . H'a^yi di quelli Che
sotto il mantó di fallate amore ^ ■V* assalgono , e tiòèrcan coh‘
tai mezzi Vergognosi guadagni . Ntìn la chioma Per il liquido nardo
nitidissima ^ V'inganni, o breve fascia con cui stringa Le pieghe
della veste ; nè v’ illuda Toga che sia di tenue,fil tèssuta;^
O anel con cui s’adorni uno o più. dita. Chi fra questi è più
colto, è forse un ladro, E d’ amore arde per la ricca veste.
Gridano spesso le spogliate Donne; Il mio a me rendi, e il suon per
tutto il foro Rimbomba, e s’ode ; a me deh rendi il mio. Tu da tuoi
templi d’oro adorni miri Con le femmine d’ Appia indifferente, ( 65
) Venere, queste lìti , Ancor vi sono Pessimi nomi'pei^'non dubbia,
fama-. ( 64 ) Priamo iruinuava «’ tuoi Trojatti di rtrtdtr
^( 65 ) àoeva nella via appia tomo al quale abitarono molte
donne sacrifici che queste rendevano a quella lor lare
, consistevano in prestar liberante tl lor corpo alle voglie
sfrtnatt desìi uomm Iwrnnio byGoogle 121
E molte che rimasero ingjinnatp Da molti amanti, or d’ un egual
delitto Si trovan .ree. Dalle quetele altrui; Imparate a; temer le^
vostre ; chiusa, Sia mai sempre la porta ad uom fi^lace.
Donne ateniesi, uon prestate fade (j66)‘ A Teseo ancor, che giuri •
In testimonio» Come invocolli nn giorno, i Numi invoca. Tu del
delitto, oJDemofonte , erede. Di Teseo più non meriti credenza,
(67) Perchè ingannasti Fillide . Se molto A te pròmetteran, loro
prometti j * Con eguali parale . So di doni, Ti siano liberali,
lor concedi I promessi piacer, ma se gli nìeghi II dono
ricevuto, ancor potrai. La fiamma estinguer deUa vìgil Vesta,
(68) Rapir da’templi dTside gli arredi, E air uom porger T.
aconito mischiato Con la trita cicuta«tll mio desire , Mi
spinge ora a ;fcenarmi, e: tu ritieni. Musa , le brìglie : nè le mosse
rote * Ti dian.terror» Tentino in prima il guado Ov..Arte
d-am. (66) Teseo abbandoni Arianna in Nassa, (67)
Demofe^nte non serbò a Fillide la premesti^ di ritornarsene a lei dentro
due mesi, (68) Con questi versi vuol significare il poeta che
è capace di commettere ogni sceUeratezza quella don~ na , che nega il
favor suo a quegli uomini da* quali ha ricevuto de^ doni, Riputavasi in
fatti da* Romani un enorme delitto il rapire il fuoco custodito
dalle Vestali, o i .sacri arredi del tempio d* Iside; e da ogni
nazione si è creduto sempre colpevole colui che porge alVuQmo /^aconito
con la cicuta , cioè il vet^no. Digitized by Google
122 Xrli scritti fogli, e T inviate cifre Riceva accorta
ancella . Apprendi e vedi Dalle stesse parole che tu leggi,
Se finga, o par se son sinceri i prieghi. Dopo breve dimora ognor
rispondi^ Mentre , se è bre;i^e, è stimolo agli amanti. Deh
non prometti al giovin che ti prega D’ esser docile mai, ma in duri
accenti Non.gli negar ciò che dimanda . Tema E speri a un tempo^ e
ognor che tu il licenzi Sia minore il timor, maggior la speme.
Scrivi culto parole e consuete, Che un famigliare stil più eh’
altro piace. Ah quante volte arse per dólci note II cor di dubbio
amante , e fu nociva Una barbara lingua a bella Donna! Benché
voi siate nell* ònor perdute. Tutte le cure vostre or son
dirette A ingannate i Mariti . Idonea mano D’esperto giovin, di
fidata ancella Rechi le dolci lettere , e tai pegni Non sian fidati
ad un novello amante. Vidi ben spesso impallidir le donno Per tal
timore , e vìvere i lor giorni Miseramente in sehìavitudin dura.
Perfido è quei ohe tali doni serba. Che qual fulmine etnèo
sono in sua mano. Si può tener, se al vero io non m’appongo, Lungi
la frode con la frode ognora; Contro gli armati impugnar 1 ’ armi,
logge Nissuna vieta . A imprimer sulla carta S’accostumi la man
diverse cifre. Ah ! peran quelli contro cui vi deggio
Avvertir di tal cose. In foglio mondo Digitized by Google
123 La risposta si scriva , onde non sembri Da
due mani vergato . Al suo diletto Scriva la donna, .come un uòmo
amante Scrive air amata » ed usi V uom V opposto. Ma da lieve
materia innalzar V alma Ora a me piace a più sublimi cose, E
le vele spiegar gonfie dal vento. Opra è del volto i rabidi
trasporti Saper frenar : candida pace all* nonio Convien come alle
belve ira crudele. Si fan per Tira tumide le guancie; Vengpn
nere le vene, e inocchio splende Più truòemente del gorgòueo ‘fòco.
(69) Vanne lungi da 'metromba importuna^ Disse’Pallade ^ allór che
il volto suo (*^0) Mirò )iel fiume . Se voi iii mezzo all’ ira
Riguardate lo specchio ^ alcuna appena ^ liistinguére pbtm W figura.
' Nè dannosa a Voi supérbr^^ facòià j TurgidJ il voltò ; có^
be^nigiii sguardi Deèsi a^es9ar 1 ’ amóre ‘J Odiahio ( e voi Già 1
fó^cre((efé che. ìie siete esperte) ‘ I fasti inambderatl^e spesso
chiude Deir odio 1 sómi taciturna faccia. / Guard^ ^uel che
ii mira , e ùi olle mente Sorrmi 'a^ueì cjhe rid^ e se à te un
cenno §ia . , nuV . 1 --- ■■ *(65) Gorgoni
étart t^e mostri \^enimente orribili per ìaHesta ^circonddia di serpi , e
per Vocchio spaven^ tegole che ateoanò in: mezzo alla fronte . Chi
fissava occhi in faccia*'alle medesime , rimaneva di sasso, (70)
Pallàde / sécorido^alcuni y gettò via la tromba, perdhè ^s’accorse chè ih
sonarla si faceva troppo gòHf^ la faccia. ‘ ' Digitized
by Google 124 Con tai preludj il favcitilletlo
Amor» Pose i rozzi da parte, e diè di piglio A! dardi acuti
della sua faretra. Vadan lungi da noi le donne meste;
Ajace ami Tecmessa t noi sol puote Tener ne’lacci suoi lemina
allegra. (71) Non fa giammai che a voi porgessi preci, O Andromaca
o Teome^sa , onde a me foste O r una o Valtra amiche. Appéna posso
Creder che in letto maritar giaceste, Quando, a crederlo astretto io son
da^iiglL Fprse ad Ajace la dolente sposa ‘ Avrà detto : mia luce, e
gli altri accenti, Cari agli uomin|^ tanto f £ chi mai Vieta,
Applicar gravi esempli a tenni cose, E di guerrier non paventare il
npmef Cento soldati a questo^ il Duce esperto (72]^ Diè a regger
cop la vite ,|è a quello cento Cavalieri, e lasciò'T altro in custodia
^ Delle l^andiere A; qual vedete impresa Atti noi siamo ; e^nel suo
posto'o^gntipo ^ Venga locato. Un ricco a voi dia doni^ ' Vi sia
propizi o, il Giudice , e ; il facondo ‘ Difenda i dritti vostri .'|loi
poeti , Donp possiam far solo di carmi. 3a più degli
altri amare il coro nostro; (71} Andròniaca dopo ìa rnòrté
^&toré amato sud sposo , r dopo V incendio di-Trofa-fpssssò for i rn
i s uns nm ti alle nozze di Pirro ^ e però vìsse con ^uosto/s^ssai
malinconicà. Teemessa , moglie di Ajace, er^ una schiava y e però,
secondo Ovidio y. doveva aver sempre Vanirne occupato da una grave,
tristezza* (711) Da/ Comandante solevansi affidile^cento sol-
dati al Centurione il quale aveva per sua insegna U 9 ramo di vite.
Digitized by Gopgle 125 Uua grata beltà
cott ampie lodi Sappiamo celebirare , e va fainoso Dì Nemesi per
noi, di Cinzia il nome. (78) E dove nasce, e dove muore il Sole
Conobbero Licori., e chieggon molti Chi sia Corinna nostra. Aggiungi a
questo Che son T insidie ignote a" sacri Vati, Che giova
V arte nostra a^ lor costumi. Kpa ambiziosa voglia, e non desio
D’aver ci punge . Noi sprezziamo il fòro E son graditi a noi V ombra ed
il letto. Facili amiamo ognor con certa fede, £ in vasto
incendio, il nostro core abbrucia. Con placid’arte docile T ingegno
Facciamo , e ben s* adattano co* nostri Studj i postumi. A* Vati aonj, o
donne. Siate indulgènti, che gl^inspira un Nume,. E lor son fauste
le pierie uive. (74) Ci agita un Dio.; abbiam col Cièl commercio;.
Ci vien lo spirto dall* eteree sedi. * Chiedere il pre^o è scelléra^in
grande Ad ottimo Poeta . Oh me infelice. Che scelle raggio
tal piti non si teme Dalle jauciulle • ALmen dissimulate, Nè
vi fate veder tosto rapaci. No , non cadrà nella prevista
rete Un novèllo amatore . Il Cav^aliero (y3) Nemesi fu amata
a celebrata da Tibullo, Cia* zìa da Properzio , tdcori da Gallo , a
Ovidio ha^da^ to ne^ suoi versi alla propria amante il nome, di
Corinna. (74) Le Muse si chiamavano le Dive pierie , 0 per^
chi abitarono nel monte Pierio in Tessaglia , o per-- che vinsero e
trasformarono in gazze le figlie di Pierio. Digitized by
Google ìz6 Non reggerà T indomito cavallo
Al par di quello che già al freno è avvezzo* Nè lo stesso sentier batter
tu dei Per adescar la verde gìoventude, E le menti già
stabili per gli anni* QuelP inesperto, che la prima volta
Sotto si pone all* amorose insegne. Che preda nuova nel tuo letto
giacque. Te sol conobbe, e a te sia unito ognora; Si cìnga d’ alte
siepi una tal messe. Schiva d’aver rìvjaì;ta vincerai, S* ei
r amor suo con altra non divide; 1 regni e amor non vogliono
compagni. Quel che invecchiò nell’ amoroso agone. Con prudenza
amerà, saprà soffrire Ciò che invan soffrirla guerrier novello. Non
frangerà le porte, e non furente Fiamma v’ applicherà. Non dell’
amata Farà con 1’ unghie ingiuria al delicato Volto ; e non
straccerà della Fanciulla Le vesti, e non le proprie ; e per dolore
Non svellerassi i crini • Questi eccessi Convengon solo a’ Giovanetti
acerbi Caldi per poca età, per troppo amore. Tranquillo ei soffrirà
la cruda piaga; Qual face inumidita a foco lento
Abbrucìerassì, o quale in giogo alpestre Fresco ramo reciso : è quest*
amore Più certo , è quel più breve e più fecondo. Con sollecita man
cogliete i pomi Che fuggon. Tutto ormai s* insegni; schiuse Son le
porte al nemico ; e siate fide Mentre ingannate altrui. Facil
Donzella Puote mal conservare un lungo amore. Digitized by
Google I2J Sla la ripulsa rara » e venga sempre
Da lieti scherzi accompagnata • Giaccia Alla porta nrosteso , alto
gridi: Porta crudele ; e molte cose umile Faccia 9 e molt^
altre minaccioso. Il dolce Noi mal soffriam ; ci sana il succo
amaro; Pere spesso la nave » e fausto ha il vento. Ecco perchè non
amansi le mogli; Seco stanno i mariti a grado loro.
Chiudi la porta 9 e in aspro suon TuBciero Gli dica f entrar non
puoi ; escluso, in seno Di lui per te si desterà l’amore. Deh
riponete i rintuzzati brandi; Con gli acuti si pugni, ch^ io con
l’armi Mie già non temo d’ essere assalito. Mentre ne^ lacci un
amator novello Cade, gli fa sperar xhe del tuo letto Solo godrà ;
poscia il rivai conosca E i divisi piacer ; senza quest’ arte Amor
illanguidisce • Il generoso Destrier,se venga dal suo career
schiuso. Corre velocemente , se il preceda Altri nel corso, o se lo
segua . Estinto Ancor che sembri l’amoroso foco Con nuova ingiuria
si riaccende, ed io, Lo deggio confessar, soltanto offeso Nutro r
amor . Non troppo manifesta Sia la causa del duolo ; e ansioso creda
' L’ amante che maggior fia ancor l’offesa Di quello che gli è noto
; ed or l’inciti L’aspra custodia di fallace servo, n geloso rigore
or del marito; E men grato il piacer senza contrasto*
Digitized by Google I2S Èeiichè tu sii di Taide
più. }asciya,(75) Fingi timpri ; e ancor che per la porta Meglio il
possa introdar , fa eh’egli venga Dalla finestra, e nel tuo volto i
segni Mostra di Donna da timor sorpresa» Venga l’ancella
frettolosa, e dica: Ah siam perduti 111 trepido Garzone
Allora ascondi; col timor si debbe Mischiar piacer sicuro, onde
1’apprezzi» Come il marito accorto e il vigli servo Si possano
ingannare i’avea taciuto* Tema una Sposa il suo Consorte^ e
viva Certa che altri la guarda ; è ciò decente; Vuol ciò il padoi:,
la legge, e F equitade. Chi soffrirà che custodita sii Tu , che or
la verga del Prétor redense? (76) Odiose vuoi ingann^kT, miei sacri
carmi» T’ osservio puro occhi miglior di quei (77) Ch’ebbe il
guardiano d’io , sii risoluta, £ tesserai l’inganno • E puote
invero Chi t’ ha in custodia a te vietar che scriva Se non si vieta
a te di gire al bagno? E se potrà, de’tuoi segreti a parte,
(75) Terenzio ha dato il nome di Taide ad una donna lasciva, che forma
la parte principale della sua Commedia intitolata /^Eunuco.
(76) Parla qui il poeta delle donne schiave y che divenivano libere
quando il Pretore aveva toccato al» le medesime il capo con una vèrga
detta yindiqta , e che occupavano nelle case delle Matrone Romane
unposto corrispondente a quello delle nostre Cameriere. C77)
(Giunone diede, cento occhi ad A^go custode d'io, perchè potesse
soddisfare esattamente al suo incarico, ma il Dio Mercurio Pàìsdpì col
suono del* la lira , e gli recise la testa. Digitized by
Google 129 Recar V ancella i foglj
ricoperti Nel caldo seno da una larga fascia^ O nasconderli
avvinti infra le gambe, O sotto i piedi f Se a tè ciò il custode
Vieti , P ancella porgerà le spalle Di carta invece, e porterà su
queste li^amorose tue cifre impresse. Un foglio Con fresco latte
scrìtto inganna 1’ occhio^ Con la polve l’aspergi del carbone, *
£ legger lo potrai • Del paro inganna Lettera pura in cui sia stato
scritto Con la punta del lino inumidito, E le note ‘segrete
incise porta . (jB) Intento Acrisie a custodir la Figlia, (*^ 9 )
In opra pose ogni più esatta cura: Eppur col suo delitto il fece
eli’ avo. E che farà il Custode, se cotanti Sono in Roma
Teatri, e se a suo grado (^8) Non mancano a^dì nostri degli
inchiostri sìrw^ patiei y che superano ne^loro effetti la virtù
degli antichi. Con un^ oncia di Ut or girlo y e cinque d^ace» to
stillato si fa un composto , che chiamasi aceto di Satarno. Con questo si
scrioe sulla carta bianca , e quando è asciutta non si scorgono in alcun
modo i caratteri. Si sparge quindi sopra la carta una picco^ la
porzione d* un liquore fatto con un* oncia d* or pig¬ mento e due once di
calce viva sciolta nell* acqua ; éd allora compariscono i caratteri d*un
coloraperfet’- tamente nero. Il calore e la luce coloriscono
altresì i caratteri scritti con alcune soluzioni metalliche allungate
con Vacqua , cioè con quella dell* oro , dell* argento , e
principalmenie del bismuto. La tintura di galla è pure ì^n inchiostro
simpatico , purché si faccia passar sopra di essa una qualunque marziale
dissoluzione, ( 79 } Annota (a del lÀb. presente.
Digitized by Google i3o Può rimirar le corse de*
destrieri f Quando nel tempio d’Isi assister puote (8c) Al concerto
de* sistri, e p^pte in altri Lochi ella gire » ove l’ingresso poi È
vietato a’ compagni ? Se da’ templi Della Dea Buona può fuggir gli
sguardi (8i) D’ogni uom fuor di quel eh’ ella desia f lyientre il
Custode fuor del bagno serba Gli abbigliamenti della sua Padrona,
Se può mrtivo nel; sicuro bagno Celar 1* Aàotante ? Se ove 1’ uopo
il chiegga Per finto morbo giacerà 1’amica, , O se per vero ,
a lei cederà il letto? . Quando la chiave adultera col suo Medesmo
nome cosa far c’insegna^ Nè sol la porta dà il bramato
ingresso? S’inganna pur con molto vin la cura Di vigile
Custode , ancor che colte Vengan l’uve nell’aspro ispano giogo.
(8a) Vi sono ancora i farmaci che al sonno Aggravan le pupille
quasi vinte Dalla notte letea • Nè mal trattiene La non ignara
ancella l’importuno Con le tarde delìzie, end’ ella possa Star col
suo vago quanto più le piace. Che far tante parole, e cosi lievi .
. ' ■* r ' ' ■ ■ (80) Gli uomini non potevano interpénire nel
Tenu» pio d'Iside , quando le donne celebravano le sue fo» ste col
serbarsi , almeno apparentemente, easte per molti giorni,
(81) Era agli uomini vietato V ingresso nel Tem» pio della Dea
Buona o sia di Cibele. (8fl) Denota il Poeta il vin poco generoso,
che i Romani facevano venire dalia Laleiania in gna provincia di
Spagna* Digitized by Google i3i
Porger precetti , se con picciol dono Si corrompe il Custode ? A me
lo credi. Gli Uomini e i Dei guadagnansi co’doni, £ i doni placan
pur lo stesso Giove. Che farà il saggio , se de’ doni ancora
Gode lo stolto ? Ricevuti i doni, Si farà muto anco il marito
istesso. Per tutto Panno guadagnar si debbo Una volta il
Custode , e quelle mani Che un di vi diede, vi darà sovente.
Feci querela , e l’ho ferma in pensiero Che temer si dovessero i
compagni; Nè diretta soltanto all’ uomo è questa. Se
credula sarai, carpirann’altre 1 tuoi piaceri, e avrai cacciato il
lepre Per esse. Quella, che t’appresta il letto, E che
officiósa a te concede il loco. Giacque più. volte , a me lo credi,
meco. Nè troppo bella sia l’ancella tua; Sovente meco
fe’della padrona Ella le veci. Ah ! dove ora mi lascio Io stolto
trasportar ? Perchè contrasto Col petto inerme contro il mio nemico,
Ed io da me medesmo mi tradiscof Come pigliar si debba al
cacciatore L’auge! non mostra y ed a’ nocivi cani Come inseguirla
non la cerva insegna. L’ utll vostro mi piace : io fedelmente
Vi spiegherò i precetti , ed alle donne (83) Di Lenno io porgerò contro
il mio fato ( 83 ) Lè Donne di Lenno in una notte, uccimo i
loro mariti , e però Ovidio sotto il nome di tende quelle che con gli
uomini sono troppo severe» Digitized by Google
iSà Da me stesso il coltello. Ahi fate in modo ( Ardua non è
V impresa ) che crediamo D’ esser amati , mentre ogutìno crede
Farcii ciò che desia. La donna miri Con infocato sguardo il fido
amante, Tragga dal sen sospir profondo, e chiegga Perchè sì tardi
venne. Aggiunga il pianto, E finga gelosia della rivale, £
gli percota con le mani il volto. Tosto vivrà sicuro, e nel suo
petto Facile nutrirà per te pietade, E dirà fra se stesso :
ah si consuma Questa per me d*amore i e specialmente Se lo specchio
consulta, e colto sia, ^ D’innamorar ei penserà le Dee.
Ma a te chiunque sii, grave disturbo Non arrechin le ingiurie, e
sbigottita Non ti mostrar, della rivale il nome Allor che ascolti,
e facile credenza Non presta aMetti altrui. Ah quanto nuoccia Il
creder facilmente, a te lo dica Quello che adesso narrerò di Proori. ( 84
) Scorre vicino del fiorito Imetto ^ A’ be’ purpurei colli un
sacro fonte. Di cui le sponde ognor fan grate e molli Verdi
cespnglj . Ivi non alta selva (84) Procri figlia d* Eretteo Re
Atene per sos- petto di gelosia si portò segretamente nelle selve e
né* boschi ad osservar Cefalo figlio di Mercurio , sua Sposo , ed ottimo
cacciatore . Mentre egli prendeva ri- .poso in un ombroso colletto , essa
celandosi dietro alle siepi , mosse disgraziatamente le foghe degli
alberi» Credè Cefalo che s* ascondesse fra quelle una fiera y e
però vi scagliò una saetta che gli uccise la lua dì* letta
consorte. Digitized by Google i34
Un l^co forma; gli arboscelli l'erba Ricoprono, e un soave odore
esalano II rosmarin, l’alloro, il negro mirto. Non il tenne citiso,
il colto pino, E il fragil tamarisco ivi già manca^ E
non folto di foglie il busso. Scosse Da dolci aeffiretti « e da
salubre Aura treman le foglie mnltiformi, £ le cime dell^
erbe. Ama la quiete Cefalo. Abbandonati i servi e i cani. Ivi
stanco il Garaon spesso s’adagia; Solea cantar : mobil auretta ,
vieni Onde t’accolga nel mio seno, e allevj Il cocente càlor. Le
intese voci Da un malaccorto far recate intere Alle timide orecchie
della moglie. Tosto che Procri il nome adì dell’aura, Qnal
fosse uua rivale, a terra cadde; Ammutolissi pel dolor ; nel volto
Impallidid^ come le tarde foglie. Se colte sieno dalle viti
l’uve. Sogliono impallidir dal verno offese, O i maturi
cotogni, i di cui rami Piegansi, o le corniole ancor non atte A*
cibi nostri. Tosto che; rinvenne. Straccia dal petto suo le tenui
vesti. Con V unghie impiaga le innocenti guance. Jndugie non
conosce, e qual Baccante Mossa dal J'irso , furibonda vola Per le
pubbliche vie, sparsa i capelli. Ma già vicina, in una valle
lascia I suoi seguaci ; intrepida e furtiva Nel bosco con piè
tacito s’innoltra. QuaPera il tuo consiglio, allor che stolta.
Digitized by Google i34 O Procri,
t’ascondeyi ; e quale ardore NelPattonito séno allor ti corset Già
tu pensavi di sorprender l’aura Qualunque fosse, e di mirar
co’proprj Occhj P infedeltà del tuo Consorte. Quivi d’esser
venuta ora Rincresce; Or la rivale di mirar ti piace, Ed
or ti penti ^ opposti affetti in seno Destan tumulto. A creder la
costringe ( Che quel che tenie ognor crede l’amante ) L’accusatore,
il loco , il nome. Quando SulP erbe vide impresse Torme umane,
Balzolle il cor nel pauroso petto. Già T ombre brevi aVea il meriggio
strette, E in spazio egual giaceva l’Occaso e l’Orto, Allor che di
Mercurio il figlio Cefalo Dalle selve ritorna, e T innainmate
Guance delTacque di quel fonte asperge. O Procri, tu t’ascondi ansiosa ;
ei giace Sull’ erbe consuete, e vieni disse, ZefHro fucile, o
molle curetta vieni. Quando conobbe il dolce error del nome, AlT
infelice il cor tornò nel seno, E il primiero color sul volto
suo. S’alza, movendo il corpo e move ancora Le frondi
circostanti ; e fra le braccia Va per gittarsi del marito • Mosso
Credendo quel rumor da qualche belva, Imprudente la man slancia
sull’arco. Ed ave i dardi già nella sua destra. Infelice che
fai? non è una fiera, rw Deponi ì dardi.... Oimè la tua consorte
Dalle saette tue giace trafitta. Oh me infelice i eéclamà ; in
petto amico Digitized by Google 1*5
Vibri il tuo dardOi o sposo. Ah che fa sempre Da te questo
trafitto! Io pria del tempo La morte trovo « noa offesa almeno Da
un rivale .^h farà ciò la terra, Ov* io riposi, a nae cara e
leggiera. Fra quest’aure ^ che odiai sol per un nome. Già
spazierà il mipspirto.. oh Dio!•• vacillo... Mi chiuda i lumi quella
destra amata. Le membra moribonde egli sostiene Nel mèsto
seno, e la crudel ferita Con le lagrime asperge^ Ella già spira,
E la bocca del misero marito Lo spirto accoglie che dal petto
incauto Deir infelice, Porcri alfine eeala. Ma sul sentier si
torni. lo debbo adesso Agir palesemente , onde il naviglio
Indebolito tocchi i porti suoi. Ch* io ti scorga a conviti aspetti
forse, E ch^ io ti guidi in questo pure attendi ? Non
t’affrettar; vien tardi, e già sia posta La lacerna i e decente i passi
volgi. Grato è a Vener Findugio, e molto giova. Benché bratta
tu sii, sembrerai bella, Che coprirà la notte i tuoi difetti.
.Prendi co’ diti il cibo ; havvi pur Parte Nel modo di cibarsi ;
con l’immonda Mano cerca n on ungerti la faccia; Nò
mangiar prima in casa, ma t’astieni Dal farlo allor che avrai mangiato
meno Di quel che il ventre tuo capè, e tu brami. Paride, se veduto
avesse Elena Cibarsi avidamente, avria per lei Nutrito sdegno , e
detto fra se stesso: Ah fui ben stolto nel rapir costei!
Digitized by Google i36 Meno disdice a
donna il ber , che Bacco £ di Venere il figlio uniti vanno.
Sì beva pur fin che il permetta il capo, E Talma e ì piè siaxi atti
a* loro nfficj , Nè raddoppiati sembrinti gli oggetti. Donna che
giaccia per soverchio vino, £ turpe, e di soffrir merta ogni
assalto. Sparecchiata la mensa, è gran periglio Cadervi per il
sonno; in mezzo a quésto Molte si soglìon far cose impudiche.
Io di stender più innanzi i^niiei precetti Sento rossor. La figlia
dionea Mi disse : utile è a noi quelPòpra ìstessa Che in se desta
vergogna. A voi si sveli. Donne, ogni fatto. I varj atteggiamenti
Noti vi sien , che a tutte non conviene La medesma figura. Tu che
sei Pel volto insigne, giacerai supina» Quella che ha bello
il tergo, il tergo mostri. Recava Melanion sulle sue spalle Le
gambe d’Atalanta ; se sian belle. Si dee imitare allora un tale esempio.
Porti il cavai pìccola donna ; avéa Statura immensa la tebana sposa;
(85) Suirettoreo cavai però non giacque. Quella che può mostrare un
lungo fianco^ Prema con le ginocchia il letto, e alquante Ritorca
la cervice. Chi le membra Ha giovanili, e senza macchie il seno^
Mentre Puomo sta in piedi , ella corcata Giaccia obliqua sul letto. Nè
già turpe Credete scioglier qual Baccante il crine. (OS)
XeSpoifk tsUoa ^ 4fl4rQmcé mQglk Digitized by Google
i37 E ondeggiando i capei, piegate il collo. Tu pure,
a cui la pronuba Lucana ( 86 ) : Macchiò il ventre di rughe , imita il
Parte Quando combatte sul cavai fugace, , Ben mille son di
Venere le foggie,. Ma la piò facil, di minor fatica È quella,
in cui semisupina giace Sul destro fianco, I Tripodi febei,,
O il cornigero Ammon cosa piò vera ( 87 ) Non conteran di quel che
or la mia Musa- Se Parte , che ci costa un lungo studio, Merita fè,
credete^, ancor che i carmi Nostri eccedano forse ogni credens^à»
Venere abbrugi le ' midolle e V ossa Delle donne, e sia caro ad
ambedue Lo scambievol piacer. Un mormorio Dolce, e parole
lunsin^hiere e grate Non manchino, nè tacita si stia In mezzo
ascari scherzi unqua la donna., Tu , cui d’amor negò Natura il
gaudio, Finger lo devi con mendace suono; (86) Lucina è un
nomt di Giunone , la quale pre^ siede a^ matrìmon) ed apparti,
(87) I Greci dopo d^ a^er ointo i Persiani nella battaglia di
Platea, levarono una decima suUe spo^ glie per fare un Tripode d^ oro
eonsagrato ad Apollo, Ateneo lo chiama il Tripode della verità , perchè
si ritrovavano verissimi gli oracoli di questo Dio, Ammone è
un soprannome di Giove, Quinto Cur¬ zio fa menzione del magnifico Tempio
che gli fu edi¬ ficato nella Libia , La sua statua avea la figura
d*a- liete , e però si chiama cornigero Ammone. Dava essa de* certi
oracoli a chi la consultava , ed era a guisa d* un automa, che crollava
la testa per additare a*Sa^ cerdoti la strada, che dovean fare quando la
porta^ vano in processione. Digitized by Google
i 38 Ben infelice e miseranda donna È quella, che a sa
stessa ìnntil tragga^ Inutile pèr Tuomo i giorni suoi. Mentre
e#ò fingerai, che non ti scofira Cerca, é "col moto , fin con gli
occhi stessi Procura d’ingannar. Faccian palese Un frequente
respiro e dolci accenti Quello , che giova. Termini novelli Sa la
donna inventare in quegristanti» Quella, che chiede dopo il gaudio i
doni, Non sia molesta almen con le preghiere. Nè il pieno giorno
introdurrai nel talamo, Chè giova a voi tener del corpo vostro
Molte cose celate. Ha fine il gioco; È tempo ornai di scendere
da’Oigni, Che sul collo guidaro il nostro cocchio; E
come fero i giovanetti un giorno. Così la turba delle donne
scrìva Sulle spoglie ; Nason ci fu maestro. Gianni Carchia.
Keywords: ars amandi, erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775426728/in/dateposted-public/
Grice e Cardano – il valore civico di
Melanippo e Caritone -- the tasteful Milanese machii – prospero -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo. Grice: “I’m sure
Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman notion, not an Arabic one!”
Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but then so is I [sic]!” Grice:
“My faavourite philosophical topic by Cardano is what he calls, well, his
Italian translators call – recall that Italian philosophy is written in the
‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which is what conversation is –
what is conversation is not a game of azzardo? But Cardano also refutes all
that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud – Italians are obsessed
with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli (“sleeping Mars”), not to
mention the search for the Etruscan equivalent to ‘oneiron,’ the god – one of
my most precious souvenirs is a little medal of Cardano: not so much for his
very Roman nose (charming as it is) but for the backside, which represents Oneiron,
indeed, aong the ladies!” Poliedrica figura del Rinascimento. Riconosciuto come
il fondatore della probabilità, coefficiente binomiale e teorema binomial. A
lui si deve anche la parziale invenzione dell’ implicatura e della serratura,
della sospensione cardanicache permette il moto libero, ad esempio, delle
bussole nautiche ed è alla base del funzionamento del giroscopioe della
riscoperta del giunto cardanico. Animos scio esse immortales, modum
nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito come funzioni la cosa.
Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella matematica tanto da essere
consultato da da Vinci su alcuni problemi di geometria. Fazio conobbe a
Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara Micheri (o de Micheriis) di cui
s'innamora iniziando con questa, che vive con la famiglia del defunto marito,
una relazione clandestina che porta al concepimento di un quarto figlio. Per
non essere coinvolto nello scandalo prega un suo amico di Pavia, il patrizio
Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara come governante nella sua casa. Prima
che lei partorisse, i suoi tre figli morirono quasi contemporaneamente di peste
e lei tenta allora di abortire, senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome
di Gerolamo e che lasciò scritto nella sua autobiografia. Dopo che mia madre
tenta senza risultato dei preparati per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come
morto, infatti, sono nato, anzi sono stato strappato al suo grembo, con i
capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse la peste dalla sua balia, che ne
morì, e fu allevato da altre nutrici. E trasferito a Milano dal padre che anda ad
abitare con lui solo quando ha solo sette anni, età in cui prese ad
accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari. Essendo delicato di salute, si
ammala gravemente. Solo dopo una lunga convalescenza poté riprendere a
viaggiare con il padre dedicandosi nel frattempo agli studi di filosofia, nei
quali ha modo di eccedere per le sue doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova
per studiare filosofia, contrariamente ai desideri del padre che avrebbe
preferito avviarlo agli studi giuridici. Lasciata Milano in preda alla
peste e sconvolta dalla guerra francese, si trasfere a Padova e si laurea a
Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori hanno nei confronti di quello
tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora offensive. Sono poco
rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi lascio trascinare dall'ira,
al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco che tra i miei vizi ce
n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non riuscire a
trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta sgradevole
udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente, pur
sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e
morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del
filosofo. Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese
dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate. Ottenne
la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di
Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si
accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette
rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso
nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di
filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo
III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato
d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a
Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle
fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso
per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore
di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di
Francia e della regina di Scozia. Colpito da un doloroso avvenimento
riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli
avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi
costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie
avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e
da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di
uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia
avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa
il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi
messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto
che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per
sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti
con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla
condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che
arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che
espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse
inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di
eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il
pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però
a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo
Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse
che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa
imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per
aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle
stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto
per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo
tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le
testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, Cardano fu messo in
carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione
tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in
forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno
infamante (coram congregationem). Si sottopose docilmente alla abiura
promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente
filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non
pubblicare altre opere. Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la
diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una
pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a
Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua
autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il
concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della
verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in
parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono
nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di
metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina,
scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli,
che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della numerologia,
del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il contenuti
moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato. Vuole
arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così che la
nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere
dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però
all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei
campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a
fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in
un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di
elaborare Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi
delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e
delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia
(attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni
che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli
effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei
"miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni
astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a
Cristo. Il contributo in matematica Noto soprattutto per i suoi
contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e
dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione
dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente
questi sostenne che Cardano aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla
come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. Cardano
sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il
Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del
Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione
Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La
soluzione della equazione cubica è detta comunque di Cardano-Tartaglia. L'equazione
quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di Cardano. Nella
prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei
suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero
complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito
della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva
contestato l'anatomia galenica, spinse Cardano a definire Galeno un cattivo
interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate
come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più
antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre
tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che
soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di
Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca: eliminare
piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla Scozia si
ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale redasse un
oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita seppure turbata
da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra tanto da
interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un
personaggio molto simile a Cardano ed inoltre una prova della sua
perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De
Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo
celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che
Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda
cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta
inoltre svariati meccanismi tra i quali: la serratura a combinazione; la
sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da
snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà
di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di
trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e
viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche
se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate in una illustrazione navale. L'invenzione di
questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di
scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo
descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene
l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica
anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia
varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla
superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse
la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito anche
il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente risalente a
un periodo più antico, chiamato Gli anelli di Cardano. Altre opere: Della sua
vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua
autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi
d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato
contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma –
segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua
reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae”
che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una
sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione
dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De
subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni
empiriche e delle sue speculazioni occultistiche. Della sua produzione
filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:
De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia, 1536 (medicina). Practica
arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis
algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De
immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De
subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De
libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim
geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum
varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De
causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus
numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de
aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta (politica).
Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus
complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero
raccolte e pubblicate a Lione in 10
volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e
un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto "G. Cardano" della sua città natale,
nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto
cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese. La
blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un
approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis
generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di
San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di
terzo grado" Il Rinascimento. Omeopatia
e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della
"Tempesta” somiglia tanto a Cardano
in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il
pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro
della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva
editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò
l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita”
(Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci
Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico
degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e
giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano,
Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume
1 Frontespizio Lettera dedicatoria Praefatio Vita
Cardani per Gabrielem Naudaeum Testimonia Elenchus
generalis Index librorum tomi primi Previlege du roy 1.1De
vita propria Le redazioni del 1544, 1557 e 1562
(Archivio) 1.2De libris propriis (Archivio) 1.3De Socratis studio
(Archivio) 1.4Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut
Cerberi canis (Archivio) 1.5Actio in Thessalicum medicum (Archivio)
1.6Neronis encomium (Archivio) 1.7Podagrae encomium (Archivio) 1.8Mnemosynon (Archivio)
1.9De orthographia (Archivio) 1.10De ludo aleae (Archivio) 1.11De
uno (Archivio) 1.12Hyperchen (Archivio) 1.13Dialectica (Archivio)
1.14Contradictiones logicae (Archivio) 1.15Norma vitae consarcinata, sacra
vocata (Archivio) 1.16Proxeneta (Archivio) 1.17De praeceptis ad
filios (Archivio) 1.18De optimo vitae genere (Archivio) 1.19De
sapientia (Archivio) 1.20De summo bono (Archivio) 1.21De
consolatione (Archivio) 1.22Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani
ipsius patris (Archivio) 1.23Dialogus Antigorgias seu de recta
vivendi ratione (Archivio) 1.24Dialogus Tetim seu de humanis consiliis
(Archivio) 1.25Dialogus Guglielmus seu de morte (Archivio) 1.26De minimis
et propinquis (Archivio) 1.27Hymnus seu canticum ad Deum (Archivio) Indice
rerum Volume 2 Frontespizio Index librorum tomi 2.1De
utilitate ex adversis capienda (Archivio) 2.2De natura (Archivio) 2.3Theonoston
seu de tranquilitate (Archivio) 2.4Theonoston seu de vita producenda (Archivio)
2.5Theonoston seu de animi immortalitate (Archivio) 2.6Theonoston seu de
contemplatione (Archivio) 2.7Theonoston seu hyperboraeorum historia (Archivio)
2.8De immortalitate animorum (Archivio) 2.9De secretis (Archivio)
2.10De gemmis et coloribus (Archivio) 2.11De aqua (Archivio) 2.12De
vitali aqua seu de aethere (Archivio) 2.13De aceti natura (Archivio)
2.14Problemata (Archivio) 2.15Se la qualità può trapassare di subbietto in
subbietto (Archivio) 2.16Discorso del vacuo (Archivio) De
fulgure liber unus Indice rerum Volume
3 Frontespizio Index librorum tomi 3.1De rerum
varietate (Archivio) 3.2De subtilitate (Archivio) 3.3In calumniatorem
librorum de subtilitate (Archivio) Indice rerum Volume
4 Frontespizio Index librorum tomi 4.1 De numerorum
proprietatibus (Archivio) 4.2Practica arithmeticae (Archivio)
4.3Libellus qui dicitur, Computus minor (Archivio) 4.4Ars magna (Archivio)
4.5Ars magna arithmeticae (Archivio) 4.6De aliza
regula (Archivio) 4.7Sermo de plus et minus (Archivio) 4.8Geometriae
encomium (Archivio) 4.9Exaereton mathematicorum (Archivio) 4.10De
proportionibus (Archivio) 4.11Operatione della linea (Archivio)
4.12Della natura de principii et regole musicali (Archivio) Volume
5 Frontespizio Index librorum tomi 5.1De restitutione
temporum et motuum coelestium (Archivio) 5.2De providentia ex anni
constitutione (Archivio) 5.3Aphorismorum astronomicorum segmenta
septem (Archivio) 5.4In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis (Archivio)
5.5De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus (Archivio)
5.6De iudiciis geniturarum (Archivio) 5.7De exemplis centum
geniturarum (Archivio) 5.8Geniturarum exempla (Archivio) 5. De
interrogationibus (Archivio) 5.10De revolutionibus (Archivio) 5.11De
supplemento almanach (Archivio) 5.12Somniorum synesiorum (Archivio)
5.13Astrologiae encomium (Archivio) Volume 6 Frontespizio Index
librorum tomi 6.1 Medicinae encomium (Archivio) 6.2De sanitate
tuenda (Archivio) 6.3Contradicentium medicorum (Archivio) Volume
7 Frontespizio Index librorum tomi 7.1De usu ciborum (Archivio)
7.2De causis, signis ac locis morborum (Archivio) 7.3De
urinis (Archivio) 7.4Ars curandi parva (Archivio) 7.5 De methodo
medendi (Archivio) 7.6De cina radice (Archivio) 7.7De sarza
parilia (Archivio) 7.8Disputationes per epistolas liber
unus (Archivio) 7.9De venenis (Archivio) 7.10In librum Hippocratis de
alimento commentaria (Archivio) Volume 8 Frontespizio Index
librorum tomi 8.1In librum Hippocratis de aere, aquis et locis
commentaria (Archivio) 8.2In septem aphorismorum Hippocratis commentaria (Archivio)
8.3In Hippocratis coi prognostica commentaria (Archivio) Volume
9 Frontespizio Index librorum tomi 9.1In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria (Archivio) 9.2Examen XXII.
aegrorum Hippocratis (Archivio) 9.3Consilia (Archivio) 9.4De
dentibus (Archivio) 9.5De rationali curandi ratione (Archivio) 9.6De
facultatibus medicamentorum (Archivio) 9.7De morbo regio (Archivio)
9.8De morbis articularibus (Archivio) 9.9Floridorum libri sive
commentarii in Principem Hasen (Avicenna) (Archivio) 9.10Vita
Ludovici Ferrarii (Archivio) 9.11Vita Andreae Alciati (Archivio)
Volume 10 Frontespizio Index librorum tomi 10.1De arcanis
aeternitatis (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber
unus (Archivio) 10.3Elementa Graeca (Archivio) 10.4De
inventione (Archivio) 10.5 De naturalibus viribus (Archivio) 10.6 De
musica (Archivio) 10.7Artis arithmeticae tractatus de
integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini (Archivio) 10.9In
libros Hippocratis de victu in acutis commentaria (Archivio) 10.10In
libros epidemiorum Hippocratis commentaria (Archivio) 10.11De
epilepsia (Archivio) 10.12De apoplexia (Archivio) 10.13De
humanis civilibus successionibus (Paralipomena) (Archivio) 10.14De humana
perfectione (Paralipomena) (Archivio) 10.15Peri thaumason seu de
admirandis (Paralipomena) (Archivio) 10.16De dubiis naturalibus (Paralipomena) (Archivio)
10.17De rebus factis raris et artificiis (Paralipomena) (Archivio) 10.18De
humana compositione naturalium (Paralipomena) (Archivio) 10.19De
mirabilibus morbis et symptomatibus (Paralipomena) (Archivio) 10.20De
astrorum et temporum ratione et divisionibus (Paralipomena) (Archivio)
10.21De mathematicis quaesitis (Paralipomena) (Archivio) 10.22Historiae
lapidum, metallicorum et metallorum (Paralipomena) (Archivio)
10.23Historiae animalium (Paralipomena) (Archivio) 10.24Historiae
plantarum (Paralipomena) (Archivio) 10.25De anima
(Paralipomena) (Archivio) 10.26De dubiis ex historiis
(Paralipomena) (Archivio) 10.27De clarorum virorum vita et libris
(Paralipomena) (Archivio) 10.28De hominum antiquorum illustrium iudicio
(Paralipomena) (Archivio) 10.29De usu hominum et dignotione eorum, tum
cura et errore (Paralipomena) (Archivio) 10.30De sapiente
(Paralipomena) (Archivio) Indice rerum. De vita propria. De
libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive
Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis
encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De
uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata,
sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De
sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii
Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione.
Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De
minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis
capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita
producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de
contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate
animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de
aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto
in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In
calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica
arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna
arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium.
Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della
natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum
coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum
segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum
stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis
centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De
revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae
encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De
usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva.
De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per
epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum
Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum
Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum
Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De
facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus.
Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici
Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu
Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De naturalibus viribus. De musica.
Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In
libros Hippocratis de victu in acutis commentaria. In libros epidemiorum
Hippocratis commentaria. De epilepsia. De apoplexia. Paralipomena. De humanis
civilibus successionibus. De humana perfectione. Peri thaumason seu de
admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus factis raris et artificiis. De
humana compositione naturalium. De mirabilibus morbis et symptomatibus. De
astrorum et temporum ratione et divisionibus. De mathematicis quaesitis.
Historiae lapidum, metallicorum et metallorum. Historiae animalium. Historiae
plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De clarorum virorum vita et
libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione
eorum, tum cura et errore. De sapiente. Melanippus and Chariton (6th
century BC) Italy Greek athletes Lovers separator " ... Hieronymus
the peripatetic says that the loves of youths used to be much encouraged, for
this reason, that the vigor of the young and their close agreement in
comradeship have led to the overthrow of many a tyranny. For in the presence of
his favorite a lover would rather endure anything than earn the name of coward;
a thing which was proved in practice by the Sacred Band, established at Thebes
under Epaminondas; as well as by the death of the Pisistratid, which was
brought about by Harmodius and Aristogeiton. "And at Agrigentum in Sicily
the same was shown by the mutual love of Chariton and Melanippus - of whom
Melanippus was the younger beloved, as Heraclides of Pontus tells in his
Treatise on Love. For these two having been accused of plotting against
Phalaris, and being put to torture in order to force them to betray their
accomplices, not only did not tell, but even compelled Phalaris to such pity of
their tortures that he released them with many words of praise.
"Whereupon Apollo, pleased at his conduct, granted to Phalaris a respite from
death; and declared the same to the men who inquired of the Pythian priestess
how they might best attack him. He also gave an oracular saying concerning
Chariton - 'Blessed indeed was Chariton and Melanippus, Pioneers of Godhead,
and of mortals the one most beloved'." M/M: Chariton and Melanippus,
Blessed Pair: Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78 Like the Athenian couple
Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as
symbols of political freedom. Felix & Chariton & Melanippus
erat, mortalium genti auctores coelestis amoris. εὐδαίμων
Χαρίτων καὶ Μελάνιππος ἔφυ, θείας ἁγητῆρες ἐφαμερίοις φιλότατος.
--Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by
Iohannes Schweighaeuser (1805) Chariton & Melanippus were
blessed; Pinnacle of holy love on earth.
ATHENAEUS MAP: Name: Athenaeus Date: 2nd c.
CE Works: Deipnosophists REGION 4
Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast
of Africa; Region 4: Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the
Balkans BIO: Timeline: Athenaeus was a scholar
who lived in Naucratis (modern Egypt) during the reign of the Antonines. His
fifteen volume work, the Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations
they preserve of otherwise lost authors, including the poetry of Sappho.
ROMAN GREEK LITERATURE ARCHAIC: (through 6th c. BCE); GOLDEN AGE:
(5th - 4th c. BCE); HELLENISTIC: (4th c. BCE - 1st c. BCE); ROMAN: (1st c. BCE
- 4th c. CE); POST CONSTANTINOPLE: (4th c. CE - 8th c. CE); BYZANTINE: (post
8th c CE) Kris Masters at 11:51 AM No comments:
Share Saturday, September 25, 2021 M/M: Melanippus and Chariton, Two Lovers of
Freedom Athenaeus, Deip. XIII.78 Like the Athenian couple Harmodius and
Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as symbols of
political freedom. ...ut ait Heraclides Ponticus in libro De Amatoriis.
Hi [Melanippus & Chariton] igitur deprehensi insidias struxisse Phalaridi,
& tormentis subiecti quo coniuratos denunciare cogerentur, non modo non
denuntiarunt, sed etiam Phalarin ipsum ad misericordiam tormentorum
commoverunt, ut plurimum collaudatos dimitteret. ὥς φησιν Ἡρακλείδης
ὁ Ποντικὸς ἐν τῷ περὶ Ἐρωτικῶν, οὗτοι φανέντες ἐπιβουλεύοντες Φαλάριδι καὶ βασανιζόμεναι
ἀναγκαζόμενοί τε λέγειν τοὺς συνειδότας οὐ μόνον οὐ κατεῖπον, ἀλλὰ καὶ τὸν
Φάλαριν αὐτὸν εἰς ἔλεον τῶν βασάνων ἤγαγον, ὡς ἀπολῦσαι αὐτοὺς πολλὰ ἐπαινέσαντα.
--Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by Iohannes
Schweighaeuser (1805) According to The Lovers by Heraclides of Pontus,
[Melanippus and Chariton] were caught plotting against Phalaris. Even when they
were tortured to provide the names of their accomplices, they refused.
Moreover, their plight moved Phalaris’ sympathy to such an extent that he
praised them and released them. ATHENAEUS MAP:
Name: Athenaeus Date: 2nd c. CE Works:
Deipnosophists REGION 4 Region 1: Peninsular Italy;
Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt
and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans
BIO: Timeline: Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis
(modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the
Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of
otherwise lost authors, including the poetry of Sappho. ROMAN
GREEK LITERATURE ARCHAIC: (through 6th c. BCE); GOLDEN AGE: (5th - 4th c.
BCE); HELLENISTIC: (4th c. BCE - 1st c. BCE); ROMAN: (1st c. BCE - 4th c. CE);
POST CONSTANTINOPLE: (4th c. CE - 8th c. CE); BYZANTINE: (post 8th c CE)
KrisArmodio, che viene riparato dal braccio sinistro del compagno più
adulto. Quel gesto inavvertito o solo genericamente descritto dalle letture
critiche, tese più che altro alla considerazione dei principali contenuti
politico-encomiastici del gruppo si fa segno leggibile invece di una categoria
interiore trasversale a tutte le epoche e alle geografie e tanto presente nello
spirito antico quanto nel nostro: l'omoaffettività. Un uomo della fine del VI
secolo a.C., chiamato Aristogitone, che aveva affrontato un rivale, oggi
potrebbe chiamarsi Marco, Francesco o Giovanni, e compiere un medesimo atto,
allungando poi un braccio come uno scudo su altri Armodio, dai nomi di Mario,
Alessandro e Franco, per la reciprocità, l'attaccamento, il calore e il mutuo
soccorso che il sentimento di essere in due sempre realizza. Quel gesto del
braccio, inventato da Nesiotes e Kritios, fissa dentro un modello di valore
civico per la retorica libertaria il segno di un amore. Armodio e
Aristogitone tirannicidi ateniesi Lingua Segui Modifica Armodio e Aristogitone
(in greco antico: Ἁρμόδιος, Harmódios e Ἀριστογείτων, Aristoghéitōn; ... – 514
o 513 a.C.) furono gli ateniesi tirannicidi che nel 513 a.C.o nel 514 a.C.
cercarono di porre termine al potere personale della famiglia di
Pisistrato. Statua di Armodio e Aristogitone, Napoli. Copia romana
di originale greco perduto Sono noti come "i tirannicidi" per
antonomasia, che assassinarono il tiranno di Atene Ipparco, ma vennero a loro
volta uccisi dal fratello di costui, Ippia. AntefattoModifica Pisistrato
riuscì nel 534 a.C., dopo vari tentativi (meno riusciti) negli anni precedenti,
approfittando delle tensioni che laceravano la città di Atene, ad assumere su
di essa un potere personale. Pisistrato fu un tiranno,[1] prese il potere con
la forza, ma, a giudizio unanime degli storici, fra i quali Erodoto, Tucidide e
Aristotele, non ne abusò per modificare le istituzioni di cui la città
disponeva e governò più da cittadino che da tiranno. Quando morì nel 527
a.C.-528 a.C., i suoi figli Ippia e Ipparco gli succedettero. Ippia, il figlio
maggiore, tese a continuare nella politica paterna, mentre Ipparcoebbe un ruolo
minore nella tirannide, ma l'atteggiamento del regime mutò profondamente in
seguito alla fallita cospirazione. I fatti si svolsero nel 514 a.C.-513
a.C., a quattordici anni dalla morte di Pisistrato. Tucidide racconta che a far
scattare la messa in atto della congiura vi furono motivi personali di tipo
sentimentale. Ipparco s'invaghisce del giovane Armodio che, secondo quanto
racconta lo storico Tucidide, "era allora nel fiore della bellezza
giovanile", dal che si deduce che doveva avere 15 anni. Armodio era
l'eromenos(giovane amante) di Aristogitone, descritto da Tucidide come "un
cittadino di mezza età" - probabilmente aveva 35 anni - e appartenente ad
una delle vecchie famiglie aristocratiche. Le relazioni sessuali fra un
uomo più anziano (l'erastès) e un giovane non erano di costume sanzionate ad Atene
ed altre città greche, sebbene tali rapporti non fossero omosessuali nel
moderno senso della parola, ma pederastici. Certe relazioni erano governate da
severe convenzioni, e le azioni di Ipparco per cercare di rubare l'eromenos di
Aristogitone erano un deciso affronto alle regole (Tucidide dice aspramente che
Aristogitone "era il suo amante e lo possedeva"). Armodio
rifiutò Ipparco e raccontò ad Aristogitone cos'era successo. Ipparco,
rifiutato, si vendicò ottenendo che la giovane sorella di Armodio fosse esclusa
dalla cerimonia di offerta alle feste Panateneeaccusandola di non essere
sufficientemente nobile. Questa offesa fu così grande per la famiglia di
Armodio che egli decise di assassinare, con la complicità di Aristogitone, sia
Ippia che Ipparco e rovesciare la tirannia. L'uccisione di
IpparcoModifica Il piano - che doveva essere portato a termine con pugnali
nascosti nelle corone di mirto cerimoniali - coinvolgeva anche un certo numero
di cospiratori, ma vedendo uno di questi salutare amichevolmente Ippia il
giorno fissato, i Tirannicidi pensarono di essere stati traditi ed entrarono
subito in azione, senza rispettare l'ordine che si erano dati. Riuscirono così
ad uccidere Ipparco, pugnalandolo a morte mentre stava organizzando le
processioni delle Panatenee ai piedi dell'Acropoli, ma perirono per mano delle
guardie del tiranno senza scatenare ribellioni. Aristotele, nella
Costituzione degli Ateniesi, tramanda una tradizione che vede la morte di
Aristogitone avere luogo solo dopo una tortura volta alla speranza che questi
indicasse il nome degli altri cospiratori. Durante la sua agonia, personalmente
sovrintesa da Ippia, questi finse benevolenza affinché egli tradisse i suoi
cospiratori, sostenendo che la sola stretta di mano del tiranno sarebbe bastata
per garantirgli la salvezza. Nel ricevere la mano di Ippia si dice che
Aristogitone l'abbia criticato per aver stretto la mano dell'assassino di suo
fratello, al che il tiranno cambiò immediatamente idea e lo uccise sul
posto. Allo stesso modo, una tradizione dice che Aristogitone fosse
innamorato di una etera dal nome di Leaena(leonessa) che era ugualmente tenuta
in tortura da Ippia - in un vano tentativo di costringerla a divulgare i nomi
degli altri cospiratori - finché questa morì. Si diceva che era in suo onore
che le statue ateniesi di Afrodite furono da allora accompagnate da leonesse
[secondo Pausania]. L'assassinio del fratello portò Ippia a stabilire una
dittatura ancora più severa che fu molto impopolare e che venne rovesciata, con
l'aiuto di un esercito proveniente da Sparta, nel 510 a.C. Questi eventi furono
seguiti dalle riforme di Clistene, che stabilì in città la democrazia. La
fama successivaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Gruppo dei Tirannicidi.
La mitologia successiva venne così ad identificare le figure romantiche di
Armodio e Aristogitone come martiri della causa della libertà ateniese, e
divennero noti come i Liberatori (eleutherioi) e Tirannicidi (tyrannophonoi).
Secondo scrittori successivi, ai discendenti di Armodio e Aristogitone furono
concessi privilegi ereditari come la sitesis (il diritto di mangiare a spese
pubbliche al palazzo del governo cittadino), l'ateleia (esenzione da certi
doveri religiosi), e la proedria (posti in prima fila a teatro). Visto che non
si sa se Armodio abbia avuto discendenti (è inverosimile che li abbia avuti
anche Aristogitone), questa potrebbe essere un'invenzione seguente, ma illustra
la loro fama postuma. La storia di Armodio e Aristogitone, e come venne
trattata dai successivi scrittori greci, è dimostrativa dell'attitudine nei
confronti dell'omosessualità al tempo. Sia Tucidide che Erodoto dicono che i
due erano amanti senza commentare il fatto presumendo la familiarità dei loro
lettori con tale pratica sessuale istituzionalizzata senza trovarvi
stranezze. Nel 346 a.C., per esempio, il politico Timarco fu perseguito
(per ragioni politiche) per il fatto che si era prostituito. L'oratore che lo
difendeva, Demostene, citò Armodio e Aristogitone, così come Achille e
Patroclo, come esempi degli effetti benefici delle relazioni omosessuali.
NoteModifica ^ Con la celebre spiegazione di Cornelio Nepote, nel mondo greco
veniva chiamato tiranno chi era signore di una città precedentemente libera
Voci correlateModifica Omosessualità militare nella Grecia antica Omosessualità
nell'Antica Grecia Pederastia greca Tirannide Altri progettiModifica Collabora
a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Armodio
e Aristogitone Collegamenti esterniModifica Aristogitone e Armodio, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su
Wikidata ( EN ) Armodio e Aristogitone, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN , FR ) La
storia di Armodio e Aristogitone. Da: Projet Androphile. Controllo di autorità VIAF ( EN )
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(tiranno) tiranno di Atene, figlio di Pisistrato Leena di Atene etera
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Oeconomia omnium Operum Hieronymi Cardam,
tn decem ‘Tomos dmi forum. Signum t
prifixum , ea denotat , qui modo in Iuccm
prodeunt. TOMVS PRJMVS. Quo
continentur Philologica, Logica, Moralia.
I. '3C^3<ggW I £ Via propria, Libet.
1L Ephemerus, de Libris proprii».
III. SPe|[)K De Libris propriis,
eoruaaquevfu.exeditRovilliji IV. ltMriijs' De
Libris propriis 8c eorum vfu,ex
edit.Henricpetr. V Aeca De Socratis (ludio.
VI- Oratio ad Cardinalem Alciatum,
(ive Tricipitis Geryonis , aut Canis Cerberi.
VII In Theffalum Medicum , Attio fecunda.'
VIII. Encomium Neronis. 1 IX.
Encomium Podagri. - - X. t Mneroofynon. M.S.
XI. t De Orthographia , liber. M. S.
XII. t De Ludo alel.M-S. XV.
Dialettica. XVI. t Contradictiones logici.M.S.
XIII. De Vno. 1 XIV. Hyperchen.
X VII. t Norma viti confarcinata.facra
vocata. M.S. XVIII. Proxeneta, feudePrudentia
ciuili. XIX. De Priceptis ad filios.
XX. t DeOptimovitx genere, M.S. XXL
De Sapientia. XXIL DeSummobono.
XXIII. De Confolatione. X X I V. t Dialogus
Hieton.Cardani, & Facij Cardam patri». M*
XXV. Dialogus Antigorgias ,feuDe retta
vivendi ratione. XXVI. DiaiogusTetim ,feu
De humanis confiltii. XXVII. Dialogus
De morte, feo Guglielmus. XXVIII De
Minimis & propinquis. XX IX. t Hymnus , feu
Canticumad Deum, M.S. rOMVS SECVNDVS.
Quo continentur jj 'Moralia quidam,
€?* Phy fica. I. I Vtilitate ex
adverfis capienda. II. i kmJ De
Natura, Liber. M.S _ _ Digitized by
Google III. t IV. V. t
VI + VII. t VIII. IX.
x. XI. XII. XIII. t
xi, v. t XVI. + XV. t
xvii. ii. iii. i.
t IL III. IV. v.
VI. VII. IX. VIII. XI.
x. XII. I. 11«.
III. IV. D Thconofton
Liber primus ,five de Tranquillitate. M.S,
Dialogus de Vita producenda, feu Thconofton
Liber fecundus^ Thconofton Liber tertius , feu
dc Animi immortalitate. M.S. Thconofton
Liber quartus, feu de Contemplatione. M S.
" Theonofton Libet quintus, feu
Hyperboreorum. M.S. De Immortalitate
animorum. De Secretis , Liber vmcus.
De Gemmis, & coloribus. De Aqua.
Dc Vitali aqua , feu xthere. Dc
Aceti natura. M.S. Problematum
fc&ionesfcptcm. M.S. Difcotfo dcl
Vacua. M.S. Se Ia qualitapuotrapa
liare di fubbietto in fubbietto. M.S.
Dc fulgure. - TO MVS TE R T IV
S. ■ ' • Quo continentur Fhyjica. E
Subtilitate. Aftio prima in Calumniatorem
librorum dc Subtilitate. DcKcrum varietate.
TOMVS QVARTVS. Quo continentur
Arithmetica , Geometrica, Mu fu a. t 1 A E
Numerorum proprietatibus , Liber vnicus. M.S.
Pradtira Arithmetica;. Computus minor.
Artis magnx , fiue de Regulis Algebraicis.
t Liber Artis magnx , five quadraginta
capitulorum , Si quadra- ginta quxftionum.M.S. Dc
Aliza regula. ' t Sermo de plus
fcminus.M.S. t Exxreton mathematicorum. M.S.
Encomium Geometnx. t Operatione della linea
M.S. • De Proportionibus numerorum, motuum,
ponderum, fonorurm t Delia natura deprincipij , e
regolo Muficali. M.S. TOMVS Q^VINIVS.
. ■» * Quo continentur AJlronomica ,
AJlrologica , Onirocritica'. DE Reftitutione
temporum & motuum cacleftium. De
Prouidentia ex anni conftitutionei Aphorifmotum
Aftronomicorum fegmenta feptem. Commemarij in
Ptolcmxum, de Aftrorum judiciis. (
\ Digitized by Goagle r
v. De feptem Erraticarum ftellarum viribus.
I X. De Interrogationibus , libellus. VI.
De ludiciis geniturarum. VII. De
Exemplis cdhtum geniturarum. VIII. Liber
duodecim gen^urarum. X. De Revolutionibus.
' XI. Defupplemento Alraanach. XII.
Somniorum Synefiorum libri. rOMVS S £ X T V
S. ' Medicinalium primus. I. 1
,v Ncomiutn Medicini. IL . t~\i De
Sanitate tuenda. Libri quatuor. III.
Contradicentium Medicorum Ubii duo , olim' impreffi ,
nunc audtiores. IV. t Contradicentium
Medicorum Libri o&opofteriores, nunc pri-
mum in lucem emergentes. M.S. t TOMVS
S E P T I M V S. Medicinalium fecundus. L t T"~\ LVfu
ciborum, Liber. M.S. IL I J De Caufis , (ignis ,
ac locis morborum.' III. t Dc Vrinis,Liber,M.S.
IV. Ars curandi parva. V. De
Methodo medendi, fettiones tres priores.dempta
quarta qu* Confilia quidam continebat , fuo
loco reditu ta. V L De Radice Cina-
VII. De Cy na radice , feu de
Decodis magnis. VIII. De Sarza
parilia. IX. Dc Oxyinelicis vfu in
plcuritide, Epiftola. X. De Venenis , Libri
tres.. X L Com mentarij in librum
Hippoc. de Alimento.' TOMVS OCTAVVS.
Medicinalium tertius. I. Ommentarij
in librum Hippocr. De Aere, aquis, &
locis. II. Commcntarij in Aphorifmos
Hippocratis. III. Conclufiones de Lapidibus
Galeni in explicatione Aphorifmoru. IV.
Apologiaad AndrcamCamutium. V. Commcncarij
in lib. Prognofticorum Hippocratis. TOMVS
NONVS. Medicinalium quartus & poliremus.
I. Ommentarij in lib.Hippocr.deSeptiroeftri
partui II. Examen XXII. agrorum
Hippocr. in Epidem. III. Lonliha
varia partim edita, partimhaidenusanecdota.
Digitized by Google ' IV. Opufcula
Medica lenii ia, (eu de dentibus libri
quatuor' V. f De Dentibus, liber
cjuintus,(eudemorbisarticuIaribus.M.S. VI. t Floridorum
libri , five Comtnent. in Principem Hazen.M.S.
VII. t Vita Ludovici Ferranj , & Alciaci.M.S.- TOMFS
D E C 1 MVS. Quo continemur ■Mtfcellanea ,
ex Fragmentis , & Paralipomenis: ' L
fragmenta. *• - ^ I~”\ E Arcanis
xternitatis , traftatus. M.S. !!• t LJ
Politic*, feu Moralium , Laber vnus.M.Si ili. t
Elemehta lingua: Grscx. M.S. IV. t De
Inventione , traftatus. M.S. V. t De Natu
ralibus viribus , traftatus. M.S. .V I. +
De Mufica , Liber.M.S. VII. f Delntegris, traftatus
Arithmeticus.M.S. VIII. f Expolitio Anatomix
Mundini-M.S. IX. f Commentarij in libros
Hippocr.de Viftu in acutis. M.S. X. t
Commentarij in duos libros priores
Epidem.Hippocr. M.S. XI. t De Epilcplia,
traftatus. M.S.- XII. t De Apoplexia.
M.S. II- iP A R A LlFOMENON Itbri
offodecim.M.S. I- t f | E humanis ciuilibus
fucceffiombus. M.S. II- t X-A De humana
perfeftione. M.S. HI. t n«o' ,feude
Admirandis.M.S. IV. t De dubiis naturalibus
M.S. V. t De rebus faftis raris
,& artificits.M.S. VI. t De humana
compolitione naturalium. M.S' VII. t De
mirabilibus morbis Stfymptomatibus.M.S. VIII. f
Deaftrorum& temporum ratione &diuifionibus.M.S. '
IX. t De mathematicis quxlitis. M.S.
X. «f Hiftorix lapidum, metallicorum,
&metallorum.M.S. XI. t Hiftorix animalium.
M.S. XII. t Hiftorix plantarum. M.S.
XIII. t Deanima-M.S. XIV. t De dubiis
ex hiftoris.M.S, XV. t De clarorum
virorum vita Selibris.M.S. XVI. + De
hominum antiquorum illuftrium judicio.M.S.
XVIIf De vfu hominum, & dignotione
eorum, tum cura Sc errore.M.S.' X V 1 1 1. 1 De
lapiente. M.S. Hieronymus Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo
Cardano. Keywords: masculinity, machio – maschile, Prospero, De signo, De
signis, de Casis, signis, ac locis Morborum, ten volumes of “Opera omnia”
analytic index – he wrote about almost everything – including logic,
dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia, same-sex, he criticised
Galenus for not realizing the distinction that at 14, a puer becomes an
adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity studies – masculinity
Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese males were ‘tasteful’
and underrated compared to Milaenese or Florentine males – he lived all over
the place – he had many tutees, whose names survive – he was possibly paranoid
– Silvestri was his best known tutee –analytic index of “Opera Omnia” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690241000/in/photolist-2mQH692-2mNaHiH-2mNb16r-2mN597t-2mN2qNc-2mPxhsE-2mKFZMJ
Grice e Cardano – il Pietro della Lombardia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Lumellogno).
Filosofo. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called
Harborne, and Petrus Lombardia!” -- Pietro
Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior
di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara,
1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei
dintorni (a Lumellogno esiste una lapide su di una casa che risorda il luogo
della nascita), all'inizio del XII secolo. Ricevette la sua prima formazione
teologica a Bologna, dove acquisì una perfetta conoscenza del Decretum
Gratiani. Dopo il 1136 si recò a Reims e poi a Parigi, dove fino alla sua
elevazione alla sede vescovile di questa città (1159) insegnò teologia. Almeno
una volta in questo periodo, tra il 1145 e il 1153, si recò alla corte
pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione del De fide orthodoxa di
Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per incarico di Eugenio III.
Quasi certamente nel 1147 fu uno dei teologi che nel sinodo parigino presero
posizione contro Gilberto Porretano. Dopo un breve episcopato (1159-1160)
morì il 21 o 22 luglio del 1160 (non del 1164). Il suo epitaffio si conservò
nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione francese. Dante lo nomina in
Paradiso, X, 106-108. Oltre ai commenti all'opera di Paolo di Tarso
e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber Sententiarum (Libro delle
Sentenze), scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la quale ottenne l'appellativo
di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri in un genere letterario
tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione delle sentenze delle
autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti biblici) l'opera del
Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità, diverrà il testo di
riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e l'elaborazione
letteraria nello stesso campo fino alla fine del XVI secolo. Egli infatti
attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi che normalmente
non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide ortodoxa di
Giovanni Damasceno. Con la sua opera il Lombardo tenta di sistematizzare
e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità delle auctoritates
aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio ermeneutico e dottrinale.
Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra signa e res, Lombardo
afferma che il motivo delle divergenze non appartiene alla natura delle cose
trattate, bensì alla metodologia esegetica. Il testo si divide in quattro
parti: la prima tratta di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la
seconda delle creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato
originale; la terza dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia;
la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione
tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda
l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano
mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o
stile letterario col quale egli opera una volontaria mimesi. Il testo
venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo
cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus
homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana
(accessoriamente). Ciò contrastava con la determinazione di origine boeziana
per la quale la natura cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di
divino ed umano. Note Per
approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico
de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo
volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia I, II, III, quarta edizione, Torino, Pomba,
1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed
ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998) Nicola Abbagnano, Storia della
filosofia, II, pag. 37 e seg. Novara, Istituto
Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I
contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della
filosofia I, II, III, quarta edizione,
Torino, Pomba, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione
aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998) Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden,
Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico
internazionale: Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano di
studi sull'alto Medioevo, 2007.
Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di
"Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia)
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Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Pietro Lombardo, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Francesco Siri, Pietro Lombardo, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Pietro Lombardo / Pietro Lombardo
(altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra
versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione)
/ Pietro Lombardo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere
di Pietro Lombardo,. su Pietro
Lombardo, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Pietro Lombardo, in
Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
Sofia Vanni Rovighi, Pietro Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1970. Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne
Patrologia Latina con indici analitici.Hugh Chisholm, Peter Lombard, in
Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press. Illustrare 'k
iSlosofia di Pier Lomb'airdo finora casi tra- scurata -dagli' storici
della filosofia è im lavoro del tutto nuovo spedialmente per
lltalia. Il Protois (1) affe!rim»a decisamente che Pier
Lomb'airdo non fu un filosofo, THaureau (2) ch'egli fu il principe
degli indifferenti in materia fìTosoflca, ma entrambe le asserzioni
sono affrettate. Solo in Germania il Lombardo venne studiato con
mag- gior serietà e con particolare attenzione!. Nel 1897 Giulio
Kógel (3) pubblicò a Lipsia una monognalia su Pier Lom- bardo : questa
però parve confusa ed inesatta al dr. loh. Nep. Espenberger (4) che nel
1901 intraprese un studio a- curatissimo della Filosofia di Pier Lombardo
e della po- sizione sua nel secolo decimosecondo, nel terzo volume,
parte quinta, dei Beitràge zur Geschichte der Philosophie des
Mittelalter8 diretti da G. BàumJcer e G. Freih. Von Herttìng. Di tale
pubblicazione mi servii in special modo (1) Op. cit. pag.
41: Ifotre auteur ne fui donc pas un phUosophe. (2) De la
philosophie scolastique — Paris, 1850, Voi. I^pag. 330: Cesi lui qua
notes reconnaissons corame le chef des indiffèrents en ma- tière de
philosophie. (3) Petrus Lombardus in s. SteUung z. - Phil. d.
Mittelal - Lei- pzig 1897. (4) Die philosophie des Petrus
Lombardus und ihre Stellung im vwblften Jahrhundert. Aschendorffschen
Milnster 190X, 72 per questi miei «appunti sulla
filosofìa del Lombardo seb- bene mi «pervenisse al momento di stenderli e
troppo lardi per farne Fesaane minuto che essa si merita. Poiché è
ve- ramente questo il primo lavoro che si occupa con severa e
profonda indagine oritioa del pensie<ro filosofico del Mae- stro delle
Sentenze. L'autore dimostra una profonda co- noscenza delle opere
patristiche e delle scritture sacre colle quali esercita opportuni
raffronti. Egli non si è poi solo limitato all'esame del Libro delle
Sentenze, ma ha giustamente esteso le sue indagini alle altre opere
meno conosciute del Lombardo e pure ricche di impvortanti di-
gressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei Salmi detto
anche Salterio, ed i Commentarli alle Epi- stole di S. Paolo. Solo non ha
tenuto conto dei Sermoni che sottio tra le cose più interessanti se non
più belle del Sentenz.iario, «pur nel severo giudizio di Hanreau e
Bour- gain (1), di cui il Protois ha tratto dai mss. degli utili
estratti mentre se ne trova l'intero testo con poche varianti nelle Opere
Omnia del vescovo Ildeberto-. Essi sono utili per completare la figura
intellettuale di Pier Lombardo. Del quale a questo punto ripeleremo
le parole: sed terrei immensitas laboris. In verità quantunque
grande sia la nostra buona volontà non ci dissimuliamo la vastità
del lavoro intrapreso : onde lo restringeremo entro i limiti a noi
concessi, raffigurandoci un poco a quello spigolatore che move fidente
sulle orme dei più abili mietitori pago di fare un piccolo fascio delle
spighe dimenticate. (1) HAUREàU — Not. et Extr. t. Ili p.
49. BouBGAiN — La chaire firancaisc au XII siede Paris, 1789 p. 46,
47 - cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol, L 81). 78
CAPITOLO I. POSIZIONE DI PIER LOMBARDO NELLA
FILOSOFIA J^^todo. I Padri della Chiesa
iniziarono la tìiosofia oristiana, ma in forma espositiva, avendo
ripugnanza a sottopome ^ troppo minute dimostrazioni le verità rivelale.
Era secon- do il pensiero di S. Gregorio una profanazione
Fassogget- tare il Verbo divino alle regole di Donato. Ma quando
nel secolo XII, prima chei si diffondessero per tutta Europa le
traduzioni arabe di Aristotile, si attese a studiare con a- more i libri
delYOrganum tradotti da Boezio (1), si ac- cese quella tendenza già
iniziata nei secoli aotecedeiiti a fortificare il dogma' col sillogismo e
l'autorità della ragione. Da questo connubio della teologia colla
dialettica ari- stotelica nacque la scolastica la quale se ha i suoi
precursoiri nei primi secoli del cristianesimo non riconosce i suoi
veri fondatori che nel secolo di Abelardo e di Pier Lombardo. Essa
nasceva per una necessità di rendere più conformei la fede al sapere più
progredito. E se da una parte non ces- sava di fiorire la .scuola dei
mistici con S. Bernardo e gli (1) Ai tempi di Abelardo e di
Pier Lombardo non si possedeva altro d'Aristotile che la logica, cioè ciò
che si chiama l'Organum e comprendeva: le Categorie coll'introduzione di
Porfirio, l'Ermeneu- tica, gli Analitici, i Topici, la Sofistica nella
traduzione di Boezio, (Cousm — Fragments philosophiques Paris, 1847 II,
57) •• 74 abati Ugo e
Riccardo di S. Vittore (1), da un'altra il mal compresso bisogno di
libertà di pensiero apriva la via ad interminabili dispute quali
giungevano talvolta ad intacca- re il dogma, come accadde per Abelardo.
Pier Lombardo apparve come moderatore tra le due opposte tendenze:
la mistica e la speculativa, e valendosi dello stesso metodo
dialettico usato dagli avversarti eerli si propose di dimo- strare come
le apparenti contraddizioni che si rileivano nelle Scritture sacre e
patristiche rischi'arate dalla ra- gione riconducono a rinvigorire maggiormente
te verità della fede. Egli però nel Prologo delle Sentenze si
scaglia contro coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la
ra- gion sommettono al talento, tradurrebbe Dante, e vogliono fare
credere per verità, i sogni di lor mente inferma : « Qui non
irationi voluntatem subiiciunt, nec dodri- nae studium impendunt, sed his
quae somniarunt sa- pientiae verba coaptare nituntiu", non veri sed
placiti etiam sectantes... ». Pier Lombardo era dunque tenuto
dallo stesso compito che egli si era pronosto, cioè di dimostrare cHte
nelle scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni ra-
gionamento umano si riduce in ultima analisi a dimo- strarne la veracità
assoluta, a non imporra egli stesso nuove e diverse dottrine le auala lo
avrebbero condotto fuori della sua seo-ena imparzialità. Se ciò si possa
chia- mare indifferentismo io non so, poiché il Maestro dèlie
Sentenze non sdegna di entrare e di approfondirsi nelle più minute
distinzioni e controversite fìlosiofìche, cosi care ai suoi tempi,
sforzandosi con nassione di ricavarne le verità da lui srià piresupposte.
Nella sua umiltà che diventò poi lefir-srendaria esrli pr*eferisce
lasciar la parola affli altri, a S. Gerolamo, a S. Ambrogio, e specialmente
a S. Ago- stino che è il stio autore preferito come quello che
suipera tutti srli altri padri per profondità di vedute e co-pia di
ar- gomenti nelle questioni fondamentali del dogma. Ma non è vero
che il Maestro rimanga empire nascosto e non ap- (2) Questi
ultimi conobbero oltre Aristotile anche Platone a cui sembrano dare la
preferenza e non furono del tutto stranieri alle vedute dei neoplatonici.
Vedi R. Bòbba La dottrina dell* intelletto in Aristotile e nei 8140Ì pie
illustri commentatori pag. 235 sgg. 75 paia di
tratto in tratto a mostrarci la via da seguire, per non perderci nel
djedalo inestricabile delle questioni. JJei «resto i più che hanno
parlato di Pier Lombardo si sono aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze:
non hanno letto i suoi lunghi e «lucidi Commentarii alle Epistole
di S. Paolo, e neppure quelli ai Salmi che egli riunì sotto il titolo
sintetico di Pscdterium, nom^ i sjuoì ispirati Sermoni che si trovano
manoscritti alla Biblioteca Nazionale di Parigi, e stampati tra quelli
del vescovo Ildeberlo. In tutte queste opere il Lombairao non è solo un
puro e disadorno espositore di dottrine. Certamente il Maestro va
conside- rato precipuamente mei suo libro delle Sentenze, il quale
lormò testo nelle scuole e fu letto e commentato più della Bibbia per
lunghi secoli, mentre le altre opere vennero più presto dimenticate. Ma
anche qui se egli non espose dot- trine nuove, ebbe però il merito grande
e riconosciuto da tutti gli storici della filosofia di distribuirle con
metodo razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle altre.
Metodo già sperimentato con altro intento da Abelardo, ma dal Nostro
condotto a singolare perfezione (1). Egli slesso suH'autorità di
Sant'Agostino, espone Tor- dine col quale si deve disputare in materia
teologica e sper cialmente della Trinità che è il punto fondamentale
della dottrina dogmatica (Sent. I, 1, 2, 3,): (2). «
Gaeterum, ut in primo libro de Trinitate Augustinus docet, primo secundum
auctoritates Sanctarum Scriptura- nim utrum fides ita ee habeat
demonstrandum est. Deinde adversus gamilos ratiocinatores elaliores magis
quam capaciores, rationibus catholicis et similitudinibus congniis
ad defensdonem et assertioneim fidei utendum est; ut eorum inquisitionibus
satisf<icientes, mansuetos plenius instrua- mus et illi si nequiverunt
invenire quod quaerunt, de suis menlibus polius quam de ipsa veritate vel
de nostra as- sertione conquerantur ». (1) Il Deniflb
in Carivi, Univer. Paris IntrodttcHo p. XXVII Methodus Abaelardi in IHo
etiam opere quod in schoh's Theologiae per aliquot saecula adhibebatur
usurpata est, dicimus Sententias Magistri P. Lombardi. (2)
Per queste come per le altre numerose citazioni delle opere di Pier
Lombardo ci serviamo dei volumi 191-192 della Patrologia del Migne Petri
Lombardi Opera Omnia^ Paris 1854-55. 76 Fu in
apecia»! modo ai metodo da mi usato che si deve J'eaiorme diffusione del
libro delle Sentenze nelle scuole (1). Esso nel mentre veniva a
soddisfare la naturiate curiosità del conoscere ed a dare la spiegazione
di molte credenze poneva dei limiti alla libertà del raziocinio. Ma
veniva sempre lasciato un cantuccio alle discussioni inter- mmabili sulle
questioni minori, dalla risoluzione deUe quali in un senso o in un altro
poco aveva a soffrirne l'or- todossia. yui si esercitavano le
intelligenze, inquisitionibus satisfacientes, smaniose di sottilizzare e
di sillogizzare, con tanta maggior sicurezza, quanto minore era il
pericolo di intaccare la fede (2). Lo stesso Pier Lombardo nel suo
Libro non si trattiene dal diffondersi nell'esame di queh stioni che a
noi sembrano del tutto .futili e vane come queUe ad esempio che
riguardano la natura degli angeli (3. E non è raro anche il caso che le lasci
insolute. Cosi nel libro primo, laddove domanda perchè mentre amare è
lo stesso che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo non sono
in essenza costituiti deiramore col quale si amaaio scambievolmente,
confessa miodestamente che la questione gli sembra troppo difficile e che
egli si propone più di ri- portare le dottrine» dei Padri che di
accrescerle: (seait. 1. dist. XXXI1,9) « Diffìcile mihi fateor hanc
quaesti onem, praecipue cum ex praedictis oriatur quaei siniilem
videntur habere rationem'; quod meaei intelligentiae attendens
infir- mitas turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre
(1) Il De Vulf — Hist, de la phil. medievale {Louvain 1900)
come il Dknefle (loc. cit.) da un troppo reciso apprezzamento: (pag. 209)
Ces sinthèses thèologiquea, dont la premiere idee semble appartenir à
Abelardo ètaient appellées a un succès immense. Il faut en cher- cher le
secret dans le besoins de la classification et d' orgànisation qu^on
eprouvait devant la masse des materiaux rassemblès,b]en plus que dans T
originante de ceux qui ont appose leur signature a ce travail de mise en
oeuvre. (2) Cosicché il libro fatto per conciliare ogni
controversia sembrò sortire l'effetto contrario. Erasmits in Mattaei I,
iP (cit. daFabricius, Bib. m. aevi) e Siquidem apparet illum hoc egisse
ut semel coUectis quae ad rem pertinpbant, questiones omnes excluderet.
Sed ea res in diversum exiit. Videmus enim ex eo opere nunquam
fìnìendarum quaestionum non exanima sed maria prorupisse. (3)
Flettrt — Hist eccl. Paris, 1119 Tom. XII Liv. LXX Gap. XXXV.
ri quam uff erre >k E limsce col coaicmiDa^e : «
Eam tameu quaestionjeon leolorum ddligentiae plenius dijudicandam
at- que absolvendam ireiiinquimus ad hoc minus sufficientes ».
Perciò l'opera del Sentenziario ha un intento assai modesto, né
presume di sciogliere ogni dubbio e di di- rimere ogni questione. Qui il
Maestro risentei della scuola di Abelardo il quale (nel trattato Sic et
non riconosceva ai pastori il diritto di emendare le opere dei dottori
della Chaesa. (Migne 178 p. 1346 D.) « Hoc et ipsi
eccleisiastici dactores attendentes et nonnulla in suis operibus
corri- genda esse credentes posteris suis emendaindi vel non se-
quendi licentiam concesserunt ». E il nostro Lombardo così dice di
sé : (Sent. in prol.) « In hoc aulem tractatu, non solum pium
leolorem, sed etiam correctionem desidero, maxime ubi prolunda versatur
veritatis quaestio, quae utinam tot haberet inventores quot habet
contradictores ! » Il libro delle Sentenze doveva così riuscire
«più accetto giacché il giogo del dogma era imposto alla libera
rifles- sione del pensiero con assai più illuminata larghezza che
non fosse abitudine del passato. Tanto che parve a più d'uno dei suoi
contemporanei la sua dottrina pericolosa e Giovanni di Goimovaglia potè
chiamarlo uno dei quattro labirinti della teologia ponendolo allo stesso
livello di Gi- jDerto Porretano, Pietro di Podtiers, Abelardo.
Scopo di Pier Lombardo era di fare un trattato che risparmiasse al
lettore tempo e fatica, Fu per rispetto ai suoi tempi un volgarizzatore
della scienza teologica di- spersa ne^ libri canonici e negli scritti
malagevoli dei Padri e incompiutamente contenuta nei libri di Abelardo,
PuUeyn, Ugo di S. Vittore. Egli compilò una specie di Enciclopedia
teologica ove il lettore avesse a trovare senza sforzo tutto quanto gli
facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo : « JNon igitur debet
hic labor cuiquam pigro vel multum docto videri superfluus, cum multis
impigris multisque indoctìs, inter quos etiam et mihi, sàt necessarius:
brevi volumine complicans Patrum sentias, appositis eonim te-
stimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numero- sitatem evolvere,
cui brevitas quod quaeiritur oBert sine labore». E cosi nel
distribuire la materia egli seguì un nuovo ordine sistematico e compiuto
non seguito né da Ugo di S, 78 Vittore, né da
Roberto PuUeyn, né da Abelardo {Am quali pure trasse assai dalle sue
doltrine) e pose a ciascun ca- pitolo un titolo per facilitare le ricerche.
(Sani, in prol.) Ut autem quod quaeritur facilius oc- currat,
titulos quibus singnlarum capitula dislingumitur praemisimus.
Relijiiooe e scieoza. Giovanni Scoto Erigena
afferma che la teologia e la filosofia sono una sola e una medesima scienza
(1). Ma giustamente si poa&ono fare a questo punto delle
riserve perché la scuola e la chiesa si accodano nel dire che
l'ordine della ifede non é Tordine della jnagione e che sia pei filosofi
come per i teologi vi sono dei limita al proprio dominio. Con lutto ciò
la ragione e la fede non riusdroTio mai a vivere completamente separate.
Ed a torto credano alcuni che si cominciò propriamente dalla scolastica a
coffiy ciliare colla scienza la religione. Anche ai primi Padri
della Chiesa piacque di giovarsi di entrambe e Clemente Dragone, S.
Agostino, sono nello stesso tempo filosofi e teologi. L'opposizione alla
filosofìa come indegna di essere applicata ai veri divini, non fu più
propria e peculiare dell'età patristica che della scolastica, le quali
non sono già in opposizione, ma Funa é naturale svolgimento del-
l'altra. Questo sforzo di comporre il dissidio ira Taulo- rità e la
speculazione filosofica si continuò per tutta i se^ coli fino al nostro
Rosmini che parlando dell età dei Padri e dei Dottotti scriveva :
« L'uomo allora sentiva altamente che la teologia non era divisa da
luii, e che, sebbene ella travalicasse, per l'origine e la sostanza, i
limiti della natura, passava dal ragionevole al rivelato, quasi
ascendendo da un palco in* (1) De praedestinatione (Collection de
Mangin 1. 1 p. 103^, Coni- icitur inde veram esse philosophiam veram
religionem, conversim- que veram religionem esse veram philosophiam, cit.
in Coasin Cours de la phU, I p. 344. 79
feriare ad un altro superiore dello slesso palagio delia mente, con
un solo disegno da Dio fabbricatogli. La teologia cristiana in
quell'età era senza contrasto la conduttrice e la custode di tutte le
altre scienze, la si- gnora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato
che sa- rebbe venuto un altro tempo in cui alcuni pensassero do-
versd la teologia dividere interamente dalla filosofia? » ( 1).
Vediamo ora in quale rapporto si tirovassero le verità teosofiche
colle verità filosofiche nel pensiero di Pier bombardo. 11
Maestro si attiene in massima alle parole di S. A- gostino (sup. Joan
27). <( Credimus ut cognoscamus, non cognoscimus ut credamus». E nella
distinzione XXII del libro terzo, là dove esaminia si Christus in morte
fuit homo e risponde che benché Pietro morì come uomo, tuttavia era
in morte Dio ed uomo, non mortale e non immortale, e tuttavia vero uomo,
dice a coloro che vogliooio troppo sotìsticare sulla ragione di ciò : «
Illae enim et Jiujusmodi argutiae in creaturis locum habent sed fidei
sacramentum a philosophicis est liber. linde Ambrosius (De. fide I.
13, 84): Aufer argiimenta, ubi fides guaeritur. In ipsis gym-
nasìis suis dam dialectica taceat, piscatoribus creditur, non
diaileoticis ». Ma questa fede da pescatori però, il Lombardo
ag- giuge più oltre, non è cosa a noi lutto affatto estranea,
peirchè essa non può essere di ciò che l'animo ignora. E qui egli sente
rinllusso del misticismo del suo- protettore. S. Bernardo e dei Vittorini
che primi lo accolsero a Parigi. (Sent. Ili dist. XXIV, 3) « Cum
fides sit ex auditu non modo exteriori sed etiam interiori, non potest
esse de eo quod animo ignoratur ». Ancora è necessario fare
con S. Agostino una distin- lone: alcune cose non sono intese se prima
non si cre- dono, ma è pure vero che alcune cose non si possono
cre- deiPe se prima non sono intese (come la fede in Dio che
(1) Opere edite ed inedite di A. Rosmini Voi, I Introd. alla Filo-
sofia Casale Tip. Casuccio p« 48 sgg. Per maggiori notizie sul tei- smo degli
scolastici vedi : P. D'Ercole — Il teismo filosofico cri- stiano Parte I.
(Torino 1884) pag. 357 sgg. — Pbantl - Geschicte d. Logik Voi. II p. 110
sgg. 80 viene dalla predicazione) e queste pai
per la fede si m- tendono di più. Uoc. cil.) Ex his
apparet... quaedam intelligi ali- quando, etiam antequam credanlur... al
nunc eliam per tldem... ampiius intelligìintur... linde colligdtur...
quae- dam non credi nisi prius intelligantur et ipsa per fidem
ampiius inleJlegi. Quanto poi alle cose che mima sono credute
che comprese esse non sd ignorano ael lutto perchè anche si
amano. (Seni. Ili d. XIII, 3) « Nec ea quae prius
creduntur... penitus ignorantur tamen ex parte, quia non sciumtur.
Greditur ergo quod ignoratur non penitus sdcut etiam ama tur, quod
ignoratur ». Pensiero ripetuto in S. Tommaso ed in Dante.
In conclusione Pier Lombardo si libra Ira un misti- cismo ed un
razionalismo temperato non sfuggendo alla contraddizione, ma affronlaaidola.
Il suo concetto è quello che informa in gran parte la filosofìa
cristiana. La fede non distrugge la ragione ma al contrario le da ali
più potenli per sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna
mtendere le parole di S. Agostino: Intellectum ualde cana, e quelle di S.
Anselmo: Fides quaerens intellectum. 81
CAPITOLO II. PROBLEMA METAFISICO E CONOSCITIVO
Principia rerum inquirenda sunt prius ut earum notitia
plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea), Teoria
debili Uoivrrsali< Delle arti e delle scienza del trivio
e del quadrivio, secondo la celebre classificazione data da Marciano
Ca,- pella e riprodoUa da Cassiodoro e da Isidoro di Sivi- glia
(1), la dialettica ovverosia la logica che da principio parve una scienza
preparatoria avente per ogge'tio più !e parole che le cose, acquistò
nelle scuole medioevali un tale sviluppo che fini col proporsà i più alti
problemi me- tafisici e diventare la prima delle scienze. Tra questi
pro- blemi, il più importante, anzi il fondamentale che sembra
raggruppare sotto di sé tutti gli altri, ed agitò potente- mente l'età di
cui parliamo, è il problema degir universali, quale la filosofia si è
posto innanzi in tutti i tempi. 11 Protois (2) scrive che la
questione degli universali ebbe a suo autore Roiscelino : ma ciò è per lo
meno detto male. Già Aristotele si era posto innanzi il problema
nelle Categorie ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione
della Isagoge di Porfirio tradotta da Boezio, esso è pure
(1) Haurbaux — De la philosophie scoi. Paris 1850 V. I. p. 21. .
(2) Op. cit. e]iuiK:iato, ma non risolto, parendo esso
al commeintatore di Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le
parole Ui Porlirio: M Cosi tralascierò di dire se i generi é
le specie sus- sistono o sono soltanto e puramente nei pensieii, se
come bUSbisleaiti sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppu-
re entro le cose seìusibili e con esse coeistenti : essendo trop- po
grave una tale impresa e rictiiedendo maggiori ri- cerctxe ».
Porlirio divise cosi il problema nelle sue tre questioni
fondamentali e iu in tal modo che esso fu segnalato ai primi
scolastici. I generi e le specie sussistono per sé o consistono
sem- plicemente in puri pensieri ? Come sussistenti sono essi
corporei od mcorporei ? Ed infine sono essi separati dagli oggetti
sensibili o sono contenuti negli oggetti stessi for- mando con essi
qualche cosa di coesistente? A ragione Porfirio reputava queste
questioni di som- ma difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è
con- dotti nell'alto mare della speculazione, ed ognuna di esse
sembra pod risolversi nelle suprema questione della quaile tutte
dipendono : Che cosa è Tessere ? JNuUa di più naturale che gli
scolastici inoltrandosi a disputare di un tale argomento con molto ardire
ed acu- tezza d mgegno, ma non con pari preparazione filosofica
sollevassero infinite e tempestose discussioni che molto spesso non
approdavano ad alcun risxiltato. Tre furono le scuole principaU che
si avviarono ad una diversa soluzione del problema: quella dei
realisti, dei nominalisti, dei concettualisti. 11 nome di
realisti fu dato nel secolo XII a coloro che affermavano che i geiìeri e
le specie, gli universali insom- ma sono una realtà sostanziale, una vera
entità distinta dalie altre; nominalisti furono detti coloro che
negavano la realtà di questi universali, e li ritenevano come sem-
plici concezioni astratte del soggetto ricondotte ad una idea comime per
mezzo della comparazione; ma poiché questa conclusione, dovendo ammettere
che tutto ciò che v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di
si- gnificato, flatus vocis, portava alla negazione di ogni
scienza, sorsero i concettualisti i quali aggiungevano che un tale suono,
im tal nome rappresenta un pensiero, uq concetto il quale proviene dalla
somiglianza visibile delle cose diverse : il che non è sostanziale ma è
percepito dalla intelligenza umana come inerente alle nature
individual- mente deiterminate. Dopo ehe Giovanni Scoto aveva
portato agli estremi il inealismo, venne Roscelino che parve dirigere la
dottrina del nominalismo contro la stessa teologia dogmatica sol-
levando un grave scalpore nelle scuole. Poiché se nulla esiste che
«non sia individuale il dog- ma della divinità una in tre pers;one veniva
dalla ra^one 5icalzato nelle sue basi. Era bensì un errore l'uso stesso
di armi dialettiche prò e contro i misteri della fede, perchè
l'ordine della fede non è cruello della ragione, ma d'altra ip-arte era
un errore rimìediabile. Ed a difesa della realtà u- nivereale si levò S.
Anselmo prima abate di Bec in Nor- mandia poi arcivescovo di Cantorberv e
nella prima meta deJ secolo deoimosecondo Guglielmo di Chamoeaux, il
fiero avversario di Abelardo. E fu quella del primo propria- meoite
un realismo mistico, quello del secondo un realismo scientifico.
Abelardo poi fu il capo riconosciuto, a volte vincitore, a volle
vinto, del concettualismo, col anale si possono tro- vare molti riscontri
nella filosofìa moderna. Quale doveva essere l'opinione dei Dottori
della Chiesa in tanto contrasto di idee? Evidentemente nessuna
delle suesposte- se e quando lo notevano. I realisti con- fondevano le
cose con la generalità delle idee, i concet- tualisti negavano il reale
fondamento delle idee universali, 'i nominalisti le idee stesse: i
dottori non potevano ap- partenere a nessuna di queste dottrine
pericolose. Essi do- vevano essere tratti a trovare un criterio
conciliativo, né ciò era diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E quale
era questo criterio? La specie non è solamente un con- cetto, essa è
altresì una cosa, non una cosa in sé, a parte degli oggetti sensibili, ma
nna cosa facente parte con essi, formante con essi qualche cosa di
coesistente. Tale a un dipresso la posizione dei dottori tra
le scuole che dividevano i logici disputanti dell'evo medio,
corrispondenti sotto altro nome alla scuola dell'idealismo critico ed
alla scuola deiridealismo trascendentale. Tra questi dottori
concilianti che l'Haureau non pro- priamente chiama indifferenti si trova
il nostro Maestro delle sentenze : il quale pero non si occupa
espressamente della questione, ma solo ne tratta per incidenza^
ragio- nando della Trinità nel 1. libro delle Sentenze. Per lui
81 l'universale non è come per Guglielmo di Champeaux
un solo essere dappertutto identico (1) e però difficile a com-
prendere, ma al contrario colla moltiplicazione numerica dell'individuo
diventa anche in essenza tante volle accre- sciuto. Se Tanimale è il
genere, dice il Maestro, e il ca- vallo è la specie si avranno tre
cavalli ed anche tre ammali. {sent. I d. XIX, 8) « ... cum sit
animai genus et equus species, appellantur tres equi iidemque animalia
». Perciò quando la specie può dirsi triplice devono anche
essere tre gli individui. Tutto dunque si raccoglie nell'individuo.
Ma egli poi aggiunge : Abramo, Isacco, Giacobbe sono tre individui,
ma nello stesso tempo anche tre uomini p tre animali. Specie e genere non
sono quindi forme sog- gettive, ma un oggetto che è nelle cose poste al
difuori di noi (2). Ma non si dirà che l'essenza divina è una
specie e le persone individui, come è specie Tuomo e sono in-
dividui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché se Tessenza divina fosse una
specie come Tuomo, come non si direbbe che Abramo, Isacco e Giacobbe sono
un sol uomo cosi non si direbbe una essenza essere tre persone.
(sent. I. d. XIX, 9-: « Sicut enim dicuntur Abraham, Isaac, lacob,
tria individ'ua ita tres homdnes et tria ani- malia... 10: Nec speoies
est essentia divina et persona individua, sicut homo tepecies est,
individua autem A- braham, Isaac et lacob. Si enim essentia specìes est
ut homo sicut non dicitur unus homo esse Abraham, Isaac et lacob.
ita non dicitur una essentia esse tres personas ». Il Maestro quindi,
a mio parere, non nega alle idee universali un* fondamento reale in
quanto però vanno unite agli oggetti sensibili: ma distingue nettamente
le cose temporali dalle cose divine alle quali non convengono i
nomi di universale e di partìcdare e le distinzioni della logica.
(1) Abael hist. cai.: « Erat antem in ea sententia de
communi- tate nnlversaliam, nt eandem essenti ali ter rem totam simtil
singulis suis inesse astrueret individuis. cfr. Espenberg — Die phil. d
Pet. Lomb. pag. 21. (2) EsPENBEROER — op. cit. p. 22 « Art
nnd Gattung sind dem- nach nicht subjektive Gebilde, sondern objektiv in
der una mnge- benden Auszenwelt begrìindet », 85
Teoria della coi>osc^i>za. i\el
Gommenlario delle Epistole di S. Paolo Pier Lombardo -venendo a parlare
delle visioni le distingue 'n tre generi: corporali, spirituali,
intellettuali. E le ultime sono le. più perfette j)erchè vedono non cogli
occhi corpo- rali ó colla immaginazione, ma per sé stesse. Qui il
Mae- stro viene a toccare sebbene in modo indiretto della co-
noscenza che noi abbiamo coi sensi corporali, ei di quella che
acquistiamo colla memoria, la quale ci ripresenta im- magini vere quali
abbiamo già apprese coi sensi o finte quali rimmagin azione forma secondo
il suo potere. (Collectanea in epist. ad Cor. II, 12) « In bis
tribus géneribus (scil. visionis) illud primum manifestum est om-
nibus quo vid'etur coelum et omnia oculis conspicua. Nec illud alterum
quo absentia oorporalia cogitantur, insi- nuare difficile. Coelum enim et
terram et quae in eis vi- dere possumus, etiam in eis constituti
cogitamus^. Et ali- quaiido nihil videntes oculis corporis* animo tamen
cor- porales imagines intuemur vel veras sicut ipsa corpora vidimus
et memoria retinemus vel fictas sicut cogitatio formare potuerit. Aliter
cogitamur quae novimus, aliter quae non «novimus w. Altrove
nel Commentario dei Salmi paragona la me- moria al ventre che riceve i
cibi : (Comm. m ps. XXX, 13) « Sicut enim venter escasi recipit ita
memoria rerum tenet notitiam ». Nel libro III delle Scinlenze
il Lombardo pariando della fede dice che essa si riferisce soltanto alle
cose che non ci appaiono è sostanza di cose sperate come disse S.
Paolo e ripetè poi Dante (1), che conobbe il Maestro forse più dì
S. l'ommaso. E qui contrappone la fede alla conoscenza che si ha delle
cose evidenti, tra te qiiali pone anche l'anima deiruomo che sebbene non
veduta, è da lui intuita cogi- tando. Concetto raccolto poi e svilupipato
da Cartesio, il quale prenderà la coscienza umana come il punto di
par- (l) S. Paolo (Ep. ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim
snbstan- tia rerum, argumentum non apparentinm . » — Dante (Par.
XXIV): Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene non parventi.
86 ieaia dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà
che IV sistenza ci è data dal pensiero: cogito ergo sum. Sent. Ili,
d. XXIll, 7). c( Non sicul corpora quae videmus oculis corporeis, et per
ipsorum imagines quas memoria tene- mus, etiam absentia cogitamus; nec
sicut ea quae non vi- demas et ex his quae videmus cogitalionem
utromque formamus, et memoriae commendamus, nec sicut homi- nem,
cuius animam^ etsi non videmus, ex nosbna coniici- mus et ex motibus
corporis hominem sicut videndo didi- cimur, intuemur etiam cogitando :
non sic vìdetur fides in corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam
tenel oerliseima scientia ». CosH nel capitolo già citato
delle CoUectanea, il Mae^ stro tocca della conoscenza che noi abbiamo del
nostro intelletto intellicfendo . E' insomma nella ragione stessa
la spiegazione della nostra ragione. (In epist. ad Cor. II,
12) «... hac visione quae didtur intellectualis ea cemuntur, quae nec
cemuntur corporea, nec ullas gerunt formas similes corponim, velui ipsa
mens et omuis animae affectio bona. Quo enim alio modo nisi
intellisrendo intellectus consoicitur? Nullo. ». Pier Lombardo
paragona rintellieenza ad una luce interiore che illumina res<=ere
intelligente: (im epist. ad Eph. cap. 4) « Omnis qui
inteiligit quadam luce interi ore illusfrRtiir». Ripete in sostanza
il concetto già espresso da S. Agostino: (in ps. 41 n. 2
Mierne 36 p. 465) « omnis qui inteiligit luce quadam non corporali, non
carnali, non exteriore sed interiore illustratur ». Chiarito
il modo di conoscere, resta a parlare dell'og- getto della
conoscenza. Che cosa è il vero ? Tutto che è è vero,
secondo il concetto della filosofia patristica, come, e questo Io si
vedrà in appresso, tutto ciò che è è pure buono. Il falso va inteso in un
sen®o del tutto privativo, cioè non è sostanza di qualche cosa, non
è ciò che è, ma è ciò che non è. (In ps. V, 6) « Veritas enim est
de eo quod est. Men- dacium vero non est subslantia vel natura ìd est,
non est de eo, quod est natuiraliter, sed de eo, quod non est ».
Ed in altro luogo dice il Maestro : la verità è ciò che è come vien
detto : (in ps. XIV, 7) « Veritas est cum res ita est cum dicitur
». 87 CAPITOLO IH. PROBLEMA
ONTOLOGICO E COSMOLOGICO Quia ip9e diodi ei faeta suut
S. Paolo Sostanza e^ accM^ote. S.
Agostino concepiva la sostanza come il concetto di assenza o di naliu-a
preso in senso generale da subsistere^ peirchè ogni cosa sussiste a sé
slessa : omn«is enim res ad se ipsam subsistil. Ma in senso più
particolare, s'intende di ciò che è soggetto d'altre cose come del
colore, delle forane corporee, ecc. J\on attrimenti Pier
Lombardo: (sent. II, d. XXXVII, 4 in ps. LXVIII, 2), « Substanlia
intelligitur illud ouod sumus: homo, pecus, terra, sol; omnia ista
substantiae snnt : eo ipso quo sunt naturae, ipsae substantiae
dicun- tur. Nana et quod nulla est substantia, nihil omnino est.
Substantia enim est cdiquid esse ». Ma in quest'ultima
significazione, il detto .^oncetto non appropriasi a Dio perchè Dio è
semplice. (Sent. I, VIII, 8) « Res ei^o anutabiles. . . proprie
di- cuntur substantiae, deus autem, si subsistit, ut substantia
proprie dici possit, inest in eo aliquid in subiecto et non est simplex
». E' quindi a torto che parlando di Dio si dice che è una
sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non ©ia Dio, e la parola
sostanza non si dice propriamente che delle creature. Parlando di Dio è
meglio servirsi della parola essenza» 88 Riguardo
all'accidente il maestro delle Sentenze è dello stesso avviso di Boezio
che lo definisce : (in Porph. ed. Basii, p. 92) Accidens est quod adest
et abest praeter subiecli corruptionem. (Sent. L III, 14) a non sicut
ac- cidentia in subiéctis quaé possunt abesse vel adesse ».
S. Agostino e Boezio sono i due filosofi ai quali iì nostro
Lombardo attinge con eguale misura. Nel IV delle Sentenze parla degli
accidenti, cioè delle apparenze che gli sembrano piuttosto esistere senza
soggetto che essere nel soggetto, quali il sapore ed il peso (accidenti)
nel sa- cramento della Eucaristia, che sono senza soggetto, poi-
ché quivi non è altra sostanza che quella del sangue e del corpo del
Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti. Perciò son quegli
accidenti per sé sussistenti. (Sent. IV d. XII, 1; in epist. ad
Cor. I) « Si autem quaeritur de acciflentibus quae remanent i. e. de
speciebus et sapore et pondere, in quo subiecto fundentur, potius
mihi videtur fatendnm existere sine subiecto quam esse in subiecto, quia
ibi non est substantia nisi corporis et sangumis dominici, quae non
affìcitur illis accidentibus... remanent ergo illa accidentia per se
subsistentia ad my- slerium riti ». Natura e
persona. « Natura multiplex nomen est. Nam et philosophi et
e- thici et theologi usu plurimo ponunt hoc nomen». Cosi Gilberto
Porrelano (in Boet. ed. Basii, p. 1223). Ma se molli sono i nuovi
significati presso i filosofi del secolo XII, vediamo in quale senso più
propriamente l'adopera il nostro Pier Lombardo. Per lui natura è ciò che
é con- creata colla sostanza. (Sent. II, d. XXXVII, 2) «
Substantiae nomine atque naturae dicunt signifìcari substantias ipsas et
ea quae naturali ter habent scilioet quae concreata sunt eis sicut
ani- ma naturaliter habet intellectum et imaginem et volnnta- tem
et huiusmodi». 89 Le €086 che awemgano per causa
seminale, si dice che aweaigono secondo natura, quelle invece fuori
natura av- vengano soltanto per volontà divina. Ne viene che ogni
creatura obbedisce a leggi naturali. (Sent. II, d. XVIII, 7) « Et
illa quae secund'um cau- sam seminalem fìunt, dicuntur naturaliter fieri,
quia ita cursus naturae hominibus innotuit. Alia vero praeter natu-
ram, quorum causae tantum suni in deo... omnis creaturae cursus habet
naturales leges » (1). yuale sarà dunque la legge naturale ? Quella
che eb- bero anche i pagani (2), che indica all'uomo ciò che è bene
e ciò che è male e che si riassume nel non fare agli altri ciò che non si
vuole sia fatto a noi. (in epist. ad Rom. cap. 2) « Etsi non habeat
(s'cil. gentilis homo) scriptam legem, habet tamen naturalem, qua
intellexil et sibi conscius est, quid sit bonum quidve malum; lex enim
naturalis iniuriam nemini inferre, nihil alienum praecipere, a fraude et
penuria abstinere, alieno coniugio non insidiari et caelera alia et ut
breviter dicatur nolle aliis facere auod tibi non vis fieri ».
Quanto poi alla persona, il Lombardo, parte dal con- cetto ^ià
enunciato da Boezio che la persona è la sostanza individuale d'una natura
ragionevole: (ed. R. Peiper p. 193, 4) « Persona est naturae rationalis
individua substan- tia ». Ovunque noi troviamo una sostanza individuale
nella specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima che è so- stanza
razionale, è dunque una persona? Pier Lombardo risponde negativamente
ricorrendo all'airtificio di parole ^à adoperato da Boezio nel sfuo libro
de duabus naturìs (ed. Peiper p. 193, 10). Cioè Tanima è sostanza
razionale, ma non tuttavia persona, perchè non è per se sormns^ cioè
è congiunta ad altra cosa. (1) Dio solo può agire contro
natura: (Sent. loc cit) super hunc naturalem cursum Creator habet apud se
posse de omnibus facere aliud, quam eorum naturalis ratio habet; ut.
scilicet, vir^a arida re- pente fioreat, et fructum ^^at. et in juventute
sterilis femina, in senectute pariat, ut asina loquatur et
huiusinodi. ,2) V. Ciò. - De leg. XV. 45; Atque, si natura
confirmatura ius non erit, virtutes omnes toUentur Nam haec
nascuntur ex eo, quia natura propensi sumus ad diligendos homines,
quod fundamen- tum iuris e3t. 90 (S©nt.
Ili, disi. X, 2) « Nam et modo anima est sub- stantia rationalis, non
tamen persona, quia non est per se sonans, imo alii rei comiuncta
». Tuttavia l'anima è persona quando per se est: onde quando
è sciolta dal corpo è persona come è Fangelo. (Sent. Ili, dist. V,
5; disi. X, 1) « Anima, non est persona, quando alii rei unita est
personaliter. . . absoluta enim a corpore persona est siculi angelus
». frateria e forila* U^ià S. Agostino
parla di una materia informe dalla quale sarebbero derivate tulle lè cose
che sono distinte e formate. (de genes. contra Manich. I, 5,
9 Migne 39 p. 178) « Primo ergo materia facta est confusa et informis
unde omnia fìerenl quae distincta atqua formata sunt, quod credo a
graecis caos appellari). Così pure Boezio (edit Basii p. 1138) parla di
una materia informe e siemplice come la ale e di una materia formata e
non semplice come i corpi. Anche per Pietro Lombardo le cose create furono
formate da una materia informe. ,(I'n ps. XXXII, 9) « Quoniam ipse
dixit, idest voluit et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata
de in- formi materia ». E cosi pure nel secondo libro delle Sen-
tenze : (dist. XII, 2, 3) « Alii vero hoc magis probaverunt et
asseruerunt, ut prima materia rudis atque informis... creata sii
Postmodum vero. . . ex illa materia rerum corpo- ralium genera sunt
formata secundum species propria®. Da S. Agostino il Lombardo
deriva pure il suo con- cetto della forma. (Sent. II, d.
XVIII, 16) « Dicit Au^ustinus causas primordiales omnium rerum in deo
esse mducens simili- ludinem artifìcis in cuius dispositione est qualis
futura sii arca ». 11 Maestro ripete a questo punto
appoggiandosi intie- ramente a S. Agostino quanto Abelardo e Gilberto
P^r- retano dicono con compiuto linguaggio scientifico quando
91 chiamaiio le idee forme esemplari della mente divina.
Non così chiara come in questi elementi platonici è l'idea della
forma presso i sentenziarii ai tempi aristotelici (1).
Causalità. Qui il Maestro dà questa definizione della
idea d; causa : Tutto ciò che in sé permanendo genera od opera
qualche cosa, è il principio, ossia la causa di ciò che ge- nera od opera.
(Sent. I, d. XXIX, 2) « Si autem quicquid in se manet et gignit vel
operatur aliquid, principium est eius rei quam gignit vel edus quam
operatur... ». Dio però si dice eh© fa ed opera qualche cosa,
per- chè è la causa delle cose scientemente esistenti. (Sent.
II, d. I., 2) « Deus ergo aliquid agere vel fa- cere dicitur, quia causa
est rerum noviter existentium ». ■Con ciò vien presupposto che
tutto ciò che avviene, avviene per una causa necessaria e che nulla nasce
che non sia preceduto da una legittima cagione. Pier Lom- baixlo in
seguito si domanda se nulla possa sfuggire o questa legge di causalità e
possa awemare per caso. Ma egli risponde : se qualche cosa avviene nel
mondo per caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina pìnovvi-
denza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina provvidenza, v'è
qualche natura o sostanza che non ap- partiene all'opera della
]>rowidenza. Ma tutto ciò che è, è buono per la partecipazione di quel
bene che noi chiamia- mo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire
per caso. Inutile è il notare che questo argomento si trova già in
S. Agostino, Ugo di S. Vittore, Abelairdo. (Sent. II, XXXV, 5) « Si
ergo casu aliqua fiunt in mundo, non providentia universus mundus
administratur. Si non providentia universus mundus administratur, ali-
(1) Vedi EspuNBKBOBB — Op. dt. p, 58, 59.
92 qua natura vel substanlia est quod ad opus
providentiae non pertinel. Omne autem quod est... boni illius
parteci- patione... bonum est, quod divinum bonum provideoliam
vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo ». $pazio ^
trnypo. Le nozioni di spazio e di misura, ci vengono date
da Pier Lombardo, laddove parla di Dio che è immensurabile ed
iniCBteso. (Sent. I, XXXVII, 9, 10) Neque dime(nsionem habet
(sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum assigmatur principium,
medium et finis et ante et retro, dextera et smistra, sursum et deorsum
quod sui interpositione facit distantiam et circumstantiam... dicitur in
Scriptura ali- quid locale sive circumscriplibile et e converso, sci!, quia
diimensionem (bapierus longiltudinis et latitudinis distaai- liam lacit
in loco ut corpus... Più avanti definisce il luogo nello spazio ciò
che è occupato in lunghezza, altezza e larghezza da un corpo.
(Sent. I, XXXVII, 4) « Locais in spatio est quod lop- giludine et
altitudine et latitudine corporis oocupatur)). Come Dio neppure gli
spiriti creati possono essere circonscritti nello spazio. Essi però
possono in certo modo essere locali perchè quando si trovano in un luogo
(non si trovano in un altro : però non hanno dimensioni e per
quanto siano numerosi, non possono riempirlo. (Sent. I, XXXVII, 9)
« Spiritus vero creatus quo- dammodo est localis, quodammodo non e®t
localis. Localis quidem dicitur, quia definitione loci terminatur, quoniam
cum alicubi praesens sit totus, alibi non invenitur. Non autem ita
localòs est ut dimensionem capiens distantiam in loco faciat ».
Il Lombardo infine conclude che Dio non si muove né nello spazio,
né nel tempo, che Tanima si muove nel tempo, ed il corpo nelo spazio e
nel tempo. Di qui le loro diverse natuire. 93
(ibid.) « Ecce hic aperte oistendilur, quodi nec locis aec
temporibus mutatur vel movetur Deus, spiritualis au- tem natura per
tempus unovetur, corporalis vero etiam per tempus et locmnn.
Che cosa è il tempo ? Ad una tale domanda cosi risponde S.
Agostino nelle Confessioni (1) : Se nessuno me lo chiede lo so; se
voglio spiegarlo a chi me lo chieda non lo so: con piena fede dico
tuttavia di sapere che se nulla passasse, non vi sa- rebbe un tempo
passato e se nulla dovesse avvenire^ non vi sarebbe un tempo futuro, e se
nulla fosse non vi sareb- be un teimpo presente. Pier
Lombairdo definisce il tempo, la variazione delle qualità che sono nella
stessa cosa che si muta. (Seni. I, XXXVII, 10) <( Mutari autem
per tempus est variari secundum qualitates quae sunt in ipsa re
quae mutatur... Haec enim mutatio qua fìt secundum tempus, vanatio
est qualitalum . . . et ideo vocatur tempus». L'eternità fa
antilesi al tempo. Il Lombardo come A- belardo ripete qui le parole di
Boezio: Stabilisque ma- nens das cuncta momri quando dice: (In ps(. LVI)
«Et video, id est sciam, quoniam tu es proprie qui stabiEs ma- nens
das cuncta moveri ». Garattei'a appunto dell'eternità è la stabilità,
del tem- po la mutabilità (in epist. ad Hebr. I) « In aeternitate
enim stabilitas est, in tempoire autem varietas ; m ae- ternitate omnia
stamit, in tamporei alia aocedunt, alia suc- fcedHint ».
Cosrpolosia. Il problema cosmologico si presenta al
Maestro nel libro II delle Sentenze alla prima distinzione. Egli
dimostra sulla fede delle Sacre Scritture, che non vi è che un
prin- (1) XI, 14, 17 MiGNB 32 p. 816 ( Espenberger op. cit.
p. 73) : Quid est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti
expli- care velim nescio: fidenter tamen dico sci re me, quod si nihil
prae- teriret, non esset praeteritum tempus ; etsinihil adveniret, non
esset fUtunim tempus, ei si nihil esset, non esset praesens tempus.
, cipio solo di tulle le cose. Alcuni (ilosoli, come Platone
ed Anstolile, avevano pensalo che il mondo avesse molti principii,
che la materia che lo comipone fosse increata ed eterna, che Dio non ne
fosse punto il Greatore, ma sem.- plicamente l' oa^ganizzatore. Ma la dottrina
cattolica al contrario ci insegna che Dio solo, principio di tutte le
cose, ha tutto crealo dal nulla, le cose visibili e le invisibili,
il cielo e la terra. (Sent. H I, 1) (( Creationem rerum
insinuans Scrip- tura deum esse creatorem initiumque temporis atque
om- nium visibilium ved invisibilium creaturarum in primordio suo
ostendìft dicens : (g:en. I, 1) In principio creavit deus caelum et
terram. His enim verbis Moyses... in uno principio a deo creatore
mundum factum refert elidens errorem quorundam plura sine principio
fuisse opinantium. Plato namque tria inilia existimavit deum scilicet
exemplar et matenam et ipsam mcreatam sine principio et deum quasi
artificem non creatorem ». E altrove conferma che il mondo
non è coetemo a Dio e senza alcun principio, ma creato da Dio come
in- segna la scrittura. (in ps. CXLVIII, 5) « Quia ipse dixit
et faota sunt — hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn
». Dio creò ogni cosa dal nulla : creare è propriamente
ricavare qualche cosa dal nulla : onde a Dio solo compete il nome di
creatore. (Sent. II, I, 2) « Creator enim est, qui de nihilo
ali- quid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid facere....
hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit... Ipse est ergo
creator et opifex et factor ». 11 Lombardo passa poi ad esamina-re
la creazione del mondo e specialmente .l'opera dei sei giorni
commentando il racconto della Genesi. Le spiegazioni ch'egli offre,
sono tolte ai padri antichi tra i quali S. Ambrogio, S. Agostino,
S. Gregorio, il venerabile Beda e S. Giovanni Grisostomo. Insieme con
vedute geniali e profonde, si trovano in quella parte dei suoi libri ove
si paria della creazione, alcune teorie che le scienze naturali hanno poi
definitivamente condannate. Basta ricordare la teoria dei quattro
elementi di cui si compone il cosmo, e quella che considera il fir-
mamento come una immensa volta solida alla quale sono attaccati gli
astri, e Topinione che i piccoli insetti nascano
&6 dalla corruzione dei carpi organici. Ma il Lombardo
espone la scienza dal secolo decimosecondo : d'altronde egli di
tali cose sembra parlare in forma dubitativa e come è suo costume
non fa che esprimere le opinioni che ai suoi tempi correvano.
dell'uorpo o^il'unlv^rso* Là dove parla della
creazione, il Maestro pada anche del fine per il quale l'uomo e l'angelo
furono creati. La somma bontà divina ha voluto far parte della sua
felicità etema a due delle sue creature, all'angelo ed all'uomo :
perciò li creè ragionevoli affinchè conoscessero il sommo bene,
l'amassero, ed amandolo lo jK>ssedesseiro e posse- dendolo fossero
felici. L'angelo di natura incorporea e l'uomo composto di anima e di
corpo furono creati per lodare e per servire Iddio; non già perchè questi
abbia bi- sogno dei servigi umani, ma affinchè l'uomo godesse nel
servirlo, poiché in questo si giova chi serve e non colui al quale si
serve. (Seoit. II, I, 7) « Factus ergo... homo projter deum
dicitur esse, non quia creator deus et summe beatus alte- rutrius
indiguerit officio... sed ut servirei ei ac fruirelur.'.. in hoc ergo
proficit serviens... non ille cui servi tur. Pensiero che vien
perfezionato da S. Tommaso (Sum. contra gentes II, 46) e dall'Afighieri
(Farad. XXIX): Non per avere a sé di bene acquisto Ch'esser
non può, ma perchè suo splendore Potesse risplendendo, dir:
Subsisto. In seguito aggiunge che come l'uomo è stato fatto
per Dio, così il mondo per l'uomo, il quale si trova in un mezzo
tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli stesso deve servire.
(Sent. II, I, 8) « Et sicut factus est homo propter deum i. e. ut
ei serviret, ita mundus factus est propter é6
hominem, scil. ut ei servirei. Positus est ergo homo 'n medio ut et
ei servirelur et ipse serviret; ut acciperet u- trumque et reflueret
totum ad bonum hominis et quod ac- cepit obsequium et quod impeffidit...
». L uomo infine si distingue da tutti gli altri animali per
la sua aspirazione alle cose superne, ed è perciò che egli ha il corpo
eretto e quasi rivolto al cielo. (Seni. II, XVI, 5) « Ecce osl^isum
est, secundum quid sit homo similis dei... Sed in corpore quaaidam
pro- prieitatem habet quae haec indicat, quia §st erecta statura
secundum quam corpus ajiimae rationali congruit, quia a caelum erectum
est ». E' lo stesso concetto di Cicerone (De legibus I, 9,
26): « Nam quum caeteras animantes abiecisset ad pa- stum,
solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis domiciliique pristini
conspectum excitavit ». E non di Cicerone soltanto (1).
(1) Tra i gentili cf. Ovidio Metamorf. I, 84-86 Sallustio
Catil. Tra i filosofi cristiani Agostino (de gen. centra Manich. I,
XVII), Cassiodoro (de anima cap. IX) Beda (in hexaem I) Abelardo
(in hexaem). i 9?
CAPITOLO 17. PROBLEMA PSICOLOGICO
Tantum enim, ut tradit auctoritas, cognoscit ibi quiHque quantum
diligit. (Sent. II, IX, 4) Foteoze d^ll'anirpa.
11 problema psicologico veniva proposto da Ugo di S. Vittore in
queisti termini: (de sacram. I ps. 5, e. 3) yuaerunlur autem quiam
plurima de origine animae, quando creata fuit et tolde creala fuit et
qualis creata fuit. (cfr. August. de quant. animae I, 1). August.
de quant. animae I, 1). Era questione tra i filosofi secondo
Giovanni di Sa- lisbury (Mei. IV, 9) se fosse una sola potenza la
quale ora sentisse, ora ricoondasse, ora immaginasse o se pur
rimanendo l'anima semplice, essa fosse dotata di molte potenze (1).
(1) MieNB 199 p. 922 A: < Recolo enim fuisse philosophos,
qui- bus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam esse
substan- tiam animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter
prò rerum diversitate exercet. Eorum ergo opinio est, quod eadem
po- tentia, nunc sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc di-
scemat investigando nunc investigata assequendo intelligat. Sed plures
sunt e contrario sentientes animam quidem quantitatem simpli- cem, sed
qualitatibus compositam et sicut multis obnoxiam passio- nibus, sic
multis potentiis utentem ». V. Espenberger op. cit p. 88.
j 98 Pier Luiinbardo si attiene in ciò a
S. Agostino e defi- nisce quei^le potenze come naturali proprietà
dell'anima, yueste sono una sola sostanza ed esistono nell'animo so-
stanzialmente; e noiii accidentalmente : poiché sebbene rela- tive tra di
loro ciascuna è sostanzialmente nella sostanza oell animo.
(Sent. 1, 111, 12) « Hic attendendum est ex quo sensu accipiendum
sit quod supra dixit, illa tria, scilicet memo- riam, intelligentiam,
voluntatem esse unum, imam mentem, unani essentiam, quod utique non
videtur esse venim juxta »pix>piietatem sermonis... Illa vero tria,
naturales proprietales seu vii-es sunt ipsius mentis... (14) Sed
jam videndum est quoniodo liaec tria dicantur una substantia. Ideo
quia sciJicet in ipsa anima vel mente substantialiter existunt, non sicut
accideiitia in subiectis, quae possunt adesse vel abesse uiide
Aug'ustinus in lib. IX de Trm. cap. 5 alt : Admonemur, si utcumque videre
possumus, haec in animo existere substantialiter, non tanquam in
subiecto, ut color in corpore; quia etsi relative dicuntur ad
invincem, singula tamen substantialiter sunt in substantia sua ».
Spiegata cosi coli autorità altrui la natura delle po- tenze dell
anima, il Lombardo distingue nella ragione due parti : la parte superiore
che si volge alle ragioni eteme delle cose, la inferiore che si piega a
osservare le cose temporali! (11, XXIV, 6) « Ratio vero vis
animae est superior, quae, ut ita dicamus, duas habet partes vel
differentias, superio- rem et inferiorem. Secundum superio«rem, supemis
con- spiciendis vel consulendis intendit; secundum inferiorem, ad
temporalium dispositionem conspicit ». Da ciò deriva la distinzione
ch'egli fa della sapienza e della scienza. La definizione che diedero gli
antichi della sapienza, cioè : Sapientia est rerum divinarum
humana- rumque scientia, va divisa cosi che sapienza si dica pro-
priamente della conoscenza delle cose divine, scienza della conoscenza
delle cose umane. (S. Ili d, XXXV, 1) «... illa definitio dividenda
est, ut rerum divinarum oognitio sapientia proprie nuncupetur,
hùmanarum vero rerum cognitio proprie scientiae nomen obtineat ».
L'influsso mistico di S. Bernardo suo protettore e dei suoi primi maestri
di S. Vittore, si fa sentire in Pier Lom- bairdo là dove afferma che la
maggiore o minore quantità di sapere deriva dalla quantità di amore:
(Sent. II, IX, 4) « Sed qui magis diligit plus coginioscit ».
99 Natura delFanirpa*
Abelardo definisce Tanima come una certa essenza spirituale e
semplice: (introd. ad theol. Ili, 6) « Anima quippe spiritualis quaedam
et simplex essentia est ». Non diversamente la definisce il nostro
Lombardo là dove dice (sent. I, IH, 12) « Mens enim i. e., spiritus rationalis
es- sentia est spiritualis et incorporea ». Così Abelardo
come Pier Lombardo, si riconnettono a 5. Agostino che in più luoghi
dei libri tratta deU anima -n quanto spirituale ed incorporea.
L'anima si dice semplice perchè non si diffonde in e- stensione, ma
in qualunque corpo in tutto o in qualsivoglia paorte di essa è intiera.
Cosi quando avviene qualche cosa nella più piccola parte del corpo, che
sia avvertita dall'a- nima benché non avvenga in tutto il corpo, tutta
Tanima sente perchè non tutta si tien nascosta. (Sent. I,
VII, 5) « (Simplex dicitur anima) quia mole non diffunditur per spatium
loci sed in unoquoque corpore et in toto tota est et in qualibet eius
parte tota est. Et ideo cum fit aliquid in quavis exigua particula
corporis quod sentiat anima, quamvis non fiat in toto corpore, illa
tamen tota sentit quia totam non latet ». In ciò segue il Lombardo
la dottrina professata da A- gostino e da Plotino, il primo nel libro di
trinitate (VI, 6, 8), de quantitate animae (cap. 33, 70) de immut,
animae (I, 16, 25) il secondo in enn. (IV, 33 edit Volkmanm).
Ma se Tanima è semplice, dice il Lombardo nel luogo citato, in
confronto del corpo, per sé stessa non è semplice ma molteplice. Poiché
altro è essere operoso, altro Inerte, altro acuto, altro memore, altro è
desiderio, altro è ti- more, altro è letizia, altro è tristizia, e queste
cose ed altre dello stesso genere si possono trovare nella natura
delVa- nima ed alcune senza le altre ed alcune più ed altre meno, onde
è manifesto che la natura dell'anima non é semplice, ma molteplice
« unde manifestum est animae non sim- plicem sed multiplicem esse
naturam ». In conclusione la natura deiranima offre due lati:
è semplice da un lato se si paragona colla natura del corpo
molteplice se si paragona colle sue potenze 100
Ma ranima è altresì immortale. L'uomo è fatto a somiglianza di Dio
e la somiglianza nella essenza perchè essa è immortale ed
indivisibile. (Seni. Il, XVI, 4) «Factus est homo... ad
similitu- dinem dei... similitudo in essentia quia et immortalis eit
in- divisibilis est. linde Augustinus, de quant, anim. I, 2-3: «
Anima facta est similiter deo, quia immortalem et indis- solubilem fecit
eam deus ». Ma la filosofia scolastica fedele al precetto:
distingue prequenier^ come limita e divide il concetto della
semplicità deiranima cosi na limita e divìde quello della
immoortalilà, distinguendo il coooeilto della morte intesa in senso
asso- luto di annientamento da quello della stessa intesa in senso
relativo di mutazione : ed in quest'ultimo senso Tanima non è del tutto
immortale. (Seni. I, Vili, 3 ) « In omni mutabili natura
nonnulla mors est ipsa mutatio quia fecit aliquid in ea non esse
quod erat, unde et anima humana quae ideo dicitur immortalis quia
secundum modum suum nunquam desinit vivere^ ha- bet tamen quandam mortem
suam ». Orijioe d^U'aoirpa. Riguardo
airorigine delFanima si agitavano ai tempi del Lombardo due diverse
opinioni, Tuna del traduzioni- smo (1) che pretendeva che Tanima venisse
generata come il corpo, l'altra del creazionismo che pretendeva al
con- trario che fosse creala da Dio direttamente. A quest
ultima si attiene naturalmente il Lombairdo con Abelardo, Roberto PuUus,
Ugo di S. Vittore. Dio creò ranima dal nulla dice il Maestro: (Sent. II,
XVII) «Flatus factus est a deo, non de deo, non dealiqua materia sed
de (1) Odo di Cambra!: (de pen. orig. II) « Sunt autem multi
qui volunt animam ex traduce fieri sicut corpus et cum corporis semine
vim etiam animae procedere » Vedi Espen. o. e. p. 96, I
101 nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione di coloro che
affer- maaio con Origene che le anime sono state tutte create al
principio del mondo, e quella di coloro che con i Lu^ci- feriani e
Cirillo ed alcuna dei Latini pensano che Tanima si comunichi ai figli per
generazione e nello stesso modo che il corpo. Mentre Tanima non è infusa
nel corpo che quando esso è tonnato ed adatto a riceverla.
(Sent. II, XVII, 3) Sed quicquìd de anima primi ho- minis aestimeoitur,
de alias certissime sentiendum est, quod in corpore creentur; creando
emim infundit eas deus et in- fundendo creat ». E più avanti : (Sent. II,
XVII, 8) e( Unde Augustiiniis in ecclesiast, dogm. animas hominum
di<rit non esse ab initio inter creaturas intellectuales natuT^as
nec simili creatas sicut Origenes fìngit necque in corporibtis per
coitum seminum sìcuT Luciferani et Cyrillns et quidam LatiinoiTum
praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus corpus tantum per coniugii oopulam
seminari, creationem vero animae solum cneiatoirem nosse eiusque
iudicio... formato iam corpore animam creavi atque infimdi ».
E nel libro IV spiega ancor meglio quest'ultimo pen- siero
ricorrendo all'esempio della casa e del suo abitatore che vi entra
soltaoito quando è ben costruita : (Sent. IV, XXXI, 5) « Sed iam
formato corpori anima datur, non ini conceptu corporis nascitur cum
semine de- rivata. Nam SI cum semina et anima existit de anima,
tunc et multae animae quotidie pereunt cum semen fluxu non proficit
Ti'ativitati. Primum oportet domum compaginari et sic habitatorem
induci». E qui è opportu/no ricordare che questa teoria
dell'a- nima si trova pure con poche varianti nel canto XXV del
Purgatorio laddove il Poeta discorre della nascita dell'uo- mo e
spiega .... come (Tanimal divenga fante.
Relazione tra Fanirpa ed il corpo. . Seguendo il concetto
aristotelico dell'età di mezzo, il Lombardo ritiene Tanima come forma del
corpo. (Sent. IV, XXXI, 5) « Formatum vero intelligitur cor-
pus propria anima animatum et informe quod nondum Habet animam »•
102 Un tal concetto va intimamente collegato con un
passo della Bibbia: (Exod. 21, 22, 33) « Si quis percusserit
mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc in- formalum fuerit,
multabitur pecunia; quod si formatmn fuerit, reddel animam prò anima
», Il Lombardo deride le favole di coloro che immagi- nano
che le anime siano rinchiuse nel coq>o, come in un carcere, per i
peccati commessi in cielo. (Sent. I, XLI, 4) « Multi... in fabulas,
vanitatis abie- runt dicenls, quod animae sursum in caelo pecoant, et
se- cundum peccata sua ad corponia prò meritis diriguntur, et
dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt hi tales post
cogilationes suas et... versi sunt in profundum, di- centes animas in
caelo ante conversatas et ibi aliquid vel mali egisse et prò meritis ad
corpora terrena detrusas esse. Hoc autem respuit catholica fides ».
Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea perchè Tuomo
capisse che se potè unire due cose cosi diverse, quali l'anima è il corpo
in una tale unità, non è impossi- bile ch'egli possa partecipare per
quanto umile alla sua gloria. (Sent. II, I, 10) « Lufeamque
materiam fecit ad vitae sensum vegetare, ut sciret homo, quia si potuit
deus tam disparem naturam corporis et animae in federationem u- nam
et in amicitiam tantam coniungere, nequaquam ei impossibile futurum
rationalis creaturae humilitatem.... ad sua Rloriae partecipationem
sublimare ». Pier Lombardo non crede che il corpo sia carcere
dell'anima nel senso che sopra si è detto, perchè f)er es- sere opera di
Dio è un bene: ma è pure un carcere nel senso che il corpo a corrompe e
corrompendosi aggrava Fanima. (in ps. CXLI, 10) «Vel potius
corpus est career non utique secundum id, quod deus fecit ipsum bonum
est, sed secundum id, quod comimpitur et aggravat animam i. e.
oorruptio eius quae venit ex peccali, career est». Altrove chiama
il corpo quasi strumento e servo del- Tanima : (in epist. ad Rom.) « Si
corpus, quo inferiore tamquam famulo vel instrumento utitur anima... ». E
cosi pure si legge in un suo sermone : (2P De codem die : ms. 3537
f. 67 V. — In passione Domini seu in annuntiatione : ms. 18170 f. 148 —
vedi Protois op, cit. pag. 144) « Domi- nus est spiritus noster, anima
tamquam domina, corpus tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur
et si oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ».
103 Che cosa è infatti Tuoino se non un'aniina fornita di
corpo? si domanda Ugo di S. Vittore (1). Però a que- sto riguardo il
Lombardo usa di una certa moderazione; ed il suo modo di pensare intomo
alla persona deiruomo ci fa credere che egli dà un posto importante anche
alla vita (2). Il Maestro delle Sentenze sul finire del suo
libro principe, cioè alla distinzione XLIII del libro IV, entra poi
a discorreire della morte e della risurrezione del corpo. E fu il padre
Michele da Carbonara il primo a far notare la conformità che vi è tra le
dottrine svolte da Pier Lom- bardo e i luoghi della Divina Commedia che
parlano della risurrezione, quantuncfue la ragione fondamentale di
essa data dal Maestro diversifichi in sostanza da quella data dal
Poeta. Nella risurrezione ciascuna anima separata riprenderà
il coqx), ripigtierà sua carne e sua figura (Inf. VI, 98)
quale era nel fiore della età: e sarà mage^iore allora la sua
beatitudine e la sua cognizione : « amplior erit eorum cognitio ». Ciò è
diffìcile a spiegarsi, dice il Maestro. Ma è certo che nell'anima è un
vivo desiderio di ripigliare il corpo; riunita al corpo Tanima ha
perfectum naturae suae modum ed ha ampliorem cognitionem.
Altri che verranno poi, si spingeranno più addentro nella questione
come farà S. Tommaso. Ma, dice il Car- bonara, il Maestro sta come colui
che tira le linee più larghe d'un quadro, in suU'indeterm inalo; e si
legga at- (1) Sent. I, XV Migm 176: « Quid enim est homo
nisi anima habens corpus ? » (2) Nel sermone 11 (in die
Cineris ad poenitentes — .Ms. lat. 18170 in Protois p. 138): «vita praesens
messi comparatur et aestati, quia nunc inter ardores tentationum
colligenda sunt futurorum merita praemiorum. » (3) P. Michele
da Carbonara — Dante e Pier Lombardo (Sent lib. IV dist. 43-49) con
prefazione e per cura di Rocco Murari 2 ^ ediz. Città di Castello 1897 —
Voi. XTJV-XLV (VIII-IX della nuova Serie) deUa Collezione di Opuscoli
Danteschi inediti o rari diretti da M. A. Passerini.
104 tentamente questo tratto « ^f mmor sU healitudo sanctorum
post iudicium; sì leig'gta attentamente e si vedrà che se vi è trailo che
specchi il canto XIV del Paradiso, questo tratto è desso. La slessa
queslfone, gli stessi punti determinali; ma Insieme rindeterminatezza, il
vago, che neirinsieme domina il Maestro, si risente nel Poeta :
Come la carne gloriosa e santa Pia rivestita, la nostra
persona Più grata fia, per esser tutta quanta : (cperfeobum
natuirae suae modum habebit anima». 105
CAPITOLO V. PROBLEMA MORALE Omne
qaod est, in quantum est, bonum est. Tutta TEtica scolastica
è necessariamente compene- trala della dogmatica teologica. Quella di
Pier Lombardo non diversa in sostanza da quella dei suoi maestri^ si
riat- taeca alle discussioni teologiche intorno alla morale che ai
suoi tempi si dibattevano. Ubero arbitrio.
La prima questione che ci conviene esaminare, è quella che riguarda
il libero esercizio della volontà. La libertà, pensa egli con Ugo
di S. Vittore (Sent. Ili, 9), di cui sente più volle l'influsso, chiede
di poier compiere non solo il male, ma anche il bene. (Sent.
II, XXV, 13) « Verum nobis magis placet ut ipsa libertas arbitrii sit et
illa, qua magi® liber est malum, et alia qua quis liber est ad bonum
faciendum. Ex causis enim variis sortitur diversa vocabula».
Il Lombardie si chiede in appresso quali fattori deter- minano la
libertà umana e ne distingue due, cioè la ra- gione e la volontà.
106 La prima disceme tra il bene ed il male, la
seconda si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la
definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo Pier
Lombardo. (Seni. II XXIV, 5) « Liberum verum arbitrium est
facultas rationis et voluntatis, qua bonum eligitur gratia assistente,
vel malum ea desistente. Et dicitur liberum, duantum ad voluntatem quae
ad utrumlibet flecti potest. Arbitrium vero, quantum ad rationem, cuius
est facultas et potentia illa, cuius etiam est discemere inter bonum
et malum et aliquando quidem discrelionem habens boni et mali, quod
malum est eligit, aliquando vero quod bonum est...,.» e più avanti:
(Sent. II, XXV, 1) « Liberum ergo dicitur arbitrium quantum ad
voluntatem, quia voluntaTie moveri et sponta- neo appetitu ferri potest
ad ea quae bona vel mala indicet vel indicare potest ». Il
Lombardo si affretta poi a spiegare un passo di S. Agostino, ove questi
afferma che l'uomo perde il libero arbitrio dopo il peccato, onde si
legge nei Vangeli: (2 Pel. 2) A quo erdm devictus est, huic servus est
(Vedi August. enchirid. 30, 9 Migrie 40). TIon ciò non si
vuol dire che l'uomo perde intiera- mente la libertà, ma solo quella che
ci trattiene dalla mi- seria e dal peccato (Seni. II, XXV, 8) <( Ecce
liberum arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non
quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed quia libertatem
arbitrii perdidit non quidem a necessitate, sed libertatem a miseria et
peccati ». (9) « Est namque lib^rtas triplex, scilicet a
necessitate, a peccato, a miseria. A necessitate et ante peccatum
et post aeque liberum est arbitrium. Sicut enim lune cogi non
poterai, ila nec modo. Ideoque voluntas merito apud deum indicalur, quae
semper a necessitate libera est *i iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas,
ibi non est libertas; ubi non est libertas, nec volunlas et ideo nec
merilum. Haec libertas in omnibus est tam in malis quam in
bonis..». Il Sentenziario perciò nel suo Commentario nei
Salmi (rimprovera coloro che attribuiscono alle stelle ed al fato,
la colpa dei loro peccati facendone in certo modo respon- sabile Iddio,
che è Tautoire del creato : (in ps. XXXI, 6) « Ila clamel aeger ad
medicum, et dicat : Cum libero ar- bitrio creavi! me Deus: ideoque si
peccavi, ego peccavi non fatum, non fortuna, non diabolus, me coegit :
sed' ego persuadenti consensi ». io: In
conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già si è veduto, definisce
il libero arbitrio un& facoltà della ragione' e della vodontà colla
quale si sceglie il bene col soccorso della grazia od il male se la
grazia ci manca. Ma questa definizione, aggiunge l'autore, non conviene
a Dio né ai santi che par essere incapaci di peccare, hanno un
libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio è la sua volontà
ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza necessità e liberamente tutto ciò
che le piace. Quella degli angeh e dei santi non può più portarsi verso
il male, perchè essi sono coiiifermati neha beatitudine e neilla
grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure conservato il suo, ma perchè egli
voglia il bene gli è necessaria la grazia del Redentore. La
teoria del libero arbitrio, che il Maestro professa, intesa a conciliaire
il dogma coi dettami della ragione, non sfugge, come è ben naturale, a
gravi difficoltà. Cosi egli è costretto per quaiinto si sforzi di provare
il contrario, a mettere l'uomo in una posizione non del tutto
giusta, rispetto alla sua libertà, poiché se egli fa il male, ne è
tutta sua colpa (ideoque si peccavi ego peccavi — in ps. loc. cit.)
quantunqua non possa andare ^nte dal peccalo, mentre se fa il bene, il
merito è tutto di Dio. (Sent. II, XXVII, 7) « Non tamen sine libero
arbitrio proveoiiunt merita nostra, scilicet boni effectus
eo-rumque progressus atque bona opera quae Deus remunerat in no-
Das et haec ipsa sunt Dei dona. Unde Augustinus (12) ad Sixtum presbyterum:
Cum coronat Deus merita nostra nihil aliud coronai quasn munera sua
». Quamto poi alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose che
debbono avvenire, noi non possiamo fare in altro modo di quello che a lui
è noto, dal che ne verrebbe la nega- zione di ogni libertà umana, egli
non oppone nulla in que- sto punto dove espone la teorica del libero
arbitrio. Ma noi possiamo conoscere il suo parere in proposito,
purché noi ci riportiamo a quel punto del libro P, ove parla della
prescienza di Dio, allora assai dibattuta dalle sette sco- lastiche, come
quella che sembrava condurre a riconoscere il fatalismo. Il Maestro delle
Sentenze per rispondere a questo argomento, fa uso della distinzione così
nota agli scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero
del senso congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si può dare che Dio
abbia preveduto una cosa e ch'essa non avvenga, ma è possibile che essa
non avvenga, e allora J06 Dio non Tavrebbe preveduta.
Sottigliezze a cui la scuola dogmatica è costretta a ricorrere ogni
qualvolta vien mes- sa ale strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo libro:
De Fato, libero (mbitrio et providentia Dei (V lib. Bàie 1525) ove
si sforza egli pure si conciliare il destino la provvi- denza e la
libertà deiruomo, finisce col non saper dare altre soluzioni che quelle
poste innanzi dalla scolastica, confessando però che esse sono piuttosto
delle illusioni che delle vere risposte: Videntur potius esse illusiones
islae quam respomiones (lib. III). Felicità.
Fine a cui tendiamo tutti é la felicità : (sent. V, XLIX, 2)
« Beatos autem esse velie, omnium hominum esl ». Il Lombardo ricorda le
parole di Cicerona: Beati certe omnes esse volufnus, ed è lontano dal
contraddirvi, ma anzi ne deduce che poiché tutti desiderano la felicità,
tutti ne hanno dentro di sé la conoscenza: «... sequitiu' ut omnes
beatam vitam sciant » (1). Vediamo ora come procede il Lombardo
neiranalisi della felicità. Sul principio del primo libro egli
comincia dal distinguere la differenza che v*è tra usare di una
cosa e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere la nostra
volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per amore e ciò non
avviene in questa vita. (Sent. I, I, 3) « Uti est assumere
ali<juid! in f acultateni voluntatìs. Frui autem est, uti cum gaudio,
non adhuc spei sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui sed
tan- tum uti, ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui esse
amore dnhaerere alieni rei propter se : qualiter etiam hic multi
adhaerant Deo». (1) Dantb — Purgatorio XVII 127-9:
Ciascun confusamente un bene apprende Nel qual si queti T animo, e
desira: Perchè di giugner lui ciascun contende.
l09 E poiché questo sembra far iidsceire eontraddiàoni,
egli la rivolse così chiarendo il suo concetto. Tanto qui come nel futuro
si può in certo modo fruire della beati- tudine eterna, ma mentre in
cielo noi la godremo in modo perfetto perchè, come dice S. Agostino,
l'avremo vicina qui in terra, non la godiamo che per riflesso ed è ciò
che ci fa sopportare i travagli della vita. (Sent. I, I, 4) «
Haec ergo quae sibi contradicere vi- demtur, sic determinamus, dioente»,
nos et hic et in futuro frui : sed ibi proprie et perfecle et piene ubi
per speciem vi- debimus quo fruemur, hic autem, dum in spe
ambulamus fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil. Augu-
stinus) in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli ilio
fruentas jam beati sunt quo et nos frui desideramus; et quaai'timi in hac
vita iam fruimur, vel per speculum, vel din aenigmate, tanto nostram
peregrinationem et lolera- bilius sustioemus et ardentius fruire cupimus
». In questa teorioa il Lombardo si liem stretto a S. Agostino ed
esprime 41 medesimo comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tom-
maso col fine mediato ed iumiediato. guanto alla questione, se si
possa gioire della virtù per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la
vera fe- licità, egli si prova come è suo metodo di conciliare la prima
opinio*ne, che sembra confortata da un passo di S. Ambrogio, con la
seconda professata da S. Agostino, affermando che la virtù può essere
amata per sé slessa, ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere
ad un fine più elevato e riferire la virtù a Dio come fine ul- timo.
Amoralità d^Ue aztooi urpaoe* Quali sono le
azio^ni umane che si debbono chiamare buone secondo il Lombardo e quali
cattive ? Egli risponde suirautorità di S. Ambrogio e di S. Agostino, che
ciò che fa buona o cattiva una azione è Tintenzione. Ed in ciò non
discorda da Abelardo che afferma appunto nelFEtica (cap. XI) : « Unde ab
eodem homine cum in diversis temporibus Ilo idem
fiat, prò divemsitate tametn inlentionis eius operatio modo bona modo
mala dicitm* ». Infatti il Maestro nel libro secondo d^e Sentenze (dist.
XI, 1) dice quasi allo slesso modo : « Nam simpliciter ac vere sunt boni
illi actus, qui bonam causam et intentionem id est qui voluntatem
bonam comitantur et ad bonum finem tendunt: mali vero sim- pliciter
dici debent qui perversam habent causam et inten- tionem ». E cita a
questo proposito le parole di S. Ago- stino : (enarr. in ps. XXXI, 4) «
Bonum eriim opus intentio facitìK In conseguenza è un'azióne
buona confortare i po- veri se si fa per compassione e misericordia : ma
la stessa azione diventa cattiva se la si fa per ambizione. Vi sono
tuttavia delle azioni le quali sono cattive per sé stesse e che la
intenzione non può rettificare: tali sono la men- zogna e la
bestemmia. Ksse poi sono cattive in quanto sono privazioni
dell'es- sere, perchè ogni cosa, in quanto è, è buona : Omne quod
est in quantum est bonum. L.a le^^e fT)orale«
Stabilito cosi guali sono le azioni buone o cattive, & seconda
dell'intenzione, restava a determinare quale è il caratieire morale che
deve contraddistinguere le nostre a- zioni e qual norma si deve
necessariamente seguire per muovere al bene : dione insomma dove deve
dirigersi- la buo- na intenzione. In coerenza colle dottrine da lui
professate, •il Maestro pone la regola delle azioni umane nella
legge divina : perciò il peccato consiste in una infrazione alla
legge divina (1). (Sent. II, XXXV, 1) « Peocatum est omne dictum
vel factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid est
ipeccatum nisi legis divanae praevaricatio? ». (1) n
Lombardo ammette altresì una legge naturale, lex natu^ raliSj la quale
ebbero anche i Gentili, ma questa non basta a con- durre a
salvamento. Ili Nofli è qui il luogo di indicare
il difetto originale d una tale dottrina che nel porre fuori di noi la
legge del nostro operare, si condanna alla, contraddizione. Mi basterà
ri- coirdare che essa si presenta assai più sviluppata in S. Tom-
maso, il quale pone innanzi iJ concetto aristotelico della ragione umana,
la quale è la natura dell'uomo in quanto è uomo: ondfe poiché ogni cosa è
buona quando è con- forme alla sua propria natura, ogni cosa sarà buona
ri- spetto airuomo quando sarà conforme alla ragione. Ma questa
stessa ragione e natura umana ripete il suo potere regolativo dalla
natura divina : « quod autem ratio umana sit regula voluntatis humanae,
ex qua eius bonitas mensu- retur, habet ex lege aeterrm quae est divina
». (Sum theol. II. 2.). In conclusione la filosofia
patristica e scolastica, si accorda nel porre il principio normativo
dell'operare u- mano fuori aeiruomo stesso, cioè nella sapienza
divina identica essenzialmente col suo volere. Bei}e ^
n)ale. Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che
tutto ciò che è, in quanto è, è bene : « Omne quod est, in quantum est,
est bonum » (Sent. II, XXXVI, 37). E poi- ché l3io é d'autor© di tutto
ciò che esiste Dio é rautore di ogni bene. (Seoit. I, XLVI,
12) (Deus) omnium quae sunt auctor est, quae in quantum siuiif bona
sunt. Ma non viieme di conseguenza che Dio sia l'autore an-
che del male, giacché il Lombardo come tutti gli Sco- lastici, concepisce
il male come gualche cosa di propria- mente negativo, cioè come la
privazione o la corruzione del bene. (Sent. II, XXXIV, 4) «
Malum enim est comiptio yel privatio boni... Quid enim aliud quod malum
dicitur nisi privatio boni?». Anche S. Agostino nel libro De
civitate Dei (XII, 7 Migne 41 p. 355) parla di causa deficiente e non
efficiente l Ì12 del cattivo
operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem cau- sani malae volunfalis: non
enim efficiens est, sed defl- ciens, quia nec illa effectio est sed
defeclio ». E di qui trae buon argomento il Maestro a
confutare l'obbiezione di eoJoro che insinuano che Dio essendo au-
tore di tutto ciò che esiste, deve essere altresì autore del
peccato. (Sent. I, XLVI, 12) « Quocirca mali auctor non ^t
(scil. deus) et ideo ipse summum bonum est, a quo ^n nullo delicere bonum
est, et malum est deflcere. Non est ergo causa deficiendi id' est
tendendi ad jion esse, qui, ut ita dicam, essendi causa est, quia omnTum
quae suoit, auctor est, quae in quantum sunt, bona sunt... Ecce
aperte habes quod deficere a deo... malum est ».
.).•,.-. ~._. 113 CAPITOLO
VI. LA DOTTRINA SCOLASTICA IN PIER LOMBARDO E DANTE
L.oiT7bardo nel cielo del 5oIe. Entrato €on
Beatrice nella sfera del sole Dante, ap- preoide diairanima di S. Tommaso
chi essa sia e chi siano i fulgor vivi e vincenti Sella sua
ghirlanda. Se si di tutti gli altri esser vuoi certo, Di
retro al mio parlar ten vien col viso * Girando su per lo beato
serto, QuelValtro fiammeggiare esce dal riso Di Graziano, che
Vano e l'altro foro Alutò si che piace in Paradiso. L'altro
ch'appresso adorna il nostro coro Quel Pietro fu che con la
poverella Offerse a Santa Chiesa suo tesoro {Par, X, 100,
108;. Qui Francesco Buti commenta : con la poverella offerse
fece la sua offerta della sua fa- cilità, come la po-verella della quale
dice rEvangelio di Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva,
ma con buon cuore e peirò Iddio accettò più la sua offerta che
quella del ricco, che, benché offerisse molto, non offerse con si buono
animo (1). (1) Commento di Francesco Buti sopra la Divina
Commedia per cura di C. Giannini Pisa 1858. 114
I più dei oammentatapi ricordano le prime parole del prologo del
Liber Sententiarum : « Cupientas aJiquid de penuria a-c temiitate
nostra cum paupercula in gazophilacium Domini miUere ardua scandere
et opus supra vires nostras praesumpsimus». Le parole di Pier
Lombardo chiaramente fidludono al noto episodio della poverella,
riportato da San Luca (XXI, 1, 4) e da S. Marco (XII, 41, 44) e nooi da
San Giovanni come erroneamente riferisce il Buli. Dice San
Luca: « Respiciens autem vidit eos, qui mittebant munera sua
in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam vi- duam pauperculam
mittenlem aera minuta duo. Et dixit: Vero dico vobis, quia vidua haec
pauper, plus quam omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia siti
miserunt in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi,
omoiem victum suum quem habuit misit ». Così ad un dispreeso
racconta San Marco con leggere vananti : solo è da notarsi che egli
chiama la donna uidua una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col
diminu- tivo tanto affettuoso di paupercula che per essera stJ^lo
scelto da Pier Lombardo fa pensare ch'egli si sia riferito in special
modo al passo di San Luca della Volgata. Ma ciò poco importa :
importa invece assai il notare come l'umiltà della vidua paupercula
avesse toccato «pro- fondamente il cuore di Pier Lombardo il quale nel
vergare quelle parole doveva forse ricordarsi con teneirezzìa di
un'altra vedova poverella di un lontano paese di Lombar- dia : e come
Dante che nei veirsi che dedicava ai persooiaggi della sua^ Commedia
soleva «per lo più introduirre Tele- mento soggettivo dei ricordi ed
affetti personali non senza ragione ricordò quel punto e quello solo
dell'opera di Pier Lombardo. L'influenza che il ma^fister
Petrus esercitò sul pen- siero del Divino Poeta non è stata ancora tutta
quanta spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11 tkeologus .
Dantes nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il posto d'onore che
gli conviene, ma a San Tommaso com- mentatore di Pier Lombardo. Se Dante
e San Tommaso non si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti
a poca distanza di tempo e sono entrambi commentatori e
perfezionatori dell'opera ancora rozza si ma feconda di Pier Lombardo :
l'uno raggiunge finalmente colla sua ma- 115
unifica somima quel connubium fidei ac rationis che il Magister
aveva solo tentato, Taltro ina canta il trionfo glo-rioso.
Che Dante avesse letto il Rbro delle Sentenze con mollo amore ci è
provato non solo dai versi succitati, ma da numeirosi passi del Paradiso
ove come diremo tosto rimitaziione risulta evidente : ed io sarei anche
propenso a credere che rAlighieri non si fosse Termato alla lettura
di quel libro solo ed a tutti noto di Pier Lombardo. Qui sono
tratto ad accennare fuggevolmente alla famosa questione del viaggio di
Dante a Parigi : questione ove troppo, eletti ingegni si cimentarono
perchè io presu- ma di recare qualche nuovo raggio di luce.
Dante zill'Uoiversiià di Parigi. Giovanni di Serra
valle comme«ntatore del secolo XV racconta : « Anagogico
dilexit Theojogiam sacram, in qua diu studuit tam in Oxoniis in regno
Angliae quam Parisius in regno Franciae : et fuit Bachalarius in
Universitate Pa- risiensi in qua legit Senlentias prò forma magisterii :
legit Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut moris est, et fecit
omines actus qui fieri debent per doctorandum in Sacra Theologia ».
Egli continua poi a dire che Dante non potè ottenere la laurea
perchè gli mancò il denaro per la licenza (deerat pecunia). Onde tornò in
Firenze per acquistarlo, optimus artista, perfectus Theologus e quivi
fatto «priore si diede ai pubblici uffici e più non si curò della
Università diPa- rigi (1). ,^ Il (racconto di Giovainni di Serravalle
fu accolto dairO- zanam e dairArriviabene con maggior serietà che mm
me- (1) G. TiBABOSOBi — storia della leti. Hai. Modena 1789
Tom. V. p. 490 - Fratria F. de Serravalle Translatio et comentum totius
libri Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da Colle, nunc
primum edito — Prati 1891 - (Jiachetti in fol.
116 ritasse. Secondo un tale» racconto Dante sarebbe andato
a Parigi nella sua giovinezza contro raffestazione del Vil- lani,
del Boccaccio, di Benvenuto da Imola che fanno il viaggio degli ultimi
anni. Ed il chiaro professor Cipolla osserva che è appena credibile che
Dante fossei in cpiel tempo cosi spirovviiyto di credito da non potere
ottenere la somma che gli era necessaria : onde giudica il racconto
di poca probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il rac- conto appare
manifesta quando un poco si pensi al modo come era organizzata la facoltà
teologica di Parigi ai tempi di Dante. Il buon vescovo di
Fermo volendo mostrarsi molto ap- profondito nella conoscenza dei gjradi
accademici com- mette degli errori grossolani : et fuit Bacchalarius in
Uni- versitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma Ma-
gisterii: legit Biblia ». Ma si è veduto nella parte storica del
lavoro che Tanno in cui il baccelliere éiventsiV aSententiarius
cioè commentava in pubblico il libro delle Sentenze non pre-
cedeva, ma seguiva la spiegazione della Sacra scrittura: dopo quell'anno
il baccelliere si chiamava baccalaureus forrnatus che risponderebbe mutatis
mutandis al nostro laureando. Perciò Giovanni di Serravalle per essere
esatto come vuol parerlo, avrebbe dovuto invertire l'ordine delle
parole. Ma non vogliaino essere molto esigenti su ciò: c'è ben
altro. Gli omnes aclus qui fieri dehent per doctorandum in
sacra Theologia (1) erano e forse Giovanni di Serra- valle lo ignorava, i
sermoni (sermones) e le conferenze (controversia^) che si dovevano tenere
nei .tre o quattro anni che precedevano la licenza ed infine le tre
dispute pubbliche di cui la più solenne veniva chiamata Sorbonica:
ma la licenzia (licentia) che veniva dopo tali prove accor- data e che il
Serravallei chiama con termini vaghi inceptio, conventus^ non esigeva
alcuna pecunia di sorta. (1) Il SerravaUe e tutti i
Commentatori si riferivano aU' accenno Dantesco; si come il
baccelUer s'arma e non paria, fin che il maestro la question
propone, per approvaria e non per terminarla. Par. XXIV 46 -
i8, 117 Infatti già il concilio Lateranense del
1179 aveva proclamato due punti fondamentali : la necessità e la
gra- tuità della licenza ed un tale decreto trovò po'sto nelle De-
finire di Gregorio' IX. Solo per eccezione fu eoncess^o sul finire del
Xll a Pietro Comestore, cancellario di Nótre Dameij per i suoi pregi
personali, da Alessandro III, di pre- levare uoiia piccola rimunerazione
per la concessione della licenza. Ed ancora il Regolamento di
Roberto di Courcon del 1215 insisteva sulla concessione gratuita ed
ìncondiziomita della licenza : ed una tale disposizione veniva conifermata
nelle reigole aggiunte dal papa Gregorio II di cui cono- sciamo il
benefico intervento nei dissensi tra rUniversità ed di Re di Francia.
Nella famosa bolla Parens scientia- rum (1231) viene prescritto
formalmente « che il cancel- liere non potrà esigere da coloro ai quali
conferirà la li- cenza né giunamento, né obbedienza, né denaro, né
cau- zione, né promessa ». Ora è noto a tutti che lo statuto
di Roberto di Courcon confermato e completato dalla bolla di Gregorio IX,
la quale fu pure rinnovata senza modificazione da Urbano IV nel
1261, continuò ad essere per tutto il secolo XIII 'a legge fondamentale
deirUniversità e pertanto della facoltà teologica di Parigi.
Per il che sembra a me che il fondo storico del rac- conto di
Giovanni di Serravalle venga a mancare sempre più di consistenza.
Carlo Cipolla nel suo dotto ìavaro Sigieri nella Divi- na Commedia,
dopo avere ossei-vato che il Sigieri ricor- dato tra i beati del canto X
deve ritenersi come Sigieri di Brabante, e non va identificato col
Sigieri de Conrtrai {Le Clero) visisuto in epoca diversa, e neppure con
quello di cui si iparla nel sonetto del Fiore (Castets) avverso a
San Tommaso, crede probabile, che Dante fn a Parigi negli ultimi
anni di sua vita ed airincirca negli anni 1316-1318 e non vi ascoltò le
lezioni di Sigieri di Brabante perché questi era morto avanti il 1300
(1). L'abate Feret tornando su questa questione nel volu- me
II deiropera cit. (cap. Les Sorbonnistes) crede errat-ì così, l'opinione
del Le Clerc che del Castets, combatte ^e (1) Giornale
storico den« Lett. It. Voi. Vili — Torino LoescUer 1886 p. 54 -
139, 118 asserzioni di Gaston Paris, ed
airiimesso che il Sigieri di Dante è il Sigieri di Brabante che quitla
cette vie en repu- tation d'une orthodoxie parfaite, non si discosta
mollo dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra di mion
conoscere (1). Questo sembrerebbe coaidurci assai fuori del nostro
ar- gomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla a questo
proposito della partecipazione dell'Alighieri alle lezioni dd Sigieri non
mi facesse tosto ritornarvi. Egli afferma che « per ciò che
riguarda Sigieri, altro è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo
personale, ed altro è credere che questo ricordo personale sia tale
dav- vero da comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri alla
scuola di quel filosofo. Alle scuole di Parigi i libri del Sigieri eratno
rimasti auasi come lesti agli scolari, tanta Sama le sue lezioni vi
avevano lasciato ». Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io
ag- giungerò che oer spiegare la profonda conoscenza che Dante ebbe
del Libro delle sentenze, non è necessario di credere col Serravalle che
Damle abbia commentato le sen- tenze nella scuola di Teologia perchè lo
studio che in quei tempi se ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e
che già aveva provocato i lamenti di Ruggero Bacone, certo potevano
non poco contribuire a farglielo conoscer© più in là del frontìsipizio e
del prologo. Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama
vi conobbe Pier Lombardo ed entrambi egli ricordò con par- ticolar
cura nei suoi versi ove palpita un affetto personale.
Influen2nL di Pier Lorpb^rdo nell'Operai di Dante* Ma
se poca o nessuna influenza ebbe la filosofìa di Sigieri neiropera di
Dante, molta invece ne ebbe in quella di Pier Lombardo. Un
esempio: Speme dissHo, è un attender certo Della gloria
futura, il qual produce Grazia divina e precedente merlo.
{Par, VI 67, 69) (1) P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de Paris
- Ricarcl 1898 Tom, II. Parte II. 119
Pietro di Dante, TOttimo, la Chiosa Cassanese, ricor- dano la
definizione di Pier Lombardo: «est spes certa exjeiotatio futurae
beatitudinis veniens ex Dei gralia et mentis praecedentibus ». (Lib. Seni.
IH. dist. 26). Iacopo della Lama, rÀnonimo rioooimno assai
meno opportunamente a San Toit^màso: spes est motus appe- Wiiae
virtutis consequens apprehensione boni fulnri ad- nui possibilis adiptsci
». Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti luoghi
ove il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aqui- nale, o meglio dire
ove cosi San Tommaso come Dante attingono -alla medesima fonte: Pier
Lombardo. Qui si ha una traduzione letterale delle parole del Maestro che
appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più fi- losofica. Ma non è
questo il solo punto ove un tale raf- fronto è possibile. Fu
uno dei più assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni, a far notare la ^ainde
importanza che ebbe il libro del Maestro nel pensiero di Dante.
JNella prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare ri884),
accennando a Pier Lombardo della cui opera si giova Tespositore dei salmi
di quella Bibbia, promise di occuparsene : « In un altro mio scritto dove
avrò Taiuto di un teologo profondo, e mio buon amico, farò il
confronto tra le «proposizioni teologiche della Divina Commedia e
quelle dei libri delle Sentenze: ed il lettore vedrà che le prime non
sono altro che Tespressione poetica delle secon- de, fedelissima e latta
con invidiabile precisione ». Di- sgraziatamente il Negroni occupato in
altri lavori, non potè adempiere .alla sua promessa, ma dando esempio
dì larghezza d'animo, consigliò ed aiutò Tamico suo C. Car- bone,
(P. Michele da Carbonara), poi prefetto Apostolico deirÉritrea, nell'opera
a cui egH non poteva attendere, e ne promosse la pubblicazione. Nel 1890
Frate Michele da Carbonara pubblicò infatti Slcuni Studi Danteschi (1)
e (1) Tortona Tip. A. Rossi 1890 — Stttdi Danteschi Voi I.
Dante e S. Francesco ~ Voi II. Dante e San Bonaventura. Nella
Biblioteca Negroni si trovano nel carteggio privato le lettere che il
Carbone indirizzava a Carlo Negroni piene d'erudizione e di affetto per
l'illustre amico. Trov.ansi pure tra i copiosi ms. due fa- scicoli; n.
26: Pier L. nel Paradiso; n. 27: Appunti Danteschi. Essi contengono
citazioni, note erudite che il Negroni veniva man mano scrivendo. La
malattia e la morte tolsero il modesto studioso e gene- roso filantropo
aUa tranquilla ed utile sua operositét letterarii^.
120 nel volume I. dedicato al Neuroni, prese in esame» il
I\' Libro delle Sentenze collo studio: Dante e Pier Lombardo.
Questo appunto- che è il migliore ed il più originale, entrò poco dopo
inella collezione di opuscoli inediti e rari diretta da G. L. Passerini
(N. 44-45) per cura di Rocco Murari. In esso il Carbone che si limita
«all'esame delle distinzioni 43-49 del IV. delle Sentenze, conclude che
il seme che è nel libro delle Sentenze di Pier Lombardo mostra i
suoi fiori ed i suoi frutti ini Dante. Nella tornata del 19
Aprile 1891 airAccademia Ponta- niana, il socio residente Alberto Agresti
le^e una memo- ria dal titolo: Eva in Dante ed in Pier Lombardo (1)
ed anch'egli ricordò a proposito di questi studi, Tamico Ne- groni
e lo studio di frate Michele da Carbonara. Ponendo a raffronto i
passi danteschi ove vien citala Eva (tacendo di tre che non danno alcun
^udizio della sua colpa : (Purg. e. Vili v. 99 - C. XXIV, v. 116 - C.
XXX V. 52) uno comune con Adamo (Purg. 6. XXVIII, v. 142); gli
altri (Purg. e. XII, v. 70; Par. e. XIII, v. 37; Purg. e. XXIX, V. 23;
Purg. ò. XXXII, v. '2), ove si dà un giu- dizio sfavorevole di Eva ed il
passo del De-Viilgari Eloquio ove Dante chiama Eva praesumptuosissimam),
cerca da quali letture Dante ricavò il severo giudizio. Combatte
To- •pinione di V. Imbriani, (Studi danteschi. Firenze, Sansoni p.
42) che coIFesempio del Boccaccio vuol dimostrare 'i& scarsa
erudizione teologica di Dante. Nella testimonianza di San Tommaso {Summa,
P. II, 29-153) Isidoro {Sentent, l^ib. II. e. XVII), Sant'Anselmo {De
pec-orig. e. 9), Ugo da S. Vittore, San Bonaventura non trova la ragione
delli eccessiva severità deirAlighieri, bemsì in Pier Lombardo
(Lib. II. dist. 22) che così si esprime: « Adamo non istimò vero
ciò che il diavolo aveva sug- gerito; stimò di peccare in maniera da
esserne perdonato. Forse come vide che la donna, gustato il frutto, non
era peranco morta, prevaricò e volle ainch^'egli fare esperimen- to
del legno proibito. Più però Ta donna, perchè volle usurpare
l'eguaglianza della divinità e levata in superbia nimia vraesumptione^
credette così doversi avverare. Adamo non volle contristare la
donna, ma certo non vinto da carnale concupiscenza, non sentila peranco
in (1) Napoli, Tip. della R. Università 1891,
121 lui, ma per una certa amichevole heoievotenza per la
quale il più delle volte avviene che si offende Dio per non of-
fender l'amico. In un certo modo Adamo fu anch'egli de- ceptus ! Nella
donn<a /fu majoris tumoris praesumptio : ella peccò in sé, nel
prossimo , in Dio : l'uomo solo ui sé ed in Dio ». E
l'Agresti finisce insomma col concludere che « stu- diare la D. Commedia
al lume dei libri delle Sentenze è tutto un lavoro nuovo che manca alla
letteratura dante- ca ». A me non resta che augurarmi che un tale
1' si compia e che una feconda curiosità subentri alla sterile
dilRdenza nelFaprire il libro di P. L. che Dante non certo per cura della
rima chiamava il suo tesoro. AGGIUNTA NECESSARIA:
I ìinyiìì dell'erudizione. Ristrettezza di
tempo mi ha impedito di dare, com'era mio desiderio, maggior svolgimento
a questi insufficienti cenni sull'influenza esercitata dal maestro delle
Sentenze sull'opera di Dante e non sulla Divina Commedia soltan-
to. Dell'utilità di una maggiore e più profonda conoscenza di tali
rapporti, è prov:a quanto si è venuto in questi anni scrivendo dagli
studiosii di Dante coll'intento in verità non sempre raggiunto di recar
"maggiore luce airinterpreta- zione' del poema dantesco.
Ancora in un recente fascicolo del Bollettino della Società
Dantesca Italiana (Settembre 1912) E. G. Par«odi m una dotta recensione
consacrata ad un apprezzato studio del prof. Surra su La conoscenza del
futuro e del pre- sente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio,
1911), si vale del confronto colla dottrina del Maestro delle Sen-
tenze per meglio chiarire i dubbi che le parole di Farinata non sciolgono
sul modo di conosceniza dei dannati. Contro la tesi del Surra, che
fortificandosi del concetto delFìrra- zionale nell'arte, ampiaonente
illustrato da G. Fracoaroli, 122 vuol chiudere
il passo ^ai diritti 3eireru3ìzioaie, il Pa^rodi dimostra, citando la 50*
Distinzione del IV delle Sentenze : Ve animabus damnatorum si qua habent
notitican eorum quae hic fiunt, come Tesposizione di Farinata cresce
d'im- portanza venendo a combaciare colla dotlrin<a professata
dal Maestro. Ed è certo che se la contraddizione non può essere evitata
dal pensiero umano, specie cpiando s'aderge sulle ali della poesia, tanto
in Dante come in Pier Lom- bardo, scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa
«preoccupazioaiei di sfug^rle colla cura più scrupolosa. Non
si può riconoscere tuttavia all'erudizione il dirit- to di andar troppo
oltre, specie nelle sue conclusioni, perchè Terudizioflie è alla poesia
come la ragione è alla fede, che il sapere medioevale riconosceva potene
illumi- nare senza spiegarla interamente. Se anche col
raffronto più minuto dei passi danteschi ooiropera del Lombardo (non
limitato alle Semtenze) noi potremo trovare nuove e curiose rispondenze
che ci dimo- streranno le fonti di sapere e d'inspirazione del Poeta
di- vino, dovremo limitarci a riconoscere nulla più che la materia
preziosa, ma informe trasportata e nobilitata dal- Fopera (in che è il
fatto nuovo) dello statuario. E\ per limitarmi ad un solo esempio,
notevole il modo onde mei Sermoni vengono disposti gli argomenti
morali che il Lombardo distilla da un qualunque versetto biblico:
sono quasi sempre tre i sensi che se ne ricadano ed il nu- mero 3 entra
con una particolare predilezione ìiell armo- nica e spesso sin troppo
misurata distribuzione delle parti nei suoi discorsi (1). Queste ed altre
minuzie di logica ar- (1) Tres igitur tortae pani8 tres sunt
modi dìvinam paginam in- telligendi Triplex igitar pani8 eat intellectus:
tropologicus, scilicet moralis vel historicus; mysticus, idest
allegoricus et anagogeticum Moralis mores componit, exhauriens malos et
confovens bonos; al- legorìcufl mentis acuit oculos ut mysterioram abdita
penetrare valeant; anagogeticus mentes super se effundit ut in voce
exulta- tionis et confessionis, constituto die, e condensis usque ad
domum Dei rapiatur; nam sicut allegoria alitar intellectus, ita anagoge
su- perior sermo vel sursum tendens interpretatur. Moralis, idest
tropo- logicus, est dulcior, historicus facilior, mysticus auctior.
Historicus insipientibus, moralis proficientibus, mxsticus perfìcientibus
congruit. Ms. lat. 3537 fol 73 - Sermone: Convertimini fili
revertentes . . fine inedita riportata da Haureau op. cit*
123 chitettura oasi caire a Pier Loonbardo, come si
avverte nello slesso Prologo delle Sentenze', do ve vaino esercitare
il loro influsso nel poeta della Vita Nuova e del Paradiso.
Ma non dal solo Pier Lombardo, bensì da tutta 'a scienza teologica,
Dante raccolse mei grande specchio ustorio della sua mente, la luce che
brilla nel suo divino Poema. Né possiamo comprendere come uno
studiotso deìlla coltura del prof. Amaduocd, possa restringere nel-
rarido opuscolo XXXII di San Pier Damiano, quasi l'unica tonte del poema
dantesco, lo schema dottrinale a cui Damte avrebbe informato, con
perfetta fusione della lettera col- l'allegoria^ la Commedia, e annunciare
seriamente che di- stinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e fermate
{num- sioni} deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato dalla
modesta fantasia di San Pier Damiano, verrà sostituito nell'esame del
poema ai fondamenti ipotetici, il fondamento scientifico, gli enigmi di
sei secoli, troveranno fàcile spie- gazione e sarà aperta la via ad una
nuova valutazione artistica (1). Ma tale via non Tha aperta
Dante stesso coU'opera sua? (1) Z/' opuscolo XXXII di
S, Pier Damiano fonte diretta della Divina Commedia? in Grùymaìe Dantesco
dir, da G. L. Passerini voi. XXI - Firenze, Dischi, 1911.
cfr. E. G. Parodi La fonte diretta della divina Commedia — in
Marzocco, Firenze XXI, 16. A questa trattazione epero far
seguire prosslntamefite un canltolo, su PIER LOMBARDO E LA SCUOLA
MEDIEVALE Ohe per l'economia dei presente iavoro non potè essere
inoluoo. INDICE Parte Prima — LA VITA E
LE OPERE Gap. 1. — Le origini oscure .... pag. 3 La nascita a
Lumellogno nei primi anni del sec. XII — L'ambiente nativo — Dipendenza
di Lmnel- il^gno dal Capitolo Novarese — Stato delle scuole
novaresi — Pier Lombardo fu allo studio Bolog^nese? Gap. il —
Nell'ombra del cammino . . pag. 25 Alla scuola di Leutaldo novarese a
Reims (1134?- 1136?) — « ParisiUiSi » — La « universitas schola-
rium' » — San Vittore (1136?-1140?) — Santa Geno- veffa
(1140?-1150?). Gap. III. — Nella luce della fam^i . . . pag.
44 La scuoia di Nòtre Dame (1150?-1159) — L'episco- pato
(1159-1160) — La morte (20 Lug'lio 1160) — La tomba di S. Marcello — Le
onoranze. — Gap. IV. — L'opera e la fortuna di Pier Lombardo
pag. 59 Le Sentenze — I « Sentenziarii » — I detrattori — Il
« tesoro » — Opere edite ed inedite — I Seamoni. Parte Seconda
— LA DOTTRINA FILOSOFICA E PEDAGOGICA Gap. I. —
Posizione di Pier Lombardo nella filosofia. .pag. 71 Metodo —
Religione e sciens&a. Cap. 11. — Problema metafisico e
conoscitivo pag. 8Ì Teoria degli universali — Teoria ctella oonoscenza.
Gap. 111. — Problema ontologico e cosmologico pag. 87 Sostanza ed
accidente — Natura e pefrsona — Ma- teria e forma -- Causalità — Spazio e
tempo — CosmoJKJgia — Posizione dell'uomo neirunàverso. Cap.
IV. — Problema psicologico . . . pag. 97 Potenzie dell' aiiim.a — Natura
dell'ajiima — Origine dell'anima — Relazione tra l'anima e il
corpo. Gap. V. — Problema morale .... pag. 105 Làbero
arbitrio — Feldcità — Moralità delle azioni umane — La legge morale —
Bene e mailie. Gap. vi. — Lm dottrina scolastica in Pier
Lombardo e Dante pag. 113 Pier Lo!ml>ardo nel cielo del
Sole — Dante adl'Uni- v-ersità di Parigi — Influenza di Pier
Loonbardo sull'opera di Dante — Aggiunta necesaaria: I limiti
dell'erudizione. ILLUSTRAZIONI 1. Ritratto di
Pier Lombardo dall'incisione del Thevet « Les vrais portraàts ecc.
» Paris, 1584 (tavola fuori testo). 2. Portico della Canonica
di Novara . . . pag. 20 da un'incisione delle « Monografìe Novanesi
» MigUo 1877. 3. Vene de la VUle de Paris du coté de Vlsle
N. Dame 1750 pag. 29 (antica incisione). A. N
ótre Dame de Paris, 1822 .... pag. 48 (antdca incisione).
YC 3I44T I Ifc,
/ > AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del
segno e del lin guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera
esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del
linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica
bisogna aspettare il Corso di lin guistica generale di Saussure, scritto
quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha
in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica,
come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in
esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra
cui il princi pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra
verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione
agostinia na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco
gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so prattutto medica e
mantica, consideravano propriamente segni (s�meia) solo i segni non
verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una
precedente feri ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella
categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne
militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio
parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò che significa qualche
cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9). 10.
1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano
individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il significante
(semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun que non
coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella singola
espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui
significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un segno di
qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che le
parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1
n triangolo semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con
l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De
dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di
distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice
distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di
significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox
articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio
quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1
(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al
/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la
res, che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o
con l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È
così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche
dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della
signifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione
terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente
di una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa
come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero
della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)
oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significante
e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come
avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di
dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (
198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e
quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione
stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por
tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici
antichi. 10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è
traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli
stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare
Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte
dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà
strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al tra.
Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come
portatrice di un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe
che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta
un sen so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e
nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che
quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo
all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce
decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La
parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere
compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come
"ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile,
presenta anche qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)"
(ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo
l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione
platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico,
prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per
Platone, infatti, il nome era d�/Oma, svelamento di qualcosa
che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre
nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto
iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino
tale rapporto ��- configura subito come una rela zione di significazione: il nomt
"significa" una cosa (nozio- 230 10. AGOSTINO ne equivalente a
quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino
propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune
modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In
effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto
tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come
una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere
epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente sul
linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico,
i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere
illustra ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c __________________ m_E:! c dove E indica
"espressione", C "contenuto", ::J "implica" e ==
"è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive
avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di
equivalenza. Caso mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è
costituita dali'u nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un
dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello
ii). 10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze
dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza dell'unificazione
agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro
varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti costituisce
un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei
segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si
ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma na.
Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere
l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua,
come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere
peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di
essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun
que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e
l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di
segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il
modello del segno lingui stico finirà per essere senz'altro il modello
semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure,
che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per dere il
carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri stallizzato nella forma
degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo
contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La
seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il
problema della fondazione della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 :
266 e sgg.). Fintanto ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era
conce pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente
responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce
un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole
sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di
cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione sernio- 232 10. AGOSTINO
tica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso,
senza ulteriori mediazioni, alla conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il
problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione
rispetto alla questione se il linguag gio fornisca o meno , di per se stesso ,
informazioni sulle co se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione
Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici
nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il
figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio:
(i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo rare), sia
propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente informative
e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del
destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del
dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella
informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le
parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza
che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del
dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua
prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in sieme
di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo caso è
quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno 10.5
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di
un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino
conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo
che è necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter
dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa
sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza
chiaramente platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di
marca ugual mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata
maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per
un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De
Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni
che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso
delle cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime
Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza
deriva dalla rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga
ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche
con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al
linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del
segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di
riferi mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo
, ci spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione
del verbo inte riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia
per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove
problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema
dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella
profondità dell'ani mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli
uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter 234 10.
AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che
si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte
Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non
appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un
segno quan do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio ne dei
destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una
parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso;
dall'altra esso è determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli
oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a
Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si
trovano qui gli embrioni del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà
nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia
rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia na, che è
individuabile anche nello schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42):
oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore -
esteriore - esteriore pensato proferito sa pere �
10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone
(1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet to
"teologico", connesso al problema del verbo divino, tut tavia
possiede anche un ben individuato e autonomo aspet to laico, che prende in
considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di
quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si
dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C., l . 2.
3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e
l'uso: segni naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni
naturali/segni conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico:
proprio/tra slato secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE
CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie
altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di
classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno : Todorov
lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto
articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra di loro
irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De
Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni
aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica
zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo
il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La
classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune
categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a
metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie
quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è
tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella
più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus,
Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti
nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba
militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,
quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res
intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES"
10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa"
La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo
sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce
tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti
anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res
che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa
nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone
1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che
non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i� legno,
la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente
dopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma
non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la
loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la
sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di
suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è
analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De
doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse
(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le
cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:
significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime
possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato i
rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel
De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il segno è una cosa (res) che, al di
là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista,
la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De doctr.
Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono
quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali, come il
flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla
tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito,
in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti,
hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei
pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare" (Dedoctr.
Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i
cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e
le insegne militari, le lettere. 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine
vengono presi in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come
l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il
sacramento dell'euca ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la
veste di Cri sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e
"signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente
integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione
che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza
intenzione, né desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre
a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I,
2). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni
facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli
definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece
maggiormente interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono
anche i segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli
che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per
quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i
segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in
questa classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno
quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo
crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli
animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e
come del resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367;
Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben
precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto
il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa
data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura
di que sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov
(1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto
semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni
intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione,
possono essere messi in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della
combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali,
ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai s�meia,
sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello
"istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia
agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi
lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat tutto nel De
Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che si avvicina
al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha rilevato
anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere
stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi;
attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite
astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende
possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale
del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno.
La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco
(1984: 34 e sgg.), verso un modello "istruzionale" della descrizione
semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce
insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet
urbe relinqui" (De Mag. , II, 3). Esso viene definito come composto di
otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato. l0.7 SEMIOSI
ILLIMITATA 241 L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri
me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che
non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo
stesso concetto. Si passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene
individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non
vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad
Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica:
lexl sa rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa
soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del
primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è
che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa
conclusione, pe rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua
decodifica contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a
qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude
nel verso virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa
che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni
negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è
un blocco (una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili
inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di
versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984:
34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei
contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che
sono comuni tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In
definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello
implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi
delle acquisizioni semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola
come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti
tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale)
. 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione
significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino
adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è
quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che
corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me "segno di
ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore"
(cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di
significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione
del cap. V da De dialectica: �Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti
conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo
per mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non
procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si
ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,
come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij (1975).
Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical
psychology in the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia
Grice: “It is strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like
‘a lad from shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full
regionIt’s different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for
Venice. But if Milano was the main ever settlement in Lombardia this would be
“Peter, the one from Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano –
Grice: “It’s only natural that he was Pietro Cardano – after the city in
Lombardy, Cardano – Plus, the implicature that he went by “Peter of Lombardy”
having been born in Piemonte, means that the locals never saw him as one of
their own!” -- Pietro Cardano – la
stirpe Cardano 1600 --. Familia patrizia di Novara. Pietro Cardano. Keywords: Cardano,
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775966110/in/dateposted-public/
Grice e
Cardia – il culto del laico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with a tweak –
Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the
roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking about!” –
Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call a
professore di filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures
of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of
vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be
unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a
focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought
the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life has
turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with noble
ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts. The
magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and physically
and has played an important part of life. Topped by a striking copper-clad
lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the Chapel provides
Christian calm, and forms a powerful link between past and present. It is a
place where the community come to mark milestones and celebrate successes, and
for quiet contemplation or spiritual guidance. Brass plates placed on the
back of the staff stalls mark the names of all those who have carved out a
reputation. High on the walls are memorials of pupils of another age who died
by accident or disease serving the Empire. One bears the moving epitaph ‘A good
life hath but few days but a good name endureth forever.’ The Chapel was built to a design by C. Hansom.
It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie.
Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of
Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is
licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol. Stato,
Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it)
settembre 2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto
ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di
Bari) Quale laicità * Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante
polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una
copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi
anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle
confessioni religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica
sono indicati nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé
naturalmente ma in quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica,
separatistica, fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre
ogni limite e di attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo
secoli di storia travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del
nuovo millennio ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente.
Questo carattere ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei
concordati”. Un fenomeno effettivamente impressionante, tanto più perché si
inserisce in un trend favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non
prendono le distanze neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione
allegata al trattato di Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation,
secondo le proposte della commissione governativa Machelon1. Da esso Cardia
deduce che lo stato è ormai amico delle religioni, che contribuisce attivamente
a sottrarre all’irrilevanza degli affari privati e a reimmettere nel circuito
pubblico, relegando l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della
memoria. * Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica,
multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202,
destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007.
1 Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, su Reset, n. 102/2007. Stato, Chiese e
pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre
2007 ISSN 1971- 8543 2 Dal quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”,
rinfocolate dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’
dell’epopea del passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi
li fa anche con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad
integrare le scuole private e confessionali nel sistema scolastico, ad
assicurare l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a
finanziare lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni.
L’agile sintesi storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente
a Cardia di avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più
propriamente “praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i
rinnovati contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle
preoccupazioni di altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide
suindicate. A cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione
spinta si presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il
“fascino discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti
personali, di medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una
relativizzazione della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam.
Ovviamente Cardia è severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può
invocare la laicità contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a
favore di quelli dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma
sarebbero ammessi il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del
paragone sono omogenei solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la
laicità non se portato addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento
dei cittadini (come il velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto
autoritativamente, cioè imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari.
In effetti, è tutta la seconda parte del libro a risentire di questa
drammatizzazione impressa ai vari scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un
sistema chiuso ad ogni interpretazione evolutiva, un’identità fissa e
immutabile, di qua una religione tollerante, aperta all’interpretazione
storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la quale in essa sarebbe
addirittura “germinata”. La schematizzazione diventa 2 Per esempio
a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto d’essere se stessi. Discorrendo
dell’idea di laicità. 3 Come quelli di G. ZAGREBELSKY, Lo stato e la
chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o di G.E. RUSCONI, Non
abusare di Dio. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista
telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 3 inevitabile.
In realtà, l’involuzione della seconda metà del XX secolo, a parte i fanatismi
e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le numerose voci laiche dell’islam
moderno4 né, a livello istituzionale, ad annullare, pur frenandola,
l’applicazione negli stati islamici di una legge non religiosa, il kanun, “nel
senso laico di ‘legge di stato’ (…) in contrapposizione alla sharī ‘a” 5.
D’altro canto, bisogna riconoscere che abbiamo tutti sovracaricato il detto
evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo” di un significato
improprio e anacronistico, in termini appunto di laicità, che nessun biblista
ha mai potuto avallare (vorrei ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci
ha lasciato pochi mesi fa: nel suo La laicità del credente non cita mai il
versetto di Matteo). Storicamente poi, anche a voler retrodatare – seguendo
Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla lotta delle investiture l’inizio del
processo di secolarizzazione, non v’è dubbio che per secoli la chiesa ha
sostenuto la supremazia del potere spirituale ratione peccati o salutis anche
nella sfera mondana. E al giorno d’oggi la più netta distinzione degli ordini
formulata dal Concilio non sta impedendo il tentativo di informare la
legislazione italiana al magistero ecclesiastico: è la chiesa dei no alla
procreazione medica assistita (divieto dell’eterologa, della diagnosi
preimpianto dell’embrione), al testamento biologico, visto come anticamera di
pratiche eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili in qualsiasi
forma (pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla Camera) al
richiamo del principio di laicità come fondamento di una legge sulla libertà di
religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche Cardia indulge su
questi punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e contro il
relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero
laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è
evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità. Tanto
rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi
o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen
Habermas7 - “quale ruolo e significato i fondamenti giuridici
secolarizzati della costituzione possono avere per una società 4
Cfr. l’antologia di P. BRANCA e quelle più recenti di V. COLOMBO. 5 Così
ne Il linguaggio politico dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel
libro. 6 Cfr. E.-W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. 7 Cfr.
J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. Stato, Chiese e pluralismo
confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN
1971- 8543 4 postsecolare”, come la nostra. In una democrazia necessariamente
relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica non sarebbe democrazia,
insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di supremazia ma di compatibilità,
espressive di una vocazione non paternalistica, ma responsabilizzante, nei
rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri educandi, da guidare nelle
scelte etiche in base a valori esterni, ma come persone responsabili delle loro
scelte nella propria autonomia e capaci di mediarle alla ricerca di quella
“giusta”8. Una laicità pluralistica e perciò non espressiva di una sola cultura
ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried
Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia stimola ad intraprendere questo
percorso di riflessione, non vengono da una parte sola. 8 In questo
senso rilegge il da mi factum, dabo tibi ius S. RODOTÀ, La vita e le regole.
9 Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e diritto penale. LA LAICITA’ IN
ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi cattolici, 9 dicembre 2006) Sommario.
Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione. 2. Laicismo,
intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al
modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità
ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. 6. Laicità e
multiculturalismo. Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione
soffermarmi sulle problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché
sono diverse e complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche
riflessione storica che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo
di fronte nel tempo presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di
spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione.
Ho avvertito questa esigenza perché l’esperienza italiana ha un tratto
caratteristico che non si rinviene altrove, avendo dato vita nello spazio di
poco più di un secolo a tre tipologie diverse di relazioni ecclesiastiche: una
laico-separatista, una di tipo concordatario neo-confessionista, e quella
costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di una Europa che ha finito per
seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta vivendo una vera crisi della
laicità, in rapporto alla questione etica, e al multiculturalismo, ed è entrata
in quella globalizzazione dei rapporti tra religione e società che riguarda
l’Occidente nel suo complesso. Quindi, l’esperienza italiana non è
comprensibile all’interno di un solo orizzonte storico-culturale, mentre
l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper individuare delle linee
trasversali di riflessione, dei fili conduttori che chiariscano il percorso
storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in Italia tra conflitto e
moderazione Il primo filo conduttore che voglio privilegiare è il rapporto che
si è determinato tra conflitto e moderazione, tra correnti estreme del pensiero
laico, e di quello cattolico, e soluzioni storico- 2 normative che sono state
adottate. La storiografia più accreditata ci ha abituati a interpretare questo
rapporto a tutto favore della conflittualità e a discapito della moderazione.
Ancora oggi il conflitto tra Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente
della storia italiana, il punto focale che illumina tutto il resto. Il processo
di unificazione nazionale viene letto alla luce del contrasto tra laici e
cattolici, della fine del potere temporale, della prevalenza della
modernizzazione sul conservatorismo cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà
vita ai Patti Lateranensi è vista in chiave di rivincita cattolica e di
sconfitta laica, come un rovesciamento di fronte rispetto all’epoca liberale.
Questa interpretazione resta valida perché permette di capire tante pagine della
nostra storia nazionale, ma può essere integrata con un’altra chiave di lettura
che aiuti a vedere anche i chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia
italiana. Questa chiave di lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio
che, pur nelle vicende aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana.
L’Italia è stata moderata ed equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema
concordatario del 1929, in modo speciale nella elaborazione della Costituzione.
Quando parlo di moderazione non intendo esaltare il carattere per così dire
compromissorio generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad
un dato realmente presente nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura
laica e di quella cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la storia e
l’evoluzione della laicità in Italia. La moderazione del periodo separatista si
manifesta in tanti modi, ma nell’insieme consente all’Italia di operare un
sottile, solido compromesso con l’anima cattolica del paese su punti
essenziali, ed evita l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure
esistono in esponenti della classe dirigente liberale. In Italia non si afferma
mai l’idea della reformatio ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato.
L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è parte integrante del pensiero
laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento, ma da noi non si trovano
tracce significative di quel disegno (tipicamente transalpino) che mira alla
costituzione civile del clero, a stravolgere le strutture ecclesiastiche, a creare
una chiesa nazionale quieta e obbediente al potere civile. La struttura della
Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti, l’educazione e la disciplina del
clero, non subiscono ingerenze o stravolgimenti diretti a modificarne la
natura. Nel dibattito sulle Facoltà di teologia è il ministro Correnti che
respinge le tentazioni giurisdizionaliste e afferma che lo Stato non ha “né
interesse, né volontà, né facoltà di creare teologi”, che l’evoluzione della
religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa troverà in sé stessa, e solo in
se stessa può trovare, la volontà e la forza di ravvicinarsi” alla modernità.
L’unico intervento chirurgico è quello che sopprime le corporazioni e le
congregazioni religiose. Ma anche in questo intervento, che storicamente si giustifica
con la necessità di ridistribuire la grande proprietà ecclesiastica, non
mancano i segni di moderazione, se vogliamo della dissimulazione. Come quando
le comunità religiose si ricostituiscono progressivamente al riparo delle c.d.
frodi pie, che consentono l’utilizzazioni di proprietà immobiliari messe a
disposizione da veri prestanome. Comunque, a nessuno in Italia è mai venuto in
mente di adottare leggi draconiane come quelle transalpine del 1901 e 1902, la
prima che vieta alle congregazioni religiose non riconosciute l’insegnamento,
la seconda che prevede multa e carcere per chi apra una scuola nella quale
insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il problema della scuola, perché su
questo terreno si opera il più grande compromesso italiano, sul quale storici e
giuristi si soffermano poco. Alla laicizzazione della scuola italiana, con la
Legge Casati del 1859, non segue la cancellazione della presenza cattolica nel
corpo scolastico pubblico. Se l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole
superiori, rimane però in quelle elementari. La Legge Coppino del 1877 non dice
nulla al 3 riguardo, e questo silenzio, con l’aiuto del Consiglio di
Stato, consente di mantenere l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco
Scaduto, viene attivato da quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla
totalità delle famiglie italiane. Neanche si può dire che la questione passi
sotto silenzio, perché un Regolamento del 1908 conferma l’insegnamento
religioso, e la Camera respinge nello stesso anno una mozione di Bissolati che
chiede di vietare ogni presenza religiosa nelle scuole. Molto chiaramente
Minghetti compara gli inconvenienti di una scuola che preveda l’insegnamento
religioso a quelli di una scuola che lo esclude, e afferma che “i primi saranno
sempre minori di quelli di una scuola che dovrebbe essere popolare, ma che
senza Dio ripugna alla coscienza popolare e addiviene atta a soddisfare
soltanto una piccola minoranza”. Si può dire che è poco, invece è moltissimo,
perché la scuola elementare è l’unica vera scuola di massa dell’epoca. Per
questa ragione l’Italia separatista ha operato le grandi riforme della
modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di fondo tra il sentire comune
della popolazione e una legislazione non aggressiva e non punitiva. E’ l’Italia
laica e separatista che affida ai maestri e alle maestrine della letteratura
dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma importanti valori religiosi
e morali nelle nuove generazioni. 2. Laicismo, intransigenza cattolica,
isolamento culturale L’elogio della moderazione non deve fare aggio sull’altro
fattore endemico dell’esperienza italiana, su quella arretratezza che, in modo
diverso, caratterizza alcuni settori della cultura laica, e della cultura
cattolica, e che provoca per lungo tempo un isolamento rispetto ad altre più
avanzate esperienze europee e alla cultura anglosassone, cioè rispetto al resto
del mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che animano la cultura politica,
danno vita al pensiero più autenticamente anticlericale, rendono la laicità
ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena
la capacità di iniziativa dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita
politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza
cattolica e correnti laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in
Italia condiziona a lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste
tendenze immette nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in
tanto. Il laicismo estremo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che
anche da noi come in Francia e in Spagna, laicità voglia dire tante cose
negative: estraniazione della religione dalla società e dalla dimensione
pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il liberalismo sia altrove il
difensore del pluralismo scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito
puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto
a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da
noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio riferimento alle
tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di matrice ottocentesca
che alle correnti culturali di grande dignità che da Spaventa a Bissolati
rivivono poi in Gaetano Salvemini e in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad
una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul piano civile
e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo del 1929 tra Chiesa e
fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra la
cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo
piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli. Anche 4
l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce
a tratti di cogliere le trasformazioni della società, di discernere gli aspetti
positivi dalle spinte disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che
potrebbero essere evitate. La critica più autentica a questo corto circuito non
è diretta alle singole posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da
lì è derivato un certo isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto
ad altre esperienze europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della
Germania, dove già nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione
e società. Una conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra
esperienza italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si
richiamano, senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che
pure conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e
soltanto la parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di
rispetto e di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa
lontananza della cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone
su un particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il
liberalismo italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per
seguire un indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito
di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale
Domenico Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la
libertà di insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo
medesimo, dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti
naturali”. E’ Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera
ragione della contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i
paladini” del libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della
“libertà del papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol
dire favorire la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce
che il vero liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo
liberalismo non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma,
al liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3.
Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia,
però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le
asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di
Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e
che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo
problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla
storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto
di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo
dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia,
pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un
elemento equilibratore nel periodo separatista, nel 1929 con la stipulazione dei
Patti Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione
democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la
presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe
dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti
Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il
lavoro che ha 5 portato alla formulazione del disegno costituzionale
complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe
dirigente liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle
Guarentigie che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica
europea, e, dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto
il mondo, si rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità
del separatismo. Anche nel 1929, quando il Concordato ferisce duramente la
laicità e la cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione
romana stempera il valore politico del patto con il fascismo. Non a caso il
giudizio delle forze politiche antifasciste sui Patti Lateranensi si presenta
come scisso in due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti
dell’accordo politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e
accogliente nei confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Benedetto
Croce approva la soluzione della questione romana, riservando le sue critiche
al Concordato. Ma anche Gaetano Salvemini, durissimo con il Concordato,
riconosce che la questione romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è
stato fatto nel 1929 avrebbero dovuto farlo i liberali nel 1871. Infine, i
programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la guerra in vista
della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler rimettere in
discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa dire che,
senza una questione romana risolta in quel modo nel 1929, forse non avremmo
avuto quel tipo di rapporti con la Chiesa che l’Italia ha elaborato nel 1946-47
e che ha saputo anticipare un modello oggi utilizzato in un numero
considerevole di Paesi europei. Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo
democratico e la maggioranza della cultura laica, l’Italia trova il modo di
abbandonare un certo provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo,
supera quel corto circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del
costituente non sono riconducibili al solo articolo 7, quanto alla maturazione
di una laicità che è destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato
laico sociale che diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la
fine dei totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il
meglio della tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove
il laicismo è superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo
sociale della religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra
religione e società, si conferma e si estende il metodo della contrattazione e
dell’incontro, tra Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per
il quale nessun culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo
impedirebbero le differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del
Novecento questo Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano
più i concordati tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non
si contano più intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose,
protestanti, ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni
ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla
Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà
religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese
come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle
confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia
verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca
integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che ormai
in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto in
Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese
ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti. 6 4. La crisi
della laicità. Laicità ed etica La laicità, invece, torna di attualità e vive
una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli, su terreni nuovi e in
editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si tratta di fenomeni
molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un uso indebito, quasi
una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel secondo assistiamo ad un
pericoloso arretramento dei valori più intimi dello Stato laico. Non entro nel
merito del rapporto tra etica e diritto. Non è oggetto della mia relazione, non
è possibile neanche sfiorarlo nella sua complessità. La mia attenzione è più
ristretta, riguarda il rapporto che esisterebbe tra laicità ed etica nel
momento in cui un ordinamento è chiamato a pronunciarsi su questioni decisive
per la collettività, come la famiglia, l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e
via di seguito. Alcune elaborazione teoriche danno per scontato che il
pluralismo etico non è che un altro aspetto del pluralismo religioso, e “come
oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni religiose (…), così dobbiamo
riconoscere le varie moralità che affiancano o sostituiscono la fede
religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella religione non si dà verità
oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo Stato deve accettare tutte
le convinzioni e le scelte che si contendono il campo. Questa similitudine tra
religione ed etica è accattivante, ma nasconde un’insidia dialettica. In primo
luogo perché la neutralità dello Stato riguarda le convinzioni religiose, la
sfera più intima della spiritualità e della coscienza, non i comportamenti
delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono gli altri. In questa materia
la legge non pretende mai di definire qual è la verità, ma sceglie sulla base
di valori che hanno una loro validità nel tempo, nella struttura sociale nella
quale si incarnano, e che possono dar vita a equilibri diversi tra etica e
diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto che una neutralità dello Stato
estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla paralisi del legislatore e allo
svuotamento della funzione della legge. L’ordinamento non si interesserebbe più
della procreazione, dei doveri verso i figli, non potrebbe più disciplinare il
matrimonio, dovrebbe consentire tutto in materia di bioetica. Uno Stato eticamente
neutrale dovrebbe disporre il “rompete le righe” e preoccuparsi solo di
regolare il traffico delle attività sociali. C’è, poi, un corollario di questa
impostazione che viene utilizzato frequentemente. Si tratta di quel ritornello
che in Italia viene ripetuto spesso, secondo il quale in queste materie lo
Stato deve permettere, non proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno,
ma se proibisce impedisce a qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza
l’eutanasia non obbliga nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di
scegliere un’altra opzione. Se permette la fecondazione eterologa, non la
impone, ma se la nega erode spazi all’autonomia individuale. Io credo che ci
troviamo di fronte ad un uso improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se
applicata coerentemente, questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si
sentirebbero di sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana,
perché una legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare
cellule e individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i
propri convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per
determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore
della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a
queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale.
Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere
positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre ibridi
di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa 7 pratica non si
impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe
la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti
sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla
chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non
sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono
essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari,
meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora
riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione
riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del
convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel
tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In
questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per
quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica.
Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la
strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune
posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori
convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi
una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica
L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo,
perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande
rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto
accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle
popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio
se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società
antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le
prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte
riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo
islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze,
che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi
sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica
sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il
multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della
laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio
che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra
vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed
eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano
slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico
alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono
che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle
Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni
della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica
suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore
e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si
reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se
vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per
offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non costituiscono
istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio è di
competenza della cronaca nera. 8 Se in un paese europeo si discute su
temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come
espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini,
avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione
islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla
morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di
arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun
grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo
particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile.
Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere
effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che
discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un
tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie,
alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare
la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si
nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi
separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o
gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via
di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla
Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di
introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la
ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre
corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione
(peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della
poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al
discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo
soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha
sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno
mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce,
violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla
nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le
idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro
possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una
parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere
le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si
aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo,
e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per
criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità,
per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre
religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura
liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica
illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo
fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre
società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra
religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli
interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su
un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato
nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una
sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della laicità
come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito paradossale: ad
una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni tradizionali e ad un
multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre religioni e tradizioni.
Sarebbe la fine della neutralità dello Stato. 9 6. Laicità e
multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per meglio capire i rischi
di questa frattura tra laicità e multiculturalismo torniamo per un attimo
all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si è dimostrata più di
altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da pregiudizi etnici o
religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a nessun simbolo
religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce tanti da tanto
tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri, alle fogge
vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non avvertiamo disagio
per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà di abbigliamento.
L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e sostegno sociale per
l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare le esigenze di culto
dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di lavoro spazi per
pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come quello del ramadan.
Ma questo che può essere considerato legittimamente un nostro vanto, si sta
trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta trasformando
nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella accettazione di una
cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo della tendenza a
rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in genere, tutta una
simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo, riprendendo
concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che nelle scuole,
negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i presepi e gli
alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone aderenti ad altri
culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una partita giocata su
due tavoli: quello della laicità che limita o cancella simboli e presenze
cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima altri simboli o
presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi sintomi di un
cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali dei
cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del
burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche
parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si
consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre
leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e
ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della
laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il
volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di
autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad
arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio
spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che
collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa,
con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della
nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto.
Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro
convegno. Trovare l’uomo capace, e l’investirlo de’ simboli della
capacità (culto, o com’altro sì chiami) così ch’egli possa avere agio a
governare secondo la propria facoltà, è l’officio di ogni procedura
sociale. A questo punto il Carlyle riscrive ‘worship’ WORTH-ship,
per accentuarne l’etimologia da ‘worth,’ valore, compincendosi che la ragione
etimologica venga quasi ad attestare la nocessità del fatto che gli sta tanto a
cuore. Per mantenere questa relazione logica Loubatières muta
‘worship’ nell’*équivalent adequat* di *élection* da prima, e poi di
*élite*. ‘Carlyle,’ soggiunge Loubatières, de son pergant et rapide
regard, dénude la racine des mots et des choses.’ Carlyle non è
punto tenero degli studi etimologici. Le parole gli si dischiudono
ad un tratto come si fendono le roccie allo sguardo diabolico del suo jötun
Hymir. Ci fa ripensare a quello che dice Daudet: ‘Il y a dans
cortains mots que nous employons ordinairement un ressort cachè qui tout à coup
les ouvre jusqu’au fond, nous les explique dans leur intimité
exceptionelle.’ ‘Puis le mot se replie, reprend sa forme banale et roule
insignifiant, usé par l’habitude et le machinal.’Carlo Cardia. Keywords: il
laico, filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano deve
essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali –
repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica
roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa –
credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale –
l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana
antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la
critica dei antichi romani al cristianesimo, il culto del laico, worship of the
hero, il culto dell’eroe -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774096897/in/dateposted-public/
Grice e Cardone – La nudita eroica di Napoleone --
Clark Kent; ovvero, sul sovrumano – trasumanar – l’eroe di Vico – hero-worship
-- Annunzio e il fascismo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo. Grice: “Cardone plays with a
coinage, sobraumnao, in Dionigio e Luciano – it triggers implicata: what’s
wrong with ‘human’? One is reminded of Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio
– it is a problem of linguistic botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’
being rendered as a translation of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle –
D’Annunzio, who should have known better, prefers ‘suPer,’ when we know that in
the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes ‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma.
Membro de Partito Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista".
Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività
deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa
e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative
anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia,
filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi &
figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi
nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi,
Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello,
Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice
Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi,
G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà,
Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma,
Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo.
Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura
della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna,
Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica
della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile,
Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo,
Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il
Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano,
Editori Del Grifo, Ludi. Bologna, Soc.
Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La
banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano,
M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del
Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi poetiche,
Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta. Un
inattuale nella sua attualita. i Napoleone non mi sembra per nulla così grande
come il Cromwell. Le sue enormi vittorie, che s’ estesero A
_1 «Napoleone fu l'idolo della comune degli " 3 i gli nomini,
perchè a le qualità e le facoltà degli Cn OI k Ni Chi co: i 0 fesso
moderno; auche quand'è all'apice della fortuna; “gli aleggia dentro lo
stesso spirito che troviamo nei giornali del tempo. da 7
si limitò alla piccola Inghilte che gli alti trampoli ti la
statura dell'uomo per essi lui sincerità parl d'una specie molto
inferiore: NOn quel suo silenzioso. Per 1 L'universo; NOn il «
cammino co lo chiamava; ‘pensiero, il valore, che S1 co
latenti, © 8° accendono poi quasi amm® 1 Napoleone viveva in
un’ epoca che non avera più | este: ; fede in Dio; che
considerav® non-entità jl significato ; a ‘d’ogni silenzio, d'ogni
qualità latente: non PIù sulla |. È Bibbia puritan& aveva egli &
fondarsi, ì scettiche Enciclopedie. Eppure, ® tanto ei giunse- ed
meritorio L essere arrivato così lontano. Tl suo carattere : compatto,
pronto ed articolato, in ogni Senso, è in sè - stesso piccolo; forse, a
paragone i quello del nostro i grande Cromwell, caotico ed inarticolato.
Non è « muto profeta che si sforza di parlare.; > ha piuttosto in
sè un portentoso miscuglio di ciarlataneria ! Il concetto dell’
Hume, d'una fanatica ipocrisia, Con quanto è in esso di vero, potrà
applicarsi molto meglio Napoleone che non s’ applicasse al Cromwell, ®
Maometto od ai loro simili, per 1 quali realmente, preso & tutto
rigore, conte- neva a mala pena alcuna stilla di verità. Sin da
prim- cipio, appare in quest’ uomo un elemento di riprovevole ambizione,
che alla fine lo vince, @ trascina lui e l’opera sua in ruma. a SE
vi be divenne motto prover= era necessario di Ei a Se ARen alto il
coraggio de’ DARE bisognava tenere aggio de’ suol uomini e così
plesso, non ci son ; via. Fio Non è un santo, mon è un cappuccino, per
Usare la nemmeno un eroe, nell'alto signi \ x guificato
d al capo VI: Napoleone o l' uomo di pagata pa tutta 1
Europa, mentre il e: o di & da
espressione sua; È ; » (Emerson, op. cita È
dedi $ A. prrura SEST è i
eglio, ® lungo e stato ID o resse Ind so, se non at
i oleone ste55° ; atti, ba alcun proposito che sì ; :orno;
ch'è destinato e KI x . ‘no vantaggio può mal ve- anl
a dolo one? Le menzogne SI sco- ul a ruinos@ La prossima agi
‘ near È e prestar fe al bugiardo; quand an +1 della più alta
impor prono, © se nessuno VOST Da uand'
anche s1a che dica il vero» È ;l vecchio grido: < Al
tei venga creduto. A cr È Una bugia è nulla; al nulla, nom
Potere lupo ‘> a farete, e © avrete vare qualch - alla
fine, null er giunta rimess Y x È Dare verain Napoleone una
certa sincerità ; anche è) nella insincerità, bisogna
distinguere quanto è super: ficiale da quanto è fondamentale. A traverso
& que ste sue macchinazioni esteriori, & queste
ciarlatanerie, ch''erano molte e riprovevolissime, vediamo pure
nel- Jla realtà, istintivo e impossi- l'uomo un certo
senso de ) bile a sradicare; vediamo ch' el Sl fondò sul fatto....
SI n lui l'istinto di na- tanto ch’ ebbe alcun fondamento.
I tura è superiore alla cultura. Il Bourrienne ' racconta che i
suoi savants, in quel viaggio d’ Egitto, s' affanna= vano una sera a
dimostrare che non ci può essere Dio. Erano riusciti a provarlo, a loro
grande soddisfazione, con ogni maniera di logica. Napoleone, guardando
su, alle stelle, risponde : «La dimostrazione è molto inge-
gnosa, messieurs ; ma chi ha fatto tutto ciò? » La dot- trina
atea gli passa sopra come un’ ondata ed egli rimane al cospetto del
grande fatto: « Chi f ti ci09 > Similm Ì | fece utto ente
nella pratica: come 0 possa essere grande e trionfare i
gni.u9Maro onfare in questo mondo, egli
1 Mémoires de Mi de Rourri. i Villemarest, Paris,
chez Tadrocat. 1620-1861, lui-meme, rédigéa par Mi de Fauyol
Fauvolot do Bonrrionna (1769-1894), amico d'infanzia e segretario
timo di Napoleone, — colui MA i, colui cho formulò, d'accordo co
diem nl DE Oi orrori contenuti ola COLI REA to I ‘ourrienne et nen
erreura volontaires dI RT fon
L' EROE QUALE RE, - traverso ® tuttii
viluppi, il nocciolo pra vede, ® de direttamente.! tione; ed
a quello ten 9 2 bj pei driscalco del suo palazzo delle Tuileries
gli e tappezzerie, dimostrandogli ‘con me fossero
magnifiche, e DEF giunta @ He, mercato; Napoleone, Per tutta risposta,
hiese Sa Ni forbici, mozzò una napPInA dl oro dele o finestra, se
la messe in tasca, e tirò via. Qualche Hai : dopo, la cavò fuori al
momento buono, gran È SE rore del suo fornitore: non era Oro, ma. orpello!
; no- tevole come anche a Sant' Elena, sempre; sino & # ultimi
giorni, egli insista sul pratico, sul reale: < A che parlare e
lamentare? & che, sopra tutto, leticare? Non ‘gi viene con ciò ad
alcun risultato; @ nulla si riesce, a far nulla. E se nulla potete fare;
tacete! > Parla ‘spesso così a’ suoi poveri seguaci malcontenti ; è
come una forza silenziosa tramezzo alle loro morbose querele. A E
per conseguenza, non possiamo dire che fosse in n lui pure una fede
genuina, Der quant’ era possibile? Ve- i deva in questa nuova enorme
democrazia, che s’ affer- n mava nella rivoluzione francese, un fatto che
non sì può - sopprimere, un fatto che il mondo intero, con tutte le
sue vecchie forze e le instituzioni, non può metter da parte: di ciò egli
aveva il vero intuito, e quell’ intuito trascinava seco la sua coscienza
ed il suo entusiasmo : era la sua fede. Forse che non ne interpetrò
bene l’oscura portata ? La carriòre ouverte auv talents — gli
strumenti & chi sa maneggiarli: quest’ è effettivamente la verità,
tutta la verità anzi, e comprende tutto il si- : bo dell riluzione fece 0
i a ix Ò n ‘ » al ieri i dda DE nidi pae CE cedono innanzi a
quest'uomo Dire ecm vr i rat dp degli soci dl diplomati e vugle cha
ogni ir facoltà di RIGA RARI HRolnio: egoista, prudente, psn se :
ale parvenza altrùi, uè da e sntisinne. 1a Siocniae da alcuna @ re, da
nessuna fretta. » (Emerson, loco cit, sì VI meg SaIoaaai Si ù
LETTURA SESTA. Napoleone
nel suo primo periodo sie to “vero democratico ; nondimeno, Per sua
natura, QI ati ita mili sapeva che Ja democrazia, in quanto
mai fosse verità, non poteva essere: RIO ed odiava cordialmente
P'anarchia. T1 20 giugno 5 seduto col Bourrienne in un caflè, mentre la
folla Diso, schiamazzando, Napoleone esprime il più DIOCr, a 3 i-
sprezzo per le antorità che non reprimono que! dio dine. Il 10 agosto sì
meraviglia che nessuno prenda 1 o di que’ poveri Svizzeri : vincerebbero
Se uves: dante. Tanta fede nella democrazia, eP7 316
comand sero un coman I I pure tant! odio dell’
anarchia sostengono apoleone IM illanti campagne grande
Opera. Nelle br IO] d'Italia, via via sino alla pace di Léoben,' 81
direbbe che il suo ideale sia questo: fatta trionfare la rivolu-
zione francese; affermarla contro questi simulacri aus striaci che 0Sano
dirla, un simulacro! — Nondimeno, egli sente pure; ed ha diritto di
sentire, quanto neces? siria sia una forte autorità; e come senz) essa
l’opera della rivoluzione non possa prosperare nè durare. Fre- nare
quella granda rivoluzione devastatrice, che divorava sè stessa ; domarla
così, che, raggiunto il suo intrinseco scopo, essa possa divenire
organica, capace di vivere tra gli altri organismi, tra le altre cose formate,
e non sol- tanto quale opera di devastazione, di distruzione : non
mirava egliin parte a questo come alla vera mèta della sua vita? non
s'ingegnò, anzi, effettivamente, di far IA A traverso Wagram ed
Austerlitz, a traverso Re. SOT aan Hg per osare ed operare, € s'inalzò
ica IRE re. Tutti gli uomini videro sione Cad Ro ioni soldati solevano
dire ai dala avvocati di Parigi, tutti ‘Bisogna che mettiamo là il
Pan Diga ‘andarono, e lo messe ni nostro Petit Caporal!> E S ro
là; essi, e tutta la Trancia in tutta la sua
m = 18 aprile 1797, dr ch
L' EROE QUALE RE. DAI massa E poi il consolato; 1° impero; la vittoria su
tutta pEurop® {.. È abbastanza naturale che il povero luogo-
” n 9 tenente del reggimento La Fère, potesse apparire ai pro- i ‘n
erande fra quanti nomini fossero da 56 sto punto; quel fatale elem
nto di ciarla- 0. Rinnegando la sua vel chia fede nei fatti,
cOn jò a credere nelle parvenze, brigò per imparentarsì con le dinastie
austriache, col papati, con le vecchie false feudalità, che pure un
tempo gli apparivano chiaramente false; pensò & fondare una e
così via — come se la enorme mirasse che @ dinastia
Sua rivoluzione francese non era dunque € dannato ®
zogna;> è terribile, m® il vero dal falso quando v
ventosa ammenda, questa, che 1 uomo paghi per avere ceduto alla
infedeltà del cuore. La falsa ambizione ego stica era divenuta ora il suo
dio: un® volta scesi sino all’inganno di sè stessi, tutti gli altri
inganni seguono naturalmente, € si cade sempre più e più basso. In
quale gretta e rappezzata miseria, in quale mascherata tea- trale
di manti di carta e d'orpello, aveva ravvolta que- st'uomO la propria
grande realtà, immaginando cor ciò di farla più reale! E quel vacuo Concordato
col papa; che pretende ristabilire il cattolicismo mentr' egli
stesso 1 riconosce ch è il metodo di estirparlo, la vaccine
religioni e quelle cerimonie d’incoronazione, quelle con- È sacrazioni
nella chiesa di Notre-Dame per mezzo della Ai. vecchia chimera italiana —
« cui nulla mancava, > come disse l’Augereau,' ca completarne la
pompa, Se non'quel mezzo milione d’uomini, morti per far finire tutto
ciò!...> + | RIA Ae di Cromwell fu con la spada e con la — ja, e
dobbiamo dirla genuinamente vera. La spada \aneria prese
2 1° TEO 1801. Da or Francesco
Auger at Drama EETUIGIO), ANA onu, duca di Castiglione, maresciallo
e pari di | ‘che fu governatore a Berlino nel 1818, è difese Tione nel 1814
18 fruttidoro (LT9T); © ne
ESTA. i ETTURA SES ; lui senz alcuna chi- blemi del
purttatni Aveva usato en- ; I a et pretendev® ora
difenderle! bagliò credette troppo vide nell'uomo di
-]* i ta facilità... della fame © di questa 12 Siglo ta
(Lor che edificasse sulle nubi, e: SAR ina, e di arve dal mondo?
i ni Sì ‘gua casa IN confusa rund; | i DO art in ciascuno di
noi, esiste quest SE. e potrebbe svilupparsi ove la tenti
ciarlataneria, ; fosse forte abbastanza. € on Ma il suo
sviluppo; invero; | come ingrediente riconoscibil e ie DE: Sa a di
Napoleone, & stessa piccina. Che fu dunque 1 opere SI i lpore?
Uno sprazzo come di po malgrado di tanto sca p 3 Re vere da
fucile largamente sparsa; Una fiamma t) di eriche secche. Per
un'ora, | universo intero sembra avvolto dal fumo e dalle fiamme; ma per
un' ora sol- tanto. Poi svanisce, ed ecco riapparire Vl umiverso
CON le sue vecchie montagne ed i vecchi fiumi, con le stelle
nell'alto e giù sotto il benefico suolo. Il duca di Weimar diceva
sempre agli amici di farsi animo, chè questo Napoleonismo era ingiusto,
era men- zogna, e non poteva durare. La teoria è vera. Più questo
Napoleone calpestava il mondo, tenendolo tirannicamente + oppresso,
più fiera sarebbe un giorno la reazione del mondo contro di lui. L'
ingiustizia si ripaga da sè, e con uno spaventevole interesse composto.
Non so davvero a in dina pro alt OG Dio si ha
risersata jar lui Ladino Boo oi SA TmaSoni ne PESI Lira si, Sraianol: cho
vuol gio del HIFEMENE la la mila cl 1 ila son fumi tie tnio
parere non durabile perchè LARA RE LIE ICINLI x
L' EROE QUALE RE. 319. cod’ artiglieria 0 veder affogare il
suo reg- jelior pal 7 ; cite rimento migliore, anzichè
fucilare quel povero libraio {edesco palm!? Fu un'aperta ingiustizia,
una, tirannia, un assassinio, che nessun uomo, la dipinga pure con
uno strato di colore alto un dito, potrà mai far apparire
altrimenti. Questa ed altre simili ingiustizie s' impres? sero profonde
nei cuori; un fuoco represso balenava dagli occhi degli uomini quando vi
ripensavano.... aspet- tando il giorno! Ed il giorno venne: € la Germania
gli si sollevò d’ intorno. — L'opera di Napoleone sl ridurrà
a lungo andare & quanto egli compì giustamente, 2 quanto la
natura sancirà con le sue leggi, a quanto di realtà era in lui; ® tanto,
e nulla più. Il resto fu tutto fumo e sciupio. La carrière ouverte Aux
talents: questo grande messaggio di verità, che ha ancora da articolarsi
e da adempiersi dappertutto, ei lo lasciò in uno stato affatto
inarticolato. Egli fu un grande schema, un abbozzo, non mai completato:
ed invero, forse che il grand’ uomo è mai altro? Ma egli, ahimè, rimase
in uno stato tr0ppo rudimentale |... È quasi tragico il riflettere
alle sue opinioni sul mondo, quali le esprime là, a Sant'Elena. Sembra
pro- vare la più sincera meraviglia che tutto sia andato & quel
modo: ch’ egli sia stato gettato là, sulla rupe, e "che il mondo
ruoti ancora sul suo asse. La Francia. è ‘grande, anzi è sola
grande; ed in fondo Napoleone è la Francia. La stessa Inghilterra, egli
dice, non è per na- ura che un'appendice della Francia; < è per la
Francia n'altra isola d’Oleron. >» Così era per natura, per la
‘Non può comprendere, non sa concepire che la realtà
«ela confederazione del Reno veniva formandosi, la polizia
scoperse al , Sci librai furono arrestati )
ono per avervi avuto parte e Napol Sa commissiono militare. Quattro
degli Roca LARE oro provincie: due, Schiderer e Palm, condannati
a mi % 4 to Napoloone fece grazia, una il libraio Palm di
Norimberga vi atura di Napoleone.
Guardate, infatti : ECCOMI QUI da i 1 Nel 1806, mentre l’
esercito francese occupava ancora la Germania, cuni documenti, che
rivelavano i piani d'un comitato segreto d'insurre- e
LEmTURÀ de mma; che la
Francia TR da ci c jeposto al suo P o, Ji non S1a la
Francia. 3 ‘n a credere ciù andezza, © dI DI ipbia i
nesta “iano, COSÌ compatta, così ana, ì g'è involuta; s'è
quasi sua N° 0 ante un temp: e a di fanfaronnadi
da tmosfer: torbida n'ai osto & lasciarsi calpe: LS
contastare come pla si tà alla Francia ed a sè; 0A it A
mire! Napoleone 7 1 costene Ma, ahimè, OF he giov Le, ui ; e
natura, anch’ ess% si dia Essendosi UNA volta staccato 1) st e)
scamp nel vuoto; è Vv ebbe per o di rado tocco ad un uomo
sorte tanto desolata: e dovette
morire; povero Napoleone !.. mento troppo presto sciupato, sino
& "& ecco il nostro ultimo eroe! A si er *
* Sa Tiltimo in un doppio significato, poichè debbono con
‘]ui terminare queste nostre peregrinazioni a traverso ‘tempi e luoghi
così diversi, cercando, studiando gli eroi. UR ME ne rinoresce: era un
piacere per me in quest’ occu: | pazione, sebbene misto a molta pena. È
un grande s0g= 5 molto grave, molto vasto, questo che io, appunto
darmi tropp'aria di gravità, ho chiamato cult@ Esso penetra profondo
nelle secrete vie del- ‘e ne’ più vitali interessi di questo mondo;
tei ge bro ben degno di svolgimento. In sei Invece che sei giorni,
avremmo potuto far meglio. lo: chi sa se nemmeno vi sono riu- per
penetrarvi un poco, dovetti Dn DIRE Tronno spesso, con bru- uttate
là isolate, senza commento, ho
L’ EROE QUALE RE. —
‘cortese benevolenza, non voglio ora parlare. per saviezza e
leggiadria, ha ascoltato pazient pozze parole. Sentitamente, cordialmente,
vi rendo zie, ed a tutti dico: Dio sia con voil Precisely
a century and a year after this of Puritanism had got itself hushed-up
into decent composure, and its results made smooth, in 1688, there
broke-out a far deeper explosion, much more difficult to hush-up, known
to all mortals, and like to be long known, by the name of French
Revolution. It is properly the third and final act of Protestantism ; the
explosive confused return of mankind to Reality and Fact, now that they
were perishing of Semblance and Sham. We call our English Puri-
tanism the second act : “Well then, the Bible is true ; let ils go by the
Bible 1 ” “ In Church,” said Luther ; “ In Church and State,” said
Cromwell, “let us go by what actually God’s Truth.” Men have to return to
reality ; they cannot live on semblance. The French Revolution, or third
act, we may well call the final one ; for lower than that savage
Sansculottism men cannot go. They stand there on the nakedest haggard
Fact, undeniable in all seasons and circumstances ; and may and
must begin again confidently to build-up from that. The French explosion,
like the English one, got its King, — who had no Notary parchment to show
for himself. We have still to glance for a moment at Napoleon, our second
modern King. Napoleon does by no means seem to me so great a man
as Cromwell. His enormous victories which reached over all Europe,
while Cromwell abode mainly in our little England, are but as the high
stilts on which the man is seen standing ; the stature of the man is not
altered thereby. I find in him no such sincerity as in Cromwell ; only a
far inferior sort. No silent walking, through long years, with the Awful
Unnamable of this Universe; ‘walking with God," as he called it;
and faith and strength in that alone : latent thought and valour,
content to lie latent, then burst out as in blaze of Heaven’s /lightning
1 Napoleon lived in an age when God was no longer believed ; the meaning
of all Silence, Latency, was thought to 'be Nonentity : he had to begin
not out of the Puritan Bible, but out of poor Sceptical EncyclopMies,
This was the length the man carried it. Meritorious to get so far. His
compact, prompt, everyway articulate character is in itself perhaps
small, compared with our great chaotic /^articulate Cromwell’s. In-
stead of 'dumb Prophet struggling to speak,' we have a por- tentous
mixture of the Quack withal I Hume’s notion of the Lectvi.
THE HERO AS KING. 319 Fanatic-Hypocrite, with such truth as it has,
will apply much better to Napoleon than it did to Cromwell, to Mahomet or
the like, — where indeed taken strictly it has hardly any truth at
all. An element of blamable ambition shows itself, from the first, in
this man ; gets the victory over him at last, and in- volves him and his
work in ruin. * False as a bulletin’ became a proverb in Napoleon’s
time. He makes what excuse he could for it : that it was necessary
to mislead the enemy, to keep-up his own men’s courage, and so forth. On
the whole, there are no excuses. A man in no case has liberty to tell
lies. It had been, in the long-run, better for Napoleon too if he had not
told any. In fact, if a man have any purpose reaching beyond the hour and
day, meant to be found extant next day, what good can it ever be to
promul- gate lies ? The lies are found-out ; ruinous penalty is
exacted for them. No man will believe the liar next time even when
he speaks truth, when it is of the last importance that he be believed.
The old cry of wolf 1 — K Lie is nMhing ; you can- not of nothing make
something ; you make nothing at last, and lose your labour into the
bargain. Yet Napoleon had a sincerity; we are to distinguish
be- tween what is superficial and what is fundamental in insin-
cerity. Across these outer manceuverings and quackeries of his, which
were many and most bian>able, let us discern withal that the man had a
certain instinctive ineradicable feeling for reality ; and did base
himself upon fact, so long as he had any basis. He has an instinct of
Nature better than his culture was. His savans, Bourrienne tells us, in
that voyage to Egypt were one evening busily occupied arguing that there
could be no God. They had proved it, to their satisfaction, by all
man- ner of logic. Napoleon looking up into the stars, answers,
“Very ingenious. Messieurs ; but who made all that?” The Atheistic logic
runs-off from him like water ; the great Fact stares him in the face : “
Who made all that ?” So too in Practice : he, as every man that can be
great, or have victory in this world, sees, through all entanglements,
the practical heart of the matter ; drives straight towards that. “N^en
the steward of his Tuileries Palace was exhibiting the new uphol-
stery, with praises, and demonstration how glorious it was, and
320 LECTURES ON HEROES. how cheap withal,
Napoleon, making little answer, asked for a pair of scissors, dipt one of
the gold tassels from a window- curtain, put it in his pocket, and walked
on. Some days after- wards, he produced it at the right moment, to the
horror of his upholstery functionary ; it was not gold but tinsel I In
Saint Helena, it is notable how he still, to his last days, insists on
the practical, the real. Why talk and complain ; above all, why
quarrel with one another ? There is no result in it ; it comes to nothing
that one can do. Say nothing, if one can do no- thing I” He speaks often
so, to his poor discontented follow- ers ; he is like a piece of silent
strength in the middle of their morbid querulousness there.
And accordingly was there not what we can call a faith in him,
genuine so far as it went ? That this new enormous De- mocracy asserting
itself here in the French Revolution is an insuppressible Fact, which the
whole world, with its old forces and institutions, cannot put down ; this
was a true insight of his, and took his conscience and enthusiasm along
with it, — a faith. And did he not interpret the dim purport of it well
? * La carriers ouverte aux ialens^ The implements to him who
“ran handle them ;* this actually is the truth, and even the whole truth ;
it includes whatever the French Revolution, or any Re- volution, could
mean. Napoleon, in his first period, was a true Democrat. And yet by the
nature of him, fostered too by his military trade, he knew that
Democracy, if it were a true thing at all, could not be an anarchy : the
man had a heart-hatred for anarchy. On that Twentieth of June (1792),
Bourrienne and he sat in a coffee-house, as the mob rolled by :
Napoleon expresses the deepest contempt for persons in authority that
they do not restrain this rabble. On the Tenth of August he wonders why
there is no man to command these poor Swiss ; they would conquer if there
were. Such a faith in Democracy, yet hatred of anarchy, it is that
carries Napoleon through all his great work. Through his brilliant
Italian Campaigns, onwards to the Peace of Leoben, one would say, his
inspir- ation is ; ‘ Triumph to the French Revolution ; assertion
of * it against these Austrian Simulacra that pretend to call
it ‘ a Simulacrum 1’ Withal, however, he feels, and has a right to
feel, how necessary a strong Authority is ; how the Revolu-
Lcct. VI. THE HERO AS KING. 221
tion cannot prosper or last without such. To bridleMn that great devouring,
self-devouring French Revolution ; to tameit, so that its intrinsic
purpose can be made good, that it may be- come organic, and be able to
live among other organisms and formed things, not as a wasting
destruction alone : is not this still what he partly aimed at, as the
true purport of his life ; nay what he actually managed to do ? Through
Wagrams, Austerlitzes ; triumph after triumph, — he triumphed so
far. There was an eye to see in this man, a soul to dare and do. He
rose naturally to be the King. All men saw that he was such. The common
soldiers used to say on the march : “ These babbling Avocats, up at Paris
; all talk and no work ! What wonder it runs all wrong ? We shall have to
go and put our Petit Caporal there I” They went, and put him there ;
they and France at large. Chief-consulship, Emperorship, victory
over Europe ; — till the poor Lieutenant of La Fire, not unna- turally,
might seem to himself the greatest of all men that had been in the world
for some ages. But at this point, I think, the fatal
charlatan-element got the upper hand. He apostatised from his old faith
in Facts, took to believing in Semblances ; strove to connect
himself with Austrian Dynasties, Popedoms, with the old false Feud-
alities which he once saw clearly to be false ; — considered that he
would found “ his Dynasty” and so forth ; that the enormous French
Revolution meant only that ! The man was ‘given-up ^ to strong delusion,
that he should believe a lie a fearful but j most sure thing. did not
knowJrue from false no\y.wheiLj he looked at them, — the fearfulest
penalty a man pays for yielding . to untruth of heart. Self and false
ambition had now become ^ his god : j^^deception once yielded to, all
other deceptions follow naturally more and more. What a paltry patchwork
of theatrical paper-mantles, tinsel and mummery, had this man wrapt
his own great reality in, thinking to make it more real thereby ! His
hollow ^-Concordat, pretending to be a re- establishment of Catholicism,
felt by himself to be the method of extirpating it, ^fa vaccine de la
religion his ceremonial Coronations, consecrations by the old Italian
Chimera in Notre- Dame, — “wanting nothing to complete the pomp of it,”
as Augereau said, “nothing but the half-million of men who had
222 LECTURES ON HEROES. died to put an
end to all that” ! Cromwell’s Inauguration was by the Sword and Bible ;
what we must call a genuinely one. Sword and Bible were borne before him,
without any chi- mera : were not these the’’ r^a/ emblems of Puritanism ;
its true decoration and insignia ? It had used them both in a very
real manner, and pretended to stand by them now 1 But this poor Napoleon
mistook : he believed too much in the Dup^~ ability of men ; saw no fact
deeper in man than Hunger and this 1 He was mistaken. Like a man that
should build upon cloud ; his house and he fall down in confused wreck,
and de- part out of the world. Alas, in all of us this
charlatan-element exists ; and might be developed, were the temptation
strong enough. ‘ Lead us not into temptation’ I But it is fatal, I say,
that it be developed. The thing into which it enters as a cognisable
ingredient is doomed to be altogether transitory; and, however huge it
may look, is in itself small. Napoleon’s working, accordingly, what
was it with all the noise it made ? A flash as of gunpowder wide-spread ;
a blazing-up as of dry heath. For an hour the whole Universe seems wrapt
in smoke and flame ; but only ^for an hour. It goes out : the Universe
with its old mountains and streams, its stars above and kind soil
beneath, is still there. The Duke of Weimar told his friends
always, To be of courage ; this Napoleonism was unjust^ a falsehood, and
could not last. It is true dqctrine. The heavier this Napoleon
tram- pled on the world, holding it tyrannously down, the fiercer
would the world’s recoil against him be, one day. Injustice pays
jt- self with frightful compound-interest. I am not sure but he had
better have lost his best park of artillery, or had his best regiment
drowned in the sea, than shot that poor German Bookseller, Palm I It was
a palpable tyrannous murderous injustice, which no man, let him paint an
inch thick, could make-out to be other. It burnt deep into the hearts of
men, it and the like of it ; suppressed fire flashed in the eyes of
men, as they thought of it, — ^waiting their day 1 Which day came :
Germany rose round him. — ^What Napoleon did will in the long-run amount
to what he did justly j what Nature with her laws will sanction. To what
of reality was in him; to that and nothing more.^ The rest was all smoke
and waste. La Lect.vi. THE HERO AS KING. 223
carri^re ouverte aux talens : that great true Message, which has
yet to articulate and fulfil itself everywhere, he left in a most
inarticulate state. He was a great Sbatiche, a rude- draught never
completed ; as indeed what great man is other ? Left in too rude a state,
alas 1 His notions of the world, as he expresses them there at
St. Helena, are almost tragical to consider. He seems to feel the
most unaffected surprise that it has all gone so ; that he is flung-out
on the rock here, and the World is still moving on its axis. France is
great, and all-great ; and at bottom, he is France. England itself, he
says, is by Nature only an ap- pendage of France ; “another Isle of
Oleron to France.” So it was by Nature, by Napoleon-Nature ; and yet look
how in fact — Here am I I He cannot understand it : inconceivable
that the reality has not corresponded to his program of it ; that France
was not all-great, that he was not France. ‘Strong delusion,’ that he
should believe the thing to be which is not I The compact, clear- seeing,
decisive Italian nature of him, strong, genuine, which he once had, has
enveloped itself, half- dissolved itself, in a turbid atmosphere of
French fanfaronade. The world was not disposed to be trodden-down
underfoot ; to be bound into masses, and built together, as he liked, for
a pedestal to France and him : the world had quite other pur- poses
in view! Napoleon's astonishment is extreme. But alas, what help now ? He
had gone that way of his ; and Nature also had gone her way. Having once
parted with Reality, he tumbles helpless in Vacuity; no rescue for him.
He had to sink there, mournfully as man seldom did ; and break his
great heart, and die, — this poor Napoleon ; a great implement too
soon wasted, till it was useless : our last Great Man I Our last,
in a double sense. For here finally these wide roamings of ours through
so many times and places, in search and study of Heroes, are to
terminate. I am sorry for it: there was pleasure for me in this business,
if also much pain. It is a great subject, and a most grave and wide one,
this which, not to be too grave about it, I have named He?'o-worship.
It enters deeply, as I think, into the secret of Mankind’s ways and
vitalest interests in this world, and is well worth explaining at
224 LECTURES ON HEROES. present. With six
months, instead of six days, we might have done better. I promised to break-ground
on it ; I know not whether I have even managed to do that. I have had to
tear it up in the rudest manner in order to get into it at all.
Often enough, with these abrupt utterances thrown-out iso- lated,
unexplained, has your tolerance been put to the trial. Tolerance, patient
candour, all-hoping favour and kindness, which I will not speak of at
present. The accomplished and distinguished, the beautiful, the wise,
something of what is best in England, have listened patiently to my rude
words. With many feelings, I heartily thank you all ; and say, Good be
with you all ! Domenico Cardone. Domenico Antonio Cardone. Keywords:
Clark Kent; ovvero, sul sovrumano, “Ricerche filosofiche”; futilitarianism,
inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”,
essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo,
super-uomo. Jesus as a philosopher! Tommaso Carlyle, Il culto degl’eroi –
culto, worth-ship, valore, Napoleone, natura italiana -- -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775137288/in/dateposted-public/
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